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Note e discussioni
Modelli di famiglia nella realtà italianadi Gloria Chianese
La storiografia sulla famiglia inizia a conseguire anche in Italia risultati interessanti. Essa è stata profondamente influenzata dalla produzione che soprattutto in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, si è avuta negli anni settanta.
Ad una fase di riflessione sui nodi tematici e le proposte metodologiche dei differenti indirizzi stranieri, è seguito, infatti, l’avvio di numerose ricerche, incentrate principalmente su realtà dell’Italia centro-settentrionale, di cui è possibile oggi trarre un primo bilancio.
In particolare il volume di Marzio Barbagli, Sotto lo stesso tetto, Mutamenti della famiglia in Italia dal X V al X X secolo (Bologna, Il Mulino, 1984) e l’antologia curata da Agopik Manoukian, I vincoli familiari in Italia dal secolo X I al secolo X X (Bologna, Il Mulino, 1983) consentono di avere un quadro completo delle indagini condotte, di cogliere la ricchezza dei risultati conseguiti ed infine di iniziare un confronto tra lo sviluppo storico della famiglia in Italia e gli altri modelli europei. Peraltro, entrambi gli studiosi hanno curato in precedenza la pubblicazione di ampie rassegne della storiografia straniera nei suoi diversi approcci: analisi demografico-quantitativa, genesi e dinamica delle relazioni familiari, storia dei sentimenti ecc.1.
Anche per il caso italiano gli indirizzi me
todologici sono assai differenziati e si muovono in un ambito tematico molto vasto e complesso di cui, soltanto a mo’ di indicazione, si suggeriscono quattro nuclei prioritari: la struttura familiare, il sistema di relazioni, i processi di mutamento, il rapporto tra famiglia ed ambiti istituzionali. L’arco temporale è molto ampio perché le indagini si muovono tra età moderna e contemporanea. Ovviamente è scartato ogni criterio di successione cronologica, mentre, invece, ciò che interessa conseguire è la dimensione diacronica dei problemi scandagliati.
Il libro di Barbagli presenta, tutto sommato, una maggiore organicità e consente di trarre alcune prime conclusioni sulla configurazione della microstruttura familiare. Un primo ordine di problemi investe la tipologia dell’aggregato domestico e ciò rimanda necessariamente al dibattito sui criteri di definizione dei modelli ed, in particolare, alle tesi di Peter Laslett e del Cambridge Group for the study o f population and social structure. Come è noto, essi ipotizzano per l’Inghilterra, e più in generale per l’Europa nord-occidentale la permanenza, nel lungo periodo, di un modello familiare nucleare, che ha avuto come tratti distintivi la neo-località, il matrimonio tardivo, il life cycle servants.
1 Cfr. Agopik Manoukian, Famiglia e matrimonio nel capitalismo europeo, Bologna, Il Mulino, 1974 e Marzio Barbagli, Famiglia e mutamento sociale, Bologna, Il Mulino, 1977.
“Italia contemporanea”, settembre 1986, n. 164
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Barbagli ritiene che tale schema non sia applicabile alla famiglia italiana perché, sia in età moderna che contemporanea, si è avuta la compresenza di aggregati domestici complessi e semplici, che hanno, di volta in volta, riflesso la dicotomia città-campagna ed i processi di differenziazione delle classi sociali. Il caso più significativo è costituito dalla lunga permanenza della famiglia complessa nelle campagne di alcune regioni del centro-nord, permanenza che lo studioso pone in rapporto, anche se non in termini esclusivi, con il sistema di conduzione mezzadrile. Tra i mezzadri, ed anche in alcuni settori di salariati fissi, come ad esempio i boari, l’aggregato esteso era diffusissimo fino agli ultimi decenni dell’Ottocento. Alla fine del secolo, in concomitanza con i processi di proletarizzazione agricola, iniziò la fase di crisi che ebbe una lunga gestazione. Attenuatasi durante il fascismo, si è esplicitata pienamente soltanto nel ventennio 1950-1970.
I problemi connessi con la configurazione della struttura familiare sono analizzati quindi partendo dall’ipotesi che non sia esistito un modello egemone né, tanto meno, che vi sia stato un passaggio lineare dalla famiglia complessa a quella nucleare.
Così è possibile riscontrare che in età moderna nelle realtà urbane erano presenti entrambe le strutture. L’aggregato semplice era diffuso tra i ceti artigiani, quello complesso tra i ceti aristocratici e mercantili. Lo studioso, per dimostrare tale asserzione, si richiama in primo luogo alla ricerca di D. Herlihy e C. Klapisch-Zuper sulla Firenze rinascimentale, che prende in esame il catasto del 1427 in Toscana2. Il discorso viene poi esteso ad altre tre città del centro-nord: Sie
na, Parma, Verona, per le quali è possibile fare riferimento a precise rilevazioni, quali i censimenti della popolazione di Siena e di Parma, rispettivamente nel 1560 e nel 1545 nonché i libretti anagrafici di Verona del 1545. Pur avendo una configurazione demografica ed economica differenziata, tutte le tre realtà urbane confermano “una relazione positiva tra ceto sociale di appartenenza e grado di complessità della struttura familiare” (p. 170). Alle medesime considerazioni giunge anche Diane Owen Hughes, che prende in esame la famiglia genovese nel Basso Medioevo, in un saggio incluso nell’antologia di A. Manoukian3.
L’analisi dei modelli strutturali pone in risalto, come prima conclusione, il forte legame tra famiglia e collocazione sociale. Ma, anche in questo caso, il discorso non è schematico perché tiene conto di un insieme di differenziazioni e di controtendenze. Ad esempio, Barbagli ricorda che il modello di famiglia nucleare — e non l’aggregato domestico esteso — era diffuso tra i ceti bracciantili del Mezzogiorno e pone in rapporto tale caratteristica con l’assetto latifondista delle campagne. A differenza di quanto avveniva con il mezzadro, il rapporto di lavoro sussisteva infatti con il singolo bracciante e non con l’intera famiglia contadina.
L’analisi della configurazione degli aggregati domestici non consente quindi ipotesi di generalizzazioni, ma sollecita l’approfondimento delle specificità spaziali e temporali; all’interno di questo ambito tematico si colloca un secondo terreno di indagine che investe i processi di trasformazione dell’assetto familiare nel medesimo ceto sociale. Prendiamo il caso della famiglia aristocratica. Il modello complesso è stato una tenden-
2 Cfr. D. Herlihy e C. Klapish-Zuper, Les Toscans et leurs familles. Une étude du catasto florentine de 1427, Paris, Presses de la Fondation nationale de sciences politiques, 1978.3 Diane Owen Hughes, Sviluppo urbano e struttura della famiglia a Genova nel Medioevo, in A. Manoukian, cit., pp. 85-109.
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za di lungo periodo, che ha registrato, però, al suo interno, elementi di diversità. Barbagli segnala che in età moderna si è avuto un incremento delle famiglie multiple verticali, che è da porsi in relazione con raffermarsi degli istituti del maggiorascato e del fede- commesso. In precedenza, invece, era prevalso un modello di struttura complessa in senso orizzontale, che nel sistema ereditario tendeva a favorire buona parte dei figli e non soltanto la famiglia del primogenito.
Il problema del mutamento sussisteva anche per la famiglia artigiana dove, come si è detto, era maggiormente diffuso l’aggregato domestico nucleare. In questo caso, nel lungo periodo, non mutava la tipologia, bensì una sua caratteristica importante e cioè, il life cycle servants. A partire dal Cinquecento, infatti, si modificava la composizione del personale di servizio che, fino ad allora, era stato composto da giovani di entrambi i sessi, per lo più di età tra i quindici ed i venticinque anni. Nei ceti artigiani, ma anche in quelli agricoli, vi era la consuetudine che i figli andassero a servizio e ciò permetteva loro di creare le condizioni economiche per il successivo matrimonio, che avveniva in età più elevata, a confronto con le fasce giovanili degli altri gruppi sociali. Questa caratteristica presentava alcune analogie con quanto riscontrato da Laslett nell’aggregato domestico agricolo inglese, in cui lavoro a servizio e matrimonio tardivo erano profondamente connessi. In Inghilterra tale processo si mantenne costante, mentre in Italia si registravano, come si è detto, profondi mutamenti. Tendeva a scomparire la figura del garzone, in seguito alla differenziazione tra funzioni produttive e domestiche che maturava nella famiglia artigiana ed inoltre diminuiva la quota dei servi maschi giovani, mentre cresceva la presenza femminile.
Lo studioso riconduce tutte queste trasformazioni ad una diversa configurazione della famiglia artigiana ed, anche, all’ampliamento del ruolo dello stato che, pro
gressivamente, tendeva a svolgere funzioni in precedenza esercitate dalla famiglia: “Fuori della famiglia tendevano cioè a venire spostate sia le attività produttive che quelle riguardanti il trasporto dei suoi membri, la comunicazione delle loro corrispodenze, l’istruzione dei loro figli” (p. 233). La domanda di personale di servizio veniva così probabilmente a contrarsi. Mutamenti e trasformazioni avvenivano dunque anche nei ceti sociali in cui la struttura della famiglia registrava una maggiore staticità. Il modello entrava in crisi nel momento in cui risultava superato da un nuovo assetto economico-so- ciale. Lo stesso retroterra ideologico, che cementava la rete di relazioni familiari, veniva così ad infrangersi. Anche in questo caso le scansioni temporali erano differenziate a seconda dei ceti sociali.
La famiglia estesa aristocratica maturava le proprie crisi alla fine del Settecento. Aboliti gli istituti del maggiorascato e del fede- commesso, iniziava ad affermarsi il modello nucleare e la trasformazione dell’assetto strutturale coincideva con una profonda modifica degli schemi culturali, in quanto tendevano a svilupparsi codici di comportamento tipici della famiglia coniugale intima. Barbagli sottolinea la coincidenza dei diversi processi, che è possibile cogliere soltanto nei settori aristocratici e di ricca borghesia urbana.
Tutt’altro discorso è da farsi per la famiglia estesa nelle campagne, dove i mutamenti hanno avuto una lentissima gestazione. La prolungata stabilità della famiglia contadina rimanda ad alcune caratteristiche dello sviluppo economico del paese ed, in primo luogo, alla commistione tra attività agricola e lavoro di fabbrica che è stata propria della classe operaia italiana per tutta una lunga fase del processo di industrializzazione. Di conseguenza nelle campagne l’affermazione del modello nucleare ha incontrato molte resistenze. Una significativa controtendenza si è avuta negli ultimi decenni dell’Ottocento
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quando all’incremento nelle aree settentrionali degli strati bracciantili ha corrisposto un qualche sviluppo dell’aggregato domestico nucleare. Ma in realtà la crisi della fami-’ glia estesa si è avuta soltanto successivamente, allorché le caratteristiche dello sviluppo industriale hanno favorito la netta separazione tra città e campagna per cui la famiglia contadina, come microstruttura economica e culturale, non ha avuto più ragione di riproporsi. Inoltre, negli strati agricoli l’adozione dei comportamenti della famiglia coniugale intima è stata ancora più tardiva e non ha seguito le trasformazioni strutturali. Ciò è avvenuto anche in quelle fasce, come ad esempio, i braccianti meridionali, dove l’aggregato nucleare ha avuto una più antica diffusione. Le matrici di tali processi sono da ricercare su un piano più propriamente culturale e ciò rimanda alla necessità di sviluppare ulteriori indagini sullo sviluppo storico della famiglia nel Mezzogiorno4.
L’indagine quantitativa, che occupa soltanto una prima parte del volume Sotto lo stesso tetto, conferma quindi la compresenza nel lungo periodo di diversi modelli di aggregato domestico che sono in rapporto alla configurazione delle classi sociali e subiscono variazioni anche all’interno della propria struttura. Le conclusioni del Barbagli, così attente ad evidenziare gli elementi di differenziazione, inducono a considerare con qualche perplessità l’analisi recentemente elebora- ta da Laslett e dagli altri storici del Cambridge Group for the study of population per la realtà italiana. Nel saggio collettaneo Forme di famiglia nella storia europea viene effettuata un’indagine comparata tra tipologie
familiari di diverse aree europee, che arricchisce, ed in parte modifica, la tesi della lunga permanenza del modello nucleare nell’Europa nord-occidentale.
In particolare il Laslett definisce quattro ambiti geografici che hanno caratteristiche differenti nel processo di formazione delle strutture familiari: area nord-occidentale, intermedia, mediterranea ed orientale5. Utilizzando come indicatore l’unità residenziale egli mette a confronto gli aggregati domestici di Elmdom (Inghilterra, 1861), Grosseenmer (Austria, 1885), Bologna e Fa- gagna (Italia, 1853), Krasnoe Mishino (Russia, 1859).
Il caso italiano è analizzato attraverso due realtà di famiglia contadina presenti nell’Italia nord-orientale a metà Ottocento; lo studioso ritiene possibile, in base a tali limitate fonti quantitative, definire gli elementi salienti del modello mediterraneo, che sarebbe caratterizzato dalla struttura estesa, dall’ampiezza media non eccessivamente elevata, dal matrimonio precoce, dal basso tasso di neo-località. Se il campo d’indagine risulta troppo ristretto per trarre delle conclusioni generalizzabili, il discorso è invece più stimolante sul piano dell’approccio metodologico. L’analisi quantitativa, condotta nei diversi saggi del volume, appare molto sofisticata sia per il tipo di fonti prescelte sia per l’ampia problematica, che pone in rapporto i processi costitutivi delle strutture familiari con le tendenze demografiche e le variabili socio-economiche. Non soltanto sono presi in esame i censimenti e le liste nominative, ma si ricorre a fonti ancor più particolareggiate, come gli elenchi seriali, la revisione delle anime ed i registri di aggregati domesti-
4 Sul problema interessanti anche le notazioni di Pier Paolo Viazzo, in // Cambridge Group e la ricerca storica sulla famiglia, in Richard Wall, Jean Robin, Peter Laslett, Forme di famiglia nella storia europea, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 9-27, che rilevano l’atipicità del modello nucleare diffuso nel Mezzogiorno, caratterizzato dal matrimonio precoce, a differenza di quanto avveniva in altre realtà come, ad esempio, l’Inghilterra.5 Cfr. P. Laslett, La famiglia e l ’aggregato domestico come gruppo di lavoro e gruppo di parenti: aree nell'Europa tradizionale a confronto, in R. Wall, L. Robin, P. Laslett, Forme di famiglia, cit., pp. 253-304.
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ci, utilizzati, rispettivamente, nell’analisi del modello austriaco e russo6.
L’approccio quantitativo consente di definire la configurazione della struttura familiare, anche se solleva alcuni problemi a cui gli studiosi danno risposte diverse. Ad esempio, per definire l’ampiezza dell’aggregato domestico, Laslett e Wall usano come criterio di classificazione la coresidenza, mentre, invece, Hajnal7 prende in esame il numero di coloro — parenti e servi — che consumano abitualmente il pasto in comune. I diversi studiosi sono invece concordi nel definire la famiglia contadina come unità lavorativa e di consumo. Il Laslett enumera tutte le variabili che rendono possibile, nella società preindustriale, tale ruolo produttivo, costruendo una tipologia, che però, come egli stesso avverte, ha avuto nello sviluppo storico numerose controtendenze.
Inoltre, avendo presente, in particolare, la realtà delle campagne inglesi, appare critico verso la tesi di Chayanov, per il quale “la dimensione della famiglia e le condizioni demografiche determinano la dimensione dell’impresa agraria” (p. 293). Tale correlazione gli appare schematica perché le capacità lavorative della famiglia contadina sono da porre in rapporto non soltanto con la sua ampiezza, ma anche con il numero di adulti presenti e con le modalità di conduzione del fondo agricolo.
Il discorso si ripropone nei medesimi termini per l’Italia. Non a caso Carlo Poni ha sollevato analoghe obiezioni a proposito della famiglia mezzadrile emiliana, ribadendo l’opportunità di non limitare esclusivamente l’analisi all’ampiezza dell’aggregato domestico o alla estensione del fondo8.
Infine Laslett registra alcune diversità anche nei comportamenti familiari. Poteva, ad esempio, mutare l’importanza attribuita alla trasmissione ereditaria del fondo. Così avveniva che in alcune aree come quelle orientale, mediterranea ed intermedia, essa costituiva il cardine della mentalità contadina, mentre invece, in altre zone (torna qui il discorso sull’Inghilterra), la terra veniva venduta, oppure alcuni parenti trovavano lavoro al di fuori della famiglia. La minore rigidità del vincolo familiare si accompagnava ad una maggiore domanda lavorativa sicché, in alcuni casi, il fondo poteva anche non essere ereditato.
Il Laslett e gli altri studiosi, utilizzando gli strumenti propri dell’indagine quantitativa, riescono ad andare oltre un’analisi prettamente demografica della famiglia contadina.
Problemi come le strategie matrimoniali e il sistema d’ereditarietà sono visti alla luce della sua configurazione economica e cioè del ruolo che essa svolge come unità produttiva e di consumo. Per il caso italiano l’analisi è appena accennata, ma costituisce, comunque, un utile contributo alle ricerche di Barbagli, che, invece, come si è visto, utilizza come indicatore soltanto l’ampiezza dell’aggregato domestico.
L’approccio quantitativo appare nel suo insieme assai stimolante per definire le caratteristiche demografiche ed economiche delle molteplici forme familiari. Esso, invece, come è noto, è stato ritenuto poco efficace per indagare ambiti che investono i ruoli, le relazioni familiari o, ancora, le scelte emotive e sentimentali. La polemica non è recente ed è quindi ovvio che anche gli storici ita-
6 Cfr. Reinhard Sieder e Michael Mitterauer, La ricostruzione del corso di vita della famiglia: problemi teorici e risultati empirici, e Peter Czap jr., Una famiglia numerosa: la più grande ricchezza del contadino: gli aggregati domestici dei servi della gleba di Mishino in Russia 1814-1858, in Forme di famiglia, cit., pp. 193-230 e pp. 143-191.7 John Hajnal, Due tipi di formazione dell’aggregato domestico preindustriale, in Forme di famiglia, cit., pp. 99-142.8 Carlo Poni, La famiglia e il potere in Emilia-Romagna, in A. Manoukian, I vincoli familiari in Italia, cit., pp. 289-311.
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liani ne siano stati influenzati ed abbiamo prescelto più direzioni di ricerca.
Sempre nel volume di Barbagli, ad esempio, troviamo molte pagine dedicate all’analisi dei comportamenti, ai vincoli parentali ed ai processi di trasformazione. Lo studioso, in sintonia con altri storici stranieri che hanno indagato, per lo più, realtà inglesi e francesi9, ritiene che il nodo prioritario sia il passaggio dal modello patriarcale a quello coniugale intimo. Propone un’analisi sociolinguistica, che utilizza come fonti i carteggi e le interviste, a seconda se si esaminano i comportamenti delle famiglie aristocratiche o quelli dei ceti popolari. Anche per tali tematiche quindi non sono esclusi gli strumenti dell’indagine statistica, ed in particolare è adoperato, come variabile significativa, il tipo di allocutivo prescelto nei rapporti familiari. L’adozione del tu tra i coniugi e tra genitori e figli è indicata come segnale di un più ampio mutamento che vede l’affermazione della moderna rete di relazioni. La datazione è diversa a seconda delle classi sociali. Nella famiglia aristocratica lo sviluppo di nuovi comportamenti coincideva con la crisi della struttura estesa. Il processo iniziava intorno alla fine del Settecento, sull’onda delle profonde trasformazioni economiche e politiche del periodo, e si affermava con la generazione nata nel ventennio tra il 1820 ed il 1840.
Il mutamento era più rapido tra coniugi e tra fratelli, mentre si realizzava con maggiore difficoltà tra genitori e figli. Per giungere a tali conclusioni sono presi in esame i carteggi di ben 134 famiglie aristocratiche e l’autore osserva che, insieme con la diffusione dell’uso del tu, “si aveva anche una ten
denza alla frammentazione ed alla moltiplicazione dei nomi propri, ad usare cioè più nomi, soprannomi, diminutivi, vezzeggiativi” (p. 325).
Nella famiglia aristocratica le nuove consuetudini linguistiche si accompagnavano a mutamenti profondi dei comportamenti. Tendeva a ridursi la differenza d’età tra i coniugi ed iniziava a contrarsi il numero dei figli, nei confronti dei quali venivano adoperate nuove pratiche educative, come ad esempio l’allattamento materno e l’abbandono delle fasce.
Una funzione d’avanguardia ebbero in tale processo i gruppi illuminati dell’aristocrazia e della borghesia ricca e molto efficaci risultano le pagine del volume, in cui si illustra il rapporto tra Pietro Verri e la figlia neonata, allevata con metodi pedagogici profondamente rivoluzionari per la mentalità del tempo. La configurazione dei ruoli nella famiglia aristocratica è presa in esame anche in diversi contributi del libro a più voci curato da A. Manoukian.
Il sistema di relazioni tra coniugi, figli e fratelli non è indagato nella sua interezza, ma è posto in rapporto con un particolare aspetto della vita familiare. Si preferisce, infatti, privilegiare l’analisi di un momento specifico dei rapporti e delle dinamiche esistenti, che viene inteso come chiave di lettura utile a comprendere l’intera rete dei vincoli parentali. Alcuni studiosi, ad esempio, prendono in esame le strategie matrimoniali. Sono così analizzati i casi della famiglia aristocratico-mercantile lucchese nel 1500, di quella patrizia milanese nei secoli XVII e XVIII ed, ancora, di quella veneta nella seconda metà del Settecento10.
9 Cfr. Edward Shorter, Famiglia e civiltà, Milano, Rizzoli, 1978; Elisabeth Badinter, L ’amore in più. Storia dell’amore materno, Milano, Longanesi, 1980; Jean-Louis Flandrin, Amori contadini, Milano, Mondadori, 1980.10 Cfr. Marino Berengo, La famiglia mercantile lucchese, in A. Manoukian, I vincoli familiari in Italia, cit., pp. 217-234; Dante E. Zanetti, La famiglia patrizia milanese, ivi, pp. 235-245 e Gaetano Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, ivi, pp. 195-213.
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I diversi saggi sono concordi nel confermare la prolungata adozione del modello patriarcale, che era il più consono a tutelare gli interessi della casata. L’autorità dell’uo- mo-padre era assoluta e ciò scaturiva sia dalle norme sociali che regolavano il matrimonio aristocratico, sia dalla totale subalternità che modellava il rapporto tra genitori e figli. Il destino di questi ultimi — uomini e donne — era deciso nel quadro di una rigida strategia familiare. Lo stesso primogenito, a cui gli istituti del maggiorascato e del fede- commesso attribuivano una condizione di assoluto privilegio, ne usufruiva soltanto dopo la morte del padre e non al momento del matrimonio.
I vincoli familiari nell’aristocrazia e nella ricca borghesia erano quindi rigorosamente codificati. Eppure, esistevano degli interstizi che consentivano qualche chances alle scelte individuali. Molto interessanti, a tal proposito, appaiono le osservazioni del Cozzi sui matrimoni segreti e clandestini11. I primi costituivano una forma di mediazione e venivano tollerati perché non intaccavano lo status ed il patrimonio familiare, i secondi, invece, rappresentavano un atto di vera e propria rottura con i codici aristocratici. La loro diffusione a Venezia, sul finire del secolo XVIII, costituiva un segnale di crisi ed esprimeva l’insofferenza dei giovani, influenzati dalla cultura illuminata, verso l’autorità paterna. Il Cozzi osserva inoltre che i matrimoni clandestini erano duramente repressi soltanto nei ceti aristocratici, mentre invece erano tacitamente consentiti nelle altre classi sociali, dove non acquisivano il medesimo significato sovvertitore.
L’analisi delle scelte di mediazione o dei comportamenti di ribellione, che potevano insinuarsi nella rigida rete dei vincoli parentali, contribuisce a mitigare un quadro eccessivamente statico delle strategie familiari,
che finisce con l’essere tutto scandito dalle motivazioni economiche ed assai poco incline a concedere un qualche spazio ai conflitti interpersonali.
Il discorso sulle famiglie dei ceti popolari risulta molto diverso. In primo luogo, come si è già detto, maturava assai più lentamente e con maggiore travaglio il passaggio dal modello patriarcale a quello coniugale intimo. Il Barbagli giunge a tale conclusione dopo aver elaborato i dati ricavati da un’inchiesta condotta su 801 donne, nate agli inizi del Novecento e vissute nelle regioni del centro-nord. Anche in questo caso il sociologo adopera come indicatore il tipo di allocutivo adoperato nel lessico familiare. Ne emerge una prolungata permanenza del voi nei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli ed, in misura ancora maggiore, tra parenti acquisiti. Tale consuetudine era diffusa non soltanto nelle famiglie dei mezzadri che, come si è visto, avevano una struttura complessa, ma anche nelle famiglie bracciantili ed operaie, dove vi era una maggiore presenza dell’aggregato domestico nucleare. Lo studioso ne conclude che non è possibile ipotizzare un rapporto meccanico tra modello familiare complesso ed egemonia della cultura patriarcale.
La crisi del sistema di relazioni tradizionali iniziò a delinearsi agli inizi del Novecento e fu influenzata, nella sua lunga gestazione, dagli effetti che lo sviluppo industriale ebbe sui comportamenti e sulle mentalità dei ceti popolari, incrinando la secolare unità economica della famiglia contadina. Il Barbagli tiene però a precisare che l’industrializzazione ha favorito la trasformazione e la modernizzazione dei vincoli parentali soltanto quando ha indotto lo sviluppo di fasce operaie che, pur essendo di provenienza agricola, tendevano a vivere stabilmente in città e quindi a spezzare i legami economici e cultu-
11 Cfr. G. Cozzi, Padri, figli e matrimoni clandestini, cit
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rali con il mondo delle campagne. La crisi del modello patriarcale implicava inoltre un diverso rapporto con la comunità perché tendeva ad attenuare il capillare e ferreo controllo che essa esercitava su tutti gli aspetti della vita familiare. Così non soltanto mutava il sistema di relazioni interne, ma sia pure lentamente, si trasformava anche il rapporto con il mondo esterno e tutto ciò ridisegnava antiche consuetudini, proprie del mondo contadino. Attraverso l’elaborazione delle interviste è infatti possibile penetrare all’interno del vissuto domestico ed osservare come nella famiglia operaia urbana fossero diverse le abitudini relative al consumo dei pasti o all’organizzazione del tempo libero.
Ciò che emerge non è uno schema dicotomico tra famiglia contadina ed operaia, ma piuttosto un lento processo che tende a ridefinire i ruoli ed il ritmo familiari. Si consideri, ad esempio, come la crisi del modello patriarcale segnasse il declino della composita gerarchia che sussisteva tra le numerose figure femminili della struttura complessa: suocera, nuora, figlia ecc. Nella famiglia operaia ed impiegatizia si affermava la tendenza alla neo-località. La donna era quindi sola nel suo spazio domestico anche se permanevano molteplici legami con i parenti d’origine. La percezione della vita familiare veniva così ad essere scandita dal ritmo lavorativo deH’uomo-marito e dalle mansioni domestiche e materne della donna-moglie.
Lo sviluppo della struttura nucleare nei settori operai non era in contrasto, ma anzi sollecitava il ruolo casalingo femminile. Questa conclusione sembra condividibile, anche se, probabilmente, è valida soprattutto per quelle fasi storiche in cui si è avuta una massiccia espulsione della manodopera femminile dal mercato del lavoro.
Sul medesimo problema torna Chiara Saraceno che, combinando fonti orali, documentazione archivistica e dati statistici, analizza la configurazione della famiglia operaia in una fase storica diversa e, cioè, durante il fascismo12. Le interviste effettuate confermano l’importanza del ruolo della donna nella cura e nell’allevamento infantile e nella manutenzione della casa. La scelta di “privatizzazione” era esaltata dalla propaganda del regime, ma a ciò non si accompagnava un accresciuto confort del lavoro domestico, processo che, invece, si andava delineando nella Germania nazista ed, in misura ancora maggiore, nell’America roosveltiana. La sociologia tende inoltre a puntualizzare che “il ritorno a casa” di molte operaie significava non la fine dell’esperienza lavorativa, bensì il loro ingresso nei mille rivoli dell’attività precaria. La vita “casalinga” della donna non appariva in contrasto con alcuni aspetti di modernizzazione della struttura familiare, quali la crescente diffusione della neo-località o la riduzione del numero dei figli. Essa era sostenuta e rafforzata dalla ideologia familista del regime che, a sua volta, si combinava con una più antica tradizione cattolica, tesa ad esaltare la naturalità dell’istituto familiare e del ruolo materno.
La Saraceno mette dunque a fuoco il rapporto tra lo sviluppo storico della famiglia negli anni trenta e le matrici culturali della ideologia fascista.
La sua indagine arricchisce l’analisi del Barbagli perché coglie un aspetto che questi accenna soltanto, vale a dire le connessioni tra la configurazione della struttura familiare e le coordinate ideologiche e culturali dell’organizzazione statale.
L’autrice tiene però a puntualizzare che la politica familiare dello stato non determina
12 Cfr. Chiara Saraceno, La famiglia operaia sotto il fascismo, in A. Manoukian, I vincoli familiari in Italia, cit., pp. 409-434. Il saggio è stato pubblicato con il medesimo titolo in La classe operaia sotto il fascismo, “Annali Feltrinelli”, 1979-80, Milano, Feltrinelli, 1981, pp. 189-230.
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di per sé i processi di trasformazione che sono invece generati da più complessi fattori socio-economici. Ad esempio, l’indagine demografica conferma che, nonostante la propaganda del regime, nelle grandi città del centro-nord si ebbe una costante tendenza alla contrazione del numero dei figli, tendenza, peraltro, già segnalata da Massimo Livi Bacci. La “intrusione istituzionale” avviene piuttosto in un ambito culturale in quanto l’ideologia promossa e sostenuta dall’organizzazione dello stato, attraverso i molteplici strumenti del consenso, influenza le scelte ed i comportamenti familiari e ne condiziona il sistema di relazioni.
Una metodologia ancora diversa di analisi della famiglia operaia ci è suggerita da Franco Ramella che, attraverso fonti d’archivio, esamina i rapporti familiari nel Biellese durante la fase di transizione dall’industria a domicilio al lavoro in fabbrica13. L’analisi demografica si combina con quella dei mutamenti del modo di produzione e la struttura familiare è inserita nei processi di crisi e di sviluppo dell’intera comunità. Il saggio si inserisce nel filone di studi storici, in cui i vincoli familiari costituiscono una variabile significativa dei processi economico-sociali e del retroterra culturale comunitario.
Il Ramella è attento soprattutto ai primi e ci propone una metodologia marxiana, in base a cui i processi produttivi influiscono sulle tendenze demografiche e, tutto sommato, anche sulla configurazione dei ruoli familiari.
Così l’autore dimostra che, nella fase del lavoro a domicilio, la famiglia estesa era la più consona a cementare una peculiare forma di economia familiare, dove l’attività agricola si combinava con quella manifatturiera. Tutto era destinato a mutare con lo
sviluppo del sistema di fabbrica e, in primo luogo, con l’avvento del filatoio meccanico. Alla lavorazione a domicilio — e quindi alla famiglia contadina — restava soltanto la fase della tessitura. Si determinavano processi di crisi nella comunità e nella famiglia, nella quale il capofamiglia diventava lavoratore salariato. Mutavano i sistemi ereditari che tendevano a privilegiare il primogenito maschio, diminuivano i matrimoni e soprattutto s’innalzava l’età dei coniugi. Le caratteristiche dello sviluppo industriale inoltre ostacolavano l’immissione della manodopera femminile perché, finché non fu meccanizzato l’intero processo produttivo, la domanda era rivolta quasi esclusivamente ai filatori specializzati e, cioè, a maestranze maschili.
Un’ultima notazione investe il rapporto tra padri e figli nella fabbrica. I bambini accompagnavano i genitori al lavoro non perché vi fosse richiesta di manodopera infantile ma, piuttosto, per un motivo più specificamente connesso con il retroterra culturale della comunità. Essi dovevano infatti “imparare il mestiere” e ciò confermava che nella mentalità dei filatori, nonostante l’avvento del sistema di fabbrica, continuava ad essere attribuita una grande importanza alla fase di apprendistato. Le ricerche di Barbagli, Saraceno, Ramella e, ancora, di Poni14 confermano che, pur nella diversità della metodologia prescelta, è possibile indagare le forme storiche della famiglia dei ceti popolari, in particolare nelle realtà operaie e contadine. I problemi sollevati sono numerosi ed investono più ambiti di ricerca: le connessioni con i processi economici e sociali, le influenze delle tendenze demografiche, i modelli culturali, il rapporto con l’organizzazione dello stato, le cause dei mutamenti e la loro scansione temporale. Mai la struttura
13 Franco Ramella, Famiglia, terra e salario in una comunità tessile dell’Ottocento, in A. Manoukian, I vincoli fa miliari in Italia, cit., pp. 265-287. Del medesimo autore è da segnalare anche Terre e telai: Sistemi di parentela e manifattura nel Biellese nell’800, Torino, Einaudi, 1984.14 Cfr. C. Poni, La famiglia contadina ed il potere in Emilia-Romagna, cit.
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e la rete di relazioni sono indagati come realtà in sé, autonome dai processi che investono gli altri gruppi sociali e ciò favorisce analisi di tipo comparativo.
Il più esplicito su questo versante è, ancora, Barbagli che, come si è già detto, analizzando le crisi del modello patriarcale e l’avvento della famiglia coniugale intima, sotto- linea che tale passaggio si realizzò in tempi molto più rapidi nelle fasce aristocratiche ed alto-borghesi che non nei ceti popolari e medi. Qui la tradizionale configurazione dei ruoli prevalse a lungo, talora anche successivamente alle trasformazioni strutturali. Lo studioso ne conclude che le matrici della lunga permanenza dell’ideologia patriarcale sono da ricercare in una sorta di subalternità culturale: “Se il modello patriarcale è sopravvissuto più a lungo nelle famiglie operaie ed in quelle dei ceti medi è anche perché (...) la posizione di classe influisce sulle relazioni familiari” (p. 520).
La spiegazione solleva più di un dubbio e sollecita ulteriori approfondimenti. Soprattutto resta da indagare la peculiarità delle espressioni emotive e sentimentali. Lo stesso
Barbagli, ad esempio, osserva che l’apparente distacco esistente nella famiglia patriarcale celava, in realtà, un consolidato vincolo affettivo. Tali nodi richiedono di essere analizzati attraverso un approccio storico, che privilegi l’ambito dei sentimenti, ma i due volumi di Barbagli e Manoukian restano al di qua di tale frontiera. Unica eccezione il saggio di una donna, Franca Olivetti Manoukian, che propone una lettura in chiave psico-sociologica di quattro romanzi editi nell’ultimo ventennio dell’Ottocento15.
Attraverso l’analisi storico-letteraria di alcuni percorsi individuali, l’autrice vuole ricercare le forme deH’immaginario collettivo, che condizionano l’ambito emotivo e sentimentale delle dinamiche familiari. L’analisi è suggestiva perché permette di indagare i livelli di trasgressione e di conflitto che sedimentano nella rete dei vincoli parentali. Ne emerge un senso di profonda malinconia e di disperata solitudine. “La famiglia pertanto è sola con i suoi problemi di sopravvivenza e solo è ciascuno dei suoi componenti” (p. 357).
Gloria Chianese
15 Franca Olivetti Manoukian, Morte e vita familiare in quattro romanzi di fine Ottocento, in A. Manoukian, / vincoli familiari in Italia, cit., pp. 335-373. I romanzi presi in esame sono: Giovanni Verga, I Malavoglia-, Federico De Roberto, I Viceré-, Emilio De Marchi, Demetrio Pianelli- Neera, Teresa.
Dopoguerra e fascismo in AbruzzoOrientamenti storiografici
di Luigi Ponziani
La storiografia del fascismo delle origini relativa al Mezzogiorno presenta limiti di conoscenza di particolare rilevanza. Le ragioni essenziali sembrano essere due: da un lato, l’assumere come metro interpretativo il fascismo settentrionale, sia di tipo “urbano” che “agrario”, ha fatto sì che gli studi avessero un qualche sviluppo soprattutto per quelle zone del sud dove le analogie erano più facilmente riscontrabili (es. la Puglia)1; dall’altro, lo svilupparsi del fascismo meridionale in un’epoca successiva rispetto al quadriennio 1919-1922, ha reso meno appetibile una ricerca che, più che affrontare le tematiche delle “origini” , avrebbe dovuto descrivere i fenomeni di assestamento e di estensione del consenso al regime. Eppure proprio questo sembra essere il principale elemento di differenziazione. Nel Sud le strutture del potere sono ancora saldamente in mano ai ceti dirigenti agrari e cittadini che non hanno alcun bisogno di una “riconquista” politica e sociale nei confronti del movimento contadino
e operaio. Il fascismo come sistema di gerarchie sociali prima che politiche è già presente nel meridione2 e, pertanto, la dinamica del suo sviluppo deve essere vista soprattutto all’interno dei contrasti tra gruppi dirigenti in lotta per il potere locale che utilizzano la consolidata pratica del “trasformismo”3. Proprio la eccessiva frammentazione geografica, il localismo del notabilato, il personalismo dei ceti dirigenti rendono necessario, perciò, uno studio articolato che, cogliendo le caratteristiche essenziali delle realtà locali, possa “lacerare più facilmente i veli ideologici dei partiti e cogliere quindi il peso dei concreti interessi in gioco, siano essi economici, personali o ‘culturali’ ”4.
Se il meridione attende ancora in gran parte di essere esplorato, per gli Abruzzi l’esigenza è ancora più pressante. Basta scorrere appena le più recenti rassegne storiografi- che per averne una dimostrazione sconcertante5. Non soltanto gli Abruzzi non appaiono in alcuna ricerca d’assieme, ma quando
1 Cfr. Ivano Granata, Storia nazionale e storia locale: alcune considerazioni sulle problematiche del fascismo delle origini (1919-1922), in “Storia contemporanea”, 1980, n. 3, p. 525.2 Cfr. in proposito la relazione introduttiva di Giuseppe Galasso in Aa.Vv., Mezzogiorno e fascismo. A tti del Convegno nazionale di studi promosso dalla Regione Campania. Salerno-Monte S. Giacomo 11-14 dicembre 1975, a cura di Pietro Laveglia, Napoli, 1978, p. 23.3 Su questo aspetto si veda la presentazione di Ugoberto Alfassio Grimaldi al volume di Giacomo de Antonellis, Il Sud durante il fascismo, Manduria, 1977, p. 8; sull’utilizzo, ad esempio, dei nazionalisti in senso trasformistico nell’Italia meridionale cfr. in particolare Franco Gaeta, Il nazionalismo italiano, Roma-Bari, Laterza, 1981, pp. 235-239.4 Renzo de Felice, Prefazione a Simona Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Bari, Laterza, 1971, p. VII.5 Cfr. Guido D’ Agostino-Nicola Gallerano-Renato Monteleone, Riflessioni su “storia nazionale e storia locale”, in
“Italia contemporanea”, settembre 1986, n. 164
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ad essi si fa riferimento, gli accenni sono quanto mai generici e superficiali. Tuttavia negli ultimi anni si è assistito a un risveglio di interesse. Varie sono le ragioni: un sempre maggior radicarsi delle università alle tematiche regionali; il sorgere di nuovi istituti di ricerca che si pongono espressamente sul terreno dello studio della storia contemporanea (è il caso dell’Istituto abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza); infine, il maggior dinamismo delle biblioteche, degli archivi, degli enti locali. Certamente il livello raggiunto dagli studi è ben lungi dall’essere soddisfacente, ma proprio per questo motivo ha senso avviare una prima riflessione e tracciare un bilancio che, accanto ad un’esigenza di divulgazione di studi che rischiano di restare ignorati, si ponga l’obiettivo di individuare temi e ambiti storiografici da toccare e approfondire.
I limiti della storiografia contemporanei- stica abruzzese si manifestano in primo luogo nelle sintesi generali. Spesso tali opere, per i fini che si propongono, non sfuggono alla logica dell’“omaggio” e della “generica propaganda” che ci riconduce tout court ad un clima culturale tipicamente meridionale6.
In tale ambito si colloca il volume di Del Villano-Di Tillio7 che, pur rispondendo ad intenti didattici e divulgativi, nella parte dedicata alla prima guerra mondiale, al dopoguerra e al fascismo, ripercorre fin troppo sommariamente un periodo storico particolarmente complesso, che avrebbe richiesto un ben diverso approfondimento. Qui, come in altri casi, si sorvola, anche attraverso im
precisioni non giustificabili, su avvenimenti che stanno a base dell’odierno assetto regionale. Su ben altro versante si colloca il profilo storico regionale abbozzato da Raffaele Colapietra8. Particolarmente stimolante sembra essere l’esigenza di una approccio di- versificato alla realtà regionale che richiede uno studio differenziato tanto sul piano economico come su quello sociale e politico. Tale ottica acquista rilievo proprio in rapporto alla guerra e alle sue conseguenze. Mentre infatti il Teramano e il Chietino, attraverso il permanere di personalità autorevoli del giolittismo di varia gradazione (De Vito,Masciantonio, Riccio) tendevano, secondo l’autore, a mantenersi nell’ambito del tradizionalismo liberale e proprietario, la provincia dell’Aquila mostrava maggiore sensibilità alle istanze e alle suggestioni di massa scaturite dalla guerra e dalla smobilitazione. Allo stesso modo i contrasti di classe e le tensioni politiche nella Marsica non si esaurivano nel binomio socialismo-fascismo, ma avevano modo di manifestarsi nel combattentismo, non identificabile sic et simpliciter col nascente movimento fascista, e nel ministerialismo di Camillo Corradini, ben impiantato in una regione dove il notabilato agrario si congiungeva col potere economico e finanziario dei Torlonia. L’attenzione poi riservata da Colapietra alle tendenze di sviluppo della regione, che trovano incentivo istituzionale nella riforma delle circoscrizioni amministrative, nella conseguente nascita della provincia di Pescara e nel collocarsi in senso adriatico dell’asse di
“Italia contemporanea”, 1978, n. 133, Marco Palla, Firenze nel regime fascista (1924-1934), Firenze, Olschki, 1978, in particolare le pp. 13-17 e il già citato studio di Ivano Granata. Per gli Abruzzi appaiono particolarmente significative le riflessioni che Luciano Russi, Ecologia e ideologia in Abruzzo, in P. Scarpini, Discanto, Teramo, 1972, pp. LVI-LIX faceva sui limiti della storiografia contemporaneistica abruzzese e sul “quieto vivere” della “classe intellettuale abruzzese” il cui ruolo, a partire dal secondo dopoguerra, egli invitava a ricostruire.6 È quanto afferma, ad esempio, Raffaele Colapietra, U fascismo nell’Italia meridionale adriatica: alcune proposte interpretative, in “Italia contemporanea”, 1981, n. 145, p. 85.7 W. Del Villano-Z. Di Tillio, Abruzzo nei tempo, Pescara, Costantini Didattica, 1978.8 Raffaele Colapietra, Abruzzo. Un profilo storico, Lanciano, Carabba, 1977.
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sviluppo regionale, costituisce una stimolante direttrice di ricerca ancora tutta da verificare.
In un’altra opera lo stesso studioso ha ricostruito con dovizia di particolari le vicende del Fucino nell’arco di un secolo9. I contrasti di classe che oppongono Torlonia e i “gabellotti” marsicani a braccianti e contadini poveri vengono a collocarsi, per Cola- pietra, in un quadro più generale nel quale si inseriscono via via, oltre ai socialisti, i combattenti, i popolari e i fascisti, con una ricchezza di sfacettature che rende più variegato un panorama sociale e politico a prima vista dicotomico10 11. Proprio per ricondurre questa varietà di posizioni sotto l’unità egemonica della “sana democrazia” di ascendenza nittiana, l’autore pone in rilievo il tentativo di Camillo Corradini teso ad imbrigliare tale inquietudine in una concentrazione regionale che avrebbe dovuto coinvolgere i combattenti “ben pensanti” alla Giacomo Acerbo e i conservatori alla Vincenzo Riccio insieme ai radicali alla De Vito e al giolittismo “ortodosso” di Camerini, utilizzando un valente giornalista come Giuseppe Giffi e un organo giornalistico regionale, “Il Risorgimento d’Abruzzo”, in un esperimento politico di indubbio interesse.
Un profilo storiografico ben più modesto presenta il recente tentativo di una Storia della provincia di Teramo fino al 1922u. Pur all’interno di limiti che gli stessi autori hanno voluto evidenziare fin dalla presenta
zione, non sembra che, specie per il capitolo finale dedicato al periodo postbellico, si sia andati più in là di una cronistoria, per di più lacunosa. I pochi accenni al clima politico e sociale sono sommersi dall’aneddottica e dal colore paesano12.
A conclusione di questi accenni dedicati agli studi d’assieme, va ricordato ancora un ponderoso studio di Colapietra su Pescara che, per la rilevanza del tema trattato, costituisce un importante punto di riferimento nel quadro storiografico abruzzese13. L’autore individua la persistente difficoltà ad avviare nel concreto la fusione tra Castellammare e Pescara nella oggettiva divergenza tra la mentalità affaristica e privatistica di Pescara e la concezione cittadina eminentemente solidaristica di Castellammare14. Sul filo di questo criterio interpretativo lo stesso fenomeno del combattentismo e del fascismo viene analizzato nella sua duplice veste di frammentazione personalistica a Pescara e di legittimismo lealista a Castellammare e nel Teramano, che trovano in Giacomo Acerbo una autorevole guida intorno a cui si realizza la vincente coalizione conservatrice e monarchica15. Colapietra sviluppa in tal modo una ricostruzione amministrativa, politica, sociale, economico-commerciale con un’ottica cittadina che acquista rilevanza regionale per il confluire su Pescara-Castel- lammare di caratteri diversi.
Occorre infine ricordare lo studio di Giacomo de Antonellis sul meridione durante il
9 Id., Fucino ieri 1878-1951, Avezzano, 1978.10 Di diversa opinione sembra essere Romolo Liberale, Il movimento contadino del Fucino dal prosciugamento del lago alla cacciata di Torlonia, Roma, s.d. [1977], che tende a considerare in maniera unitaria il fronte di lotta che si oppone al principe Torlonia.11 C. Cappelli-R. Faranda, Storia della provincia di Teramo dalle origini al 1922, Teramo, 1980.12 In aggiunta al volume sopra citato e solo per esigenza di completezza, vale la pena di ricordare alcuni altri studi simili per contenuto e metodo di indagine, oltre che per le finalità: Aa.Vv., Pescara cinquant’anni, Pescara, 1980; L. Gargani, Pescara da vicus a urbs 1877-1977, a cura del Rotary Club di Pescara nel cinquantenario dell’istituzione della provincia di Pescara, Pescara, 1977.13 Ci si riferisce a Raffaele Colapietra, Pescara 1860-1927, Pescara, Costantini Didattica, 1980.14 Ivi, pp. 316.15 Ivi, pp. 317-318.
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fascismo16. Condensata in pochissime pagine, la trattazione relativa agli Abruzzi pecca per eccessiva approssimazione e spesso per confusione di temi e di luoghi. Sostanzialmente il fascismo abruzzese viene caratterizzato dal clima dannunziano che pervaderebbe l’intera regione, con un giudizio derivato più da luoghi comuni che da concreti riscontri di atteggiamenti e situazioni politiche17.
Ancora più rari e spesso datati sono gli studi che affrontano gli aspetti economici e sociali; una lacuna questa che rappresenta un grave nocumento alla conoscenza della regione da un punto di vista strutturale. Di interesse non contingente sembrano essere due saggi (entrambi risalenti al 1960) di A. Grumelli e U. Fanci, il primo dei quali prende in esame gli aspetti sociologici dell’evoluzione demografica negli Abruzzi e il secondo le condizioni igieniche e sanitarie delle popolazioni rurali18. L’utilità del primo studio consiste nella gran messe di dati (spesso desunti da pubblicazioni ufficiali). Il fenomeno migratorio, particolarmente virulento nel periodo 1919-1925, anche se non raggiunge l’intensità degli anni prebellici e in particolare il record del 1913, è ricondotto da Grumelli a due ragioni essenziali: al problema montano costituito dal frazionamento della proprietà, dal disboscamento, dall’inaspri- mento tributario, dalla crisi della pastorizia transumante e dalla scarsità di fonti aggiuntive di guadagno; alla questione agricola derivante dalla diversità territoriale della regione. Da tale analisi, insieme strutturale e so
ciologica, deriva l’impressione secondo cui gli Abruzzi presenterebbero una fondamentale unità, pur in un accentuato polimorfismo. La conclusione è di considerare gli Abruzzi una regione mediana non solo da un punto di vista geografico, ma anche sociologico, quasi un punto di incontro tra nord e sud. Seguendo un criterio analogo il secondo studio mette in rilievo come il deficitario stato igienicio-sanitario della popolazione abruzzese derivi dalla ripartizione agraria del territorio, sia in presenza di abitazioni appoderate o di dimore accentrate in paesi, sia di abitazioni occupate dallo stesso proprietario o prese in affitto. La successiva analisi, che pone in rilievo la povertà alimentare e fisiologica della popolazione rurale, spinge ad un giudizio opposto a quello di Grumelli, e che considera gli Abruzzi una delle regioni più misere d’Italia a dispetto della sua posizione “mediana”. Di un certo interesse risulta pure un più recente studio di Giuseppe Bolino che costituisce un utile tentativo di collocare storicamente l’emigrazione abruzzese nell’ambito nazionale19. Scarsi, tuttavia, al di là della riproposizione di dati sempre utili, sono i riferimenti alle condizioni strutturali che determinarono il fenomeno migratorio e alle vicende politiche locali e nazionali che lo accompagnarono.
La scarsa attenzione a questi aspetti è attenuata da alcuni saggi che prendono in considerazione ambiti territoriali circoscritti. Di particolare interesse sembra essere il saggio di Costantino Felice che, nell’ambito di una
16 Giacomo de Antonellis, II Sud, cit.17 In proposito assume significato un certo atteggiamento di “freddezza” mostrato da Acerbo nei confronti di D’Annunzio e, per converso, l’utilizzo di alcune tematiche dannunziane (es. la repubblica) in funzione antifascista. Su questi aspetti cfr. Raffaele Celapietra, Pescara, cit., pp. 316-317.18 A. Grumelli, Aspetti sociologici dell’evoluzione demografica in Abruzzo nella prima metà del ’900, Roma, 1960; U. Fanci, Sulle condizioni igienico sanitarie delle abitazioni e sul problema alimentare delie popolazioni rurali degli Abruzzi e dei Molise nel periodo 1900-1959, Lanciano, 1960. Di minore interesse, ma comunque di una qualche utilità, risulta essere un altro saggio di U. Fanci, Igiene e situazione sanitaria in rapporto alle condizioni economi- co-sociali delle popolazioni rurali degli A bruzzi e del Molise dal 1890 ad oggi, Lanciano, 1964.19 Giuseppe Bolino, La spopolazione dell’Abruzzo, Lanciano, 1973.
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ricognizione di lungo periodo della politica marinara sul litorale abruzzese, esamina con particolare riguardo il litorale vastese20. L’individuazione di un ceto commerciale e imprenditoriale teso a uno sviluppo nazionale e internazionale della vocazione marinara di Vasto, si accompagna alla presa d’atto del fallimento di simili progetti per i limiti soggettivi di tale ceto imprenditoriale, incapace di ipotizzare uno sviluppo economico e sociale al di fuori di una retorica localista e campanilista, oltre che per l’obiettiva difficoltà a svincolarsi dalla subalternità al capitale esterno e alla rendita fondiaria. In sostanza “l’inconsistenza della prospettiva del grande porto [di Vasto] era in fondo anche la conseguenza di quest’assenza di un solido retroterra economico e di una corrispettiva mentalità imprenditoriale” che, al contrario, aveva modo di manifestarsi a Ortona e Pescara con un dinamismo economico e commerciale, dovuto pure a un particolare impegno della locale rappresentanza parlamentare21.
Anche se limitato al solo circondario di Guardiagrele, utile risulta un recente saggio di Francesco Lullo e Angelo Orlando22. Lo studio rappresenta uno spaccato dell’economia e della società abruzzese dei primi decenni del secolo. L’aggrovigliarsi dei modi attraverso cui si struttura la proprietà agricola (latifondo, piccola proprietà fluttuante), la presenza considerevole dell’artigiana
to nel capoluogo, l’impoverirsi a causa del forte indebitamento della popolazione rurale che non ha possibilità di trovare una qualche prospettiva nello sviluppo dell’attività artigianale, il fallimento sostanziale degli istituti di credito per l’incapacità mostrata nel legarsi ad un processo di incentivazione e trasformazione dell’agricoltura, costituiscono altrettanti terreni su cui l’indagine dovrebbe essere estesa all’intera regione23.
Gli studi biografici e autobiografici, sebbene ancora considerati di genere minore, hanno via via assunto piena legittimazione anche se a tutt’oggi continuano ad essere discussi i problemi di metodo e i rapporti tra biografia e storia24. Questa premessa è tanto più opportuna se consideriamo come tale genere, pur abbastanza diffuso per il periodo e l’area geografica che ci interessano, assai raramente va oltre la semplice aneddotica o la nostalgia della ricordanza. Ciò non toglie però che, pur entro questi limiti, le opere considerate costituiscono una importante possibilità di conoscenza del clima culturale e psicologico prima che politico, di ambienti e situazioni, sì da rappresentare, a fronte dell’insufficiente stato degli studi, un valido strumento per l’approfondimento della ricerca.
In questo quadro particolare rilevanza acquista il volume autobiografico di Giacomo Acerbo25. Pur all’interno di una narrazione appesantita da erudite digressioni storiche e filosofiche e da comprensibili intenti giusti-
20 Si tratta di Costantino Felice, Spunti per una storia economica e sociale della costa abruzzese: il porto di Vasto dall’Ottocento a! secondo dopoguerra, in “Rivista abruzzese di studi storici dal fascismo alla resistenza” (d’ora in poi Rassfr), 1982, n. 3, successivamente ampliato e rifuso in Id., Porti e scafi. Politica ed economia sul litorale abruzzese-molisano (1900-1980), Vasto, 1983.21 Ivi, p. 159.22 Francesco Lullo-Angelo Orlando, Per una lettura della situazione economica a Guardiagrele 1900-1940, in “Rassfr” , 1980, n. 2.23 Per una maggiore completezza di informazione si ricordano anche M. Pasotti, Inchiesta a dorso di cinghiale. Politica e società nell’Abruzzo del XXsecolo, Firenze, 1969; Elio Giannetti-Nicola Iubatti, Temi e spunti della storia sociale ad Ortona nella prima metà del novecento, in “Rassfr”, 1981, n. 1; A. De Martiis, L ’agricoltura nel chietino dalla seconda metà del ’700 ai nostri giorni, Chieti, 1978.24 Per il dibattito su queste tematiche cfr. Alceo Riosa, Biografia e storiografia, Milano, Angeli, 1983.25 Giacomo Acerbo, Fra due plotoni di esecuzione. Avvenimenti e problemi dell’epoca fascista, Bologna, Cappelli, 1968.
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ficazionisti, l’opera costituisce una fonte assai importante non solo per la ricostruzione della figura del personaggio, ma anche dell’insieme del fascismo abruzzese. L’autore sembra costantemente teso ad offrire una interpretazione sostanzialmente moderata del fenomeno del quale fu protagonista. Ripetuta, infatti, è la condanna della tendenza repubblicana del primo fascismo alla quale contrappone il lealismo monarchico proprio della maggior parte del fascismo abruzzese; così come, allo stesso fine, sembra mirare l’affermazione secondo cui “i quadri dell’organizzazione combattentistica, ed ugualmente in appresso quelli dei fasci, furono forniti quasi per intero dai giovani ranghi della borghesia detentrice del potere locale che conservò come tale, attraverso le relazioni personali, larghe aderenze specialmente nelle campagne”26; giudizio sostanzialmente esatto che sembra quasi voler giustificare una effettiva continuità, ideologica e politica oltre che generazionale, tra prefascismo e fascismo. All’interno di questa interpretazione lo stesso enuclearsi del fascismo dal movimento combattentistico viene spiegato da Acerbo più come naturale distacco da un’associazione (l’Anc) incapace di superare tentennamenti dottrinari e inefficacia nell’iniziativa, che come autonomo decantarsi di posizioni politiche e ideologiche e chiarirsi di obiettivi. Una ricostruzione, dunque, che sembra cogliere alcuni dei caratteri essenziali del primo fascismo abruzzese, ma che non tiene conto oltre che delle diversificazioni provinciali, anche del clima di violento scontro di classe che lo vede protagonista specie in talune zone.
Altrettanto degne di attenzione sono le memorie autobiografiche di un altro prota
gonista dell’agitato periodo postbellico, Raffaele Paolucci27. Il personaggio (l’affon- datore della Viribus Unitis) appare come l’espressione ambigua, ma forse anche più vera, di un certo “dannunzianesimo” abruzzese. Il suo patriottismo fatto di immagini e di retorica regionale (diffusissima in quel periodo), se lo pone al centro, e non sempre con piena consapevolezza, dell’attivismo patriottico abruzzese, trova un limite sostanziale nel lealismo monarchico che gli permette di inneggiare a Fiume, ma non di aderire all’impresa di D’Annunzio28. Con Paolucci, pertanto, ci troviamo di fronte ad un personaggio che ci consente di cogliere un altro aspetto del retroterra culturale e psicologico abruzzese attraverso cui si realizza quel riallineamento di forze politiche e sociali, oltre che economiche, che prelude alla loro piena adesione al regime fascista. Quel “dannunzianesimo” e quel “nazionalismo” consentono all’“eroe di Pola” di partecipare naturaliter, su sollecitazione dello stesso Giolitti, alle elezioni politiche del 1921 nella lista dei “Blocchi” . In tal modo la successiva attività politica di Paolucci, tesa alla diffusione delle organizzazioni nazionalistiche dei “Sempre Pronti”, va configurandosi come un altro modo attraverso cui si organizza il conservatorismo legalitario abruzzese. Il larvato contrapporsi dei “Sempre Pronti” allo squadrismo fascista deve perciò essere visto nell’ambito di quella concezione che considerava il nazionalismo italiano nient’altro che “un liberalismo di destra, che voleva affermare i suoi ideali attraverso le vie legali, ma riconosceva la necessità di un governo forte e ributtava il mito della libertà fine a se stessa”29.
Su un versante politico opposto rispetto a
26 Ivi, p. 167.1 R. Paolucci, Il mio piccolo mondo perduto, Bologna, 1947.28 Ivi, p. 219.29 Ivi, p. 232. Per questo giudizio si rinvia pure a Franco Gaeta, Il nazionalismo, cit., pp. 235-239. Per completare il quadro si richiama anche l’autobiografia di A. Sardi, Pulviscolo di un’epoca, Sulmona, 1962, un altro protagonista del fascismo abruzzese che, tuttavia, sorvola sui momenti più significativi del periodo qui considerato.
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quello già ricordato si pongono le memorie di Natale Camarra e Pietrantonio Pailadini30. L’autobiografia del primo, pur assumendo grande valore umano e morale, è di scarsa utilità per una ricostruzione del primo dopoguerra abruzzese, dal momento che il breve riferimento a quegli anni ripete giudizi usuali dell’antifascismo militante. Lo stesso limite va rilevato per il volume autobiografico di Pailadini. Pur abbozzando un’analisi dei caratteri del movimento contadino socialista marsicano, l’autore sembra indulgere a criteri interpretativi alquanto azzardati, quale la pretesa mitica “scontrosità” della popolazione marsicana da sempre “anelante la libertà”. Per questa via il fronte antifascista tra il 1920 e il 1926 viene considerato un unicum temporale e omogeneo nel suo schierarsi prima contro lo squadrismo e poi contro il regime; mentre lacunosa e sostanzialmente subordinata a esigenze politiche, sembra essere l’analisi delle forze, assai composite, che si schierarono nel tempo contro il fascismo (si pensi soltanto ai comunisti e a Camillo Corradini), così pure non vengono prese in considerazione le differenze all’in- terno del combattentismo, della classe dirigente liberale, del capitalismo agrario (Tor- lonia).
Abbiamo poi, sempre nel campo dell’antifascismo militante, il volume autobiografico di Nando Amiconi, nel quale largo spazio hanno le vicende anche se non direttamente vissute, relative al primo dopoguerra31.
All’interno di una ricostruzione abbastanza esatta del clima politico e sociale di quegli anni e alla riproposizione di utili dati inerenti alla organizzazione del Fucino e al potere dei Torlonia, l’autore insiste nel considerare
unitariamente, sotto il segno del bracciantato contadino, il movimento sociale e politico sviluppatosi nel biennio 1919-1920. Tale approccio non sembra permettere un’analisi delle singole organizzazioni (socialisti, combattenti, popolari) che sono presenti in quel torno di tempo e l’individuazione della concreta divaricazione degli obiettivi e delle parole d’ordine di cui si fanno portavoce. Tale evoluzione non viene considerata in rapporto al più generale movimento contadino nel quale incidevano sia gli ex combattenti, sia i popolari, né in rapporto allo schierarsi della classe dirigente marsicana capeggiata da Corradini e alle reali esigenze poste dal principe Torlonia32. Considerare poi, come fa l’autore, l’occupazione delle terre del 1920 e la conquista del contratto di affitto da parte di circa 10.000 contadini una grande vittoria popolare e una sconfitta di Torlonia, significa certo mettere in rilievo una parte di verità, ma significa altresì sorvolare sulla effettiva coincidenza tra gli obiettivi contadini e quelli di Torlonia, che ormai si pone sul terreno della frammentazione dell’affitto come condizione preliminare ad un più stretto controllo economico e sociale che utilizza strumenti nuovi quali la Banca del Fucino, oltre che lo squadrismo fascista che proprio da questo momento irrompe in grande stile nella Marsica.
Con la biografia di Guido Celli scritta da Emilio Rosa, ci troviamo di fronte ad un primo lodevole tentativo di affrontare lo studio di uno dei personaggi più interessanti del prefascismo abruzzese33. Il risultato, tuttavia, sembra inadeguato, consistendo in un medaglione alquanto acritico, nel quale non vengono presi in considerazione gli aspetti
30 Ci si riferisce a Natale Camarra, Ricordi della mia vita. Prefazione di Umberto Terracini, Aquila, 1980 e a Pietrantonio Pailadini, Cento metri di catene, Penne, 1977.31 Nando Amiconi, Il comunista e il capomanipolo, Milano, 1977.32 Ivi, pp. 46-47.33 Emilio Rosa, Guido Celli. Vita scritti e discorsi, Teramo, 1979.
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più significativi di un personaggio che, dalla sua prima adesione al socialismo riformista e dalla lotta “democratica” combattuta nel 1910-1913 contro il blocco clerico-conserva- tore, finisce per convergere, in maniera sempre più incolore, nel campo ministeriale con Nitti prima e Giolitti poi. Parabola questa abbastanza comune in certo socialismo meridionale incapace di rompere, per intrinseca debolezza ideologica, per formazione culturale, per intimo legame con determinati ceti, con quel notabilato meridionale pur avanzato del quale, in ultima analisi, è esso stesso espressione, anche se tra le più positive. L’atteggiamento di marcata benevolenza nei confronti del personaggio impedisce poi all’autore di pervenire ad un qualche giudizio storiografico, specialmente nella valutazione dei “Blocchi nazionali” del 1921 e del ruolo in essi avuto da Celli. Infine, il successivo scontro che oppose i fascisti teramani e abruzzesi a Guido Celli viene ricondotto a “spregevoli meschinità”, con un giudizio morale incapace di dar conto dei reali obiettivi a cui i fascisti miravano: l’erosione del consenso intorno all’uomo politico, in un tentativo nel cui ambito l’atteggiamento assunto da Celli alla Camera sul “caso Misia- no” svolgeva un ruolo puramente strumentale.
Occorre infine dar conto di un articolo di Umberto Russo su Ettore Janni che, pur nella sua brevità, costituisce una utile premessa allo studio di un personaggio assai significativo nel quadro politico (oltre che ovviamente letterario e giornalistico) del primo dopoguerra34. La consapevolezza che l’opera di Ettore Janni va valutata essenzialmente in quest’ultimo ambito, non impedisce all’autore di cogliere, nel ritrarsi di Janni dal
la politica dopo la breve parentesi parlamentare (fu eletto deputato dei “combattenti” nel 1919), l’atteggiamento “emblematico” di una larga parte della vecchia classe dirigente alla vigilia della “marcia su Roma”. Allo stesso modo per Russo 1’“apertura sociale” , pure rintracciabile nell’attività politica di Janni, va circoscritta a un atteggiamento paternalistico, dal momento che per lui il centro di interesse continuava a restare “su ben altro versante, quello della libertà individuale” . Il suo individualismo borghese, tuttavia, non lo legava a D’Annunzio, al quale pure era vicino nell’amicizia e anche episodicamente nell’attività letteraria, né dal punto di vista stilistico né da quello ideologico. Per l’autore, perciò, l’intellettuale Janni si rapporterebbe ad un altro versante dell’intellettualità regionale (Croce, De Lollis) che, “muovendo da una visione liberale e cristiana della vita (...) si [sarebbe] aperta ad un’ampia disponibilità sociale” .
La panoramica fin qui abbozzata deve tener conto anche di un consistente numero di saggi che prendono in esame gli aspetti più particolarmente politici. Pur se di livello diverso e circoscritti in genere agli ambiti provinciali, essi costituiscono una utile base di partenza.
L’unico saggio che affronta regionalmente gli aspetti sociali e politici del biennio 1919-20, è quello di Paolo Muzi35. Un’analisi alquanto circostanziata permette all’autore di caratterizzare le agitazioni sociali col segno della spontaneità e frammentarietà ed evidenziare come, specie per le zone interne e montane, a guidarle sono le organizzazioni degli ex combattenti36. La qualità nuova di questi movimenti contro il caroviveri e le tasse starebbe per Muzi da un lato nella den-
34 Umberto Russo, Ettore Janni un indipendente per vocazione, in “Oggi e domani”, 1975, n. 12.35 Paolo Muzi, I moti sociali in Abruzzo nei primo dopoguerra (1919-1920), in “Rassfr”, 1982, n. 3.36 Sul fenomeno del combattentismo si veda anche Luigi Ponziani, Le elezioni del 1919 a Teramo. Lotte politiche e sociali, Teramo, 1977.
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sità degli stessi, dall’altro nella loro mutata valenza politica determinata dal diffuso processo organizzativo. In ultima analisi si tratterebbe di un movimento popolare parallelo (o solo raramente coincidente con esse) alle lotte agrarie e rivendicative che nello stesso torno di tempo si sviluppano nel Teramano, nel Fucino e tra i ferrovieri abruzzesi37.
Non particolarmente originali appaiono, per converso, alcuni studi che prendono in esame la violenza squadristica sviluppatasi nel 1921-22. L’insieme di tali studi non sembra superare, in generale, i limiti di una ricostruzione “militante” nella quale i giudizi morali e politici rischiano di prendere il sopravvento sull’analisi dei fenomeni che sono alla base della radicalizzazione dello scontro, del trasformismo, del dissidentismo fascista e dell’atteggiamento dei ceti dirigenti nei confronti del fascismo38.
Di più marcato interesse risulta, invece, il saggio che Raffaele Colapietra dedica alle vicende politiche di Lanciano39. Gli scontri municipali che vengono evidenziati ci riconducono ad un clima meridionale nel quale trasformismo e personalismo sono il presupposto di ogni lotta politica. In tale ambito sarebbe possibile comprendere l’equivocità del socialismo lancianese egemonizzato dal paternali
smo di Umberto Cipollone, esponente di spicco della massoneria regionale, il cui programma sarebbe a mezza strada tra il “riformismo” e la “democrazia del lavoro”. Allo stesso modo il fascismo a Lanciano risulterebbe diretta emanazione del partito municipale di Gerardo Berenga il cui operato starebbe a rappresentare soprattutto “il tentativo disperato del vecchio clientelismo giolittiano fiorente all’ombra di Corradini di ritagliarsi uno spazio distinto, e possibilmente egemonico, nei confronti tanto della componente combattentistica del ‘Blocco nazionale’ quanto delle svariate sfumature della democrazia”40.
La tendenza a considerare il quadriennio postbellico nell’ottica dello scontro fascismo-antifascismo ha determinato una carenza di studi sulle singole formazioni politiche, tradizionali e nuove che fossero, sui cui uomini, programmi, concreto operare, permane una sostanziale ignoranza. Le poche ricerche, con i limiti sopra ricordati, hanno riguardato il Psi e il Pcd’I41, mentre pressoché inesplorato appare il campo delle organizzazioni cattoliche e delle classi dirigenti prefasciste42. Per quest’ultimo aspetto l’unico saggio degno di nota è quello di Fausto Eugeni sulla massoneria negli Abruzzi e in particolare nella provincia di Teramo, che sem-
37 Per le agitazioni agrarie in provincia di Teramo si veda Luigi Ponziani, Lotte agrarie nel primo dopoguerra; la nascita del fascismo a Teramo, in “Rassfr”, 1980, n. 3; per la Marsica, Raffaele Colapietra, Fucino, cit.38 Ci si riferisce in particolare a Costantino Felice, La provincia dì Chieti tra rivoluzione e reazione: appunti per un’analisi del primo dopoguerra, in “Rassfr” , 1981, n. 3; Fiorina Gianvincenzo-Paolo Muzi, Il terrorismo squadrista in provincia dell’Aquila prima e dopo la marcia su Roma, in “Rassfr”, 1980, n. 1 ; Egidio Marinaro, La provincia di Teramo alla vigilia della marcia su Roma: l ’occupazione squadrista di Campii, in “Rassfr” , 1980, n. 1; Id., Novembre 1920: la campagna amministrativa dei socialisti in provincia di Teramo, in “Rassfr” , 1980, n. 3. Limiti di tale genere sono ancora presenti nel saggio di Luigi Ponziani, La scissione del Partito socialista: il fascismo in provincia di Teramo, in “Rassfr” , 1981, n. 2.39 Raffaele Colapietra, La “libertà” di Lanciano tra Giolitti e Mussolini, in “Rassfr, 1982, n. 1.40 Ivi, p. 47. Su questo aspetto si veda anche la relazione introduttiva di Giuseppe Galasso, in Aa.Vv., Mezzogiorno e fascismo, cit., pp. 26-27.41 Si vedano i saggi di Egidio Marinaro, L ’unità socialista dei lavoratori abruzzesi nel 1921: fantoccio o realtà?, in “Rassfr”, 1981, n. 3; Adolfo Lalli, Socialismo e socialisti in Abruzzo, Chieti, 1970; A. Marino, Partiti e movimento operaio a Teramo dal 1861 al 1945, Teramo, 1978.42 Per le organizzazioni cattoliche l’unico studio, limitato alla sola provincia di Teramo, è quello di Luigi Ponziani, La nascita del Partito Popolare Italiano a Teramo e la mancata presentazione alle elezioni del 1919, in “Trimestre”, 1982, nn. 1-2. Alcuni cenni sono pure presenti in Giuseppe Bolino, Sull’antifascismo dei cattolici in Abruzzo, in
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bra cogliere le peculiarità di una rete organizzativa fatta di rapporti personali e professionali, oltre che politici, all’interno della quale sembrano muoversi le forze migliori della democrazia prefascista, il cui ruolo appare una “costante nella vita pubblica dell’intera regione, almeno fino al fascismo e la cui reale influenza è ancora tutta da scoprire”43.
La sostanziale limitatezza delle fonti bibliografiche fin qui citate non ci consente di giungere a conclusioni significative: è possibile, tuttavia, avviare una prima riflessione che ipotizzi alcune linee per una rinnovata ricerca sul dopoguerra abruzzese44.
Le esigenze poste dalla recente storiografia sulla opportunità, specie per lo studio del primo fascismo nel meridione, di procedere con un’analisi differenziata, ci spingono da un lato a non utilizzare pedissequamente criteri interpretativi (“fascismo agrario” “fascismo urbano”) la cui validità, se può avere significato (e non sempre) per il centro-nord, certamente non ha rilevanza ai fini di uno studio sul fascismo meridionale; dall’altro, l’obiettiva sfasatura di tempi che esiste tra manifestarsi e affermarsi del movimento fascista nel centro-nord rispetto al sud, deve sempre più spingere la ricerca verso la metà degli anni venti. Tale esigenza deve tuttavia essere temperata per gli Abruzzi, dove diversità strutturali, differenze ambientali, varietà dell’articolazione sociale, rendono necessari un approccio capace di cogliere quella ricchezza di situazioni testé delineata. Sembra poi in gran parte da approfondire il nesso che lega combattentismo-fascismo-nazionalismo nella consapevolezza che il fenomeno
del combattentismo assume significati e valenza politica diversi a seconda degli ambiti geografici, sociali e quindi politici in cui si manifesta. Un conto è infatti l’analisi del combattentismo teramano e pescarese, tutto teso nella sua “prosaicità” ad un’affermazione sociale e politica sul forte movimento contadino di ispirazione socialista; altra cosa sono le organizzazioni combattentistiche mar- sicane, divise tra la soggezione al “partito” corradiniano e le aspirazioni sociali a cominciare dal possesso della terra; altro ancora è il combattentismo aquilano nel quale più forti si fanno sentire motivi mutuati dal radicalismo dannunziano e repubblicaneggiante che ne alimentano un larvato dissidentismo. Allo stesso modo per il fascismo va analizzato l’insieme delle componenti sociali e politiche che lo alimentano e che vengono via via ricondotte ad unità sotto il segno del conservatorismo proprietario di Giacomo Acerbo. Infine, l’approfondimento della ricerca sul nazionalismo abruzzese va realizzato non tanto in rapporto alle suggestioni dannunziane, meno influenti, forse, sul piano politico di quanto comunemente si creda, quanto sul più concreto terreno del “trasformismo” e del personalismo tipici del meridione, i cui rappresentanti sono alla ricerca di un ruolo autonomo che possa contrapporsi, o per lo meno trattare in condizioni di parità, col fascismo vittorioso.
È inutile ribadire come l’assenza di qualsiasi studio sulle classi dirigenti abruzzesi prima del fascismo costituisca un grave limite alla comprensione del ruolo da esse avuto nel periodo di transizione al regime. Se infatti il loro comportamento nei primi due
Renato Willermin e l ’antifascismo cattolico, L’Aquila, 1981, pp. 32-34 e in Costantino Felice, La chiesa abruzzese dalla caduta di Mussolini alla Repubblica, in “Rassfr” , 1984, n. 1, pp. 7-9. Utili notizie riguardanti gli Abruzzi si trovano anche nel Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. 1860-1980, Casale Monferrato, Marietti, 1982, alle cui voci si rinvia.43 Fausto Eugeni, Massoneria ed opposizione costituzionale in Abruzzo e Molise dinanzi a! fascismo, in “Rassfr”, 1980, n. 1, la citazione è a p. 61.44 L’unica riflessione fin qui tentata è quella di Raffaele Colapietra, Il fascismo, cit., che però prende in esame l’intero arco del ventennio e un’area geografica comprendente oltre gli Abruzzi, il Molise e la Puglia.
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decenni del secolo fu improntato a pedissequo ministerialismo da un lato (giolittiano, salandrino e nittiano che fosse), a localismo municipalistico come inevitabile corollario dall’altro, è verosimile l’ipotesi secondo cui il loro inclinare al fascismo in una regione nella quale i liberali delle varie gradazioni conservavano cospicue posizioni di predominio, è da considerare nel quadro delle “garanzie” che il nuovo ministerialismo, ora di segno fascista, poteva offrire. In tale ambito è possibile avviare uno studio teso alla ricostruzione dei tempi e dei modi attraverso i quali si realizza il loro collocarsi all’interno del regime, auspice il nazionalismo trasformista alla Raffaele Paolucci.
Per finire, sembra particolarmente importante ribadire come una rinnovata attenzione agli studi sul movimento operaio e sul socialismo abruzzese debba uscire fuori dai limiti che fin qui li hanno contraddistinti. Per un verso, infatti, occorre inserire, così come si è fatto nazionalmente, tale tipo di studi in un ambito più generale, capace di metterne in evidenza i caratteri di fondo e superare un atteggiamento “minoritario” che, oltre a non essere particolarmente fecondo da un punto di vista storiografico, non appare veritiero. L’approfondimento degli studi sul socialismo abruzzese prefascista va perciò attuato attraverso lo studio, oltre che degli episodi in cui si concretizza lo scontro sociale, anche dei suoi dirigenti parecchi dei quali, per formazione culturale (basti pensare a
Celli, a Emidio Agostinone, allo stesso Lo- pardi), vanno di diritto ascritti nel novero della classe dirigente abruzzese. D’altro canto il superamento del criterio interpretativo rivoluzione-reazione fin qui generalmente seguito, appare la strada migliore per comprendere le compromissioni “democratiche” , o financo massoniche, di certo socialismo abruzzese che, pertanto, andrebbe più correttamente considerato come un’altra espressione attraverso cui si articola la classe dirigente regionale e perciò con essa non necessariamente contrastante.
Tutto ancora da esplorare è il movimento cattolico. Il fallimento organizzativo e politico del Partito popolare, evidenziatosi in particolare nel corso delle elezioni del 1919 e del 1921, ci consente di ipotizzare come il movimento cattolico abruzzese trovasse ancora difficoltà a scrollarsi di dosso l’interessato legame con le consorterie detentrici del potere locale che aveva avuto modo di manifestarsi nel succubo atteggiamento tenuto dalle gerarchie cattoliche fin dalle elezioni del 1913. Individuare perciò le ragioni e i modi attraverso cui tali legami si erano conservati, se per un verso ci permetterà di cogliere i motivi della gracilità del nuovo partito, ci consentirà d’altro canto di gettare le premesse per la comprensione della preponderante egemonia cattolica che la regione ha conosciuto alla fine del ventennio fascista.
Luigi Ponziani
ATTIVITÀ EDITORIALE DELL’UFFICIO STORICO
STATO MAGGIORE ESERCITO - 1985
I verbali delle riunioni tenute dal Capo di Stato maggiore generale, Voi. Ili, 1° gennaio-31 dicembre 1942, pp. XXVI - 936, L. 20.000; a cura di A. Biagi- ni, F. Frattolillo, S. Saccarelli.
F. Botti - V. Ilari, Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra, pp. 792, L. 18.000.
S. Loi, La brigata d’assalto Italia, pp. 329, L. 8.000.
M. Montanari, Le operazioni in Africa settentrionale, Vol. I, Sidi el Barrarti (giugno 1940-febbraio 1941), pp. 703 - con 20 schizzi, 69 allegati, 24 fotografie e 11 carte fuori testo, L. 25.000.
Giusti Del Giardino, Cappuzzo, Brignoli, Luraghi, Mazzetti, Ceva, Rochat, Berti- naria, Strich-Liever, Il problema dell’Alto comando dell’esercito italiano dal risorgimento al patto atlantico, Atti del Convegno indetto dalla Società “Solferino e San Martino” (18-19 settembre 1982), pp. 250, L. 6.000.
L. Tuccari, L’impresa di Massaua, pp. 243, L. 8.000.
F. Stefani, Storia della dottrina e degli ordinamenti dell’esercito italiano,Vol. Il, Tomo I, Da Vittorio Veneto alla 2 a Guerra Mondiale, pp. 684, L. 23.500.
Isastia, Rotasso, Ferrari, Baroni, Ilari, Tuccari, Brugioni, Adami, Weiss, Bovio, Raserò, Biagini, Calabresi, Frattolillo, Studi storico militari 1984, pp. 601, L. 22 .000 .
A. Fara, La metropoli difesa, Architettura militare dell’Ottocento nelle città capitali d ’Italia, con un racconto di D. Del Giudice, pp. XXII - 282, con 106 illustrazioni e 4 tavole fuori testo, L. 35.000.
Di imminente pubblicazione:
A. Biagini, F. Frattolillo (a cura di), Diario storico del comando supremo, Voi. I, Tomo I, Diario (11 giugno 1940-31 agosto 1940), Tomo li, Allegati.
O. Bovio, L’araldica dell’esercito.
G. Conti, Il primo raggruppamento motorizzato, Prefazione di Renzo De Felice, (1a ristampa).
Ricordo di Henri Micheldi Giorgio Vaccarino
Il 5 giugno è morto a Parigi Henri Michel, il grande storico della Seconda guerra mondiale, della Resistenza francese ed europea. Nessuno storico ha ancora approfondito con una simile estesa competenza — come egli ha fatto in tutta la sua lunga vita di studioso — i diversi aspetti non solo della guerra, ma della vita interna del proprio paese e di altri ancora.
Non è possibile dare, in questa occasione, adeguata notizia di tutte le opere che costituiscono la vastissima biblioteca uscita dalla ricerca e dal pensiero di Michel. Voglio qui ricordare in breve il magistrale profilo che egli ha dato dei gruppi politici e dei movimenti di resistenza francese, nonché delle idee che hanno dato significato e vigore alla lotta {Les idées politiques et sociales de la Résistance française, con B. Mirkine Guet- zevich, 1954; Les courants de pensée de la Résistance, 1963; Combat, con Marie Gra- net, 1957; Histoire de la Résistance en France, 1972; Histoire de la France libre, 1963); di talune grandi figure resistenti (Jean Moulin, l ’unificateur, 1964); e ancora del fenomeno collaborazionista e dei suoi principali attori {Vichy, année 40, 1966; Pétain, Laval, Darlan, trois politiques?, 1972; Pétain et le régime de Vichy, 1978); di alcuni gravi momenti critici della Francia in guerra {La drôle de guerre, 1971; La défaite de la France, 1980\Le procès de Riom, 1979);della deportazione {Tragédie de la déportation, 1970); della vita della capitale, occupata e resisten
te {Paris allemand, 1981; Paris résistant, 1982; La libération de Paris, 1980). Né si può dimenticare su questi temi l’acuta e originalissima sistemazione critica di tutta la bibliografia sulla resistenza francese, fondata sull’esame di un migliaio di opere {Bibliographie critique de la Résistance, 1964).
Un posto a parte, nell’opera di Michel, spetta allo studio complessivo della guerra, nei suoi aspetti militari sui vari teatri operativi, e in quelli assai complessi dei fronti interni {La seconde guerre mondiale, 2 voli., n.ed. 1977-78, trad. it. Milano, Mursia, 1977). Particolare attenzione egli ha portato all’analisi comparata delle manifestazioni resistenti in Europa {Les mouvements clandestins en Europe, 1965; La guerre de l’ombre, 1970, trad, it., Milano, Mursia, 1973). Sulle stesse egli è tornato nelle sue relazioni generali, tenute con angolazione diversa nei numerosi congressi internazionali a cui ha partecipato. Ci limitiamo a ricordare quello di Liegi sulla Resistenza europea (1958), e quelli di Milano (1961) e di Oxford 1962) sui rapporti con gli Alleati.
Una siffatta vastissima competenza sulla tematica internazionale, tradotta in un quadro eccezionalmente maturo di giudizi lungamente meditati, ha portato all’ultima opera pubblicata {Et Varsovie fu t détruite, 1984), di cui vanno almeno sottolineate, oltre ai capitoli sulla tragedia dell’estate 1944, le pagine equilibrate sull’offesa recata alla nazione polacca non soltanto dalla potenza
I ta l ia c o n te m p o ra n e a ” , se tte m b re 1986, n . 164
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direttamente interessata, l’Urss di Stalin, ma dagli alleati anglo-americani, assorbiti dalla esigenza di salvaguardare per sè la grande alleanza di guerra. Il problema delle terre orientali staccate dallo stato polacco, è visto nella cornice della storica vertenza etnica, con un esemplare sforzo di obiettività da parte di un autore radicato ideologicamente nella cultura e nella concezione democratica occidentale.
È forse superfluo che si ricordi come molte delle opere citate di Henri Michel, insignito del “Grand Prix National d’Histoire” nel 1980, abbiano raggiunto e anche superato la quarta edizione e siano state tradotte in molte lingue occidentali ed anche orientali.
L’ultima fatica di Michel, sulla figura di Darlan e sulla tematica connessa del mondo di Vichy, della vicenda di Algeri e del collaborazionismo, problemi da lui profondamente e a più riprese studiati, è augurabile e prevedibile sia prossimamente pubblicata.
Almeno un cenno infine va dato, oltre all’opera di studioso di Michel, a tutta l’intensa e proficua sua attività, quale organizzato- re di ricerche. Direttore onorario al “Centre National de la Recherche Scientifique” dal 1946 al 1980 ha avuto la responsabilità dei lavori del “Comité d’histoire de la 2a guerre mondiale”, organismo interministeriale di cui ha fondato e diretto l’omonima rivista, organo di rilevanza fondamentale e indispensabile strumento per gli studi sul perio
do, nei suoi vari settori di ricerca. Presidente dal 1970 del “Comitato internazionale di storia della 2a guerra mondiale” che raggruppa gli storici di 37 paesi, e che ne ha curato l’incontro periodico in congressi annuali. E in ultimo, ideatore e promotore di un “museo-istituto”inteso a raccogliere tutta la documentazione possibile e gli strumenti necessari per lo sviluppo degli studi sulla storia della resistenza in Europa, obiettivo che, nelle intenzioni di Henri Michel — e quale suo testamento morale — sarebbe andato oltre gli scopi della ricerca, per tradursi in una conferma oltre le frontiere dei valori che avevano sotteso lo sforzo comune di liberazione e di avanzamento dei popoli d’Europa.
Chi scrive vuole ancora ricordare con commozione la lunga personale consuetudine con l’illustre storico scomparso, sin dalla preparazione del lontano Congresso internazionale di Amsterdam, del settembre 1950, su “II Guerra mondiale a Occidente” e la viva amicizia che lo ha legato a lui nei molti anni di comune lavoro; non può infine dimenticare le sue ripetute dichiarazioni di ri- conoscenza, per avergli dato la possibilità, in occasione degli incontri in quegli anni lontani, di conoscere Ferruccio Paro, della cui figura, egli stesso attivo resistente, fu sempre un grande e devoto ammiratore.
Giorgio Vaccarino