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MIRKO ZILAHY

CINQUE MOSCHE D’ORO BIANCO

Un caso di ENRICO MANCINI

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L’effluvio spezza il fiato, brucia gli occhi, aggredisce le

narici prima ancora di varcare la soglia. È una porta, se così si possono chiamare quei quattro assi grezzi e la maniglia d’ottone recuperata chissà dove. In questi casi hai due possibilità: fermarti e lasciare il grosso ai ragazzi della scientifica, oppure buttarti dentro e farti inghiottire dall’inferno che si spalanca a un metro da te.

Per Enrico Mancini questo è l’unico modo di esaminare la scena di un crimine. Osservare tutto insieme, in un unico colpo d’occhio, lasciarsi vincere dalla prospettiva dell’accesso, improvvisa e illuminante, e posare lo sguardo sui macabri tasselli del mosaico solo un istante dopo.

«Cinque minuti», sussurra ai tecnici della scientifica ed entra con la Beretta in mano, il solito pensiero lo fulmina come uno schiaffo immateriale. È arrivato il momento? Sta per beccarsi la sua ultima pallottola? È allora che torna quell’immagine: il suo corpo per terra, gli occhi scuri sbarrati e un buco rosso e nero in mezzo alla fronte.

Però non troverà lì il suo uomo, lo sa. I controlli all’aeroporto hanno confermato già da mezz’ora che il sospettato ha preso un volo per Caracas due giorni prima. Se l’è fatto scappare. Voleva prenderlo. Sentiva già il sapore della caccia, l’eccitazione dell’inseguimento.

Quando l’aspro cigolio dei cardini lo spinge a ficcare lo sguardo nella penombra, la memoria recupera ogni centimetro, ogni linea, ogni minima imperfezione del viso di Marisa. È lei la garanzia della sua eternità, la certezza di

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andarsene con impressa negli occhi e nel cuore la cosa più preziosa che ha.

Un sorriso gli increspa le labbra. Mancini tira il fiato ed entra.

Due settimane prima, al tramonto, Marisa lo aveva accompagnato

alla stazione di Roma Termini. Nel silenzio della canicola romana, l’arida palla di fuoco si specchiava nei suoi occhi grandi e nel lilla sbiadito del «vestitino dell’addio». Era il completo che indossava alle fermate dei taxi, nelle stazioni ferroviarie o in aeroporto. Una delle loro consuetudini per celebrare col sorriso sulle labbra le frequenti separazioni. Ci era abituata e non si lamentava delle assenze di Enrico, anche quando, ogni sei mesi, lui attraversava l’Atlantico per seguire i corsi d’aggiornamento a Quantico, in Virginia. «Criminal profiling»: Marisa ne aveva sentito parlare ma non aveva mai voluto approfondire. Gli unici «criminali» che studiava lei erano i suoi scrittori. Erano così diversi loro due: lo sbirro e la ricercatrice, gli assassini seriali e gli autori della letteratura italiana. Quella sera anche lei avrebbe fatto le valigie. Avrebbe preso il pullman per rintanarsi a Polino, il piccolo borgo umbro dove prendevano in affitto una casetta di legno e di pietra. Lo avrebbe atteso lì, immersa tra le carte, in compagnia dei suoi libri illeggibili. Era nelle loro regole: durante i soggiorni in trasferta per casi efferati, l’unico contatto che avevano erano gli sms. Uno al giorno. Per la buonanotte. Non voleva metterla in pericolo, non voleva che si preoccupasse per lui. Era una specie di patto implicito. Lei non si interessava dei suoi casi e lui ignorava, ben felice, gli autori di Marisa.

Adesso Enrico Mancini si guarda intorno, gli occhi

inseguono le lame e i coni di luce che penetrano dalle tavole di legno e dai foratini bucati. Ha letto i rapporti sull’omicida seriale, ha studiato le scene dei ritrovamenti, conosce il modus operandi del mostro, la sua firma, ne ha steso un profilo dettagliato: le caratteristiche fisiche e psicologiche, le

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abitudini, il mestiere, e quel lugubre passatempo. Una volta circoscritti i sospetti, ha predisposto il laccio attorno alla preda. Solo che un attimo prima di stringerlo quella è volata via.

Il senso di frustrazione si acuisce. Cerca di concentrarsi su quello che deve fare. Mancini non ha dubbi: è lì che troverà le prove. Ed è lì che lo aspettano i corpi di quelle povere ragazze. Perché è proprio lì, nei campi del pavese, tra le enormi zolle erbose, che a pochi giorni l’una dall’altra sono state rinvenute le cinque piccole fedi d’oro bianco, ancora infilate agli anulari mozzati.

Stefania, Cinzia, Mara, Eva e l’ultima, Margherita. A sentire le tv e le testate giornalistiche nazionali, si tratta

del «killer di Casteggio». La stampa locale lo ha invece ribattezzato «il signore degli anelli».

Sono trascorsi due minuti da quando Mancini è entrato in quell’ambiente a metà tra un laboratorio e una stalla. Tiene il conto sulla punta delle labbra. Centoventicinque, centoventisei. E annusa l’aria. Da qualche parte tra le quattro pareti di quella baracca addossata a un fienile nelle campagne tra Voghera e Casteggio, i batteri colonizzano un corpo in decomposizione, scompongono i tessuti e rilasciano nell’aria minuscole particelle di gas. L’effluvio di metano, fosforo e azoto disegna le spirali invisibili su cui guizzano nugoli di sarcophaga carnaria.

L’unico esperto con cui Mancini ha accettato di dialogare è il suo

vecchio maestro, il professor Biga, criminologo della scuola romana alle soglie della pensione. Si confrontano a distanza, telefonicamente, tutte le sere. Non ama le squadre, Enrico Mancini, è abituato a lavorare da solo, a fornire consulenze e profili psicologici attraverso i materiali e i testi a disposizione, incrociando elementi, dati, immagini, foto della scena del crimine.

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Le ricerche hanno rivelato che le fedine sulle dita mozzate hanno tutte il medesimo grado di purezza. La cosa che non torna è la marchiatura che lo riporta. La punzonatura dei cinque anellini reca un segno comune a tutte: tra le microscopiche cifre dei millesimi Mancini ha scoperto un segno minuscolo. Uno per ciascuna fedina. Ha passato una notte intera a giocare con le lenti d’ingrandimento e alla fine ha scoperto che quelle incisioni quasi invisibili non sono altro che le cinque lettere. La parola che è venuta fuori dal gioco d’incastri di Mancini è GATTI. Nessun riferimento zoologico, solo uno dei cognomi più diffusi della zona. Ma soprattutto il nome di un orefice di Piacenza. Livio Gatti.

Dopo aver ricevuto i fax di Carlo Biga – che non ha

ancora ceduto alle lusinghe dell’informatica – pieni di appunti, scarabocchi e disegni, ora Mancini riconosce gli aggeggi appesi al muro o deposti sui banchi della bottega. Nell’ambiente che lo circonda si fonde, s’incide, s’incastona, si lavora con gli acidi, gli abrasivi, le colle e i mastici. Apparecchi per la saldatura, cannelli a gas, ciotole e sali per il decapaggio. Dispositivi per la fusione dei metalli, crogioli in grafite e pinze a molla di forme e grandezze differenti. A destra, per terra, una dozzina tra mattoni e piastre refrattarie. C’è anche un banco per la pulitura e l’aspirazione, trafile e mandrini d’acciaio, tre forni a gas, frese, buratti e bulini.

I colleghi di Pavia hanno segnalato che la villa di Livio Gatti è

stata ispezionata da cima a fondo e il negozio vicino all’università è chiuso da una settimana. Nessuna traccia del killer. Per questo caso Mancini ha dovuto mettere da parte diplomi e riconoscimenti internazionali e ha tirato fuori la sua anima da sbirro vecchio stampo: ha fatto visita al negozio di Voghera gestito dai cugini. Lo zio è scomparso due giorni prima senza preavviso. Non lo hanno visto in negozio. Niente di preoccupante però, è sempre stato un tipo riservato.

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«È partito all’improvviso?», ha chiesto Mancini alla cugina che dirige l’oreficeria.

«Era un po’ che lo diceva, che ci avrebbe lasciati prima o poi. Per cambiare vita. Soldi ne aveva. Non abbiamo sue notizie da giorni». La donna gli è sembrata infastidita. Se ne è accorta anche lei, ha scosso la testa e si è giustificata ammettendo che Livio Gatti non era proprio ben visto in famiglia perché era uno che faceva discutere tutta la comunità e quelle chiacchiere non facevano certo il bene dell’azienda. Poi si era lasciata sfuggire: «Chissà cosa ci è andato a fare laggiù».

Sì, per arrivare dentro a quell’inferno Mancini ha condotto le ricerche come quando non c’era Internet. Dai giornali scovati nella piccola emeroteca del posto ha ricavato le informazioni generali, le impressioni dei cronisti locali sull’uomo. Ne usciva come un artigiano capace e creativo. Molte sue opere avevano vinto dei premi nazionali. Un’eccellenza, un imprenditore di successo. Ma anche un uomo taciturno, senza moglie né figli. Dopo il colloquio con la famiglia, Mancini è sceso in strada. In una nebbiosa mattina d’estate ha fatto un giro in centro, ha annusato l’aria, preso una dozzina di caffè al bar centrale, chiacchierando col barista e qualche cliente abituale. Poi è passato in farmacia, quella sotto il portico. Il farmacista è un tipo alto e magro sui cinquantacinque anni, con capelli castani striminziti come le sue parole: «Livio Gatti era un cliente sporadico, ma prendeva sempre lo stesso preparato. Un unguento emolliente per la pelle a base di oli vegetali».

Alla fine dei colloqui il ritratto che Mancini ha ricostruito è quello di un commerciante onesto, un artigiano ammirato. Un’infanzia regolare, nessun segno d’instabilità, nessuna alterazione psicologica né traumi di carattere sessuale. Tutto più o meno nella norma, se non fosse per quell’episodio sfortunato, come lo ha definito l’anziano parroco. L’incidente alla sorella più grande. Una banale caduta dalle scale della villa di famiglia trasformatasi in tragedia. Nessuno gli aveva rinfacciato di aver lasciato la sua macchinina preferita, una Bugatti, proprio in cima alle scale, ma da allora, stando alle testimonianze delle

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parrocchiane amiche della donna, la signora Gatti aveva reciso il sottile filo dell’affetto e sospeso ogni contatto fisico il figlio che si era via via chiuso in se stesso.

Il profilo psicologico post trauma era mutato radicalmente trasformando quel ragazzo in un individuo ossessionato dalla madre, una donna tanto bella quanto distante, dopo quel lutto terribile. L’anziana maestra delle elementari lo ricordava come un bambino introverso ma sensibile, capace nel disegno e nei temi il cui soggetto era, inevitabilmente, la mamma.

Ora, mentre si sposta nella baracca tra gli strumenti,

l’odore della carne e dei reagenti chimici che aleggia come l’ombra di un sudario, Mancini coglie la presenza di un intruso. Un oggetto. Sul bancone di ferro c’è il monitor di un pc. Fissa lo schermo scuro che riflette il suo mezzobusto opacizzato, la camicia nera, la sottile cravatta grigia appesa al collo, i ricci scuri, la faccia allungata. In basso a destra brilla una lucina verde. Con la Beretta nella sinistra, Mancini avvicina la mano coperta dal guanto di lattice e sfiora il mouse. Il monitor si rianima con un clic che echeggia come un boato tra le pareti di legno del capanno animando il caotico volo delle mosche.

Un attimo dopo il 14” s’illumina. Il desktop è celeste, vuoto, se non per una cartella in un angolo. È senza nome, Mancini ci clicca su, dentro c’è un file Photoshop. Riclicca e quello si apre rivelando lo sfondo bianco. Mette a fuoco, guarda meglio. Lo schermo mostra qualche linea sottile che ricorda i disegni degli album per bambini, quelli scomposti in varie parti da colorare. Ci mette un attimo Mancini per distinguere, per comprendere la natura della figura. È un puzzle, un mosaico, il progetto di un monile. Maestoso. Reale.

Un gioiello di carne e metallo.

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Un collage di corpi incastonati. Solleva il mento e sposta la testa perché ora ha capito.

Lui è ancora qui. Non potrebbe essere altrove. Si guarda attorno, il respiro cresce nell’umida penombra del rifugio. A destra individua una porta che non aveva notato, è malamente pitturata di rosso. Ci posa il palmo della mano e spinge piano. La luce filtra dalle assi marce e illumina la stanzetta. Appena la mano si stacca dalla superficie il colore resta incollato alle dita.

È dentro. Era tutto lì, nella poesia che Livio aveva scritto per il concorso delle

scuole medie e che Mancini era riuscito a procurarsi spulciando il vecchio archivio scolastico. La scomparsa della donna, vittima di una brutta malattia, sembrava aver acuito il senso d’isolamento del ragazzo. Nel componimento, che risaliva a tredici giorni dopo il lutto, le mani bianche della madre, gli occhi neri, le carezze scomparse e quel verso con cui si chiudeva la breve prova poetica: mamma, perdona il tuo bambino/ perdonalo mamma, perché non ha colpa.

Terminate le superiori, Livio Gatti si era messo anima e corpo sul lavoro nella bottega di famiglia. L’unico indizio emerso dall’archivio del suo negozio, erano le schede che raccoglievano e catalogavano un’infinità di fotografie. Cinquecento fototessere di ragazze spillate sull’angolo di ciascuna pagina e qualche informazione di carattere personale. Il grosso di quelle pagine era però occupato dalle istantanee di quelle mani femminili. Gli anulari sottili cerchiati dalle fedine confezionate per loro. Un paio di episodi ambigui durante le prove degli anelli, forse quelli cui aveva vagamente accennato la nipote, e in paese qualcuno aveva iniziato a far girare la voce che al signor Gatti le ragazzine piacevano fin troppo.

Il profilo definitivo del serial killer combacia al 74% con quello del gioielliere. Perciò Mancini si è rimesso a testa bassa finché le ricerche al catasto non hanno svelato l’esistenza di quel posto in aperta campagna

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vicino a Casteggio. Appena sceso dalla macchina, davanti alla struttura di legno, mattoni e lamiere, Mancini lo ha sentito, Livio Gatti. Anzi, lo ha immaginato, come gli capita spesso. Lo ha visto muoversi, trascinare i corpi delle giovani. È lì che le ha operate. È proprio lì dentro che ha amputato i cinque anulari. Quello è stato il suo nascondiglio chissà per quanto tempo. E lì Mancini spera di trovare almeno qualche indizio prezioso, se non addirittura i corpi.

Fra i banchi da lavoro, i tirafili e laminatoi, Mancini

registra una quantità di pinze, trapani e bruciatori che solo la fucina di un orafo può ospitare. Dall’odore che aleggia nell’ambiente dietro il laboratorio sa anche che stavolta quegli strumenti hanno distrutto piuttosto che creare. Hanno smembrato, invece che plasmare. Lo sguardo scivola sulla scia scarlatta che sale dal pavimento lungo il banco da lavoro e si arrampica fino a un binario da cui pendono cinque ganci d’acciaio.

Mancini viene accolto da un’esibizione di carni degne di un mattatoio domestico. Sull’ennesimo ripiano la furia della muffa ha lavorato senza sosta. Le inflorescenze delle sue spore nascondono tentacoli e filamenti che s’insinuano sotto la superficie rugosa del pancreas. Sul fegato, riposto lì accanto, palpitano le larve della sarcophaga carnaria. A miriadi, le uova si schiudono nel loro biancore lattescente. Migliaia di uncini popolano quelle bocche, inesausti motori della fame. Incessanti macchine divoratrici. Serpeggiano, brucano, lacerano, svuotano, le teste immerse nella carne stremata. È l’officina del diavolo. Un crogiolo di carni e metalli.

Lo trova lì, esposto. Vivo e morto, l’argento che scava la polpa.

L’opera del mostro è quasi compiuta.

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Mancini sa di avere davanti agli occhi Mara, Cinzia, Eva e Stefania. O almeno una parte di loro.

Lì, mescolati tra loro, inchiodati alle assi di legno della parete sud, danno mostra di sé i pezzi dei corpi ormai senza nome. L’assurdo coacervo di arti trova senso nella perfetta riproduzione della folle opera d’arte che Mancini ha appena scoperto. Da una botte di legno in fondo alla stanza emergono gli scarti, le parti inutilizzate per la statua cadavere.

L’ultima era scomparsa sotto il naso del nonno che l’aveva

accompagnata a pallavolo e la aspettava su una panchina fuori dalla palestra. Non si erano più rivisti. La fedina scintillante era stata ritrovata al centro di una zolla in aperta campagna, all’ombra di un platano. Attaccata al piccolo anulare.

Le cinque ragazze hanno tutte tra i nove e i dodici anni, ma secondo Mancini all’assassino interessa l’età apparente: le vittime devono essere d’aspetto assimilabile a quello della sorella quando è morta, quando il mondo ha smesso di girare, quando la madre ha finito di amarlo per dedicarsi alla memoria della figlia scomparsa. È di lei che si è vendicato Livio Gatti.

Mancini sa che le ha stordite con un reagente tossico, ha

amputato l’anulare e le ha uccise. Ma ora lo vede, lo immagina, mentre opera e dispone quei corpi su quella specie di croce. Adesso sa cosa fa con le sue bambole di carne.

Sussulta quando il cellulare che tiene nella tasca del jeans vibra una volta sola. È un messaggio. Ora non può. E se fosse Marisa? Pesca l’aggeggio e pigia il tasto al centro. È un SMS dell’ispettore Comello.

GATTI NON È MAI SALITO SU QUELL’AEREO. Cristo!

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È solo allora che se ne accorge. Il quadro non è completo. Manca la gamba sinistra per completare il progetto che Mancini ha scoperto sul computer poco prima.

Manca Margherita. Improvviso come la vibrazione di un attimo prima, un

sottile rumore metallico scivola dentro dalla parete di foratini che ha di fronte. È coperta, solo ora lo vede, da una pesante tenda color mattone. La Beretta M9 rincorre l’impressione sonora, Mancini toglie la sicura e arretra il carrello nel momento in cui un mugolio gli fa drizzare i peli sulle braccia. Sposta la tenda con l’altra mano. Lentamente, mentre una goccia di sudore si stacca dalla fronte e indugia, fastidiosa, sul sopracciglio.

Margherita ha il viso stravolto, gli occhi neri, la faccia bagnata di sudore, una fascia per capelli ficcata in bocca. La mano destra rivela l’amputazione, probabilmente cauterizzata con una fiamma ossidrica a giudicare dal colore della bruciatura che avvolge la falange moncone.

Lì accanto, gli occhiali protettivi sulla fronte, l’uomo continua il suo lavoro con l’attenzione dell’artigiano. È di spalle e non si è accorto di Mancini. Nemmeno la ragazza se n’è accorta. Meglio, non deve svelare la sua presenza. Avanza con la pistola puntata alla nuca dell’orafo che sta posando una piccola pinza per poi avvicinare un seghetto all’inguine della ragazza su tavolo.

Porterà a termine la sua opera, assieme alla sua vendetta. La ragazza stacca lo sguardo dalla propria gamba e scorge

la sagoma scura di Mancini oltre il corpo ricurvo del pazzo. Margherita respira e sbarra gli occhi mentre l’ispettore fa lo stesso per dirle di star zitta. Lei ci prova nonostante la sega ad acqua portatile inizi a vibrare a venti centimetri dall’inguine.

«Shhhh, calma», le dice l’uomo.

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«Posala e alza le mani sopra la testa», replica lo sbirro alle sue spalle. «Poi girati piano».

Tutto si ferma. La sega continua a vibrare e delle piccole gocce, d’acqua o di sudore, scivolano sul pavimento bagnato di sangue.

«Aiuto», sussurra appena la ragazza». Mancini annuisce mentre il corpo di schiena sembra

essersi fatto di pietra. «Girati tu, sbirro», scandisce la voce asciutta, sicura. «E

vattene da dove sei venuto» La forma ripiegata si volta lentamente. Intanto si solleva.

La Beretta segue la torsione del busto prima di completare il movimento. La camicia verde è aperta sul petto. Sotto c’è una t-shirt bianca chiazzata di rosso.

Mancini suda freddo, avverte che il prossimo è l’istante esatto per agire. Per spezzare il silenzio e rompere la cieca sicurezza del criminale. Ma è l’altro che affonda: «Visto il mio disegno, di là, sullo schermo?»

Poi sorride e punta l’indice verso il totem addossato al muro. «Che dici, sbirro, mi è venuto bene?»

Mancini lo fissa con la pistola sempre in pugno e le pupille che vibrano per la tensione.

«Ho quasi finito», conclude. L’espressione cambia, si riempie di meraviglia quando lo

sguardo scivola dal viso di Mancini lungo la spalla sinistra, corre per il braccio e si posa, incredulo, sulla mano armata. Un’espressione folle e innocente che Enrico Mancini non dimenticherà più. Un attimo dopo quel viso bambino si trasforma in nel muso di un animale cieco di rabbia. Un animale che si avventa contro l’intruso, contro l’adulto che ha interrotto il suo gioco di carne e metallo.

Con la sega ancora accesa nella mano destra.

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Mancini preme l’indice sul grilletto, ma un attimo prima di avvertire il rinculo dell’arma il dito esita. Fa in tempo a intuire che se spara rischia di colpire Margherita. Quell’attimo di esitazione produce un effetto immediato – il signore degli anelli ne approfitta per scagliare avanti la sega che sfiora l’addome dello sbirro che si è lanciato di fianco per evitarla – e uno secondario – il volo di Mancini s’interrompe quando le sue costole sbattono contro lo spigolo di uno dei tavoli d’acciaio. La vista si offusca e le orecchie si riempiono dell’incessante martellio del sangue quando atterra al suolo. Agita le mani alla cieca nella speranza di pararsi la faccia dall’arnese. Il rumore della sega è cessato. Mancini batte forte le palpebre mentre due stanze più giù esplodono i rumori dei ragazzi che entrano. La Beretta è scomparsa. E anche il suo uomo è scomparso.

Dietro la sagoma della ragazza intravede lo spiraglio di una porta che conduce all’esterno. Allarmati dal rumore, i colleghi della scientifica fanno irruzione. Mancini fa cenno di soccorrere la ragazza, che sembra svenuta. Vicino alla porta ritrova la Beretta. La raccoglie ed esce.

Il giorno sta per morire e il sole scivola rapido dietro la barriera di eucalipti che tiene in ombra il capanno da cui Mancini è uscito. L’aria lo riscuote dal piccolo trauma. Inspira forte e avverte il dolore al fianco. Non sanguina, ma ci preme la mano e avanza verso la vegetazione. Oltre la linea degli alberi c’è una piccola costruzione, sembra una specie di rimessa per trattori o macchine agricole. Mancini gira intorno fino all’entrata. Dentro non c’è niente, a parte delle balle di fieno e dei ganci al soffitto. E soprattutto non c’è nessuno. Mancini si avvicina ed entra sempre con l’arma in pugno. Sulla parete in fondo sono fissati degli attrezzi agricoli e una specie di piccola bacheca di sughero.

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Con una frazione di secondo di ritardo Mancini si volta e ritrova quella faccia stravolta da un dolore indicibile. La falce cala su di lui e si abbatte sulla spalla sinistra. Strazia il giubbotto di pelle e affonda nel corpetto antiproiettile. Infine incide la pelle, affonda appena, quella cosa fredda, lenta e precisa. E si ferma prima dell’omero. Le pupille del poliziotto si dilatano e incontrano quelle del mostro. Dentro vede solo paura e dolore, nemmeno la traccia del male che porta con sé.

Il vento agita le minuscole foglie dell’eucalipto e fa cigolare le pale del mulino qualche centinaio di metri più giù, vicino al canale. Il soffio s’insinua tra le finestre della rimessa e accarezza la lama dentro la carne. Il dolore si risveglia, e quando il ghiaccio diventa fiamma Mancini chiude gli occhi e fa fuoco.

Il colpo si assesta alla gola, quasi senza un preciso atto di volontà da parte di Mancini. È partito da solo, ed ha spezzato la vita del mostro. La falce cade in terra con un tintinnio che sa di ruggine. Il corpo piomba con un tonfo sordo. Mancini lascia andare la Beretta e scivola su un ginocchio, la mano destra sulla spalla sinistra.

A un metro da lui giace l’altro, senza vita. Si china sul corpo dell’orafo. È riverso a pancia in su, il viso sporco di sangue è quello di un adolescente o poco più, le mani curate, piccole, morbide. Una fedina d’oro bianco all’anulare. Dalla giacca a costine, ora è aperta, devono essere scivolati fuori un paio di guanti di pelle che giacciono in terra. È evidente che sono parecchio più piccoli delle mani del killer. Accanto c’è anche un piccolo rettangolo di plastica. Mancini allunga la mano tenendo la Beretta sempre puntata sul corpo. È la carta d’identità dell’orafo. Mancini sente il respiro che accelera. Scosta i lembi del documento e si accorge che dentro c’è qualcos’altro. C’è un’altra carta d’identità. Chiusa.

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Vecchia, consunta. La sfila, mentre il cuore pompa e la vista vacilla di nuovo. Deglutisce a secco e la apre.

È sbiadita, ingiallita. La fototessera mostra una donna di mezza età di una bellezza antica, gli occhi verdi, i capelli nerissimi messi in piega, il sorriso tagliente. Lo sguardo severo, sicuro, distante.

L’inchiostro si vede poco e tra le voci ormai quasi cancellate si legge ancora la data di nascita, il 15/5/49, s’intuisce lo stato civile, CONIUGATA. Professione, residenza e connotati sono stati quasi del tutto raschiati via dal tempo. Gira il documento verso la luce rossa dell’ultimo sole e prova a decifrare la parte superiore. Gli occhi incerti di Enrico Mancini inseguono le lettere, poi s’inchiodano, sospesi d’incredulità. Si spostano sul volto di Livio Gatti, stanchi e turbati. Alla fine tornano sul documento della donna e finiscono per perdersi in quel vortice di segni. Inspira a pieni polmoni. Ci prova almeno, perché in quell’istante l’aria gli sembra di fuoco.

COGNOME: BALDI NOME: STEFANIA CINZIA MARA EVA MARGHERITA

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