motivazione e pratica sportiva nel bambino · il secondo é che esiste un livello psicologico di...

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Motivazione e pratica sportiva nel bambino A cura della Redazione di “SportG.” 1. LA PSICOLOGIA COGNITIVA APPLICATA ALLO SPORT L’approccio cognitivista si fonda su due postulati più o meno esplicitamente formulati. Il primo é che le condotte sono almeno in parte razionali e logiche, ciò spiega come sia messo l’accento sui processi e meccanismi di presa, conservazione e trasformazione delle conoscenze o delle informazioni. Il secondo é che esiste un livello psicologico di analisi e di comprensione di questi comportamenti. Questi processi cognitivi hanno la funzione di produrre azioni efficaci e adatte; la condizione di questa efficacia é che l’individuo sovente perviene preliminarmente ad una padronanza cognitiva e razionale della situazione. Essi hanno anche una funzione di preservazione, di protezione di e, come i meccanismi di difesa dell’Io nella psicanalisi, mirano a mantenere una visione coerente del mondo, a proteggere e sviluppare la stima di sé, a creare un’impressione favorevole presso altri, ecc. In tutti i casi le teorie accordano molta importanza ai processi e ai sistemi di rappresentazione di e del mondo, che costituiscono dei veri filtri organizzatori del comportamento. Non ci si accontenterà qui di descrivere dei fenomeni e di formulare delle leggi: si cercherà di spiegare le condotte, vale a dire identificare delle relazioni di causa/effetto e presentarle nel quadro di teorie. Esiste un aspetto riduttivo in ogni tentativo di spiegazione, tuttavia ci sforzeremo di mostrare che la psicologia cognitiva permette di costituire un corpo di spiegazioni del comportamento che sfugge alle tre forme di riduzionismo descritte da Piaget (1976). Il riduzionismo sociologico tende a considerare che la o le cause dei comportamenti sono da cercare a livello delle forze e di organizzazioni sociali. Questa modalità di spiegazione predomina per esempio nei lavori relativi alla motivazione degli sportivi che stabiliscono una relazione di causalità tra le categorie socio-professionali dei genitori e le scelte sportive dei bambini. Sarebbe irragionevole negare l’esistenza di questa forma d’influenza sociale, tuttavia é necessario mostrare la pertinenza di un livello di spiegazione che metta l’accento su variabili psicologiche quali le rappresentazioni, la valutazione di un risultato, l’immagine di sé, ecc. Il riduzionismo organicista è in qualche modo la tendenza inversa di quello che viene ad essere descritto, poiché esso caratterizza lo sforzo per localizzare le cause del comportamento a livello della struttura del sistema nervoso centrale o del funzionamento biologico del neurone. Esso utilizza degli schemi usciti dalle scienze biologiche per descrivere ed analizzare i comportamenti degli sportivi. Gli spettacolari avanzamenti delle neuroscienze, soprattutto nel settore delle abilità motorie e dell’apprendimento, sono probabilmente responsabili del successo importante di questo tipo di discorso scientifico nell’ambito della ricerca nello sport.

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Motivazione e pratica sportiva nel bambino

A cura della Redazione di “SportG.”

1. LA PSICOLOGIA COGNITIVA APPLICATA ALLO SPORT

L’approccio cognitivista si fonda su due postulati più o meno esplicitamente formulati. Ilprimo é che le condotte sono almeno in parte razionali e logiche, ciò spiega come siamesso l’accento sui processi e meccanismi di presa, conservazione e trasformazionedelle conoscenze o delle informazioni. Il secondo é che esiste un livello psicologico dianalisi e di comprensione di questi comportamenti.

Questi processi cognitivi hanno la funzione di produrre azioni efficaci e adatte; lacondizione di questa efficacia é che l’individuo sovente perviene preliminarmente ad unapadronanza cognitiva e razionale della situazione. Essi hanno anche una funzione dipreservazione, di protezione di sé e, come i meccanismi di difesa dell’Io nella psicanalisi,mirano a mantenere una visione coerente del mondo, a proteggere e sviluppare la stimadi sé, a creare un’impressione favorevole presso altri, ecc. In tutti i casi le teorieaccordano molta importanza ai processi e ai sistemi di rappresentazione di sé e delmondo, che costituiscono dei veri filtri organizzatori del comportamento.

Non ci si accontenterà qui di descrivere dei fenomeni e di formulare delle leggi: sicercherà di spiegare le condotte, vale a dire identificare delle relazioni di causa/effetto epresentarle nel quadro di teorie. Esiste un aspetto riduttivo in ogni tentativo dispiegazione, tuttavia ci sforzeremo di mostrare che la psicologia cognitiva permette dicostituire un corpo di spiegazioni del comportamento che sfugge alle tre forme diriduzionismo descritte da Piaget (1976).

Il riduzionismo sociologico tende a considerare che la o le cause dei comportamenti sonoda cercare a livello delle forze e di organizzazioni sociali. Questa modalità di spiegazionepredomina per esempio nei lavori relativi alla motivazione degli sportivi che stabilisconouna relazione di causalità tra le categorie socio-professionali dei genitori e le sceltesportive dei bambini. Sarebbe irragionevole negare l’esistenza di questa forma d’influenzasociale, tuttavia é necessario mostrare la pertinenza di un livello di spiegazione che mettal’accento su variabili psicologiche quali le rappresentazioni, la valutazione di un risultato,l’immagine di sé, ecc.

Il riduzionismo organicista è in qualche modo la tendenza inversa di quello che viene adessere descritto, poiché esso caratterizza lo sforzo per localizzare le cause delcomportamento a livello della struttura del sistema nervoso centrale o del funzionamentobiologico del neurone. Esso utilizza degli schemi usciti dalle scienze biologiche perdescrivere ed analizzare i comportamenti degli sportivi. Gli spettacolari avanzamenti delleneuroscienze, soprattutto nel settore delle abilità motorie e dell’apprendimento, sonoprobabilmente responsabili del successo importante di questo tipo di discorso scientificonell’ambito della ricerca nello sport.

Proveremo a mettere l’accento sulle teorie che, senza disconoscere queste strutturenervose, non perdono di vista la complessità delle condotte dell’uomo e cercanod’identificare le cause e le determinanti puramente psicologiche dei comportamentiosservati.

Infine, la terza forma é il riduzionismo psicologico, che caratterizza la tendenza a spiegaretutte le condotte a partire dalla stessa causa o di un meccanismo causale unico e ristretto.

Lo stato della psicologia cognitiva oggi è tale che si immagina difficilmente questo tipo dispiegazione: si assiste, in effetti, ad una moltiplicazione delle teorie locali, che pretendonodi rendere conto di classi molto ristrette di comportamenti e possiedono ciascuna sistemidi causalità propri.

La nostra proposta non é evidentemente di negare ogni influenza dei livelli infra- e sopra-psicologici sul comportamento, ma di mettere in avanti una certa specificità, ricercandodelle cause di livello psicologico irriducibili alle determinanti sociali o organiche. In unaparola, si tratta di mostrare che ciascun comportamento é costruito dal soggetto ecostituisce il risultato di un procedimento attivo da parte sua.

Si può vedere come questo costruttivismo metta l’accento sull’attività e il funzionamentodell’individuo e non sia in alcun caso incompatibile con le spiegazioni precedentementedescritte e possa ben integrarsi in seno ad un procedimento pluridisciplinare (che resta daelaborare).

Oggi la psicologia é costituita da una molteplicità di teorie locali che possiedono una fortecoerenza e sono costituite da un numero limitato di proposte molto rigorose. La loroprincipale qualità é di essere falsificabili: esse permettono di fare delle predizioni preciseche si possono rifiutare sul piano sperimentale. D’altronde, queste teorie si ispirano pocoo molto alle tre scienze annesse: la cibernetica, le scienze dell’informazione e dellacomunicazione e l’approccio sistemico. La maggior parte dei concetti fondamentali dellapsicologia cognitiva é stata da loro attinta: trattamento dell’informazione, regolazione,comparatore, organizzazione gerarchica, risorse-obblighi, ecc. Questi concetti subiscono,in generale, una sorta di erosione, di messa in forma ogni volta che la psicologia se leappropria, ma contribuiscono con questo alla molteplicità delle teorie, a conferirgli unacerta omogeneità.

Infatti ci sembra che, malgrado il loro carattere multiplo e frammentario, queste teoriepermettono una reale unità di lettura dei comportamenti del bambino, probabilmenteperché adottano tutte gli stessi principi metodologici e certi concetti molto generali. Non sitratta di costruire ad ogni costo una coerenza, né di riabilitare una qualunque forma dieclettismo, ma piuttosto di mostrare con questo i molteplici angoli di studio delle condotteinfantili: è possibile avere una visione che non sia troppo frazionata e contraddittoria.

Questo testo non é di psicologia del bambino, nel senso che il suo oggetto non é trattaredello sviluppo cognitivo, motorio, morale, sociale. Esso si sforza di cercare, nei lavori dellapsicologia sperimentale elementi di risposta ad alcune delle molteplici questioni che ponela pratica sportiva del bambino. Dicendo ciò è inevitabile fare riferimento ai grandi lavoridella psicologia genetica: la parte presa da questi lavori è solo per chiarire le condotte delgiovane sportivo ed evitare il più possibile di esporre problematiche estranee al campostudiato.

Invece che tappe e date di apparizione dei comportamenti, ci sforzeremo di ripetere delletendenze di sviluppo e di spiegare delle evoluzioni significative. In definitiva l’oggetto diquesta studio può essere visto come una riflessione sul tema del cambiamento o dellacontinuità delle condotte con l’età; é uno sforzo per reperire le costanti e le trasformazionidurante l’infanzia e l’adolescenza degli sportivi.

2. LOGICA DELL’ESPOSIZIONE

Resta adesso da presentare la logica dell’esposizione che segue e le difficoltà dipresentazione che si sforza di superare.

Un discorso sulle condotte del bambino fa sempre riferimento all’adulto che serve,esplicitamente o implicitamente, da modello o da riferimento.

Abbiamo creduto bene, per certi temi, di disporre una tabella succinta dei comportamentidell’adulto. Questa scelta si è imposta ogni volta che era impiegata una teoria pococonosciuta o che i lavori sperimentali, svolti sull’adulto, davano risultati troppo differentidall’idea che se ne fa il senso comune. Nella misura della nostra abilità, questi riferimenticon la “norma” sono integrati all’esposizione delle condotte infantili.

Procedere così non è senza difficoltà, poiché la psicologia dello sport é lontana dall’averrisposto a tutte le domande: si corre allora il rischio sia di restare superficiali, sia di “faredire” ai lavori scientifici più di quello che essi non possano. Tuttavia questa procedurasembra giustificarsi dal doppio orientamento della psicologia applicata alle attività fisiche esportive: costituire un corpo di conoscenze scientifiche a partire da un oggetto originale e,simultaneamente, pianificare, guidare, inquadrare, migliorare l’azione pratica.

Non pensiamo che una questione di campo possa ricevere un’immediata rispostascientifica: essa deve essere riformulata ed operazionalizzata per essere integrata in unaprospettiva teorica o sperimentale (per esempio, la concentrazione dello sportivo, tema dicampo importante, non può essere affrontata senza modificazioni e la si analizzerà intermini di ripetizione mentale, di processi mnesici, di livelli di vigilanza e di attivazione, diattenzione, ecc.). Simmetricamente, il ricercatore deve valutare la pertinenza delle teoriepsicologiche generali in questo campo d’applicazione scientifico relativamente giovaneche é lo sport. É forse questa giovinezza che fa sì che la psicologia dello sport presentifrequentemente due debolezze maggiori: l’ “applicazionismo” da una parte, ed uncarattere molto descrittivo della ricerca dall’altra.

Troppo sovente, in effetti, i quadri teorici in seno ai quali sono studiate le questionisportive provengono da altri settori della psicologia. Per esempio, la memoria motoria èspesso analizzata per analogia con la memoria verbale e le procedure sperimentali sonosemplici trasposizioni dei lavori di psicolinguistici. Questo fenomeno è così importante chela psicologia della sport accusa talvolta un ritardo non trascurabile. Questo tema dellamemoria é significativo a questo riguardo: la teoria di Adams (1971) continua ad essereun quadro di riferimento determinante per molti insegnanti di E.F.S., mentre essa è solopiù citata a titolo storico dagli specialisti della memoria (Tiberghien e Lecocq, 1983). É perquesta ragione che ci sforzeremo di selezionare solo i quadri teorici che hanno ricevutouna convalida nel campo delle attività fisiche e sportive o che emanano da questo settoredi ricerca e soprattutto citare solo quelli che danno luogo ad indagini sperimentali attuali.

La seconda “debolezza” risiede nella tendenza esclusivamente descrittiva di molte dellericerche, che mirano sia a descrivere il comportamento dello sportivo di alto livello (suestrategie di presa e trattamento delle informazioni, caratteristiche della sua personalità, lesue motivazioni, ecc.), sia a dimostrare l’esistenza di una correlazione tra le prestazionisportive e una o parecchie caratteristiche psicologiche dell’individuo. Tali lavori sono utiliperché permettono di disporre di constatazioni rigorose. Tuttavia, quando si sottopongonoalla prova dei fatti autentiche previsioni derivanti da una teoria, esse falliscono conl’afferrare le relazioni di causa/effetto e non spiegano le condotte studiate. Esistonomolteplici ragioni di questo stato della ricerca in psicologia dello sport, tra le quali ladifficoltà di sperimentare con sportivi di alto livello e che occupa un posto importante. Daparte nostra vogliamo favorire, nell’esposizione che segue, le ricerche che tendono a

superare questo livello descrittivo e che si appoggia su una teorizzazione originale dellecondotte.

Il primo tema é una riflessione sui motivi che portano alla pratica sportiva: perché ibambini sono così intensamente attirati dallo sport e, paradossalmente, perchéabbandonano così massivamente la pratica? Si tratta di un problema cruciale al quale iresponsabili devono far fronte, nella misura in cui la buona gestione di un club o di unafederazione necessita di effettivi stabili e importanti e dove l’abbandono é frequentementevissuto come un insuccesso dagli educatori sportivi. Al di là della spiegazione di questecondotte di adesione e di abbandono, noi proveremo a delineare l’evoluzione dellamotivazione con l’età: i lavori nella materia oscillano tra un’analisi dei contenuti dellamotivazione ed un chiarimento del funzionamento dei meccanismi e processimotivazionali. È questa la logica di esposizione che abbiamo preso in considerazione:appoggiandoci sui motivi della partecipazione e dell’abbandono, esaminiamo le principaliforme di motivazione dei giovani sportivi, prima di analizzarne i grandi meccanismiregolatori. Infine studiamo le interazioni tra la motivazione intrinseca ed estrinseca deigiovani praticanti: questo problema, di grande importanza teorica e pratica, permette diformulare i temi precedentemente dibattuti in un quadro concettuale differente e diallargare la riflessione a preoccupazioni più larghe di ordine pedagogico, perfino politico.

Così la problematica dello stress nel bambino ci sembra essere radicalmente rinnovatadall’apporto delle ricerche sullo sviluppo della motivazione, come non si può comprenderel’aggressività dei giovani sportivi senza fare allusione al loro sviluppo morale e cognitivo.

Ci mancano dati statistici precisi concernenti questo fenomeno di entusiasmo e didisinteresse, ma é certo che tocca la maggior parte delle federazioni sportive. Certi sportsembrano più “abbandonati” di altri; lo stesso (soprattutto?) se sono popolari: così peresempio il tasso di non rinnovamento delle tessere é, probabilmente dell’ordine del 50%per anno nel judò, mentre questa federazione é tra le più importanti e più dinamiche (inFrancia).

Questa percentuale varia in modo non trascurabile secondo gli sport. Negli Stati Unitiessa è del 35% per l’insieme delle pratiche (Sapp e Haubenstricker, 1978), del 22%, nelfoot-ball (Pooley, 1981) e dal 29% al 37% nell’hockey (Fry e al., 1981). La maggior partedei ricercatori indica l’esistenza di un tasso massimo tra gli 11 e i 13 anni. Sarebbeinteressante sapere se questo “picco” é legato in maniera stretta con l’età precisa di 12anni o se esso corrisponde ad una certa durata della pratica, come lasciano intendere Frye colleghi (si abbandonerà dopo due anni passati in un club).

Il problema delle federazioni e delle associazioni sportive è di “fidelizzare” i giovani che,dopo essere stati attirati e sedotti da una disciplina, se ne disinteressano per moltepliciragioni. Non è cosa facile, ed il carattere universale di questo problema (esso si ponenegli stessi termini in tutti i paesi occidentali) può portare a dubitare dell’efficacia di ogniprocedimento volontaristico in materia. Qualunque cosa sia, non é inutile interrogarsisulle determinanti di questo rinnovamento dialettico.

Le ricerche in sociologia dello sport hanno sufficientemente studiato i meccanismi discelta delle pratiche secondo le caratteristiche economico-culturali degli agenti, quindi nontorneremo su questo tipo di analisi.

Tuttavia pensiamo che i processi di trasmissione sociale non esauriscano la complessitàdi questo problema che bisogna anche affrontare a livello psicologico. A titolo d’esempiol’inchiesta “Jeunesse et Sport” del 1976 rivela che quasi il 72% dei 4.686 giovani

interrogati praticano uno sport per piacere o desiderio personale, mentre solamente il 4%di essi si dichiara influenzato dai genitori.

Conviene certo tener conto del carattere inconscio dei meccanismi d’influenza sociale(Louveau, 1980), tuttavia, lo scarto tra queste due percentuali ci pare confermare il pesodei processi psicologici della motivazione.

Dopo una descrizione delle ragioni più spesso invocate dai praticanti per spiegare il loroentusiasmo o il loro disinteresse nei riguardi dello sport, analizzeremo alcuni dei bisognipsicologici responsabili di queste condotte, come lo sviluppo del processo di regolazionecognitiva della motivazione.

3. ENTUSIASMO E DISINTERESSE

Prendere in esame il problema della motivazione, é fare riferimento agli aspetti intensivo eselettivo di essa. Il primo indica la forza, la durata dell’impegno in un compito odun’attività; l’importanza degli ostacoli da superare, gli sforzi consentiti per dedicarsi allosport scelto. Questi elementi permettono di stabilire differenze quantitative tra lemotivazioni individuali: uno sportivo molto motivato accetterà, più facilmente che un altro,di praticare in installazioni vetuste, con orari poco adatti (il mattino presto o la sera tardi);tollererà di “saltare” un riposo o di differire una. riunione amichevole per essere presentead un allenamento, ecc. Il secondo aspetto riguarda il “bersaglio” del comportamento,vale a dire il tipo di stato motivazionale che orienta l’individuo verso tale oggetto-bersagliopiuttosto che verso tal’altro. Tra tutte le discipline sportive che si offrono a lui, il bambinone sceglierà una o due, con l’esclusione delle altre e queste scelte rivelano differenzequalitative.

L’aspetto intensivo é stato abbastanza poco studiato nel settore delle attività fisiche esportive. Per contro, ci si è molto interrogati sul carattere selettivo della motivazione. Aquesto proposito sono stati stabiliti repertori molto folti di “motivazioni” ed uno dei più ricchiè quello di Bouet (1969). L’inventario dei bisogni, desideri, aspirazioni degli sportivi,disposti da questo autore, copre un campo molto ampio: bisogni motori, di affermazione disé, ricerca di compensazione, tendenze sociali, interesse competitivo, desiderio divincere, aspirazione ad essere campione, aggressività e combattività, amore della natura,gusto del rischio, attrazione dell’avventura. Questa tassonomia, che si basa suun’investigazione sottile del vissuto di ciascun praticante, dimostra chiaramente ilcarattere polimorfo, composito della motivazione o delle “motivazioni” degli sportivi. Ladiversità delle attività fisiche e sportive é tale che tutta la gamma dei bisogni umani puòtrovarvi soddisfazione e, con certi riguardi, studiare le motivazioni dei praticanti é studiarele motivazioni dell’uomo in generale. Così ritroveremo categorie simili con uno studiosulle scelte professionali o una qualunque altra forma di “loisir”.

Malgrado il suo interesse, non ci soffermeremo lungamente su quest’inchiesta per dueragioni: la prima é che essa riguarda solo praticanti adulti, la seconda è che non proponeuna “gerarchia delle motivazioni”. Non é il caso dei lavori presentati adesso, checoordinano l’aspetto quantitativo e l’aspetto qualitativo già ricordati nello studio dellerazioni della pratica e dei motivi d’abbandono del bambino.

3.1. Le ragioni della pratica

Skubic (1956) è stato uno dei primi ad interessarsi al problema dei motivi dipartecipazione dei giovani giocatori di baseball e i loro genitori. “Giocare con altri ragazzi”,

“divertirsi”, “migliorarsi” erano le ragioni più frequentemente citate. Risultati simili sonoriportati da Sapp e Haubenstriker (1978): i bambini ricercano prima di tutto undivertimento; “imparare dei nuovi gesti tecnici”, “essere in forma fisica” e “giocare con gliamici” sono anch’esse ragioni che contano, ma meno della prima.

Molte ricerche di questo tipo, effettuate sull’adulto, sono descrittive e si limitano adun’enumerazione dei motivi che, in fin dei conti, non rivelano niente che non si sappia già. È per questo che accordiamo maggiore attenzione ai lavori realizzati attualmente alloYouth Institute dell’Università di Stato del Michigan, che tentano di superare il livello dellasemplice descrizione per studiare la struttura motivazionale sottostante alle risposte deipraticanti.

Tabella 1Le ragioni della pratica

Classifica dei motivi in funzione della loro importanza per giovani sportivi.

I punteggi vanno da 1 (molto importante) a 3 (poco importante)

RAGIONI Ragazzi Ragazze

Io voglio migliorare le mie abilità

Io amo divertirmi

Io voglio imparare nuovi gesti

Io amo le prove

Io voglio stare fisicamente bene

Io amo la competizione

Io voglio arrivare ad un livello migliore

Io amo l’azione

Io voglio restare in forma

Io amo le sensazioni forti

Io amo fare ciò in cui eccello

Io amo lo spirito di squadra

Io amo lo sport di gruppo

Io amo fare dell’esercizio

Io amo appartenere ad una squadra

Io amo incontrare nuovi amici

Io amo vincere

Io amo gli educatori e gli allenatori

Io amo sentirmi importante

Io amo le ricompense

Io amo avere un’occupazione

Io amo utilizzare le strutture

Io voglio ottenere uno statuto

Io voglio essere con amici

Io voglio essere fuori di me

Io voglio essere celebre e popolare

Io voglio distendermi

Io amo i viaggi

Questo è il desiderio dei miei genitori o amici

Io voglio spendere le mie energie

1.06

1.17

1.18

1.16

1.24

1.17

1.23

1.32

1.36

1.37

1.31

1.40

1.42

1.46

1.39

1.59

1.40

1.71

1.67

1.62

1.81

1.83

1.72

2.00

2.10

2.02

2.27

2.33

2.27

2.55

1.09.

1.11

1.13

1.28

1.40

1.15

1.45

1.31

1.30

1.30

1.47

1.31

1.30

1.28

1.22

1.38

1.93

1.76

1.90

1.96

1.69

1.89

2.16

2.00

2.21

2.47

2.36

2.34

2.53

2.45

(Da Gill, Gross e Huddleston, 1983)

Dopo una pre-inchiesta mirante a catalogare l’insieme delle ragioni possibili, Gill etal.(1983) hanno proposto un questionario a più di 1.100 membri di un campo estivo di etàdagli 8 ai 19 anni e che praticavano differenti sport: basket-ball, lotta, football americano,golf, baseball, tennis, atletica, volleyball, ginnastica, ecc.

Tale questionario enuncia trenta motivi di partecipazione possibili, di cui i soggetti devonostimare l’importanza per essi, su scale in tre punti: non del tutto importante, importante,estremamente importante.

I risultati presentati in dettaglio nella tabella 1 mostrano che, sia le ragazze come i ragazzi,auspicano nell’ordine: “migliorarsi”, “divertirsi”, “acquisire nuove abilità motorie”, amano “leprove, le sfide” (challenge) ed “essere in forma fisica”. Le ragioni giudicate menoimportanti sono “spendere le proprie energie”, distendersi”, “viaggiare”, “soddisfare igenitori o gli amici”.

Un’analisi fattoriale praticata a partire dalle correlazioni tra l’insieme delle risposte rivelauna struttura con otto fattori comparabili tra le ragazze ed i ragazzi:

– Il fattore I corrisponde ad un bisogno di realizzazione ed alla ricerca di uno statuto:

“vincere”, “diventare qualcuno d’importante”, “essere celebre” …

– Il fattore II riunisce i tre items orientati verso la pratica in gruppo: “lavoro in gruppo”, “spirito di squadra”, “appartenenza ad una squadra” ...

– Il fattore III satura gli items facenti riferimento alla forma fisica: “stare bene fisicamente”,“essere in forma” ...

– Il fattore IV satura gli items attinenti con il dispendio di energia: “fare dell’esercizio”,“spendere dell’energia” …

– Il fattore V riguarda i tre items legati alla situazione sportiva: “utilizzare le strutture”,“essere in relazione con l’allenatore”, “soddisfare la pressione da parte dei genitori o degliamici” ...

– Il fattore VI rinvia allo sviluppo delle abilità motorie: “migliorare le proprie capacità”,“arrivare ad un livello migliore” …

– Il fattore VII satura gli items evocanti le relazioni amicali: “farsi dei nuovi amici” ...

– Il fattore VIII corrisponde alla ricerca di un divertimento: “amare le sensazioni forti”,“divertirsi” ...

La sola notevole differenza in funzione del sesso é associata al primo fattore: i ragazzihanno un desiderio di vittoria e di prestazione più intenso che le ragazze. D’altronde,Gould et al. (1982), in uno studio meno esaustivo sulla motivazione dei giovani nuotatori,mettono in evidenza l’esistenza di una struttura fattoriale molto vicina a quella che vienead essere descritta: bisogno di realizzazione, divertimento, ricerca della forma fisica, di undispendio di energia, preoccupazione di sviluppare le sue abilità motorie e volontà dimantenere delle relazioni amicali.

Le ricerche di questo tipo sono molto utili per la loro precisione e costituiscono un punto dipartenza molto sicuro per ogni riflessione sulla motivazione nello sport. Esse confermanoche i bambini non hanno l’impressione di rispondere ad una sollecitazione da parte deiloro genitori o dei loro amici e che optano per uno sport in funzione di criteri personali.

Senza anticipare le analisi future, si può già osservare che i motivi invocati riguardano inprimo luogo il “bisogno di realizzazione”, la “volontà di essere efficace”, come esprime laclassifica degli items descriventi la ricerca di un miglioramento tecnico, il pensiero diprogredire ed il gusto per il confronto, la sfida.

D’altra parte questi risultati ed i modelli che costituiscono le “vedettes” sportive non hannoun impatto sui mass-media. È difficile dire se questo silenzio riguarda il caratteretrascurabile di questa influenza o la natura dei questionari.

Infine, la comparazione delle risposte dei nuotatori con quelle dei praticanti “tutte lediscipline” rivela una struttura fattoriale confrontabile nei due casi. Ciò indica sia cheesiste un’organizzazione di base della motivazione, indipendente dalla disciplina praticata,sia che le eventuali differenze secondo gli sport sono qualitative e non si lascianosoppiantare dall’analisi fattoriale.

3.2. I motivi d’abbandono

Non bisogna confondere la non-pratica e gli abbandoni. L’inchiesta “Jeunesse et Sport”del 1976 rivela che nel settore rurale “la lontananza delle installazioni” (13%) “lamancanza di tempo” (10,70%), “il costo finanziario” (5%) e “l’assenza di desiderio” (5%)sono le principali cause di non impegno.

I motivi di abbandono sono altri: il più importante é “il conflitto di interessi” (Fry et al.,1981; Gould et al., 1983; McPherson et al., 1980; Sapp e Haubenstricker, 1978). I metodid’indagine, differenti da una ricerca all’altra, rendono talvolta difficili i confronti; tuttavia sipuò stimare che almeno nel 50% dei casi i bambini escono dal loro club per orientarsi siaverso altre discipline sportive, sia verso altri “loisirs” non sportivi. La concorrenza tra lepratiche sul mercato del “loisir” ha probabilmente un’influenza su questa tendenza a“gustare” successivamente parecchie specialità ed a cambiare ogni anno club sportivo.Questa incostanza, che assomiglia ad un tentennamento attivo, corrisponde anche allanatura della curiosità dei bambini, capaci di appassionarsi intensamente ad un’attività peruna durata molto breve, per poi dimenticarla bruscamente. Gli specialisti dello svilupposociale conoscono bene questo aspetto mutevole ed eccessivo di questi investimentiaffettivi: come per le modalità dei giochi praticati nel corso della ricreazione, sembra siabbia una sorta di ciclicità degli investimenti del bambino, in direzione delle moltepliciattività che gli sono proposte.

Le altre ragioni che giustificano gli abbandoni sono: il carattere troppo serio degliallenamenti, la troppa importanza della competizione, l’esistenza di relazioni conflittuali onon amichevoli con l’allenatore e il sentimento di non progredire, di non migliorarsi.Queste ragioni sono relativamente indipendenti dalle discipline praticate: i motivid’abbandono sono approssimativamente gli stessi nel nuoto (Gould et al., 1982;McPherson et al. 1980), nel football (Pooley, 1981), o nell’insieme delle discipline quali losci di fondo, l’hockey su ghiaccio, football, baseball, nuoto (Orlick, 1974). Si può ancorachiedersi se esiste un nucleo motivazionale comune a tutte le attività o se questa assenzadi specificità riguarda solamente degli artefatti sperimentali, soprattutto alla mancanza diprecisione delle questioni poste.

Per contro, esiste un’evoluzione molto netta delle risposte secondo l’età: più i bambinisono giovani, più sono attratti da altre fonti di interesse e deplorano il carattere seriosodella pratica, l’insufficienza delle relazioni amicali e la mancanza del lavoro in squadra(Gould et al., 1982; Pooley, 1981; Sapp e Haubenstricker, 1978). Quest’evoluzione dellamotivazione del giovane sportivo è così caratterizzata: nei giovani praticanti (prima dei 10anni e fino agli 11-12 anni) é il piacere del gioco, il divertimento che è ricercato, ma ancheil progresso nella padronanza delle abilità sportive. In seguito, si produce unadiversificazione dei centri d’interesse, parallelamente ad. un’esteriorizzazione in rapportoall’attività stessa: si ricercano allora maggiormente le relazioni con gli altri membri del clube non ci si interessa molto più alla competizione.

Queste poche indicazioni sono ancora troppo frammentarie perché si realizzi una visionerealmente coerente. Tuttavia, si può ragionevolmente pensare che il carattere fluttuanteed incostante della pratica dei bambini derivi dal fatto che le strutture ed il funzionamentodei club sportivi non sono concepiti per loro. Troppo spesso ci si accontenta di applicare

con essi un modello adulto in riduzione: club unisport, struttura rigida allenamento-competizione, forme monolitiche degli incontri o delle partite, ecc. Non si tratta di unaquestione semplice e la pratica sportiva deve essere concepita come una realtàmultiforme e complessa.

Tabella 3Le ragioni degli abbandoni.

Classificazione dei motivi in funzione della loro importanza per i giovani sportivi:

i punteggi vanno da 1 (molto importante) a 3 (poco importante).

RAGIONI PUNTEGGI

Altra cosa da fare

Io non ero così bravo come avrei voluto

Non abbastanza divertente

Io voglio fare un altro sport

Io non sopporto la pressione

Era noioso

Io non amo l’allenatore

L’allenamento era troppo duro

Poco interessante, eccitante

Non lavoro di squadra

Io non amavo essere nella squadra

Le mie prestazioni non miglioravano

Io non ero in forma

Io non amo la competizione

Non abbastanza spirito di squadra

Io non vincevo abbastanza spesso

Io non potevo restare con i miei amici

Io non mi sentivo utile

Non si interessavano abbastanza a me

Io non incontravo abbastanza nuovi amici

Io non ricevevo abbastanza ricompense

Io ero infortunato

Io non imparavo dei nuovi gesti

I miei amici non praticavano più

Io non partecipavo abbastanza alle competizioni

Io non avevo abbastanza incontri sportivi

Io non ero abbastanza “celebre”

Io non utilizzavo abbastanza le strutture

I miei genitori o amici non volevano più che partecipassi

Io non facevo abbastanza viaggi

Io ero troppo vecchio

Io non amavo le ricompense

2.26

1.82

1.78

1.76

1.68

1.66

1.65

1.62

1.56

1.46

1.44

1.38

1.38

1.36

1.36

1.34

1.30

1.30

1.30

1.26

1.24

1.24

1.24

1.20

1.16

1.14

1.12

1.10

1.10

1.04

1.02

1.00

(Da Gould, Feltz, Horn e Weiss, 1982)

4. COMPLESSITÀ DELLA PRATICA SPORTIVA

Praticare uno sport non é solamente darsi ad un’attività codificata: è anche realizzare uninsieme di azioni cariche di significato e appartenenti a registri differenti che divideremo inquattro componenti:

In primo luogo é avere un’attività fisica regolare e realizzare differenti tipi di abilità motorie:saltare al di sopra di un’asticella, colpire una palla, eseguire figure su una pedana dalcorpo libero, scivolare lungo un pendio innevato, ecc. Tanti compiti che possono esserequalificati riguardo alle loro esigenze bioenergetiche o bioinformative e che corrispondonoad afflussi di sensazioni, di effetti, di emozioni molto particolari. Bain (1979) e Griffin eKeogh (1982) considerano che le caratteristiche soggettive dell’attività - difficoltà esensazioni percepite - hanno un ruolo maggiore nei comportamenti di accettazione o dirifiuto di queste attività da parte dei praticanti.

– Il secondo aspetto riguarda più particolarmente il processo di acquisizione e dimiglioramento di queste abilità notorie. Le sedute di allenamento, spesso intense epenose, possono caratterizzarsi per la qualità delle relazioni che vi si allacciano conl’allenatore o gli altri praticanti, in rapporto con una problematica del progresso e dellamaestria graduale delle abilità. Questi due elementi figurano in buon posto nei repertoridei motivi degli sportivi. Essi sono stati oggetto di alcune ricerche in analisidell’insegnamento che confermano soprattutto il ruolo dell’intesa con l’allenatore, deisuccessi e dei progressi compiuti e della pedagogia utilizzata: partecipazione alledecisioni, uso delle ricompense esterne, ecc.

– Il terzo punto sostiene che l’allenamento e la pratica si inscrivono in una logicacompetitiva: la loro funzione é di preparare gli atleti ed i giocatori ad affrontare gli altrisportivi in una prospettiva di ricerca della vittoria. Questa logica competitiva ritma le“stagioni”, il calendario e condiziona l’uso intensivo di rinforzi esterni o di ricompense sottoforma di trofei, medaglie, coppe, ecc.

– Infine, l’ultimo aspetto ingloba tutte le condotte relative alla vita associativa, con laricerca e con il mantenimento di interazioni amicali, con la costruzione di una rete direlazioni sociali. La “club house”, gli spostamenti collettivi, le feste e le animazioni diversesono i luoghi e momenti privilegiati dove esse si sviluppano.

Scegliere di iscriversi ad un club, é impegnarsi a riguardo in queste quattro attività, cioèaffidarsi ad occupazioni che obbediscono a determinanti differenti. Appare unaproblematica complessa: ciascun individuo partecipa ad uno sport per ragioni che gli sonoproprie e che possono essere in accordo solo con certi aspetti precedentementenominati. L’attività fisica, l’allenamento e la competizione sono solamente dei mezzi perchi auspica incontrare altre persone e farsi degli amici. Al contrario, ci si può interessaresolo alla competizione e concepire gli altri aspetti della vita associativa sia come mezzi,sia anche come obblighi ai quali bisogna piegarsi per realizzare il proprio obiettivo.

Questa ricchezza della pratica sportiva ed il suo carattere polimorfo possono essereall’origine di ambiguità e ci sembrano spiegare una parte delle delusioni sfoggiate daigiovani, nella misura in cui il funzionamento dei club o delle federazioni può essere indisaccordo con le loro attese. D’altronde, certe evoluzioni recenti del movimento sportivohanno per conseguenza (o per funzione) di separare questi differenti aspetti e di allargare

il repertorio delle attività proposte: così le nuove forme di pratiche individualizzate e “a-competitive” quali lo sci fuori pista o il jogging, eliminano gli aspetti non direttamente legatialla ricerca di sensazioni o al miglioramento del benessere corporeo. È il caso dei recenticambiamenti nella politica di alcune federazioni che mirano a separare sempre più lapratica di massa con carattere ludico e conviviale dalla costituzione di un’élite centratasulla competizione e la ricerca dell’alto livello.

5. TRE TIPI DI MOTIVAZIONE

Il bambino che pratica un’attività sportiva obbedisce a tre tipi di determinanti principali. Egli ricerca un’efficacia, un divertimento e delle relazioni con altri. Questa strutturamotivazionale fondamentale del giovane praticante, che “copre” una larga parte delleragioni invocate da lui, corrisponde alle tre concezioni di motivazione presentate adesso.

5.l. La motivazione di realizzazione

La motivazione di realizzazione costituisce un settore centrale della motivazione umanaoggetto di molteplici ricerche. Queste, all’origine esclusivamente centrate sulla natura deldinamismo al pensiero del comportamento, mettono maggiormente l’accento oggi sulruolo dei processi cognitivi e delle rappresentazioni nel momento della regolazione diquesta dinamica.

a) Dal bisogno di realizzazione alla competenza percepita

Il bisogno di realizzazione di performance (need of achievement), identificato all’origine daMurray, é stato l’oggetto di molteplici riformulazioni e teorizzazioni.

McClelland et al. (1953) considerano che esiste in ogni individuo una tendenza a farebene, a ricercare 1’efficacia nelle interazioni con l’ambiente così come un’aspirazione araggiungere in una competizione un fine conforme a norme di eccellenza. Atkinson(1957) descrive una tendenza alla realizzazione che é in funzione della forza del bisognodi realizzazione, della probabilità soggettiva di successo (cioè della difficoltà del compito)e del valore incitatorio del successo (l’importanza individuale e collettiva di questorisultato). L’interesse di questa concezione é che essa fa ricorso a dati variabili intermedi,quali la rappresentazione della probabilità di successo e l’atteggiamento del soggetto ariguardo dello scopo. Parallelamente questo bisogno di performance é concepito come la risultante della pauradell’insuccesso e della speranza di successo. Queste due componenti sono caratteristicheindividuali stabili, tratti di personalità che spiegano le differenze di comportamento e diatteggiamento in certe situazioni. Gli individui, mossi pioritariamente dalla speranza diriuscire hanno tendenza a scegliere dei compiti di difficoltà media, vale a dire un rischiomoderato, mentre i soggetti particolarmente preoccupati di evitare l’insuccesso scelgonocompiti molto facili o molto difficili: la probabilità di successo é sia molto forte ed essi non“rischiano” praticamente nulla, sia molto debole e non si può allora biasimarli di nonriuscire (Atkinson, 1957).Secondo Maehr e Nicholls (1980) e Nicholls (1983), i comportamenti di realizzazionepossono essere molto differenti da un individuo all’altro e sono tentativi per dimostrare chesi possiedono qualità culturalmente desiderabili. Questi autori descrivono tre categorie di

obiettivi in seno a questa forma di motivazione:

– dimostrare una certa abilità in comparazione alle performance di altri;

– manifestare una buona padronanza del compito stesso;

– ricercare l’approvazione sociale.

A ciascuna di queste categorie corrisponde un atteggiamento motivazionale, una gammadi comportamenti ed una concezione particolare della “competenza”. Nel primo caso ilbambino si inscrive in concorrenza con gli altri individui; il suo bisogno di realizzazione ésoddisfatto quando egli é capace di “sopportare il confronto con altri”, indipendentementedal valore e dal livello delle sue prestazioni. Al contrario, la ricerca della padronanzaconsiste in una concentrazione sulla performance stessa e non sul confronto con quelladegli altri sportivi. Infine, il terzo atteggiamento é quello dei bambini che si impegnano inun’attività al solo scopo di conquistare l’approvazione e la stima degli “altri significativi”,cioè del gruppo ristretto di persone che hanno un peso affettivo e relazionalepreponderante, che “contano” per lui: genitori, allenatore, amici molto vicini, certiprofessori (Festinger, 1954).Questi affinamenti e diversificazioni della nozione di bisogno di realizzazione sono statipossibili grazie all’avanzata teorica determinante, segnata dall’apparizione del concetto dicompetenza percepita o del sentimento di competenza. Infatti é White (1959) che segnaveramente l’entrata del cognitivismo nella psicologia della motivazione. Secondo lui tutti itentativi del bambino e dell’adulto, miranti a confrontarsi con l’ambiente, rivelano unbisogno di sentirsi competente (urge toward competence). Quest’autore crea ilneologismo ed il concetto di “effectance” (efficacia) per indicare simultaneamente latendenza a ricercare la produzione di un effetto e la ricerca dell’efficacia. Non é dunquepiù il risultato atteso in sé che é considerato come il motore dei comportamenti, mal’effetto di questo risultato sul “sentimento di competenza” dell’individuo. Questosentimento di competenza é una costruzione cognitiva di cui Harter (1978) ha spiegato ilfunzionamento, la natura e lo sviluppo.Ciò che incita un individuo ad agire e a realizzare dei compiti che possono concludersi conun successo o un insuccesso, é il bisogno che egli ha di sentirsi competente. Per questoegli si impegna in differenti attività nel corso delle quali egli prova a dominare lasituazione, dare prova di efficacia e di padronanza. I successi che egli conosce in questesituazioni si accompagnano a fenomeni emotivi positivi, di piacere, di un sentimento dicompetenza e di valore personale che vanno ad accrescere o almeno preservare la suamotivazione a riguardo del compito che egli viene a realizzare. In altri termini un individuoé tanto interessato ad un’attività quando essa é per lui l’occasione di sentirsi efficace,abile e di provare piacere associato a questa efficacia.Tuttavia, non é sufficiente riuscire per percepirsi come competente e risentirne unasoddisfazione: é necessario che il compito nel quale si é conosciuto il successo siasufficientemente difficile. Harter considera che esiste un grado ottimale di difficoltà(optimum degree of challenge): se il compito é derisoriamente semplice, non si può trarreun beneficio psicologico dal successo e inversamente, se la difficoltà é troppo grande, laprobabilità di successo é troppo debole perché valga la pena di impegnarsi poiché ilrisultato costituisca una qualunque informazione sull’abilità del soggetto. Infatti non é illivello di difficoltà oggettiva che conta, ma il “challenge”, vale a dire la difficoltà per unindividuo particolare.Numerosi autori utilizzano nozioni quali la competenza, l’abilità percepita, il sentimento dicompetenza, la stima di sé, ecc., ma sovente la realtà che questi termini designano émolto globale ed indifferenziata. Secondo Harter (1978, 1982) i bambini nonpercepiscono la loro competenza come identica in tutti i settori ed il sentimento dicompetenza é la risultante complessa di tre componenti:

– “la competenza cognitiva”, che riguarda le performance scolastiche ed intellettive(riuscire bene in classe, avere lo spirito vivo, apprezzare il successo scolastico);

– “la competenza sociale”, che riguarda le relazioni del bambino con i suoi pari (averemolti amici, essere gradevole, essere qualcuno di importante nella classe); – “la competenza fisica”, che riguarda le performance nelle attività ludiche e sportivenecessitanti un importante impegno motorio (essere bravo nello sport, progredirefacilmente in E.F.S., preferire di essere praticante che spettatore sportivo). Queste tre componenti sono integrate in seno ad una costruzione cognitiva di livellosuperiore che caratterizza la percezione che l’individuo ha della propria persona.Secondo le teorie, questo sentimento di competenza (che si chiama abilità o competenzapercepita, stima di sé o altro...) costituisce sia una caratteristica stabile della personalitàche organizza le condotte dell’individuo in un gran numero di situazioni, sia unacostruzione puntuale, legata ad una classe di compiti o ad un’attività particolare.Qualunque cosa sia, questa competenza percepita si costruisce in occasione delleinterazioni dell’individuo con il mondo circostante e particolarmente nel corso dell’infanzia (Harter, 78; White, 1959). Con l’età il bambino va a poco a poco determinandosi inrapporto agli obiettivi dei compiti e ai sistemi di ricompense che gli sono assegnatedall’adulto. È così che funzionano dei processi di interiorizzazione, di imitazione, diappropriazione, ma anche di rifiuto e di opposizione a riguardo dei modelli che sono perlui gli “altri significativi”. Si tratta dell’immenso problema della costruzione nel bambino delsistema di valori che va ad organizzare la sua vita futura e di cui gli psicologi si sono pocopreoccupati fino ad oggi. È pertanto una questione fondamentale che la teoria di Harter,qui molto sommariamente presentata, permetta di affrontare in maniera euristica.Così in uno studio relativo alla competenza scolastica o cognitiva, questo autore mostrache i sistemi di valore del bambino si trasformano con l’età. Dal punto di vista dellamotivazione, i bambini giovani (8 anni) si impegnano in compiti scolastici a partire da unadinamica intrinseca: la situazione scolastica in sé li motiva, essi provano un interesseinerente alla loro attività in classe. Al contrario i soggetti più anziani (14 anni) manifestanoa questo riguardo una motivazione estrinseca: il loro interesse si è spostato verso obiettiviesterni all’attività, come le note, le classifiche, il successo professionale futuro, ecc. Laloro partecipazione in classe non ha più che uno statuto di mezzo in rapporto a questiobiettivi (Harter, 1982). L’autore segnala (senza apportarne la dimostrazionesperimentale) che l’evoluzione sembra essere invertita in ciò che concerne il settore dellacompetenza fisica. Questa affermazione ci pare un poco affrettata alla visione dei lavorirelativi alla motivazione intrinseca che presenteremo più avanti.

b) La motivazione di reali azione nel giovane sportivo

È indelineabile che questa forma di motivazione si esprima nello sport e costituisca lastruttura della motivazione del praticante: si tratta per lui di raggiungere un obiettivochiaramente definito (battere un avversario o realizzare un certo standard di performance)tale che la sua prestazione possa essere valutata in termini di successo o d’insuccesso. Dall’altra parte, queste occasioni di “dimostrazione di competenza” che sono tornei,incontri, brevetti, trofei di tutti gli ordini si svolgono sistematicamente sotto lo sguardo deglialtri: genitori, amici, allenatore, compagni, avversari, ecc. e realizzano così le condizioni diuna valutazione sociale severa.La corrispondenza tra questa descrizione di azioni sportive e le definizioni “delle situazionidi realizzazione” è così forte che si può affermare che l’istituzione sportiva si fondapsicologicamente su questa forma di motivazione.Per i bambini è molto importante dare prova di competenza e di maestria nel settore deigiochi sportivi, soprattutto per i ragazzi (Roberts, 1978, 1980; Scanlan, 1982). Ai loro occhiil successo sportivo non si oppone al successo scolastico, sebbene il primo tenda ad

avere un’importanza sempre più grande man mano che essi avanzano in età (Buchananet al., 1976). La tabella è un po’ differente per quanto riguarda le disfatte: Duda (1983)mostra che se le ragazze concepiscono gli insuccessi come meno gravi e disagianti nellosport che a scuola, i ragazzi al contrario preferiscono l’insuccesso a scuola che sugli stadi.

Un avvenimento é percepito come un successo in funzione degli. obiettivi propri a ciascunbambino ed un risultato può essere interpretato sia come un successo, sia come uninsuccesso (Spink e Roberts, 1980). Alla luce della classificazione precedentementecitata di Maehr e Nicholls (1980), Roberts (1984) identifica tre categorie di obiettivi per ilgiovane praticante: la ricerca dell’attitudine alla competizione (competitive ability), dellamaestria sportiva (sport mastery) e dell’approvazione sociale (social approval). – Nel primo caso ciò che interessa il giovane praticante é di poter “sostenere il confronto”con altri, non apparire troppo debole. Il modo di valutazione é unicamente in riferimentoalla performance altrui: é la vittoria o la classifica che conta, qualunque sia il modo digiocare. – Nel secondo caso i bambini non sembrano interessarsi al confronto con altri sportivi:essi cercano prima di tutto di fare una buona prestazione (giocare bene, realizzare unabuona performance in sé). Questi bambini si valutano in rapporto ai progressi che essirealizzano e non in funzione di norme esterne. Questo atteggiamento “d’investimento sulcompito” li porta ad accettare molto facilmente i consigli dell’allenatore ed anche aricercare l’aiuto pedagogico che essi percepiscono come un mezzo per progredire.

– Infine gli obiettivi della terza categoria sono quelli del bambino che cercaessenzialmente di dare un’immagine positiva di se stesso a certe persone. Ancora:l’attività sportiva non é che un mezzo per raggiungere un obiettivo che gli é esteriore.Quest’atteggiamento é frequente nei praticanti molto giovani che sono particolarmentedipendenti da altri e ricercano tutte le forme possibili di valutazione sociale positiva. Roberts (1984) considera che obiettivi di natura differente possano coesistere in unostesso sportivo e che la ricerca dell’approvazione sociale e dell’attitudine allacompetizione sono i due tipi di obiettivi più correnti prima dei 12 anni. Questa struttura della motivazione di realizzazione degli sportivi é stata osservata nelquadro di due studi realizzati l’uno negli Stati Uniti (Ewing, 1981), l’altro in Gran Bretagna(Whitehead, 1986). L’analisi fattoriale delle risposte di adolescenti dai 12 ai 17 anni ad unquestionario specifico rivela tre fattori principali che corrispondono alle categorie di Mahere Nicholls e di Roberts. Al contrario l’investimento in rapporto all’attività appare piùcomplesso del previsto; questo aspetto si suddivide in due componenti: l’uno riguarda lapadronanza del compito e l’altro l’ “avventura sportiva” (Ewing, 1981). Questapadronanza del compito si appoggia sia su una ricerca del risultato, sia su un’importanzaaccresciuta accordata alla maniera di ottenerla (Whitehead, 1986).D’altronde le ricerche di Duda (1986) rilevano che il tessuto sociale influenzaconsiderevolmente la scelta ed il tipo di motivazione di realizzazione prioritaria in seno aduna cultura particolare. Una delle questioni che si pongono é di sapere se il modo diorganizzazione e la logica dell’ambiente sportivo impongono questi obiettivi al bambino ose si tratta di una tendenza molto personale che si attua in questo quadro. A questoriguardo nel corso di una ricerca non pubblicata, realizzata in collaborazione con Bellus eCartier, abbiamo osservato che é relativamente facile influenzare i bambini (almeno abreve termine ed in un compito preciso) e che questi obiettivi sono esclusivi gli uni daglialtri in una situazione data.L’esperienza si é sviluppata con bambini di 12 anni e basata sulla loro motivazione a

realizzare un compito di lanciare delle piastrelle in direzione di un bersaglio. Si misura inun primo tempo il loro interesse per il compito, cronometrando a loro insaputa il tempo cheessi accettano di consacrarvi ed il numero di prove realizzate mentre essi sono da soli inuna palestra, senza consegna particolare. Dopo questa misura, la metà dei soggetti éposta in “situazione di competizione”, l’altra in “situazione di padronanza”. Nella primacondizione lo sperimentatole annuncia che va a misurare le performance al fine di stabilireuna classifica in rapporto agli altri allievi dell’istituto e che quindi bisogna sforzassi di faremeglio degli altri. Nella seconda condizione egli annuncia che non va a misurare leperformance e che bisogna fare il meglio possibile.

Quando si valuta di nuovo la motivazione di questi bambini con lo stesso mezzoprecedentemente usato, appare che essi si interessano meno al compito dopo avervissuto nella situazione di competizione. Questa diminuzione della motivazione non haluogo nella situazione di padronanza.Ritorneremo su questi risultati che possono anche interpretarsi in termini di motivazioniintrinseca ed estrinseca. Per ora riteniamo che sufficiente assegnare un tipo particolare diobiettivi al bambino perché egli adatti a breve scadenza il suo atteggiamento aquesti. Nella situazione di competizione, la realizzazione del compito sitrasforma in un mezzo per compararsi con altri e l’interesse si sposta dal compito con ilconfronto stesso. Questo processo non si produce nella situazione di padronanza perchéil compito vi é costantemente realizzato per se stesso. Questi atteggiamenti motivazionali sono probabilmente associati a differenze quanto allarappresentazione della competenza nelle attività praticate. Così nel judò un investimentosulla competizione condurrà il bambino a considerare il buon judoka come colui che vincetutti i suoi matchs, mentre, nel caso di una ricerca di padronanza, il buon judoka é coluiche conosce molte prese, che sa piazzarle al momento opportuno, anche se gli capita diperdere. A nostra conoscenza, non esistono investigazioni sperimentali a questosoggetto. Tuttavia é questo un aspetto importante, tenuto conto del ruolo motivazionaledella competenza percepita nello sport (Burton e Martens, 1986). Questo ruolo é statostudiato da Roberts et al. (1981) con l’aiuto del questionario di Harter: giovani sportivi di 9-10 ami si percepiscono fisicamente e socialmente più competenti che dei non-sportividella stessa età, senza tuttavia che si sappia se é la pratica dello sport che siaccompagna ad un accrescimento della competenza percepita o il fatto di sentirsi abileche condiziona la partecipazione alle attività fisiche e sportive (A.F.S.). Feltz e Petlichkoff(1983) mostrano, che tra soggetti da 12 ai 18 anni quelli che abbandonano la praticasportiva sentono meno di essere competenti che gli altri. La relazione molto tenueosservata tra la durata della pratica e la competenza percepita non permette dipronunciarsi sul senso della relazione. Su tale questione precisa Weiss et al. (1986)considerano che la competenza ed il controllo percepiti sono all’origine dell’attrazione odella repulsione a riguardo dello sport. Non sembra pertanto che questo problema possaessere risolto abbastanza facilmente (Sonstroem, 1982) e noi dubitiamo, da parte nostra,che ci sia un senso a ricercare una causa primaria ed unica in seno ad un fenomeno doveintervengono una molteplicità di fattori. Così dei lavori recenti (Fox e Corbin, 1986)mostrano che l’effetto del sentimento di competenza sull’impegno in un’attività sportiva ela motivazione degli adolescenti dipende dall’importanza che essi accordano a questeattività in rapporto a tutte quelle che sono proposte da altri. Sembra anche che questa“l’importanza percepita” dell’attività sia un miglior predittore dell’impegno sportivo che lacompetenza percepita (il problema risiede tuttavia nell’origine di questa scala personale divalori).Se sembra chiaro che la competenza percepita costituisce la pietra angolare dellamotivazione di realizzazione del giovane praticante (Burton e Martens, 1986; Roberts,1984; Roberts e Duda, 1984; Roberts e al., 1981), manchiamo, per contro, di datisperimentali relativi al suo sviluppo in situazioni sportive. La sola esperienza che a nostraconoscenza apporta una certa luce a questo proposito é quella di Horn e Hasbrook (1986), più specialmente consacrata alle informazioni utilizzate da bambini di differenti età pervalutare la loro competenza nello sport. Essa mostra che fino a 8-9 anni attribuiscono unagrande importanza al risultato ed al feedback proveniente dai genitori e dagli spettatori.

L’utilizzazione dei feedback degli adulti diminuisce in seguito a profitto delle comparazionitra pari. L’evoluzione si fa quindi nel senso di una diminuzione della dipendenza ariguardo degli adulti e di una recrudescenza del processo di valutazione sociale trabambini. Una questione fondamentale emerge da questi lavori, relativa al grado di generalità e dipermanenza di questo sentimento di competenza: secondo gli autori si ha a che fare siacon una rappresentazione stabile che “copre” tutto il settore delle attività fisiche e sportive(Harter, 1978; Roberts, 1984; Weiss, 1986), sia con processi molto puntuali in cui lafunzione per il soggetto è di valutare la sua capacità di far fronte alle esigenze di uncompito particolare (Griffin e Keogh, 1982). La competenza percepita, come la studiaHarter (1978), é una rappresentazione molto diffusa e globalizzante del suo proprio valorenelle attività fisiche. Così gli items costituenti il suo questionario sono: “Riuscire in tutti glisport”, “Essere migliore nello sport”, “Riuscire bene nelle attività nuove”, “Essereabbastanza buono nello sport”, “Preferire praticare che essere spettatore”, “Essere ilprimo scelto tra gli altri, per essere in una squadra sportiva” e “Essere buono nei nuovigiochi”. Tale questionario a carattere molto generale si rivela abbastanza poco utilenell’istante in cui si ha a che fare con dei veri specialisti sportivi (vedi per esempio Weisset al., 1986). All’inverso, Griffin e Keogh (1982) postulano l’esistenza del processospecificamente orientato sul compito. Ciò che essi denominano “fiducia nel movimento”(movement confidence) é il risultato di calcoli molto complessi nel corso dei quali ilbambino stima la difficoltà del compito, la propria capacità nel realizzarlo, le conseguenzesensoriali attese ed i rischi corporei incorsi. Questi calcoli sfociano su decisioni qualil’accettazione od il rifiuto del rischio, la partecipazione o non all’attività e la scelta di unastrategia di risposta.A nostro avviso, queste due forme di costruzione cognitiva coesistono e si influenzanoreciprocamente, la prima (la competenza percepita) é da concepire come molto legata allastima di sé, agli affetti e sentimenti che prova l’individuo a riguardo della sua propriapersona; la seconda (la fiducia nel movimento) é di natura più “tecnica” o informativa ed èvicina ai processi di pianificazione e di valutazione dell’azione. 6. DIVERTIMENTO E PIACERE NELLO SPORT Qualcuno dei motivi dichiarati i giovani praticanti fanno esplicitamente riferimento alpiacere del gioco, al divertimento oppure al contrario alla noia e al dispiacere occasionatodalla pratica di uno sport. È con l’analisi della dinamica motivazionale che si esprime inuna larga gamma di attività “gratuite”, che si affronterà questa tendenza all’edonismo ed alludismo nel giovane sportivo.

a) Le attività gratuite

Esistono nel bambino, ma anche nell’adulto, delle attività che non sembrano perseguirealtra finalità che di esistere e paiono essere la loro ricompensa. Queste attività conmotivazione intrinseca sono dette “autoteliche” e si differenziano radicalmente dallaricerca dell’efficacia descritta nel capitolo precedente: si ha a che fare con le condotte digioco, di ricerca di espressione e di emozione artistica, ma anche con comportamenti piùrozzi di esplorazione o di attività fisica in apparenza sterile.Si osservano molto presto nel bambino comportamenti che obbediscono al semplice“piacere di funzionare” o al “piacere di essere causa di qualche cosa” e sembranocorrispondere ad un bisogno fondamentale. Le esperienze di deprivazione sensoriale emotoria rivelano in effetti che l’organismo non può vivere e svilupparsi se non é sollecitatoda stimolazioni sensoriali diverse e se gli é impossibile realizzare una quantità sufficientedi attività notoria. Queste attività sensomotorie hanno da un parte una funzione moltospecifica a riguardo della maturazione delle cellule nervose e dell’apparizione di certe

condotte (sulle quali ritorneremo nel corso del capitolo dedicato ai “periodi critici”) edall’altra una funzione non specifica tendente a “bombardare” l’organismo d’informazioni,ad attivarlo, a “consumare” la sua energia.A breve termine queste attività sembrano deprivate di significato: con quale fine unoscoiattolo in gabbia fa girare la sua ruota ? Quale obiettivo persegue un bambino che siesaurisce a salire e scivolare lungo uno scivolo o che si assorbe nello spostamento dellasua automobile in miniatura ?Nel bambino queste condotte autoteliche si esprimono particolarmente nel e a partire dalgioco. A questo riguardo conviene distinguere il gioco studiato in quanto comportamento,dal ludismo che definiamo come la struttura motivazionale che sottende ed organizzaqueste condotte di gioco (é inteso che questa forma di motivazione é molto generale epuò esprimersi in differenti situazioni di cui il gioco non é che una parte).È quasi una tradizione sociologica quella di descrivere lo sport come una filiazione delgioco. Lo sport sarà, secondo l’illustre concezione di Callois (1958), una formaistituzionalizzata, domestica (paideia) dei giochi agonali originali (ludus). Al contrario altriautori come Sage (1978) o Sutton-Smith (1975) insistono maggiormente su ciò chedifferenzia queste due attività e l’originalità dello sport in rapporto al gioco. Nello stessoordine di idee, Coakley (1980), studiando il “vissuto psicologico” di bambini dai 3 ai 13anni impegnati in dai giochi spontanei (play), giochi organizza ti in maniera rozza (game) oattività sportive, mostra che esiste una differenza importante tra i primi due ed il terzo:l’organizzazione formale delle interazioni nello sport ed il loro controllo da parte dell’adultoinducono degli atteggiamenti radicalmente differenti della capacità ad autorganizzarsi edella creatività richieste dal gioco.

Non è questo il luogo per interrogarci sulle relazioni tra gioco e sport; noi riteniamosemplicemente, come base di riflessione che esiste una ricerca del divertimento e delgioco nella pratica sportiva del bambino dove si illustrano i meccanismi motivazionali.

Una corrente molto forte della psicologia sperimentale considera che il concetto di gioconon é sufficientemente preciso e operativo (una delle prove ne é la quantità considerevoledi definizioni esistenti nella letteratura). Berlyne (1960) pensa che vale meglio studiare lecaratteristiche psicologi che di certe classi di condotte autoteliche piuttosto che ricercareun’ipotetica specificità del gioco. Questa concezione, che conduce ad una sorta di“sbriciolamento” (dispersione) della nozione di gioco (Hurtig et al. , 1969) si basa suglistudi relativi ai livelli di attivazione e sulle teorie della dissonanza cognitiva.

b) Attivazione, dissonanza cognitiva e motivazione

Queste concezioni, sviluppate tra gli altri da Berlyne (1960, 1970) e Festinger (1957), siispirano a lavori della neurofisiologia sui livelli di vigilanza. Esse fanno del concetto di“attivazione” una nozione che ruota tra il versante fisiologico ed il versante psicologicodella condotta. L’attivazione caratterizza l’aspetto intensivo della motivazione e fluttua,secondo questi autori, in funzione della “quantità di dissonanza” presente nellasituazione. L’idea di base di queste teorie é che l’attivazione nasce dall’apparizione di unaincompatibilità, di una dissonanza, di una inconsistenza tra due cognizioni in un momentodato. Secondo Berlyne (1960), esistono quattro fonti di discrepanza e quindi diattivazione: la novità, la sorpresa, la complessità, l’incertezza o il conflitto.

La novità caratterizza le situazioni dove la discrepanza si pone tra una percezione attuale(la situazione alla quale noi siamo confrontati) e percezioni o esperienze passate (quelleche si ha l’abitudine di percepire o di risentire in situazioni di questo tipo). La sorpresacaratterizza la discrepanza o dissonanza tra la percezione attuale e le attese del soggettoin questa situazione: queste attese sono ugualmente costruite a partire dall’esperienza

passata dell’individuo. La complessità nasce dalla dissonanza tra le componenti dellapercezione o dell’esperienza attuale. Infine, l’incertezza caratterizza la discrepanza tradifferenti attese.

Queste fonti di dissonanza saranno studiate più avanti nelle situazioni sportive: per orabisogna ritenere il meccanismo casuale sottostante a questa concezione. L’attivazione siaccompagna di affetti, di sensazioni in cui la tonalità cambia in funzione della quantità didissonanza o del livello di attivazione. Esisterà una zona ottimale di qua e al di là dellaquale il piacere non é molto intenso: se la dissonanza é ridotta, l’attivazione é ugualmentepoco intensa e le sensazioni neutre o molto deboli; se l’attivazione si accresceparallelamente alla dissonanza, il piacere associato diventa più intenso e gradevole;infine, se la discrepanza si ingrandisce ancora, le sensazioni prendono una tonalitànettamente sgradevole.

Esiste quindi un livello ottimale di attivazione che ogni individuo tende ad ottenerericercando un tasso medio di discrepanza. Si spiegano così gli effetti delle esperienze dideprivazione, le condotte di auto-stimolazione e gli atti in apparenza gratuiti. Secondoquesta teoria, del compiti troppo o troppo poco nuovi non sono molto motivanti per isoggetti, (Cantor e Cantor, 1964; Mendel, 1965), dall’altra parte l’accrescimento delladifficoltà di un esercizio si accompagna, in un primo tempo, ad un ritorno d’interesse poi diuna diminuzione quando questa complessificazione si accentua. Nei due casi funziona lostesso schema esplicativo: se le caratteristiche del compito sono all’origine di un tasso didissonanza vicino al tasso ottimale, la motivazione é massimale; invece, appena esso siscosta da questo tasso medio, l’interesse diminuisce (si noterà che l’interpretazionedell’effetto della difficoltà del compito sulla motivazione differisce in questo quadro teoricoda quella proposta nel quadro della motivazione di realizzazione che fa intervenire ilrisultato ed il sentimento di competenza).

c) Dissonanza cognitiva e motivazione nel giovane sportivo

Si ricordi che qualcuno degli argomenti avanzati dai bambini per giustificare il lorointeresse riguardo allo sport hanno aderenza con il divertimento ed il piacere che essiprovano.

Simmetricamente, alcuni di questi giovani sportivi cessano di praticare precisamenteperché gli allenamenti sono noiosi o l’attività non é sufficientemente eccitante, stimolanteai loro occhi.Sarà facile utilizzare nello sport il quadro teorico sviluppato qui sopra e considerare che ilgusto dei bambini per le situazioni sportive riguarda in parte il fatto che esse gli offrono uncerto tasso di dissonanza. Questo modello é d’altronde stato applicato allo studio delgioco da Ellis (1973): il giocatore é concepito da lui come qualcuno che ricerca (eincontra) un livello ottimale di attivazione confrontandosi con delle situazioni aventi uncarattere di novità, d’incertezza o di complessità. Nello sport questa dissonanza provieneda diverse fonti. Può trattarsi di un disordine sensoriale e dell’afflusso massivo disensazioni, come nel momento della realizzazione di acrobazie, di lanci con il paracadute,di tuffi, di discese con gli sci o con la bicicletta. La dissonanza può ugualmente riguardarela difficoltà dei compiti o degli esercizi e con lo scarto che si stabilisce tra una situazioneattuale ed una situazione futura o virtuale; a questo riguardo, Nuttin (1980) descrive moltobene il carattere insaziabile delle motivazioni dell’alpinista “per il quale le cime dasuperare si moltiplicano nello stesso tempo che egli continua le sue ascensioni”. Infine,questo sovraccarico di attivazione può essere provocato dall’incertezza dei confronti edelle competizioni. Solo Csikszentmihalyi (1975) ha fatto ricorso a questo quadro teorico per studiare la

motivazione in attività quali la danza, la scalata o il football. L’esperienza dell’individuo intali situazioni é “olistica”, inglobante e risulta da un investimento totale nell’attività. Questostato, che l’autore denomina flow, si caratterizza con una centrazione quasi esclusiva sullesensazioni corporee che si risentono come un “distacco” a riguardo degli obiettiviestrinseci all’attività. Secondo Csikszentrnihalyi, i bambini sono naturalmente inclini adentrare in questo stato di flow e provarne piacere, ma la pressione educativa e sociale chesi esercita su essi li svia progressivamente dal divertimento e dalla scoperta per orientarliverso una ricerca del risultato e dell’efficacia.Il livello medio di attivazione associato ad effetti gradevoli fluttua secondo le personalità ecerte persone “tollerano” un grado più elevato di dissonanza che altre. Situazioni vissutecome stressanti da qualcuno a causa della competizione, rischi corporei incorsi ocarattere inedito delle sensazioni risentite possono essere giudicate gradevoli e stimolantida altri. Secondo NcReynolds (1964) esiste per ogni individuo un tasso di “innovazionecognitiva” propria a ciascuno: il PIR (preffered innovation rate). Ciascuno utilizza unrepertorio di attività (tra i quali il gioco e lo sport) per stabilire e mantenere la quantitàattuale di dissonanza approssimativamente al livello di questo tasso ottimale.Non si può che rimpiangere la rarità dei lavori sperimentali utilizzanti questo quadroteorico per analizzare la motivazione dei giovani sportivi. Sarebbe soprattuttointeressante studiare se esiste realmente una riduzione con l’età del “bisogno didissonanza” e della “tolleranza alla dissonanza” come te pensa Csikszentmihalyi. In altritermini, bisognerà assicurarsi se la pratica sportiva nel bambino é. maggiormente motivataintrinsecamente che nell’adulto e se c’è effettivamente un’incompatibilità tra obiettivirilevati da una ricerca dell’efficacia ed obiettivi più edonostici o ludici. 7. BISOGNO DI AFFILIAZIONE E MOTIVAZIONE DEL GIOVANE SPORTIVO Murray ha denominato “tropismo sociale” o “bisogno di affiliazione” la tendenza dell’uomoa stabilire dei contatti e a ricercare delle relazioni affettive con altri. In seguito questobisogno di affiliazione é stato concettualizzato come una ricerca di accettazione sociale(Atkinson et al., 1954) costituita da due tendenze: il desiderio di affiliazione e la paura delrifiuto da altri (Boyatzis, 1953). In un suo studio sugli antecedenti e le conseguenzedell’affiliazione, Schachter (1959) nota che questa ricerca di altri, questo “gregarismo” puòessere sia l’obiettivo stesso del comportamento (e costituire il suo motivo), sia un mezzodi raggiungere un fine qualsiasi (per giocare a handball bisogna prima integrarsi in unasquadra). Nella sua rimarchevole sintesi sulla motivazione umana, Nuttin (1980) avanzal’idea che esisterebbe un doppio orientamento delle condotte: l’una in direzione di sestesso mirante all’auto-costruzione e allo sviluppo del “self”, l’altra, che é un “movimentoverso l’oggetto”, avrà per bersaglio differenti oggetti esterni, tra i quali gli obiettivi socialiche occupano un posto particolare.Il carattere indispensabile di questo impegno verso altri é ben conosciuto e non é utile, perdimostrarlo, richiamare qui i lavori classici sulle carenze affettive o l’attaccamento nelbambino e nell’animale.Come per i lavori relativi al bisogno di realizzazione, la ricerca si é orientata in questosettore verso un approccio cognitivista ed ha a poco a poco abbandonato il modelloomeostatico ereditato dalla fisiologia.(1) È così che si mette essenzialmente oggi l’accentosull’immagine di se stesso che l’individuo offre agli altri. L’uomo si interessa al più altopunto alle opinioni, tendenze, sentimenti degli altri al suo riguardo e agisce non solamentein funzione di questa immagine, ma con lo scopo di lavorarla a suo gusto (Nuttin, 1980).L’interazione sociale può prendere differenti forme che variano con la natura dellerelazioni e degli oggetti sociali che ne sono il bersaglio: relazioni amorose, amore filiale oparentale, amicizia, cameratismo, collaborazione, frequentazioni episodiche, incontri quasialeatori, ecc. Noi non ci interesseremo che a certe forme d’interazioni forti che sistabiliscono tra giovani praticanti in seno ad un club di sport, soprattutto l’amicizia e lacollaborazione.

Queste relazioni hanno un’importanza certa per i bambini, come mostra la figura 3 chepresenta l’evoluzione con l’età delle diverse forme di motivazione fino a qui riportate. Per dei giovani praticanti, la “motivazione sociale” ed il divertimento hanno più importanzache le ricompense e la ricerca dell’efficacia. Questo studio pone tre questioni essenziali inquesto settore: la prima concerne il ruolo delle ricompense ed il loro effetto sullamotivazione intrinseca; la seconda riguarda il carattere esclusivo o cumulativo di questeforme della motivazione; la terza parte riguarda il fatto che la designazione “motivazionesociale” é troppo vaga ed imprecisa e richiede un affinamento. I due primi punti farannol’oggetto di un’analisi particolare; per ora noi proviamo a precisare ciò che possono esserela funzione ed il significato di questa motivazione sociale nei giovani praticanti. Percomodità dell’analisi, noi distingueremo la ricerca delle relazioni amicali in seno ad un clube della ricerca dell’efficacia collettiva negli sport di gruppo, sebbene queste due formed’interazione e di relazioni interpersonali non siano totalmente separate.

1 ) Il modello omeostatico della motivazione é quello che si impiega per spiegare i grandibisogni organici quali la fame e la sete. Si basa sul principio secondo il quale l’individuosopravvive a condizione che i costituenti del suo ambiente interno siano costanti, simantengano in un certo limite. È la percezione di una differenza tra i tassi attuali e dellenorme specifiche che provoca i comportamenti miranti a ristabilire l’omeostasi o l’equilibriotransitoriamente perturbato. Invece i modelli cognitivisti non postulano l’esistenza di unosquilibrio iniziale e mettono l’accento sul ruolo del futuro e degli obiettivi nell’innesco enella regolazione dei comportamenti. Si dice sovente che questi sono dei modelli “Attesa-valore” perché la condotta vi é studiata in funzione delle conseguenze attese dell’azione(delle aspettative) e dei valori associati a queste attese.

a) Le relazioni amicali tra giovani sportivi

L’elemento più importante che deriva dalle ricerche sulle interazioni e le relazioniassociative tra bambini, é la loro evoluzione qualitativa con l’età ed il carattere moltotardivo dell’apparizione della forma “matura” dell’amicizia. Nei più giovani l’intimità, lafiducia, la confidenza ed il segreto non sono costitutivi delle relazioni amichevoli, cheappaiono, d’altronde, molto instabili e strettamente legate al compito realizzatocongiuntamente (Berndt, 1982; Yoniss, 1980). Non è solo all’inizio dell’adolescenza chequeste relazioni si stabiliscono sulla base della reciprocità, dell’uguaglianza e dellacooperazione. Nello stesso tempo esse si affrancano dalle attività praticate. È anche inquesto periodo che si allacciano relazioni con persone dell’altro sesso e che l’amiciziadiviene più costante (Bigelow e La Gaipa, 1980; Rubin, 1980). Infine l’ultimo aspetto dasottolineare é la rassomiglianza tra gli amici (Ball, 1981) che hanno gli stessi gusti, glistessi atteggiamenti a riguardo della scuola e di diversi altri centri d’interesse.È probabile che questa evoluzione qualitativa corrisponda a cambiamenti più profondi a

livello delle determinanti di queste relazioni di amicizia. Secondo Festinger et al. (1952),la partecipazione alla vita di un gruppo obbedisce a due categorie di motivi: la ricerca diun’approvazione o di uno statuto sociale e, complementariamente, la ricercadell’anonimato, di una forma di sommersione all’interno del gruppo. Sembra che ibambini giovani ricerchino essenzialmente questa fusione nel gruppo, mentre gliadolescenti mantengono una problematico complessa di differenziazione e diidentificazione.La teoria della dissonanza cognitiva propone un modello dei processi responsabili diquesta affermazione di sé in rapporto con altri (Festinger, 1954). Questi “processi dicomparazione sociale” funzionano secondo lo stesso principio della riduzione delladissonanza già descritta: ciascuna volta che un individuo si sente differente dagli altri, eglipercepisce una dissonanza che prova a sopprimere. Questo modello, che ha ricevuto unbuon numero di validazioni sperimentali, spiega i risultati delle ricerche sull’influenza delgruppo nei giudizi percettivi, la scelta di amici somiglianti e delle decisioni di differentiordini, ma non rende conto delle condotte che mirano, come diceva Wallon, a “porsiopponendosi”. Bisogna forse concepire questo atteggiamento come la ricerca di unacerta dose di dissonanza, nella stessa maniera che le condotte ludiche corrispondonoall’istituzione di un certo grado di attivazione.Nessun dubbio che la vita di club costituisce un insieme di occasioni dove si affermaquesta dialettica dell’identità e della differenza (Duquin, 1979). Il processo di valutazionesociale vi gioca certamente un ruolo centrale nella misura in cui le comparazioni con gli“Altri similari” di cui parla Festinger (1954) vi sono frequenti. Nelle ragazze questoprocesso riveste molto meno un aspetto competitivo che nei ragazzi.Tuttavia queste relazioni amichevoli possono stabilirsi sia con fini di valutazione sociale (emettere in gioco dei processi e delle rappresentazioni comparabili a quelle che sono statedescritte nella parte dedicata alla competenza percepita), sia con fini più affettivi esentimentali (e riposare su una divisione di segreti, di emozioni, di ricordi). Non èimpossibile che due atteggiamenti distinti possano manifestarsi a questo riguardo. Martens (1970) si é riproposto di valutare le performance ed il grado di soddisfazionedei giovani sportivi membri di squadre caratterizzate da una forte motivazione direalizzazione (investimento sull’attività sportiva stessa) o una forte motivazione diaffiliazione (investimento sulla vita associativa e le relazioni amichevoli). I risultatimostrano che le squadre con alta motivazione sociale hanno di meno buoni risultati, mapresentano un indice di soddisfazione, associato con l’attività praticata, più elevato che lealtre squadre.

b) Pratica collettiva e motivazione dei giovani sportivi

La dimensione collettiva é presente e pregiante nello sport sia perché essa é in aggiuntasotto forma di competizione interclub in sport per natura individuali, sia perché essacostituisce la “logica interna” di certe discipline, organizzate in reti d’interazioni sociali(Parlebas, 1980). Secondo Alderman e Wood (1976) questa ricerca collettivadell’efficacia é una determinante di base nello sportivo. Orlick (1980) considera che unadelle esperienze più gratificanti di un giovane praticante é far parte di una squadra emirare a prestazioni collettive elevate.Questo aspetto della pratica é stato abbastanza poco studiato nel bambino: si sonomaggiormente analizzate le caratteristiche delle squadre sportive, le reti d’interazioni nelsuo seno, la coesione del gruppo o il tipo d’interazioni tra giocatori, che la motivazione aperseguire degli obiettivi sportivi comuni.Carron (1980) descrive due componenti della dinamica di una squadra: l’orientamentoverso degli standard o dei fini collettivi e la costruzione della coesione del gruppo. Questadistinzione è certamente artificiale nella misura in cui la coesione della squadra non puòcostruirsi che in relazione ai suoi obiettivi, che sono essi stessi definiti in funzione diquesta coesione: é chiaro che buoni risultati permettono di “unire” i membri di unasquadra e che performance elevate sono realizzate solo se esiste una buona dinamicacollettiva. Zander (1978) ha sviluppato un modello della motivazione alla realizzazione nel

gruppo, che conferma la stretta intricazione di questi due orientamenti: la competenzapercepita gioca qui ugualmente un ruolo regolatore, ma essa si costruisce sulla base diobiettivi comuni. Essa é correlativa di un alto “orgoglio a riguardo del gruppo”, di unsentimento di fierezza di farne parte. Il buon funzionamento della squadra e lasoddisfazione dei suoi membri necessitano che essi non perseguano obiettivi personali,ma che questi obiettivi si confondano con quelli della squadra. È poco probabile che ibambini molto giovani siano capaci di questa forma di apertura su altri, come indicano ilavori relativi allo sviluppo delle condotte di competizione. Sarebbe nondimeno utilestudiare questi comportamenti sotto l’angolo della motivazione; una tale ricerca potrà darsicome assi principali i due punti seguenti: – l’importanza relativa degli obiettivi personali e collettivi nel bambino e correlativamente l’evoluzione delle relazioni tra il sentimento di competenza individuale e la fierezza ariguardo del gruppo; – il grado e la natura della coesione delle squadre sportive con praticanti di differenti età.