mensile - anno xiv - numero 1 - gennaio 2014 - 7 · cosa ci aspetta?, di raffaello giorgetti, 12...

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“Poste Italiane S.p.A. – Spedizione in abbonamento postale – D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, Roma/Aut. N. 72/2009” MENSILE - ANNO XIV - NUMERO 1 - GENNAIO 2014 - 7 EUROPA ADDIO Salviamo i nostri «marò» del «San Marco»

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ISSN 1973-5936

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MENSILE - ANNO XIV - NUMERO 1 - GENNAIO 2014 - € 7

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1 IL BORGHESE Gennaio 2014

Piccola Posta, 2 Le parole degli «Altri», di Claudio Tedeschi, 3 La peggio gioventù, di Riccardo Paradisi, 5 Per una nuova destra: Ripartire dalle grandi idee, di Carlo Vivaldi-Forti, 6 «Camion» e forconi, di Ruggiero Capone, 7 Il «sistema» è marcio, di Filippo de Jorio, 10 Cosa ci aspetta?, di Raffaello Giorgetti, 12 Per loro niente «cimice», di Filippo Giannini, 13 I fuorilegge dettano legge, di Mauro Scacchi, 14 È l’ora dei finti babà, di Franco Jappelli, 15 I rottamatori della destra, di Adalberto Baldoni, 16 Perché continuare, di Alessandro Mezzano, 18 La destra dopo Renzi, di Riccardo Scarpa, 19 Cercasi un nuovo «leader», di Francesca Siciliano, 20 L’ultima illusione, di Americo Mascarucci, 21 Non si tocca la Resistenza, di Gianfranco de Turris, 22 Se Dio è morto, di Adriano Segatori, 24 A colpi di … forcone, di Adriano Tilgher, 26 Sport e solidarietà, di Fiorenzo Pesce, 27 Un nodo da sciogliere, di Michele Marino, 29 Come te lo smonto, di Hervé A. Cavallera, 30 Ad ognuno la sua, di Alessandro Cesareo, 31 Un colpo di Stato, di Alessandro P. Benini, 33 Attenti alla posta!, di Antonio Saccà, 34 Svendesi Italia, di Mimmo Della Corte, 35 Tre vecchietti con 6,20 euro, di Gigi Moncalvo, 36 Uscita di sicurezza, di Sandra Porri, 37 Il limone è spremuto, di Enea Franza, 38 È frutto del liberismo, di Manlio Triggiani, 39 Uno spettro a Kiev, di Andrea Marcigliano, 41 L’Ucraina tra est ed ovest, di Alfonso Piscitelli, 42 Casa Bianca in difficoltà, di Francesco Rossi, 43 Santa Sofia con il velo, di Alberto Rosselli, 44 La saga dei Shinawatra, di Daniella Binello, 45 Tanti auguri, democrazia!, di Gianni Correggiari, 47 Londra a numero aperto, di Giuseppe de Santis, 48 In Polonia come in India, di Massimo Ciullo, 50 «Non fu terrorismo», di Nicola Ventura, 51 Colonizzata dall’inglese, di Michele Rallo, 52 Soldato non chiedere …, di Mary Pace, 52 Un grande successo grazie all’Ambasciatore Morabito, di Roberto Incanti, 54 L’angolo della poesia, 79

IL MEGLIO DE «IL BORGHESE»

LE INTERVISTE DEL «BORGHESE»

TERZA PAGINA

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI

LIBRI NUOVI E VECCHI

Le foto e le vignette che illustrano alcuni articoli sono state in larga parte

prese da Internet, e quindi valutate di pubblico dominio

«Cumulisti» giganti, di Mario Tedeschi «Tre Dita» i suoi «amici», di F.D. Il Mondo senza diritto

Luigi Clemente-Un modo di vivere, a cura di Aldo Ligabò, 28 Erasmo Cinque-«Caro Renzi-Messia, attento, se non mantieni le promesse la gente ti crocifigge» Giacomo Guidi-Passioni, dalla scherma all’arte, di A. M. Santoro, 70

Un’amorevole ipocrisia, di M. Coda, 57-Non è nel dove, ma nel chi ha generato, di E. Schiu-ma, 58-Risorgimento d’Europa o repubblica delle banane?, di R. Scarpa, 60-Sfide di Pound poesia-vita arte-usura, di V. Conte, 62-L’invito a guardarsi allo specchio, di M. Bozzi Sentieri, 63-Pittura e teatro in Emilia Di Stefano, di E. Passaro, 64-L’abuso delle mostre, di R. Rosati, 65-Scrivere per narrare il mondo dentro di noi, di M. Bernardi Guardi, 66-Il senso tragico dell’esistere, di M.M. Merlino, 67-I Trenta Tiranni e l’ipocrisia, di M. Lo Foco, 68

Insoliti destini ed altre stranezze, di A. C. Ambesi, 69-Si fa preso a dire «festival», di M. Lo Foco, 71-Cinema: Il passato non muore mai, di A. Ligabò, 72

Paradossi, contraddizioni e ambiguità di una origine, di G. Sessa, 73-Il Nemico assoluto, di G. Sessa, 74-Io sto con la cicala, di M. Bozzi Sentieri, 75-Schede, di AA.VV., 76

SOMMARIO DEL NUMERO 1 Mensile - Anno XIV - Gennaio 2014 - € 7,00

Questa testata non usufruisce dei fondi per il finanziamento pubblico dell’editoria

Direttore Editoriale

LUCIANO LUCARINI

Direttore Responsabile CLAUDIO TEDESCHI

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Disegnatori: GIANNI ISIDORI

GIULIANO NISTRI

Redazione ed Amministrazione

Via Gualtiero Serafino, 8 00136 Roma

tel 06/45468600 Fax 06/39738771 [email protected]

PAGINE S.r.l.

Aut. Trib. di Roma n.387/2000 del 26/9/2000

Stampato presso

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00163 Roma (RM)

Per gli abbonamenti scrivere a: IL BORGHESE

Ufficio Abbonamenti Via Gualtiero Serafino, 8

00136 Roma

Alberto C. Ambesi, Adalberto Baldoni, Alessandro P. Benini, Mario Bernardi Guardi, Daniela Binello, Mario Bozzi Sentieri, Giuseppe Brienza, Ruggiero Ca-pone, Hervé A. Cavallera, Alessandro Cesareo, Massimo Ciullo, Mario Coda, Vitaldo Conte, Gianni Correggiari, Filip-po de Jorio, Giuseppe De Santis, Gian-franco De Turris, Mimmo Della Corte, Enea Franza, Filippo Giannini, Raffaello Giorgetti, Roberto Incanti, Franco Jap-pelli, Aldo Ligabò, Michele Lo Foco, An-drea Marcigliano, Michele Marino, Ame-rico Mascarucci, Mario M. Merlino, Alessandro Mezzano, Gigi Moncalvo, Mary Pace, Riccardo Paradisi, Maria Rita Parroccini, Errico Passaro, Fioren-zo Pesce, Alfonso Piscitelli, Sandra Por-ri, Michele Rallo, Riccardo Rosati, Al-berto Rosselli, Francesco Rossi, Antonio Saccà, Anna Maria Santoro, Giuseppe Sanzotta, Mauro Scacchi, Riccardo Scar-pa, Enzo Schiuma, Adriano Segatori, Giovanni Sessa, Francesca Siciliano, Adriano Tilgher, Manlio Triggiani, Nico-la Ventura, Carlo Vivaldi-Forti

HANNO COLLABORATO

2 IL BORGHESE Gennaio 2014

Stiamo vivendo un tempo nel quale pare non esserci più alcun limite alla decenza, in cui la voglia di protagoni-smo nei salotti televisivi porta a lacera-re qualunque decenza istituzionale. Il rispetto per le Istituzioni è un valore fondante e forse mai si è assistito ad una caduta di dignità come quella a cui stiamo assistendo impotenti.

ADALBERTO DE�BARTOLOMEIS

FEMMINICIDIO Da qualche tempo un nuovo ter-

mine si è imposto all�attenzione dei media: «femminicidio». Prontamente i soliti sciacalli della politica hanno aderito a manifestazioni sul tema, di-chiarando di «essere contro il femmi-nicidio». A parte la sconcertante ba-nalità di tale asserzione, giacché appa-re alquanto ovvio che nessuna persona sana di mente approverebbe un assas-sinio, è irritante la strumentalizzazio-ne politica che è fatta da chi organizza «campagne di sensibilizzazione», del-le quali, in effetti, sfugge la reale utili-tà, in quanto la vera causa dell�au-mento dei casi di assassinii di donne non è da ricercarsi nello sciovinismo nostrano. Ciò che è sottaciuto, infatti, è che gran parte di tali casi vede coin-volti mussulmani, che mal sopportano la liberalità dei costumi occidentali, e quindi a ben vedere il «femminicidio» altro non è che un�ulteriore riprova del fallimento della cosiddetta «integrazione» multiculturale.

SIMONE DE BARTOLO

DI PADRE IN FIGLIO Caro Il Borghese, a te sono legati i

miei ricordi giovanili più intimi. Mio padre ti portava in casa e, come tutti gli adolescenti di allora, sbirciavo col bat-ticuore le foto un tantino osé per l�epo-ca. Chi lo avrebbe detto? A cin-quant�anni di distanza, dopo averne viste e vissute di mutazioni e cama-

leontismi della «destra» italiana, dopo aver visto morire i nostri eroi per quell�Ideale ed averne visto vituperare la memoria dagli omuncoli del mo-mento, pre e post Fiuggi, dopo aver trattenuto le risa a questo tentativo di ricostruzione della «destra» operato da quelli che l�hanno ammazzata �, dopo cinquant�anni, riesci a farmi palpitare ancora, caro Il Borghese, nella speran-za che le nostre giovani genti possano recuperare nel fondo del loro spirito, l�autodifesa di una Nazione ingannata dai millantatori di una mondializzazio-ne multirazziale che sa distribuire solo fame al popolo e miseria nell�anima degli uomini.

ALFREDO MORETTI

SULLA COSCIENZA DI CHI QUESTI AFRICANI AFFOGATI?

Gli italiani non si assumono alcu-

na responsabilità per gli ennesimi Africani affogati nel Canale di Sici-lia. Quei morti siano sulla coscienza degli «Alti» fautori della «accoglienza», di quei partiti e di quei politici, come la Kyenge del PD e la Laura Boldrini di SEL, che con i loro proclami, spingono i più poveri verso l�illusione del nostro benessere. Se fuggono dall�Africa lo addebitia-mo pure a chi ha voluto chiudere l�è-ra coloniale, mettendo popolazioni intere in mano a politici africani inet-ti e incompetenti, oltre che ladri e criminali, solo per permettere a go-verni occidentali e orientali di conti-nuare a derubare l�Africa delle sue ricchezze minerarie e delle sue terre più produttive.

GIORGIO RAPANELLI

LA QUESTIONE INDIANA

E I DUE MARO� L�attitudine dei governi italiani a

mostrare incapacità a gestire una situa-zione grave come quella dei due milita-ri italiani imprigionati in India con l�ac-cusa falsa di omicidio plurimo, ha fatto il giro del mondo, gettando un�ombra vergognosa sull�Italia e purtroppo su tutti gli italiani che assistono sconcerta-ti alla vicenda.

I governi (prima Monti e poi Letta) che hanno gestito il caso avrebbero do-vuto in primis garantire il rispetto della Sovranità nazionale, lesa con la deten-zione dei due marò, che su una nave italiana in acque internazionali in qual-che modo rappresentavano l�Italia. In-vece hanno manifestato solo inerzia, incapacità, assenza di orgoglio nazio-nale. E ciò muove allo sdegno, specie se si viene colti dal dubbio che siano interessi di natura commerciale a frena-re l�azione italiana in difesa dei propri militari.

Sdegno che giunge al colmo quando i media indiani, complici le stesse autorità di giustizia, scherni-scano l�Italia con la minaccia, se pur smentita ufficialmente, della pena di morte per i due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Gi-rone.

L�Italia è sotto scacco di un ricatto da parte di un altro Stato che pretende, a titolo gratuito, la consegna a que-st�ultimo di unità della nostra Marina Militare! L�impressione è che la vera questione si giochi su questo terreno e poiché l�Italia non potrebbe mai cede-re a simili accordi, in mezzo ci sono due uomini che indossano un�unifor-me, ostaggi di una situazione ignomi-niosa che non ha precedenti!

Piccola Posta

Le lettere (massimo 10 righe dattiloscritte) vanno indirizzate a Il Borghese - Piccola Posta, via G. Serafino 8, 00136 Roma o alla e-mail [email protected]

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MENSILE - ANNO XIV - NUMERO 1 - GENNAIO 2014

potenziare al massimo l’espansione della sua attività econo-mica, inviò i suoi figli nelle maggiori capitali europee per avviare operazioni bancarie. Fu il terzogenito, stabilitosi a Londra che fece la fortuna della famiglia. Tra prestiti a Stati sovrani, appoggi alla Banca d’Inghilterra, finanziamenti a guerre, oro, petrolio, minerali vari, diamanti: la NM Roth-schild & Sons ha una forza economica nettamente superiore a quello dello stesso FMI. Dato che il denaro si accompagna al potere, va da sé che l’influenza sulla politica monetaria e finanziaria globalizzata ha il suo peso.

«Parole». La Lega si dichiara a fianco del Front Natio-nal nella lotta all’euro e contro i i boia di Bruxelles. Al suo fianco alcuni rappresentanti dei movimenti anti-euro, rap-presentativi di una Europa gelosa delle identità nazionali. Indicativa la presenza di un rappresentante della Russia di Putin. Immediata l’accusa di populismo e di sedizione.

«Parole». L’Unità ed il Manifesto, di domenica 15 di-cembre 2013, si distinguono per due articoli uguali e con-trari. Su l’Unità, a firma di Claudio Sardo, «I forconi nel vuoto della destra»; su il Manifesto, a firma di Roberto Biorcio, «Il forcone brilla nel vuoto della sinistra». Ora, si capisce che nella sinistra, sia di governo sia di lotta, regna una grande confusione. Infatti, il giornale del PD sostiene che dietro i forconi ci sia il «Grande Vecchio» di Arcore e che il tutto sia pilotato dalla strana alleanza tra FI ed il M5S, al fine di far cadere il governo ed andare al voto. Pe-rò, sostiene Sardo «... e se, a differenza di ciò che pronosti-cò Nanni Moretti, il colpo di coda del Caimano non fosse l’eversione istituzionale di ciò che resta del suo partito, ma il ribellismo anti-sistema dei suoi elettori sedotti e ab-bandonati?». Dall’altra parte Biorcio accusa la sinistra «di governo» di brillare per la sua assenza: «in parte è impe-gnata a difendere le politiche del governo e dell’Europa, in parte si pone all’opposizione, ma è troppo frammentata dagli steccati ideologici, dai personalismi e dai narcisismi di molti dei suoi dirigenti». Hanno ragione tutti e due: i forconi di dicembre rappresentano la risposta «ribelle» del popolo abbandonato dalla politica nelle mani avide delle banche e di Equitalia. Senza più lavoro, ma costretto a pa-gare le tasse, perché «la proprietà è un furto» e se possiedi una casa devi pagare!

In tutto questo disordine sociale, la destra politica che fu, si prende a schiaffoni per un simbolo, senza capire che dietro ad esso non esiste più nulla: né una società, né un popolo, né una comunità ideale, uccisa dopo Fiuggi da scartine politiche di quarta fila, desiderose soltanto di se-dersi a tavola con i «padroni», accontentandosi degli scarti.

Gli Altri. Sono quelle minoranze, politiche, sociali, economiche, che con le «parole» del «politicamente corret-to» governano sulla maggioranza in nome della democra-zia. La loro forza è il denaro, il potere che deriva da una storia riscritta a loro favore, da un sistema bancario in ma-no a pochi «gnomi».

Le loro sono soltanto «parole», e si sa che ferisce più la lingua che la spada. Forse è il momento di smettere di par-lare e passare alle spade.

Roma, 15 dicembre 2013

MENTRE il fenomeno dei forconi scuote l’Italia e provoca interventi governativi e ministeriali in difesa dello Stato e contro quella che Letta ha definito «una minoranza», men-tre Alfano dichiara che «non permetteremo di mettere a ferro e fuoco le città», mentre Renzi «incoronato» segreta-rio del PD afferma che «siamo ribelli e resteremo ribelli», ad Imperia un piccolo imprenditore strozzato dai crediti non riscossi e dalle banche che volevano il rientro dei fidi, si getta sotto un treno.

Mentre scriviamo non sappiamo cosa avverrà il 18 di-cembre a Roma, quando a Piazza del Popolo si svolgerà il presidio dei forconi. Niente corteo, vietato dalla Questura per motivi di ordine pubblico. Intanto, continua la polemi-ca accesa dalle «parole» di uno dei responsabili del movi-mento dei forconi, Andrea Zunino, in merito al potere eco-nomico «in mano ai banchieri ebrei». «Parole» che hanno provocato lo sdegno e la condanna di tutti i media, com-presi quelli cosiddetti di «destra».

Alle «parole» di Zunino, ha prontamente replicato Ric-cardo Pacifici, Presidente della Comunità ebraica romana: «La boutade del leader del movimento ripercorre le parole di nuovi e vecchi leader che nella storia del nostro conti-nente hanno portato alla catastrofe e alla morte di milioni di cittadini. Facciamo dunque appello prima di tutto a co-loro che sono nella disperazione di non farsi tentare dal “fascino” delle ideologie che immaginavamo sepolte». È giusto. Coloro che sono nella disperazione per la povertà, causata dalla mancanza di lavoro, nella miseria, per la mancanza di credito da parte delle banche, sull’orlo del suicidio, per colpa di una unione monetaria voluta, gestita e pilotata dalle banche e dalla finanza internazionale, non possono usare «parole» politicamente «scorrette».

Però - perché c’è un però - se torniamo alle origini del-la crisi che dal 2008 ha portato alla situazione attuale, tro-viamo come banca capofila la Lehman Brothers, fondata nel 1850 da Henry Lehman, emigrato tedesco di origine ebraica. Altra banca coinvolta è stata la Goldman Sachs, fondata nel 1869 da un tedesco di origine ebraica. Ambe-due concorsero con la loro gestione dei mutui sub-prime allo scatenarsi della bolla finanziaria che in cinque anni ha portato il mondo sull’orlo della bancarotta.

Però, e c’è un altro però, occorre guardare anche ad un’altra banca, la NM Rothschild & Sons. Il banchiere Am-schel Mayer Rothschild, verso la fine del 18° secolo, per

LE PAROLE degli «Altri»

di CLAUDIO TEDESCHI

liberi per tradizione

Crisi economica, corruzione, caste intoccabili, nessun ricambio della classe politica, perdita dei princìpi spirituali dell’uomo e della comunità na-zionale:

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5 IL BORGHESE Gennaio 2014

LA VECCHIA classe dirigente del PD, erede del PCI e di una frazione della sinistra democristiana, è stata spazzata via dalle primarie del partito che hanno investito Matteo Renzi di un plebiscito. Svolta storica destinata a rivoluzionare i connotati della sinistra italiana, ridurne il peso politico e mutare il suo baricentro. Emanuele Macaluso, che della sinistra italiana è la memoria storica, ha commentato così, con franchezza e fero-cia, il trionfo renziano: «È morto il PD. Io mi sono sempre rifiutato di chiamarlo partito. Era un aggregato di diessini che si erano illusi di poter governare il Paese assemblando un pezzo di DC. Non poteva che finire miseramente».

Una fine miserrima che peraltro non lascia indovinare nuovi inizi. Improbabile pensare che alla sinistra di Renzi, infatti, possa nascere un’area politica strutturata e significati-va, capace di capitalizzare il vuoto lasciato da un PD che con Renzi tenderà a spostarsi verso il centro.

Nichi Vendola, che era l’unico leader a sinistra che poteva aspirare a occupare quello spazio, è finito nel cul de sac di una gestione spregiudicata del potere nella sua regione che ha avuto il suo esempio nell’infelice conversazione intercettata con il patron dell’ILVA.

Ancora meno probabile un’opposizione interna al PD che possa impensierire Renzi considerato lo stordimento e la de-bolezza della classe dirigente che ha sostenuto Gianni Cuper-lo in linea di continuità con Bersani.

Certo, qualche colpo di coda da D’Alema e Rosy Bindi il sindaco fiorentino se lo aspetta, tanto più che D’Alema ha già sibilato una profezia che ha il suono dell’avvertimento: «Renzi non riuscirà a tagliare le radici, altri ci hanno provato e hanno fatto una brutta fine. Farà una brutta fine anche lui».

Parole cui seguiranno dei fatti perché se è vero che D’Ale-ma non ha mai costruito qualcosa di stabile in politica è stato in compenso un infallibile serial-killer di leader a sinistra co-me sanno bene Prodi e Veltroni.

Tuttavia è difficile pensare che il residuale ceto politico del PD, che fa quadrato intorno all’esponente pugliese - battu-to alle primarie nella sua regione da Ivan Scalfarotto - possa avere la forza di condurre una scissione.

Se a sinistra dunque l’orizzonte non promette nessuna si-gnificativa novità - oltre il consueto velleitarismo di piccoli partiti rissosi e il lavoro di disturbo delle talpe dalemiane - nemmeno appare chiaro quale dovrebbe essere la nuova sini-stra di Renzi. Fin qui si è capito che Renzi è giovane, ha la battuta pronta, è capace di condurre una battaglia politica, di organizzare energie e risorse, di agitare delle suggestioni, ha scatto televisivo e prontezza di riflessi. Qualità da centometri-sta, da incursore e guastatore. Dirigere un partito e soprattutto governare un Paese - sua legittima ambizione - è un’altra co-sa. Non basta organizzare le riunioni della segreteria alle 7 del mattino per dare una svolta strategica al partito e al Paese.

Una segreteria composta peraltro da figure che non brilla-no per qualità particolari. Renzi, per dire, ha escluso dal suo esecutivo un elemento di spessore e cultura come Antonio Fu-

niciello, responsabile della comunicazione del PD guidato da Epifani, inserendo Marianna Madia presentata come un’esper-ta delle politiche del lavoro ma la cui azione politica fino ad oggi s’è risolta in educate e gradevoli comparsate televisive. Insomma ci sono numerosi indizi che fanno pensare che l’ope-razione Renzi, che qualche affannato laudatore ha paragonato a Tony Blair, possa risolversi in un’operazione superficiale e di immagine. Sono, tuttavia, sensazioni. Di sicuro Renzi non può attendere troppo nel guado, farsi logorare nella gestione del partito. La sua è la forza di un consenso d’opinione e non di struttura e deve sfruttare il vento che ha ancora sulle vele.

Sennonché Enrico Letta non ha intenzione stendergli il tappeto rosso per Palazzo Chigi e l’alleanza stretta tra il pre-mier e il nuovo centrodestra di Angelino Alfano ha proprio lo scopo di far durare il governo, rimandare il più possibile il voto e l’approvazione di una legge elettorale maggioritaria che possa consentire, dopo il voto, una nuova e chiara mag-gioranza che Renzi è convinto di poter ottenere sfondando a destra. Obiettivo di cui non ha fatto nessun mistero durante la campagna per le primarie.

Un’area, la destra, squassata da un terremoto pari a quello avvenuto a sinistra. Il test per verificare l’effettiva forza dell’e-sperimento post berlusconiano di Alfano e compagni sarà, se non si voterà prima per le politiche, l’appuntamento con le eu-ropee. In quell’occasione il NCD si giocherà credibilità e pro-spettive future ma anche la nuova FI verificherà la tenuta del suo leader il quale uscendo dal governo dopo il voto sulla de-cadenza ha subito radicalizzato la critica alle politiche dell’UE, mettendosi al lavoro per ottenere una legge elettorale che consenta di tornare alle urne il più presto possibile. E i sondaggi danno il Cavaliere ancora intorno al 20 per cento.

È impossibile prevedere quale sarà (se ci sarà) la geome-tria di assestamento del maremoto che ha investito la politica italiana. non si può escludere che Renzi possa recuperare pez-zi di area centrista e governativa, trovare un accordo con Letta e con la compagine di Alfano. Difficile comunque immagina-re la perpetuazione di uno schema come quello che abbiamo conosciuto fin qui con due poli di centrodestra e centrosinistra egemoni considerato che i poli in campo sono ormai almeno cinque - Berlusconi, nuovo centrodestra, PD renziano, sinistra radicale, Grillo.

Difficile anche immaginare che l’Italia possa ancora affi-dare le sue chance di sopravvivenza a governi di larghe intese le cui cure hanno generato o comunque non impedito una di-soccupazione giovanile al 50 per cento, una generale sopra il 12 e la chiusura di 28 imprese al giorno mentre ogni anno con-tinuano a maturare 90 miliardi di interessi sul debito pubblico.

I tumulti di piazza, scoppiati alla vigilia del Natale e che potrebbero proseguire a lungo, sono il segnale che è la coesio-ne sociale e la fiducia delle istituzioni e non questa o quella ricetta politica, ad essere al collasso. Tumulti che come ogni fenomeno di disordine sociale possono anche conoscere infil-trazioni e tentativi di eterodirezione - ultras delle curve, estre-misti neri e rossi, potenze straniere - ma che vedono protago-nisti non più i professionisti della protesta quanto gente comu-ne arrivata al limite di sopravvivenza, schiacciata dalla crisi globale, dalle folli politiche monetarie europee e da una pres-sione fiscale predatoria e spietata. È questo il cuore del pro-blema, la perduta sovranità nazionale che espone l’Italia ai rischi d’una deriva greca o nordafricana.

Il ringiovanimento della classe dirigente è un fatto positi-vo in sé ma gli Alfano, i Letta, i Renzi hanno cognizione di quale sia la posta in gioco? O credono che basterà rientrare nei parametri fissati dal commissario europeo Olli Rehn per sottrarre l’Italia dalla morsa che la sta stritolando?

LA PEGGIO gioventù

di RICCARDO PARADISI

6 IL BORGHESE Gennaio 2014

dell’imposizione fiscale occulta, come purtroppo è avvenuto in passato. Ed è proprio per questo che quel miracolo non si realizzerà. Pertanto, se non vogliamo che le sinistre e i poteri forti loro sponsor instaurino un regime secolare, rendendo l’Italia l’unico paese comunista al mondo dopo la caduta del Muro, è indispensabile rifondare la nostra parte politica, come sappiamo potenzialmente maggioritaria nelle scelte degli elet-tori, promuovendo una riflessione a tutto campo su ciò che nella società contemporanea significa il termine destra.

In questo lavoro, che ritengo propedeutico alla fondazione di qualsiasi nuovo partito o coalizione di partiti, dobbiamo respingere, con lo sdegno e la chiarezza che meritano, le ac-cuse qualunquistiche, sempre dietro l’angolo, di occuparci dei massimi sistemi, di fare ideologia anziché rispondere ai pro-blemi quotidiani e immediati della gente comune. Replico subito a queste scontate banalità, sottolineando che proprio l’inadeguatezza e il conseguente crollo dei massimi sistemi del passato, che non si sono voluti modificare quando sarebbe stato necessario in omaggio agli interessi mafiosi ad essi col-legati, appaiono la prima causa delle attuali sofferenze. Non ci sono cambiamenti né riforme in vista, se non si prende atto che il modello sociale e di sviluppo della Prima e della Secon-da Repubblica è ormai un cadavere putrefatto, da seppellire senza indugio sotto metri di cemento armato. Ad esso se ne deve sostituire uno integralmente nuovo e diverso, capace di ricostruire tutto ciò che il precedente ha distrutto. Ecco a cosa servono le teorie e gli studi!

Per comprendere meglio come si è arrivati a questo punto, e come uscirne, vale la pena compiere un breve excursus sto-rico. Uno dei miei autori preferiti, per chiarezza e linearità di pensiero, il politologo tedesco Kurt Schilling, così conclude una delle sue opere principali, (Storia delle idee politiche e sociali, Garzanti ed., 1965), pubblicata in lingua originale già nel preistorico 1957: «Ma la possibilità, elaborata da Epicuro nell’antichità e da Schopenauer nel diciannovesimo secolo, cioè un individualismo che svaluti completamente la comuni-tà politica, oggi ha una portata assi scarsa. Le possibilità tec-niche dell’economia o dell’onnipotenza dello Stato, la costri-zione che obbliga ad accettare l’automatismo nel lavoro, la specializzazione, i consumi standardizzati e la formazione di un’opinione pubblica resa uniforme ad opera della pubblici-stica, infine la mancanza di spazio sulla terra che diviene sempre più piccola, e in misura paurosa, rispetto al numero dei suoi abitanti, escludono quasi completamente il “vivi na-scosto”. Al posto di questo individualismo è subentrato l’iso-lamento dell’uomo in seno alla massa. Solo partendo da que-sto stato di crisi, supposto che ci si renda veramente conto di essa, potrebbe scaturire quel nuovo, autentico soddisfacimen-to delle esigenze umane cui tutti aspirano».

Questo brano si trova alla fine di un capitolo dedicato al vero problema dell’umanità nell’èra industriale e post-industriale, che è, a parere dell’autore, l’integrazione delle masse anonime nello Stato. Egli considera quindi le principali ideologie del XIX e del XX secolo, comunismo, fascismo, nazional-socialismo, pragmatismo efficientistico americano, come tentativi falliti, per diverse ragioni, di rispondere a que-sta necessità. Affronta inoltre il tema della partecipazione, che vede già abbozzato nel Leviatano di Thomas Hobbes, ove la guerra di tutti contro tutti, teorizzata dal grande filosofo e ad-dotta come giustificazione dell’assolutismo, «è una lotta per la partecipazione alla sovranità, non per il godimento dei be-ni». Il conflitto sociale, che Marx ridurrà in termini puramen-te economici a causa del suo pregiudizio materialistico, si muove sempre, pericolosamente, fra i due estremi dell’anar-chia e della tirannide. Schilling non giunge fino alla conclu-

IL TRADIMENTO di Alfano e compari non ha bisogno di com-menti. Il fallito tentativo di Berlusconi di mandare a casa Let-ta era dovuto non tanto, e non principalmente, al problema della sua decadenza, quanto alla necessità di far fuori un go-verno di sola sinistra, il cui unico scopo era e resta quello di espropriare definitivamente i cittadini dei loro sudati e legitti-mi risparmi, per devolvere il frutto della rapina ai compagni e alle loro clientele, a sindacati e partiti amici, ma soprattutto per compiacere la finanza creativa e criminale globalizzata, che vuole l’Italia e l’Europa in ginocchio per comprare ai sal-di le sue aziende migliori, i suoi immobili più prestigiosi, la sua manodopera più qualificata che, spinta dalla disperazione, è ormai disposta a vendersi a qualunque prezzo, come nel ter-zo mondo.

Ebbene, il sedicente Nuovo Centrodestra è nato allo scopo di agevolare questo disegno diabolico, che Berlusconi, in un atto di sia pur tardiva resipiscenza, voleva fermare. Come sempre, disgraziatamente per lui e per noi, il Cavaliere ha chiuso la stalla quando i buoi erano scappati. Questo sembra il suo destino, quello che lo ha perso, rendendolo prigioniero dei suoi nemici marxisti-leninisti, e che non ha permesso all’Italia di salvarsi in extremis. Inutile piangere oggi sul latte versato, ricordando che soltanto dopo un anno catastrofico di follie economiche e fiscali incassate in silenzio, si decise a far cadere Monti, e che nel maggio scorso fu proprio lui, com-mettendo il suo ultimo e irreparabile errore, a volere a tutti i costi le larghe intese e a chiedere a Napolitano di restare per farsene garante. L’esito fallimentare di queste scelte è sotto gli occhi di tutti. I lettori del Borghese ricorderanno che nel no-vembre 2012 pubblicai una lettera aperta al Cavaliere ove stigmatizzavo la sua politica di ripetuti cedimenti e annuncia-vo la mia astensione alle prossime elezioni. Anche alla luce di quanto successo dopo, non rinnego una parola di quel docu-mento, ma al presente, da critico leale, aperto e non prezzola-to, m’inchino alla caduta del solo leader che la destra italiana abbia avuto nella Seconda Repubblica, augurandogli una vec-chiaia produttiva e serena, circondato dall’affetto dei suoi cari e dal riconoscimento che sicuramente merita, (che in parte ci spinge a perdonargli i suoi sbagli), di essere stato uno dei po-chi governanti onesti della nostra storia recente, che se ha commesso pazzie nella vita privata non lo ha fatto rubando il pubblico denaro, come invece è triste abitudine di molti suoi colleghi.

Levàti gli scudi e inchinati gli stendardi, però, resta il fatto che la destra italiana non soltanto non possiede oggi un leader degno di questo nome, ma neppure un progetto alternativo di società e di Stato organico e credibile, in grado di catalizzare il consenso e l’entusiasmo degli elettori. Se domani mattina, per ipotesi assurda, salisse al potere una coalizione di centro-destra fondata sui vari spezzoni di partito che si riconoscono in questa posizione, non saprebbe letteralmente cosa fare, se non proseguire nella assurda politica dei tagli lineari e

di CARLO VIVALDI-FORTI

PER UNA NUOVA DESTRA

RIPARTIRE dalle grandi idee

7 IL BORGHESE Gennaio 2014

sione logica, che questo «Scilla e Cariddi» può essere evitato solamente in un modo: sostituendo lo Stato partecipativo allo Stato rappresentativo.

Nell’epoca in cui egli scriveva, gli studi sociologici in tal senso non erano così avanzati come oggi, e i tentativi prodotti dal fascismo con le corporazioni, e dal comunismo con la pro-clamata autonomia dei soviet, erano morti sul nascere rispetti-vamente per una guerra mondiale perduta e per la dittatura del partito unico sotto lo scettro sanguinante di Stalin. Tuttavia, afferma di prevedere un prossimo, inevitabile, radicale cam-biamento. L’integrazione delle masse nello Stato, previo il riconoscimento dell’individuo nella sua unicità assoluta, con-cetto analogo a quello di persona umana, rappresenta l’inevi-tabile sbocco dei conflitti e delle tensioni della società indu-striale. La restaurazione dell’armonia sociale perduta, che ri-manda alla polis greca, al libero comune medioevale e al prin-cipio su cui entrambi si reggevano, l’autogoverno dei gover-nati, sarà l’effetto dell’esasperazione e del precipitare delle contraddizioni degli attuali assetti. Tutte le grandi svolte della storia si compiono nella sofferenza e nella crisi: perciò, la svolta più grande di tutte, il cambiamento decisivo della so-cietà umana, sarà l’effetto della crisi più grande.

Per essere all’altezza dell’ora che volge, per salire in corsa e pericolosamente sul treno sfrecciante del destino, occorre tuttavia liberarsi dal «dubbio sistematico», instillato nella cul-tura odierna dai poteri forti, dalle sinistre e dai falsi intellet-tuali loro leccapiedi, filosofia che induce a vivere alla giorna-ta, senza progetti né speranze, in una politica del piccolo ca-botaggio e della preoccupazione quotidiana per la pagnotta. Ciò, s’intende, allo scopo di sottometterci meglio. Reagire virilmente e duramente a questa ridicola e spocchiosa, ma sof-focante «dittatura del relativismo», dovrà essere la missione della Nuova Destra. Essa potrebbe trovare ispirazione nelle parole di uno dei pochi grandi statisti del secondo dopoguerra, Charles de Gaulle, che così si esprimeva nell’agosto 1967: «L’affermazione, che Goethe pone in bocca a Mefistofele, “sono lo spirito che nega tutto”, rappresenta il nihilismo dei nostri giorni. Noi non faremo altrettanto. Respingendo il dub-bio, questo demone di tutte le decadenze, proseguiamo tran-quilli il nostro cammino. Quello di una Francia che crede in se stessa e che, proprio per questo, si apre al futuro. Il com-battimento fondamentale dell’avventura gollista è fra l’Essere e il Nulla: occorre scegliere, correndo se necessario i rischi più grandi, fra lo Spirito Vivo e la Lettera Morta».

Un buon motto, mi sembra, per l’apertura di un futuro congresso nazionale di tutte le destre unite, purché si lascino da parte opportunisti e traditori i quali, come sappiamo, ab-bondano purtroppo anche dalle nostre parti.

Roma, 9 dicembre 2013

ALLA vigilia della rivolta dei «Forconi» c’era già tra i go-vernativi chi invocava l’esercito.

La percentuale di popolazione stretta dal bisogno, quindi un misto di disoccupazione, sottoccupazione ed in-digenza generalizzata, avrebbe superato il livello di guar-dia. Lo denuncia tra le righe l’ultimo rapporto dell’intelli-gence italiana. Così, secondo gli addetti ai lavori, le misure esigue ed inefficaci in termini d’interventi sociali, occupa-zionali e di sostegno economico, starebbero sempre più caratterizzando la disoccupazione come un «problema d’ordine pubblico». Nel mirino delle forze di polizia le eventuali forme di protesta spontanea (quindi non autoriz-zate) che rischiano d’aggredire sia i palazzi istituzionali sia il trasbordo su auto di Stato di esponenti politici ed alti di-rigenti pubblici. «C’è massima allerta», ammette un uffi-ciale delle forze dell’ordine, «il rischio d’aggressioni per strada a dirigenti ed esponenti di governo è evidente: sap-piamo che ci sono frange di disoccupati non più disponibi-li al dialogo ed alla calma, non li voglio paragonare ai terroristi degli anni ‘70, però possono rappresentare un pericolo per l’incolumità di molti esponenti istituzionali, almeno quelli più in vista.» E se al politico tocca rabbonire il popolo con promesse e speranze, ai tecnici dell’ordine pubblico spetta reprimere e prevenire l’eventuale divampa-re della guerriglia metropolitana. Nel mirino delle frange più estreme, già da qualcuno riunite nel «partito armato dei disoccupati organizzati», ci sarebbero dicasteri romani ed enti pubblici. Tra i parlamentari c’è anche chi propone «leggi speciali» che permettano alle forze di polizia di scongiurare che la piazza soverchi il palazzo. Non dimen-tichiamo che il presidente della Repubblica è anche il capo delle forze armate, soprattutto che l’articolo 5 del «Codice militare» prevede l’applicazione della «legge penale mili-tare di guerra» in caso di «urgente e assoluta necessità»: ovvero «nei casi straordinari, in cui ragioni di urgente e assoluta necessità lo richiedano, può, con decreto del Pre-sidente della Repubblica, ordinarsi l’applicazione, anche in tempo di pace, della legge penale militare di guerra, in tutto il territorio dello Stato o in una o più parti di esso»… anche in «relazione a luoghi che non sono in stato di guer-ra». Nelle ultime settimane è stato dibattuto il caso della Campania, cioè dell’utilizzo dell’esercito con pieni poteri (come da Codice militare) per reprimere il fenomeno delle discariche abusive gestite dalla camorra, che sempre più spesso incendia i rifiuti più pericolosi per la salute pubbli-ca. Il dibattito s’è svolto proprio mentre approdava nella commissione competente (il Copasir) l’ultima relazione dell’intelligence, ed ecco che qualcuno ha ipotizzato un più vasto impiego dell’esercito, ovviamente un auspicio rivolto al Quirinale. Di fatto, tra popolo ed alta dirigenza di Stato, è stato eretto una sorta di «vallo di Adriano», da

di RUGGIERO CAPONE

LA GRANDE RIVOLUZIONE ITALIANA

«CAMION» e forconi

8 IL BORGHESE Gennaio 2014

una parte i barbari (disoccupati, sottoccupati, indigenti…) dall’altra l’alta dirigenza politica e di Stato (tutti romani o romanizzati). La guerriglia è dietro l’angolo, e l’esercito sarebbe pronto a reprimere (almeno a parere dei più ferrei paladini della ragion di Stato). L’occasione di scontro (questa volta non istituzionale bensì fisico) è caduta lunedì 9 dicembre, data già ribattezzata de “l’inizio della rivolu-zione italiana” (non a caso i rivoluzionari sventolano il Tricolore): infatti, lo sciopero dei Tir è stato revocato sol-tanto da Unatras, FAI-Conftrasporto e Anita, ovvero le si-gle che accorpano le grandi aziende. Ma i piccoli, ovvero i padroncini riuniti sotto la sigla dei «Forconi», non hanno nessuna intenzione di sospendere l’agitazione: sui loro vet-tori si muove il 70 per cento della merce al dettaglio e le consegne di generi alimentari e altro ancora. I padroncini possono paralizzare il Paese, soprattutto sono a tal punto disperati da poter ingaggiare un confronto «animato» con i rappresentanti dello Stato.

Commercianti, agricoltori, allevatori e camionisti sono pronti a ribellarsi, a marciare su Roma con il «Movimento dei Forconi». «Ribellarsi è un dovere», spiegano i Forconi. «Vogliamo paralizzare l’Italia, non ci sono rappresentanze politiche che ci soddisfino: ormai il nostro nemico unico è lo Stato. L’unico obiettivo è far sì che tutte le forze politiche escano dal Parlamento.» Gli organizzatori giurano che «lo faremo con le mani in tasca, senza violenza». Ma è noto che la tensione tra forze di polizia e dimostranti non sia mai sta-ta così alta, soprattutto qualcuno prevede cariche e rimozio-ni forzate dei camion per motivi di «pubblica utilità». La miccia è corta, e questa volta è facile che, per causa di forza maggiore, governanti ed alti dirigenti abbandonino i palazzi per paura delle botte. Anche se impiegassero tutte le forze dell’ordine, non riuscirebbero a piegare centomila rivoltosi. «Siate eversivi», hanno detto agli italiani sia Grillo che Ber-lusconi, due che ben conoscono l’umore della piazza: en-trambi da soli hanno la vista ben più lunga d’un Letta che sale sulle spalle di Alfano per fare l’occhiolino a Renzi.

Una rivoluzione italiana - Il ministro Alfano si veste

s’autorità e minaccia «faremo valere la forza dello Stato». Intanto «non è ancora disponibile un bilancio degli scon-tri», così agenzie e telegiornali ribattono il comunicato stampa delle varie questure, evitando di trasmettere le im-magini d’una forza pubblica che batte in ritirata a cospetto dei rivoltosi che assaltano la Regione Piemonte. Ma dai vari filmati scaricati su internet emerge che, oltre alla tori-nese piazza Castello, tutte le sedi italiane di Equitalia, Inps, Inail e Agenzia delle Entrate sono ormai a rischio d’assalto da parte di quelle che in tanti ormai appellano come «forze rivoluzionarie». Ad animare le «rivolte spon-tanee» sarebbero in tutto lo Stivale più di due milioni di cittadini: disoccupati, operai, sottoccupati, camionisti, arti-giani, precari, commercianti al dettaglio, ambulanti. Chie-dono che il governo vada a casa e che vengano eletti rap-presentanti in grado di legiferare a favore degli esclusi dal-le scelte politiche, ovvero l’80 per cento degli italiani. I «Forconi» non hanno nulla in comune con il «Partito rivo-luzionario europeo»: a quest’ultimo sono ascrivibili tutte le sigle afferenti nella disobbedienza sociale, nell’anarchia storica e radicata, come le varie fazioni No-Tav o gli ex No-global di Genova 2001. Ma entrambi i movimenti potreb-bero trovare un punto d’accordo per l’ultimo assalto, ovve-ro l’occupazione di Roma e dei vari palazzi istituzionali.

Per il momento i «Forconi» puntano sul rafforzare la protesta nei vari capoluoghi italiani, stremando con azioni

mirate e violente le prefetture ed i battaglioni mobili di Fi-nanza, Carabinieri e Polizia. Piegata in periferia la difesa dello Stato, sarà possibile per i coordinamenti dei «Forconi» capire se lo Stato vuole capitolare o se il presi-dente della Repubblica preferisce gettare il Paese nella guerra civile: ovvero applicare l’articolo 5 del «Codice mi-litare», che prevede l’applicazione della «legge penale mi-litare di guerra» in caso di «urgente e assoluta necessità»; quindi «nei casi straordinari, in cui ragioni di urgente e assoluta necessità lo richiedano, può, con decreto del Pre-sidente della Repubblica, ordinarsi l’applicazione, anche in tempo di pace, della legge penale militare di guerra, in tutto il territorio dello Stato o in una o più parti di es-so»… anche in «relazione a luoghi che non sono in stato di guerra».

L’esercito contro la popolazione civile? L’ipotesi sa-rebbe già al vaglio di alcuni commissari del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica), che vorrebbero il presidente Napolitano dia mano libera all’esercito contro le «rivolte spontanee». Una responsabi-lità che il Capo dello Stato non vorrebbe assumersi, so-prattutto di fronte alla storia. Anche perché, sia Grillo sia Berlusconi, sottolineano come ad auspicare l’intervento dell’esercito siano «parlamentari illegittimi».

«Siamo disposti a farci arrestare», spiega Mariano Fer-ro, «siamo disposti a darci fuoco davanti alle prefetture.» Frasi forti, evidentemente di sfida, e perché i proseliti del movimento dei «Forconi» si sono centuplicati nel giro di pochi mesi, causa la povertà che ormai attanaglia il 70 per cento degli italiani. Con loro non ci sono sigle sindacali né simboli dei partiti rappresentati a Montecitorio. Il movi-mento condensa tutta la lotta contro l’alta dirigenza di Sta-to portata avanti da agricoltori, trasportatori, produttori va-ri, commercianti anti tasse, rappresentanti delle partite IVA, artigiani, anti europeisti motivati. Nei «Forconi» si riuniscono diverse anime, ed i coordinatori lavorano per-ché la protesta s’allarghi a tutte le classi lavorative.

I «Forconi» di oggi non sono più quel gruppo etnogra-fico che paralizzava la Sicilia d’un annetto fa. Oggi il mo-vimento è radicato in tutto lo Stivale, si confrontano con proposte di lotta e strategie grazie alla rete (un po’ come in tutti i Paesi recentemente baciati dalle rivolte). I loro nemi-ci si chiamano banche, tasse, dirigenza di Stato, direttive europee, paladini dei «sacrifici per l’UE». Dopo che la protesta avrà paralizzato l’intera Italia, i vari coordinatori organizzeranno «l’assalto a Roma» (così è già stata appel-lata la soluzione finale).

Per occupare Roma, senza temere colpi di coda da par-te d’esercito e forze di polizia, i coordinamenti delle «forze rivoluzionarie» hanno stabilito che necessiterebbe entrare nella Capitale con circa un milione di uomini. «Roma sarà l’ultima meta», ci spiega un amico forcone, «prima dobbiamo consolidare le proteste da Milano alla Sicilia, dalla Puglia alla Campania, dalla Calabria fino a Torino… poi toccherà a Roma, ai suoi uffici pubblici.» Il cambiamento di rotta era stato chiesto da tempo, e la clas-se dirigente ha reputato la disoccupazione «un problema d’ordine pubblico» (per dirla con le parole degli 007).

Lo Stato ha proposto il muro contro muro e le misure forti in nome dell’Europa, ed il popolo sta rispondendo con la rivolta. Soprattutto in Italia sta riuscendo la saldatu-ra tra «Forconi» e disubbidienza sociale, cosa che non è avvenuta in Grecia, dove «Alba dorata» ed estrema sinistra si combattono: soltanto un popolo unito contro il palazzo può battere l’eurogoverno.

Dal 30 settembre, ogni lunedì

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10 IL BORGHESE Gennaio 2014

LA CONSULTA ha bocciato il «porcellum» cioè la legge con la quale gli elettori italiani hanno votato negli ultimi 8 anni e in base alla quale sono stati eletti 3 parlamenti ed eletto e rieletto un Presidente della Repubblica e sono nati diversi governi da Prodi a Berlusconi, da questi a Monti e poi all’attuale di Enrico Letta.

Per due fondamentali ragioni: le liste bloccate con i nominativi degli eletti già pronti, senza nessuna possibilità per l’elettore di partecipare a questa scelta; il premio di maggioranza irrazionalmente attribuito. A nostro avviso è la prima ragione, quella più grave perché svuota di qual-siasi vero contenuto il fatto elettorale che in una democra-zia è prioritario.

Sul piano giuridico, la Costituzione italiana è molto chiara. L’art. 136 prevede che «quando la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale di una norma di legge … la norma cessa di aver efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione». Ovviamente la pubblica-zione avviene sulla Gazzetta Ufficiale. Ma, già prima di quel momento, la sentenza della Corte Costituzionale deve essere fonte di valutazione, soprattutto se, come nel caso presente, ne è noto il dispositivo, come una indicazione, di carattere cogente, ai fini comportamentali per gli organi destinatari del messaggio della Consulta. In questo caso tutti gli organi elettivi ed in particolare il Parlamento, il Presidente della Repubblica ed il Governo in carica.

Sul piano politico, che è poi quello che ci interessa da-to che la decisione della Corte Costituzionale riguarda so-prattutto gli aspetti politici del problema, il giudizio della Consulta è impietoso e devastante nel senso che negli ulti-mi 8 anni tutto ciò che è stato fatto, dalle elezioni del par-lamento, dalla formazione dei governi alle elezioni del Presidente della Repubblica e alle decisioni più importanti dello stesso parlamento, nessuna esclusa, rischia di essere viziato da una illegittimità indotta, figlia di una illegittimi-tà presupposta intervenuta al momento in cui si è determi-nata la decisione espressa da organi non formati in aderen-za alle regole costituzionali secondo le quali doveva espri-mersi la volontà popolare.

E questo è l’aspetto del problema che connota gli effet-ti pratici della decisione della Corte e cioè che i cittadini italiani per 8 anni hanno utilizzato uno strumento che era ed è chiaramente incostituzionale e cioè contrario alle nor-me basilari della Carta, essenzialmente per quanto riguar-da, come detto, le liste bloccate per le quali l’elettore non poteva esprimere alcuna preferenza ed il meccanismo del premio di maggioranza.

È chiaro che gli attuali responsabili tendono a minimiz-zare gli effetti politici e morali della decisione della Con-sulta e soprattutto ad interpretarli nel senso di una mera

indicazione sia pure autorevole, che prima della pubblica-zione della sentenza che consta di due parti e cioè disposi-tivo, già noto, e motivazione che verrà pubblicata, come per solito, entro un mese, ha soltanto il valore di uno spro-ne per pervenire ad una nuova legge elettorale basata sul proporzionale, sulla abolizione del bicameralismo etc. (come del resto, commentando la decisione, ha detto Na-politano).

Ma, a nostro avviso, le cose non sono così semplici. I latini dicevano, "quod nullum est nullum producit ef-fectum", la nullità pronunciata dalla Corte Costituzionale perché la legge elettorale è contraria alle regole della Carta fondamentale dello Stato retroagisce nel senso che gli atti politici che sono stati compiuti in questi ultimi 8 anni di-ventano sospetti e in parte nulli in parte annullabili. Ciò in quanto l’art. 136 della Costituzione per essere rettamente interpretato va completato con la L. n. 1 del 1948 per la quale gli effetti delle norme dichiarate incostituzionali, pur essendo operanti pienamente nel giudizio nel corso del quale si è pervenuti a dichiararne l’incostituzionalità non possono essere utilizzate neppure per tutti quegli altri rap-porti che, pur venuti in essere anteriormente alla pronun-cia, sono, o possono divenire, oggetto di un processo simi-lare. Si tratta dei cosiddetti rapporti pendenti. Diversamen-te sarebbe violato il principio di uguaglianza dell’art. 3 ed anche quello relativo alla tutela dei diritti di cui all’art. 24.

Conclusivamente il pasticcio che è scaturito dalla senten-za della Corte Costituzionale non può essere in alcun modo sottovalutato né banalizzato. Si tratta di una vera e propria rivoluzione costituzionale che vanifica politicamente tutti gli atti più importanti della vita pubblica che si sono compiuti negli ultimi 8 anni e, se non altro, anche se si volesse emet-tere un giudizio, per carità di patria, riduttivo, destinata ad infirmare il contenuto politico degli stessi atti.

Ora è quasi certo che il Parlamento dovrà in qualche modo decidere e prima del giorno in cui, presumibilmente, sarà pubblicata la motivazione della sentenza della Corte Costituzionale. Diversamente, riprenderà valore la norma conosciuta come il «mattarellum» e cioè quella vigente prima che sopravvenisse la legge elettorale testé annullata. Lo farà o sarà ancora una volta paralizzato dai veti con-trapposti o più verosimilmente dalla volontà di «indugiare», di non cambiare una norma così comoda per i detentori del potere, messi in grado di premiare gli «Amici» e punire i «nemici» interni? Non siamo in grado di prevederlo.

Fatto si è che in questi anni, tutti i cittadini italiani che, sempre di meno, per sfiducia o disgusto, sono andati a vo-tare, lo hanno fatto in base a norme che non avrebbero do-vuto esserci e per le quali la loro capacità di scelta era chiaramente distorta o addirittura impedita. Per converso la libertà di scelta della ristrettissima oligarchia, (al massi-mo una diecina di persone che faceva e disfaceva le liste elettorali), era immensa: amici e amici degli amici, yesmen di provata fede, compagne di letto da beneficare o tacitare, persone verso le quali esisteva comunque un debito di gra-titudine da saldare, tutti in lista, indipendentemente da qualsiasi criterio, meritocratico, di capacità, di affidamento reale e soprattutto di utilità e di idoneità per il compito che venivano chiamati a svolgere al servizio della collettività nazionale! Per gli altri, il massimo rigore tanto i voti arri-vavano lo stesso, ed era meglio convogliarli su schiene curve e riconoscenti.

Conseguentemente a tali scelte irrazionali ed arbitrarie, il degrado della vita pubblica ha conosciuto in questo ulti-

di FILIPPO DE JORIO *

IL «SISTEMA» è marcio

Da otto anni il meccanismo elettorale è anticostituzionale

11 IL BORGHESE Gennaio 2014

mo decennio aspetti di fronte ai quali soltanto i componen-ti della classe dominante, che hanno usufruito di questa libertà di scelta confinante o addirittura esuberante rispetto all’arbitrio più assoluto, possono non arrossire.

Dicono «la vittoria ha mille padri, la sconfitta è orfa-na». Qui da noi accade una cosa diversa e cioè che anche la sconfitta si trasforma in vittoria e tutti rivendicano la paternità di averla prevista chiamandosi fuori dalle cause che l’hanno determinata, da essi stessi provocate. Tutti di-chiarano a gran voce che il «porcellum» era uno scandalo e che loro si sono battuti per abolirlo fino allo spasimo; persino quelli che hanno concepito l’idea di questa sciagu-rata legge elettorale la rinnegano. Intanto però per otto an-ni hanno goduto in base ad essa del potere assoluto di fare, disfare, di inserire o non inserire nelle liste, di nominare o non nominare parlamentari, ministri, sottosegretari, diri-genti di enti di stato etc..

* * *

In prima linea fra questi plauditores della ventiquattre-

sima ora spicca il solito B. che è stato quegli che più ha approfittato e goduto del privilegio, delle « nomine in li-bertà».

Noi che siamo stati vittime di questo sistema perché i Pensionati Uniti che portarono 200.000 voti in più a Forza Italia nel Collegio di Lazio 2, vennero privati di quanto era stato loro assicurato cioè la rappresentanza parlamentare ed il seggio recuperato con disonore venne utilizzato per beneficare un «Amico» di B., peraltro già eletto in Sicilia, possiamo, tuttavia, e dobbiamo parlare per affermare che tutti i cittadini che sono stati indotti e costretti a soggiace-re, ad acconciarsi a questo tipo di elezioni truccate, sono titolari del diritto di essere risarciti, soprattutto coloro che per servire gli interessi della casta, per contribuire al man-tenimento dei privilegi della classe dominante, si sono tro-vati oggetto delle tante disposizioni fiscali che attraverso mille astuzie li portavano a pagare sempre più imposte. Parlo dei ceti medi impoveriti senza alcun criterio o razio-nalità con provvedimenti che poi, alla fine, hanno condotto all’enorme e magnifico risultato che, per chi ha creato que-ste norme di follia è sconcertante, ma per chi ha un mini-mo di conoscenza delle leggi classiche dell’economia è la conseguenza «normale» di quelle, e cioè che più si aumen-tano le aliquote, i balzelli, le «astuzie» e le «trappole» di natura fiscale, più diminuisce il gettito delle imposte.

Così come è avvenuto per l’IVA aumentata dall’ultimo governo Berlusconi e poi da Monti con provvedimenti avallati anche dal governo Letta! Il gettito si è depauperato proprio per effetto degli aumenti delle aliquote che, peral-tro, hanno anche prodotto un altro effetto ancor più negati-vo, il rallentamento di tutta l’attività economica.

Intanto, anche i pensionati, sempre per pagare i privile-gi della casta, hanno dovuto accettare negli ultimi otto anni decurtazioni importanti dei loro trattamenti di quiescenza, fino al punto che ormai quelli che hanno una pensione di 1.500 euro o più sono considerati ricchi per cui non hanno diritto alla pur minima percentuale di aumento annuale re-lativo all’inflazione programmata! E gli altri, quelli ancora più «ricchi», devono pagare un contributo di solidarietà già bocciato in altra occasione dalla Corte Costituzionale.

Per non parlare del fatto che rappresentanti politici no-minati dalla ristrettissima oligarchia cui si faceva cenno sopra, con criteri che con il gradimento politico degli elet-tori e la capacità dei soggetti non avevano nulla a che ve-

dere, devono essere ritenuti responsabili delle scelte errate che negli ultimi tempi hanno accelerato il degrado dell’a-zienda Italia, dal quale, di là di ogni facile ottimismo di prammatica, sarà ben difficile uscire.

È ovvio che anche noi, anzi, direi noi soprattutto, come rappresentanti dei pensionati e di queste categorie «deboli», che pur identificano la parte più numerosa degli elettori italiani, ci auguriamo che le cose possano al più presto migliorare. Tuttavia, non possiamo non rimarcare che la classe dirigente nominata dagli oligarchi, ha fatto di tutto per creare premesse più che negative ed ostative alla crescita economica. Il tutto contro le promesse elettorali e contro ogni logica.

Non c’è ormai chi non riconosca che l’aumento della pressione fiscale, la riduzione in termini reali degli emolu-menti dei ceti medi e pensionati etc., sono depressivi nei confronti dei consumi delle famiglie e dei singoli indivi-dui. (Un fenomeno che dal 2008 ad oggi, secondo le stime ufficiali ha portato ad una discesa dei consumi che va valu-tata prudenzialmente in almeno il 10 per cento). Però, i re-sponsabili politici continuano ad agire come se queste lo-giche affermazioni di principio non le conoscessero e non esistessero, per cui incalzano con l’adozione di provvedi-menti ancora più depressivi nei confronti dei consumi e perciò della ripresa economica.

Se perfino il più banale acquisto di beni di consumo durevoli può essere fonte di certezze fiscali da cui se ne deduce una maggiore capacità contributiva e quindi nuovi accertamenti e cartelle esattoriali, come può un qualsiasi cittadino comprare una macchina nuova anche se la sua cade a pezzi o fare dei regali di Natali ai congiunti, ai figli, agli amici se da queste semplici operazioni economiche può scaturirne un inasprimento fiscale?! E che cosa sono i «redditometri», gli «spesometri» e da ultimo il «riccometro» etc. e tutte le altre diavolerie inventate dagli ultimi governi della repubblica se non strumenti sicura-mente ostativi di una ripresa dei consumi che è l’unica possibilità per la ripresa economica da venire? Dicevamo prima che tutti i cittadini italiani sono creditori della casta dirigente che ha voluto e mantenuto il «porcellum» per tanti anni nonostante le critiche di politici avveduti (perché ancora ce ne sono), di esperti, di persone di buon senso etc., di un congruo risarcimento per tutte le sofferenze e le negative implicazioni politiche ed economiche che sono derivate dal fatto che questa legge è servita a mantenere nei gangli decisionali dello Stato persone scelte non per capacità, ma per fedeltà ovvero per altri più oscuri e meno nobili motivi.

E creditori sono i cittadini di questo Stato anche per un’altra ragione: quella degli illegittimi contributi che sono stati e vengono ancora erogati ai partiti contro la volontà popolare espressa in un referendum in cui l’80 per cento dei votanti si espresse a favore dell’abolizione, sanzionata da pochi giorni dal Procuratore Generale del Lazio De Do-minicis per danni erariali che ne sono originati per circa 4 miliardi di euro! Non c’è perciò da meravigliarsi se le in-dagini demoscopiche del Censis, che si sono svolte negli ultimi mesi, denunciano che la società italiana è «scialba» e infelice (noi che eravamo campioni del mondo per otti-mismo e felicità!) e che soprattutto soffrono i giovani, sen-za speranze, senza lavoro, senza prospettive, senza entu-siasmi e soprattutto senza politica, che temono e detestano. Con ragione!

* Presidente della Consulta dei Pensionati e dei Pensionati Uniti

12 IL BORGHESE Gennaio 2014

DOPO lo scriteriato aumento dell’aliquota IVA dal 21 al 22 per cento i dati forniti per i primi dieci mesi di quest’anno indicano che vi è stato un calo del 3,9 per cento del gettito rispetto allo stesso periodo del 2012 mancando all’appello 3.684 miliardi di euro.

Qualche giorno prima Grillo, nel vaffa day tenuto a To-rino, ha fatto un elenco impressionante di Aziende di pri-maria importanza italiane già totalmente o parzialmente in mano straniera da qualche anno a questa parte. Letta si ap-presta a dare il via alla privatizzazione (vendita totale o parziale) dell’ENI, SACE, Fincantieri, Reti Cdp, Tag, Grandi Stazioni (FS).

Dati economici dicono che ancora tengono un po’ le esportazioni, ma sono crollati i consumi interni; quelli ali-mentari si sono ridotti del 7 per cento. Questo significa che gli italiani non hanno più soldi nemmeno per i consumi indispensabili.

Nel frattempo le Regioni (su 20, 14 vedono indagati molti o la totalità dei loro consiglieri) continuano nelle spese pazze e scriteriate sperperando miliardi di euro pub-blici. Chi non ricorda le prodezze di Belsito (Lega), Penati (PD), Fiorito, (PDL), Marcuccio (IDV); in questi giorni poi sono esplosi gli scandali delle Regioni Emilia Roma-gna e Piemonte; prima vi erano stati quelli della Regione Abruzzo.

Dati recentissimi indicano una disoccupazione giovani-le che si attesta al 42 per cento; molti di questi ragazzi non provano nemmeno più a cercare lavoro; altri, i nostri mi-gliori cervelli, scappano all’estero.

Ma, nel frattempo, la Ministra Kyenge vuole imporre il salario minimo di cittadinanza a favore degli immigrati.

Sempre in questi giorni la BCE (Banca Europea) ha comunicato che calerà i finanziamenti ai nostri istituti Bancari, i quali ricevono il denaro all’1 per cento e lo ven-dono agli italiani disperati dal 12 al 14 per cento.

Mentre le industrie licenziano, gli artigiani sono co-stretti a cancellarsi ed a rinunciare alle partite IVA per la-vorare al nero, non per arricchirsi, ma soltanto per riuscire a mangiare.

In questo scenario i quindici Giudici della Corte Costi-tuzionale ci costano quasi tre milioni all’anno a testa, 45 milioni in tutto; quelli in pensione (circa 200) costano cia-scuno 200.000 euro all’anno per pagare loro le retribuzioni di quiescenza. Sarebbe interessante avere i costi esatti di quell’organo inutile, politico e corporativo che è il CSM.

I forconi hanno marciato su Roma con tensioni gravis-sime in Piemonte, Sicilia e Nord-Est. La polizia ha cercato di fermare i vari blocchi stradali.

Qualche giorno prima gli allevatori, esasperati dalle restrizioni e dai blocchi europei, hanno portato davanti a Montecitorio branchi di maiali per protesta. Forse gli ani-mali non sfiguravano poi più di tanto.

L’Europa ci impone misure sempre più restrittive che stanno finendo di distruggerci e, giustamente, il Segretario di Rifondazione Comunista, Paolo Ferrero, nel recente Congresso, dopo avere affermato che l’unione è il princi-pale nemico dei popoli europei e sta distruggendo l’Euro-pa, ha dato una parola d’ordine «bisogna disobbedire alle direttive europee e riprendere la sovranità nelle politiche europee».

Salvini, nel frattempo eletto nuovo segretario della Le-ga, vuole scrollarsi di dosso il giogo dell’euro che finirà per asfissiare definitivamente l’economia italiana.

Renzi, eletto nuovo Segretario del PD a furor di popo-lo, ha detto che manterrà fede al suo programma con una riduzione di 1 miliardo di euro dei costi della politica. Spe-riamo che non siano promesse elettorali; non servono.

* * *

Nel frattempo circolano voci che con discrezione i Di-

rigenti delle varie Questure vengono fatti partecipare a corsi antisommossa. Le nostre Banche hanno avuto ordine di non consegnare più ai Clienti banconote da 200 e 500 euro e quelle che dovessero ricevere dovranno versarle alla Banca d’Italia. Poiché si ha notizia che quanto prima si arriverà a limitare la circolazione del contante a 300 euro, non è difficile ipotizzare, anzi è certo, che i più fortunati che disponessero di cifre in contanti, andranno sicuramen-te a fare spesa in Francia, in Svizzera ma soprattutto in Slovenia dove, non soltanto non ci sono limiti così strin-genti, ma molti oggetti costano assai meno che da noi. Chi aveva somme in banconote le ha già sistemate al sicuro.

La Magistratura, nel frattempo, svegliatasi dopo lunghi e profondi sonni, con le sue indagini, sta distruggendo im-prese di primo ordine, fondamentali sia per l’economia na-zionale sia europea, tanto che, queste Aziende, dopo aver licenziato migliaia di dipendenti, saranno costrette a sven-dersi a capitali tedeschi che, con un morso di pane, acqui-siranno tecnologie e mercati.

D’altra parte la magistratura incontrollata, incontrolla-bile, irresponsabile ma molto partitica, oltre a violare siste-maticamente il segreto istruttorio, dirige e sottomette la politica con indagini mirate secondo le necessità del mo-mento quando addirittura non afferma che, questo o quel partito è asse di riferimento politico della mafia, frase che fa il paio con quella, come ha scritto un ex procuratore an-timafia in un suo libro, che l’iniziativa di Dell’Utri era ispirata alle esigenze di Cosa Nostra di trovare un referente politico. Il tutto, naturalmente, nel silenzio più assoluto del Capo dello Stato, quale Presidente del CSM.

Grillo e Berlusconi premono per mettere in stato d’ac-cusa Napolitano.

La spesa pubblica in compenso ha superato gli 830 mi-liardi di euro ma non si riesce, però, a trovare, fra le pieghe di tale voragine, 500 milioni per abolire l’IMU sulla prima casa. In compenso la Tares costa agli italiani più del dop-pio della IMU che è stata così soltanto apparentemente eli-minata. Un grande economista diceva che se si vuole la lana è necessario tosare le pecore non scorticarle.

Nel frattempo la Corte Costituzione ha stracciato la legge elettorale, pessima quanto si vuole.

La casta questi dati li conosce? Se nel frattempo ci fos-se una improvvisa crisi di Governo e, Dio non voglia, ac-cadesse qualche cosa al Presidente Napolitano, cosa succe-derebbe in questo disgraziato Paese? Cosa ci potrà portare di più e di peggio il 2014?

di RAFFAELLO GIORGETTI

BILANCIO DI FINE D’ANNO

COSA ci aspetta?

13 IL BORGHESE Gennaio 2014

QUALCHE settimana fa titolai un mio intervento: «Magistra-tura inetta? Magistratura politicizzata? Magistratura corrot-ta?». Terminai il mio lavoro con queste parole: «Per provare a capire se la Magistratura nata dopo la Resistenza sia real-mente (come da titolo) inetta, politicizzata, corrotta, farò se-guire una analisi documentata di come operava la Magistra-tura ai tempi del “Male Assoluto”». Prima di immettermi in questo nuovo tema, vediamo come viene giudicata la Magi-stratura oggi secondo il giudizio di valenti uomini di legge.

Il procuratore aggiunto alla Procura di Torino, Bruno Tin-ti, nel suo libro Le toghe rotte, dopo aver espresso alcune con-siderazioni, prosegue: «(…). Non ci posso credere, ma vera-mente la magistratura è ridotta così?». Il capo della Procura di Napoli, Vincenzo Galgano, ha dichiarato al Corriere del Mezzogiorno del 19 ottobre 2009: «Nella nostra Procura ci sono alcuni pm faziosi e fanatici che danneggiano persone e collettività e provocano sofferenze (….)». Antonio Ingroia, quand’era PM alla Procura di Palermo ha definito «politiciz-zata» la sentenza della Consulta, che ha dato ragione al Presi-dente Giorgio Napoletano nel conflitto con la Procura di Pa-lermo sulle intercettazioni delle sue telefonate col senatore Nicola Mancino. Gustavo Zagrebelsky, ex Presidente della Corte Costituzionale, in pratica condivise il giudizio di In-groia. Piero Ostellino, sul Corriere della Sera dell’11 maggio 2013, ha scritto: «A giudicare da come sono condotte certe inchieste, si perviene a sentenze poi smentite anni dopo, si tratta di gente che non sa semplicemente fare il proprio me-stiere o lo fa con la (paranoia) presunzione di poter disporre della vita degli altri a proprio arbitrio. Il difetto sta, evidente-mente, in un concorso inadeguato a individuare preparazione professionale e attitudini personali».

Al tempo del Male assoluto, pur nelle strettoie di un regi-me autoritario, questo ha saputo dimostrare una notevole au-tonomia nell’esercizio delle funzioni giudiziarie. Infatti, Beni-to Mussolini, Capo del Governo Fascista, mostrò una indub-bia sensibilità politica nei confronti della magistratura e, quin-di, nei magistrati ai quali impose una assoluta indipendenza nei confronti della politica. Quando, su consiglio dei suoi mi-nistri, ritenne opportuno di dover intervenire a difesa del Re-gime, Mussolini concepì, con la legge 25 novembre 1926 n. 2008, il Tribunale per la difesa dello Stato, escludendo, dalla sua compilazione, magistrati ordinari. Ai magistrati era fatto divieto l’iscrizione al PNF. Questo fu certamente condiviso dal ministro della Giustizia Alfredo Rocco, e trova conferma con quanto ha scritto Francesco Andreussi su La voce di Mantova del 25 ottobre 1994: «Vi furono infatti eminenti figu-re di Magistrati che raggiunsero i più alti gradi senza appar-tenere al Partito. Solo nel 1940, la legge 28 ottobre n. 148, richiede l’appartenenza al Partito quale condizione per l’a-vanzamento in carriera del personale dello Stato». Andreussi osserva: «Il giuramento che fin dal 1927, era stato imposto a tutti i funzionari viene considerato una dichiarazione di leali-

smo, non richiede l’iscrizione al Partito, ed è accettato dai magistrati anche dalla sua formulazione che dice: “Giuro di essere fedele al Re ai suoi reali successori, al regime fascista e di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Sta-to”». In pratica è un giuramento alla persona del Re, il che è costituzionalmente ineccepibile. Tesi accettata dall’Osserva-tore Romano che nel numero del 4 novembre 1931 dichiara che il giuramento è legittimo e che il termine «Regime fasci-sta» equivale alla dizione «governo dello Stato». Fino al 1936 la Magistratura è esclusa da qualsiasi attività politica in seno al Partito, però da quella data i magistrati, se iscritti avevano l’obbligo di appartenere all’Associazione fascista del pubbli-co impiego, segno evidente che molti magistrati non erano iscritti. Nel 1940, allo scoppio della guerra, si verificò un ac-centuato intervento nelle file del Partito, tanto che si stabilì l’opportunità di stabilire il tirocinio degli uditori giudiziari. L’8 settembre 1943 pose il Paese in grave crisi a seguito della rapida occupazione tedesca, con conseguente paralisi di tutte le organizzazioni dello Stato. Soltanto con il ritorno di Musso-lini si cercò di ricostituire una normativa atta a far riprendere una vita amministrativa del Paese.

Come per ogni altra attività, anche l’esercizio della magi-stratura è completamente paralizzata, inoltre i magistrati non possono pronunciare le sentenze in nome del Re, e ancora: fu-rono emanate dal PFR norme per la creazione di Tribunali speciali provinciali intesi a colpire cittadini che nel periodo dei 45 giorni del governo Badoglio avevano espresso dissenso contro il Fascismo e Mussolini. Erano norme a carattere pena-le retroattive e come tali ingiustificabili se non nel contesto dello speciale momento storico. Il 29 ottobre (1943), a seguito della morte del guardasigilli Trincali Casanova, Mussolini chiama a sostituirlo Piero Pisenti, validissimo avvocato fonda-tore del fascio friulano; Pisenti accetta il delicato incarico per-ché desideroso di contrastare il controllo del Gauleiter e con ciò tutelare l’italianità della Venezia Giulia. Pisenti comprende l’importanza di mantenere l’autonomia della Magistratura, condizione che Mussolini non contesta, ma ne riconosce asso-lutamente la necessità. Con ciò le sentenze vengono pronun-ciate «nel nome della Legge» e non «nel nome della RSI». «Sia ben chiaro», osserva di nuovo Francesco Andreussi, «è una magistratura non fascista, ma non avversa al Governo che in condizione di necessità regge il Paese.» Non si trascuri un fatto storicamente di grande rilevanza: mentre nel cosiddet-to Regno del Sud, i magistrati non potevano godere di alcuna autonomia, tanto che le loro sentenze erano poste al controllo e alla arbitraria revisione delle autorità alleate inglesi o america-ne; al Nord, nella RSI le sentenze escludevano ogni controllo sia dell’alleato tedesco che del Partito Fascista Repubblicano. Questa autonomia conferiva ai magistrati una notevole forza morale. Come detto la magistratura non fu chiamata ad alcun giuramento alla RSI, ma ciò non toglie che essa abbia operato con lealtà nell’applicazione delle leggi.

Con il 25 aprile 1945 cessò il ciclo della Magistratura co-siddetta «fascista, in quanto questa ha sempre conservato la sua autonomia, sorgente delle origini liberali e dalla conce-zione di Mussolini che ha sempre inteso rispettare il potere giudiziario. Con l’avvento a questo ministero di Palmiro To-gliatti, subentrò la partitocrazia e già alla fine del 1960 la Magistratura fu vittima dei partiti che entrarono di prepoten-za con la corruzione e con le lusinghe nelle aule giudiziarie».

Terminiamo con un giudizio di Indro Montanelli: «Sicché quello che Mussolini si vergognò di fare, la politicizzazione della giustizia, l’hanno fatta i partiti democratici e fin qui nul-la di straordinario, li conosciamo. Lo straordinario è che l’abbiano fatto con l’operante consenso dei Magistrati».

di FILIPPO GIANNINI

MAGISTRATI AL TEMPO DEL FASCISMO

PER LORO niente «cimice»

14 IL BORGHESE Gennaio 2014

LA CORTE Costituzionale, il 4 Dicembre scorso, ha dichiarato illegittimo il «Porcellum» di Calderoli (la vigente, anzi non più, legge elettorale), sicché dal 2006 siamo rappresentati da un Parlamento illegittimo e governati da persone che hanno ricoperto e ricoprono cariche in modo incostituzionale; di fat-to abbiamo un Capo dello Stato esso stesso illegittimo. Leg-giamo nella Carta: «Art. 136. Quando la Corte dichiara l’ille-gittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione».

Questo che cosa significa? Non siamo costituzionalisti e ci si perdonerà l’apparente leggerezza con cui affronteremo l’argomento, ma è pur vero che spesso la verità è cosa sempli-ce e sotto gli occhi di tutti: se la legge elettorale con cui è sta-to eletto il Parlamento, con riferimento all’assenza di prefe-renze e al premio di maggioranza, è stata dichiarata illegitti-ma, ne consegue che il Parlamento è illegittimo, come già detto. Vi sono 148 scranni del PD che senza il premio non sarebbero stati occupati dai Deputati che ora li occupano. Inoltre, come pure già accennato, il Presidente della Repub-blica, eletto da chi non ne avrebbe avuto il potere, per transiti-vità risulta illegittimo anche lui.

Ora, se la legge è uguale per tutti, ma sappiamo che non lo è, dovrebbero andare tutti a casa, ma tutti tutti, invece che cosa capita? Che la casta si chiude a riccio e improvvisa una formazione a testuggine a difesa del proprio fortino. La Bol-drini afferma che la Camera è legittima, Napolitano lo ribadi-sce anche per il Senato affermando che «il Parlamento è pie-namente legittimato». Non sono passati mille anni da quando chi adesso rigetta le conseguenze della decisione della Con-sulta girava con la Carta Costituzionale in mano, gridando ai quattro venti che essa andava difesa, sacrosanta com’era; evi-dentemente non sacrosanta abbastanza, almeno non quando fa comodo a lorsignori e quindi eccoli adesso ergersi contro la stessa Costituzione (perché la Consulta ne è garante, non scordiamolo). Leggiamo nella Carta: «Art. 87. Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale», ma non quelli che vorrebbero, ora, rispettata la legge, cioè la decisione della Consulta, e prosegue «Presiede il Consiglio superiore della magistratura», ma ha in dispregio l’organo più autorevole della stessa!

«Art. 90. Il Presidente della Repubblica non è responsabi-le degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». Se la Consulta ha dichiarato illegittima la legge che ha consentito l’esistenza di questo Parlamento, che a sua volta (assieme ai delegati delle Regioni) ha eletto il Capo dello Stato, significa che questo Capo dello Stato non ha riscontri costituzionali per stare al Quirinale, significa cioè che restando dov’è vìola la Costituzione. Repetita iuvant, ecco perché insistiamo su con-

clusioni che dovrebbero essere lapalissiane. Se sia o no «attentato alla Costituzione» non sta a noi dirlo, e vai a capire quale Parlamento dovrebbe semmai metterlo in stato d’accu-sa, ma è evidente che incapricciarsi contro la Consulta asso-miglia all’atteggiamento di un bimbo che si ostini a non voler scendere dal seggiolone.

A fronte della situazione delineata non c’è giovane dotato di buonsenso che non sia d’accordo con quanto abbiamo det-to, tranne quei pochi che al buon senso sostituiscono interessi personali per quanto in nuce, ovverosia in potenza, perché magari fanno politica e hanno qualche mecenate che senza «Porcellum» non sarebbe nessuno.

Tutte le leggi di bilancio varate sino ad oggi nonché i di-spositivi normativi che regolano la vita di noi tutti prodotti dal 2006 in poi non hanno valore, sono illegittimi se la Costitu-zione è ancora al primo posto nella gerarchia delle fonti del diritto italiano! Giovani senza futuro, senza lavoro né pensio-ne, così come gli esodati e le altre vittime di tagli e sangue, tutti paghiamo l’incapacità di decidere per il nostro benessere di chi non avrebbe nemmeno avuto i titoli per decidere! Come dire «oltre il danno la beffa», siamo tutti «cornuti e mazziati», «fessi e cojonati»! Mentre il finlandese Olli Rehn, commissa-rio europeo per gli affari economici e monetari, ci bacchetta perché non stiamo morendo ancora del tutto di fame, scopria-mo quindi che l’austerità ci è stata imposta da servi di un’Eu-ropa dittatrice che sedevano nelle Camere in modo illegitti-mo. Un’Europa, diciamolo, che si permette di fare a noi la ramanzina e nel contempo ci tiene a far entrare nell’UE l’U-craina, un Paese povero in canna. L’Italia è uno dei sei Paesi che nel 1951 fondarono la CECA, che nel 1957 divenne con il Trattato di Roma (di Roma!) la CEE, ora UE. L’orgoglio ita-liano è in ferie da troppo tempo! La Consulta adesso spariglia le carte a una casta autoreferenziale, e se lo fa o è onesta e corretta nel proprio lavoro, come pensiamo, o rappresenta chissà quali poteri occulti che intendono soppiantare quelli attuali le cui facce, in Italia, sono Letta (l’amico di Monti in Trilaterale) e gli amici di «veDrò» (tra cui Alfano e Renzi): delle due l’una.

Una cosa è certa: si tornasse al «Mattarellum», oppure a vere preferenze e comunque senza premio, chi credete che troveremmo in lista come candidati? Sempre gli stessi, che usciti dalla porta rientrerebbero dalla finestra. La Consulta si è espressa a seguito del ricorso contro il «Porcellum» presenta-to quattro anni fa dall’avvocato Aldo Bozzi (a nome di 27 fir-matari), nipote dell’omonimo politico italiano del PLI. Un eroe di questi tempi? Può un uomo solo abbattere il sistema? Mentre tutto cambia affinché nulla cambi, almeno questo il lecito sospetto, alle prossime elezioni tanto vale disertare, tan-to chi volete che venga candidato e poi eletto se non qualcuno ubbidiente ai diktat di quest’Europa anziché devoto al popo-lo? Non c’è scampo. La favola della democrazia è finita da un pezzo.

di MAURO SCACCHI

VADEMECUM PER I GIOVANI

I FUORILEGGE dettano legge

15 IL BORGHESE Gennaio 2014

L’ANNO horribilis che ci siamo appena lasciati alle spalle se n’è andato, non rimpianto, lasciandoci, alla fine, una speranza e una delusione. Lo scorso dicembre si sono, in-fatti, verificati due eventi che, anche se apparentemente senza alcun rapporto tra di loro, sono, invece, a nostro av-viso, intimamente connessi. Il primo (la speranza) è la di-scesa in piazza dei forconi - per essere più precisi del mo-vimento «9 dicembre» - avanguardia di un populismo in-cazzato che auspichiamo si evolva in una vera rivoluzione. Il secondo evento (la delusione) è stato l’assemblea dei soci della Fondazione di Alleanza Nazionale, che si sono riuniti il 14 dello scorso mese all’hotel Ergife, a Roma, per litigare, l’un contro l’altro armati, sul simbolo della defun-ta AN - scippato alla fine da Giorgita Meloni - e, soprattut-to, sui bajocchi (non pochi) custoditi nella cassaforte del bislacco sodalizio. I naufraghi di un mondo affondato nel ridicolo e nell’ignominia si sono, insomma, dati appunta-mento sulla zattera della Medusa per stabilire chi ha diritto ad avere le chiavi della cambusa e la lacera bandiera azien-dale da far sventolare a poppa.

Qualcuno, giustamente, si chiederà cosa abbiano in co-mune i due eventi. A nostro avviso essi sono, a ben guar-dare, due facce della stessa medaglia. A manifestare con i Forconi è, infatti, andata la parte più movimentista e più autenticamente popolare di una comunità politica che in passato si era identificata con il MSI, prima, e con AN, poi. E tutto questo avveniva mentre all’Ergife le vecchie caria-tidi di via della Scrofa consumavano l’ultimo atto di una farsa che, invece era nata sessantattotto anni prima da una tragedia. Si tratta, insomma, di due eventi che, paradossal-mente, testimoniano entrambi della fine di un lungo e do-loroso equivoco: quello di un movimento che era nato con-tro le categorie ideologiche della sinistra e della destra e che era stato, invece, costretto ad indossare la camicia di forza di una destra che in Italia non è mai esistita.

Non a caso lo scrittore e giornalista Stenio Solinas, che da giovane militò nel MSI, nel rievocare l’esperienza cul-turale vissuta con la Nuova Destra ha tenuto a precisare: «L’equivoco di fondo sta nel fatto che noi non volevamo fare un altro partito e, pur partendo convenzionalmente da destra, volevamo andare oltre la destra e la sinistra. Non dico che tutta la Nuova Destra la pensasse così, ma i suoi teorici più avvertiti sì. Va aggiunto che una destra politica in Italia non è mai esistita, eccezion fatta per la cosiddetta destra storica post-risorgimentale, propria di un’età in cui non c’era il suffragio universale e si votava per censo. Lo stesso MSI», osserva Solinas, «era sostanzialmente un partito fascista (neo o post poco importa), ovvero un parti-to la cui identità si basava sul culto e la memoria dei vinti. Tutto il resto era moderatismo, e per questo la DC bastava e avanzava. Quando si fanno dei paragoni con altre realtà europee, bisognerebbe sempre valutare che cosa lì è stato

storicamente prodotto. L’Inghilterra e la Francia, per ca-pirci meglio, hanno una tradizione di destra, nel caso francese addirittura di destre, che ne accompagna il cam-mino nazionale. L’Italia no, tanto è vero che il risorgimen-to fu fatto contro la destra reazionaria, di trono e di altare, propria dei piccoli Stati pre-unitari. Dico tutto questo, e chiudo qui per non annoiare, per mettere in evidenza come la polemica su una destra moderna, europea, eccetera, è una polemica pretestuosa, fondata su un soggetto artificia-le. Ho detto prima che la storia è irrazionale, ma non bi-sogna nemmeno abusarne. È il “buco nero” del fascismo la vera questione, eternamente rimossa».

Parole sacrosante. Anche perché stanno a dimostrare che il vero grande errore della dirigenza tardo missina pri-ma e aennina poi fu quello di «superare» il fascismo eti-chettandolo come «male assoluto» e sventolando la ban-diera di una destra che in Italia non è mai esistita e che, se anche fugacemente è esistita, è finita da tempo dal rigattie-re della storia, assieme al tram a cavalli, alle crinoline, ai mutandoni lunghi di lana e alle altre innumerevoli cose di pessimo gusto.

Alla vecchia dirigenza missina, ad ogni buon conto, non ci sentiamo - per dovere di onestà intellettuale - di at-tribuire la colpa di una politica tutta incentrata sull’antico-munismo, su una canina fedeltà atlantica e sull’ostinato corteggiamento del PLI di Malagodi per costruire, insieme ai monarchici, la «grande destra». I tempi erano quelli che erano. C’era la guerra fredda e l’anticomunismo, oltre ad essere una necessità, era anche l’unico motivo per cui il MSI poteva avere una certa agibilità politica.

Del resto - e qui una volta tanto siamo d’accordo con il barone Evola - c’era poco da scegliere. Tra chi, sia pure nelle fogne e nelle catacombe, ci faceva sopravvivere e chi, al contrario, prometteva di impiccarci tutti quanti ai lampioni, non c’era partita. Al vecchio MSI va comunque riconosciuto il merito di aver permesso ad una comunità di rimanere unita e a coloro che «non avevano tradito» di po-ter alimentare, nel chiuso delle sezioni, la fiammella dell’i-dea in attesa di tempi migliori.

Il vero grande errore, da parte di Fini e dei suoi colon-nelli, fu invece quello di non aver capito che, dopo l’89, era arrivato il momento di riportare in vita le idee ancora valide ed originali, depurandole dalla nostalgia, di un mo-vimento che era nato come «terza via» tra capitalismo e comunismo. L’occhialuto e flessuoso Gianfranco, il batra-ce Gasparri, l’algido Urso e il giovane «Galeazzo» Ale-manno, finalmente «sdoganati», ne approfittarono per atto-vagliarsi al desco del potere e scoprire i magnifici e pro-gressivi destini della liberaldemocrazia, senza comprende-re che stavano legandosi ad un cadavere. Scoprirono tutti il fascino discreto della democrazia assieme a quello della buona tavola. Alcuni impararono ad usare il coltello per mangiare il pesce. I più, però, dettero, come «Batman» Fiorito, libero sfogo alle loro antiche vocazioni trimalcio-nesche e optarono direttamente per la crapula.

A loro parziale scusante va però detto che questi signo-ri non provenivano per niente dal MSI, ma da quel che re-stò del MSI dopo la scissione di Democrazia Nazionale avvenuta nel 1976. Non è questa la sede per stabilire se quella scissione fu giusta o sbagliata. A noi preme soltanto rilevare che, in seguito a quella scissione, il partito della fiamma rimase privo dei suoi dirigenti più autorevoli. I vertici del mondo giovanile se ne andarono in blocco, con l’eccezione di Pinuccio Tatarella che riuscì, abbandonando il suo mentore Ernesto De Marzio, finalmente a diventare

di FRANCESCO JAPPELLI

ADDIO, DESTRA!

È L’ORA dei finti babà

16 IL BORGHESE Gennaio 2014

deputato dopo decenni di tentativi infruttuosi. L’unica fi-gura carismatica rimase quella di Almirante. Per il resto fu il trionfo delle scartine che, dalla quart’ultima fila, riusci-rono ad arrivare alla prima. Dopo la morte di Almirante e il successivo sdoganamento del MSI, le scartine vinsero nuovamente alla lotteria e riuscirono addirittura a conqui-stare posti di governo e, soprattutto, di sottogoverno. I po-chi che hanno memoria storica sanno benissimo che le co-se stanno esattamente come noi le abbiamo raccontate. Meravigliarsi, a questo punto, che sia andata come è anda-ta è del tutto fuori luogo. Le scartine rimangono scartine anche quando vincono alla lotteria. Come recita un saggio proverbio Napoletano «‘e voglia ‘a mettere rum, chi nasce strunz’ nun po’ addiventà babbà».

Le cause del disastro sono tutte qui: troppo rum piovu-to su troppi stronzi.

E la cosa risulta ancor più avvilente se si considera che, come scrive il professor Fabio Calabresi sul blog «Ereticamente»: «Oggi ci sarebbe un bisogno disperato della nostra presenza. Vediamo sorgere in tutta Europa movimenti di opposizione identitaria al mondialismo, alla globalizzazio-ne, al capitalismo finanziario internazionale sempre più rapa-ce e all’ibridazione etnica, minaccia diretta alle identità dei popoli europei. L’“Alba dorata” ellenica è forse il più rile-vante in questo momento, ma non è certo il solo. Ebbene, ora noi non ci siamo. È inutile illudersi: i quattro o cinque movi-mentini tra l’altro divisi da rivalità insanabili e che raggiun-gono un consenso elettorale minimo, sono quanto di più pros-simo ci possa essere alla totale inesistenza. È una bizzarria tutta italiana il fatto che quello che dovrebbe essere lo spazio dell’opposizione identitaria, lo spazio teoricamente nostro sia occupato da un movimento localistico e separatista quale la Lega Nord».

L’unica consolazione, di fronte a tanto sfacelo, è che quel popolo, che fu ingannato dai…finti babà, esiste anco-ra ed è ampiamente disponibile ad impegnarsi in una nuo-va battaglia identitaria per la sovranità nazionale. Ma non più, è superfluo dirlo, sotto le bandiere della nuova Allean-za Nazionale. La Meloni, all’Ergife, non ha conquistato un simbolo, ma una lapide. Riposi in pace.

Berlusconi decaduto da parlamentare? È più temibile di prima. «Porcellum» bocciato: vanificate le aspettative di Renzi e Grillo - La decadenza di Berlusconi da senatore, come sperava la sinistra più becera e più miope, non ha tolto di mezzo il Cavaliere. Il palese accanimento di gran parte dei magistrati contro la sua persona, in nome della giustizia e della Carta costituzionale da loro stessi più volte calpestate, ha provocato l’indignata reazione di milioni di italiani che hanno seguito con favore il Cavaliere sin dalla sua discesa in campo nel 1994 (e lo hanno votato pure nelle ultime politi-che). E le tante sinistre di cui è pieno il panorama politico italiano se continueranno ad essere ossessionate da lui, raf-forzeranno il berlusconismo imperante. Il Cavaliere sarà ri-posto nel cassetto, soltanto se sarà sconfitto nettamente in una competizione elettorale. Sparirebbe il berlusconismo, alimentato della sua corte fatta da chi lo adula o lo circuisce per tornaconto personale. Sino a quel momento il Paese ri-marrà diviso in due fazioni. La fine (politica) di Berlusconi segnerebbe anche quella di un folto manipolo di impresenta-bili, incompetenti e ruffiani.

Pare di capire, però, che il punto terminale del Cavaliere è assai lontano, in particolare dopo la sentenza della Corte costituzionale che ha ritenuto illegittime due norme della legge, quella che istituiva il premio di maggioranza alla Ca-mera e al Senato e quella che prevedeva l’elezione di lista bloccate di candidati la cui composizione veniva decisa dalle segreterie dei partiti. Più volte, su queste colonne, avevamo denunciato la vergogna delle liste bloccate che, dal 2005 al 2013, non hanno consentito all’elettore di esprimere una pre-ferenza su un candidato.

La scure della Consulta abbattutasi sul «Porcellum» ha vanificato le aspirazioni di Matteo Renzi e di Beppe Grillo che, da angolazioni diverse, speravano che il governo di En-rico Letta cadesse e si andasse subito alle elezioni con la leg-ge del 2005. Ognuno di loro riteneva di vincere per raggiun-gere il premio di maggioranza.

Le vicende di Berlusconi e le decisioni della Corte costi-tuzionale riguardano, pur indirettamente il presente ed il fu-turo dei rimasugli della destra ex MSI ed ex AN che, ormai da un anno e più, sta tentando di risollevarsi dal baratro in cui l’ha cacciata Gianfranco Fini.

A destra continua la frammentazione (rottama-

zione?) - È una destra - lo ripetiamo per l’ennesima volta - smarrita, delusa, incazzata, avvelenata, confusa, dispersa in decine e decine di rigagnoli. Ad ogni sorgere del sole, nasco-no nuovi movimenti. Ultimi, in ordine di tempo, «Riva De-stra», rispolverata da Fabio Sabbatani Schiuma, con l’ausilio del dinamico consigliere regionale Fabrizio Santori e «Insieme per l’Italia» del noto imprenditore Erasmo Cinque e dell’ex deputato finiano Andrea Ronchi. Va ricordato che Cinque, con notevole coraggio, nel 1993 appoggiò Gianfran-co Fini nella corsa a sindaco della capitale e, sin dall’inizio, sostenne con convinzione il progetto elaborato da Giuseppe

di ADALBERTO BALDONI

I rottamatori della destra

DECADENZA BERLUSCONI

17 IL BORGHESE Gennaio 2014

Tatarella e Domenico Fisichella per la nascita di Alleanza Nazionale. Queste sigle vanno ad aggiungersi a quelle esi-stenti che hanno già sperimentato le prove elettorali, con ri-sultati non proprio esaltanti. A dimostrazione della mancan-za di consenso popolare. Unica eccezione la formazione «Fratelli d’Italia» di Giorgia Meloni, che è riuscita con uno striminzito 1,95 per cento a raggranellare ben nove deputati.

Attenzione. L’effetto giuridico della sentenza della Corte (che decorrerà tra alcune settimane quando saranno rese le motivazioni), prevede un ritorno al proporzionale puro, in vigore nella prima Repubblica, fino a quando nel 1993, ven-ne sostituito dal cosiddetto «Mattarellum». Pertanto sarà suf-ficiente raggiungere una soglia minima per guadagnare seg-gi. Con meno del 2 per cento ogni partito entrerà alla Came-ra. Di questa evenienza, potrebbero approfittare il Fronte nazionale di Adriano Tilgher, Forza Nuova, Fiamma Trico-lore e Casa Pound, ad esempio. È prevedibile, però, che i grossi partiti correranno ai ripari accordandosi su una nuova legge elettorale che eviti la frammentazione del Parlamento e la definitiva sepoltura del bipolarismo.

Altra possibile previsione: un’ennesima competizione elettorale condotta dalle sinistre contro Berlusconi (contro la persona, sottolineiamo, non contro il politico), dividerà il Pae-se fra berlusconiani e antiberlusconiani dove non ci sarà spa-zio per qualsiasi sigla di destra. Ne approfitteranno i grillini.

Fratelli d’Italia: predicano bene ma razzolano male.

L’imbarazzante presenza di Ignazio La Russa, uno dei principali rottamatori della destra - Ogni «leaderino» dei vari gruppi della destra smarrita ritiene di detenere la formu-la magica per fare risorgere dalle rovine quella stupenda realtà politica, sociale, culturale, soprattutto umana che si chiamava Alleanza Nazionale, erede del Movimento Sociale Italiano.

Al momento, sembra che i tentativi di unificazione di queste micro realtà politiche, siano naufragati, soprattutto per volontà di Fratelli d’Italia che, confortati dai sondaggi che li vede in crescita, sperano - da soli - di costituire il pun-to di riferimento di una destra moderata, moderna, pulita, autonoma dal punto di vista economico, effettivamente sganciata da Arcore, rinnovata. Per raggiungere questo obiettivo, Fratelli d’Italia dovrebbe dimostrare di essere coe-rente con quanto enuncia: primarie, comportamento etico, volti nuovi alla guida del movimento, rinnovamento dei qua-dri dirigenziali, spazio ai giovani, eccetera, eccetera … Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare…

Infatti, non può certamente sfuggire alla pubblica opinio-ne che la presidenza del partito è ricoperta dallo stagionato Ignazio La Russa (66 anni, sette volte deputato!), ex coordi-natore del PDL che ha contribuito a distruggere. La Russa è stato chiamato pesantemente in causa - negli ultimi mesi dello scorso anno - per i suoi rapporti con la famiglia Ligresti.

Ricordare ai nostri lettori le vicende di Salvatore Ligresti e dei suoi figli Jonella, Paolo e Giulia arrestati di recente per pesanti reati che vanno dal falso in bilancio alla manipola-zione del mercato? Faremmo cronaca nera e giudiziaria. Non è il momento. A noi interessano gli sviluppi politici del caso, giacché i Ligresti hanno inquinato l’imprenditoria, l’e-conomia, la finanza e la politica italiana. (Più volte Salvatore Ligresti è incappato in disavventure giudiziarie. Nel 1986 è stato coinvolto nello scandalo delle cosiddette «Aree d’oro» di Milano. Nel 1992 è stato arrestato per corruzione nell’am-bito delle indagini sugli appalti della Metropolitana e delle Ferrovie del Nord. Condannato, in via definitiva, a 2 anni e 4 mesi. Altre indagini risultano aperte da parte di diverse

Procure, perché il potente imprenditore è accusato di banca-rotta e aggiotaggio).

Bene ha fatto Fabio Rampelli, vice presidente del gruppo di Fratelli d’Italia, nella seduta alla Camera del 5 novembre scorso, a censurare l’intervento del ministro della giustizia, Annamaria Cancellieri, che si sarebbe adoperata per la scar-cerazione di Giulia Ligresti.

Su questo episodio, come interpretare il silenzio del pre-sidente del partito, Ignazio La Russa? Geronimo La Russa, figlio di Ignazio, a chi deve essere grato per i suoi numerosi e remunerati incarichi nei consigli di amministrazione gestiti o controllati dai Ligresti? Il nome di Ignazio La Russa, inol-tre, richiama ad ogni passo quello di Silvio Berlusconi con cui è legato politicamente a filo doppio. Un legame, quello di La Russa con il Cavaliere, talmente solido, da indurlo a ignorare la vecchia, giovanile amicizia con Fini, quando quest’ultimo è stato cacciato dal PDL tre anni fa.

In quell’occasione, Gianfranco si sarebbe aspettato specialmente dal suo fraterno amico Ignazio, almeno un cenno di solidarietà. «Ricordo il dolore che mi diede, quando si piegò al diktat sulla mia espulsione (…) Da La Russa mi aspettavo di più. Per carità, era stato esplicito nel suo dissenso. Ma, insomma, eravamo amici da trent’anni…» (intervista di Fini ad Aldo Cazzullo, Corrie-re della Sera, 22 ottobre 2013). Par di capire: un’amicizia trentennale buttata a mare pur di non inimicarsi il «Padrino».

Il tormentone di Fini che torna a fare politica - Dal

giorno in cui Fini, davanti a pochi intimi, ha presentato il suo ultimo saggio Il Ventennio. Io, Berlusconi e la destra tradita, ci si interroga sul possibile ritorno dell’ex presi-dente della Camera, alla politica attiva. Per alcuni giornali, tra cui Libero che per primo ha affrontato l’argomento con un interessante articolo di Renato Besana, Fini avrebbe siglato la pace con Storace, con la benedizione del Cava-liere: «abilissimo nel praticare il dividi ed impera, in poli-tica come nel Milan». Besana sostiene che «fu lui a favori-re l’uscita di Storace da AN, così da costringere Fini a confluire nel PDL. Per ragioni comprensibili non tollerava che alla sua destra esistesse un soggetto forte. Non ha cambiato opinione, a maggior ragione dopo il riposiziona-mento di Forza Italia». Pur di continuare il dividi ed impe-ra, il Cavaliere sarebbe disposto a chiudere non uno ma due occhi sui «tradimenti» e i voltafaccia di Fini, dando via libera all’operazione condotta da Storace sempre bene accolto da Berlusconi. In questo senso Fini potrebbe torna-re a fare politica permettendo a Storace di ricevere l’aiuto di Futuro e libertà, in primis di Roberto Menia che è inter-venuto con un ottimo discorso alla manifestazione del «Parco dei Principi» (di cui abbiamo parlato diffusamente nell’ultimo numero) il 9 novembre scorso organizzata pro-prio dal leader de La Destra.

Secondo Domenico Gramazio, storico esponente della destra romana, più volte parlamentare, è alquanto improba-bile che vada in porto l’accordo tra Storace e Fini. Que-st’ultimo è politicamente bruciato. Presuntuoso, arrogante, privo di una strategia a lungo termine, ha anteposto i pro-pri privilegi personali al partito. Un grosso errore è stato quello di sciogliere Alleanza nazionale e fondersi con For-za Italia. Chi accoglie tra le sue file Fini, rischia un suici-dio politico. Fini ha prima rottamato il MSI, poi Alleanza Nazionale, quindi il PDL, ed infine Futuro e Libertà, il partitino dei suoi amici stretti che d’imperio aveva catapul-tato in Parlamento, approfittando del «Porcellum».

18 IL BORGHESE Gennaio 2014

Alemanno, rottamatore della destra romana, cerca casa - Frattanto è sceso di nuovo in campo Gianni Ale-manno, fondatore del movimento «Prima l’Italia» che, in una lunga, articolata ed accorata lettera al «popolo della destra», si è augurato che al più presto venga ricostruita «una nostra casa, il partito della Nazione e del popolo ita-liano». Questa nuova casa sarà la nuova Alleanza naziona-le e popolare che «raccolga tutto (e non solo) il popolo della destra». Goffo perché non credibile e fuori tempo, il tentativo di rispolverare la «destra sociale». Quando è stato sindaco per ben cinque anni, Alemanno si è alleato con i poteri forti (così come avevano fatto i suoi predecessori), trascurando di curare i rapporti con i ceti socialmente più deboli. Non ha mai dato segnali di cambiamento o di di-scontinuità con il passato.

I suoi più stretti collaboratori (da lui nominati) hanno dimostrato di avere a cuore i propri privilegi e non quelli dei cittadini. Quasi tutti hanno, in corso, indagini giudizia-rie. Il suo «braccio destro», Riccardo Mancini, è stato arre-stato per essersi intascato una tangente (acquisto bus).

In verità Alemanno cerca di accasarsi, dopo la disfatta subita alle elezioni amministrative di Roma.

Uno sferzante atto di accusa nei confronti della vecchia classe di dirigente di Alleanza Nazionale che ha gestito nel passato il partito «come fosse proprietà privata» e contro co-loro che il partito lo lasciarono ed ora tentano di reinserirsi per spartirsi i 100 milioni circa del patrimonio della Fonda-zione di AN, è stato lanciato da Marcello De Angelis, ex di-rettore del Secolo d’Italia e già parlamentare di AN.

Afferma De Angelis che «siccome c’è tanta gente a spasso che non vuole rassegnarsi a restare fuori dai giochi, ma sa di avere dilapidato un patrimonio enorme di voti con i propri fallimenti personali, pensa di supplire cavalcando la passata gloria e facendo l’asino che porta le reliquie (la gente si inchina al passaggio delle reliquie dimenticando che sotto c’è un asino)». Continua De Angelis: «Per fare politica servono soldi. Non è difficile capire quanto faccia la differenza avere o meno la disponibilità di 40 milioni di li-quidi e altrettanto di beni immobili per garantirsi un futuro politico».

Nessuno tiri in ballo l’«ideale», i «martiri», i «valori immortali», la «giusta battaglia». L’obiettivo sono soltanto i soldi.

IN QUESTA nostra epoca in cui pare che il trionfo del materia-lismo, degli egoismi, della corruzione a tutti i livelli, della so-praffazione, degli inganni sia senza limiti e senza possibilità di riscatto, può succedere di chiedersi perché ci si debba osti-nare a fare testimonianza di quell’etica sociale, di quei princì-pi di solidarietà e di equità, di quegli ideali di una società in cui l’uomo abbia la preminenza sul denaro e la politica sia limite e controllo dell’economia.

Insomma, per noi camerati, perché continuare a conside-rarci gli eredi del Fascismo.

Anche noi ci siamo posti la questione e, come spesso ac-cade, la risposta ci è arrivata nel modo più semplice e diretto, senza contorcimento di meningi e senza meditazioni dotte.

Ci è capitata tra le mani la lettera che scrivemmo a Gian-franco Fini il 10 febbraio 1994 per dare le dimissioni dal MSI e la vogliamo riprodurre qui perché, nella sua semplicità, ci pare ancora oggi una valida spiegazione al perché continuare.

«Caro Fini, Sono un vecchio iscritto al MSI al quale aderii a 18 anni

nel lontano 1953. Ti scrivo per dirti che sono frastornato e che non potrò più continuare ad essere iscritto al partito. Co-me avrai capito, mi sento spiazzato dall’accantonamento di tanti nostri valori, di tanti ideali e, perché no, di tanti simboli che sono, nello stesso tempo, le radici e l’humus dai quali nasciamo e traiamo forza e spinta ideale.

Non lo dico in funzione del mio passato; ti assicuro che non metto nel conto l’essere stato, quasi da solo, nel mio pae-se del Monferrato, negli anni ’50, contro la straripante, esul-tante e proterva arroganza degli ex partigiani e dei nuovi co-munisti (alcuni, in paese, li ricordavano in camicia nera..).

Non lo dico nemmeno perché nel ’68 e negli anni seguen-ti, a Milano ho continuato a sostenere, in piazza del Duomo, dove tanti presenzialisti di odierni dibattiti televisivi brillava-no per la loro pavida assenza, le idee del Fascismo, i valori dei Diciotto punti di Verona, le verità sugli orrori e la stupidi-tà del bolscevismo nostrano e straniero e l’amore, nonostante tutto, per questa nostra Patria maltrattata!

Queste sono state mie scelte, libere e responsabili ed a me hanno insegnato, quando ancora ero Balilla, che le responsa-bilità e le conseguenze, positive e negative, delle proprie deci-sioni, sono un fatto personale che riguarda solamente se stes-si!

No, il mio problema è un altro. Il mio problema si chiama GLAUCO BIANCHI.

Vedi, Glauco Bianchi è un ragazzo che nel 1945 aveva 17 anni e mezzo ed è rimasto fermo a quell’età perché nell’Apri-le di quell’anno è morto. È morto combattendo durante un attacco dei partigiani alla sua caserma della Guardia Nazio-nale Repubblicana. Era l’ultimo rimasto vivo alla fine di quella battaglia sostenuta da lui e dai suoi Camerati per non arrendersi alla sovversione rossa, per difendere un onore che si chiama fedeltà, per non togliersi la camicia nera, per non ammainare la bandiera della Patria e degli ideali. Glauco

di ALESSANDRO MEZZANO

PERCHÉ continuare

PER I FIGLI QUESTO ED ALTRO ...

19 IL BORGHESE Gennaio 2014

Bianchi, rimasto senza munizioni, ha preferito la morte alla resa, ha preferito spegnere la vita, che alla sua età urla la volontà di essere, ha rinunciato ad un futuro che gli spettava, per testimoniare una FEDE che rappresentava il suo univer-so e senza la quale la vita, a 17 anni e mezzo, gli è parsa po-vera e vuota!

Glauco Bianchi non ha naturalmente ricevuto medaglie, né citazioni, né ricordo ufficiale. Credo anzi che, al di fuori di me e di altre quattro o cinque persone, nessuno oggi sa che Glauco sia mai esistito. Glauco Bianchi ha avuto solamente il dolore orgoglioso e pieno d’amore di sua madre e dalla mia, che la conobbe e ne divenne amica in quegli anni.

Io però ho un debito enorme verso Glauco Bianchi che mi ha insegnato, con l’esempio e non con le chiacchiere, che si può scendere in campo per un ideale anche quando, e forse di più, il pericolo è grande ed il tornaconto è inesistente.

Mi ha insegnato che le tattiche ed anche la grande strate-gia sono frutto del cervello e diventano valide solo se sono anticipate da una precisa scelta del cuore!

Mi ha insegnato come lui stesso rappresenti il miracolo più sublime, la simbolica sintesi di un periodo storico e di una politica umana e sociale che ha saputo dare corpo e va-lenza agli ideali tanto da produrre gesti come quello di Glau-co Bianchi!

Ora, capisci che il mio debito è veramente molto grande ed è soprattutto un debito d’onore che io ho difficoltà, nel mondo d’oggi, a pagare. L’unico modo che mi resta è conti-nuare a fare sopravvivere, con la testimonianza, quei valori e quegli ideali che furono di Glauco e che sono i miei.

Ecco perché non accantonerò per nessun motivo, né tatti-co, né strategico, né la camicia nera, né i Diciotto punti di Verona, né il corporativismo, né tutta l’eredità ideale che il Fascismo ci ha tramandato.

Ti lascio alla tue manovre politiche ed ai tuoi calcoli elet-torali.

Io non posso restare nella stessa casa con chi, con Mac-chiavellico disegno, calpesta valori ed ideali per raggiungere il successo politico».

Come si vede è una lettera che ciascuno di noi potrebbe

sottoscrivere anche oggi, a distanza di dieci anni. Secondo noi spiega anche le motivazioni per continuare a

testimoniare e lottare per i nostri ideali. Oltre che per la nostra intima convinzione, il continuare

sul nostro cammino è un dovere che abbiamo verso tutti i no-stri caduti che ci hanno insegnato con l’esempio cosa sia la coerenza e la fedeltà e ci hanno vincolati a far sì che il loro sacrificio sia fruttifero e non risulti inutile.

Tutti noi abbiamo un debito grandissimo verso di loro e, se siamo gli uomini che diciamo di essere, dobbiamo onorarlo con l’impegno, la testimonianza, la lotta!

Boia chi molla!

MATTEO Renzi è un bene per la Destra, e soprattutto per l’I-talia. Con la vittoria che lo ha portato alla guida del Partito Democratico, innanzitutto, è tramontata ogni velleità di ritor-no ad una legge elettorale proporzionale; a meno che lo stallo della legislatura in corso non ci porti, quando sarà, a votare col porcellum senza premio di maggioranza e, quindi, ridotto a proporzionale pura dalla sentenza della Corte Costituziona-le. Anche in questo caso, però, non è prevedibile una polve-rizzazione della rappresentanza politica in partiti microscopi-ci. Dai referenda di Mariotto Segni negli anni novanta, infat-ti, per varie vicende gli Italiani sono andati a votare con siste-mi elettorali anche molto diversi tra loro: dalle elezioni per il Parlamento europeo a quelle municipali hanno usato sistemi sia maggioritarî, le leggi per l’elezione delle Camere del Par-lamento nazionale, sia proporzionali più o meno puri, per al-tri organi rappresentativi a diversi livelli territoriali, ma co-munque hanno espresso sempre scelte nette per le coalizioni di centrodestra o centrosinistra. Ad essere maggioritarî sono gli Italiani, prima delle leggi elettorali, perché vogliono poter scegliere da chi essere governati; almeno quelli che vanno a votare. Non fa eccezione il voto «a cinque stelle», perché la scelta di quelli elettori è sempre bipolare, fra la classe politica ed un movimento che la contesta.

Tra le forze politiche che si pongono come tali, ora la si-tuazione è questa: la Sinistra ha un capo riconosciuto del suo maggior partito, con un programma di sinistra non comuni-sta; la Destra ha un vecchio capo, un po’ suonato dal pugilato giudiziario e per questo un tantino monomaniacale, ed un certo numero di diadochi, aspiranti alla successione, un poco tutti d’età anziana. Chi dipinge Matteo Renzi un giovane rampante evidentemente ha conosciuto soltanto la geronto-crazia nazionale, in quanto in tutto il resto del mondo un qua-rantenne è già entrato negli «anta», è un uomo maturo il qua-le, se non ha successo allora, non lo avrà più. Questo, nel re-sto del mondo, non vale soltanto per le professioni, ma anche per la politica: ci si afferma fra i trenta ed i trentacinque anni, ed a capo di governo o di partito si arriva proprio a qua-rant’anni; fra la cinquantina e la sessantina, salvo eccezioni, si comincia a pensare alle memorie, se qualche editore è di-sponibile, a costituire o presiedere fondazioni culturali, ad ambire alle gran maestranze di gran logge nazionali o ad altre opere filantropiche o dimensioni spirituali.

Matteo Renzi è diventato capo partito ad una età giusta, e mira ad essere capo del governo poiché ha gli anni opportuni. È capo della Sinistra e dice cose di sinistra. Il voler fare a meno del Senato è una di queste: è dall’inizio del milleotto-cento che a Sinistra si propongono Parlamenti monocamerali, con una sola Assemblea nazionale eletta a suffragio universa-le diretto, come nella Costituzione spagnola di Cadice. È la Destra che dovrebbe ripensare il Senato. Come scrisse Vitto-rio Emanuele Orlando nei suoi Principî di Diritto Costituzio-nale, esistono due teorie della rappresentanza: quella radicale per cui il popolo rappresentato è un universo atomistico d’in-dividui eguali; quella nazionale in cui vanno rappresentate

di RICCARDO SCARPA

LA DESTRA dopo Renzi

20 IL BORGHESE Gennaio 2014

anche le articolazioni sociali della Nazione. Come, ad esem-pio, scrisse Gaetano Mosca, la questione costituzionale del secolo scorso fu inserire nel sistema costituzionale la rappre-sentanza delle categorie sociali con le loro istanze, ed all’og-gi questo è l’elemento centrale del Manifesto politico e pro-grammatico per la rifondazione dello Stato, divulgato dal CESI - Centro Nazionale Studî Politici ed Iniziative Culturali presieduto da Gaetano Rasi, e la cui redazione è stata coordi-nata da Franco Tamassia. Quel manifesto ben potrebbe essere preso a base per una riforma in tal senso del Senato. Poi v’è la proposta, sempre novecentesca, di Salvador de Madariaga, il quale segnalò l’opportunità d’affiancare alla rappresentan-za una testa un voto, quella delle famiglie. Posto che forse il difetto principale delle democrazie è di portare alla selezione d’una classe politica che, ottenendo il potere per via elettora-le, vede soltanto le questioni che si pongono nel tempo tra un’elezione e l’altra, e non affronta quelle di lungo periodo (la crisi attuale, ad esempio, è nata anche da politiche econo-miche fatte per soddisfare gli elettori, scaricando i costi sulle generazioni future, che sono le odierne), forse una rappresen-tanza familiare potrebbe essere un rimedio, posto che in fa-miglia si pensa all’avvenire di figli e nipotini, oltre al pro-prio. Infine, all’inizio di questo secolo Ralph Dahrendorf, il grande sociologo tedesco trapassato in Gran Bretagna mem-bro della Camera dei Pari, si disse convinto che certe delibe-razioni, ad esempio di leggi come il regolamento del testa-mento biologico, potrebbero meglio riflettersi in camere non sottoposte alle emozioni dell’opinione pubblica, perché com-poste da personalità del pensiero, della scienza e delle arti selezionate non per elezione. Chiamò la sua proposta: «Senati etici».

Tutto questo dovrebbe essere oggetto d’una riflessione sulla riforma del Senato e di proposte da parte della Destra, ma non della Sinistra, che ha un’idea radicale della rappre-sentanza democratica, e che portò all’Assemblea Costituente ad un bicameralismo finto, fatto di Camere fotocopia, stante il quale Matteo Renzi fa benissimo a voler cancellare il dop-pione. Il Renzi ha anche fregato qualche capo d’abbigliamen-to alla Destra, come quando proclama che l’eguaglianza fra i cittadini non significa disconoscimento del merito, e batte sul rifinanziamento e la riforma dell’istruzione e della ricerca scientifica. Non è colpa del nuovo capo della Sinistra, se la Destra, che avrebbe avuto dovere di avere fra i suoi miti la riforma abbozzata da Benedetto Croce ministro di Giovanni Giolitti ed attuata da Giovanni Gentile ministro di Benito Mussolini, invece ha smontato il nostro sistema d’istruzione coi due ministri più incolti e sciagurati, Letizia Moratti e Ma-ria Stella Germini. Anche poiché non fu un errore, ma l’at-tuazione d’una politica aziendalista, volta non a istruire liberi pensatori, ma formare ignoranti quadri aziendali, manipolabi-li dalle organizzazioni.

Si potrebbe continuare nell’elenco dei silenzi o cattive azioni della Destra e dei buoni propositi di Matteo Renzi, ma è evidente che oggi la Sinistra ha una guida, mentre la Destra no. Siccome la Democrazia maggioritaria ha, però, per pro-pria struttura, necessità di un’alternativa, un rilancio della Destra sarà la logica conseguenza del governo della Sinistra a due condizioni: che Matteo Renzi, prima o poi, s’affermi guida d’un governo che traduca in fatti le sue proposte, il ché potrebbe già avvenire determinando le proposte di riforma dell’Unione europea che Enrico Letta sta preparando pel se-mestre di presidenza italiano, nel 2014; e che la Destra ritro-vi, nel proprio più autentico patrimonio genetico, le contro-proposte da opporvi ed una guida in grado di presentare agli Italiani l’alternativa.

CHE cosa diavolo sta succedendo a destra? Se lo chiede mio nonno, dall’alto dei suoi novant’anni; se lo chiede mio padre, a sessanta. E me lo chiedo io, giovane donna quasi trentenne, che dopo aver trascorso l’adolescenza e la post-adolescenza a rincorrere un ideale, oggi lo vedo tradito e sfocato.

Tradito da quel partito che alla fine degli anni ‘90 cre-devamo potesse rappresentare e formare una solida classe dirigente in grado di contrastare lo strapotere delle sinistre (comuniste e post-comuniste), incarnando i valori della tradizione. Credevamo che un giovane Gianfranco Fini fosse in grado di rispolverare una cultura di destra - per troppo tempo finita in un cono d’ombra - rendendola attua-le e liberandola da un becero anacronismo. Credevamo perfino che i Colonnelli fossero capaci di realizzare «i so-gni» degli italiani, rendendo fattibili le prospettive di be-nessere e di futuro. Anche in tempo di crisi.

L’epilogo lo si conosce, è storia. Con il tramonto del partito di Fini, anche le speranze di quei giovani che, sul finire degli anni ‘90 e alle porte del nuovo millennio, han-no speso tempo ed energie per realizzare un sogno, sem-brano tramontate. Noi, i giovani universitari di destra (gli appestati secondo alcuni studenti e professori) abbiamo lottato nelle facoltà portando avanti idee, valori e obiettivi, convinti che avrebbero portato concretezza, autenticità e - sic! - giustizia. Come si suol dire, mangiavamo pane e po-litica e credevamo che con i nostri ideali a far da leva avremmo potuto sollevare il mondo.

Con l’agognata laurea, noi giovani nati all’inizio degli anni ‘80, abbiamo raggiunto il nostro personale traguardo, ma abbiamo assistito all’inizio della fine del partito. Una fine dovuta a poca saggezza e poca lungimiranza, o forse alla smania di potere, o a eccessiva ambizione. Con sgo-mento e incredulità abbiamo visto AN, il partito per il qua-le avevamo lottato e ci eravamo fatti anche prendere a pu-gni all’università, unirsi, anzi sciogliersi nella Forza Italia di Berlusconi. Risultato: il Pdl.

Gli anni al governo del Pdl unito, dopo una brevissima esperienza sinistro-centrica targata Prodi, ci hanno visto, laurea in tasca, alla spasmodica ricerca di un lavoro che stentava ad arrivare. In compenso è arrivata la crisi che ha spazzato via i nostri sogni e le nostre speranze, rendendo il futuro sempre più incerto e sempre più sfocato.

I più lungimiranti hanno mollato, altri (me compresa) hanno continuato a crederci: a credere alle parole di colui il quale era ormai diventato il nostro leader; a credere che lo stallo economico non riguardasse l’Italia - ristoranti e cinema sono sempre pieni (ipse dixit) - e che comunque sarebbe passato in fretta. Sono trascorsi mesi e poi anni, con una inutile laurea chiusa nel cassetto, ad inviare curri-culum vitae perfino ai call center e ad agenzie di volanti-naggio. Sursum corda, continuava a ripetere la nostra clas-

di FRANCESCA SICILIANO

PER UNA DESTRA CHE NON VINCE

CERCASI un nuovo «leader»

21 IL BORGHESE Gennaio 2014

se dirigente al governo, quella di pseudo-centrodestra: ani-mo ragazzi, continuate a lottare per i vostri ideali, quelli nessuno ve li potrà mai togliere, nessuno li tradirà mai!

Il profilo della politica italiana però continuava a muta-re. Dopo una scissione all’ultimo sangue, consumata a suon di indici puntati e probiviri, noi giovani «ex AN ora obtorto collo pidiellini» ci siamo trovati davanti a un drammatico bivio: seguire il partito che cominciavamo a sentire nostro o fare un salto nel buio con il neonato FLI seguendo il vecchio leader? Abbiamo scelto la prima stra-da, quasi tutti; abbiamo provato a credere ancora alle paro-le di chi continuava a prometterci un futuro roseo, grandio-so e alla portata di tutti: il sogno americano, ci diceva, tra-slato nel nostro Paese. E allora via, riproviamo a scendere in campo al suo fianco, a difenderlo nonostante sembri in-difendibile aggrappandoci ancora alla speranza di un futu-ro migliore.

Ma un «bel» giorno il Cavaliere venne disarcionato sotto i colpi impietosi dello spread. Imperterrito non si ar-rese e dall’opposizione continuò a ripetere il solito mantra: se lo avessimo rivotato, tutto sarebbe tornato al suo posto. Ma anche i suoi fedelissimi iniziarono ad abbandonarlo: poco prima delle elezioni di febbraio la piccola Giorgia con i suoi Fratelli d’Italia mise la fine all’esperienza nel Pdl, trascinandosi dietro il Colonnello La Russa e un fede-lissimo ex forzista come Crosetto. La scissione, dicono in molti, fu fatta a tavolino, con tanto di placet (e fondi per la campagna elettorale) elargiti dal Cavaliere, che intanto, forte della sua potenza e con le politiche alle porte, decise di riscendere in campo e lottare per la riconquista del Pa-lazzo. L’ha mancata di un soffio, lo scarso carisma di Ber-sani alle urne si è rivelato fatale. E dopo un tira e molla di tre mesi ci siamo beccati pure il governissimo col PD. Per il bene del Paese, ovvio. Per fare le riforme strutturali, per incrementare crescita e occupazione.

Intanto di lavoro, per tutti noi, neanche a parlarne. I for-tunati potevano vantare un contratto a tre mesi, i fortunatissi-mi a un anno; una cosa ci accomunava: tutti eravamo ancora a casa con mammà. Intanto il Pdl continuava a promettere e mentre gli «eletti» continuavano a proclamarsi indignati per la disoccupazione giovanile, questa aumentava arrivando a sforare la soglia psicologica del 40 per cento. E ancora oggi non sappiamo se il fondo è stato toccato: la situazione dege-nera giorno dopo giorno e con la sentenza definitiva di con-danna nei confronti del Cavaliere per molti altri è scattata l’ora «x». C’è chi ha ritenuto opportuno abbandonare l’alveo del centrodestra, sostenendo fosse più utile ricollocarsi a de-stra, magari con il vecchio simbolo di Alleanza Nazionale. E poi ci sono loro, gli uomini del Nuovo Centrodestra capita-nati dall’ex «Delfino» Alfano, che non hanno retto al colpo della rinata Forza Italia all’opposizione e hanno preferito continuare a sostenere terga e governo. Con le intese che, da larghe, son diventate strettissime.

A che punto siamo noi giovani? Sempre qui, fermi e immobili; abbiamo perduto la capacità di emozionarci, non riusciamo più a sentire il brivido di un nuovo progetto po-litico, non ce la sentiamo più di scendere in piazza per so-stenere un leader che ci ha tolto la speranza. Non ci aspet-tiamo, ormai, molto dalla politica, siamo delusi, disillusi e disinnamorati e siamo consapevoli che con gli ideali non si mangia. Ma siamo italiani, crediamo nella nostra nazione e cerchiamo un leader capace di ridarci entusiasmo e voglia di lottare per il nostro futuro e il nostro Paese. La destra non vince, Alfano non convince. E poi c’è Renzi. Che sia giunto il momento di dargli una possibilità?

ALLA fine il divorzio si è consumato: i ministri dell’ex Pdl, con Angelino Alfano in testa, hanno preferito abbandonare Silvio Berlusconi piuttosto che le poltrone di governo.

Hanno dato vita ad una nuova formazione politica, an-dando a fare da ruota di scorta a Enrico Letta e al Partito Democratico. Quello stesso Pd che ha cacciato il Cavaliere dal Senato, votando la sua decadenza da parlamentare, in seguito alla condanna definitiva per frode fiscale inflittagli dalla Cassazione. E qui è il caso di aprire una parentesi; il Pd ha davvero poco da gioire, ad iniziare dall’arcigno pre-sidente del gruppo senatoriale Luigi Zanda. Se agli avver-sari non è rimasto che accodarsi al carro della magistratu-ra, ciò è accaduto perché le armi della politica si sono rive-late del tutto inefficaci per battere Berlusconi. La sinistra, dal 1994, le ha tentate tutte pur di sconfiggere l’uomo di Arcore sul terreno elettorale, incassando sonore sconfitte; quando è andata bene, i cattocomunisti si sono dovuti ac-contentare di vittorie monche, come avvenuto alle ultime elezioni politiche. Alla fine non è rimasto che sperare nel «soccorso rosso» di Magistratura Democratica, che in qualche modo è arrivato.

Berlusconi non sembra affatto intenzionato a mollare. Nel traumatico consiglio nazionale del 16 novembre scorso, che ha sancito la separazione da Alfano e company, ha rilanciato «alla grande» Forza Italia con l’idea di recuperare lo spirito del 1994. Un’impresa ambiziosa ma, nello stesso tempo, sen-za grandi speranze di successo. È vero, nel ’94 FI fu una ge-niale intuizione politica, in poche settimane riuscì a mettere al tappeto una sinistra ancora fortemente comunista che già si sentiva padrona a Palazzo Chigi. Berlusconi mise in piedi un movimento nuovo, slegato dalle vecchie logiche della politi-ca, innovativo sotto ogni punto di vista. La gente era stanca dei vecchi partiti e premiò quella che sembrò a tutti una pro-posta rivoluzionaria e attraente.

Perché quello spirito, quell’entusiasmo oggi tanto ri-cercato, è poi andato perduto? Presto detto. Berlusconi ha ritenuto, sbagliando, che per conservare il potere il più a lungo possibile, fosse necessario affidarsi ai professionisti della politica. Dalla vecchia Dc sono approdati in FI per-sonaggi del calibro di Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu e Roberto Formigoni; dal Partito Socialista ecco arrivare Fa-brizio Cicchitto, Maurizio Sacconi, Gianni De Michelis; persino un comunista come Sandro Bondi si ritrovò im-provvisamente folgorato sulla via di Arcore. Per non parla-re di Giorgio La Malfa, ultimo segretario di un partito, il PRI, nel quale era rimasto praticamente soltanto lui. Perso-ne che, entrate in FI elemosinando seggi per la sopravvi-venza, hanno presto scalato i vertici del potere, estromet-tendo i forzisti della prima ora, quelle cosiddette facce nuove che avevano animato lo spirito del ’94.

Oggi Berlusconi è un «leone ferito», braccato dalle procure, alle quali va detto, offre pretesti ed elementi a io-

di AMERICO MASCARUCCI

IL RITORNO DI «FORZA ITALIA»

L’ULTIMA illusione

22 IL BORGHESE Gennaio 2014

sa per istruire indagini. L’ultima accusa destinata a cader-gli sulla testa è la corruzione in atti giudiziari per aver «comprato», a detta dei giudici del processo Rubygate, le testimonianze delle ragazze che partecipavano ai festini. Era opportuno che versasse loro 2.500 euro al mese? Tra-lasciando gli aspetti giudiziari, è realmente credibile que-sto Berlusconi post decadenza? Pur volendo essere genero-si, non si può rispondere in maniera affermativa. Il Cava-liere è il principale responsabile della rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale; è stato lui a chiedere a gran voce le larghe intese all’indomani del pareggio elettorale; ed è stato sempre lui a scegliere quei ministri oggi accusati di tradimento. È stato Berlusconi ad insediare Alfano al Vi-minale, dove il vice premier pare si materializzi soltanto al tramonto, essendo per il resto della giornata impegnato con le attività di partito, il Pdl ieri, Ndc oggi. Il Cav è or-mai asserragliato in una sorta di «fortino dell’ultimo giap-ponese» circondato da pochi, discutibili consiglieri, fra i quali spicca Denis Verdini. Sogna un movimento rinnovato e tante facce nuove; ma se il futuro è rappresentato dai «falchetti» arruolati dalla Santanché, giovanotti apparente-mente tanto presuntuosi e pure con la puzza sotto il naso, c’è poco da stare allegri.

A maggio si voterà il rinnovo del Parlamento Europeo e, con ogni probabilità, riavremo la «Balena Bianca» in versione Partito Popolare Europeo. Troveremo riuniti, sot-to lo stesso simbolo, i vari Alfano, Casini, Formigoni, Mauro, Cesa, forse anche Fioroni e Castagnetti in fuga dal Pd. Un assembramento marcatamente «clericale», pieno zeppo di ciellini di prima generazione, che andranno a cer-care la consueta sponsorizzazione nella Conferenza Epi-scopale (ma Bagnasco è prossimo ad essere sostituito).

Il Pd continuerà ad essere lacerato dalla guerra fra il democristiano di terza generazione Matteo Renzi, ed il co-munista, soltanto apparentemente ex, Gianni Cuperlo. La destra difficilmente riuscirà a riunire le varie anime della diaspora con il risultato che, né i Fratelli d’Italia della Meloni, né tantomeno la nuova AN messa in piedi da Fran-cesco Storace, riusciranno da soli a superare lo sbarramen-to del 4 per cento.

Non essendo presente al momento un leader di destra, realmente credibile e carismatico, sul modello di Marine Le Pen, verrebbe quasi spontaneo affidarsi a Beppe Grillo, l’unico che in tempi non sospetti ha proposto l’uscita dell’Italia dall’euro, mettendo in guardia i pasdaran dell’europeismo dal rischio di perdere sovranità in favore delle lobby finanziarie e bancarie che governano l’Europa. Grillo ha dimostrato in questi anni di saper parlare anche il linguaggio della destra, come ha dimostrato recentemente, scagliandosi contro l’abolizione del reato di clandestinità e sfidando il politicamente corretto della sinistra e dei catto-lici di Famiglia Cristiana. Ma Grillo ha clamorosamente sbagliato la scelta dei candidati alle ultime elezioni politi-che (tutta colpa della rete?), riempiendo il Parlamento di estremisti di sinistra e di attivisti dei centri sociali. Il Movi-mento5Stelle oggi è considerato più a sinistra di Sel e poco appetibile per gli elettori di destra.

In questo desolante scenario, Berlusconi si aggira di-sperato alla ricerca di un nuovo ’94 convinto di poter supe-rare Grillo sul terreno del grillismo. Intanto però alle ulti-me elezioni ci ha propinato le stesse facce di sempre, piaz-zando nei posti blindati quegli stessi dirigenti della nomen-clatura (ex) pidiellina che oggi lo hanno abbandonato per non morire berlusconiani. Neanche il migliore Tafazzi avrebbe saputo far di meglio, cioè di peggio.

FRA il 1861 e il 1865, in concomitanza con le guerre d’in-dipendenza italiane, si svolse la cosiddetta guerra di seces-sione americana, o meglio guerra fra gli Stati americani, entrambi indipendenti e sovrani, l’Unione del Nord e la Confederazione del Sud. Fu in sostanza una guerra civile e costò mezzo milione di morti, quasi quanto la Grande Guerra 1915-1918 costò poi all’Italia. Fu un conflitto terri-bile e spietato che lasciò odi profondi e strascichi anche di guerriglia. Settantun anni dopo, nel 1936 uscì un romanzo di Margaret Mitchell che ebbe un enorme successo interna-zionale, cui contribuì anche il film del 1939 diretto da Vic-tor Fleming con Vivien Leigh e Clark Gable, Gone, with the Wind (Via col vento), entrato nella storia del cinema. Romanzo e film revisionisti, come oggi si direbbe con or-rore e malcelato disprezzo: una apologia ed una elegia del-la Confederazione, del modi di vivere del Sud agricolo, una condanna dell’invasione e della rozzezza del Nord in-dustriale, i «buoni» erano i sudisti, i «cattivi» erano i nor-disti. Nessuno, a mia memoria, condannò, demonizzò, ostracizzò prima il libro e poi la pellicola, anzi, come det-to, ebbero grande successo entrambi e le figure di Rossella O’Hara e Rhett Butler sono entrate addirittura nell’imma-ginario collettivo nonostante fossero dei «vinti».

Del resto, sia all’epoca come ancora oggi negli Stati Uniti nessuna legge federale o locale, nessuna opinione diffusa o sentire comune reprime, penalizza, multa, impri-giona, condanna moralmente e civicamente chi espone la bandiera confederata, chi suona musica dixie, chi effettua rievocazioni storiche in costume delle battaglie della guer-ra civile, chi descrive con nostalgia o addirittura inneggia ancora adesso al modo di vivere e pensare del Sud sconfit-to. Un grande scrittore pressoché ignoto in Italia, Allen Ta-te, pubblicò nel 1926 una Ode ai caduti confederati (Mondadori, 1970) e il generale Lee, loro comandante in capo, ha le sue statue negli Stati ex confederati.

In Italia, nel 2013, a settanta anni dalla caduta del fasci-smo e a sessantotto dalla fine della guerra mondiale e civi-le le cose vanno assai diversamente che negli Stati Uniti. In Italia oggi certe manifestazioni corrispettive a quelle sopra descritte negli USA sono proibite e sanzionate, e ci sono leggi che vietano di esprimere determinate opinioni in merito che non siano quelle dello storicamente corretto. Quel che è peggio, è che si sta imponendo in maniera sem-pre più virulenta e intollerante una specie di Santa, anzi una Laica Inquisizione Antifascista gestita dall’ANPI che condanna tutto quello che, a suo dire, «infanga la resisten-za», anche se si tratta della sacrosanta verità. Come disse Giancarlo Pajetta nel 1961: «Io tra la verità e la rivoluzio-ne, scelgo la rivoluzione». E della verità chissenefrega.

Senza ricordare i libri prima di Pisanò e poi di Pansa che hanno raccontato fatti veri, sono sufficienti due o tre esempi eclatanti, ma che non hanno suscitato sdegnate rea-

di GIANFRANCO DE TURRIS

LAICA INQUISIZIONE ANTIFASCISTA

NON SI TOCCA la Resistenza

23 IL BORGHESE Gennaio 2014

non può vincere un premio democraticamente votato. Certi libri non possono essere degni di ottenere un riconosci-mento giacché non sono in linea col resistenzialmente cor-retto. E c�è stato un poveretto di Prato che ha detto di ave-re intenzione di querelare il premio, la giuria, i vincitori e quant�altro proprio per «lesa resistenza». Folclore puro, ma che deve far riflettere sul punto in cui si è giunti dopo sette decenni dalla fine del conflitto.

Il terzo episodio riguarda Rolando Rivi, il seminarista quattordicenne trucidato il 13 aprile 1945: venne rapito, torturato e ucciso nei boschi vicini a Castellarano nel fami-gerato Triangolo della Morte in Emilia Romagna. Papa Bergoglio lo ha proclamato beato nell�ottobre 2013 ricono-scendone il martirio per mano dei partigiani comunisti, una verità nota ma celata ai più. Una mostra a lui dedicata, al-lestita inizialmente al Meeting di Comunione e Liberazione a Rimini è stata poi presentata in varie città e paesi sino a che è giunta a metà novembre in quel di Rio Saliceto in provincia di Reggio Emilia dove è stata costretta a chiude-re perché la preside della scuola che la ospitava ha affer-mato che è «impossibile contestualizzare la mostra dal punto di vista storico e didattico» (pura aria fritta) sulla spinta di alcuni genitori che avevano protestato perché «infanga la resistenza» (ormai è un modo di dire consoli-dato). La verità dunque «infanga». Ma, ha scritto in punta di penna Antonio Caroti in un commentino sul Corriere del 24 novembre 2013, non si deve aver paura della Storia anche perché qui comunque si tratta di un episodio che nulla ha a che fare con la «resistenza» vera e propria («del tutto estranee risultano circostanze e motivazioni»). L�illu-stre giornalista dimentica che invece quel crimine efferato

zioni sulla cosiddetta grande stampa italiana e presso la comunità degli storici e degli intellettuali, non preoccupati editoriali, non dichiarazioni allarmate delle vestali della libertà di pensiero. Due o tre episodi diciamo «revisio-nisti» che hanno messo a nudo delle verità note ma tenute ben nascoste.

Il primo è la rivelazione nel saggio Partigia (Einaudi) che due giovani partigiani, della brigata di cui faceva parte il futuro scrittore Primo Levi, vennero uccisi a sangue freddo, dopo un processo interno, dai loro stessi compagni, e non invece dai fascisti come fu poi ufficialmente detto. Come tali, vengono ancora ricordati in lapidi varie e a loro sono intitolati luoghi pubblici. L�autore del libro è uno sto-rico progressista doc di scuola azionista torinese, Sergio Luzzatto, i cui furibondi attacchi ideologici impedirono al romanzo Le uova del drago di Pietrangelo Buttafuoco (Mondadori, 2005) di vincere il premio Campiello. Una fonte, quindi, ortodossa non eretica. Nonostante ciò il buon senso e la verità storica non hanno ancora indotto, di fronte a simili rivelazioni, di modificare le targhe in cui si ricordano i due come partigiani uccisi dai nazi-fascisti, co-me si suol dire. Martiri fasulli, dunque, ma nessuno, dai politici, agli intellettuali, ai giornalisti si indigna e pro-muove una campagna per il ripristino la verità storca.

Il secondo episodio ha un sapore grottesco, al limite del ridicolo se non ci fosse da piangerci sopra (ne ha già parlato diffusamente Mario Bernardi Guardi sul Borghese di dicembre 2013, ma è il caso di riassumerlo per la sua emblematicità). Il Premio Acqui Storia 2013 è stato vinto per la sezione romanzo da L�ultima notte dei fratelli Cervi (Marsilio) scritto da un giornalista del Corriere della Sera, Dario Fertilio, un liberalconservatore non certo un «fascista». Di fronte a questa decisione l�ANPI locale si è sollevata accusando l�opera di infan-gare come al solito la memoria di quei morti, fucilati dal fascisti, e la resistenza nel suo complesso. Nem-meno Fertilio avesse scritto un ro-manzo su L�ultima notte dei fratelli Govoni, sette proprio come i Cervi ma uccisi dai partigiani in quanto ri-tenuti fascisti, e che nessuno mai ri-corda� Fertilio, in un pacato e ironi-co articolo sul Corriere del 21 otto-bre 2013 fa capire quali possono es-sere stati i motivi di questa artificiosa indignazione della Associazione che riunisce si penserebbe i pochi super-stiti ultraottantenni delle brigate par-tigiane. I Cervi erano anarchici che davano fastidio al PCI, che peraltro li strumentalizzò a suo uso e consumo nel dopoguerra, ci fu un doppiogio-chista che li tradì e così via. Fertilio in un romanzo, non un saggio, ha cer-cato di dire verità scomodo e poco accettabili alla vulgata custodita dall�ANPI e per questo, pur essendo un antifascista serio e onesto, è stato infilzato dai luoghi comuni dei Guar-diani della Memoria Ortodossa, che hanno messo su quella Inquisizione laica di cui si diceva e che vuole sin-dacare preventivamente su chi può o

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rientra esattamente in quel che avevano progettato di fare i partigiani comunisti nel Triangolo della Morte prima e so-prattutto dopo il 25 aprile: una vera e propria «pulizia etni-ca» di preti e borghesi che nulla avevano a che fare con il fascismo. Era un progetto preciso del PCI collegato ap-punto a come loro vedevano la «lotta di liberazione».

In questa disgraziata nazione dire o svelare la verità significa «infangare», dunque. La Vera Verità non rende affatto liberi, bensì prigionieri di una Verità di Stato o di Fazione.

Il fatto che anche la verità non si possa raccontare è un sintomo allarmante di come la situazione si stia deterioran-do in maniera quasi inarrestabile. Trascorsi settant’anni invece di ammettere colpe ed eccessi, crimini e strumenta-lizzazioni, invece di cercare una pacificazione nazionale, invece di attenuare odi e risentimenti ammettendo gli erro-ri, ci si muove nella direzione opposta per la paura che i lati oscuri della «resistenza» possano intaccare una vulgata tutta rose e fiori in cui da una parte c’erano soltanto i Buo-ni e la Democrazia e dall’altra soltanto i Cattivi e la Ditta-tura. Più il tempo passa e più sembra che i reduci dell’AN-PI vogliano instaurare una censura preventiva su tutto quel che riguarda la «lotta di liberazione»: su libri, conferenze, articoli, addirittura premi letterari. E anche film: tutti san-no le traversie del regista Antonello Belluco per realizzare Il segreto, una pellicola che racconta la strage partigiana di centinaia di prigionieri militari e civili avvenuta nel mag-gio 1945 a Codevigo. Chi tocca la «resistenza» muore (metaforicamente, s’intende, almeno oggi).

Tutto questo è inaccettabile e antidemocratico, ma sin-ché saranno in pochi quelli che lo denunceranno e ci si na-sconderà dietro l’usbergo dell’antifascismo militante, le cose andranno paradossalmente sempre peggio man mano che ci si allontanerà da quelle date 1943-1945. Con tanti saluti all’esempio americano. Aspettiamo quindi una Via col vento ambientata in casa nostra e in quegli anni per ve-dere l’effetto che farà… Sempre che i Guardiani della Me-moria (artefatta) lo consentano.

C’ERA una volta un movimento inglese chiamato childrens liberationists, che propugnava l’emancipazione dei bambini dall’oppressione degli adulti. Non è una coincidenza se que-sta mentalità ha infarcito la campagna per i diritti dell’infan-zia dell’88-’89, con un riconoscimento seppure parziale di questa istanza. Infatti, la Convenzione internazionale sui di-ritti dell’infanzia stabilisce, negli articoli 12, 13, 14 e 15, la libertà di opinione, di espressione, di pensiero, coscienza e religione, di associazione. Dato che l’infanzia è quel periodo che va dagli 0 ai 10 anni, comunque veniva mantenuto il li-mite dell’età giuridica ed il principio di protezione.

Questo limite, però, è soltanto una foglia di fico per co-prire la vergogna incistata in questa mentalità. Infatti, per cortocircuitare questo problema, e portare al massimo la «democratizzazione della famiglia» (U. Beck, I rischi della libertà, il Mulino), dal 1973 la Svezia ha introdotto la figura dell’ombudsman, portavoce dei diritti del bambino, fino a determinare che «il diritto del minore all’autodeterminazio-ne viene, se necessario, imposto anche contro i genitori».

Arriviamo ai giorni nostri. Il Senato del Belgio, il 26 giu-gno dell’anno in corso, ha proposto la modifica della legge sull’eutanasia del 28 maggio 2002, per estenderla anche ai minori. In questo caso, il minore che decidesse di morire po-trebbe liberamente farlo, previa valutazione sulla capacità di intendere e di volere e sulla maturità psichica da parte di un pedagogo e di un neuropsichiatra infantile.

È evidente che c’è un filo rosso che unisce le varie pro-poste, assieme ad altre sospese nel limbo della burocrazia parlamentare. Ad esempio, c’è un ampio dibattito in Germa-nia sul problema se l’incesto sia un divieto da superare; così come in Olanda, dal 2006, esiste il primo movimento politi-co dei pedofili chiamato «Amore, Diversità, Libertà», i cui obiettivi sono: l’abbassamento della libertà sessuale a 12 an-ni, la pornografia televisiva su tutte le 24 ore di trasmissione, la libertà di sceneggiatura e di prostituzione a 16 anni.

Se a questo elenco, spero non troppo noioso, ci aggiun-giamo: il riconoscimento del terzo sesso da parte del Bunde-stag e il progetto di educazione sessuale nelle scuole euro-pee concertato tra l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’agenzia governativa tedesca per l’Educazione sanitaria, (Standard di Educazione Sessuale in Europa), che prevede i seguenti passi informativi: da 0 a 4 anni sulla masturbazio-ne; tra i 4 e i 6 sull’amore omosessuale; tra i 6 e i 9 su me-struazioni, eiaculazione e metodi contraccettivi; tra i 9 e i 12 sui rischi delle esperienze sessuali non protette; tra i 12 e i 15 sull’impatto della maternità in giovane età e cosa fare in caso di gravidanze indesiderate, abbiamo ben chiaro il pae-saggio dentro al quale ci stiamo addentrando.

Ora, non in senso simbolico, ma crudelmente reale, è appena uscito il nuovo Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali (DSM-5) dell’Associazione America-na di Psichiatria, ma con «valore» scientifico universale, nel quale si applica un fatale distinguo tra «pedofilia» e «disordine pedofiliaco»: la pedofilia passerebbe, cioè, da

di ADRIANO SEGATORI

SE DIO è morto

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26 IL BORGHESE Gennaio 2014

«disordine mentale» a diverso e banale «orientamento ses-suale». in sostanza

In sostanza ci troviamo di fronte alla lenta, metodica e scientifica disintegrazione di ogni princìpio e di ogni legame comunitario: della famiglia in primo luogo. Dall’istituziona-lizzazione del divorzio, a quella dell’aborto, alla procreazio-ne assistita, all’inseminazione artificiale, alla negazione del-la genitorialità, alla disidentificazione sessuale, alle proposte di legalizzazione delle droghe leggere, di derubricazione dell’incesto fino alle deliranti elucubrazioni sulla pedofilia e alla morte volontaria minorile.

Quello che sta avvenendo non è la realizzazione di chis-sà quale complotto, ma una vera e propria strategia dissolu-toria di ogni tabù.

La nostra società, impostata su questa devastante retorica dei diritti, è diventata una società di morte. Morte della re-sponsabilità nei confronti della comunità di appartenenza. Morte nei confronti di ogni dovere coniugale e genitoriale. Morte di ogni autorità morale e spirituale. Morte di ogni senso di trascendenza. Morte di ogni significato di destino.

È la morte anche di ogni pensiero di dissenso, perché questa impostazione comunicativa non vuol dare informa-zioni, e quindi offrire un terreno di confronto e di dibattito, ma è performativa, nel senso che attraverso una metodica ideo-affettiva determina un blocco censorio insuperabile. Detto in altre parole, chiunque dissenta da quanto mediatica-mente imposto da agguerrite minoranze rivoluzionarie, o viene ignorato, oppure viene demagogicamente attaccato come reazionario e ostile. Se uno dice «non mi piacciono i gay e non li voglio come insegnanti, né i congolesi come maggiordomi, vorrei la ghigliottina per i pedofili, metterei fuori legge i pornografi», non viene ritenuto portatore di un pensiero-altro, magari bizzarro, poco trend, o semplicemente rompiscatole, ma accusato di omofobia, quindi nemico delle minoranze, istigatore all’odio, fomentatore di discriminazio-ne, quindi bollato come criminale e perseguito per legge.

Il pensiero contrario alla minoranza è già reato, la parola è un’arma da disinnescare.

Questa polizia immorale ha portato all’accettazione di ogni stramberia, fino alle gravi conseguenze in atto. Come denuncia Charles Melman, psicoanalista lacaniano: «Ciascuno può pubblicamente soddisfare le sue passioni, chiedere che esse vengano socialmente riconosciute, accet-tate, addirittura legalizzate, ivi compreso il cambiamento di sesso. […] Dal momento in cui qualcuno esprime una qual-siasi rivendicazione, ha il legittimo diritto - e la legislazione, se è in difetto, viene rapidamente modificata - di veder sod-disfatta la sua rivendicazione» (L’uomo senza gravità, Bru-no Mondadori).

Così si vuole superare anche l’ultimo tabù come la mor-te. Questa intenzione, però, nasconde una trappola. In fondo è la morte che dà senso alla vita. La sua importanza è diret-tamente proporzionale alla vita che l’ha preceduta. Se ren-diamo insignificante la morte, automaticamente togliamo di significanza la vita, ed entrambi si supportano nel loro valo-re attraverso la reciproca differenza.

Ecco perché, dal punto di vista simbolico, vado ripeten-do che questa è una società, una civiltà di morte. Che siamo di fronte alle democratizzazione di tutte le voglie inventabili e, quindi, all’apoteosi perversa dell’uguaglianza nel suo ap-piattimento di ogni differenza (intellettiva, morale, sessuale, economica e identitaria). Siamo oltre alla realizzazione del pensiero unico e siamo entrati alla rivoluzione antropologica dell’uomo-unico: il terzo uomo. Un terzo uomo senza sesso, senza inibizioni, senza prescrizioni, senza valori, in un rifiu-

to di «ogni asimmetria a favore di una sorta di egualitari-smo che è evidentemente l’immagine stessa della morte, va-le a dire dell’entropia finalmente realizzata, dell’immobili-tà» (Melman).

Che l’anzianità sia stata ridotta a terza età, se prestante, o a vecchiume da rottamare se bisognosa di cure, è un fatto ormai assodato e quasi dato per scontato. Il problema grave è l’attacco all’infanzia e alla gioventù, perché simbolica-mente è l’attacco alla speranza, al futuro, al destino di una Nazione. La mercificazione del corpo e la cosificazione dell’uomo ha colpito addirittura la fase embrionale, esten-dendo il peggiore consumismo materialista e il più becero edonismo affarista con la commercializzazione anche dei corpi adolescenti. Si credeva un fenomeno circoscritto alla vergogna dei tours sessuali nei Paesi sottosviluppati, mentre il sottosviluppo morale e spirituale già tramava nell’illumi-nato occidente.

«Dio è morto! E noi lo abbiamo ucciso!», annuncia il folle nella Gaia scienza, mentre lo stesso Nietzsche avverte: «L’uomo è l’animale diventato pazzo: egli vive solo nel do-lore, più di quanto fino a oggi qualcuno abbia potuto imma-ginare». E nessuno può ancora immaginare verso quale altro dolore porterà questa nostra follia.

A colpi di…forcone È iniziata la grande protesta degli Italiani tutti,

senza sigle e distinzioni. È una protesta popolare e senza struttura. Nasce dalla pancia della gente e senza parlamentari a sostegno. C’è soltanto il tricolore co-me simbolo a dimostrazione che questa nostra Italia svenduta e maltrattata, vessata e depauperata, tassata e tradita è amata ancora da tanti Italiani.

I ministri, i deputati, i senatori e tutti gli apparati dello Stato fanno bene a preoccuparsi perché questi criminali, autori dello sfascio, di destra, di centro e di sinistra devono andare a casa ed attendere che la giu-stizia faccia il suo corso.

La misura è colma, gli Italiani «abbozzano», ac-cettano tutto per il quieto vivere e per il «tiriamo a campare», ma quando «sbottano» sono imprevedibili: hanno provato con Grillo, ma questo sa soltanto star-nazzare, hanno provato con il non voto, ma hanno ca-pito che non serve, ora provano con la piazza, in mo-do blando ed educato.

La risposta è sempre la stessa: si cambiano i nomi, ma non i risultati. Oggi tocca a Renzi ed Alfano che sembrano giovani e sicuramente l’età è giovanile, sembrano nuovi e sicuramente il linguaggio è innova-tivo, ma continuano a non dire nulla, a non rispondere alle domande che la piazza pone. Continuano a dire in modo nuovo cose vecchie ed inutili, ossequiosi ai Diktat della banca privata, che si fa chiamare euro-pea, e di quei burocrati, sconosciuti ai più e imposti dai mercanti e dalle banche; sono incapaci di una qualsiasi risposta che ci affranchi dai gravi problemi che ci attanagliano.

Costruire insieme è un dovere, ma senza i cialtro-ni che ci hanno condotto in questo autentico baratro.

ADRIANO TILGHER

27 IL BORGHESE Gennaio 2014

LE RECENTI vicissitudini della terra di Sardegna hanno fat-to emergere in tutta la loro criticità, lo scempio del territo-rio perpetrato da una classe affaristica di potere che, ap-propriandosi dello Stato, ha assoggettato le prerogative istituzionali ai propri interessi personali. Complice di que-sta spartizione è anche il popolo che, per qualche inganne-vole ed effimera briciola di condivisione, non riesce più a scrollarsi di dosso quest’omertosa cappa di potere.

A prima vista potrebbe non essere immediato il colle-gamento tra potere e clima. Cosa c’entrano i fatti di Sarde-gna con gli amministratori nostrani? Non sarà certamente loro la colpa del nubifragio che si è accanito sull’isola che alcuni studiosi identificano come l’antica mitica sede di Atlantide.

Un minimo di correlazione c’è se gli scienziati sono concordi nell’affermare che il cambiamento climatico in gran parte dipende dal surriscaldamento della Terra il qua-le sta modificando, quasi ormai irrimediabilmente, il siste-ma meteorologico.

Possiamo ascrivere agli amministratori del secolo scor-so le colpe di questo cambiamento globale ma, nel frattem-po, dobbiamo anche assolverli perché non potevano imma-ginare che lo sviluppo economico non sostenibile avrebbe portato tali imponenti cambiamenti. Non possiamo, dopo tanti campanelli d’allarme che si sono susseguiti negli an-ni, comportarci analogamente nei confronti delle classi di-rigenti temporalmente più vicine perché, loro, sanno, ma non affrontano la questione in modo più energico.

Possiamo, questo sì, condannare il loro comportamento che, per asservita attrazione alla permanenza nella carriera politica, ha permesso la costruzione di case e barriere ar-chitettoniche, laddove l’ambiente esigeva interventi strut-turali in materia di sicurezza. Assoggettamento e condoni possono essere paragonati al Gatto e alla Volpe di Collodi per significare la volontaria intenzione di trarre vantaggi nel dimenticare gli obblighi di uno Stato, verso i propri cittadini.

Se da una parte c’è l’arrivismo personale, per fortuna dall’altra, l’uomo è capace di sentimenti e azioni che ren-dono possibile una sorta di condivisione e riappacificazio-ne con i propri simili. Tale riscatto passa anche attraverso le piccole cose che ogni persona fa a favore degli altri.

L’esempio, questa volta, c’è fornito da ragazzi accomu-nati da una passione poco compresa dalla maggioranza delle persone ma capace di generare un grande spirito di corpo.

Mi riferisco al softair, quel gioco di ruolo che simula azioni di guerra in ambienti naturali o rurali, impiegando giocattoli che assomigliano ad armi vere e che sparano in-nocui pallini di plastica, ormai quasi tutti biodegradabili. Vestiti con abbigliamento mimetico, per poche ore giocano a nascondersi e a rincorrersi nel tentativo di conquistare un

obiettivo e di sopraffare o «uccidere» virtualmente un av-versario, stesso compagno di gioco ma momentaneamente appartenente a una fazione avversa.

Pur sembrando un gioco da «maschietti», ricollegando-ci al tradizionale «indiani e cow-boys» della nostra infan-zia, sta prendendo piede anche tra il genere femminile che ha riscontrato in questa pratica una formidabile occasione per ridurre lo stress accumulato durante una settimana di lavoro o di studio e la possibilità di sentirsi «vivi» attraver-so le scariche di adrenalina che riesce a far provare.

Gioco di squadra e capacità d’immediata decisione in-dividuale sono gli elementi che l’hanno fatto scegliere da alcune grandi aziende per formare i propri manager e pre-pararli ad affrontare con maggiore produttività la competi-zione imprenditoriale. È utilizzato anche per il recupero dalla tossicodipendenza e, mi dicono, con buoni risultati.

Dalla maggioranza della popolazione è percepito come una pratica violenta, che inneggia alla guerra e che accre-sce la brutalità dell’individuo. Dalla parte, di chi lo pratica, si dice che è … soltanto un gioco.

* * *

Sta di fatto che tra i primi ad attivarsi, già nelle stesse

ore del disastro che sommergeva la Sardegna sono stati proprio loro, i ragazzi del softair. È bastato poco, alcune telefonate tra gli amici per capire chi si trovava in difficol-tà, un minimo di coordinamento tra quanti si rendevano disponibili e ragazzi della Sardegna sono partiti immedia-tamente per aiutare i loro compagni che si trovavano al centro del disastro. Arzachena è stato uno dei comuni più colpiti e proprio là si sono diretti per spalare fango e, so-prattutto, portare solidarietà a persone con le lacrime agli occhi. Questo accadeva la stessa notte e il giorno successi-vo all’inondazione.

Dall’azione si passa velocemente alla comunicazione, bastano poche righe e qualche foto nei social networks, ed ecco altri ragazzi del continente (così è chiamata la peniso-la dai sardi) che si mobilitano per soccorrere persone sco-nosciute ma accomunate dalla medesima passione. Si rac-coglie di tutto, dal latte di lunga conservazione ai pannoli-ni per bambini, dai sacchetti e stoviglie di plastica alle bot-tiglie d’acqua da far arrivare, anzi portare direttamente nel-le zone colpite.

Si organizzano in base ai tempi e alle disponibilità dei mezzi e partono. Non vogliono soldi, ma sola merce, per-ché i primi rimangono troppo attaccati alle dita e le espe-rienze solidaristiche del passato hanno dimostrato quanto poco, rispetto al donato, arrivasse effettivamente a chi ne aveva bisogno.

Ecco come lo sport può divenire solidarietà, senza grandi parole ma soltanto grazie al raccordo tra piccole ma diffuse organizzazioni che rimangono costantemente in contatto tra di loro per fare «gruppo» poiché vivono in una società discriminatoria e piena di pregiudizi unidirezionali, nella quale tutto ciò che non è ortodosso diventa automati-camente negazionismo e quindi da condannare.

I fatti che ho raccontato sono veri e ancora attuali per-ché tali giovani sono tuttora impegnati negli aiuti, anche se con minore drammaticità dei primi giorni. Pertanto dob-biamo essere fieri, di quanto hanno fatto questi ragazzi e orgogliosi che appartengono a una delle migliori storie sportive d’Italia.

* Centro Nazionale Sportivo Fianna

SPORT e solidarietà

di FIORENZO PESCE *

CONTROTENDENZA

28 IL BORGHESE Gennaio 2014

di non aver cominciato prima; il taekwondo è uno sport uni-co, poiché sviluppa capacità che nessun altro sport possiede, quali la rapidità di reazione nervosa, velocità di esecuzione dei gesti e consapevolezza del proprio corpo, scioltezza ed elasticità muscolare.»

Perché lei consiglierebbe questa disciplina a un ragaz-

zo oggi? «Consiglierei la pratica del taekwondo perché è un�arte

marziale che insegna a difendersi, arricchisce l�autostima e forma il carattere. Inoltre ci fa vivere in un ambiente sano co-me la palestra.»

A livello agonistico lei ha conquistato la medaglia d�ar-

gento ai mondiali «master» 2013 a Torino. I suoi ricordi più belli.

«Pur essendo un Campionato per atleti �veterani� Over 35 si sono presentati da tutto il mondo molti atleti validi con un bagaglio tecnico e fisico notevole. Nel mio percorso ricor-do il combattimento nei quarti di finale con un atleta inglese davvero forte fisicamente. Sono dovuto ricorrere a tutto il mio bagaglio tecnico e tattico per vincere. Memorabile la semifi-nale con un atleta spagnolo altissimo, risolta nell�ultimo round con due calci al viso; peccato per la finale persa anche per errori arbitrali ma consapevole di aver dato tutto e so-prattutto di non essere inferiore al campione.»

Lei ha circa ottanta atleti. È più difficile insegnare o

gareggiare? «Più difficile insegnare, perché bisogna sempre aggior-

narsi, informarsi, studiare e adattarsi ai praticanti, alla loro

IN OCCASIONE dei campionati italiani 2013 di Taekwondo, disputatisi a Bari a fine Novembre, abbiamo incontrato il Maestro barese Luigi Clemente, vicecampione master catego-ria-80 kg, che ci ha gentilmente concesso questa intervista.

Maestro Clemente, cosa è il «Taekwondo»? «Il taekwondo è l�arte marziale, di origine coreana, più

praticata al mondo e una delle più antiche, poiché le sue ori-gini risalgono a circa duemila anni fa. Il taekwondo è famoso per la sua dinamicità, spettacolarità e unicità. Gli antichi co-reani svilupparono un modo di combattere basato su calci in volo, per far cadere da cavallo gli invasori mongoli e ci riu-scirono, poiché non furono mai oppressi. Oggigiorno il taek-wondo è l�arte di dare pugni e calci in volo. Per me il Taek-wondo è anche un modo di pensare e di vivere, passare la maggior parte del tem-po in palestra fra i miei ragazzi, essere un punto di riferimento per i giovani�.

Qual è la differenza tra il

«taekwondo» agonistico e «l�arte mar-ziale»?

«Il taekwondo agonistico è quello più famoso e probabilmente più bello da ve-dere, presente alle Olimpiadi già nel 1988 a Seul come sport dimostrativo. Di-venta Sport Ufficiale Olimpico nel 2000 a Sydney. Basato su un regolamento sporti-vo che preserva sia l�incolumità dell�at-leta, attraverso protezioni varie, sia lo spettacolo, attraverso corpetti e para pie-di elettronici, che segnano i calci portati a segno. Lo spettacolo è sempre garantito poiché i calci in volo sono premiati con un punteggio maggiore. L�arte marziale, invece, è presente soprattutto nelle poom-se o forme, combattimenti con avversari immaginari, dove si trovano tecniche di pugno, parata e calci tradizionali. La tra-dizione è sempre presente nello spirito di ogni praticante cui sono insegnati la leal-tà, il rispetto verso l�avversario e la disci-plina.»

Lei quando ha cominciato a prati-

carlo? «Ho cominciato a praticarlo all�età

di sedici anni e ogni volta mi rammarico

PUBBLICITÀ

a cura di ALDO LIGABO

L�ARTE DEL «TAEKWONDO»

UN MODO di vivere

A colloquio con il Maestro Luigi Clemente

Dal 1 ottobre, ogni lunedì

Canale 897 di SKY

Ore 21-23

Seguici con

e

Puoi telefonare in diretta e fare le domande agli ospiti presenti

28pag 1_014 sky piccola:Layout 1 16/12/13 08:59 Pagina 28

29 IL BORGHESE Gennaio 2014

età e alla loro condizione fisica e tecnica. Gareggiare è forse più bello per chi ha nel confronto una componente importan-te della vita.»

Trai i suoi allievi ci sono dei talenti? «Sì e parlano i risultati. Negli ultimi anni due vice cam-

pioni Italiani junior e un senior, vari podi nazionali. Bisogna comunque curare di più il raggiungimento di una maggiore autostima affinché l’atleta sia capace di dare il massimo nel momento giusto.»

Presto lascerà l’agonismo, ha qualche rimpianto? «È da molti anni che penso di lasciare l’agonismo ma non

so se ci riuscirò mai, poiché vivo di stimoli e obiettivi; a tren-taquattro anni ho lasciato l’agonismo senior ma a trentasei ho partecipato agli Europei Master, dove ho conquistato un bronzo e in ultimo l’Argento Mondiale che ha chiuso un ciclo. Non so se parteciperò agli Europei di Nizza 2015. Rimpianti pochi. Peccato non aver avuto un grande, che mi avrebbe spinto verso traguardi ancora più importanti, contento perché da solo sono arrivato a buoni livelli tecnici e, soprattutto, alla conoscenza e consapevolezza interiore che mi fa esprimere al 100 per cento in una competizione.»

L’Italia con Carlo Molfetta a Londra ha vinto final-

mente la sua prima medaglia d’oro alle Olimpiadi nel «Taekwondo». Questo significa che il nostro Paese può colmare il divario con le altre nazioni quali Spagna, «Usa», Corea?

«Ormai i nostri atleti più importanti competono tranquil-lamente con le più forti nazioni del Mondo, vedi Carlo Mol-fetta Oro Olimpico, Mauro Sarmiento Argento e Bronzo Olimpico, Basile campione europeo. La preoccupazione è che questi atleti tra qualche anno dovranno necessariamente ab-dicare per l’età. I giovani italiani fanno fatica a emergere, anche se all’ultimo Europeo la squadra nazionale Juniores ha conquistato un primo posto che fa ben sperare. A mio parere bisogna incrementare l’attività giovanile e aiutare le associa-zioni sportive.»

Secondo lei chi sono gli atleti più forti nel panorama

italiano? «Ce ne sono tanti oltre a Molfetta e Sarmiento. Abbiamo

Cristian Clementi nell’80 KG, il nostro Vito Luiso nei massi-mi, Di Venanzio nella 74 KG. In campo femminile le pugliesi Rizzelli e Smiraglia e speriamo anche nei nostri Floro De Candia e D’Aloya”.

I suoi progetti per il futuro. «In futuro vorrei avere a disposizione una location valida

per il Taekwondo che ci farebbe crescere ancor più. Purtrop-po oggi i politici locali investono negli sport tradizionali, ma-gari che non hanno più numeri interessanti ma che conserva-no una tradizione italiana come calcio e basket.»

NELLE ultime legislature i governi nazionali ed il Parlamento italiano hanno dotato, senza avere un disegno organico e ade-guatamente riformista, il sistema-Paese di una normativa sul pubblico impiego, poco coerente e disarticolata , ma soprat-tutto inefficace, che dando per acquisito il D.P.R. n. 748 del 1972 finisce, improvvidamente, per arrivare alla mini-riforma Brunetta, attraverso le rinomate «leggi Bassanini», così come integrate e regolamentate da numerosi decreti attuativi Casse-se e Frattini; il tutto essenzialmente imperniato sull’indiscuti-bile, condiviso principio - almeno teoricamente - di una netta separazione tra direzione politica e gestione amministrativa.

Il netto giudizio critico, tendente alla definizione di falli-mentare, comporta ragioni di carattere economico-finanziario, conseguenti ai costi complessivi della P.A. tutt’altro che tra-scurabili, specialmente in una fase di spending review e di re-cessione economica, come quella attuale. Per non dire della pesante perdita di credibilità in campo sociale e ancor più a livello internazionale, che costituisce un forte handicap per gli investitori stranieri, oltre che per l’imprenditoria nostrana, con notevoli conseguenze sulla bilancia dei pagamenti.

I risultati negativi di tale quadro legislativo scaturiscono sì dalla mancata separazione tra potere politico, cosiddetto di direzione, e gestione amministrativa della cosa pubblica, ma derivano in realtà dal combinato disposto di una serie di fatto-ri legislativi, quali: la privatizzazione del rapporto di lavoro dirigenziale, la discrezionalità nell’affidamento degli incarichi di prima fascia e l’istituzione del Ruolo unico dei dirigenti pubblici, rimasta sulla carta come dichiarazione d’intenti.

Gli effetti negativi della ormai consolidata crisi dell’orga-nizzazione amministrativa, possono così, sinteticamente, evi-denziarsi: 1) perdita di credibilità politica, anche nelle sedi isti-tuzionali europee, di competitività del sistema economico na-zionale, di stima ovvero di autorevolezza da parte dell’opinio-ne pubblica e di efficienza nei riguardi delle categorie produtti-ve; 2) accentramento decisionale negli organi di vertice ed as-servimento della burocrazia, centrale, periferica e locale, al potere politico, che provoca frequentemente contrasti, disar-monie, conflitti e vuoti di competenza, nonché eccessi di sin-dacalizzazione; 3) venir meno delle regole fondamentali di uno Stato di diritto, quali la responsabilità dirigenziale ai vari livelli, distinta da quella politica e governativa, e scarsa valo-rizzazione del merito, acquisito nel tempo con professionalità ed esperienza sul campo; 4) invadenza del potere politico in settori di attività storicamente scevri da esso, che imbarbarisce, gradualmente e costantemente, tutto il sistema istituzionale, facendo così smarrire buone prassi amministrative, come quel-la del dirigente che dava solitamente il «buon esempio al per-sonale», ovvero del collega più anziano - in genere, una volta, più elevato nella qualifica - che è (rectius, era) prodigo di con-sigli, sollecitazioni, pareri nei confronti di quello meno esperto cioè più giovane di servizio, ecc.; 5) aumento decisamente considerevole della spesa pubblica, in misura e modi che ne-

di MICHELE MARINO *

POLITICA/AMMINISTRAZIONE

UN NODO da sciogliere

30 IL BORGHESE Gennaio 2014

PER la serie che al peggio non c’è mai fine, ossia che Uni-versitas delenda est, è sufficiente considerare il «Decreto ministeriale del 27 settembre 2013, a firma del ministro Carrozza, sulla programmazione del sistema universitario 2013/2015. L’intento duplice, come si spiega nell’art. 2, è «promuovere la qualità del sistema universitario e dimen-sionamento sostenibile del medesimo».

Ora, di là dall’ennesima conferma del sistema del sor-teggio (casualità) dei commissari nelle commissioni di se-lezione e della presenza di un docente straniero (provincialismo), la volontà di smontare il sistema univer-sitario è manifestata al comma 3 dell’art. 2 dove si afferma che il dimensionamento sostenibile del sistema universita-rio «anche ai fini dell’attribuzione delle relative risorse» si ha con una o più delle seguenti azioni: a) fusioni tra due o più Università; b) federazione regionale di Università con un unico Consiglio di amministrazione e l’unificazio-ne dei servizi amministrativi, informatici, bibliotecari e tecnici; c) ulteriore eliminazione dei corsi di laurea in fun-zione degli sbocchi occupazionali, riduzione del numero dei corsi di laurea presso sedi universitarie decentrate, tra-sformazione corsi di laurea con attivazione di corsi di istruzione tecnica superiore affini. Inoltre (art. 3) vi è di-vieto di istituire nuove Università statali e telematiche. Si possono però istituire, con precise condizioni, Università non statali legalmente riconosciute con almeno un corso di laurea integralmente in lingua inglese.

* * *

Fermando qui l’illustrazione, è fin troppo chiaro che,

mentre in altre sedi si insiste sulla opportunità dell’aumen-to del numero dei laureati (considerato in base alle medie europee), si cerca di colpire in maniera indiscriminata il troppo e il vano, peraltro voluto da dissennate politiche, con tagli altrettanto crudi, in cui si accentua l’aspetto pro-fessionale dei corsi di laurea a discapito di quello mera-mente scientifico e si insiste, negli anni della più dura re-cessione, sulla necessità di uno sbocco lavorativo, che gli amministratori nazionali non sono in grado però di pro-spettare. In tal modo viene a pagare la politica di una sco-larizzazione di massa praticata per interi decenni senza ba-dare agli inevitabili esiti. Adesso si arrangi chi può!

A tutto questo il Decreto aggiunge (art. 4) che le risor-se finanziarie saranno assegnate alle Università in base dei rispettivi programmi. Così, nella linea che va da Gelmini a Profumo a Carrozza, il discorso di una meritocrazia uni-versitaria si traduce essenzialmente in un drastico ridimen-sionamento delle risorse, che colpisce soprattutto le Uni-versità meridionali e in particolar modo, all’interno di tut-te, i Corsi di Laurea umanistici. Si tratta, pertanto, di una falsa meritocrazia poiché la valutazione è essenzialmente

cessiterebbe analizzare e calcolare con la dovuta attenzione, propria di approfondimenti tecnico-contabili, a seguito della crescita, netta e progressiva, delle dotazioni organiche dirigen-ziali di I e di II fascia.

Nella cosiddetta Prima Repubblica, ricordiamo che anche nei Governi del Penta-partito o di solidarietà nazionale il pote-re esecutivo non brillava nel riconoscere l’autonomia gestiona-le della funzione dirigenziale. Va detto, altresì, che tale prassi - non propriamente legittima - si è accentuata soprattutto nell’ul-timo ventennio (Governi Berlusconi e D’Alema/Prodi).

La mancata attuazione del principio legislativo della sepa-razione ha poi appesantito i suoi effetti deleteri a causa della privatizzazione del rapporto di lavoro dirigenziale, con ri-guardo agli incarichi dirigenziali di prima e seconda fascia, sottraendo il rapporto organico del dirigente pubblico alla ri-serva di legge, afferente lo status, le prerogative, la sfera delle responsabilità e quella relativa al trattamento economico, co-me correttamente affermato e sostenuto, ripetutamente, dal Consiglio di Stato illo tempore.

Appare, oggi, fin troppo ovvio lamentarsi, da parte di po-litologi e giuristi, anche esponenti di organizzazioni sindacali e di Confindustria, della necessità di snellire il processo deci-sionale nel corso del quale emerge, troppo spesso, una scarsa attitudine all’assunzione della responsabilità (cosa che si è notata nella recente alluvione della Gallura e di Olbia, a pro-posito dalla funzione di coordinamento e impulso della Prote-zione civile).

Il malaugurato mix tra la mancata separazione politica/amministrazione e la privatizzazione, almeno sulla carta, del rapporto di lavoro dirigenziale ha prodotto, inevitabilmente, confusione dei ruoli tra la politica e la burocrazia, privata in-spiegabilmente di qualsivoglia potere gerarchico-funzionale dopo l’introduzione nel sistema della funzione di coordina-mento, oltre alla possibilità di incentivare il fenomeno corrut-tivo che è divenuto una vera, drammatica piaga.

Il ruolo unico dei dirigenti non ha mai avuto, presso il de-putato dipartimento della Funzione pubblica, una propria con-sistenza formale, né sostanziale, a causa di una serie di moti-vi, quali: a) il rifiuto (o scarsa accettazione) da parte delle Or-ganizzazioni Sindacali rappresentative della categoria dirigen-ziale e perciò stesso dalla dirigenza ministeriale; b) capacità applicativa da parte degli organi preposti non eccellente, c) mancanza di volontà politica nella fase attuativa.

Tutto ciò premesso, non possiamo non considerare inoltre il cospicuo incremento degli organici dirigenziali, avvenuto talvolta senza la necessaria, preventiva copertura finanziaria e spesso per effetto delle numerose nomine di stretta osservan-za politica, di persone estranee alla Pubblica Amministrazio-ne, i cui curricula meritavano ben maggiore attenzione da parte degli organi di controllo (Corte dei Conti in primo luo-go), relativamente al possesso dei titoli professionali e cultu-rali, specialmente in sede di inquadramento nel ruolo della I fascia, comportando tali provvedimenti un aumento notevole sulle spese fisse nel bilancio dello Stato.

La crisi dell’apparato amministrativo, iniziata molto pro-babilmente con la soppressione delle carriere grazie alla legge n. 312 del 1980, si è sviluppata un po’ inconsapevolmente da parte del potere politico, un po’ per carenza di spirito di corpo o di appartenenza, determinando una situazione di inefficien-za o auto-referenzialità che ha toccato ed incluso anche il set-tore formativo delle scuole pubbliche (SSPA e SSAI), depau-perate della loro originaria forza trainante nel campo della qualificazione e dell’aggiornamento, nonché della selezione dei nuovi funzionari o quadri dirigenziali.

*Referendario Presidenza Consiglio Ministri

COME te lo smonto

di HERVÉ A. CAVALLERA

SISTEMA UNIVERSITARIO

31 IL BORGHESE Gennaio 2014

UNA Carta della scuola, in pratica una riforma mai realizzata. Così Daniela Pasqualini in Giuseppe Bottai e la carta della scuola, edito per i tipi della Solfanelli Editore. Un testo a dir poco interessante, anche perché contiene il sugo di tutta la storia, altresì denominabile storia del sistema formativo, ov-vero una vicenda lunga ed estesa per i più importanti Paesi europei, ma desolatamente breve e scarna per il nostro Paese.

Prendere in considerazione il lavoro della Pasqualini, si-gnifica pronunciarsi sull’identità che dovrebbe assumere la scuola italiana. Parlare di Bottai senza parlare di Gentile, e, quindi, guardare a Viale Trastevere oggi, significa qualcosa d’impossibile. Ecco perché i Ministri dell’Istruzione coinvolti sono, effettivamente, tre, ovvero Gentile, Bottai e, per forza di cose, il Ministro attualmente in carica. Tra essi, Gentile è il vero ed unico riformatore, Bottai il politico volto ad ottenere consenso, ma almeno attendibile conoscitore del valore e dell’importanza del sistema scolastico. E questa è storia.

Oggi, più che mai, prima di mettere in cantiere la riforma della riforma della controriforma della riforma stessa, ovvero prima di porre in essere il principio gnoseologico dell’essere transeunte (tale sembra essere l’unico senso attribuibile a cer-te, astruse ed immotivate circolari ministeriali), è bene sapere ciò che è stato, quanto di buono e di valido era stato ideato e già in parte applicato in un passato nemmeno troppo lontano, e che non può di sicuro essere dimenticato o cancellato.

«Nel 1939, il Gran Consiglio del fascismo approva la Carta della Scuola presentata dal Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai; un impianto legislativo sintetico, strutturato in ventinove dichiarazioni che hanno il sapore del-lo slogan, tanto sono concisi (…).

Ancora oggi il sistema scolastico è regolato su quanto de-ciso allora: «… a Bottai si deve il calendario scolastico, frutto della volontà fascista di controllare ogni momento della vita scolastica, che rimane tutt’ora come il primo atto di inizio d’anno, inteso a organizzare la scansione dei periodi tra uno scrutinino e l’altro, la durata delle vacanze, le date degli esa-mi … la radio e il cinema fanno il loro ingresso nella scuola, come mezzi di comunicazione di massa; negli anni dal 1936 al 1938 lo sviluppo delle trasmissioni radiofoniche è enorme ...

«Ma quello che sostanzialmente prevede la Carta della Scuola è un controllo totale sulla crescita, lo sviluppo, il pen-siero dei giovani, e l’organizzazione dettagliata di tempi, me-todi e contenuti mira proprio al condizionamento delle nuove generazioni.

«In particolare, per rispondere alle esigenze del regime di creare lavoratori preparati da impiegare subito, appena ter-minato l’obbligo scolastico, la Carta della Scuola pone parti-colare attenzione alla preparazione tecnica e professionale delle classi popolari … Mestieri, cioè, che si potevano impa-rare tramite apprendistato diretto in bottega, diventano corsi di apprendistato nelle scuole, corsi di perfezionamento per adulti lavoratori. La riforma che prevede una scuola media

legata alle logiche non certo scientifiche del mercato, co-me molto discutibili appaiono i parametri della valutazione della ricerca, come, ancora farraginoso, è tutto l’insieme delle modalità, con cui sono state individuate le commis-sioni valutatrici per le abilitazioni scientifiche nazionali e gli stessi criteri di valutazione.

In altri termini, se dal primo governo Prodi in poi si è favorita una dissennata politica di proliferazione di sedi universitarie, ora si cerca di chiudere il recinto quando i buoi sono già usciti e hanno pure proliferato. Tentare una qualificazione delle singole sedi universitarie (le minori in particolare) era già stato colto dal ministro Giovanni Gen-tile e in sé non vi è nulla di sbagliato. Il problema è che tutto viene ad essere fatto nell’ottica di una più ampia poli-tica di tagli che, in prospettiva generale, non giova né alla crescita occupazionale della Nazione né al futuro dei gio-vani, che sono invitati anzi o a non frequentare i corsi uni-versitari o a espatriare per tentare di realizzare le proprie aspirazioni (ci si chiede poi cosa ne sarà di quel program-ma del «rientro dei cervelli», tenuto conto del grande flus-so di laureati in altre nazioni quando i cervelli sarebbe be-ne non farli partire affatto!). Ci si limita soltanto a ridurre drasticamente le risorse e l’amministrazione centrale non soltanto blocca gli scatti stipendiali, ma taglia posti, non dà spazio ai giovani, frena le effettive autonomie. L’atten-zione all’economico, più volte sottolineata su questo gior-nale, riduce le speranze di intere generazioni: lo Stato non sa più investire; sa solo tassare e tagliare. L’attuale gover-no millanta l’attenuarsi della recessione, intanto non sa far altro che favorire accorpamenti, fusioni, riduzioni.

La vicenda universitaria è emblematica della storia di un grande Paese, quale è stato l’Italia. L’insistenza su do-centi provenienti d’Oltralpe, sull’utilizzazione della lingua inglese e su brevetti, internazionalizzazione e così via, in-dica sfiducia sulle qualità nazionali mentre per altri aspetti si intende favorire il made in Italy. Si può asserire che il sistema educativo dalle elementari all’Università ha deci-so, a partire dalla riunificazione politica della Penisola, la crescita nazionale sotto le diverse prospettive. Soprattutto ha saputo fornire un’alta cultura che si è tradotta in capaci-tà inventive ed operative. Ora tutto invece si riconduce al tecnicismo e ad una pesante burocrazia di bassa ragioneria. Lo Stato non è più colto come centro di crescita: non a ca-so Equitalia evoca, nell’immaginario collettivo, la paura di balzelli e gabelle apportatori di povertà. Se il romano pon-tefice favorisce le elemosine verso gli indigenti, il governo nazionale continua a mantenere tasse da Guinness dei pri-mati, mentre svilisce l’Università ad azienda mal funzio-nante, sfaldando davvero l’unità della Penisola.

di ALESSANDRO CESAREO

«LA CARTA DELLA SCUOLA» DI BOTTAI

AD OGNUNO la sua

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trario. Più tipologie di scuole medie, differenziate in base ai percorsi caratterizzanti e, quindi, con obiettivi diversi; soltan-to così l’Italia potrà iniziare ad uscire dalla palude cui è stato condannato dal cattocomunismo imperante e che ci ha ridotti così come tutti sanno.

Da Bottai possiamo dunque estrapolare l’idea della scuola di ognuno, grazie alla quale potremmo agevolmente risponde-re allo sfacelo oggi provocato dalla scuola di nessuno, doloro-samente imperante. Resta valida la considerazione di fondo che vede nell’insegnamento impartito tra le mura scolastiche un valore eterno. Ecco perché la scuola va fatta sul serio, con impegno, con dedizione. Altro che eliminare la bocciatura e renderla ancora più vuota e vana.

Alcune note su Bottai, le illustra la stessa autrice: «Badoglio aveva accusato Giuseppe Bottai di aver preso

parte al complotto per rovesciare lo Stato fascista. Con que-sta accusa, egli sarà arrestato il 27 agosto del 1943 e detenu-to nel carcere di Regina Coeli fino al mese di settembre. Poi, inizierà a nascondersi alle persecuzioni naziste delle SS, tro-vando rifugio prima da amici, poi in alcuni conventi. ... La vita di Bottai si trasforma curiosamente da ideatore della Carta della scuola a professore di scuola media che subisce esso stesso la riforma fascista: per potersi arruolare in Alge-ria, nella legione straniera, Bottai si procura dei documenti falsi a nome di Andrea Battaglia, di professione insegnante, e con questo nuovo nome combatte per quattro anni nella Le-gione straniera contro i fascisti. Questo periodo è una sorta di espiazione per non aver compreso gli errori del fascismo. Nel novembre 1947, Bottai torna a Roma, amnistiato, e conti-nua la sua attività politica sperando in una collaborazione tra la vecchia e la nuova classe politica, ma dei 18 membri del Gran Consiglio fascista è l’unico a dedicarsi ancora alla politica. Per Bottai il fallimento del fascismo è innegabile, il regime è il passato e la strada che i giovani possono percor-rere è a sinistra. Morirà a Roma il 9 gennaio 1959».

Sono troppo pochi, rari e troppo lontani nel tempo i veri, significativi interventi di riforma che hanno in qualche modo segnato la storia del nostro sistema formativo, ovvero la Leg-ge Coppino, già valida per il Regno Sabaudo ed estesa, ope legis, a tutto il Regno d’Italia dopo la proclamazione dell’uni-tà e l’inimitabile Riforma Gentile.

Conclusa la stagione risorgimentale, che non è improprio vedere prolungarsi fino a Versailles e a Saint-Germain, la bor-ghesia liberale italiana ed i cattolici moderati, inorriditi dall’a-vanzare e dal sanguinoso dilagare dell’incubo chiamato bol-scevismo, si scoprirono a guardare, se non con evidente sim-patia, ma almeno con un po’ di fiducia, ad un uomo destinato ad influenzare in maniera decisiva la storia d’Italia e d’Europa per un intero ventennio, Benito Mussolini. Giova ricordare che un Ministro del suo governo, Giovanni Gentile, che il 15 apri-le 1944 verrà barbaramente trucidato in quel di Careggi, avrebbe di lì a poco varato la più importante (ma verrebbe da dire l’unica) riforma del sistema educativo e formativo italia-no. Questa è storia, non fantascienza e, soprattutto, non è im-provvisazione dolciastra intrisa di buonismo cattocomunista, che siamo costretti, nostro malgrado, a sorbirci nel presente.

La storia politica del nostro Paese, insegna che non esiste un solo Piazzale Loreto, o che comunque lo stesso può mani-festarsi in modo diverso, purché punti ad abbattere l’odiato nemico. Dio mio, ma quant’è bella questa «repubblica demo-cratica fondata sul lavoro», peccato che stiamo smettendo di sentirla nostra!

Speriamo soltanto che il tempo porta consiglio: ne abbia-mo davvero bisogno! Resta solo da vedere che cosa verrà ideato a Viale Trastevere.

unica ha, nella Carta della Scuola, il segno innovativo più evi-dente e slegato dalle esigenze di regime, tanto che sarà l’uni-co punto realmente realizzato nel dopoguerra e che resta an-cora oggi: Bottai pensa all’istituzione di un solo corso di stu-di medio, tanto più che il Liceo Scientifico non ha un suo cor-so inferiore (mentre esiste il Ginnasio per il Liceo Classico).

«Nel periodo intercorso tra la Riforma Gentile e la Carta della Scuola, la polemica sorta attorno alla difficoltà di pro-seguire gli studi è notevole, e coinvolge famiglie, docenti e uomini di cultura; la scuola media gentiliana, con sbarra-menti sia all’inizio sia al termine del percorso, con esami per-cepiti come unica selezione, più per appartenenza alle classi sociali che di merito, diventati difficili e nozionistici, richie-dono un ripensamento generale. Bottai si innesta su questo malcontento e risponde alla “più fascista delle riforme” con una Carta sintetica in ventinove dichiarazioni, che in realtà è molto più fascista della precedente, ma viene propagandata come la scuola del merito e fatta conoscere anche grazie alla radio, ai convegni tra i docenti, tramite gli articoli sui giorna-li e le riviste di cultura. Una scuola per ognuno, diventa un po’ lo slogan di quella che è una sorta di controriforma: se Gentile si era preoccupato solo dell’educazione dei futuri di-rigenti, della scolarizzazione dei figli dei ceti alti, puntando tutta l’attenzione sugli studi classici, Bottai vuole una scuola per tutti, o meglio una scuola per ognuno, appunto, in base alle singole capacità e inclinazioni.

«La Carta, infatti, non voleva agire solo sugli istituti edu-cativi, ma, tramite questi, sulla cultura, sulla personalità, sul-le menti umane, che in questo ambiente si formano, perché come Bottai ricorda, La scuola è il duraturo, il continuo, l’e-terno. La scuola è l’eterna formatrice dell’uomo, dell’operaio, del lavoratore, del dirigente, del tecnico. Il suo insegnamento ha valore eterno».

Da quanto letto emerge la nobile e stimolante idea di una scuola vera, con le idee chiare, altro che Stato totalitario! Una realtà educativa in crescita ed in fase di sviluppo e di espan-sione, al cui interno di parla di compiti e di ruoli precisi che non risulterebbero fuorvianti neppure oggi. Anzi, sarebbero utili, proficui, significativi all’interno di un marasma che ri-chiede alla scuola di tutto e di più, con l’unico obiettivo di consegnare alla società, già di per se stessa in crisi, giovani incerti, impreparati, confusi, niente affatto formati e, soprat-tutto, già orientati, per tutta un’interminabile serie di motiva-zioni, al dolcefarniente, che poi tanto dolce non è, visto che l’amata patria non fa niente per offrire dignitose opportunità di lavoro ai propri figli, lasciandoli disoccupati a vita, ma poi s’indigna se a molti stranieri, per giunta presenti illegalmente sul suolo italiano, non viene offerto ciò che essi desiderano.

È forse un reato tentare d’individuare un ruolo specifico per gli uomini e di un altro per le donne? Siamo diversi, il Pa-dreterno ci ha creato maschi e femmine, così come il tertium genus non è previsto dalla natura, né da nessuno. Se diversi siamo, e ben venga la diversità, è importante e legittimo che ci prepariamo a fare cose diverse e, così facendo, a migliorare la società con i nostri apporti.

Ecco perché individuare, progettare e, quindi, anche rea-lizzare percorsi differenziati in base alle capacità ed alle atti-tudini dei vari gruppi di studenti può aiutare a conservare il valore dell’identità, personale e comunitaria e può, quindi, facilitare la crescita e la maturazione dei nostri giovani. Ecco perché la scuola media unica, così come realizzata nel 1963 e così come ulteriormente depauperata ed annacquata nel ‘77, con la totale cancellazione del latino, non serve proprio più a niente, ma non è abolendola, e quindi trasformando i licei in scuole medie, che si va da qualche parte: esattamente al con-

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C’È un idolo pagano, una specie di vitello d’oro, che domina gli animi neoliberisti dei nostri dirigenti europei. Una divinità appesantita dalla quantità del prezioso metallo adoperato per costruirla, con quelle sembianze di moderna Sfinge, con occhi vuoti e indifferenti sull’agonia del continente.

I tanti, troppi cittadini italiani, che, in questi ultimi, tor-mentati, anni non hanno potuto far fronte alla pressione di tasse, balzelli e crediti insoluti e le schiere di tutti quelli, e so-no milioni di individui, forzatamente allontanati da una vita dignitosa, per finire nella palude della miseria, oggi sanno chi è l’artefice di tanto disastro.

A chiarire il dubbio è intervenuto il sociologo Luciano Gallino con il suo ultimo lavoro Il colpo di Stato di banche e governo, un’opera circostanziata sulla corrente ideologica del neoliberismo, con tutte le note conseguenze, molto simili, per gli effetti prodotti, alle distruzioni materiali e morali di una guerra mondiale. Gallino riconduce la genesi del «colpo di Stato» nel superamento, da parte di Unione Europea, Banca Centrale Europea e FMI, delle volontà popolari, nello scaval-camento di parlamenti e governi nazionali, assumendo, questa «triplice alleanza», le sembianze di un direttorio. Tutto que-sto, come ci è stato detto, perché non esistono alternative.

Certamente, nel tempo di questa lunga crisi, di fatti ed im-magini sconcertanti siamo stati testimoni: il viaggiare in auto dalle campagne, ancora ben curate, ordinate e dove niente, o quasi, fa pensare alla tragedia che ha piegato il nostro Paese, alle città del nord est, ai nuclei industriali, fino a pochi mesi fa, in fervore di produzione e di lavoro, si ha l’impressione di essere dei sopravvissuti ad una letale epidemia. Capannoni abbandonati, opifici silenziosi, insegne spente o divelte, bor-ghi commerciali dove le serrande dei grandi magazzini sono scese, da molto tempo, per l’ultima volta. È qui che l’idiozia ideologizzata, leggi «il mercato si autoregolamenta», ha com-piuto la sua opera nefasta. Se guardiamo attentamente i dati statistici del periodo, costatiamo che il ceto medio, rappresen-tato da un insieme di categorie storicamente dedite al lavoro in tutte le sue varietà, ha pagato con imposizioni fiscali, già per sé capaci di indurre un incremento della povertà, e, con la disoccupazione, in modo particolare quella giovanile, i mi-sfatti dell’ottusità burocratica europea.

La Grecia, sempre presa come caso limite del meridione europeo, sotto lo schiaffo di un direttorio inflessibile, sta vi-vendo i giorni più tragici dal periodo della seconda guerra mondiale, quando, comunque, le autorità d’occupazione, fe-cero intervenire la Croce Rossa internazionale per salvare dal-la denutrizione gli abitanti del Paese balcanico. Oggi, a giudi-care da certe immagini e da certe informazioni, Atene è sotto la pioggia di indiscriminati licenziamenti, specie nel settore pubblico, gli ospedali non coprono le cure per coloro che han-no perduto il lavoro e le grandi multinazionali farmaceutiche non riforniscono di medicinali gli stessi nosocomi, nel timore di non poter recuperare il credito, tutto questo con il risultato

UN COLPO di Stato

di ALESSANDRO P. BENINI

L’EUROPA DELL’AUSTERITÀ di un aumento considerevole della morbilità e con l’abbassa-mento delle aspettative di vita.

La Grecia non è un Paese commissariato dalla Troika, è una nazione sottoposta a quella pulizia etnica di non lontana memoria in quelle terre oltre l’Adriatico, e gli artefici di que-sta pulizia non sono le milizie serbe, croate o bosniache, sono, invece, dei signori in giacca e cravatta che siedono ai vertici della finanza e che, da Bruxelles, decidono cosa imporre a quei governi a sovranità limitata. Questi padroni delle vite e delle anime, a loro volta, sono stati convinti dalle banche in-ternazionali a sostenere il sistema, soccorrendo gli istituti prossimi al fallimento, anche se questi non rappresentavano, per dimensioni, un serio pericolo per l’economia continentale. Tutto questo è pesato sui bilanci, aggravando una situazione già compromessa, dunque, sempre sotto la spinta della triplice finanziaria i governi dell’Europa mediterranea hanno comin-ciato una vera e propria guerra contro i loro cittadini, recla-mando una severa austerità, quasi i buchi di bilancio fossero determinati da un eccessivo dispendio per mantenere l’impal-catura delle garanzie sociali.

Su questa pressione, o meglio, diktat sotto il nome di «Trattato di stabilità», con l’approvazione a maggioranza, senza alcuna discussione o riflessione, del nostro Parlamento, si è accettato un patto di sicura rovina, per noi e per le future generazioni. Nessuno degli addetti ai lavori ha voluto o potuto ricordare quel «Memorandum» sottoscritto dal Governo Elle-nico, dove addirittura vengono stabilite le razioni alimentari per l’infanzia e le riduzioni di salario, intorno al 32 per cento, da imporre nei contratti nazionali di lavoro. Insomma si è rati-ficata una carta di stabilità congegnata da Bruxelles, come un infallibile rimedio, per superare la stasi economica: al contra-rio, queste misure imposte ed accettate da una categoria di tecnici miopi e da una classe politica inesistente, hanno pro-dotto una recessione di incalcolabile gravità.

Soltanto gli illusi e gli animi semplici, i ridanciani ascolta-tori delle barzellette di ieri e dei sogni visionari di oggi, pos-sono credere alla rapida conclusione di questa crisi. Il «Colpo di Stato» c’è, è già stato effettuato, nell’ignavia più assoluta dei responsabili politici ed economici: il diktat che strangola l’Italia, imposto dalla «Troika finanziartedesca» prevede, allo scopo di ridurre il debito pubblico in vent’anni, un salasso fiscale di cinquanta miliardi di euro l’anno, ripetiamolo, per vent’anni. Qualora si riuscisse a far fronte a quanto sottoscrit-to, la miseria insanabile, scaturita da questa decisione, farà impallidire il ricordo delle miserie dell’ultimo conflitto mon-diale.

Un referendum, lo dichiara il sociologo Gallino in una re-cente intervista al quotidiano La Repubblica, sarebbe stato necessario per decidere un impegno di questa portata. Il colpo di stato, però, una volta compiuto, non ha bisogno di popolari ratifiche. Anche questo voleva l’Europa?

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CHI bussa alla mia porta? È l’imprevista visita di un amico che vuole gioiosamente sorprendermi? È il portalettere con una cartolina di chi si rammenta di me e mi invia una bella veduta del luogo in cui viaggia? È un libro? È un regalo? Ormai da tempo se il campanello suona o scendo e guardo la cassetta della posta, un formicolio mi serpeggia, e la cu-riosità delle notizie è offuscata. Non corre giorno che io non debba pagare qualcosa. Forse che anni or sono non era così? Non era così.

Oggi vi è massima vigilanza, si scruta anche all’indie-tro, la presenza tassativa o tributativa è incombente, specie per l’accrescimento di essa, esasperata, accanita, roditrice. Il cittadino sembra un osso. E perché mai tale addentamen-to fino all’ultimo residuo di carne? A che serve, a chi serve tanto denaro cavato dalle esauste vene del cittadino norma-le? Perché lo Stato è diventato il nemico dei suoi cittadi-ni?! Di tutti i suoi cittadini, o prende dagli uni per dare ad altri?

Fosse giustizia contributiva, come protestare! Ma non è giustizia contributiva. È rapina di pochi su moltissimi.

L’ho scritto: le nostre società si trovano in una condi-zione esistenziale di sofferenza. L’infelicità esistenziale che sembrava, almeno per le società occidentali del benes-sere, possibile fondamentalmente per motivi «naturali», la morte, la malattia, l’amore, adesso aggiunge, e possente-mente, l’essere come è della società quale fonte di pena. Incredibile: suicidi per motivi economici!

L’imprenditore che non sostiene l’azienda e fallendo spegne la sua vita, congiunta all’impresa; il privato che asfissiato da tasse, bollette, canoni, servizi, sparisce, di-venta ramingo, non intende avere rapporti con la «società», o diventa un morto che respira, abulico, demen-te, sbandato. E il giovane a carico del vecchio, e il vecchio che teme gli anni futuri, e l’invasione straniera, la legione straniera, attivissima, formicolosa, disposta ad ogni prezzo pur di sopravvivere, e le strade come bazar, e una prolife-razione aliena colmatrice del nostro non generare, e nessu-na politica per le abitazioni, per gli affitti, per la famiglia, i figli, noi che non riusciamo a condividere una stanza, noi assuefatti all’indipendenza, laddove gli stranieri sono grappoli umani, e occupano il mero spazio fisico...

No! Così non va! Non va. E chi crede che basti riorga-nizzare il Centro e abbraccettarlo al PD per stabilizzare il nostro Paese, e togliersi di mezzo i critici, gli oppositori, i piazzaioli, gli estremisti, i pessimisti come vociano i «nuovicentristi» per giustificare la loro esistenza e come reiterano i presidenzialisti del Governo e della Repubblica; e chi crede che basti una sentenza della Consulta per risu-scitare una legge elettorale proporzionale apposta al fine di dare fiato al Centro, impedire una maggioranza di un solo partito, stabilizzare il Sinistra-Centro... Non va. Giochi. Sull’abisso. Certo, saremmo accetti all’Europa. Come dei servi obbedienti.

Occorre un’insorgenza nazionale. La Nazione deve

ATTENTI alla posta!

di ANTONIO SACCÀ

sentirsi Nazione. L’Italia salvi se stessa. L’Italia rimbocchi le maniche.

Se c’è bisogno di lavorare più ore, lavorare più ore. Se c’è bisogno di scemare i salari, si scemino. Se c’è bisogno di attenuare i profitti, si attenuino. E una revisione totale della distribuzione della ricchezza.

Non qualche intarsio su questo o quest’altro ma una visione generale e capillare della creazione e della distri-buzione della ricchezza, in maniera che, senza largire a inetti, sfaticati, non si dia però a consorterie, spendaccioni, parassiti.

Difficile, impossibile? Necessario. Urgente. Non le ba-gattelle di una stabilizzazione di questa classe di Governo in un patto mortuario tra PD e Nuovo Centro favorito da una quanto mai provvidenziale sentenza della Consulta... Dunque esiste un progetto sedativo! No. Mai. Tempi di rivolgimento. Il progetto Sinistra-Centro non sanerebbe la crisi, anzi, e spalanca le porte al Commissariamento Euro-peo. I ceti medi e popolari, ormai ne scrivono tutti, sono strangolati. Aria! Ceti medi e popolari devono unirsi. Redi-stribuire la ricchezza sociale. Non per egualitarismo. Mai. Per rimettere in funzione la società. Non c’è sacrificio se giova ad avvantaggiare il «magnaccia».

Che sacrifici hanno sopportato banchieri, grande distri-buzione, alti burocrati, lestofanti associati senza obblighi di legalità, amici dei partiti, partiti, evasori pandemici, sti-pendi paperonici, buonuscite di rovinatori tuttavia premia-ti, stuoli di membrature funzionarie o impiegatizie in una ramificazione statale poliposissima, e il piccolo imprendi-tore, se onesto, e il bottegaio, se onesto, e l’impiegato, se onesto, il professore, il pensionato di medio respiro, e l’o-peraio, tasse, tasse, tasse, il dieci per cento della popola-zione di fascia media contribuisce al cinquanta per cento dell’IRPEF!

Certo, i ceti medi produttivi devono consociarsi in una società nella quale, in tutte le società, la concorrenza è tra entità grandiose, ma distruggere le piccole e medie impre-se è, in ogni caso, una rovina.

Disgraziata società, quella in cui per mesi dibattiamo sul pagamento dell’IMU e non troviamo «copertura» su cifre pulcellose, da vergognarsi e non leggere mai più, che so, Ugo Foscolo, il quale si schiferebbe se un italiano para-lizzato dall’IMU osasse toccarne i Sonetti.

Credo che noi risorgeremo quando arrossiremo di noi stessi. Quando, dopo aver ascoltato poniamo la Messa da Requiem di Giuseppe Verdi o il duetto di Norma con Adal-gisa di Vincenzo Bellini o una qualsiasi opera di Gioacchi-no Rossini o Gaetano Donizzetti, Pergolesi, Paisiello, Ci-marosa, e non dico Monteverdi, o letto tre versi dell’ulti-mo Giacomo Leopardi o un solo testo delle Operette mo-rali, e guardato un solo quadro di Antonello… Ma ci ren-diamo conto di quale Paese siamo eredi e cittadini, perfino Dio si è stabilito a Roma, vicariamente!

Chi crede che l’economia si salvi con il calcolatore è un cadavere! Incontro sotto casa mia un conoscente, do-cente, ha più di ottanta anni, fogli in mano. «Dove vai?». «A lavorare.» «Scrivi?» «Correggo.» «Un tuo libro?» «Di un altro.» «Lo aiuti?» «No!» E arrossisce. Lavora. A ottan-tatrè anni. E non per se stesso. Per mantenere agli studi il nipote. Puro manicomio. Così non va.

Ultime notizie. Hanno eletto Matteo Renzi. Il Movi-mento dei Forconi agita i forconi. Qualcosa si muove. Ceti medi unitevi: al proletariato. Così non va! E tutto questo mentre i robot stanno sostituendo gli uomini.

Attenti alla posta!

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EVIDENTEMENTE, il commissario all’economia della Unio-ne Europea, Olli Rehn, non vede l’ora che l’Italia svenda i suoi gioielli di famiglia. Per averne la piena consapevolez-za è sufficiente rileggere la sua recente intervista al quoti-diano la Repubblica. In quell’occasione «bontà sua», ha ricordato che «l’Italia è in linea, anche se di poco, con il criterio del 3 per cento». Il che «ha consentito al Paese di uscire dalla procedura per deficit eccessivo» e ribadito che ciò «è importante per la sua credibilità sui mercati finan-ziari», ha sottolineato che «l’Italia deve rispettare un certo ritmo di riduzione del debito e non lo sta rispettando», per mantenere quest’impegno, ha aggiunto «lo sforzo di aggiu-stamento strutturale avrebbe dovuto essere pari a mezzo punto del Pil e, invece, è solo dello 0,1 per cento». E lo ha chiaramente fatto intendere, quando ha sostenuto che l’Ita-lia, uscendo dalla procedura d’infrazione, ha riconquistato la fiducia dei mercati, perché il suo incubo è rivivere l’an-goscia del periodo tra agosto e novembre del 2011, quando l’Italia era è per questo motivo che «l’Italia non ha margi-ni di manovra e non potrà invocare la clausola di flessibi-lità per gli investimenti». Mi piacerebbe sapere, e non sol-tanto al sottoscritto, come mai questa stessa clausola che è preclusa a noi è, invece, accordabile alla Francia il cui de-ficit è a quota 4 per cento.

Mah, stranezze di un’Europa senza anima dove non governano gli eletti del popolo, ma la grande finanza ed i suoi ottimati, e le agenzie di rating e la speculazione fi-nanziaria.

Per carità, non intendo entrare nel merito delle valuta-zioni del Vice presidente della Commissione europea e commissario all’economia circa l’affidabilità o meno di una legge di stabilità che ha stillato agli italiani, più san-gue che lacrime, e che, è giusto ricordarlo, ha completato il «lavoro sporco» di quelle precedenti del 2011 e 2012 ed ha ulteriormente inasprito la pressione fiscale a tutto danno dei cittadini, trasfigurando la crisi che - è giusto rammen-tarlo, anche se soltanto a futura memoria non è nata in Ita-lia - in una durissima recessione. Mi domando, però, se ha tenuto conto che con le sue affermazioni ha offeso il Paese che, fino a prova contraria è l’unico contribuente netto dell’Europa (ogni anno versa una quota di 13mld, riceven-done in cambio soltanto 9); è il terzo affluente finanziario di quel fiume di denaro come fondo Salvastati; un Paese, che, proprio per mantenere gli impegni con l’Europa e ri-spettare il mantra del 3 per cento, ha lasciato affondare la propria economia, non pagando i propri debiti con le im-prese, ma pretendendo da queste il rispetto dei propri dik-tat fiscali - per altro, sempre più pesanti ed insostenibili - e riducendo - facendo crescere IVA, accise, contributi e tasse varie ed eventuali - da un anno all’altro, il potere d’acqui-sto di stipendi e salari, mentre ha evitato la bancarotta di quelle di Spagna, Grecia e, perché no, salvato dallo scan-

SVENDESI Italia

di MIMMO DELLA CORTE

OLLI REHN dalo dei titoli tossici, le banche tedesche. In più, ha prov-veduto a delegittimare agli occhi degli italiani il premier Enrico Letta e il ministro dell’economia, Fabrizio Sacco-manni, liquefacendone in maniera perentoria le cosiddette «palle d’acciaio».

Ebbene, sottolineato che è impossibile pensare che un politico navigato potesse non prevedere che simili affer-mazioni avrebbero scatenato un vero e proprio uragano di polemiche (per tutti quelle del Premier e del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano che ha chiesto all’Europa di cambiare rotta), vien da chiedersi, cosa lo abbia spinto ad «avventurarsi» in simile ginepraio.

Probabilmente, la sua magnanimità. Sì, non ridete, ho scritto proprio la sua magnanimità. Nell’occasione, infatti, ci ha fatto sapere che se entro febbraio «il governo fornirà risultati concreti e soddisfacenti» l’Europa ne terrà conto «per calcolare i possibili effetti sui margini di manovra a disposizione del Paese». Il che tradotto nell’italiano di Dante, significa che ci allenteranno un tantinello – ma non più di tanto, sia chiaro – il nodo scorsoio che ci sta strin-gendo la gola e rischia di strangolarci da un momento all’altro. Eureka! Ma come faremo in così poco tempo a redimerci? Basterà ottemperare ai «consigli» di Rehn e privatizzare ovvero liberarci di: ENI, STM ed ENAV (partecipate direttamente dal Ministero del Tesoro) e SA-CE, FINCANTIERI, CDP RETI e TAG (partecipate indiret-tamente attraverso la Cassa depositi e prestiti), nonché di Grandi stazioni la cui partecipazione fa capo al gruppo Ferrovie dello Stato. Un elenco già abbastanza sostanzioso che attraverso la cessione di quote potrebbe fruttare tra i 10 ed i 12mld di euro, da svendere, vista la fretta, ad im-prenditori esteri, al quale, però, nei giorni scorsi il Mini-stro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, ha aggiunto an-che il nome della Banca d’Italia, che il governo intende trasformare in una public company, aperta anche agli inve-stitori esteri, per conseguenza, con il rischio che siano que-sti ad assicurarsela e, per tanto, a controllare il nostro siste-ma bancario. La nostra redenzione, però, può arrivare an-che - come pretende la Merkel - in cambio della cessione, della sovranità nazionale - a Bruxelles ed indirettamente alla Germania che è la principale, manco a dirlo, sosteni-trice della proposta - attraverso il contractual arrangement del quale si parlerà fra un paio di settimane al Parlamento europeo. Un meccanismo finalizzato ad introdurre vincoli strettissimi ai Paesi in fatto di riforme strutturali, il cui elenco verrebbe deciso a Bruxelles e, nel momento in cui se le vedesse imposte, nessun Paese potrebbe rifiutarsi di realizzarle, ma in cambio si vedrebbe riconosciuta una qualche forma di sostegno economico per ammorbidirne l’impatto sullo stato sociale.

Per carità, personalmente, sono tutt’altro che contrario alle privatizzazioni, anzi, sono assolutamente e totalmente convinto che se lo Stato facesse un passo indietro e la-sciasse agli imprenditori, la cura delle imprese, l’economia italiana avrebbe tutto da guadagnare e niente da perdere. Sempre che, però, fossero imprenditori veri, non figli della finanza, che hanno dimostrato, nel tempo, di essere all’al-tezza del compito, facendo la propria fortuna e quella dei propri dipendenti, guidando imprese e non speculando al mercato dei titoli. E soprattutto italiani. Ma ce ne sono, oggi come oggi, imprenditori dotati di questi requisiti in Italia? Obiettivamente, no. E le recenti disavventure cui sono andate incontro Telecom ed Alitalia, ne sono la dimo-strazione più lapalissiana. Ancora di più, sarà possibile tro-varli in così poco tempo ed in periodo di crisi così dura,

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NEL MONDO FIAT e dintorni, a Torino talvolta sanno dav-vero essere spiritosi e sorprendenti. Oltre che, come sem-pre, arroganti. Per le loro le leggi non esistono, né quelle scritte né quelle non scritte, che riguardano trasparenza, serietà, etica. L’ultima storia è indicativa: negli atti ufficia-li gli unici soci della «Dicembre società semplice», la so-cietà più importante dell’Impero, quella che dall’alto con-trolla tutto e che da sempre appartiene (ma fino a quando? ed è ancora così?) a quel poco che resta del ramo famiglia-re del defunto Gianni Agnelli - ovviamente con esclusione forzosa della figlia Margherita - risultano essere incredibil-mente tre arzilli vecchietti. Ai quali bastano dodici azioni e un «investimento» di soli 6,20 euro (sei euro e venti). I tre unici soci della «Dicembre» che la Camera di Commercio di Torino, senza nemmeno vergognarsi un po’, porta scritti nel suo Registro delle Imprese sono: Marella Caracciolo ved. Agnelli, 86 anni, con dieci azioni per diecimila vec-chie lire (5,126 euro); Gianluigi Gabetti, 89 anni, con una azione da mille lire (0,52 euro); Cesare Romiti, 90 anni, con una azione da mille lire (0,52 euro). Quest’ultimo però è del tutto estraneo a questa storia. È dal 1989 che non c’entra nulla con la «Dicembre».

Questa è la situazione ufficiale, ma falsa, secondo l’En-te di controllo (!) presieduto da Alessandro Barberis, guar-da caso un ex direttore generale e poi amministratore dele-gato di FIAT (dopo esserlo stato di IFI) in uno dei periodi più negativi della storia del Lingotto. E pensare che Barbe-ris è anche presidente di Eurochambres, l’organismo che raggruppa le Camere di Commercio di 45 Paesi europei. Sarà lui a ospitare il prossimo anno a Torino il Congresso mondiale. Con quale coraggio si presenterà di fronte a tan-ti autorevoli e illustri suoi colleghi di tutto il pianeta se tol-lera una paradossale e vergognosa situazione come quella che andiamo a descrivere?

Secondo l’ente presieduto da Barberis, quei tre «vec-chietti» (compreso l’estraneo Romiti) controllano con 6,20 euro la più importante e strategica società italiana, che è «padrona» (col 36,74 per cento) dell’«Accomandita Giovanni Agnelli & C. Sapaz», che a sua volta controlla il 52,66 per cento di Exor Group, e quindi FIAT, FIAT-Chrysler, FIAT Industrial, Cushman & Wakefield, Juventus Spa e tanto altro ancora. Per fare un esempio nel 2013 all’Accomandita sono arrivati 118,5 milioni di dividendi e una quarantina di questi sono finiti proprio alla «Dicembre». Qualcuno può credere che se li siano spartiti quei tre vecchietti?

La «Torino dei misteri», o meglio la “Fiat dei misteri”, da diciotto anni offre questa palese violazione di una legge in vigore dal 1995. L’organismo che dovrebbe vigilare e indurre a regolarizzare, sembra non accorgersi nemmeno delle assurdità conclamate e dell’irragionevolezza clamo-rosa. I soci e gli amministratori (veri) della «Dicembre» non rispondono alle norme di legge e nemmeno alle rare

Tre vecchietti con 6,20 euro

di GIGI MONCALVO

CHI CONTROLLA L’IMPERO «FIAT»? come quella che sta attraversando il Paese? Ed anche in questo caso, la risposta è un bel no deciso e perentorio. Questo Olli Rehn lo sa benissimo. Il che mi fa dubitare della sua sincerità e mi fa ritenere che la sua fretta sia det-tata dalla convinzione che è arrivata la fine della storia e che se l’Italia intende restare in Europa, debba accettarne il ricatto finale, lasciando che il suo sistema produttivo cam-bi padrone, affidandosi ad imprenditori e finanzieri che vengono da lontano. Da molto lontano e senza alcun lega-me con l’Italia e gli italiani.

Vien da chiedersi, a questo punto, come facciano questi signori a proseguire sulla propria strada, fingendo di non accorgersi della violentissima marea antieuropea che con-tinua a montare contro questa Unione europea che la gente comincia ad odiare, sentendola sempre più distante dalle sue esigenza e disinteressata alle sue sorti ed al proprio futuro. A meno che, non sia proprio la conseguenza dell’euroscetticismo che li sta spingendo a bruciare le tap-pe ed arrivare al traguardo finale nel più breve tempo pos-sibile. Prima, cioè, delle elezioni Europee, previste per la primavera 2014. Perché, al termine di quel passaggio per le urne e le ormai sempre più probabili vittorie della Mari-ne Le Pen e del Front National, in Francia e di Geert Wil-ders e del Partito per la libertà, in Olanda, ancora di più se queste dovessero essere supportate - come tutto lascia pre-vedere - dal successo del fronte antieuropa in Italia: M5S, FI, FDI, SEL, ma trasversalmente presente anche in PDL, PD e NCD. potrebbero cambiare gli equilibri interni al Parlamento europeo, complicando enormemente il cammi-no dei «pennelli d’artista» di Bruxelles. Certo, in Europa il potere appartiene alla Commissione e gli europarlamentari hanno poca - anzi, nessuna - voce in capitolo, ma se la maggioranza dell’europarlamento si ritrovasse di punto in bianco ad essere appannaggio degli euroscettici, completa-re il disegno di asservimento dell’Europa alla grande fi-nanza diventerebbe molto più complicato ed accidentato. Attenti, però, perché se questo è vero, è altrettanto vero che la fretta è una cattiva consigliera e potrebbe spingere a comportamenti controproducenti ed a risultati diversi da quelli previsti.

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raccomandate della Camera di Commercio. Basti pensare che fino a poche settimane fa nel Registro, alla voce «Dicembre», tra i soci figuravano due signori defunti da una decina d’anni: Giovanni e Umberto Agnelli. Ci sono voluti non pochi sforzi, e una recente ordinanza del Tribu-nale, per far correggere dati palesemente sbagliati inseriti appena un anno fa.

La «Dicembre» è sempre stata la cassaforte personale di Giovanni Agnelli. «Inventata» da Franzo Grande Stevens nel 1984 racchiude tesori immensi e, soprattutto, le chiavi e il controllo dell’Impero. Oggi la necessità di sapere qual è la composizione societaria, chi è il rappresentante legale, quante azioni hanno i singoli soci, che cosa prevedono gli articoli dello statuto e i patti sociali, consentirebbe di rispondere a un interrogativo di grande importanza e che riguarda anche la Security Exchange Commission che controlla la Borsa ameri-cana: chi è il vero padrone del gruppo FIAT, chi prende le de-cisioni e, non meno importante, chi ne assumerà il controllo nel caso dovesse accadere qualche evento - facciamo i debiti scongiuri - per i soci meno vetusti della compagnia e anche per i più giovani (che sono soltanto un paio e soltanto uno della Famiglia)

La società, nata il 15 dicembre 1984, era saldamente nelle mani di Gianni Agnelli col 99,99 per cento delle azioni, 100 milioni di lire di capitale. La moglie Marella aveva dieci azioni, Umberto Agnelli, Gianluigi Gabetti e Cesare Romiti una a testa da mille lire. Cinque anni dopo (13 giugno 1989) ecco il primo «mistero»: Umberto e Ro-miti vengono costretti a uscire e al loro posto c’è la prima visibile presa di potere di Grande Stevens: Gianni Agnelli anziché far entrare i suoi due figli, Margherita ed Edoardo, cede le due preziose azioni di Umberto e Romiti, proprio a Grande Stevens e addirittura alla figlia di quest’ultimo, Cristina, di soli 29 anni.

«Dicembre» torna alla ribalta il 10 aprile 1996. Quel giorno il notaio Ettore Morone attesta un aumento di capi-tale da 100 milioni a 20 miliardi di lire. Oltre ai cinque so-ci già esistenti entrano Margherita Agnelli, suo figlio John Elkann, e il commercialista Cesare Ferrero. A quest’ulti-mo, tocca una sola azione, mentre l’Avvocato si intesta il 25 per cento, distribuendo tra la moglie, la figlia e il nipote tre quote da 25 per cento ciascuno ma tenendo per sé l’u-sufrutto vitalizio di questo 75 per cento.

Quando il notaio Morone, verga questo atto, strana-mente parte da quel capitale iniziale di 100 milioni di lire, ormai vecchio del 1984. Mentre, al contrario, è emerso che, pochi mesi prima che scoppiasse l’inchiesta «Mani Pulite», Gianni Agnelli - evidentemente preavvertito o for-se solo «chiaroveggente»… - aveva schermato la «Dicembre» in Liechtenstein intestandone la maggioranza a due fiduciari prestanome: il famoso «gentiluomo di Sua Santità» (Papa Francesco lo avrà revocato?) Herbert Batli-ner, re dei metodi per creare paradisi off-shore a Vaduz e grande amico e ospite di Gabetti, e Renè Merckt, avvocato ginevrino esperto in architetture societarie da mimetizzare al fisco. La fiduciaria che controllò la «Dicembre» per tut-to il periodo di «Tangentopoli», consentendo di far dormi-re all’Avvocato sonni tranquilli, funzionò fino a quel gior-no di aprile del 1996 allorché ci fu la nuova strutturazione. Ma, quella «Dicembre» (si chiamava «Merckt & Co.») nel 1992 aveva aumentato il proprio capitale da cento milioni a 2,1 miliardi di lire. E quindi, se così stanno le cose, come faceva il notaio Morone col nuovo atto del 1996 a partire da un capitale di cento milioni senza tener conto che, nel frattempo nel 1992 era salito a 2,1 miliardi?

DURANTE il «G20» dell’ottobre 2011, Merkel e Sarkozy af-fermarono che l’uscita dell’Italia dall’euro zona avrebbe potu-to causare una nuova terribile guerra.

Perché non possiamo abbandonare la moneta unica? Il caso dell’Inghilterra dimostra che si può stare dentro l’UE anche senza aver adottato l’euro! Con Hollande è cambiato l’atteggiamento francese nei confronti dell’Europa: la Fran-cia, in preda ad una delle più gravi crisi economiche della sua storia, sta ripensando gran parte della politica economica im-posta da Bruxelles. In Germania, stanno nascendo formazioni politiche «euroscettiche». All’opposto, la Merkel preme anco-ra perché l’Italia non esca dall’euro.

Il «terrorismo mediatico», operato dai mezzi di informa-zione, getta continuamente panico sul ritorno alla moneta na-zionale; fatto assolutamente privo di senso, funzionale al per-seguimento di interessi stranieri.

Certo, con il cambio valuta dall’euro alla nuova moneta nazionale, i nostri risparmi verrebbero irrimediabilmente sva-lutati. I grossi risparmiatori si sono già «coperti le spalle», depositando denaro in Banche estere. E i piccoli? Che solu-zione possono trovare? Andare a depositare 10 o 30 mila euro in Svizzera? No, i banchieri elvetici sanno bene il fatto loro, e offrirebbero condizioni non certo molto vantaggiose a questi piccoli risparmiatori.

Allora? Perché non dicono a questi signori (io risparmi non ne ho) di investire le loro decine di migliaia di euro in titoli del debito stranieri (ad esempio americani, visto che con quelli tedeschi farebbero aumentare lo spread, danneggiando i nostri connazionali che hanno acceso un mutuo)? Acquistan-do titoli stranieri, al momento del ritorno dell’Italia alla mone-ta nazionale, non avranno perso nulla, anzi, proprio a causa della svalutazione, sarà aumentato di molto il loro potere d’acquisto. In realtà, la svalutazione spaventa proprio quelle «potenze» che ci minacciano di ricorrere alle armi.

Se la nostra nuova moneta sarà (indubbiamente) svalutata rispetto all’euro vorrà dire che, ad esempio, gli italiani acqui-steranno un’auto Fiat, anziché una Ford, una Volkswagen, una Audi, o una Mercedes. Lo dico non perché amo la Fiat, ma perché amo gli italiani che lavorano in quegli stabilimenti industriali. Il risultato sarà che (perlomeno in Italia) le marche tedesche venderanno di meno; noi di più.

L’ampliamento della domanda interna farebbe aumentare il numero di aziende, dunque l’occupazione, e, attivando un circolo virtuoso, crescerebbe anche il gettito fiscale dello Sta-to. Certo, diverrebbe pesante l’importazione delle materie pri-me, ma questo danneggerebbe maggiormente la Germania, che sulle esportazioni punta tutto il suo boom economico, quindi la sua crescita occupazionale. Più la nostra moneta na-zionale sarà svalutata rispetto all’euro, più ci temeranno.

Infatti, anche un tedesco (o altro cittadino europeo) trove-rà conveniente, a quel punto, acquistare una Ferrari al prezzo di una Mercedes. Loro venderanno (anche «in casa») di me-no, noi venderemmo (anche «fuori casa») di più. Di nuovo, crescita dell’economia interna, stimolata dall’incremento del-

USCITA di sicurezza

di SANDRA PORRI

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la domanda del mercato internazionale. A parte l’industria automobilistica, che non è certo, per molti aspetti, il nostro fiore all’occhiello, provate poi a pensare al danno che subi-rebbero molte multinazionali estere.

Un esempio? Il campo gastronomico/alimentare! Non so voi, ma allo stesso costo preferireste un panino da Mac Do-nald’s o due belle fette di pane fresco cotto a legna «farcito» da uno splendido prosciutto San Daniele? Allo stesso costo, acquistereste arance californiane o siciliane? Pomodori spa-gnoli o calabresi? Una pizza surgelata qualunque o una bella napoletana, con vera mozzarella di bufala e pomodori nostra-ni? Un olio qualsiasi (a basso o nullo contenuto di olive) op-pure un olio pugliese, toscano, o ligure? Allo stesso costo, preferireste un prodotto «standardizzato» e geneticamente modificato (se non peggio) «offerto» da una multinazionale, o un prodotto semi/artigianale italiano? La cucina italiana, inse-gna. La dieta mediterranea è famosa al mondo: tutti ce la invi-diano, cercando di imitarla.

Altri settori? La moda, e tutta la tradizione sartoriale e ar-tigianale dell’abbigliamento, comprese la pelletteria e l’azien-da calzaturiera; la manifattura (ad esempio quella ceramica e del vetro); l’oreficeria; l’ottica; la meccanica e l’industria «di precisione»; il turismo...

Quanto è bella la nostra Italia, artisticamente e paesaggi-sticamente, con quel clima unico, le tante e variegate tradizio-ni folkloristiche, la simpatia e la cordialità ospitale del suo popolo, e quella splendida cucina, che per farla bastano tre prodotti dell’orto e una fetta di pane! Le esportazioni in gene-rale e il Made in Italy in particolare prenderebbero notevol-mente campo, offrendo un’elevata possibilità di crescita alle aziende (piccole e medie imprese) attualmente in crisi.

L’ingegno. Quanti verranno ad investire qui, dove i nostri grandi cervelli costeranno meno dei corrispettivi inglesi, fran-cesi o tedeschi?

Quei «signori» temono la nostra uscita dall’euro per la nostra competitività a basso prezzo, per far fronte alla quale dovrebbero anch’essi svalutare la loro forte moneta unica, riducendo i guadagni dei loro grandi investitori.

La nostra moneta nazionale, di proprietà personale e non della BCE, sarebbe emessa a credito, non prestata a debito. Attualmente, il meccanismo che genera il denaro non crea quello necessario per pagare gli interessi sul prestito, quindi il debito diventa matematicamente inestinguibile. Per restituire gli interessi, lo Stato non ha altra scelta che tassare i cittadini. Con la moneta nazionale (signoraggio zero) non essendo alto il deficit debito/PIL, si potrebbe perfino far fronte al paga-mento del debito pubblico, e chiuderla per sempre con gli speculatori finanziari. Non a caso, la Lettonia sta ripensando seriamente alla sua entrata nell’euro zona, e la Bulgaria ha rinunciato.

Infine, l’uscita dell’Italia dall’euro potrebbe indurre anche altri Stati europei (come la Grecia, la Spagna, il Portogallo) a fare altrettanto, frantumando la moneta unica, e forse indu-cendo la Germania a tornare al marco. Scenario monetario che affonderebbe la nazione, essendo gran parte del PIL tede-sco basato sull’esportazione.

Ecco smascherato il teatrino che, a forza di rigore e di au-sterity, consente a questo Stato di tenere sotto torchio i Paesi più deboli («maiali» europei), ecco finalmente evidente quel-lo che accade dietro le quinte.

Il primo attore (Euro) si toglie la maschera, il trucco, il costume… Il suo vero nome è Marco, nazionalità tedesca. A guardarlo bene, non sembra nemmeno tanto diverso dal per-sonaggio della rappresentazione.

Ah, ah, ah. Li abbiamo scoperti. Non lasciamoci fregare.

DI QUESTI tempi, in Italia non c’è tema più controverso, nelle discussioni tra economisti e politici, che quello della spesa pubblica. C’è chi dice che il nostro Paese non ha per nulla una spesa primaria elevata in rapporto al PIL e chi, invece, non a torto, fa osservare come lo spreco di risorse pubbliche sia difficilmente contestabile.

In realtà, se diamo retta ai numeri, la spesa primaria rispetto al PIL ci colloca, in una graduatoria stilata da sog-getti istituzionali (MEF, La spesa pubblica in Europa - 2013) al tredicesimo posto tra i ventisette Paesi dell’UE. Addirittura, andando più nel dettaglio nei servizi generali siamo al quattordicesimo posto, nella difesa siamo al sesto posto, nell’ordine pubblico siamo all’ottavo, negli affari economici al ventiduesimo, nella protezione dell’ambiente al decimo, nella spesa per abitazioni e territorio al dodice-simo, nella sanità al decimo, nelle attività ricreative e cul-turali al ventisettesimo, nell’istruzione al ventitreesimo, nella protezione sociale al sesto. In tal caso i dati vengono da fonte istituzionale e secondo la classificazione COFOG (Classification of the Functions of Government).

Anche se consideriamo la spesa in termini assoluti ve-diamo che la nostra spesa pro-capite primaria (11.723 eu-ro) è più bassa di quella della Germania (13.557), della Francia (16.536), del Regno Unito (12.617).

Se osserviamo le dinamiche fondamentali degli anni più recenti (dal 2000 al 2012 - Fonte Bankitalia) constatiamo che essa è passata dal 38,5 per cento al 45,2 per cento in rapporto al PIL (+6,7 per cento - un dato fortemente influenzato dalla perdita di 7 punti di PIL dopo la crisi del 2008), la Francia dal 48,8 per cento al 54 per cento (+5,2 per cento), la Spagna dal 36 per cento al 44,1 per cento (+8,1 per cento), il Regno Uni-to (la patria della spending review) dal 34,1 per cento al 45,5 per cento (+11,4 per cento), la Germania dal 41,9 per cento al 42,5 per cento (+0,6 per cento) e gli Stati Uniti dal 30,2 per cento al 38,7 per cento (+8,5 per cento). Se osserviamo l’an-damento della spesa primaria pro-capite dal 2000 al 2011 (dati MEF) l’Italia è passata da 8.318 Euro a 11.723 Euro (+3.105), la Francia da 11.570 a 16.536 (+4.786), la Spagna da 5.625 a 9.842 (+4.217), il Regno Unito da 9.262 a 12.617 (+3.305) e la Germania da 10.438 a 13.557 (+3.119).

In definitiva, sembrerebbe, che rispetto alla media UE, il nostro Paese sia sempre stato al di sotto mediamente di un punto percentuale, con l’unica eccezione del 2006 (43,9 per cento contro 43,6 per cento).

Se le cose stanno effettivamente in tal modo perché quelle infinite discussioni sulla spesa senza controllo cui assistiamo nei talk show serali di tutte le televisioni nazionali?

Insomma, cominciamo a dire che le critiche che ci sen-tiamo proporre si appuntano in particolare con riferimento alle pensioni, alla spesa sanitaria, ed alla spesa per interes-si sul debito pubblico. Affrontiamo dunque prima le due voci di spesa primaria, e tralasciamo per il momento gli interessi pagati sul debito pubblico, su cui anche tantissi-mo si discute. La spesa pensionistica (pensioni di vec-

IL LIMONE

è spremuto

di ENEA FRANZA

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chiaia, anzianità, invalidità, reversibilità e sussidio di mo-bilità) in Italia in rapporto al PIL si attestava nel 2012 al 16 per cento del PIL ed oltre ad essere particolarmente ele-vata in valore assoluto è la più elevata in Europa.

La spesa sanitaria, invece, pur essendo la principale voce di spesa primaria non pensionistica se la si confronta con quella di altri Paesi europei ed extraeuropei, risulta inferiore non soltanto a quella britannica, tedesca e france-se, ma anche a quella giapponese ed addirittura a quella americana e, questo, con risultati in termini di efficacia che sembrerebbero posizionarla (strano a dirsi) tra i migliori sistemi sanitari al mondo.

Discorso del tutto diverso va fatto invece, sulla spesa per interessi pagata dal nostro Paese negli ultimi anni. Per pagare gli interessi sui titoli del debito pubblico italiano - per l’84 per cento in mano a banche, assicurazioni e fondi di investimento italiani e stranieri - si è passati dai 78 mi-liardi pagati dallo Stato nel 2011 agli 89 nel 2012. Le proiezioni elaborate dal MEF (Ministero Economia e Fi-nanze) ci dicono che si salirà a 95 miliardi nel 2013, per arrivare a quota 99,808 nel 2015.

Il confronto con altri Paesi europei evidenzia uno scar-to medio nel 2012 e 2013 di 100 punti base. Da segnalare che la riduzione, precisamente, di 1 punto percentuale del tasso di interesse nominale ci consentirebbe di raggiungere la media dei 17 Paesi dell’euro e di risparmiare 20 miliardi di euro l’anno di interessi passivi. Una cifra che rappresen-terebbe ossigeno puro per l’economia italiana.

Tutto sommato viene spontanea una domanda, anziché limitarsi a sperare nella discesa dello spread, il Governo non dovrebbe esercitare un ruolo attivo nei confronti delle istituzioni sovranazionali e dei mercati per mettere fine alle speculazioni finanziarie ?

Forse, se si procedesse in tal modo staremmo meglio un po’ tutti. Ci aiuta la scienza economica. I testi d’econo-mia, infatti, insegnano che, in una fase di crisi economica, lo Stato ha il compito di sostenere il Paese attraverso la spesa pubblica.

CRESCE la disoccupazione, il precariato, le diseguaglianze e avanza il declino del ceto medio. Dal biennio 2007-2008 si sono succedute, e a volte sovrapposte, la crisi finanziaria mondiale, la crisi delle banche, i debiti sovrani e i derivati fino a mettere in discussione, in un dibattito ancora lungi dall’esaurirsi, i sistemi di misura usualmente utilizzati.

Jean-Paul Fitoussi, economista francese, attento ai de-stini economici dell’Europa, lancia la sua accusa sostenen-do che si tratta di una situazione causata da errori ripetuti perché l’approccio all’economia è simile alla storiella del lampione. Quale? Una sera, un signore girava sempre in tondo sotto il cono di luce di un lampione. Girava sempre su se stesso, per minuti e minuti. Quando un passante gli chiese cosa stesse facendo, lui spiegò che stava cercando le chiavi che aveva marrito ma non era sicuro di averle smarrite proprio lì. Il passante gli chiese perché, dopo tan-to tempo, proseguisse inutilmente la ricerca soltanto in quel luogo. Il signore disse che soltanto lì c’era luce.

Un modo come un altro per dire che i sistemi di valuta-zione e misurazione delle questioni economiche non ter-rebbero conto delle dinamiche, a volte mutevoli, della realtà. Il mondo moderno ci ha abituati a una visione della vita legata al progresso, alla crescita infinita (che di per sé è una contraddizione). La difficoltà a comprendere i fattori della crisi dipenderebbero da questa differenza di piani: si

È FRUTTO del liberismo

di MANLIO TRIGGIANI

CRISI DELL’EURO E DELL’EUROPA

40 IL BORGHESE Gennaio 2014

immobiliare. Risultato, con riflessi pesanti su larga scala, la distruzione del risparmio causata da investimenti ineffi-cienti e mal valutati.

Il risultato, sotto gli occhi di tutti, riguarda un arricchi-mento diffuso, ma di pochi, che ha accentuato ineguaglian-ze e la tendenza alla «debolezza strutturale della doman-da», cioè alla possibilità molto ridotta per la gente di ac-quistare. A tutto questo si aggiungano le politiche «pesanti» del Fondo monetario internazionale che hanno spinto le persone a risparmiare il più possibile per tutelarsi da un futuro incerto, rendendo ancora più bassa la doman-da.

In questa situazione, l’Unione Europea vive, anche, una crisi dei debiti sovrani e bancaria, strettamente legata e causata dal «vuoto» che deriva dal fatto che l’Europa ha ceduto la sovranità a organismi sovranazionali. Risultato: la scelta delle politiche economiche è più simile a una ge-stione condotta da autorità indipendenti dalla democrazia come sistema che a un processo decisionale politico. Per dirla con Fitoussi, c’è «da un lato una legittimità senza strumenti, dall’altro strumenti senza legittimità».

Proprio queste politiche economiche hanno poi ulteriori riflessi deflagranti se si pensa che l’adozione della stessa moneta, l’euro, sta scatenando il malcontento e non soltan-to nell’ambito di movimenti populisti. Proprio in queste settimane infuria in Francia una polemica sull’euro e sulla necessità di rottamare la moneta europea. Non si tratta del-la polemica lanciata dal Front National né da sindacati e nemmeno da movimenti populisti come quelli di Bové ma semplicemente di un docente universitario molto stimato, federalista, l’economista François Heisbourg che nel libro La fine del sogno europeo lancia una circostanziata critica all’euro e anche al percorso utilizzato per giungere a unire dal punto di vista monetario (ma non ancora politico) un continente di primo piano come l’Europa. È vero che la cattiva gestione socialista di François Hollande ha degli strascichi, è vero che Marine Le Pen sta guadagnando con-sensi ovunque ma anche la crisi strisciante che avvicina la Francia ai Paesi in crisi (una volta definiti «pigs»: Porto-gallo, Italia, Grecia e Spagna) acuisce le polemiche.

Sono i segni del disagio di una politica monetaria im-posta, di fatto, dalla Germania. In altre parole, si temono rivolte di piazza, ritorno agli «anni di piombo», crisi pe-santi, ecc. Ecco perché «la moneta unica in un’Europa senza un governo federale porta instabilità, squilibrio, sta-gnazione», per dirla con Heisbourg. Insomma, se i buro-crati francesi avevano seri dubbi sulla funzione dell’euro, se la gente è stufa del ridotto potere d’acquisto e della crisi diffusa, ora anche un docente, favorevole all’Europa, dice la sua contro l’euro nell’attuale assetto economico.

Non ha raggiunto, almeno per ora, senza un governo federale, la sicurezza, la stabilità e la prosperità previste, anzi l’euro è vista come un freno allo sviluppo e al benes-sere. La soluzione, per l’economista francese che è sempre stato sostenitore della moneta unica, può essere un’azione franco-tedesca coordinata con la Banca centrale europea per abbandonare l’euro e ritornare alle monete nazionali. L’euro è nato troppo in fretta, sarebbe stato necessario far nascere prima un governo federale

Insomma, una soluzione va trovata: il dato che lascia pensare è proprio che l’euro aveva come scopo un’econo-mia comune e avrebbe dovuto anche avvicinare i Paesi eu-ropei in uno scenario di politica economica ormai a livelli continentali con gli USA e ora anche il colosso Asia che cresce notevolmente ogni anno.

analizza partendo da concezioni economiche liberiste ben definite con le quali interpretare tutto (il cono di luce del lampione) senza vedere i guasti e gli errori (che sono fuori dallo spazio illuminato) contribuendo ad aggravare una situazione che rende il mondo, un luogo con problemi di sopravvivenza sempre maggiori.

La tesi centrale, pertanto, è che i «riflettori» sono rivol-ti nella direzione sbagliata e consentono di vedere una zo-na nella quale non ci sono problemi. Risultato, il mantra economico liberista parla con sicurezza di stabilità dei prezzi e di mercati concorrenziali, situazioni che non sa-rebbero provate e i fatti lo dimostrano. Risultato, la crisi aumenta comunque.

Altro problema non secondario è che l’economia liberi-sta di fatto si richiama a una sorta di teoria nella quale non c’è bisogno della politica. Anzi è l’economia che detta l’a-genda politica e anche le priorità. Quando in piena crisi, l’anno scorso, il presidente del Consiglio Mario Monti ri-cevette dalla Banca centrale europea il decalogo di priorità economiche e riforme da attuare, quello era il mandato di eseguire certe operazioni, in tempi brevi. In altre parole, l’agenda politica era decisa altrove, la sovranità nazionale era stata «appaltata» agli gnomi della BCE. Invece, do-vrebbe essere la politica nazionale a dettare le istanze e gli obiettivi del programma economico.

Fitoussi, e altri economisti, sostengono che solitamente i mercati non determinano prezzi corretti, le bolle sono realtà e dal 2008, la finanza mostra il suo volto irragione-vole, creando ipotesi che non hanno riscontro con la realtà, come per lo scandalo dei subprime: non chiedevano solvi-bilità alle famiglie debitrici che investivano nel mercato

FOTOGRAFIE del

BORGHESE

STANGATA ESEGUITA! LETTA «RIDENS» (Nella fotografia, Enrico Letta)

VECCHI FUSTI - PER FARE LA RIVOLUZIONE OCCORRE PENSARE (Nella fotografia, Lev Trotsky)

NUOVI FUSTI - NON A TUTTI RIESCE (Nella fotografia, Beppe Grillo)

IL GOVERNO DELLO «ZIO TOM» - DOPO L’ABBRACCIO DI LETTA . . . (Nella fotografia, Enrico Letta e Cécile Kyenge)

. . . FINIRÀ PER MONTARSI LA TESTA (Nella fotografia, Cécile Kyenge)

«BANKITALIA» SVENDESI - MENTRE I MANDANTI SE LA RIDONO . . . (Nella fotografia, Christine Lagarde, Presidente del «FMI», e Olli Rehn,

Commissario europeo per gli Affari economici)

. . . L’ESECUTORE PREGUSTA LA SUA LIBBRA DI CARNE (Nella fotografia, Fabrizio Saccomanni)

MILANO - CROLLA IL «CLAN DEI SICILIANI» . . . (Nella fotografia, Salvatore Ligresti)

. . . IL SOPRAVVISSUTO (Nella fotografia, Ignazio La Russa)

LA DESTRA HA TRADITO IL SUO POPOLO . . . (Nella fotografia, Gianni Alemanno e Angelino Alfano)

. . . MA HA ANCORA FAME DI POLTRONE

IL «BALENOTTERO BIANCO» - IL «CICLONE» SI È GIÀ AMMOSCIATO (Nella fotografia, Matteo Renzi)

IL MEGLIO DEL BORGHESE Gennaio 2014

IN TEMPI di carestia, tentar di fare i «conti in tasca» a chi comanda, non è sbagliato; anzi, è doveroso. Non foss’altro per verificare se risponda a verità il sospetto dei più: e cioè che l’Italia sia una repubblica fondata sullo sciopero e di-visa in due Nazioni, i privilegiati da una parte, il popolo dall’altra.

A questo andavo pensando nei giorni scorsi, mentre consideravo le severe parole di Ugo La Malfa contro l’ec-cesso della spesa pubblica e riflettevo sugli inviti all’auste-rità rivolti ai cittadini dai volonterosi leccapiedi della tele-visione di Stato. Mi tornò alla mente, così, un episodio ac-caduto nel novembre del 1972, quando fu approvato il de-creto delegato per i nuovi stipendi agli alti burocrati: quelli che vennero definiti «i funzionari tutti d’oro».

Fu, quello, uno dei molti momenti difficili del Governo Andreotti, di cui del resto già si avvertiva prossima la fine e che ricorreva a tutti i mezzi per tenersi a galla. Il 14 no-vembre, rilevo dalle mie note, m’era giunta a casa una let-tera anonima ciclostilata, che accusava la Presidenza del Consiglio di organizzare attentati «di destra»; il 15 e 16, in Parlamento non si discuteva d’altro. Le discussioni sul de-creto per i «superburocrati» si intrecciarono, nei corridoi di Montecitorio e di Palazzo Madama, ai commenti su quella lettera, giunta in modo misterioso alla maggior par-te dei deputati e dei senatori. Nessuno, ricordo, sembrava prestare molto credito alle smentite ufficiali, del resto pre-vedibili; piuttosto, tutti apparivano curiosi di capire dove e come si fossero trovati i mezzi e gli uomini adatti per un lavoro di provocazione tanto delicato.

In questo clima, il giorno 16 novembre un Sottosegre-tario molto vicino al Presidente del Consiglio volle veder-mi, in Senato, per illustrarmi la assoluta innocenza del «divo Giulio». Il discorso non mi convinse. La conversa-zione si spostò, così, su altri argomenti ed io, ripigliando quanto era già stato osservato da altre parti, dissi: «Adesso, con i nuovi stipendi per l’alta dirigenza statale, anche voi Sottosegretari, e i Ministri, e il Presidente del Consiglio, avrete un bell’aumento». «Vedrai», fu la rispo-sta, «Giulio non casca in una trappola del genere. Qualche cosa farà.»

E, infatti, il 18 novembre 1972 tutti i quotidiani italiani pubblicarono questa nota, che era stata diffusa dalla Presi-denza del Consiglio nella serata del 17: «L’equiparazione degli stipendi dei membri del Governo agli stipendi dei primi due gradi di funzionari statali, è in atto da vent’an-ni. Il recente decreto delegato sulla dirigenza fissa però un nuovo principio per tutti gli statali: la onnicomprensività, nello stipendio, di ogni voce retributiva a carico dello Sta-to. È quindi da ritenersi che da ora innanzi i membri del Governo non percepiranno più l’indennità parlamentare, o non percepiranno lo stipendio ministeriale. Essi quindi, dopo il decreto delegato, non solo non avranno vantaggi economici, ma avranno comunque una sensibile diminu-

zione di stipendio effettivo. Se non fosse chiara questa non cumulabilità - come sembra ritengano gli autori di alcuni scandalizzati commenti di stampa - si provvederà certa-mente ad emanare, tempestivamente, una norma interpre-tativa».

A quell’epoca, il Presidente del Consiglio «cumulava» ad una indennità parlamentare calcolata in 950.009 lire circa, uno stipendio «da statale» di circa 700.000; un Mini-stro, «cumulava» uno stipendio «da statale» di circa 470.000 lire; un Sottosegretario «cumulava» circa 460.000 lire.

Dal canto loro i Presidenti delle due Camere, oltre a disporre dell’alloggio a Montecitorio e Palazzo Madama, della automobile e dei relativi servizi, «cumulavano» con l’indennità parlamentare uno stipendio mensile (sempre a spese dello Stato) di circa 750.000 lire; i Vicepresidenti, «cumulavano» circa 500.000 lire al mese; i Questori, circa 490.000; i Segretari e i Presidenti delle Commissioni par-lamentari, circa 350.000 lire.

La nota della Presidenza del Consiglio era importante. Infatti, come scrisse il 18 novembre il Corriere della Sera, «fino a quel momento nessuno aveva chiarito che ai mem-bri del Governo, [e quindi anche alle altre «autorità», ag-giungo io] non sarebbe stata più corrisposta l’indennità parlamentare; anzi, in base all’articolo 50 del decreto de-legato in corso di registrazione, venivano esclusi dal cu-mulo soltanto ‘le indennità, i proventi ed i compensi dovu-ti a qualsiasi titolo in connessione con la carica o per pre-stazioni comunque rese in rappresentanza dell’amministra-zione di appartenenza’. Le indennità parlamentari», con-cludeva il Corriere, «potevano dunque essere ritenute cu-mulabili».

Insomma; secondo il quotidiano milanese, Andreotti era andato oltre il dovuto: a lui, ai suoi colleghi di gover-no, alle altre «autorità» che avevano deciso stoicamente di piegarsi alla legge «anti-cumulo» pur senza esservi obbli-gate, andava il rispetto e l’ammirazione della Patria.

* * *

Da quei giorni, più di un anno è passato. Nel clima

d’austerità in cui ci ha fatto piombare l’incapacità del Go-verno e dei suoi «tecnici», ho voluto controllare cosa ac-cadde dopo quelle promesse. E ho scoperto che non furono mai mantenute.

Alla Camera e al Senato, i Presidenti, i Vicepresidenti e tutti gli altri continuano, tranquilli, a «cumulare». La «norma interpretativa» che (aveva detto Andreotti nel no-vembre 1972) «si provvederà certamente ad emanare, tempestivamente», per impedire il «cumulo» da parte dei membri del Governo, non è mai stata resa pubblica. Nel frattempo, gli stipendi dei primi due gradi dei funzionari statali (ai quali sono equiparati Ministri e Sottosegretari) sono cresciuti: sicché il «cumulo» oggi è, probabilmente, ancor più succulento. E il Ministro del Tesoro, La Malfa, sempre tanto severo con gli altri, che ne dice? O forse l’impegno preso da Andreotti è stato dimenticato in nome del ritorno alla filosofia del centrosinistra?

Non lo so, ma penso che un chiarimento ufficiale su tutta la materia sia doveroso. È ben vero che il promettere sempre è meglio che mantenere, perché la speranza è molto più dura a morire della riconoscenza; ma è anche vero che la gente, di certi sistemi, comincia ad averne abbastanza.

(il Borghese, 13 gennaio 1974)

«Cumulisti» giganti

di MARIO TEDESCHI

IL MEGLIO DEL BORGHESE Gennaio 2014

per qualcuno L’Espresso se ne uscì con la sensazionale rive-lazione, bloccando così la parte finale dell’operazione. Il pe-rito d’ufficio, guarda caso, era proprio Francesco Greco, di cui allora Spagnuolo si fidava.

Spesso e volentieri il PG ha puntato la sua lupara (intendiamoci: la lupara della legge) su alcuni funzionari del Ministero dell’Interno. Non dimentichiamo che per lo scandalo delle intercettazioni figura tra gli imputati l’ex commissario Beneforti, amico fraterno di Angelo Manga-no, il questore che, secondo l’accusa, avrebbe indotto un suo confidente, Salvatore Ferrara, a denunciare il Procura-tore generale.

Insomma, l’intreccio è difficile da districare; anche se, a mano a mano che si sviluppano le iniziative, si chiarisco-no gli schieramenti e alcuni nemici, prima occulti, sono costretti a giocare allo scoperto.

La data di inizio della guerra non si conosce. In essa gioca un ruolo determinante Frank Coppola; detto «tre di-ta», un boss mafioso riconosciuto. Tornato dall’America (o meglio, espulso) Frank si stabilisce a Pomezia, sul litorale romano. Quando Liggio beffa Polizia e Carabinieri fug-gendo, dopo una sosta in una clinica romana, Angelo Man-gano, che - già una volta era riuscito a far cadere in trappo-la il boss (ma in proposito c’è una meschina polemica con i Carabinieri), decide di riacciuffare il «re di Corleone». La Procura concede l’autorizzazione a mettere sotto con-trollo il telefono di Coppola a Tor San Lorenzo, vicino Po-mezia, nella speranza di risalire attraverso «tre dita» a Lu-ciano Liggio. Si accumulano così le prime bobine, croce e delizia delle più importanti istruttorie di questi ultimi anni.

La Polizia intercetta, trascrive e consegna il materiale raccolto al magistrato. Coppola non sa niente di Liggio, ma in compenso scopre alcune sue carte politiche. Si viene a sapere che ha «agganci» politici nella Regione Lazio, che è riuscito ad ottenere mutui dalla Cassa del Mezzogior-no, che ha una certa possibilità di movimento con le aree fabbricabili.

Salta fuori qualche nome di politico. Si parla dello scandalo dell’ANAS e di altri intrallazzi. Frank viene arre-stato per l’affare dei centoquattordici mafiosi, dopo l’ucci-sione del dottor Scaglione, il Procuratore della Repubblica di Palermo assassinato in Via dei Cipressi, nel capoluogo siciliano.

Mangano gli sta addosso. Scoppia lo scandalo delle bo-bine. Le intercettazioni delle telefonate di Coppola finiscono alla Commissione parlamentare «antimafia». Anzi: prima scompaiono, poi tornano alla ribalta. Si ritrovano negli ar-chivi di Palazzo di Giustizia, tra gli atti di un processo relati-vo ad altra persona intercettata, tale Marchese, nel quadro delle ricerche di Liggio. La copertina di questo fascicolo è stata scritta ex novo. Si fa una inchiesta interna per ricostrui-re il passaggio delle bobine, ma le conclusioni non vengono mai rese pubbliche. Sarebbe interessante sapere chi ha avuto per le mani questo materiale scottante e come mai il fascico-lo «Marchese» è stato manomesso.

Viene accertato che tutte le bobine sono state manipola-te. Delle due l’una: o è la Polizia, o è la Magistratura roma-na, che ha modificato il contenuto dei nastri. Da questa alter-nativa non si sfugge. Mancano dalle bobine tutti i nomi delle personalità che erano in contatto con Coppola e che si inte-ressarono dei suoi affari, condotti attraverso il consulente Italo Jalongo.

La guerra a Palazzo di Giustizia continuerebbe in sordina se; a questo punto, Angelo Mangano non venisse ferito in un

ROMA - È scoppiata la guerra al Palazzo di Giustizia. Da una parte il Procuratore generale della Corte d’Appello, Car-melo Spagnuolo, un magistrato siciliano di altissimo presti-gio e tuttavia discusso in molte occasioni; dall’altra un cen-tro di potere occulto, ma non tanto, che conta anche a Piaz-zale Clodio qualche pedina di rilievo. Diventa sempre più difficile orientarsi nel groviglio dei giuochi e degli interessi. La guerra, infatti, si combatte soprattutto dietro le quinte e i protagonisti sono spesso manovrati come burattini. Risalire a chi tiene le fila è compito del Procuratore generale, impegna-to ormai nella difesa della sua onorabilità, posta in discussio-ne da un’offensiva che ha ispirazioni diverse e spesso con-trastanti.

Prima di affrontare, per quanto possibile, i retroscena, è necessario ricordare i protagonisti della vicenda, i dati uffi-ciali e le iniziative affidate alla carta da bollo.

Il Procuratore generale Spagnuolo, ricchissimo di fami-glia, in possesso del più riposti segreti della vita politica del nostro Paese negli ultimi trenta anni, ben visto sul Colle, è passato indenne attraverso le tempeste delle «bandiere om-bra»; è un uomo potente e con molte amicizie, grazie anche alla riconoscenza a lui dovuta in molti ambienti, da quelli industriali milanesi a quelli politici romani. Anche fra i ma-gistrati Carmelo Spagnuolo, attaccato in maniera brutale (rimprovera soprattutto ai suoi nemici la mancanza di stile) conta amici fidati e qualche nemico giurato. Un paio di que-sti si annidano nella stessa Procura della Repubblica e po-trebbero essere il terminale di un cervello che dirige i movi-menti da lontano.

Francesco Greco, ex commissario di PS, tecnico di elet-tronica, odia Carmelo Spagnuolo. Una mattina, dopo essere stato indiziato di reato, si presentò in preda ad una crisi di nervi al Palazzo di Giustizia e minacciò di uccidere. Non c’è nemmeno bisogno di dire a chi era rivolta la minaccia. Tutti sapevano e sanno che Francesco Greco è disposto a qualsiasi cosa pur di vedere il nemico nella polvere.

Gli altri nemici sono per lo più occulti, ed è molto diffici-le individuarli. Per evitare errori di valutazione, è quindi pre-feribile parlare di «non amici». Il Pubblico Ministero Clau-dio Vitalone, ad esempio, è indubbiamente uno di quei magi-strati che, quando il collega superiore Carmelo Spagnuolo è stato così duramente attaccato e poi denunciato, non si sono strappati le vesti per la disperazione. La ruggine fra i due magistrati è di vecchia data: è una guerra sorda condotta in questi ultimi anni e cominciata il iorno in cui il Procuratore della Repubblica avocò l’istruttoria per lo scandalo della RAI-TV, togliendola letteralmente di mano al sostituto Procurato-re, che aveva già pronti quarantatré ordini di comparizione per tutta la banda di viale Mazzini.

Neppure al Viminale Carmelo Spagnuolo è molto amato. Fu lui, infatti, a dirigere l’inchiesta sulle intercettazioni tele-foniche, attraverso il Pretore Infelisi. Quando si stava giun-gendo al centro d’ascolto dell’Ostiense, provvidenzialmente

«Tre Dita» e i suoi «amici»

IL MEGLIO DEL BORGHESE Gennaio 2014

agguato dinanzi alla sua casa. Uomini armati sparano contro di lui e contro l’autista. Il questore se la caverà senza gravi danni. Appena in condizione di stare in piedi, Angelo Manga-no va a trovare a Pomezia Frank Coppola che ha vicino un fido (o almeno una persona ritenuta tale), Salvatore Ferrara, che in realtà è un confidente del questore. Mangano contesta a Coppola l’attentato e si mette alla ricerca dei sicari. È con-vinto che il boss mafioso gli abbia mandato i due uomini per assassinarlo e il funzionario esperto in registrazioni su nastro si presenta al giudice istruttore Ferdinando Imposimato con una bobina. Da essa risulterebbe che, nel corso di una conver-sazione con lui, Coppola lo ha minacciato.

I due sicari sono indicati dal confidente, cioè da quel Ferrara che è uomo di fiducia di Mangano, in Sergio Baffi e Ugo Bossi, due milanesi assoldati per uccidere. Sicari e mandante sono in carcere per tentato omicidio. Rischiano grosso. Coppola si proclama -innocente, vittima di una con-giura. Quando il giudice sta chiudendo l’inchiesta, sbotta e accusa: «Non avevo alcun motivo di uccidere o far uccidere Angelo Mangano, perché il questore era un mio uomo. Lo avevo corrotto. Ho dato a due suoi emissari diciotto milioni (me ne aveva chiesti cinquanta) perché cancellasse dalle in-tercettazioni telefoniche i nomi delle persone amiche che mi hanno aiutato nel mio lavoro di imprenditore. Ho le prove bancarie di quanto dico. Inoltre, la bobina relativa alla mia conversazione con Mangano, quella delle presunte minacce, è stata manipolata. Prima di parlare del suo attentato, Man-gano mi chiese altri soldi in cambio della manipolazione delle bobine ».

Partita la accusa, scatta, come vuole la legge, l’indizio di reato per Angelo Mangano. Corruzione e falso. Le accuse di Coppola hanno un riscontro: le bobine sono state manipola-te; quella della conversazione fra il questore e il boss deve essere ancora esaminata, ma già si sa che mancano perlome-no cinquantotto secondi di conversazione. In banca risulta che Coppola ha prelevato i diciotto milioni che sostiene di aver dato ai due emissari del «dottore».

L’ora della verità sembra vicina. Si arriverà finalmente a sapere chi ha manomesso le bobine, quali sono i collega-menti fra mafia politica e pubblici poteri? Nulla di tutto que-sto. Il giuoco si complica: c’è chi ha interesse a stendere cor-tine fumogene. I nemici di Spagnuolo a Palazzo di Giustizia e altrove trovano un punto di accordo. Il pericolo fa dimenti-care le rivalità, i dispetti, gli odi antichi.

Attacca Salvatore Ferrara, il confidente di Mangano. Ac-cusa Spagnuolo di essere stato il tramite fra il Questore e Coppola nell’affare dei diciotto milioni: era l’alto magistrato che aveva interesse a coprire gli interessi politici, a far spari-re i nomi di coloro che erano in collusione con i boss di Po-mezia. Una accusa tanto infamante quanto non dimostrata.

Francesco Greco fa eco con altra denuncia: Spagnuolo ha avvertito il comunista professor Spallone, titolare di «Villa Gina» (la clinica presso la quale Coppola era ricove-rato) che il telefono era controllato. A Palazzo di Giustizia si vivono momenti di tensione altissima.

Spagnuolo invita i suoi fidi alla calma. Ha passato altre tempeste e non crede che la Procura e l’Ufficio istruzione prendano per buone le accuse di un confidente di non spec-chiata virtù e di un consulente che è stato indiziato di reato per la questione della microspia rinvenuta nell’ufficio del giudice istruttore Renato Squillante.

Il sostituto Procuratore De Nicola chiede, invece, al giu-dice istruttore di rimettere gli atti alla Cassazione per proce-dere o contro Carmelo Spagnuolo o contro i suoi accusatori

per calunnia. E Imposimato non può non accogliere la ri-chiesta: quando, infatti, un magistrato viene denunciato, il processo deve essere spostato, per legge, dalla sede dove il giudice svolge le sue funzioni.

I nemici di Spagnuolo hanno ottenuto cosi due risultati: hanno per il momento salvato la posizione di Mangano, evi-tando pericolose indagini sulla vicenda delle bobine manipo-late e delle intercettazioni; ed hanno messo in apparente dif-ficoltà, squalificandolo dinanzi- all’opinione pubblica, il Pro-curatore generale della Corte d’Appello di Roma, un magi-strato scomodo e in possesso di molti segreti.

Se la calma è la virtù dei forti, Spagnuolo è un forte. Tranquillo, il Procuratore generale ha deciso di passare al contrattacco. Ha denunciato per calunnia Ferrara e Greco. Le accuse del primo sono ridicole: non è pensabile che Spa-gnuolo, ricco del suo, si sia lasciato corrompere per danaro. Inoltre, e la circostanza taglia la testa al toro perché è confer-mata anche da Coppola, all’epoca delle intercettazioni per la cattura di Uggia, Spagnuolo era ancora a Genova dove eser-citava le funzioni di Procuratore generale.

Il professor Spallone, poi, ha smentito Greco: non fu av-vertito dal Magistrato, che non poteva essere al corrente del-la cosa, che il suo telefono era sotto controllo.

Intanto, però, il processo Coppola-Mangano è «saltato». L’insperato successo ha inorgoglito i nemici di Spagnuolo. Non sanno che la ritorsione sarà tremenda. La guerra è appe-na agli inizi. Ormai, però, per dirla come Il Padrino, «siamo ai materassi». Si parla di tentativi di far dirottare l’inchiesta per lo scandalo ANAS, in cui sono implicati democristiani e socialisti. Si parla della Montedison, altra patata bollente; si parla delle incredibili scarcerazioni dei terroristi arabi. I giuochi sono molti e conviene soltanto stare alla finestra per vedere come andrà a finire.

Una cosa è certa. La danza macabra intorno alle istitu-zioni in agonia ha per teatro anche il Palazzo di Giustizia di Roma, l’orribile edificio di piazzale Clodio.

F. D. (il Borghese, 20 gennaio 1974)

UNA MODIFICA CHE NON GUASTA (Giuliano Nistri, il Borghese 13 gennaio 1974)

IL MEGLIO DEL BORGHESE Gennaio 2014

ANCHE oggi la coscienza ci costringe a occuparci di una questione e a trattarla in modo che forse ci farà perdere alcune amicizie. Non ci risulta che molte persone si siano commosse per la sorte di Eichmann, nemmeno quelle che difesero Caryl Chessman. La gente non si commuove per questioni di giustizia, ma, nelle sue commozioni, va a sim-patia. Eppure il giurista dovrebbe occuparsi soprattutto di questioni giuridiche.

Lasciamo stare la questione della violazione della sovrani-tà argentina; questa riguarda soprattutto l’Argentina, ma non si può negare che essa pure sia una questione grossa.

Il problema che ci preoccupa è lo stesso processo che si vuole fare a Eichmann. Egli è accusato di avere stermi-nato un grande numero di ebrei, durante la guerra 1940-1945, quando lo Stato d’Israele non esisteva ancora. Se esiste un principio che ripugna a ogni giurista è quello del-la retroattività. Uno Stato che non esisteva al tempo in cui fu compiuto un delitto, come può arrogarsi la facoltà di procedere contro un individuo imputato di quel delitto?

Oh, Norimberga, quanto avevamo ragione di sospettare che la tua innovazione avrebbe aperto la porta a infiniti mali! Ma è sempre così, quando si transige col male; una concessione sbagliata fatta oggi condurrà domani ad una concessione maggiore, e così via.

Prima bisogna promulgare un diritto internazionale, ap-provato dal consorzio internazionale degli Stati dove delitti e sanzioni siano specificati singolarmente. Il diritto naturale può essere la base sulla quale si fonda il diritto positivo. Lo stesso Stato non procede sul fondamento del diritto naturale, ma su quello delle proprie leggi che definiscono i delitti da punire e le precise sanzioni comminate per punirli.

Eichmann avrebbe offeso la razza ebraica. Da quando in qua, la vittima del delitto acquista, come tale, il diritto di pro-cedere contro l’imputato? Lo può denunciare. In questo caso, vittima, tribunale e boia sarebbero una sola cosa.

Era stato proposto di celebrare un processo internazio-nale: il governo di Israele ha respinto l’idea. Questo Stato, che non è riconosciuto nemmeno dai suoi vicini, si è arro-gato il diritto di violare la territorialità di altri Stati per ra-pirvi individui e processarli per delitti che sarebbero stati commessi prima della sua creazione. All’istesso modo, chi scrive potrebbe, per esempio, se avesse scritto contro il progetto di formare uno Stato Siciliano, venire rapito, qua-lora nel corso del tempo lo Stato Siciliano si costituisse, e venire processato per alto tradimento contro uno Stato sor-to dopo il fatto!

Ma si tratta di un’accusa molto meno grave? Il princi-pio giuridico non può distinguere fra gravità e gravità. Il principio vale o non vale. Del resto, l’accusa di alto tradi-mento non è meno grave dell’accusa di omicidio. (Tutti parlano poi dell’accusato come se lo sapessero già colpe-vole!)

È una ipotesi inverosimile? Scegliamone una che lo sia meno.

L’URSS, se vincesse una guerra morale, non si vedreb-be autorizzata, dal precedente di Norimberga e da questi nuovi precedenti, a giustiziare immense categorie di citta-dini che hanno avversato la sua politica? Ma lo farebbe egualmente! Sarà, ma noi le avremmo fornito la giustifica-zione.

Quando tocchiamo questi argomenti, abbiamo la netta sensazione di parlare a una parete. Una nuova èra di barba-rie è già calata sul mondo. I concetti del diritto e della giu-stizia nati a Roma e formulati, sembrava per l’eternità, a Bisanzio, perfezionati dagli anglo-sassoni, sono scomparsi dalla mente umana. È tornato l’evo di ferro preconizzato da Esiodo.

Ora, in verità, esiste una razza di ferro, E gli uomini non si riposano dalla fatica E dal dolore di giorno, Né dalla morte di notte; E gli Dèi porranno grossi dolori su loro. ...La potenza sarà il loro diritto; Gli uni saccheggeranno le città degli altri. Non vi sarà favore per colui che rispetta il

[giuramento dato Ma gli uomini encomieranno il malfattore E la Nemesi, dolci forme avvolte in vesti bianche Lasceranno la Terra ampia, Abbandoneranno gli uomini; A noi resterà l’amaro dolore, E non vi sarà aiuto contro il male. ...Ah, fossi nato prima, Oh fossi già morto!

(il Borghese, 16 giugno 1960)

Il Mondo senza diritto

(Gianni Isidori, il Borghese 20 gennaio 1974)

41 IL BORGHESE Gennaio 2014

ti, importante, giacché il suo fallimento potrebbe determi-nare notevoli danni nei commerci con i Paesi limitrofi già aderenti all’Unione Europea, in particolare la Polonia la cui economia sta conoscendo in questi ultimi anni un notevole sviluppo. Epperò, il fallimento del vertice euro-ucraino di Vilnius del 28/29 novembre, sembra aver fatto emergere problematiche ben più rilevanti del solo interesse commer-ciale. E che trascendono anche i timori di quei politici ucraini che, pur senza essere propriamente filo-russi, temo-no che, in caso di ulteriore avvicinamento di Kiev alla UE, Mosca sospenda le forniture di gas a prezzi politici al siste-ma industriale del Paese «fratello». Minaccia che già all’in-domani della Rivoluzione Arancione del 2004 sembrò, per un momento, doversi concretare.

Questa volta, però, sul tavolo del Gioco vi è molto di più. Vi è, da parte di chi questo trattato ha osteggiato e, fi-nalmente, bocciato, la convinzione che l’abbraccio dell’Eu-ropa potrebbe risultare esiziale. Infatti, per la ratifica del Trattato in questione, la UE aveva posto alcuni paletti che avrebbero finito con il condizionare pesantemente non solo l’economia, ma la stessa politica interna dell’Ucraina. Un film, per altro già visto nell’Europa centro-orientale; e il caso dell’Ungheria ne è stato soltanto l’esempio più ecla-tante. Inoltre, a fronte di richieste pesanti e condizionanti, Bruxelles, oggi come oggi, sembra offrire sempre meno vantaggi a suoi eventuali soci e/o partner. La crisi dell’A-rea Euro non sta suscitando forti fremiti euroscettici soltan-to nell’Europa Mediterranea e Balcanica, ma sta comin-ciando a far riflettere anche i Paesi di regioni limitrofe che, sino a ieri, ambivano ad entrare o ad essere per lo meno in-vitati nel salotto buono dell’Europa. Salotto, oggi, sempre meno attraente, anche perché la politica imposta da un lato da Berlino, dall’altro dalla ristretta cerchia degli eurocrati, appare sempre più invasiva e penalizzante. Al punto che questo «salotto», agli occhi di molti «vicini di casa» appare oggi attraente come una camera mortuaria.

Per di più, entrare in Europa potrebbe significare per l’Ucraina esporsi a controlli sul proprio debito pubblico che aprirebbero la strada alla curiosità invasiva e pervasiva non di Bruxelles soltanto, ma anche, e soprattutto, della temuta Troika che gestisce il potere finanziario mondiale: la World Bank, l’FMI e la BCE. Una Troika che, come il caso Atene insegna, sembra sempre molto interessata a garantire gli interessi della grande finanza internazionale, e poco pro-pensa a tutelare quelli dei popoli e degli Stati. E in que-st’ottica, un Trattato di libero scambio rischia di divenire il grimaldello con cui scardinare l’indipendenza politica oltre che economica di uno Stato (fino a quel momento) sovrano. Perché, comunque, richiederebbe, come sempre ha richie-sto, la rinuncia a quote di sovranità nazionale. E se questo poteva sembrare accettabile nel passato, quando si pensava che l’Area Euro fosse destinata a divenire il Paradiso in Terra, oggi lo è molto, ma davvero molto meno.

Anche perché, oggi, all’Unione Europea si sta comin-ciando a contrapporre una nuova grande realtà geo-economica e, in prospettiva geo-politica: Unione Economi-ca Eurasiatica, che ha preso avvio con la creazione di un’u-nità doganale fra Federazione Russa, Repubblica del Kaza-khstan e Bielorussia. In prospettiva un Grande Spazio geo-politico ed economico al contempo, che sembra destinato ad attrarre interesse ed adesioni anche da Paesi che mai hanno fatto parte dell’Impero Russo prima e di quello So-vietico poi. Come dimostra che, non più tardi di tre mesi fa, Ankara ha avviato trattative - estremamente riservate - per sondare la possibilità di entrare a far parte della nuova

GRANDI manifestazioni di piazza a Kiev, all’inizio di Di-cembre. Manifestazioni che, a molti, hanno richiamato alla memoria quelle del 2004, la famosa «Rivoluzione Arancio-ne» che portò, quasi a furor di popolo, Viktor Yanushenko alla Presidenza della Ucraina. Analogia facile, perché, per altro, alcuni dei protagonisti di quella stagione sono ritor-nati, oggi, prepotentemente all’onore delle cronache. In particolare l’attuale Presidente, Viktor Yanukovich, il lea-der del partito filo-russo, oggi come nel 2004 oggetto prin-cipale delle proteste; e l’ormai vecchia pasionaria della Ri-voluzione Arancione, Julia Timoshenko, già a capo del Go-verno sotto la Presidenza di Yanushenko, poi travolta da scandali finanziari e finita in carcere con pesanti condanne per corruzione. La Timoshenko che mai ha rinunciato a proclamarsi innocente e perseguitata politica, e che non po-tendo più arringare di persona le folle manifestanti - come era usa fare nel 2004, quando divenne improvvisamente famosa, iniziando così la sua vorticosa e discussa ascesa politica - non più tardi dell’8 Dicembre scorso lo ha fatto comunque, con un lungo, e veemente, messaggio/proclama dal carcere, letto in Piazza Europa, dalla figlia. Ed è indub-bio che sia la Timoshenko, sia i principali leader delle altre forze d’opposizione che hanno aderito a queste proteste - fra i quali va ricordato il campione del mondo di pugilato Vitali Klitschko, oggi a capo del Partito Udar - stiano cer-cando, in ogni modo, di accreditare quello che in queste ore sta avvenendo a Kiev come un riproporsi della recente sto-ria trascorsa.

Tuttavia non ci si dovrebbe fermare alle apparenze. Certo, le forze in campo assomigliano molto a quelle che si scontrarono nel 2004; volendo semplificare, i filo-russi di Yanukovich, contro i filo-occidentali dell’opposizione. Che, per altro, entrambi tendono a rappresentare due distin-te regioni in cui si divide l’Ucraina: da un lato quella che da Kiev si estende verso Ovest, e centrata su Leopoli, per tradizione fortemente radicata nel nazionalismo ucraino, e per ragioni, ovviamente, geopolitiche oltre che culturali, portata a guardare verso l’Europa; dall’altro quella che si estende verso Est e Sud, dove la grande maggioranza della popolazione appartiene al gruppo linguistico russo, ed è quindi naturalmente portata ad appoggiarsi al Grande Fra-tello di Mosca. Di là di questa divisione potremmo dire cronica del Paese, vi è, però, una situazione oggi molto più complessa di quella che portò alla Rivoluzione Arancione. Una situazione che ruota intorno al problema sempre più spinoso delle relazioni fra Kiev e Bruxelles, cioè fra l’U-craina e l’Unione Europea. È stato, infatti, il rifiuto da parte della maggioranza parlamentare - sostanzialmente control-lata dal Partito delle Regioni di Yanukovich - di ratificare un importante Trattato di libero scambio con i Paesi della UE, sospendendo le trattative in corso da tempo, la miccia che ha acceso gli incendi di Dicembre. Un trattato, in effet-

UNO SPETTRO a Kiev

di ANDREA MARCIGLIANO

RIVOLUZIONE ARANCIONE

42 IL BORGHESE Gennaio 2014

Unione doganale, giocando soprattutto sugli eccellenti rap-porti - si potrebbe dire «di consanguineità» oltre che politi-co-economici - con il Kazakhstan. Trattative riservate, ma che devono essere giunte all’orecchio di più di qualcuno tra Berlino, Parigi e Londra, se è vero che, all’improvviso, da Bruxelles - dove sempre la Turchia era stata tenuta alla por-ta con diverse «scuse» - nuovi segnali di disponibilità sono cominciati a partire verso la potenza anatolica.

In questo scenario, apparirebbe logico che Kiev cercas-se di riavvicinarsi non tanto a Mosca, quanto a questa nuo-va Unione Eurasiatica che, anche sotto il rpofilo meramen-te economico, sembra dare garanzie per il futuro molto maggiori di quelle che può fornire oggi la UE. E senza pe-santi diktat politici e finanziari. Una prospettiva che, però, suscita molte preoccupazioni anche a Washington, dove si teme che questo possa segnare un ricompattarsi dell’antica potenza dell’Orso Russo. Anzi un suo crescere addirittura oltre le dimensioni che aveva al tempo degli Zar rossi. Di qui l’appoggio mediatico alle manifestazioni filo-europeiste di Kiev, che vengono enfatizzate sui Media occi-dentali ben al di là delle loro reali dimensioni. Come, per altro, è avvenuto per le Manifestazioni di Piazza Taksim ad Istanbul nel giugno scorso. Un’enfatizzazione che vede, per altro, tornare ad agire sulla scena ucraina alcuni soggetti internazionali che, già nel 2004, avevano avuto un ruolo non trascurabile nel destabilizzare il Paese. In particolare certe ONG dietro alle quali si muovono grandi gruppi fi-nanziari/speculativi internazionali, e che già più volte si sono molto spese nei Paesi ex sovietici per provocare cam-bi di regime e sommovimenti che destabilizzassero governi per altro regolarmente eletti.

ALL’INDOMANI della seconda guerra mondiale, la «cortina di ferro» spaccava in due l’Europa, la Germania e la città di Ber-lino. L’Unione Sovietica estendeva il suo dominio dai confini con la Finlandia, alla Germania Orientale (il territorio del vec-chio regno di Prussia); i confini del suo impero geopolitico passavano per Trieste e giungevano fino alla Bulgaria. Il resto dell’Europa cadeva sotto l’egemonia americana. Nella zona intermedia, la Finlandia, l’Austria e la Jugoslavia dopo lo strappo del maresciallo Tito rimanevano in una condizione in parte neutrale rispetto alle due superpotenze.

Nel 1989 il regime comunista crolla e con esso si sgretola l’impero geopolitico che Stalin aveva costruito attorno alla Russia. Nel corso degli anni Novanta la Russia attraversa un periodo di grande debolezza e gli USA ne approfittano per spostare in avanti i confini del proprio impero geopolitico, sotto la sigla della NATO. Tutta la fascia dell’Est Europa pri-ma soggetta alla Russia viene inserita nella NATO. Al contra-rio, la Serbia - erede della vecchia Jugoslavia - duramente

bombardata da Clinton alla fine degli an-ni Novanta assume una posizione anti-americana e riscopre le ragioni della soli-darietà slava e ortodossa. Nel primo decennio del Duemila, gli strateghi dell’amministrazione Bush pen-sano di dare un’altra stretta all’accerchia-mento della Russia: promuovono la rivo-luzione arancione in Ucraina e quella del-le rose in Georgia. L’uomo forte della Georgia, Saakashvili, ritenendo di essere sostenuto fino in fondo dalla forza degli Americani ingaggia un duello con Mosca imponendo il proprio controllo su territo-ri tradizionalmente russi. La sfida, però, finisce con una rapida guerra e il ripiega-mento dei Georgiani. L’obiettivo di Washington è di inserire Ucraina e Moldavia, oltre che la Georgia nella duplice cornice dell’Unione Euro-pea e del Patto Atlantico. Nello stesso tempo si annuncia la creazione di uno «scudo antimissile» nei Paesi dell’Europa dell’Est, ufficialmente per prevenire una eventuale minaccia «iraniana». Il significato di questa strategia è chia-ro: stringere un rigido anello di ferro at-torno alla vecchia superpotenza russa. Questo il significato, ma l’esito è meno scontato. L’Ucraina è legata alla Russia per tutta una serie di ragioni. Ragioni sto-riche: la Russia come Stato nasce appun-to in Ucraina, buona parte della popola-zione ucraina parla la lingua russa e la

PUBBLICITÀ

L’UCRAINA tra Est ed Ovest

di ALFONSO PISCITELLI

ATLANTE GEOPOLITICO

ct
pubb borghese

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PER CAPIRE il fenomeno Barack Obama e la surriscaldata dia-triba della contestatissima riforma sanitaria che sta entrando in vigore (lentamente perché non è ancora a pieno regime e sono operative già molte dilazioni, eccezioni ed esoneri dai tremendi vincoli da quella posti), bisogna partire dal fonda-mentale presupposto che il quarantaquattresimo Presidente degli Stati Uniti è un marxista, un estremo sinistro in abito borghese, che tollera pochissimo il dissenso e che non conce-pisce l’esistenza di una dottrina politica conservatrice se non come espressione di uno stadio di sviluppo ancora arretrato. Data questa premessa, Obama non soffre scrupoli nel denun-ciare con termini estremi e violenti i suoi oppositori (caratterizzati nelle versioni meno crude come «ricchi che non vogliono fare la loro parte»), e soprattutto nel ricorrere a di-storsioni, menzogne od a paraventi per nascondere la verità o fabbricarne una a lui confacente.

A questo scopo, l’amministrazione Obama è ricorsa ai «servigi» di FUSA (famiglie americane), che si descrive come «un’organizzazione non di parte, nazionale senza scopo di lucro, dedicata al raggiungimento di cure mediche a costi so-stenibili e di alta qualità per tutti gli Americani». Questa or-ganizzazione ha ricevuto dalla fondazione Robert Wood John-son 1,1 milioni di dollari con lo scopo di raccogliere storie di buona riuscita dei servizi di Obamacare (la riforma sanitaria) e disseminarle sulla stampa americana: sia ben chiaro, non si tratta di raccogliere casi e storie di vario tipo relative alla ri-forma sanitaria, ma soltanto quelle di successo, con buona pace dell’imparzialità dell’associazione.

Philippe Villers, Presidente di FUSA, ricopre contempora-neamente la carica di tesoriere per la Herndon Alliance, anche questa una sedicente organizzazione non di parte, ma una che «lavora e promuove apertamente le previsioni della Legge sulla Protezione del Paziente e delle Cure Mediche Conve-nienti del 2010», cioè la riforma sanitaria di Obama. Ron Pol-lack, direttore esecutivo di FUSA, ha rivelato che l’organizza-zione ha già a disposizione 950 storie da dare in pasto ai me-dia; lo stesso Pollack ha fondato nel 2010 Enroll America (Iscrivi L’America) per «raccogliere decine di milioni di dol-lari per gruppi dello Stato per lavorare con lo Stato per cer-care di creare i più efficaci sistemi per fare domanda e regi-strarsi (ad Obamacare)». Tanto per concludere, Christopher Tarango, uno dei direttori della comunicazione di Enroll Ame-rica, ha affermato che «ci sono un sacco di persone di talento che sono state abbindolate da Enroll America», dalla sua pre-tesa imparzialità, cioè, «ma noi siamo tutta gente di Obama». Infine, il fondamentale alimento a questa organizzazione, leg-gesi denaro suonante, viene fornito da organizzazioni di sini-stra come la Fondazione Tides e l’«Istituto della Società Aper-ta» di George Soros.

Uno dei primi punti alla base della missione di salvataggio di Obamacare è di eliminare del tutto questa etichetta. Era stato lo stesso Presidente americano a dire ad un gruppo di

parte rimanente poco si distingue dai Russi. Ragioni religiose: la comune fede ortodossa. Ragioni energetiche: l’Ucraina di-pende dal gas e dal petrolio russo-siberiano. Fino ad ora que-ste risorse sono state messe a disposizione da parte di Mosca ad un prezzo politico, ma qualora l’Ucraina dovesse integrarsi in un sistema politico-militare occidentale il petrolio le sareb-be fornito a prezzo di mercato insieme alla richiesta degli ar-retrati. Infine ragioni economiche: l’economia ucraina ha po-che speranze di alimentare il suo export con i Paesi più ricchi dell’Europa Occidentale; d’altra parte la sua associazione alla UE provocherebbe di conseguenza una diminuzione delle esportazioni in Russia.

Per tutti questi motivi, alla fine l’Ucraina non ha firmato a Vilnius il patto di associazione con la UE. Abbiamo parlato con il notaio Salvatore Federico, che è console onorario dell’Ucraina a Reggio Calabria, che ci ha fornito dati interes-santi per comprendere la decisione di Kiev: «L’Unione Euro-pea aveva chiesto al presidente Ianucovich una serie di rifor-me economiche e sociali che sarebbero costate all’Ucraina circa 20 miliardi all’anno per otto anni. A fronte di questo programma così severo, Bruxelles poteva assicurare aiuti per soli 700 milioni di euro all’anno. L’adeguamento del sistema-Paese agli standard dell’Unione Europea avrebbe comportato il blocco dei salari e delle pensioni e un contemporaneo au-mento delle tariffe del gas e dei trasporti». E tutto questo per entrare nell’Unione Europea a far compagnia ai Greci e agli Spagnoli, ai Portoghesi e agli Italiani…

Negli stessi giorni in cui l’UE tentava di coinvolgere l’U-craina, il premier inglese Cameron dava una stretta agli in-gressi di cittadini bulgari e romeni nell’isola britannica. L’Eu-ropa dell’Est viene considerata essenziale quando si tratta di limitare l’area di influenza russa sul territorio europeo, ma in altre circostanze viene considerata come una fascia povera da tenere sotto controllo e a distanza. Ricordiamo anche i mani-festi elettorali della campagna per il referendum francese (quello che bocciò la costituzione UE): manifesti incentrati sulla figura dell’«idraulico polacco», che viene a Parigi a ru-bare lavoro agli idraulici francesi offrendo manodopera a bas-so costo. Dopo l’idraulico polacco ora è la volta del muratore ucraino, ma Londra ha già detto che non è disposta ad asse-condare l’idea di una «Grande UE» estesa fino alla periferia di Mosca…

Subito dopo la decisione di Ianucovich di rifiutare l’offer-ta di associazione alla UE, sono scoppiati a Kiev manifesta-zioni «europeiste». Protagonisti delle manifestazioni anche i robusti giovanotti del partito neonazista, Svoboda, che senza alcun problema si battono in nome della burocrazia di Bruxel-les… Certo l’Europa, con il suo tradizionale benessere, eser-cita un fascino su popolazioni che vengono da un difficile passato. E tuttavia ci si domanda quanto ci sia di spontaneo e quanto di organizzato e tele-comandato in manifestazioni del genere.

CASA BIANCA in difficoltà

di FRANCESCO ROSSI

CAOS «OBAMACARE»

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suoi sostenitori che sarebbero stati i suoi oppositori a smettere di chiamare la sua riforma sanitaria in quel modo quando que-sta avrebbe acquistato l’inevitabile popolarità. In realtà, lui per primo ha preso le distanze da quel termine: già in una conferenza stampa del 14 di novembre, Obama ha smesso di usare quel benedetto termine, preferendo citare una dozzina di volte la riforma con il più neutro nome di «Legge sulle Cu-re Mediche Convenienti».

Tuttavia, durante il fine settimana della festa del Ringra-ziamento, quando anche per i senatori Democratici era stato «emanato l’editto» di trovare e pubblicizzare casi di risultati positivi collegati alla riforma sanitaria, l’amministrazione Obama ha unilateralmente dilazionato la scadenza per iscri-versi secondo i nuovi parametri della riforma. Per le piccole imprese la nuova magica scadenza sarà il novembre 2014, magica perché immancabilmente cade dopo le elezioni medio termine del prossimo anno; allo stesso modo, i consumatori possono iscriversi fino al 23 di dicembre per avere la copertu-ra sanitaria per il prossimo anno.

SHOP, un acronimo che sta per «Programma di Opzioni Sanitarie per le Piccole Imprese», dovrebbe aiutare le piccole imprese garantendo dei crediti fiscali per aiutarle a sostenere i premi assicurativi sanitari. Al riguardo, il governo americano ha semplicemente affermato che il relativo sito internet dove sarà possibile scegliere tra le varie opzioni non sarà pronto se non per il novembre 2014.

Il Presidente degli Stati Uniti ha il dovere costituzionale di rendere le leggi federali esecutive e non ha alcuna autorità di rifiutarsi al riguardo per perseguire dei vantaggi puramente politici o personali.

C’è da notare anche l’incerto funzionamento del sito per iscriversi al piano sanitario, HealthCare.gov. Non soltanto è risultato complicato informarsi o provarsi ad iscriversi tramite il sito, questo non è ancora in grado di proteggere la sicurezza dei dati immessi, per cui coloro che già si sono iscritti rischia-no che la loro identità venga violata. Obama sostiene che il sito internet è adesso migliorato, ma non è dato sapere in che cosa questo consista, anche a causa della facilità con cui il Presidente si costruisce la propria realtà.

Quanto alla riforma vera e propria, già agli atti ci sono i piani sanitari cancellati per cinque milioni di Americani, un numero che potrebbe lievitare fino a superare i 100 milioni. La nuova legge ha reso illegali piani perfettamente adeguati che venivano forniti dai datori di lavoro ed ha imposto alle compagnie di assicurazioni di offrire piani onnicomprensivi, senza alternative e senza distinzioni tra Stati o contee o malat-tie pregresse dell’assicurato. Siccome negli Stati Uniti, tranne poche eccezioni, la copertura sanitaria è sostenuta dal datore di lavoro, molte aziende per non pagare i costi esorbitanti dei nuovi premi assicurativi hanno licenziato lavoratori a tempo pieno e li hanno sostituiti con altri a lavoro parziale (il cui pia-no sanitario costa ovviamente la metà); altre aziende, invece, hanno scelto di rendersi inadempienti e di pagare la sanzione, che è più bassa rispetto ai nuovi premi assicurativi.

Gli effetti disastrosi di Obamacare erano stati predetti da tempo. Di fronte alla drammatica conferma del suo probabile fallimento, risulta difficile smentire chi affermava - in partico-lare quei giornalisti che hanno studiano la carriera di Obama fin dall’inizio come David Freddoso e Stanley Kurtz - che il vero scopo di Barack Obama è sempre stato quello di nazio-nalizzare il settore ed eleggere lo Stato federale come unico dispensatore delle prestazioni sanitarie. Se Obamacare si ri-velerà impraticabile, il Presidente potrà affermare - con gioia - che il mercato ha fallito e che l’unica soluzione, si fa per di-re, rimane lo Stato.

LA TURCHIA torna all’antico, o meglio, alle sue tradizional-mente rapaci abitudini e cerca - complice l’assordante silenzio colposo dell’Occidente - di riappropriarsi culturalmente e reli-giosamente di ogni manufatto e di ogni idea di origine cristia-na. Dopo avere chiuso o trasformato in depositi, magazzini o stalle centinaia di chiese armene, sia greco-ortodosse sia cat-toliche (politica perseguita dai vecchi sultanati del XIX secolo e continuata, pur con maggiore discrezione, anche dal regime repubblicano modernista di Kemal Atatürk e dei suoi succes-sori), il vice primo ministro Bülent Arinç ha invocato ufficial-mente l’opportunità di riaprire al culto islamico il museo di Ayasofya di Istanbul, suscitando - come riferisce l’Agenzia Fides - non soltanto l’indignazione del Patriarca ortodosso di Costantinopoli, Bartolomeo I, ma anche le perplessità di alcu-ni intellettuali anatolici liberali, preoccupati per la progressiva deriva islamista turca in atto da un paio di anni, grazie all’ac-condiscendenza del primo ministro Recep Tayyip Erdoğan.

Dal canto suo, il ministro degli Esteri greco Evangelos Venizelos (alla Repubblica ellenica sta molto a cuore il desti-no della basilica di Santa Sofia, fatta edificare nel V secolo dopo Cristo dall’imperatore Giustiniano, agli architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle) ha rilevato che «le ripetute di-chiarazioni da parte di funzionari turchi circa la conversione di chiese bizantine cristiane in moschee costituiscono un in-sulto alla sensibilità religiosa di milioni di cristiani e si ravvi-sano come gesti anacronistici ed incomprensibili da parte di un Paese - la Turchia - che ad ogni pie sospinto dichiara di volere rivestire a pieno titolo il ruolo di Paese membro dell’Unione europea, sostenitrice del principio inerente il ri-spetto della libertà religiosa». Non soltanto. Per Mihail Vassi-liadis, direttore del quotidiano greco edito in Turchia Greek daily Apoyevmatini, la soluzione migliore sarebbe quella di conservare il museo di Ayasofya quale simbolo culturale utile per consolidare i non eccellenti rapporti tra la comunità mu-sulmana e quella minoritaria greco ortodossa.

La notizia circa la volontà turca di islamizzare il museo, in realtà, non giunge nuova. Una prima dichiarazione del vice-premier giunse il 16 novembre, in occasione della sua parteci-pazione all’inaugurazione di un museo di tappeti facenti parte delle opere conservate presso Ayasofya, costruzione recente-mente restaurata dalla direzione generale turca delle Fonda-zioni. Bülent Arinç, politico molto ascoltato da Erdoğan, or-mai incline a resuscitare il mai sopito anelito nazionalista e religioso turanico (si pensi alla revoca, pur parziale, del divie-to finora in vigore di indossare il velo islamico nelle scuole, dalle elementari al liceo), ha recentemente ribadito che, a suo modo di vedere, l’antico luogo di culto - cioè la basilica bi-zantina di Santa Sofia, trasformata dapprima, nel giugno 1453, in moschea (subito dopo la caduta di Costantinopoli, il Sultano Maometto II ordinò che essa venisse immediatamen-te islamizzata) e successivamente, nel 1935, in museo dal Pa-dre della Patria Atatürk - oggi sembrerebbe diventata un luo-

SANTA SOFIA con il velo

di ALBERTO ROSSELLI

COSE TURCHE

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go addirittura «anonimo e squallido», al punto da invocarne una nuova trasformazione in luogo di «gioioso e musicale» culto musulmano. Un po’ come dire: trasformiamo un sobrio centro di cultura utile alla comprensione tra i popoli in una discoteca coranica. Detto questo, secondo quanto sostenuto da Arinç, in Turchia, l’utilizzazione di luoghi di culto per altri scopi sarebbe già stata proibita da diversi provvedimenti legi-slativi. Ciononostante, nei mesi scorsi, il parlamento di Anka-ra avrebbe preso in serio esame le molteplici domande pre-sentate da Arinç per riconvertire in moschea il museo di Ayasofya, cioè il simbolo culturale, non religioso, principe dello Stato voluto da Atatürk.

A spingere Bülent Arinç a proclamare la riappropriazione religiosa dell’ex basilica bizantina, hanno contribuito non po-co le sue simpatie nei riguardi delle sempre più numerose fa-zioni politico-religiose restauratrici impegnate nell’opera di scardinamento dell’ormai semidefunto sistema laicista atatur-kista ma anche le sue ambizioni a candidarsi, nel contempo, quale interfaccia governativo dei gruppi, soprattutto giovanili, che tempo fa hanno animato le violente proteste popolari sca-tenate dalla nota vicenda del Gezi Park; quando la contraddi-zione diventa caotica prassi politica. Qualche settimana fa, l’ambiguo e per certi versi indecifrabile Arinç, è giunto addi-rittura a dichiarare di volere abbandonare la politica, dopo aver espresso il proprio dissenso nei confronti del Premier Erdoğan che aveva ordinato al governatore della provincia di Adana di intervenire per impedire la coabitazione tra maschi e femmine negli appartamenti di universitari fuori sede: dichia-razione «laicista» che, tuttavia fa abbastanza a pugni con il suo progetto di trasformazione di Santa Sofia in moschea. «Arinç», come Emre Oktem, docente di diritto Internazionale presso la Galatasaray Universitesi, ha dichiarato all’Agenzia Fides, «è in realtà un islamista integralista», portato ad un populismo di comodo e ambivalente che caratterizza di fatto l’agire di un primo ministro, cioè Erdoğan, che se da un lato si fa paladino della modernizzazione economica del suo Pae-se, in realtà dipende in tutto e per tutto dagli umori del ventre islamista anatolico in fase di costante dilatazione.

Ma chiudiamo con una chicca. Il curioso tradizionalista religioso Arinç - amante delle rivolte studentesche di piazza e dei Rolling Stones, ma strenuo negazionista (secondo il suo parere la strage armena del 1915 è un’invenzione dei cristia-ni) - sembra mantenere ottimi rapporti con il Movimento di Fethullah Gülen, intellettuale turco residente negli USA, «ferreo sostenitore di un islam ultramoderato, aperto al pro-gresso sociale e desideroso di intessere amichevoli e rispetto-si rapporti con ebrei e cristiani, a partire dai cattolici». Biz-zarre incongruità intellettuali quelle di Arinç? Sicuramente, ma intanto su Santa Sofia cala il velo dell’oscurantismo. Cose da turchi.

(Dalla nostra inviata)

BANGKOK - Incredibilmente veneziano. Siamo a Bangkok, nel bel mezzo della rivolta che vede dalla fine del novem-bre 2013 centinaia di migliaia di manifestanti Thai impe-gnati a oltranza ad assediare ministeri, la centrale della Po-lizia e il palazzo del Governo. Ma la nostra attenzione vie-ne distratta dallo stile architettonico di quest’ultimo.

A guardare la Thaikufah (il palazzo sede del governo del Regno di Thailandia) sembra infatti di essere a Vene-zia, perché facendo un volo di fantasia il «canal grande» e la sua rete di affluenti minori esiste anche qui (e non è me-no putrida e nauseabonda per l’olfatto).

Alcune statue di marmo bianco di Carrara, con figure femminili a seno nudo, affiancano la scala dell’entrata la-terale della Thaikufah, il grande edificio in stile veneziano che fu costruito agli inizi del ‘900 da due celebri architetti italiani (il torinese Annibale Rigotti e il collega fiorentino Corrado Feroci, quest’ultimo tanto noto in Thailandia da essere ricordato ancora oggi come il padre dell’arte moder-na Thai).

Com’è nata una scelta estetica del genere? Fra fine ‘800 e inizi del ‘900 il Siam era l’unico Stato della regione del sudest asiatico a non essere stato colonizzato. Mentre a est l’Indocina era francese (Laos e Cambogia), a ovest la Birmania era diventata una colonia dell’Impero britannico e a sud la Malesia ne era diventata un protettorato. Per conservare l’indipendenza, il Siam aveva dovuto fare enor-mi concessioni politiche ed economiche alle due potenze europee, ma fu proprio per limitare la loro influenza cultu-rale che il cambiamento del volto del Siam fu affidato ad artisti di un Paese estraneo alle vicende interne.

La scelta cadde allora sull’Italia, per volontà di re Chu-lalongkorn (ossia il venerato Rama V, che ebbe 77 figli da quattro regine e numerose concubine), che nelle sue due visite a Torino fu affascinato da quella monumentale bel-lezza.

Fu quindi per ragioni di «gusto» che negli ultimi anni dell’800 diversi ingegneri, architetti e artisti italiani pro-gettarono e realizzarono i più grandi palazzi, ponti, monu-menti, e perfino la più importante stazione ferroviaria, che stavano trasformando il volto di Bangkok.

* * *

Oggi, invece, lo skyline della capitale Thai è zeppo di

grattacieli, uno più brutto dell’altro, molti dei quali sono ancora in costruzione a partire dal centro città fino quasi all’area dell’aeroporto internazionale Suvarnabhumi.

In un momento del genere, alla vigilia del rovescia-mento del governo del primo ministro Yingluck Shina-watra, bella e giovane sorella minore del politico e magna-te Thaksin Shinawatra, è probabilmente assurdo soffermar-

LA SAGA dei Shinawatra

di DANIELA BINELLO

BANGKOCK - TRA GIALLI E ROSSI

46 IL BORGHESE Gennaio 2014

si sul trend architettonico di Bangkok, visto che la rivolu-zione, anche se di velluto, ha tutta l’aria di diventare sem-pre meno soffice.

Soltanto da pochi minuti sono stati rimossi i blocchi di cemento che circondano il palazzo del Governo e il quar-tier generale della Polizia. Il 5 dicembre è il compleanno di re Rama IX, un giorno di pace per il popolo Thai, rispet-toso della monarchia costituzionale.

E dopodomani? «Mai pen rai», che significa «non pen-sarci, tanto poi lo vedrai».

Intanto, l’aria di Bangkok in questo punto è solcata dai lacrimogeni e dai proiettili di gomma sparati dalla polizia, mentre le biglie d’acciaio e le molotov dei dimostranti si fronteggiano sulle sponde di un khlong (canale) che deli-mita il palazzo del Governo.

Quando la Shinawatra 2.0 (così chiamata perché sem-bra ricevere istruzioni dal fratello via Skype per ogni cosa) si dimetterà, un Consiglio di saggi chiederà al re Rama IX (Bhumipol Adulyadej) d’indicare una personalità al di so-pra delle parti per formare un nuovo governo, il quale ri-marrà in carica fino a nuove elezioni.

Ma che cosa ha scatenato la rivolta che vede la mag-gioranza del Paese marciare compatta contro i Shinawatra, nonostante i diversi schieramenti? La benzina sul fuoco è stata la proposta, da parte del governo, di un’amnistia per tutti quelli che sono coinvolti nei disordini che si sono sus-seguiti dal 2006. Amnistia che cancellerebbe anche le con-danne per corruzione, abuso di potere e lesa maestà che pendono sulla testa dell’ex premier Thaksin Shinawatra, deposto da un colpo di Stato nel 2006 e in esilio fra Lon-dra e gli Emirati. In realtà, l’amnistia ha tutto il sapore di essere un escamotage per far decadere i reati commessi da Thaksin, consentendogli così di tornare «a casa» (Thaksin, intanto, coltiva il suo business, fra cui c’è stato anche quel-lo di patron del Manchester City, quando il mister era Sven Goran Eriksson).

Dal 2006 la Thailandia è divisa in due fazioni: da un lato, i sostenitori di Thaksin, cioè le «magliette rosse», i phrai del popolo (le classi più basse e povere) e, dall’altro lato, i suoi oppositori, le «magliette gialle» (dal colore del-la Casa reale), fra cui ci sono i rappresentanti dell’ammart, l’élite, con una parte della media e alta borghesia.

Nel 2010, i rossi hanno occupato il centro di Bangkok innescando una rivolta che è finita con 90 morti (fra cui il fotografo italiano Fabio Polenghi, ucciso da un proiettile sparato dall’esercito) e un migliaio di feriti. Nelle elezioni del 2011 il partito dei rossi ha quindi vinto ed è stata eletta primo ministro la sorella dell’ex premier, Yingluck Shina-watra.

Allora, sebbene con il sospetto di brogli elettorali, sem-brò che la Thailandia si fosse avviata verso la normalizza-zione. Oggi si sa che è stata soltanto una tregua.

«Kanom, kanom» invita una donna in mezzo alla stra-da, offrendo ai manifestanti i «dolcetti» che sono lo snack preferito dai Thai. Poi distribuisce anche bottiglie d’acqua e piccoli asciugamani imbevuti di lime per strofinarsi gli occhi irritati dai lacrimogeni.

Appena fuori dalla zona degli scontri, però, la vita pro-cede normalmente e la moltitudine dei turisti è alle prese con gli appetitosi happy hour serviti sulle terrazze affac-ciate sul «canal grande» di Bangkok, il Chao Phraya.

Ci dirigiamo anche noi al Mandarin Oriental, l’albergo di lusso (358 camere e 35 suite dotate di tre camerieri cia-scuna) dove soggiornarono «tutti», Joseph Conrad com-preso.

Per un certo periodo, negli anni ‘50, questo hotel fece parte del gruppo Italthai, fondato da un imprenditore ge-novese, Giorgio Berlingieri. Oggi, invece, l’hotel è quotato in Borsa ed è di proprietà di una multinazionale che inve-ste nei migliori alberghi in tutto il mondo. Imperdibile, quindi, una breve sosta per bere un buon cocktail alla frut-ta su una delle terrazze, sbirciando in giro a caccia di cele-brità internazionali.

«La Thailandia potrebbe essere un Paese ricco e felice, se abbandonasse questa pulsione verso una politica auto-distruttiva. Fino al 2010 Thaksin era amato come Berlu-sconi, perché era ricco e spiritoso. Oggi gli si augura di fare la stessa fine che vorreste per il Cavaliere», commen-ta un amico Thai.

Ma quale sarà il prossimo governo? Nessuno sa rispon-dere con precisione, nemmeno il veterano politico Suthep Thaugsuban, leader del movimento d’opposizione (sul quale adesso spicca un mandato di cattura) che invoca, do-po lo scioglimento del Parlamento, la formazione di un Consiglio di saggi per formare un «Parlamento del popo-lo».

* * *

Dal canto loro, i militari, un tempo protagonisti dei col-

pi di Stato anche in Thailandia (dal 1932 ce ne sono stati ben 18), non sembrano affatto disposti a prendere le redini del Paese con un golpe. Se interverranno, sembra d’intuire che lo faranno soltanto quando potranno apparire come i salvatori del Regno, anziché golpisti. I modi cambiano.

Sostenitori di un’ideologia anticapitalista, sorretta da quell’economia sostenibile predicata anche da Sua Maestà Rama IX, sono invece molti giovani Thai. Su questa linea, i nascenti gruppi della società civile stringono le loro fila. Ci sono poi i supporter del Partito Democratico, che rap-presenta parte della borghesia. Privi di programmi, dicono soltanto di essere disposti a barattare la democrazia con un regime di uomini onesti. In minoranza, poi, ci sono anche gli ultraconservatori realisti e i gruppi buddhisti integralisti che invocano una purezza nazionale e religiosa.

In un modo o nell’altro, dunque, la Thailandia, che è stato il primo Paese asiatico a sperimentare la modernizza-zione (durante il regno di Rama V), sembra divenuto il punto di scontro tra i cosiddetti valori universali elaborati dalla filosofia politica occidentale e i valori asiatici teoriz-zati da Lee Kuan Yew, il demiurgo della città Stato di Sin-gapore.

«Temo che questa situazione possa far scivolare la Thailandia verso una guerra civile a bassa intensità», ha dichiarato Paul Chambers, dell’Istituto di Studi sul sudest asiatico dell’università di Chiang Mai (seconda città del Paese dopo Bangkok).

Intanto i rossi, che in questi giorni hanno tenuto un profilo basso, sono pronti a chiamare a raccolta tutte le nuove leve formatesi nelle scuole di partito, aperte soprat-tutto in molti villaggi del nord e del nordest, per dar vita all’escalation della mobilitazione generale.

Nessuno, però, riesce a immaginare il futuro della Thailandia mentre si sta per chiudere la partita contro l’e-sule Thaksin Shinawatra, sul cui capo pende dal 2008 una condanna a due anni e sei mesi di reclusione per insider trading, abuso di potere e conflitto d’interessi.

Una saga, quella dei Shinawatra, che ha acceso la mic-cia in Thailandia e che dovrebbe, per alcune evidenti ana-logie, mettere in guardia anche noi.

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TRENT’ANNI sono passati dal giorno del ritorno della demo-crazia, dopo sette anni di regime militare, il 10 dicembre 1983 ma peggior compleanno non poteva celebrare la nazio-ne sudamericana, percorsa com’è da un’ondata di disordini e devastazioni che la protesta delle polizie provinciali e la conseguente astensione dal servizio hanno sciaguratamente innescato.

Assalti ai supermercati e saccheggi d’abitazioni private si sono verificati ovunque, dal nord al sud del Paese, mentre i poliziotti se ne rimanevano a braccia incrociate nelle proprie caserme. Undici morti (ufficialmente, ma in realtà il conto è più alto) e centinaia di feriti testimoniano l’attuale malessere di una società che la propaganda kirchnerista elogiava come esempio di «modelo inclusivo», dove benessere, pace sociale e accesso ai diritti sarebbero stati garantiti a tutti.

«Argentina, un pays con buena gente», miagolavano in continuazione le pubblicità governative sulle televisioni di Stato fino a poco tempo fa, ma i filmati delle devastazioni e dei saccheggi danno un quadro ben differente: quello di un Paese dove disagio sociale, indisciplina e crescente crimina-lità costituiscono gli ingredienti di un cocktail pronto ad esplodere con violenza alla prima occasione utile.

Lo sciopero delle polizie provinciali ha ragioni esclusi-vamente economiche ma è chiarissimo sintomo del progres-sivo sfilacciamento della società argentina, lacerata dai suoi non risolti conflitti sociali e politici, dalla crisi finanziaria, dalla corruzione, dalla mancanza di un’attuale guida ferma - la Kirchner non gode più dei consensi quasi bulgari di un tempo - dall’incertezza che la lotta per il potere provoca, in una parola da una totale mancanza d’autorità.

Il «modelo K» sta lentamente sgretolandosi e le crepe che si aprono mostrano un Paese sfiancato: la classe media, sempre più impoverita, sta cercando chi la protegga dalla perdita di potere d’acquisto della moneta nazionale e da una tassazione mai vista prima; le classi marginali, coccolate, blandite e viziate dalla propaganda kirchnerista, si rendono conto che questa era soltanto, appunto, propaganda.

L’attuale vuoto di potere, e d’autorità, è dunque all’origi-ne sia di questi disordini sia della causa che li ha favoriti; fino a poco tempo fa sarebbe stato impensabile uno sciopero della polizia: la presenza di un esercito determinato avrebbe sicuramente scongiurato simili eventualità.

Oggi però l’esercito argentino è l’ombra di ciò che fu. Reduce da un lungo periodo d’umiliazioni, sta scontando le colpe della dittatura militare e tra la vecchia generazione - quella che combatté il terrorismo degli anni settanta e che oggi si trova criminalizzata, quando non perseguitata penal-mente - e la nuova si è formato un gap incolmabile.

I nuovi ufficiali, per evidenti ragioni, prendono le di-stanze dai loro predecessori mentre tra quelli che prestaro-no servizio durante la dittatura poco meno di duemila sono attualmente reclusi in carcere (trecento ci sono morti) in

attesa di processi spesso e volentieri fondati su prove indi-ziarie o presuntive assai labili, per fatti di trentacinque an-ni fa (le desapariciones furono un fenomeno abominevole ma non meno tremendo fu lo stillicidio quotidiano d’atten-tati e d’omicidi compiuti dai comunisti dell’ERP e dai Montoneros) mentre i terroristi, a differenza dei militari, beneficiarono dell’amnistia in ragione della loro vicinanza ideologica alla «coppia K».

Il ritorno della democrazia ha portato, con ritmi vertigi-nosi - laddove in Europa il tempo di maturazione è stato più lungo - le paroline d’ordine che qui ben conosciamo: no alla discriminazione, no alla disuguaglianza, no all’intolleranza, il tutto giustificato dalle astrazioni della «dottrina dei diritti dell’uomo», ingurgitate in un tempo record.

Con i proclami ideologici e le parole d’ordine, però, non si salva un Paese e lo staff kirchnerista si trova ora, tra i tanti problemi, quello di doversi determinare ad una politica di rigore - aumento dell’imposizione fiscale, contenimento dell’emissione monetaria (che qui, di fatto, compete al pote-re politico) e riduzione della spesa sociale - che, però, lo ren-derebbe ancora più inviso alla popolazione; ma per placare le rivendicazioni salariali delle polizie provinciali e poter pagare le moltitudini di sussidiati e di pubblici dipendenti (una recente inchiesta ha stabilito che la metà della popola-zione argentina in età lavorativa gode di stipendi pubblici o d’aiuti finanziari dallo Stato o dalle Province) bisognerà continuare a stampare molti, troppi pesos; quattordicimila milioni erano da poco usciti dalle tipografie nazionali per consentire il pagamento delle tredicesime natalizie agl’im-piegati pubblici. Con tutto quel che ne consegue sul piano inflattivo.

Commentando i recenti tragici avvenimenti, padre Jorge Oesterheld, portavoce dell’Episcopato argentino, ha fornito uno spaccato eloquente della situazione del Paese; l’alto pre-lato ha denunciato la mancanza di una cultura del lavoro, determinata da una politica di sussidi che ha permesso a due generazioni di Argentini - quelli appartenenti alle fasce mar-ginalizzate ed assistite - di vivere senza svolgere un’attività o studiare, accentuando così la disgregazione sociale e favo-rendo tra quelle classi l’arruolamento nella criminalità legata al narcotraffico e l’attitudine alla violenza e all’illegalità.

Le celebrazioni per l’anniversario del ritorno della de-mocrazia appaiono dunque una grottesca mistificazione; senza contare che quella riapparsa il 10 dicembre di trent’an-ni fa non fu il risultato d’una lotta popolare ma della fine fi-siologica d’un regime salito al potere per combattere il terro-rismo (e sconfiggendolo pur con mezzi spesso deprecabili) che la stessa democrazia aveva suscitato e anche favorito, e che una volta perduta la guerra delle Malvinas aveva esauri-to ogni ragion d’essere.

Le parole di circostanza e le solite manifestazioni «democratiche» dejà vu, condite di balli e di canti che hanno visto protagonista la stessa Kirchner - rediviva dopo quasi due mesi di riposo forzato e pronta a denunciare la protesta salariale della polizia e i disordini sociali come frutto di un «complotto» ai suoi danni - non riescono a mascherare l’im-magine di un’Argentina sfibrata, in preda a forti tensioni, sferzata da una crescente inflazione, con una corruzione dif-fusa ed una criminalità in costante espansione. In altri tempi, simili situazioni sarebbero sfociate in pronunciamientos mi-litari; attualmente, data la mancanza della materia prima, c’è soltanto da sperare che l’indubbia autorità del pontefice Ar-gentino e la sua capacità di mediazione riescano ad abbassa-re una temperatura che ha già abbondantemente superato i livelli di guardia.

TANTI AUGURI, democrazia!

di GIANNI CORREGGIARI

ARGENTINA TRENT’ANNI DOPO

48 IL BORGHESE Gennaio 2014

SONO passati quasi dieci anni da quando nel 2004 l’Unione Europea si è allargata a Est ed i cittadini polacchi, unghe-resi, cechi e slovacchi hanno guadagnato il diritto di vivere e lavorare liberamente in Gran Bretagna.

Mentre altri Paesi hanno imposto alcuni limiti il gover-no britannico ha preferito aprire le frontiere rassicurando l’opinione pubblica che soltanto tredicimila polacchi sa-rebbero venuti a vivere in Gran Bretagna ma questa si rive-lò subito una colossale menzogna visto che, in pochi mesi, ne sono arrivati almeno un milione e tutt’ora nessuno ha la più pallida idea di quanti siano realmente.

Come è facile immaginare questo enorme influsso ha causato problemi enormi non soltanto perché tali immigra-ti hanno di fatto rubato il lavoro ai cittadini britannici, ma la loro presenza ha anche creato un serio problema di so-vraffollamento nelle scuole e una grave carenza di posti letto negli ospedali.

L’allora governo laburista non soltanto ha ignorato le lamentele dell’opinione pubblica ma ha anche accusato i lavoratori inglesi di essere una massa di fannulloni igno-ranti e di non avere la preparazione e la voglia di lavorare sodo che hanno i polacchi.

Tali dichiarazioni hanno scatenato molte polemiche an-che perché era evidente che per i cittadini britannici era impossibile competere con persone disposte a lavorare in

LONDRA a numero aperto

di GIUSEPPE DE SANTIS

FRONTIERE DA RICHIUDERE turni massacranti, e per salari da fame e, se per le imprese, questa apertura ad est è stata una manna caduta dal cielo, per la classe operaia è stata una batosta colossale visto che in molti sono stai tagliati fuori dal mercato del lavoro.

Certo la Gran Bretagna di ondate migratorie ne ha avu-te tante ma questa volta la differenza è che questo enorme numero di polacchi si è stabilito non soltanto nelle grandi città, ma anche in tante zone rurali che in passato erano state immuni da questo fenomeno.

Questa situazione, non soltanto ha reso i sudditi di sua maestà più ostili all’immigrazione, ma ha anche fatto au-mentare la voglia di uscire dall’Unione Europea giacché come cittadini comunitari tali immigrati hanno il diritto di vivere, lavorare e prendere sussidi e adesso molti temono che questo possa accadere di nuovo visto che dal primo Gennaio del 2014 i cittadini di Romania e Bulgaria posso-no venire in Gran Bretagna senza restrizioni.

A fare paura non è soltanto il fatto che in questi due paesi vivono trenta milioni di persone con un reddito pro-capite più basso di quello che aveva la Polonia dieci anni fa ma soprattutto la possibilità che a invadere la Gran Bre-tagna siano zingari rom la cui unica motivazione è quella di delinquere e vivere di sussidi.

La loro presenza sta già creando problemi non soltanto a Londra, ma anche in altre città dove la loro presenza ha causato problemi con le popolazioni locali le quali si la-mentano del comportamento poco decoroso di questi sog-getti che oltre a rubare frequentemente urinano per strada e tormentano coloro che abitano vicino a loro, e quindi molti si chiedono cosa accadrà dopo il primo gennaio e quanto questo problema sarà destinato a peggiorare.

Tutti i sondaggi fatti di recente dimostrano che almeno il 60 per cento dell’opinione pubblica vuole che il governo blocchi l’arrivo di romeni e bulgari, e questo malcontento ha spinto il primo ministro David Cameron a promettere nuove misure volte a impedire a questi nuovi arrivati di ottenere sus-sidi e di imporre altre restrizioni così da scoraggiarne l’arrivo, ma tali promesse non hanno convinto nessuno, anche perché

al momento il governo in-glese non ha nessun potere in materia, e l’unico modo per fare qualcosa è quello di uscire dall’Unione Euro-pea. Tra poche settimane si saprà se i pessimisti avran-no ragione o no ma per ora quel che è certo è che il rischio di tensioni etniche è aumentato e a tale proposi-to è interessante notare co-me alcune comunità mu-sulmane stiano organizzan-do delle ronde per proteg-gere le loro aree da questi criminali rom. Se ci saranno rivolte per strada è difficile dirlo ma quello che sta succe-dendo in Gran Bretagna dovrebbe servire da moni-to a tutti coloro che anco-ra credono alla favola del-la società multietnica così cara alla sinistra.

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50 IL BORGHESE Gennaio 2014

AVVERTENZA per gli italiani che per qualsiasi ragione si reca-no all’estero: attenzione a non violare le più elementari norme di civile convivenza, come gettare per terra una cartaccia o a parcheggiare in doppia fila. Perché, in caso di arresto, il no-stro Paese non potrà fare nulla per voi; sarete giudicati in ma-niera inflessibile dai magistrati della nazione che vi ha privato della libertà personale, nonostante gli sforzi del nostro gover-no e della nostra diplomazia. Al massimo, se siete particolar-mente fortunati, riuscirete a scontare la pena in Italia, sempre che si possa scomodare il Presidente della Repubblica e che invochi per voi il rispetto dei più elementari diritti umani.

Provate a chiedere a quella ventina di sostenitori della La-zio, recatisi in Polonia per assistere a un match di Europa League dei propri beniamini e che, invece dello stadio, hanno fatto conoscenza delle celle del carcere di Varsavia.

Una vicenda per certi versi kafkiana, che è stata quasi immediatamente associata al dramma dei due fucilieri di marina, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, sotto processo in India con l’accusa di aver sparato a due pesca-tori scambiati per pirati. Qualcuno starà già storcendo il naso all’idea di accomunare due soldati in missione anti-pirateria con un manipolo di ultras in cerca emozioni forti in terra straniera, ma andando un po’ più in profondità si capirà subito che anche nel caso dei supporters laziali si è verificato l’ennesimo corto circuito all’interno delle nostre istituzioni politiche e diplomatiche.

Il primo tratto comune tra le due vicende è la sottovaluta-zione: sia nel caso dei Marò sia in quello dei tifosi laziali, le autorità italiane ritengono che siano faccende destinate a ri-solversi nel giro di ore o al massimo, di pochi di giorni. Così non è. Dal pomeriggio del 28 novembre, giorno della partita, vengono arrestati tra i centocinquanta e i duecento tifosi lazia-li. La maggior parte viene effettivamente rilasciata nelle ore e nei giorni successivi, ma per ventidue supporters biancocele-sti le porte del carcere di Bialoleka rimangono chiuse. Quasi tutti devono rispondere del reato di adunata sediziosa e vio-lenza contro pubblici ufficiali. I classici reati da stadio, po-tremmo definirli, senza naturalmente voler sminuire le re-sponsabilità di facinorosi e violenti; ma in questo caso, e fin dal primo momento si palesa la dura intransigenza sia delle forze dell’ordine sia dei magistrati polacchi. Che si trattasse di una partita ad alto rischio era cosa nota, soprattutto dopo le intemperanze dei circa tremila tifosi polacchi, nel match di andata. In quell’occasione, Roma fu tenuta in scacco dall’ala più estrema dei tifosi del Legia, che scorrazzarono per la capi-tale quasi indisturbati e con parecchio alcool nelle vene. Ci furono tafferugli con le forze dell’ordine che portarono all’ar-resto di nove ultras polacchi. Ma, a differenza dei colleghi italiani, i tifosi del Legia arrestati, ai quali fu comminato il classico Daspo europeo, furono immediatamente rispediti in Polonia. Qualche malpensante potrà pensare che con il so-vraffollamento delle carceri italiane non era possibile trovare

un’adeguata sistemazione a Rebibbia o Regina Coeli. Peggio ancora pensare di sottoporre a processo penale o a sanzioni pecuniarie questi hooligans in trasferta, con i carichi pendenti di cui sono oberati i nostri tribunali.

Probabilmente in Polonia le carceri sono meno affollate e i magistrati hanno anche tutto il tempo di esaminare questioni di violenza calcistica. Tant’è vero che neanche la richiesta di accelerare i tempi del Primo Ministro italiano Enrico Letta, durante la visita del 5 dicembre scorso al suo omologo Do-nald Tusk, ha sortito alcun effetto. Anzi, durante la sua perma-nenza a Varsavia, il nostro Premier ha dovuto incassare anche il giudizio tranchant del Ministro degli Interni polacco, Barlo-miej Sinkiewicz, che ha solidarizzato con i familiari degli ar-restati, ma aggiunto che la «maggior parte di loro si trova a Varsavia per assistere i propri figli banditi», arrivati in Polonia armati e assetati di vendetta. Così almeno sono stati dipinti dalla stampa polacca i tifosi arrestati e i media nostrani hanno fatto a gara per rilanciare lo stereotipo classico dell’ultras la-ziale fascista, razzista e violento.

Ma cosa è accaduto realmente a Varsavia quella gelida notte di fine novembre? Se dovessimo applicare il metro di giudizio nostrano su quanto accade regolarmente tutti i fine-settimana in Italia, potremmo tranquillamente rispondere: niente, o quasi.

Testimonianze italiane, quindi certamente di parte ma non del tutto inattendibili, parlano di una retata preventiva scattata durante il trasferimento in corteo dei circa settecento tifosi laziali da una delle principali piazze della capitale polacca dove si erano radunati per recarsi alla «Pepsi Arena», stadio del Legia Varsavia. La reazione delle forze dell’ordine scatta nel momento in cui vengono accesi alcuni fumogeni (versione laziale) o vengono lanciate alcune pietre e bottiglie (versione polizia). Gli agenti isolano un centinaio di tifosi, li caricano sui cellulari e li rinchiudono in prigione. Bene, bravi, così si fa! Tolleranza zero contro i teppisti del pallone; questi i commenti dei soliti benpensanti, ai quali probabilmente non sorge il dubbio che nel gruppone possa essere capitato anche qualcuno che cantando e scherzando marciava all’interno del corteo e che poco dopo si è ritrovato con la faccia per terra sul marciapiede ammanettato, senza aver acceso alcun fumogeno o scagliato pietre e bottiglie. Ribadiamo ancora una volta: qui non si vogliono sminuire responsabilità di delinquenti trave-stiti da tifosi, ma porre l’accento sulle pesanti violazioni com-messe in danno di un cittadino europeo (Italia=UE), privato della libertà personale e detenuto per un reato di pericolo. Le autorità polacche, infatti, hanno sempre ripetuto che i laziali sono stati fermati per impedire loro di commettere ulteriori atti di violenza all’interno dello stadio. Una volta cessata la minaccia, però quali ragioni hanno impedito il rilascio? La non residenza in Polonia degli accusati che, una volta scarce-rati, potrebbero non presentarsi alle successive udienze del processo a loro carico. Che dire? Peggio degli indiani. Come se in Italia, in presenza di gravi reati, non esistessero magi-strati in grado di giudicare e condannare i colpevoli. Neanche il patteggiamento della pena e la trasformazione in sanzione pecuniaria della pena detentiva (mille euro offerti) hanno smosso i giudici polacchi dalle loro granitiche certezze di aver acciuffato la più pericolosa banda di tagliagole romani.

A questo punto, il nostro ambasciatore avrebbe potuto proporre la stessa soluzione escogitata per le licenze dei due marò: un bel affidavit con giuramento solenne di far rientrare in Polonia gli ultras sotto processo.

Il fatto è che in questo caso, come nell’altro, si è fatto stra-me del diritto internazionale, europeo e nazionale e come al solito nessuno si è assunto un briciolo di responsabilità.

IN POLONIA come in India

di MASSIMO CIULLO

CREDIBILITÀ ITALIANA ALL’ESTERO

51 IL BORGHESE Gennaio 2014

CI SONO voluti nove anni per arrivare a una sentenza, di primo grado, nei confronti di alcuni dei responsabili della barbara uccisione di Fabrizio Quattrocchi in Iraq. Una sen-tenza che certamente non può soddisfare i parenti del gio-vane contractor genovese, giacché i giudici della prima Corte d�Assise di Roma hanno assolto dall�accusa di terro-rismo Hamed Hillal Al Qubeidi e Hamid Hillal Al Qubei-di, componenti del gruppo islamista Falangi Verdi respon-sabile, nell�aprile del 2004, del rapimento di Salvatore Ste-fio, Umberto Cupertino, Maurizio Agliana e appunto Fa-brizio Quattrocchi. Non sono state dunque accolte le ri-chieste del pubblico ministero Erminio Amelio (venticinque anni di carcere per finalità terroristiche), così come non è stato attribuito valore probatorio alle dichiara-zioni di Stefio che in udienza aveva riferito le parole di uno degli imputati (a piede libero in Iraq) circa la parteci-pazione alla strage di Nassiriya. Secondo i magistrati l�atto di sequestrare e uccidere i prigionieri italiani non avrebbe potuto pregiudicare l�assetto democratico dello Stato ita-liano. Il legame degli imputati con gruppi eversivi non sa-rebbe stato provato, nonostante i numerosi video diffusi a rivendicazione delle proprie azioni, il lungo lavoro degli inquirenti americani e il fatto che gli stessi accusati abbia-no scontato un periodo di detenzione presso il famigerato carcere di Abu Ghraib, vicino a Baghdad. Una sentenza che ha lasciato di stucco i parenti di Quattrocchi, già in passato oggetto di polemiche dopo la decisione dell�allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi di con-ferire alla memoria di Fabrizio una medaglia d�oro per il coraggio mostrato di fronte agli assassini e le parole pro-nunciate al momento dell�esecuzione («Vi faccio vedere come muore un italiano»).

Le motivazioni della sentenza non sono piaciute alla risicata rappresentanza parlamentare di destra (Fratelli d�I-talia, in testa) mentre negli altri schieramenti politici biso-gna registrare un atteggiamento di distacco e disinteresse.

Difficile dimenticare le polemiche innescate in passato da Giuliana Sgrena e Rosa Calipari, poi eletta in Parlamento tra le fila del PD, circa la decisione presidenziale di confe-rire la medaglia d�oro a Quattrocchi: la giornalista del Ma-nifesto, già oggetto di un sequestro a scopo di estorsione in Iraq, conclusosi con la morte dell�agente del Sismi Nicola Calipari, ha sempre qualificato Quattrocchi come merce-nario (nonostante il contractor italiano non svolgesse compiti di «guerra sporca» ma di protezione fisica di per-sonalità rilevanti, nell�ottica di un subappalto compiuto dalle forze americane, in accordo con quanto disposto dal-la legge 210/95 in merito alla definizione dell�attività tipi-ca del mercenario).

La sentenza della Corte d�Assise di Roma ha destato scalpore anche perché, di fatto, contraddice le motivazioni per le quali Ciampi concesse la medaglia d�oro a Quattroc-chi: nella motivazione ufficiale, infatti, si spiega che l�atto di eroismo del giovane genovese deve essere inquadrato nell�ambito di un�azione che non può che essere definita come terroristica.

La vicenda di Quattrocchi merita comunque attenzione, di là della sentenza che il pubblico ministero impugnerà in appello. Per esempio suscitano interesse alcune indiscre-zioni giornalistiche, pubblicate sul Corriere della Sera, secondo le quali sarebbe circolata la notizia del rapimento di Quattrocchi due giorni prima della data ufficiale del pre-levamento (12 aprile 2004) avvenuto durante uno sposta-mento in auto dall�Iraq alla Giordania. Un rapporto Digos cita una telefonata avvenuta tra un dirigente Digos e un agente Sisde nella quale sarebbero state chieste informa-zioni su due genovesi rapiti in Iraq, tra cui lo stesso Quat-trocchi. In pratica diversi elementi, tra cui il nome di Quat-trocchi e la società per cui lavorava, ovvero l�Isba (acronimo di Investigazioni, Bonifica, Servizi sicurezza e Allarmi), sarebbero emersi prima dell�effettivo sequestro. Già la sera del 10 aprile la possibilità che un genovese po-tesse essere vittima di un rapimento in Iraq circolava nelle redazioni senza trovare conferme. Secondo Giuseppe D�A-vanzo, noto giornalista di Repubblica recentemente scom-parso, il rebus si spiegherebbe ipotizzando la possibilità che i quattro italiani siano stati sequestrati in momenti di-versi: Quattrocchi per primo, il 10 aprile, e gli altri tre il giorno seguente, ossia domenica 11 aprile. Le modalità di reclutamento sono state poi oggetto di ampio accertamento da parte dell�autorità giudiziaria, con l�assoluzione di tutti i protagonisti italiani coinvolti. Circa le ragioni dell�ucci-sione di Quattrocchi, uno dei possibili responsabili del suo sequestro, Abu Yussuf, ex informatico di origine magrebi-na convertitosi alla causa della Jihad dopo aver assistito ad

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«NON FU terrorismo»

di NICOLA VENTURA

ASSOLTI I «KILLER» DI QUATTROCCHI

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52 IL BORGHESE Gennaio 2014

IN PRINCIPIO era il latino, lingua dell’Impero Romano e poi, nel Medio Evo, lingua dotta e - nella sua versione po-polare - lingua franca di tutti i popoli europei e africani ed asiatici che dell’Impero Romano avevano fatto parte. In

alcuni discorsi di Osama Bin Laden, ebbe modo di dichia-rare alla stampa britannica che il genovese era stato am-mazzato perché aveva partecipato, da mercenario, ad alcu-ne missioni in Paesi a forte presenza musulmana come Bo-snia e Nigeria (circostanza sempre smentita dalla famiglia dell’ucciso). Desta poi curiosità la grande pigrizia con la quale la stampa italiana ha sempre trattato la vicenda Quattrocchi: l’unico documentario, ancora reperibile in rete, sull’attività dei contractors italiani in Iraq, fu prodot-to dalla televisione svizzera francese RTS Un. Così come sono ancora reperibili su internet i documenti che rendono note le modalità attraverso le quali venivano condotti gli arruolamenti (tutto avveniva on line su forum appositi, già nel 2004, almeno a livello di prima conoscenza e invio dei curricula); la preferenza veniva concessa a chi in passato avesse fatto parte di reparti di élite, come i lagunari del Battaglione San Marco.

COLONIZZATA dall’inglese

di MICHELE RALLO *

UN’EUROPA CADUTA IN BASSO

IN MOLTI ricorderanno un film interpretato da Demi Moore e Viggo Mortensen, Soldato Jane. Si narrava la storia di un ufficiale donna della Marina militare degli Stati Uniti, scel-ta, per motivi politici e di potere, per partecipare al corso di addestramento dei Navy Seal. Reparto di eccellenza, prota-gonista di tante operazioni militari in varie parti del mondo, è diventato famoso negli ultimi anni, per aver «catturato» ed «ucciso» bin Laden. La sua fama è simile a quella del nostro Reparto Subacquei ed Incursori «Teseo Tesei», sicu-ramente il miglior reparto di Forze speciali del mondo.

Tornando al Soldato Jane, Demi Moore, che interpre-ta l’ufficiale destinata al corso Seal, si sottopone ad una serie di prove, che la porteranno ad un primo ritiro. In seguito, in un burrascoso colloquio con la senatrice, pre-sidente della Commissione che l’aveva «usata» per i suoi fini politici, si sentirà dire che è ancora troppo presto per mandare le donne in prima linea e che il popolo america-no non è pronto a veder tornare le proprie madri, sorelle, figlie, in una bara. Naturalmente, l’ufficiale riesce a rien-trare nel corso di addestramento, lo supera e salverà i suoi «fratelli» in una azione sul suolo africano.

Oggi, il popolo era pronto a vedere morire in batta-glia le donne americane? Il primo passo verso quel obiet-tivo è stato fatto. La decisione di inserire anche le donne nei corsi di addestramento dei Marines, presso la base di Quantico, è stata una iniziativa dell’allora segretario alla Difesa, Leon Panetta, in seguito confermata dal suo suc-cessore Chuch Hagel. Scopo, aprire l’Esercito anche al sesso femminile, per quanto riguardava i compiti di pri-ma linea, ponendo il termine del 2016 per completare l’inserimento di donne nei reparti combattenti.

Dopo alcuni fallimenti, è toccato a tre «soldatesse» scelte superare il traguardo del corso per i test di com-

battimento. Questo non vuol dire che le donne non fosse-ro già presenti nei reparti operativi. Come piloti di aerei e di elicotteri, le donne ormai combattono da anni, e muoiono. Tra l’Iraq e l’Afghanistan, sono 150 le donne cadute in combattimento.

Il motivo di questo progetto è nel riscontro di un calo sensibile negli arruolamenti, ed il ricorrere ai contractors in maniera fisiologica, comporta grossi problemi politici negli uffici di Washington. Non potendo ripristinare la leva obbligatoria, che, per quanto riguarda il popolo americano, è ormai una cosa superata dopo il disastro politico della guerra in Vietnam, si è pensato all’altra «metà del cielo». Chiaramente i primi a fare il test, sono stati i Marines, da sempre truppe scelte, e simbolo, nell’immaginario americano della presenza militare sui vari teatri di guerra

Al mondo, però, esiste un altro esercito che questo problema lo ha affrontato e risolto da 65 anni: Tsahal, le forze armate israeliane. Fin dal 1948, con le ragazze del Palmach e dell’Haganah, furono gettate le basi per quel-lo che sarà Tzva HaHagana LeYisra'el, in breve Tsahal.

Il problema delle donne in combattimento, per Israe-le, è sempre stato motivo di grossi problemi. Dato che il nemico da sempre è arabo, per Tsahal era importante ga-rantire la sicurezza delle donne in caso di cattura o feri-mento. Inoltre, si era riscontrato che gli uomini, durante il combattimento, tendevano a porre la sicurezza delle donne al loro fianco al di sopra della loro, esponendosi ad un maggior rischio di morte o cattura.

Oggi, l’esercito americano si trova ad affrontare sem-pre di più piccoli conflitti locali, nei quali non è più il combattimento tra due opposti eserciti a regolare il gio-co, ma la guerriglia a farla da padrone. A questo, dopo il Vietnam, ancora non sono riusciti a prepararsi e forgiare truppe adatte.

Un film italiano, La battaglia di Algeri, è studiato a West Point, come esempio sull’affrontare una guerra non convenzionale. Stessa cosa per il libro di Jean Lartegu, I centurioni, al quale il film si ispirò.

Oggi, la figura del soldato, uomo o donna che sia, è sempre di più legata ad interessi economici degli Stati per i quali combattono. Per cui «soldato, non chiedere, né adesso né mai di tue bandiere al seguito in guerra dove andrai …»

Soldato, non chiedere ...

di MARY PACE

53 IL BORGHESE Gennaio 2014

to, si sarebbe precipitato a prendere lezioni di francese. Nel Paese dei cow-boy, invece, l’arroganza imperava e il signor Wilson non si preoccupava di presentarsi ad un alto consesso internazionale senza conoscere la lingua parlata dai rappresentanti di tutte le altre nazioni (Gran Bretagna compresa). O, forse, era tutto calcolato.

In ogni caso, accampando la non conoscenza del fran-cese da parte di Wilson (e non curandosi della non cono-scenza dell’inglese da parte del Primo Ministro italiano), gli anglosassoni imponevano l’inglese come lingua ufficia-le della Conferenza. E questo, malgrado la Conferenza si svolgesse a Parigi e malgrado il francese fosse - come ab-biamo visto - la lingua ufficiale della diplomazia mondiale. Così, mentre affermavano l’inglese come nuova lingua delle relazioni internazionali, gli anglo-americani iniziava-no la colonizzazione culturale dell’Europa. La Francia non sembrava accorgersi di questa vergognosa manovra di spo-liazione. Il Primo Ministro francese Clemenceau preferiva ostacolare le legittime aspirazioni italiane (per Fiume, per il Montenegro, per una posizione di prestigio nell’Europa Orientale), non rendendosi conto che, così facendo, candi-dava Parigi ad un ruolo che - come dirà Mussolini - sarà di semplice cameriera dell’Inghilterra.

I frutti di quel nefasto gennaio 1919 sono oggi sotto gli occhi di tutti: la lingua inglese non ha soltanto soppiantato la francese come strumento di comunicazione diplomatica, scientifica e commerciale, ma è anche diventata veicolo di penetrazione culturale degli Stati Uniti verso tutti i Paesi del mondo e, segnatamente, verso i Paesi europei. Naturalmente, la penetrazione culturale è automaticamente uno strumento formidabile di penetrazione (e talora di colonizzazione) politi-ca. La lingua è, infatti, veicolo di cultura scientifica, ma anche - e forse soprattutto - di cultura spicciola, popolare. La diffu-sione della lingua significa cinema, musica, letteratura; signi-fica proporre l’immagine di un modello culturale e politico da far acquisire come «positivo» dalle popolazioni che si voglio-no egemonizzare. Ecco, così, che accanto alla musica rock e alla festa di Halloween, i popoli europei hanno acquisito an-che la mentalità dell’«arrivano i nostri», la convinzione che gli Americani siano sempre i «buoni» della situazione, i «liberatori» impegnati ad esportare la democrazia - come ieri in Europa - in Vietnam, in Nicaragua, in Afganistan, in Iraq, in Libia, in Siria, e così via.

Al di là, comunque, degli aspetti squisitamente politici, gli effetti pratici di una tale colonizzazione culturale sono evidenti. Si va dai nomi propri rielaborati in chiave anglica (Tonio diventa Tony, Maria diventa Mary, eccetera) ai tito-li dei film, che oramai ci vengono proposti direttamente in inglese: Pretty Woman (Bella Donna), Ghost (Fantasma), Star Trek (Viaggio Stellare), Predator (Predatore) e via discorrendo.

E la pubblicità televisiva? Una volta si accontentavano di sovrapporre qua e là una frase in inglese, o di america-nizzare le sigle: by Giorgio Armani, per esempio. Adesso sono arrivati al punto di proporci George Clooney in uno spot tutto in inglese con sottotitoli in italiano. Avete capi-to? A noi, a casa nostra, sono riservati i sottotitoli: come se fossimo una tribù indiana in via di estinzione. Forse è que-sto il futuro che vogliono riservare alla nostra lingua? Da erede del latino, da lingua di Dante e di Petrarca a dialetto da riserva indiana? Perché non reagiamo? Perché non ini-ziamo, per esempio, a non comprare i prodotti che sono reclamizzati in inglese?

* Ex parlamentare, membro delle commissioni Esteri e Politiche dell’Unione Europea della Camera dei Deputati

sèguito, parallelamente al consolidarsi di diverse lingue «volgari» (cioè parlate dal volgo, dal popolo), il latino an-dava perdendo gradualmente il ruolo di lingua universale. Le lingue «parlate» diventavano - più o meno rapidamente - anche le lingue «scritte» dei popoli e, attraverso gli stru-menti letterari (come da noi la Divina Commedia), si affer-mavano come lingue «nazionali». Rimaneva, comunque, l’esigenza di una lingua universale, di una lingua - cioè - che potesse essere usata nei rapporti diplomatici da tutte le nazioni e che fosse veicolo di cultura e strumento di comu-nicazione nei traffici internazionali. Questa lingua avrebbe potuto essere quella italiana, erede diretta della latina. Ma il nostro ritardo nel raggiungimento dell’unità nazionale (ottenuta soltanto a metà Ottocento) e poi la ridottissima espansione coloniale ci ponevano all’ultimo posto nella graduatoria delle nazioni neolatine: dopo la Francia, dopo la Spagna, dopo - addirittura - il piccolo Portogallo che poteva vantare un immenso impero coloniale, esteso dal Brasile all’Africa Australe.

La nuova lingua franca dei rapporti internazionali di-ventava dunque la francese: per secoli saranno redatti in francese sia i trattati diplomatici che gli accordi commer-ciali internazionali; e, per secoli, chiunque aspirasse a far parte della classe dirigente (politica, culturale, imprendito-riale) di qualunque nazione appartenente al «consorzio dei Paesi civili» doveva necessariamente conoscere «il gallico idioma». A noi Italiani la cosa andava abbastanza bene: il francese era una lingua affine alla nostra, con una gram-matica simile, con tanti vocaboli che avevano una comune radice di derivazione latina, ed era - per gli studenti italiani - di facile apprendimento; contrariamente all’inglese ed alle altre lingue del ceppo germanico, con le loro gramma-tiche aliene, con i loro vocabolari incomprensibili, con i loro suoni aspirati e gutturali.

La primazia della lingua francese, però, era nient’affat-to gradita dall’altra superpotenza europea, la Gran Breta-gna. Non soltanto quell’idioma appariva ostico agli inglesi (per motivi speculari a quelli che lo rendevano familiare a italiani, spagnoli e portoghesi), ma tutto intero il “sistema” britannico soffriva per il primato linguistico di Parigi: per ragioni di prestigio, certamente; ma anche per ragioni pra-tiche, per esigenze commerciali, per aspirazioni culturali che avrebbero avuto evidenti ricadute in àmbito politico.

Il momento della riscossa per Londra giungeva con la prima guerra mondiale e con l’ufficializzazione dell’al-leanza di ferro con un lontano paese di lingua inglese: gli Stati Uniti d’America. Prendeva forma un blocco intercon-tinentale di lingua e di cultura anglosassone, formato dall’Impero Britannico con tutte le sue colonie e con i suoi grandi Dominions semiautonomi (Canada, Australia, Sud Africa, eccetera) e, appunto, dagli Stati Uniti. Era quella che il generale Smuts - Ministro della Guerra sudafricano - chiamava «la federazione britannica delle nazioni» e che considerava estranea al consorzio europeo: «Tenete pre-sente che, dopo tutto, l’Europa non è così grande e non continuerà ad apparir tale in avvenire…», affermava Smuts. «Non è l’Europa soltanto che dobbiamo prendere in considerazione, ma anche l’avvenire di quella grande confederazione di Stati alla quale noi tutti apparteniamo.»

Ma era con la Conferenza della Pace (aperta a Parigi il 18 gennaio 1919) che il blocco anglofono portava l’attacco decisivo alla lingua francese. Il Presidente degli Stati Uniti - Woodrow Wilson - non la conosceva. Probabilmente, in qualsiasi Paese europeo uno come lui non sarebbe mai di-ventato Capo di Stato o di Governo; e, se ciò fosse accadu-

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dere alla luce l’efficacia e l’efficienza dei Suoi indirizzi governativi.

Nel numero di novembre ultimo scorso della nostra ri-vista, abbiamo avuto modo di poter analizzare, seppur in maniera parziale, le attività del Mese ma, visto lo straordi-nario successo, si è ritenuto doveroso passare in rassegna una seconda parte di eventi, non citati nel numero prece-dente per motivi di spazio, altrettanto importanti per l’otti-ma riuscita, giustappunto, del Mese.

Il tema conduttore del 2013 è stato, come ricordato nel numero succitato: «Ricerca, scoperta, innovazione: l’Italia dei Saperi»; all’interno di tale tematica un pregevole sot-toinsieme da analizzare è l’attenzione posta al tema delle città: nella fattispecie Genova e Verona.

Sabato dodici ottobre, presso la fantastica cornice dell’Hotel de Paris, si sono tenuti una serie di incontri con il mondo economico ed imprenditoriale genovese, per la presentazione del Parco Scientifico e Tecnologico di Ge-nova che ha avuto, come era logicamente consequenziale, come filo conduttore, l’analisi degli sviluppi che la città, i cui palazzi storici appartengono dal 2006 al Patrimonio dell’Umanità Unesco, sta avendo sotto i profili culturale, urbanistico e, finanche, imprenditoriale.

Il sabato successivo, diciannove ottobre, nella Chiesa di Santa Devota, è andato in scena forse l’evento più suggesti-vo dell’intera manifestazione: La Messa della Sorbonne.

La corale «Ars Vocalis» , più conosciuta come il Con-servatorio di Cannes, composta da cinquanta elementi ac-compagnati da un pianista, ha eseguito la Messa succitata che, oltre ad essere un testo polifonico del XIV secolo è, per di più, una delle sole cinque messe polifoniche trecen-tesche complete esistenti al mondo.

Martedì ventidue ottobre, presso lo Yacht Club Mona-co, si è tenuta un’ interessantissima tavola rotonda dal te-ma: «Arte e Finanza», organizzata da Federica Morandi, storica dell’arte e consulente artistico e da Stefania Pen-nacchio, artista, in occasione della personale di quest’ulti-ma, che ha affrontato il connubio delle tematiche inerenti, per l’appunto, i temi dell’arte e della finanza: dal ruolo delle fiere d’arte all’andamento delle vendite delle case d’asta, passando ad analizzare le aste on line e le possibili-tà di poter sviluppare delle potenzialità economico-affaristiche, sul collezionismo d’arte.

Da mercoledì ventitré a giovedì trentuno ottobre si è tenuta, come citata poc’anzi, presso la Galerie Carré Do-ré, la mostra personale di Stefania Pennacchio: «Nereidi» che, prendendo il nome dalle cinquanta figlie di Nereo ha manifestato, analizzandolo tramite le venticinque sculture di ceramica, la poliedrica psicologia dell’universo femmi-nile, in quanto le Nereidi rappresentano, in questo caso, la metafora del rapporto dell’emozionalità, della «pancia» con la parte più vera e forse più ruvida dell’esistenza.

L’EDIZIONE duemilatredici del Mese della Lingua e della Cultura Italiana presso il Principato di Monaco, giunto or-mai alla terza manifestazione consecutiva, ha riscontrato un successo ed una partecipazione agli eventi, da parte del pubblico e degli addetti ai lavori, di gran lunga superiori rispetto alle omonime degli ultimi anni, che avevano già riscontrato, peraltro, un considerevole apprezzamento.

Tale successo è frutto di alcuni, importantissimi, punti cardine: innanzi tutto la pregevole qualità e caratura di ogni singola manifestazione, corroborata da uno o più arti-sti di riferimento, che hanno contribuito a renderli unici, ognuno nel proprio settore di riferimento; l’impeccabile organizzazione, a cui ancora una volta va fatto un plauso alla DBI – Development Business Informatique che ha cu-rato, in maniera eccellente, tramite gli aggiornamenti sui social network e sul sito dell’Ambasciata tutto lo svolgersi del Mese ma, indiscutibilmente, il merito più grande del travolgente successo della manifestazione va accreditato a Sua Eccellenza Antonio Morabito, Ambasciatore d’Italia presso il Principato di Monaco che ha permesso, grazie al-le sue direttive, alla sua organizzazione ed alla basilare im-portanza che riveste, nelle Sue importantissime funzioni diplomatiche, alle tematiche culturali, che hanno da sem-pre composto l’architrave dei Suoi operati, nelle sedi all’e-stero che hanno avuto la fortuna di poter ospitare e di ve-

UN GRANDE SUCCESSO grazie all’Ambasciatore Morabito

a cura di ROBERTO INCANTI

PRINCIPATO DI MONACO - IL MESE DELLA LINGUA E DELLA CULTURA ITALIANA

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Mentre nell’Odissea erano incontrate da Ulisse e rappre-sentavano un trait d’union con un immaginario ostile e di-struttivo, in questo caso l’Ulisse immaginario che viene in contatto con loro, e che ha il coraggio di «sentire» la parte più profonda del proprio essere, verrà condotto verso la parte più vera ed autentica della propria persona, riscattan-do così l’originalità e l’autenticità, connaturata in ciascun essere umano, ognuna con la propria forma ed i propri trat-ti peculiari.

Sempre rimanendo in tema di arte da martedì quindici ottobre fino a sabato ventisei è andata in scena, nel Palaz-zo Barclays situato nel cuore di Montecarlo, la Mostra col-lettiva degli artisti italiani del Mese della Cultura e della Lingua italiana, che ha visto l’esposizione di numerosi ar-tisti e giovani talenti che hanno impreziosito, con le loro opere, la perfetta riuscita di questa esposizione, cogliendo numerosi ed importanti apprezzamenti, da parte di un pub-blico esperto e fortemente appassionato d’arte.

Dopo la volta di Genova, è venuto il momento di cele-brare e rendere omaggio ad un’altra magnifica città italia-na: Verona. Presso la Salle Belle Epoque dell’Hotel Hermi-tage, sabato 26 ottobre, il Mese della Cultura e della Lin-gua italiana ha voluto rendere omaggio a questa città dedi-candole una serata di gala, organizzata nella cornice pre-detta, denominata: «Gran Gala di Romeo e Giulietta», fi-

nalizzata a far conoscere, nel Principato di Monaco, le ec-cellenze del territorio veneto.

Martedì ventinove la band ligure «Buio Pesto» si è esibi-ta, nel contesto dello «Zero Euro Tour 2013» finanche nel Principato impreziosendo, tramite l’esibizione in dialetto ligu-re, il calendario degli eventi del Mese, spaziando sapiente-mente dalle canzoni degli album pubblicati ai rifacimenti di brani di artisti genovesi, italiani ed internazionali.

Da menzionare, in conclusione, una delle arti italiane più rinomate nel mondo: la gastronomia. Presso il Café de Paris, situato nella piazza del Casinò di Montecarlo, giovedì trentu-no ottobre l’Accademia Italiana della Cucina, istituzione cul-turale della Repubblica Italiana, tramite la Delegazione mone-gasca ha voluto offrire, ai suoi accademici ed ospiti, la cosid-detta Cena Ecumenica, ispirata quest’anno dal menù di tradi-zioni trentine, per far conoscere ed apprezzare ancora di più le eccellenze e l’arte della cucina italiana.

Insomma, la terza edizione del Mese della Cultura e della Lingua italiana nel Principato di Monaco, sospinto magistralmente dal Ministero degli Esteri italiano, ha ri-scontrato, per gli eventi e le atmosfere succitate, un inte-resse ed un successo strabiliante e siamo certi che, con queste premesse e con l’instancabile opera di Sua Eccel-lenza l’Ambasciatore Antonio Morabito, nell’edizione del prossimo anno ne vedremo, ulteriormente, delle belle.

MESE DELLA CULTURA E DELLA LINGUA ITALIANA

Inaugurazione della mostra «Decifrati» dell’artista Catrinel Marlon presso la «Salle du Ponant» Centre de Rencontres Internationales

Da sinistra: Victoria Girone, Baronessa Mariuccia Zerilli Marimò, Tullia Canciani, Maria Franca Ferrero, Annie Me-lan, Luisa Ferrero, S.E. l’Ambasciatore Antonio Morabito, S.E. Procuratore Generale di Imperia Giuseppa Geremia, l’Ambasciatrice Carina Morabito, S.E. Prefetto di Savona Gerardina Basilicata, S.E. Prefetto di Imperia Fiamma Spena

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Erasmo Cinque interviene questa volta dopo una specie di sommossa a Palazzo: Forza Italia che ha annunciato di passare armi e bagagli all’opposizione (sulla Ue, la legge di Stabilità, l’immigrazione, i temi etici, l’economia, la giustizia, le tasse etc), andando a raggiungere la Lega, Sel e Grillo, mentre si indebolisce vieppiù l’area della maggio-ranza, ridotta a Scelta Civica divisa in tanti rivoli e sulla via della decomposizione, il Nuovo Centro-Destra e un Pd fresco di vittoria renziana e per questo, portatore di nuove ulteriori e future fibrillazioni interne (cosa faranno i vari Cuperlo e Civati e i rottamati D’Alema, Bindi, Bersani, Marini?). Una politica ufficiale e istituzionale guidata or-mai, a parte l’ottantenne Silvio Berlusconi e l’ultraottan-tenne Giorgio Napolitano, da arrembanti quarantenni e po-co meno (Alfano, Renzi stesso, Salvini neo segretario del Carroccio, che ha definitivamente mandato in soffitta Bos-si). E come se non bastasse, la vera sommossa, quella del Paese, mentre stiamo scrivendo, sta assumendo i contorni, la forma e sostanza fisica dei Forconi, vero e proprio cro-cicchio di tutte le proteste di una società civile, affamata dalla crisi, che ha già oltrepassato Grillo e l’antipolitica, per approdare verso lidi quasi rivoluzionari, se non insur-rezionali. Erasmo Cinque, facciamo il solito punto con i lettori, Renzi ha stravinto le primarie del suo partito: è il nuo-vo segretario del Pd, candidato alla premiership del Paese, col consenso, arrivato e che arriverà, anche dei moderati di centro-destra. E’ arrivato finalmente il Messia: con lui tutti i nostri problemi saranno risolti? “Innanzitutto andiamoci piano. Al governo c’è ancora Let-ta e mi sembra che pure l’attuale maggioranza abbia i nu-

meri per restare, o per lo meno per tentare qualche rifor-ma. Dopo di che vedremo. Per quanto riguarda il fenome-no-Renzi, il messaggio è chiaro: quando si vive a contatto quotidiano con la crisi, quando si tenta di sopravvivere, barcamenandosi tra tasse, bollette e prestiti, e lo vediamo con le mille proteste che stanno montando dal Paese… quando per la prima volta, come mai accaduto in passato, la rabbia è interclassista; in piazza vediamo, infatti, disoc-cupati, operai, imprenditori, ceto medio caduto in disgra-zia, lavoratori di ogni tipo, anziani, giovani, pensionati, immigrati… quando i poliziotti si tolgono i caschi e frater-nizzano con la protesta, significa che stiamo assistendo a qualcosa di nuovo. Ed è logico che la piazza, il popolo si aggrappino al salvatore, al messia, alla speranza, alla for-za e al carisma di un uomo ritenuto e percepito come onni-potente in grado di salvare capra e cavoli” Quindi tutto bene, un po’ come il Cavaliere nel 1994, simbolo di un miracolo economico promesso e però, non mantenuto… “Ecco, il tema è questo. Attenzione c’è un ma: le promesse facili nei tempi di crisi, devono avere un immediato ri-scontro, nelle cose realizzate, altrimenti la disperazione, la frustrazione potrebbero diventare estremamente violente. Renzi si è assunto una grande responsabilità. Guai a colti-vare aspettative che poi si disattendono. Promettere è faci-le, mantenere è molto più difficile” Anche perché abbiamo i Forconi che già sono scesi in piazza, inforcando l’Italia con i loro blocchi: prove tec-niche di ghigliottina, se la politica si dimostrerà ancora una volta incapace? “I Forconi era facile prevederli: quando la parte privata del Paese paga in prima persona lo scotto di politiche sbagliate, imposte dalla Ue; quando le famiglie devono versare ogni giorno lacrime e sangue, scompare il tessuto civile di una società. E le risposte possono andare in qua-lunque direzione” E allora qual è la sua ricetta di Natale? “La solita, da buon padre di famiglia. Dobbiamo interve-nire presso l’Europa chiedendo la modifica del patto di stabilità, non c’è liquidità, bisogna rovesciare, ribaltare, le ricette economiche improntate sul rigore, sugli interessi delle banche e non sullo sviluppo, varate specialmente da Monti, in ossequio alla dittatura della Merkel. Questa operazione verità va fatta per Natale, altrimenti non ne usciremo” Solo questo? “No, dobbiamo individuare i responsabili delle crisi, i tra-ditori della patria” Altrimenti ci resta Renzi… “Il messia è arrivato, ma uomo avvisato, mezzo salvato. Se non si muove, se non è all’altezza del marketing, sarà cro-cifisso”

«Caro Renzi-Messia, attento, se non mantieni le promesse la gente ti crocifigge»

PARLA ERASMO CINQUE (IMPRENDITORE)

TERZA PAGINA più delicata, disciplina, almeno in questo senso, in altre parole la storia. L’indottrinamento, di fatto, continue-rebbe, indisturbato, per la disciplina che si rivela essere comunque impor-tante ai fini del raggiungimento di una preparazione omogenea da parte degli studenti, cioè lo studio della letteratura italiana, all’interno della quale verrebbero proposti modelli prevalentemente distorti ed ideologi-camente orientati: ad esempio, non sarà presentato nel modo dovuto un vero e proprio genio della nostra let-teratura del ’900 che ha contribuito in maniera sistematica allo sviluppo ed alla frammentazione progressiva dell’Io all’interno di romanzi e tragi-commedie, che è stato apprezzato da tutto il mondo (da Berlino alla città della Grande Mela), quale Luigi Pi-randello, anzi qualcuno proverà a de-finirlo un poetuncolo da strapazzo, che decise di aderire al Partito Fasci-sta soltanto ed esclusivamente per convenzione, quando lui stesso scri-verà, a L’Idea Nazionale, il 28 otto-bre 1923: «Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servi-ta sempre in silenzio. Se l’E.V. mi sti-ma degno di entrare nel Partito Na-zionale Fascista, pregierò come mas-simo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con de-vozione intera».

E, come riporterà «L’Impero», il 23 settembre 1924: «L’intuizione pi-randelliana della vita politica è so-stanzialmente fascista (e tale era an-che prima che il Fascismo si definis-se) in quanto nega i concetti di asso-luto (vedi immortali princìpi) e affer-ma la vitale necessità della continua creazione di illusioni, di realtà relati-ve, mete sempre fuggenti delle aspi-razioni umane che, così solo, in que-sta perpetua corsa a una verità mai raggiungibile in assoluto, possono vivere e dar frutti».

Da queste parole risulta evidente come il Grande Maestro abbia trova-to in quella più compiuta forma di Stato liberale un ambiente assai salu-bre nel quale sviluppare al meglio la sua profonda ed autentica sensibilità artistica.

Verrà dunque presentato all’atten-zione degli studenti anche un grande quale D’Annunzio, il Vate, apostro-fandolo come saltimbanco, quando

stesso ragazzo, alla fine della giorna-ta, avrebbe fatto rientro a casa con una gigantesca confusione in testa e, come se non bastasse, anche con un brutto voto in storia, del tutto imme-ritato.

C’è dell’altro, però, soprattutto quando lo studentello in questione inizierà a sfogliare e a maneggiare i primi manuali di storia, alla ricerca di alcune valutazioni sull’Età Contem-poranea. In (quasi) tutti leggerà, in-fatti, che Stalin fu un dittatore piutto-sto severo, ma in fondo buono, men-tre sarà costretto a riempirsi la testa con giudizi tanto negativi, quanto iperbolici e non del tutto attendibili riferiti al Duce degli Italiani, Benito Mussolini, ucciso senza nemmeno essere stato sottoposto ad un regolare processo. Un Paese davvero molto democratico, quello in cui viviamo!

Verrebbe dunque da pensare che le pensioni, le bonifiche, gli ospedali, l’edilizia, le colonie ed il senso del rispetto per gli adulti e per i superiori fossero stati trasmessi, in Italia, da Stalin e non da quell’onesta genera-zione di lavoratori e di cittadini labo-riosi che avevano giustamente visto nel Fascismo l’unico baluardo possi-bile davanti al devastante dilagare del bolscevismo.

Il nostro caro studente, nondime-no, sarebbe soltanto all’inizio di un sistematico lavaggio del cervello, all’interno del quale gli verranno for-niti dati per lo meno distorti o usati in maniera tendenziosa, ma chissà che, arrivati ad un certo punto dell’anno scolastico, qualcuno non arrivi anche a consigliargli, ed in maniera più o meno obbligatoria, lo schieramento politico da votare per la sua prima volta. Anche questo, ragazzi, è un lampante esempio di democrazia. Democrazia all’italiana, però.

Questo, tuttavia, non soltanto per quanto riguarda una sola, e forse la

«PROFESSORESSA, ma che cos’è il comunismo?», domanda il classico studentello sprovveduto alla sua do-cente, nell’errata convinzione che l’insegnante risponderà in maniera oggettiva, cercando, così, di adem-piere al proprio dovere. Quest’ultima, osservando dall’alto della sua presun-zione didattica il malcapitato, il quale ha, come unico torto, la colpa di ignorare il significato di questo aber-rante termine, gli risponde fredda: «Il comunismo è la massima espressione di libertà mai concepita dagli uomini e coloro che lo professano sono per-sone democratiche, che svolgono con dedizione e profondo senso di re-sponsabilità il loro lavoro in favore della giustizia sociale». A questo punto, però, il ragazzo aggrotta la fronte, e chiede ancora: «... ma prof... allora cos’è il Fascismo? La risposta che mi ha dato mi lascia un po’ per-plesso, perché ho letto in un libro che parlava del Ventennio gli stessi ag-gettivi da lei adoperati». La docente, allora, ancora più indignata di quanto già non fosse prima, tutta stizzita, si affretta a rispondere al giovane, per non dare troppo tempo ai ragazzi del-la classe di pensare: «Chi te l’ha det-to? Non è vero! Voglio parlare subito con un tuo genitore! A proposito... ti interrogo in storia! Vieni!»

Potete tranquillamente immagina-re l’esito della «onesta» chiacchierata tra i due ed il voto espresso dalla do-cente. Se tutto è andato come previ-sto e se il ragazzo, oltre ad averla in-dispettita, aveva anche la colpa di non aver studiato in maniera appro-fondita, come qualche volta può an-dare, l’insufficienza o - al più, la suf-ficienza risicata, concessa per pietà (o almeno così l’arguta professoressa potrebbe tentare di giustificare l’as-senza totale di comprensione nei con-fronti del malcapitato) - non gliel’a-vrebbe tolta proprio nessuno! Lo

Un’amorevole ipocrisia

di MARIO CODA

LIBERTÀ DI OPINIONE A SCUOLA?

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lente a George Washington, che ne sco-prì l’utilità e la applicò al suo esercito che ai tempi di Giorgio III occupava la metà del continente americano, trasfor-mando gli occupanti in apolidi d’Ame-rica, cioè in americani.

Mi chiedo: l’ostentazione del bianco ad accogliere il nero, di cui si bea l’antirazzismo odierno, non è un disconoscimento dell’orgoglio del se-condo di voler essere diverso come lo è? Che cosa è dunque il razzismo se non il diritto di ogni «razza» umana a sopravvivere, non annullandosi nel «meticciato»? Allora, non sarebbe meglio conservare, invece di demolire gli Stati nazionali d’Europa, fondati sui valori di ricchezza culturale, dovu-ti alle diversità delle nazioni, lingua e cultura, oggi messi in discussione dal-la cultura multietnica e multitutto americana, grazie al fenomeno migra-torio mirante a estendere anche all’Europa l’adozione dello ius soli, in luogo del tradizionale ius sanguinis, su cui si fondavano gli Stati europei?

Che cosa facciamo accogliendo mi-lioni di africani, asiatici e altri, allettati dal nostro benessere, li facciamo nostri per annullarci tra dieci anni negli Stati Uniti di una Europa non più di nazioni, ma di «meticciati» e «meticcianti» allo stesso modo in tutti gli Stati, da render-ci irriconoscibili anche tra noi?... Non è così? L’africano, asiatico e altro che diventano italiani, avendo altri fratelli emigrati in un’Europa, non più di na-zioni, come Germania, Francia e Bel-gio, divenuti tedeschi, francesi e belgi, cosa faranno dell’Europa, se non un miscuglio fradicio di nazionalità, lingua e cultura, che attuerebbe in pieno la pre-vista fine del mondo dai nostri padri? Non è una mistificata preoccupazione come si vorrebbe far credere, ma la pre-conizzazione esatta del vero che ci at-tende. I fenomeni che la comprovano sono già ben presenti.

Torniamo ad oggi, al sovraffolla-mento dei centri di accoglienza di emi-granti che arrivano tranquilli, carichi di donne incinte o già con bambini

SAPEVAMO che il presidente Napolita-no, aveva promesso la cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia. Ci aspettavamo un adeguamento alla nor-mativa italiana e europea che prevede la rispondenza a due norme di legge: lo «ius sanguinis» e lo «ius soli», con una delibera comunale, e ne avremmo atte-so gli eventi. Non ce n’è stato bisogno. Leggiamo sul Corriere della Sera che il 21 novembre 2013, «Giornata interna-zionale dell’infanzia» il sindaco Ignazio Marino, con 23 voti favorevoli e 4 aste-nuti dell’opposizione, ha fatto approva-re la delibera ignorando lo «ius sangui-nis», diritto generalmente primo in ma-teria, e con il solo «ius soli» ha proce-duto alla consegna degli attestati di «cittadino onorario» a 135, tra bambini e ragazzi presenti, preavvisando che altri per un totale di 1.500 seguiranno poi, tutti rispondenti al diritto di suolo.

Quanto detto ci dà la misura dell’i-nesistenza sostanziale delle leggi in vi-gore, quando siano in contrasto con le aspettative della politica politicante, costituita dalle formazioni che oggi ge-stiscono il bipolarismo partitico e dena-zionalizzato della democrazia italiana. Tanto, che tra le due norme di diritto in materia è stata usata quella del luogo e non del sangue, cioè dell’appartenenza nazionale, per non contraddire lo scopo politico raggiunto: l’ampliamento elet-torale della Sinistra, grazie all’immi-grazione, onde rafforzare il rinascente monopartitismo di Renzi e compagni.

Da cosa dipende questa nazionalità che ai compagni piace tanto distrugge-re, la cui parola viene dal participio passato «nato» del verbo nascere e dal sostantivo nascita? Culturalmente dal termine patria, che deriva da pater lati-no che vuol dire padre, cioè genitore, generatore della nascita. Dunque, stan-do alle leggi, a decidere sulla nazionali-tà di chiunque nasca in uno Stato euro-peo, soltanto lo ius sanguinis può ac-certarne la rispondenza o meno del ca-so: quella natale. Lo «ius soli», diritto di suolo, è invece un’invenzione ameri-cana da noi acquisita di recente, risa-

egli invece costituisce, senza dubbio alcuno, per la maggior parte degli studiosi seri, tra i quali si annoverava Benedetto Croce, il poeta, lo scritto-re, con il quale termina la letteratura italiana. Risulta oltremodo interes-sante il giudizio che Angelo Marche-se dà del Vate, definendolo «un im-menso ed ingombrante continente da attraversare».

I modelli esaltati dai docenti or-ganici sono, invece, elementi come Calvino e Pasolini che hanno - ingiu-stamente - ottenuto un posto nell’O-limpo, soltanto per aver aderito al partito dei vincitori ed aver, quindi, conseguito la tessera giusta al mo-mento giusto.

Allora, il fatto che una persona abbia delle idee che discordano ri-spetto ad una certa scuola di pensiero vuol dire che nel nostro vacillante e compromesso sistema culturale, non v’è più spazio per la libertà di pensie-ro, figurarsi poi per quella d’opinio-ne. Secondo l’ottusa lungimiranza di certi intellettuali organici, infatti, il valore dell’individuo viene assai con-tratto, per cui tende ad emergere, pre-feribilmente, lo spirito di una casta oligarchica e sinistrorsa che da sem-pre non ha amato né il dibattito, né il confronto, figurarsi poi il dissenso.

Quale potrebbe essere la nostra risposta ai numerosi tentativi di livel-lare tutto e tutti spaventosamente ver-so il basso: dialettica degli opposti? dialettica dei distinti? Come si fa, quindi, a distinguere, quando si è già sistematicamente e totalmente appiat-tita ogni differenza?

Non è nel dove, ma nel chi ha generato

di ENZO SCHIUMA

NEL DIRITTO CONTA SOLTANTO LA NASCITA

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se ne dà mandato all’ONU, alle Global Company multitutto degli USA o agli «Usacchiotti» europei dei Paesi del «G20» del 2011, di cui parla Il Giorna-le? Il soccorso limitato soltanto al feno-meno migratorio e non agli Stati da cui provengono, non è un aiuto rivolto ai bisognosi, ma soltanto ai «dritti» che sfuggono alle necessità della loro terra, rendendola più invivibile, creando pe-raltro seri problemi ai Paesi europei dove il lavoro è il risultato di capacità, impegno e creatività, e non di soddisfa-cimento del lieto vivere.

Non è convinto il lettore? Guardi allora quel che succede nelle strade del-le nostre città affollate di extra comuni-tari in cerca di portafogli che cadano dalle giacche per uomo o dalle borsette per donna, e che quando occorre ri-spondono anche ai richiami del Pd, il partito sostenitore di una Italia multiet-nica e multitutto anche sul piano dei gay, gender e trans gender, offrendo la loro presenza ovunque convenga. Citia-mo l’ultima di Massa Carrara, dove in un corteo di protesta (come vediamo nella foto), due extracomunitari di co-lore ostentano un cartellone con su scritto «CasaPound fuori dalle nostre città». Il che la dice tutta su in che con-sista la loro italianità, non limitata al lavoro e alla casa, ma a stabilire «chi abbia diritto o no di stare in Italia».

Detto questo, dico la mia: forse for-se... con CasaPound abbiamo trovato la casa giusta dove abitare in politica. Po-

dall’Africa, India e Sud America. E perché arrivano tranquilli? Perché, co-me anzidetto, Napolitano ha promesso loro il riconoscimento della nazionalità a tutti i bambini nati in Italia, che poi significa estesa a tutti. Altrettanto ha fatto il Santo Padre, promettendo sia agli ospiti di Lampedusa sia a quelli di Roma, che «avranno anche loro un’ac-coglienza dignitosa» come si conviene nella capitale cattolica del mondo.

Tutto bene. Sia per lo Stato sia per la chiesa, ma cosa facciamo? Se lo so-no chiesti il Presidente e il Santo Pa-dre? Accogliendo milioni di stranieri allettati dal nostro benessere, risolvia-mo il benessere delle loro popolazioni viventi in miseria? No davvero. Che rimane nelle famiglie dei tanti immi-grati trasferiti in Europa? Dei disagi di quelle famiglie non si interessa nessu-no? Ha un senso aiutare tanto chi fugge da casa per una vita migliore, lasciando i famigliari privi d’aiuto per sopravvi-vere? Anche noi italiani abbiamo avuto tempi storici da fame nera, ma tutti, compresi i fratelli di quelli andati in America, si sono impegnati a trasfor-mare il pesante lavoro agricolo in arti-gianale e poi industriale, per trovare il meglio anche in casa propria.

Allora mi chiedo e lo trasmetto a chi compete: ha un senso aiutare chi si è già tanto aiutato, sottraendo il neces-sario ai rimasti nella loro terra, dove la povertà non poteva che essere peggio-rata per la loro mancanza? Perché non

trà capitarci di divenire bersaglio di qualche animosità da parte di magistra-ti politicanti, come è capitato a Berlu-sconi, contro cui, pur di rimuoverlo, si è ricorso all’attribuzione di un reato avente valenza retroattiva. Che ciò sia vero, è reso possibile dal fatto che esi-ste già da tempo un’associazione defi-nita «Magistratura Democratica», legit-timata dallo Stato con facoltà di opera-re come crede.

Chissenefrega! A noi interessa sol-tanto riesumare dal silenzio impostoci, tutto il passato storico dell’Italia quan-do fu Grande. Siamo l’unica nazione al mondo dove all’uomo che l’ha gover-nata per 20 anni viene negato di essere ricordato, per presunti demeriti mai accertati, perché ucciso senza un pro-cesso. Non soltanto, ma l’omissione si è resa ulteriormente attiva sul piano legale, per l’inspiegabile assenso della stessa Costituzione, con una norma im-peditiva, sia pur transitoria.

Il che conferisce allo Stato la re-sponsabilità di una vera e propria abdi-cazione al dovere di garantire tutela e sicurezza per tutti. Il che evidenzia un comportamento atto a presentare come male di altri, quello proprio dei respon-sabili di governo di ieri e di oggi. Quel che affermo, altro non è in sostanza, che una protesta per il non osservato obbligo di chi dovrebbe, di porgere ai piccoli che non sanno, notizie vere di quanto fece per l’Italia il nonno di allo-ra per eccellenza: Benito Mussolini.

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struirono l’Italia in quanto ebbero la visione di come il Risorgimento richie-desse fare dell’Italia uno Stato d’Euro-pa, in un una prospettiva progressiva-mente confederale o federatrice. Nel ’900 ideologico italiano gli elementi risorgimentali trapassati nel fascismo andarono a male, nel regime, giacché non si capì quanto quelli elementi ri-chiedano una assoluta, imprescindibile, indiscutibile, ineliminabile politica dei diritti ed una politica eurofederalista.

Veniamo all’oggi. Il processo d’in-tegrazione europea, è la realizzazione dell’indipendenza delle Nazioni, affra-tellate e difese nel costruire una Sovra-nità condivisa. Però, è innegabile uno stallo: c’è l’Euro ma c’è poca Europa. Soltanto gli imbecilli possono addossa-re le colpe ad una moneta, cioè ad una mera unità di misura, che è indispensa-bile resti stabile per avere un metro dei valori scambiati, e ad una banca centra-le che azzera i tassi d’interesse. Le poli-tiche restrittive vengono dalla Commis-sione, l’organo di governo controllato dal Parlamento europeo, che può man-darla a casa quando vuole con un voto di censura, cioè di sfiducia. Però per farlo i parlamentari europei devono avere un’idea di politica economica al-ternativa, ed eleggere parlamentari che non l’abbiano, ma esprimano soltanto malumori populisti contro l’euro sareb-be l’ultima delle gaglioffate ignoranti.

Avere una visione politica compor-ta averla complessiva, anche sul ruolo internazionale dell’Europa e non sol-tanto sul Mediterraneo. Matrimoni e funerali sono, tradizionalmente, i luo-ghi dove ci si incontra, si rinsaldano amicizie e parentele, qualche volta na-scono matrimoni. Lì si vede chi conta o chi non conta in società. I funerali di Mandela ne sono stati l’ennesima ri-prova. A nessun Capo di Stato o di go-verno europeo è stata chiesta la parola. Il perché è evidente: nel resto del mon-do l’inconsistenza di Stati nazionali equiparabili soltanto a San Marino od al Principato di Monaco è evidente, ed in politica estera e militare l’Unione europea non batte un colpo. Chi vuole conquistare l’indipendenza di San Ma-rino faccia pure, ma chi vuole fare poli-tica si proponga il programma, vera-mente eurofederalista, d’integrare le sovranità anche in politica estera ed in difesa. I descamisados sono serviti a fare soltanto, ad esempio, d’uno Stato che nel primo millenovecento si pre-sentò come una delle possibili nuove potenze mondiali, per risorse economi-che ed importanza politica, l’Argentina, una sorta di Repubblica della banane.

nel trasloco, siano andati spesso a male, proprio pel difetto del XX secolo, lo sfruttamento partitico delle idee, la de-generazione ideologica.

È fondamentale la lettura del secon-do capitolo di questo volume: Garibal-di tra guerra e pace. Garibaldi fu forse il più schietto rappresentante della scuo-la democratica anche, mi si permetta d’osare, nella sua filosofia politica. Es-sa, infatti, si potrebbe descrivere come Idealismo eroico, e consiste nel non frapporre divisione fra Ideale, volontà ed azione. Mentre in Mazzini pensiero ed azione hanno in mezzo la congiun-zione e, in Garibaldi non occorrono congiunzioni, in quanto in uno spirito illuminato, in un’anima retta ed in un corpo attivo, nel momento in cui il Sé intuisce l’Ideale esso è volontà e cervel-lo, sistema nervoso, tendini e muscoli agiscono. Questo fu il segreto della sua magia. Ebbene, il 1860 fu il trionfo del «donator di regni», come lo definì Car-ducci, ma Egli intuì il problema politi-co: l’Italia non era una democrazia, e non v’era spazio per l’azione insurre-zionale alla Mazzini. Poteva però di-ventarlo con una battaglia per i diritti concreti d’esseri umani i quali, poi, quando ne godranno, non se ne lasce-ranno più espropriare. Di qui il conti-nuo fondare ed accettare presidenze di società di mutuo soccorso di reduci e operaie, consociazioni di regnicoli privi di voto propugnanti l’allargamento del suffragio, associazioni del libero pen-siero, circoli per l’emancipazione fem-minile, sino alla fondazione e direzione della Lega per la democrazia che, poi, con Alberto Mario ed Ernesto Nathan evolverà nella Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo. Comprese che si poteva costruire una democrazia sostenibile, in Italia, soltanto sui diritti, perché co-struirla sulla sovranità e basta si scon-trava con l’esigenza di costruire in Eu-ropa una sovranità condivisa unificante.

Questi uomini, Garibaldi col suo memorandum alle potenze d’Europa per la costituzione degli Stati Uniti d’Europa e colla presidenza del Con-gresso della Pace di Ginevra, o Cavour col suo porre la questione Italiana all’interno di congressi paneuropei, co-

LAURO Rossi, oltre ad essere un perso-nale amico di chi scrive, è uno storio-grafo di razza, dirigente di grande spes-sore del Ministero per i Beni e le Atti-vità culturali, ed ha fatto parte di tutti i comitati nazionali per celebrare Giu-seppe Mazzini, Giuseppe Garibaldi, i 150 anni dell’Unità d’Italia, Camillo Benso Conte di Cavour; collaboratore, con voci molto pregevoli, del Diziona-rio bibliografico degli Italiani. In que-sto quadro, ha prodotto una quantità di saggi, che ora, rivisti, sono confluiti, assieme a nuovi, in alcuni capitoli d’un bel volume: Idea Nazionale e Demo-crazia in Italia - Da Foscolo a Gari-baldi, pei tipi di Gangemi in Roma (disponibile anche in versione digitale: www.gangemieditore.it).

Si ripercorre il Risorgimento nazio-nale dall’affacciarsi di Napoleone in Italia all’Unità, attraverso la ricostru-zione delle biografie politiche, svisce-rate in alcuni non secondarî particolari, dei principali esponenti della scuola democratica, per usare le categorie di Francesco De Sanctis. Questi, come si sa, la divise dalla scuola liberale anche per caratteri stilistici: la scuola liberale, in genere, avrebbe fatto uso d’un italia-no più sobrio e trattato le questioni nel suo porsi lì ed allora; la scuola demo-cratica non sarebbe stata priva di ridon-danze retoriche, con ripetuti richiami storici e letterarî alla Roma consolare od al medioevo comunale.

Occorre scavare oltre le ideologie novecentesche, che come ideologie, cioè strumentalizzazioni partitiche d’i-dee politiche, sono idee andate a male, per recuperare le autentiche matrici ne-gli Ideali. Si vedano gl’Ideali della De-stra: nel secolo XIX essi si muovono quasi per intero, salvo eccezioni dovute a passaggi di fronte, nell’alveo della scuola liberale, per rimanere allo sche-ma desanctisiano, mentre nel XX la scelta interventista di parte dei sociali-sti e dei radicali, la «comilitanza» d’al-cuni d’essi coi nazionalisti, quando si strutturò politicamente nel fascismo, portò a Destra riferimenti ideali anche della scuola democratica. Ad un Lauro Rossi, che certamente lo nega, non si può non concedere che quegli ideali,

Risorgimento d’Europa o repubblica delle banane?

di RICCARDO SCARPA

Dal 30 settembre, ogni lunedì

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Presentano: Giuseppe Sanzotta, già direttore

de “Il Tempo” di RomaLuciano Lucarini, editore

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autori) un viaggio «verso il termine della notte».

Nella sua essenziale scrittura si ritrovano mito e realtà, fantasia ed economia. L’impalcature linguistica coniuga, nel medesimo contesto, clas-sicità e sperimentazione, poesia e pro-sa, scritto e parlato, ricercando temi «a caso» che aspirano a divenire una musica assoluta. La pur effettiva in-coerenza dei suoi Cantos (come lo stesso rilevava) sono rilevatori di un sistema di valori e di una loro verifica.

Divenne il maestro e punto di ri-ferimento di avanguardie novecente-sche, di intellettuali e poeti, nella co-struzione di un verso puro, limpido, capace di elevarsi aldilà delle contin-genze della parola per trovare una dimensione di metafisica compostez-za nella totalità del significato. Que-sta lirica è un riferimento per una te-stualità scritta ma anche per una fuo-riuscita immaginale e fonica della parola, influenzando le poetiche ver-bo-visuali.

Pound ebbe frequentazioni con i dadaisti e Marinetti. Fu tra i principa-li promotori di movimenti di avan-guardia letteraria: come l’Imagismo e, poi, il Vorticismo. Nella poetica dell’Imagismo non si utilizza l’im-magine per evocarne una privilegiata e intraducibile in un referente ester-no, ma per rimandare a un dato sen-soriale che ha connotazioni emozio-nali. L’immagine è un’estetica tra-scendentale, proposta attraverso un’espressione linguistica. Aderì suc-cessivamente al Verticismo: la poesia è lingua dell’esplosione dei valori vitali essenziali, esplorando la com-plessità psichica, gli effetti di simul-taneità e spazialità dell’immagine poetica. Si chiamarono Vorticisti vo-lendo essere il punto fermo del vorti-ce: una metafora del divenire, del movimento, delle mode che ruotano appunto vorticosamente nel tempo storico che ciascuno vive.

La bizzarria naturale di Pound ha talora una carica comica che può ri-sultare illuminante. Si racconta che, in una colazione letteraria a Londra, dopo aver rifiutato il cibo, mangiò (con forchetta e coltello) i petali di una rosa raccolta dal tavolo. Questa rosa può divenire una maschera-memoria di un «tempo perduto», che sta ai nostri sentimenti tenere in vita o resuscitare con l’azione: «Tu con-servi il tuo petalo di rosa / Finché il tempo delle rose non ci sarà più / (...) le nuove rose sentiranno la tua man-canza?»

te. Questa dinamica è suscitatrice pe-rò di ansie, frustrazioni, speranze, avidità, incertezze e cambiamenti: a causa dell’avidità del denaro in cui Pound individua la radice del male. «L’artista non può ignorarlo, come in passato non poté ignorare i trava-gli della teologia, ... le lotte di reli-gione» (Accame).

Pound attribuisce all’usura, cate-goria economica che umilia i valori dell’essere, un grande rilievo, usando la connotazione dantesca di peccato contro l’arte, come scrive nel Cantos XLV: «con usura / non v’è chiesa con affreschi di paradiso / (...) non si dipinge per tenersi arte / in casa, ma per vendere e vendere / presto e con profitto, peccato contro natura». Questa perversa inclinazione è ri-scontrabile oggi in maniera ancora più evidente nei rapporti con il mon-do dei fenomeni artistici, impigliati nella ragnatela dei sistemi dell’arte con le loro logiche mercantili, più interessate ai prodotti che agli artisti.

* * *

L’establishment economico non

gli perdonò la sua lotta contro l’usura: lo presero per pazzo, in quanto indica-va la manipolazione monetaria come il problema del secolo. A distanza di decenni però il muro di Berlino è ca-duto, mentre quello di Wall Street an-cora incombe con le sue speculazioni e tossicità valutarie, la disoccupazione di massa, la fame del mondo. La so-vranità monetaria è sottratta ai poteri nazionali e democratici, attraverso una «tutorcrazia» finanziaria che la consegna ai mercanti di debito «creato», elevando così il denaro a valore dell’Occidente.

Pound, nel tentativo di delineare una storia dell’umanità intorno al filo conduttore dell’usura, fonte di corru-zione morale e decadenza sociale, traccia la sua autobiografia, intricata, piena di quella disperazione che emerge dal tono degli ultimi Cantos, attraverso (come è accaduto per altri

UN NOVECENTO - letterario, artistico, filosofico - controcorrente è «riletto» soprattutto dai giovani, anche in ma-niera «non conforme». Questi, in al-cuni casi, hanno eletto gli autori «pericolosi» a riferimenti di opposi-zione alle derive massificate ed este-riori della globalizzazione economica e immaginale. Come nel caso di Ezra Pound, che ha espresso il suo pensie-ro prevalentemente con la fiamma della poesia, in quanto «in primo luo-go bisogna essere un poeta». Ma nel suo essere poeta c’è il riformatore, il moralista, il flagellatore dei vizi del mondo, fino al considerarsi un «libero elemento». La vita e l’opera di Pound possono divenire illuminan-ti «maschere» di attualità, prestando-si per la loro complessità a una «rilettura» con lo sguardo rivolto ai suoi percorsi artistico-culturali e so-ciali.

È stato un autore incompreso, ol-traggiato, amato e odiato: acclamato da molti come il più grande poeta del ’900. Anche le critiche più feroci non ne hanno indebolito il pensiero, in quanto: «Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale nulla lui».

Ezra Pound - nota Giano Accame in Arte ed Usura - è il poeta che si è più occupato di economia, non sol-tanto in una quantità di articoli e sag-gi, ma anche nei suoi Cantos. Ponen-doci anzitutto il problema dei rappor-ti tra economia e poesia: se questi due campi dovevano rimanere sepa-rati da una reciproca diffidenza o se era lecito includere l’uno nell’altro. Le arti, in genere, chiedono all’eco-nomia una generosità rispettosa e consapevole, non invasiva nella com-mittenza. Dall’altra parte economisti ed operatori economici non sono di-sposti a farsi insegnare il mestiere dai poeti, come avrebbe preteso Pound. La ricerca del nuovo nell’arte con-temporanea è, infatti, un imperativo: una merce deve sostituire un’altra al momento opportuno, giacché è l’eco-nomia, il fattore epocale più invaden-

Sfide di Pound poesia-vita arte-usura

di VITALDO CONTE

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all’individualismo, visioni organicisti-che e spirito comunitario; un salutare senso di «estraneità» rispetto ad un mondo che non si condivide, ma nel quale jungerianamente si «deve» vive-re; essere d’esempio, nella quotidiana guerra interiore contro le seduzioni del conformismo; il richiamo ad una nuova socialità, in grado di realizzare l’alter-nativa partecipativa alla deriva iperlibe-rista; l’appello ai valori di Onore, Do-vere, Sacrificio, imprescindibili per la

rinascita dell’Italia e dell’Europa. Già da questa rapida carrellata, ap-

pare la radicalità e la complessità di una scelta «a destra» che è pre-politica, ma proprio per questo ben radicata, non soggetta ai facili cambiamenti di campo cui il tramonto delle ideologie ci ha abituati quotidianamente. Da lì, anche da lì, bisogna partire - è l’invito degli estensori dell’opuscolo Perché a destra - nell’opera di ricostruzione: avendo il coraggio di guardarsi allo specchio per ritrovare le ragioni di fon-do di una scelta. Magari per riconfer-marla, aggiornandola, a trent’anni di distanza. Libero ciascuno di «sentire» questa appartenenza con riferimenti e sensibilità diverse, ma con l’animo fi-nalmente sgombro dal «disincanto», portato dagli anni, e dalle ombre della cattiva politica, frutto della mera ambi-zione individuale, che tanti danni ha provocato, a destra e non soltanto.

finanziarie del nuovo «nemico princi-pale»; il rifiuto di una destra patriottico-risorgimentale, «d’ordine» e conserva-trice, a fronte di una autentica proposta alternativa; il richiamo ad una cultura radicata nella migliore tradizione euro-pea, da cui partire per ipotizzare nuove sintesi ideali; l’appello ad una visione eroica, a fronte del dominio dell’econo-mia, in tutte le sue varianti; la necessità di contrapporre all’atomismo liberale,

TRA tanti appelli identitari ed inviti all’unità politica, dove guardare per non perdere il bandolo, sempre più ingarbugliato, di una destra che «si cerca» senza «ritrovarsi»? Un invito intrigante ci viene da un’esperienza «di nicchia», realizzata dal Circolo «Idee in Movimento», un centro li-brario tra i più longevi ed attivi, pre-sente a Genova dal 1983, con la sede nella via principale del capoluogo ligure (Via XX Settembre 13 - www.ideemovimento.org).

L’idea degli animatori del circolo è stata quella di ripescare un opuscolo, intitolato Perché a destra, pubblicato nel 1987, di ristamparlo tale e quale, invitando però i vecchi estensori e qual-che giovane all’epoca non ancora nato a riprendere l’argomento, aggiornando-lo alla luce degli accadimenti «epocali» intercorsi: dal crollo del comunismo al tramonto della Prima Repubblica, dalla fine delle ideologie all’emergere della globalizzazione. Al centro dei vari in-terventi c’è la consapevolezza di fondo che stare a destra, «essere di destra», vuole dire, voleva dire soprattutto nel passato, compiere una scelta esistenzia-le, ancor prima che politica. È, infatti, il riconoscersi in una «visione della vita e del mondo» ad informare l’agire, se-condo l’indicazione poundiana delle idee che diventano azioni.

Tratti essenziali, rintracciabili in tutte le testimonianze, di ieri e di oggi, pubblicate dagli amici di «Idee in Mo-vimento»: il rifiuto del materialismo, nel nome di valori eterni e sovrannatu-rali; l’individuazione nelle oligarchie

L’invito a guardarsi allo specchio

di MARIO BOZZI SENTIERI

PERCHÉ A DESTRA

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L’ARTE moderna rappresenta, per i più, una forma espressiva astrusa e lontana dalla realtà. Per un critico rappresenta una sfida intellettuale che si è tentati di raccogliere. Lo facciamo prendendo a riferimento l’opera di una giovane arti-sta italiana, Emilia di Stefano, capace di operare singolari sinergie fra pittura e teatro.

Invece di lanciarci in interpretazio-ni che potrebbero forzare il senso della sua creazione, lasciamo la parola all’in-teressata, perché descriva l’intento che muove il suo pennello. «La mia ricerca artistica» ci spiega Emilia «si incentra sullo studio della materia. Ciò che ca-ratterizza il mio lavoro è far soffermare i fruitori delle mie opere sugli aspetti sensoriali che il contatto (visivo e tatti-le) con la materia trasmette. Le mie composizioni sono una continua ricer-ca sulla materia in quanto colore e in quanto frammento di oggetto. Prediligo assemblare sul supporto oggetti di-smessi o elementi di oggetti rotti, usati, deteriorati: si tratta di un’operazione di decontestualizzazione quasi du-champiana, poiché vuole far emergere l’essenzialità dell’oggetto, avulsa dalla funzione per la quale è stato progettato e dall’uso che noi meccanicamente ne facciamo». In effetti balza all’occhio anche del profano l’effetto straniante dell’oggetto strappato alla sua identità, misurata dal suo valore commerciale, e inserito di forza in un contesto estetico totalmente altro, come risulta dalle ope-re esposte, da ultimo, nell’ambito della recente collettiva di Anagni La Fenice.

«Si tratta di osservare l’oggetto o l’elemento materiale attraverso gli oc-chi di un bambino», continua l’artista, «di scoprirne cioè l’essenza spirituale, che deve connettersi con la nostra spi-ritualità. In fondo si tratta di un mo-mento giocoso, e, proprio per questo, estremamente significativo e vitale». Gioco per l’autore e, aggiungiamo noi, anche per il fruitore.

Ma sentiamo ancora la filosofia della Di Stefano dalla sua viva voce, senza filtri critici: «Questo processo di esplorazione deve arrivare ad un livel-

lo di profondità emotiva tale da portare il fruitore a sentirsi un tutt’uno con l’o-pera. In tal senso risulta essenziale la consistenza del colore, denso e puro nei miei lavori. Il colore rappresenta per me anche l’immagine dei miei stati d’animo, dei miei pensieri, della mia visione della vita». Non c’è dubbio che il colore, piuttosto che la linea o il chia-roscuro, sia il tratto caratterizzante del-la pittura della Di Stefano: colori acce-si, elettrici, stesi con pennellate ampie e generose.

«Vorrei che i miei lavori suscitasse-ro emozioni stimolando il potere di evocare (come dice Calvino) immagini in assenza, di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dal profondo delle proprie emo-zioni, di pensare per immagini»…ecco, ci troviamo gemellati alla Di Stefano nella tensione a rappresentare l’irrap-presentabile: lei con le arti visive, noi con le parole.

Personalmente, prediligiamo il fi-lone realistico-grafico che Emilia as-socia alla produzione astratta. Anche in questo caso abbiamo necessità di tornare a più riprese sull’opera per co-gliere tutti i livelli. Di là del primo im-patto, abbiamo la percezione che esi-sta uno strato più profondo che attinge al suo inconscio e che è pienamente comprensibile soltanto a distanza di tempo, dopo varie visioni. Costatato che i titoli richiamano l’immaginario fantastico (Mythos, Excalibur, La Por-ta Magica, Alchimia), ci sembrano ricorrere alcuni elementi molto simbo-lici, come la chiave e l’occhio. Infine, cogliamo una neppure troppo vaga somiglianza - non sappiamo se voluta o casuale - delle opere Dissolta nel tempo e Blu con la poetica surrealista di Karel Thole, copertinista-principe della storica rivista fantascientifica «Urania». Ci rendiamo conto che, a confronto con le critiche erudite degli specialisti, le nostre possono sembrare notazioni superficiali; in realtà, esse sono figlie di una godimento emotivo, di impressioni a caldo.

Proviamo ad entrare nella fucina dell’artista: «Io dipingo d’impulso e non realizzo bozzetti. Ho in testa un’i-dea coloristica e di forma che poi men-tre dipingo prende una sua vita, che può essere anche molto diversa da co-me me la prefiguravo. A volte è un bene perché quello che ne viene fuori finisce col piacermi di più di ciò che avevo in test; a volte, invece, mentre do le prime pennellate, mi rendo conto quasi subito che non ho iniziato con l’energia giu-sta. Così, mi capita di ricominciare da capo, se riesco a ‘recuperare’ la tela, o di buttare via tutto il lavoro, se lo trovo spento, brutto, non affine al mio spirito o a ciò che volevo esprimere in quel momento. Dipingo soprattutto quando provo delle sensazioni forti, che posso-no essere piacevoli o spiacevoli, perché queste mi danno la spinta».

«Nei miei progetti di arte visiva en-tra in gioco l’aspetto performativo ri-tuale e dunque teatrale…», ci confida ancora l’artista, che è attiva anche con progetti paralleli in campo teatrale. Da qui il racconto di azioni sceniche, in cui i movimenti simbolici di performers e le loro interazioni sul proscenio si abbi-nano ad una scenografia pittorica che, lungi dall’essere mero sfondo, diventa co-protagonista della rappresentazione.

Insomma, da quanto precede, emer-ge il ritratto di un’artista a tutto tondo, capace di spaziare fra diverse forme espressive senza barriere preconcette. Un atteggiamento che bisognerebbe imitare, non soltanto nell’ambito artisti-co, ma anche nelle relazioni umane.

Pittura e teatro in Emilia Di Stefano

di ERRICO PASSARO

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IN QUESTI mesi le mostre a tema classi-co impazzano nella Capitale. Nel sug-gestivo spazio delle Scuderie del Quiri-nale fino al 9 febbraio 2014 si potrà vi-sitare una esposizione in occasione del bimillenario dalla morte di Augusto, dove viene presentata la folgorante vita di questa fondamentale figura storica. Augusto, infatti, riuscì laddove aveva fallito persino il grande Cesare, cioè porre fine ai sanguinosi decenni di lotte interne che avevano consumato la Re-pubblica e a inaugurare una nuova sta-gione politica: quella dell’Impero. Ful-cro della mostra sono alcune celeberri-me statue: l’Augusto Pontefice Massi-mo conservato al Museo Nazionale Ro-mano, l’Augusto di Prima Porta dei Musei Vaticani e il Doriforo del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, ca-none per eccellenza della scultura clas-sica.

Nello stesso tempo, presso il Chio-stro del Bramante è aperta sino al 2 feb-braio 2014 una esposizione su Cleopa-tra, raccontata attraverso 180 opere, provenienti per lo più ancora dai Vati-cani, da Firenze, Napoli, Roma e ovvia-mente Torino, a ulteriore dimostrazione del fatto che il nostro Paese possiede le maggiori raccolte egizie in Occidente. La mostra approfondisce la vita di que-sta mitica sovrana e il suo travagliato rapporto con Roma, quando, poco più che ventenne, conquistò il cuore, prima di Giulio Cesare e poi di Marco Anto-nio. Curiosa coincidenza, ma forse non troppo, la presenza nella stessa città e nello stesso periodo delle due iniziati-ve; rammentiamo inoltre come Augusto sia passato alla storia come acerrimo nemico di Cleopatra.

L’indole umana ci spinge sempre a fare gruppo e a credere che quel che piace alla massa debba per forza essere valido. In altre parole, stiamo parlando di quel fenomeno sociale chiamato mo-da che è oggi purtroppo l’infausto Dio delle nostre società. Quando il gusto si appiattisce il Bello ne soffre, visto che esso vive della varietà, giacché la bel-lezza non è mai una, bensì molteplice. Ormai anche la cultura è massificata e per tale motivo ingovernabile. Una si-mile visione allarmata di una società-branco la ritroviamo nelle parole di un

grande scrittore giapponese, Yukio Mishima: «Tuttavia la massa è un’enti-tà ambigua: nulla può garantire che applaudirà alle nostre azioni».

La moda ha sostanzialmente cam-biato la fruizione dei beni culturali. Per quanto concerne il museo, esso ne è stato pesantemente influenzato. Il prin-cipale esempio di volgarizzazione di quello che nacque per essere il luogo della memoria ed epifania di culture remote è rappresentato proprio dalle tante e spesso ripetitive mostre ospitate nei musei delle nostre città. Tale situa-zione andrebbe guardata con un certo sospetto, giacché l’arte dovrebbe anda-re ben oltre il pur giusto, ma non suffi-ciente, intento aggregativo. Illudersi di partecipare all’evento di grido così d’a-vere la propria fetta di conoscenza, per poi tornare a casa e gettare insieme al biglietto tutto quello che si è visto, è francamente sciocco. Non si può ap-prezzare davvero il Bello da un giorno all’altro. Il cammino verso la cono-scenza è lungo e va perseguito con co-stanza. Se mai nella vita si viene assali-ti dall’impeto di visitare dei luoghi sto-rici o un museo di fama mondiale, sarà quanto mai difficoltoso goderne appie-no la bellezza tutta in una volta. L’e-sempio dei succitati Vaticani è quanto mai calzante, poiché le straordinarie raccolte papali sorprendono a ogni visi-ta chi le sa osservare con attenzione.

Le mostre, piccole o grandi che sia-no, la fanno oramai da padrone, anni-chilendo la istituzione museale, assem-brando, talvolta in modo azzardato, opere famose esclusivamente per ri-chiamare la massa e offrendo soltanto di rado una vera occasione di medita-zione sul Bello. I visitatori, poi, si dan-no spesso appuntamento all’entrata di una mostra come se si trattasse di una discoteca o di una pizzeria, ricercando per lo più l’happening culturale.

C’è un altro aspetto che andrebbe sottolineato, sarebbe a dire che il Mu-seo non «scade» come succede invece per una esposizione temporanea: esso è tenacemente in attesa di svelarci le sue meraviglie. In aggiunta, la sua organiz-zazione espositiva ha un significato e una coerenza filologica, frutto della storia stessa delle sue collezioni. Per

QUANDO L’ARTE DIVENTA MODA

L’abuso delle mostre di RICCARDO ROSATI

converso, visitare le sale chiassose di una mostra di grido, dove si è obbligati a sostare pochi inutili minuti, per colpa del sovraffollamento, non rende possi-bile apprezzare opere che avrebbero bisogno di molto tempo soltanto per averne una comprensione superficiale.

Uscendo da una mostra, rumorosa talvolta come una fiera di paese, cosa ci resta? Poco, poiché si è per lo più ciar-lato e comprato ninnoli vari. Ma abbia-mo visto, al posto di limitarci a guarda-re? Abbiamo davvero capito qualcosa in più? Spesso no, ma restiamo tuttavia soddisfatti di aver pagato un biglietto sovente caro per poter presenziare a un evento che poi tanto unico alla fine non è, basti pensare alla puntualità con la quale ogni anno viene allestita da qual-che parte in Italia una esposizione su Caravaggio o i Caravaggisti.

Oggi un gran numero di visitatori giunge nel nostro Paese, inserendo la visita al Colosseo o ai Musei Capitolini tra una pizza e lo shopping. Questo tri-ste fenomeno è il risultato della volontà di commercializzare la cultura e che mira essenzialmente a speculare sulla divulgazione di una erudizione fallace, quanto limitata.

Dal canto suo il Museo ha invece molti pregi, fra i quali quello della con-tinuità di intenti: possiede una sua sto-ria e un suo tesoro, e sta sempre lì in attesa di chi ha veramente desiderio di comprendere. Cotanta bellezza è spes-so colpevolmente negletta da un popo-lo in fondo poco consapevole di respi-rare arte ogni giorno, in virtù della no-stra impareggiabile ricchezza storica. Che sia forse una specie di rigetto cau-sato dalla troppa abbondanza di tesori artistici? Francamente, non crediamo di poter giustificare l’abbandono dei luo-ghi della memoria per questo motivo.

Abbiamo visto dunque come le mostre godano di buona salute grazie alla moda, più che per un autentico in-teresse verso l’arte. Una mostra e un museo propongono due modi assai di-versi di intendere il sapere: la prima vive di pubblicità e rappresenta soltan-to un momento occasionale per avvici-narsi alla conoscenza; mentre il secon-do incarna la continuità, nonché la te-stimonianza della evoluzione nel tempo di una determinata raccolta e di pari passo del gusto collezionistico di una epoca. Interrogarsi su tale dicotomia può essere utile per comprendere la differenza tra una declinazione mo-daiola e disimpegnata della cultura, e una altra coerente e piena di contenuti, dove la Storia è non soltanto racconta-ta, ma specialmente difesa.

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HA RAGIONE il giornalista Demetrio Brandi, ideatore della manifestazione «LuccaAutori» e del Premio «Rac-conti nella rete», giunto ormai, e feli-cemente, alla dodicesima edizione: si scrive anche perché prima si è letto. E «perché qualche libro ci ha rivol-tato come un guanto, ci ha fatto de-ragliare dalle nostre certezze, ci ha incantato, trasformato, fatto viaggia-re lontano dalla realtà o fatto assa-porare davvero la realtà».

Si scrive per «inventare», e cioè, etimologicamente, per scoprire e ri-trovare (anche sé stessi), ideare e creare, tornare all’origine e dare ori-gine. Dentro di noi c’è un «mondo»: dobbiamo esprimerlo. Con un emble-ma che ci definisce: la forma. L’«essere» dello scrittore. Il suo si-gillo. Impresso su una mappa che è anche la trama di letture che abbiamo rielaborato.

L’archivio della memoria colle-ziona immagini; affetti, esperien-ze,scelte di valore le plasmano e le trasformano; realtà e/o fantasia han-no inesauste fonti ove attingere; l’e-stro individuale offre suggestioni ine-dite; la scrittura propone il contrasse-gno identitario: lo stile.

Quello che oggi fa spesso difetto. Molti tendono a rimescolare, a rima-sticare. Scopiazzano. Giocando con gli effetti speciali: che so, lo shock della scrittura «pulp» o «canniba-lesca», il giallo che nereggia, un po’ di sesso ossessivo,che non guasta mai. Oppure optano per il minimali-smo, e presumono che uno scialbo pezzullo di vita sia indizio di univer-salità. E non mancano i «proustiani» post-moderni, ognuno col suo «tempo perduto» (e strapazzato) da ritrovare (e da coccolare). E c’è chi annuncia, chi denuncia, chi disdegna e si infiamma: il narratore profeta, l’apocalittico e l’apologeta. E, anco-ra, l’eterno esteta, che è quasi sempre un «superuomo» piccolo, piccolo o, se preferite, «umano, troppo umano». E ci sono, in crescendo, i fantasisti di

tutte le «fantasy»: dategli un brandel-lo di quotidianità, e loro ci cuciranno sopra un vestito carico di simboli, con accessori mitico- esoterici ed al-lusive missive per la delizia del letto-re.

Ora, se di simile raffazzonata genìa le librerie son piene, anche la Rete non ha di che lamentarsi. Marinai di tutte le acque e di tutti i porti vi si affollano, ebbri di gloriose aspettative.

Demetrio Brandi lo sa e chiede ai suoi navigatori un percorso serio. In-nanzitutto spediscano i loro racconti alla pagina www.raccontinellarete.it, consci che tutti gli iscritti li leggeran-no e li commenteranno; in seguito si sottopongano al giudizio di una giu-ria tecnica, formata da esperti, che, avendo in gran disdegno raccoman-dazioni e mazzette, e unicamente ba-sandosi sull’estro del navigante, sce-glierà fior da fiore (verrebbe da dire «pesce da pesce») buttando via quel che è marcio, mal nato, mal cresciu-to, artificiale. Alla fine resteranno venticinque prose, vive, vispe e viva-cemente colorate dall’ispirazione e, come dicevamo, dallo stile. Ad acco-glierle, da cin-que anni a que-sta parte, è la casa editrice Nottetempo, che nella confezione del volumetto parte subito be-ne offrendo alla simpatica matita di Giuliano Ros-setti l’immagine (ma meglio sa-rebbe dire la «trovata») per la copertina, su elegante fondo bianco (Racconti nella rete @ 2013-LuccAutori, a cura di Deme-trio Brandi,

pp.170, euro 12). Il libro, dappertutto distribuito, verrà valorizzato anche attraverso le presentazioni e gli ap-puntamenti importanti nazionali (Salone del Libro a Torino e a Roma). Insomma, gli scrittori in Rete potran-no farsi conoscere a un pubblico sempre più vasto e, se andrà bene (il mercato librario è un «mare ma-gnum», già il fatto che qualcuno si accorga di te e ti legga è un piccolo obbiettivo raggiunto), ci saranno re-censioni sulla stampa e magari ne se-guirà, piccolo o grande che sia, un «destino» letterario.

Giustamente soddisfatto, Deme-trio Brandi, tenace nel credere, nel non arrendersi e nel «perdurare» no-nostante i non pochi che remavano contro (il mondo della carta stampata è questo, bellezza!), insiste sulla qua-lità dei contributi. Ha ragione. Infatti anche i venticinque racconti di que-st’anno - non diciamo quali sono i nostri preferiti, il lettore scelga «incondizionatamente» - «meritano».

Insomma, non c’è nulla da buttar via. Il che, nel frastagliato panorama di scrittori in calo e scribacchini in vistoso aumento, capita sempre più di rado.

Tornando a Brandi, diciamo che ha ulteriori motivi per esser contento. I «Racconti» non soltanto hanno con-fermato nel tempo la caratteristica di idea originale e di sfida vittoriosa, ma si sono arricchiti con la sezione «Racconti per bambini» e con quella «Racconti per corti», che offre agli aspiranti sceneggiatori la possibilità di vedere il proprio soggetto diventa-re un cortometraggio.

Allora, avanti tutta!

Scrivere per narrare il mondo dentro di noi

di MARIO BERNARDI GUARDI

«RACCONTI IN RETE»

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NELL’APRILE del 1871, su una dili-genza che oltrepassava la sommità del Gottardo, il caso volle che si in-contrassero un uomo ormai prossimo al tramonto ed un giovane, non anco-ra trentenne. Giuseppe Mazzini e Fe-derico Nietzsche. Per dare ai cavalli un breve riposo ai viaggiatori fu con-cesso scendere e ammirare il panora-ma. E il vecchio indicò allo scono-sciuto giovane come, oltre i monti, si distendesse la Penisola.

Proscritto senza perdono alcuno dalla monarchia sabauda, come ricorda Daniel Halevy in Vita eroica di Nie-tzsche, sotto falsa identità Mazzini era rientrato in Italia per viverci gli ultimi suoi momenti. Morente, il 10 marzo del 1872, al medico che l’assisteva, sorpre-so di come questo straniero - egli infatti aveva assunto nome inglese - parlasse tanto correttamente la sua lingua, rispo-se: «vedete, nessuno ha mai amato l’I-talia quanto me».

(E mi si consenta annotare come,

durante la Repubblica Sociale, si an-dò sostituendo il suo ritratto alla effi-gie di Mussolini negli edifici pubbli-ci, quale richiamo alla Repubblica Romana del 1849 e - credo - nell’in-tento di disfarsi di quel culto della personalità, con il carico di adulazio-ni incensi e falsi inchini, che avevano gravato soffocando, troppo spesso, la più profonda e autentica essenza del Fascismo).

Questo vecchio, dunque, ormai stanco e deluso eppur mai domo nell’a-mor patrio, fiero ideale di tutta una esi-stenza, volle donare al suo giovane e sconosciuto (ne intuì la folle e disperata postuma grandezza?) compagno di viaggio una massima di Goethe: «Niente accomodamenti, in integrità, pienezza, bellezza, vivere risolutamen-te». E Nietzsche non dimenticherà più né queste parole né il grande italiano che gliele aveva consegnate a monito, là respirando l’aria salubre e ammiran-do le alte vette dei monti. Anni dopo,

ascoltando da Malwida von Meysen-bug vicende e figure rivoluzionarie da lei conosciute, ebbe a dirle: «L’uomo che venero di più è Mazzini».

L’invito di Goethe e la visione delle montagne. In Ecce Homo quel suo spa-smodico bisogno di raccontarsi alla vi-gilia del crollo finale, egli ricorda come annotasse, su un foglietto di carta «a seimila piedi al di là dell’uomo e del tempo», la primigenia intuizione dello Zarathustra. Aggiungendo, poi, «andavo quel giorno lungo il lago di Selvapiana (siamo in alta Engadina), attraverso i boschi; presso un masso imponente che si ergeva a piramide non lungi da Surlei mi fermai. Lì mi venne questa idea». E Il bosco ed il sentiero rimandano alla radura, lo spa-zio dove i raggi del sole e l’azzurro del cielo si offrono alla vista.

(Non a caso in tedesco la parola «radura» si dice Lichtung e Licht è il termine che indica la luce, motivo questo su cui il filosofo Martin Hei-degger ha riflettuto in modo affasci-nante e risolutivo. Basti leggersi, ad esempio, le prime pagine di Sentieri interrotti).

La luminosità dell’ora appartiene alla grandezza dell’animo: esso sol-tanto è capace di coglierne intensità ed ampiezza. E ciò, va da sé, ci con-duce alla massima di Goethe. Vivere risolutamente non è forse la premessa di quel Lebe gefaehrlich!, di quel vi-vere pericolosamente di cui Nie-tzsche si fece apostolo? D’altronde

Il senso tragico dell’esistere

di MARIO M. MERLINO

UN INCONTRO FORTUITO - MAZZINI E NIETZSCHE

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SOCIETÀ

I Trenta Tiranni e l’ipocrisia LA TIRANNIDE è l’immagine degenerativa del termine tiranno, che voleva

dire signore della città. Inizialmente il tiranno era un demagogo che si ergeva a difensore degli umili (ricordiamoci questa fase). In seguito il termine si adattò ad ex magistrati con base istituzionale ed infine ad oligarchi che aumentarono i privilegi dell’aristocrazia.

Oggi, senza accorgercene, siamo nelle mani di trenta tiranni, come lo era Atene nel 400 avanti Cristo dopo la sconfitta da parte di Sparta.

Il problema è che mentre Atene si liberò dei tiranni dopo circa un anno, noi da molti anni ne subiamo le conseguenze, quali impoverimento, ingiustizie, burocratizzazione, tasse, discrezionalità.

Arma vincente dei tiranni, nell’Italia di oggi, è la medesima che contribuì all’affermazione della figura del tiranno nei tempi antichi, e cioè la demagogia e meglio ancora una parente stretta, l’ipocrisia.

Mentre, infatti, i tiranni si arricchiscono ed occupano direttamente o tramite parenti ed amici tutti i posti di potere e si impossessano delle leve economiche, i sudditi vengono resi impotenti dalla continua lotta per la sopravvivenza e dal peso delle strutture pubbliche sempre meno efficienti e sempre più dispendio-se. Ecco alcuni esempi macroscopici di ipocrisia scelti a caso tra le migliaia esistenti.

Caso Cancellieri: il figlio del ministro incassa quasi quattro milioni di euro per un anno di attività presso i Ligresti che se ne liberano con una buonuscita. Quattro milioni di euro! Le telefonate del ministro sono una confessione piena del suo coinvolgimento, ma la politica dei tiranni «Cancella» tutto.

Caso Sardegna: tutti piangono i morti del tifone e lo Stato stanzia 20 milio-ni di euro, cioè una miseria, dopo anni di dimenticanze, omissioni, piani urba-nistici sbagliati, speculazioni edilizie! A pochi metri dal disastro i miliardari si godono ville faraoniche con finti vulcani, per simulare le calamità naturali.

Caso Monte Paschi: la banca viene massacrata da banchieri corrotti e da speculazioni politiche e la magistratura consente che costoro passeggino tran-quillamente per le strade.

Caso Atac: l’azienda stampa circa settanta milioni di euro di biglietti falsi (o veri) che vengono ripartiti tra le forze politiche. Fin dai tempi di Sbardella, Atac e Cotral servono a rimpinguare le tasche dei tiranni e nessuno dice nulla.

Casi sessuali: sia nel contesto della vicenda bancaria suddetta, che nel con-testo di un partito cattolico, che nell’ambito della gestione dei beni culturali, che nella ordinaria vita regionale vicende omosessuali si intrecciano con attivi-tà lavorative creando un mix inquietante di compromessi.

Casi sessuali 2: magistratura e indagini per due studentesse che si prostitui-scono, mentre la prostituzione dilaga senza freno su internet e per strada, senza contare quella sotterranea o ufficiosa.

Casi sessuali 3: una attrice dichiara ufficialmente che grazie alla «concessione» del suo corpo, ministri di ogni genere, direttori generali ed altri hanno finanziato e premiato i suoi lavori di bassa fattura produttiva.

Caso Ior: imprenditori e riccastri di ogni genere portavano in Svizzera i loro soldi, rubati all’Italia, tramite i conti correnti della città del Vaticano.

Caso Rai: mentre ai pensionati poveri vengono tolti cinque euro, a Fabio Fazio, a Vespa, ai dirigenti, ai direttori vengono riconosciuti stipendi milionari, non si sa per quale privilegio ancestrale. Le notizie circolano ma tutto viene soffocato.

Caso Riva: migliaia di persone muoiono, ma i Riva portano fuori dall’Italia miliardi di euro con il consenso dei politici.

I casi potrebbero continuare all’infinito, ma non c’è lo spazio per elencarli. Questo è il panorama dell’ipocrisia dilagante, cioè dell’arte di ingannare le per-sone con opinioni, virtù ideali, emozioni propositi che non si possiedono.

I nostri attuali trenta tiranni, bulimici e spietati uomini di potere, hanno por-tato l’Italia sul bordo del baratro: riusciranno a farla cadere avendole sottratto tutti i tesori?

MICHELE LO FOCO

essere risoluti equivale a rigettare sempre e in ogni caso il gioco osceno del compromesso, d’acconciarsi in protetti e ovattati ripostigli e predili-gere la sosta al cammino. Essere in-somma sempre per un sì o per un no, sempre chiari e determinati. Ma chi sono coloro a cui il destino affida il pericolo? Sempre Nietzsche lo espri-me ne La gaia scienza, aforisma 283 dal titolo Precursori: «…il segreto per raccogliere dall’esistenza la fe-condità più grande e il diletto più grande, si esprime così: vivere peri-colosamente!». E ciò è permesso a «uomini nei quali serenità, pazienza, semplicità e disprezzo delle grandi vanità siano altrettanto innati quanto magnanimità nella vittoria e indul-genza verso le piccole vanità di tutti i vinti; uomini capaci di un giudizio penetrante e libero su tutti i vincitori e sulla parte che il caso ha in ogni vittoria e fama; uomini con proprie festività, con propri giorni di lavoro, con propri tempi di lutto, adusati al comando e sicuri e subito pronti ad ubbidire quando occorre…».

(Altro e ben altro si potrebbe e si dovrebbe trascrivere; altro e ben altro si imporrebbe alla nostra attenzione, alla nostra riflessione. A tutte quelle schiere che fecero della romanità vir-tù; a tutti quei solitari, nomadi dell’e-sistenza, che seppero donarsi a trava-licare ogni ultimo orizzonte).

Ormai un secolo ed oltre è passato, prossimo l’anniversario di quel 25 ago-sto del 1900, dalla morte di Nietzsche in Weimar (la città di Goethe, del re-sto). Un secolo, il Novecento, ove la sua voce, ora esaltata al ritmo reiterato del rullo dei tamburi nelle notti di mag-gio a Norimberga ora dispregiata (perché altro non poteva darsi come Egli ci ha mostrato avvisandoci che «l’oggi appartiene alla plebe»), inter-pretazioni suggestioni fraintendimenti, echeggia quale premessa e promessa d’ulteriori tempi a venire, d’aurore - è il nostro auspicio - a battere le tenebre cupe e mefitiche stese come sudario sulla terra e il sangue d’Europa…

Ripensare, dunque, anche a quell’incontro fortuito e mai ottene-brato tra Mazzini e Nietzsche. E per-ché no? Al Mazzini abile suonatore di chitarra, tanto da scrivere sul valore della musica; a Nietzsche che scoprì come il dio Dioniso c’invita a dare alla vita il passo lieve della danza. Entrambi, musica e danza appunto, che sono il senso tragico dell’esistere qui ed ora.

(Dal sito www.ereticamente.net)

IL GIARDINO DEI SUPPLIZI giovanile, una duplice predisposizione tanto verso la musica, quanto verso il disegno e la pittura. Supera le iniziali riserve familiari, e, in poco più di un triennio d’intenso impegno, riesce ad ultimare l’intero ciclo degli studi di composizione, allora previsti su un ar-co di sette anni. Il saggio di diploma? La tragedia lirica, in quattro atti, de I Goti, su testo poetico di Stefano Inter-donato: opera che suscita l’entusiasmo di Lauro Rossi al punto da spronare il recalcitrante allievo a proporne la rap-presentazione. Con il trionfale esito a Bologna, successivamente confermato in tutta Italia, ad abbondante compen-sazione dell’iniziale, fallito tentativo di «sfondare» a Milano. Basti rammenta-re, a tale proposito, che la città felsinea, prima della fine del 1873, fu sollecita nel conferirgli la cittadinanza onoraria (come per Wagner e Verdi) e che Vitto-rio Emanuele II, poco dopo, si com-piacque di conferirgli l’onorificenza di cavaliere della Corona d’Italia.

Tuttavia, come accennato, Gobatti fu subito tormentato dai dubbi. Avreb-be voluto avere bastante tempo per ri-vedere l’intera partitura, e, in particola-re, la componente strumentale. Un pun-tiglioso, ma intermittente, lavoro di de-cantazione e di arricchimento, ad un tempo, che gli permetterà di presentare, nel 1898, una versione effettivamente rinnovata de I Goti e con un indubbio successo, per quanto meno clamoroso di quello di venticinque anni prima. Soltanto ventinove le chiamate all’au-tore. Peccato che di codesta radicale revisione rimangano poche, pochissime tracce: il Preludio orchestrale, strumen-tato con una maggiore attenzione alle sfumature timbriche, e lo spartito per canto e pianoforte, per di più mancante del primo atto. Come è possibile che si sia smarrita la partitura di un’opera rap-presentata per nove sere al teatro Poli-teama di Bologna ? E come spiegare l’analogo destino di una buona parte delle pagine sinfonico-corali e stru-mentali, presentate da Gobatti nel 1886, in un pubblico concerto al Teatro Comunale bolognese?

Se fossi uno scrittore della «scuola» di Dan Brown potrei trarre partito da codesto insieme di strane circostanze per imbastire un racconto biografico più o meno fantasioso, ma non privo di verosimiglianza. All’inizio del 1875, difatti, corse voce che qualcuno avesse tentato di avvelenare il compositore,

dell’avvenire, come abbondantemente dimostrato dalle trionfali accoglienze del 1° novembre 1871, riservate alla prima italiana del Lohengrin di Richard Wagner (1813-1883) e poi alla versio-ne definitiva, il 4 ottobre 1875, del Me-fistofele di Arrigo Boito (1842-1918). Riesce difficile inserire la figura di Go-batti, in siffatto quadro, giacché non sussiste alcuna prova che abbia potuto conoscere sostanza e forme della melo-drammaturgia wagneriana, se non per sentito dire, in quanto, nel 1871 la par-titura de I Goti, in pratica, era già stata ultimata e il suo autore si trovava a Na-poli, per completarvi gli studi di com-posizione con il direttore del locale conservatorio, Lauro Rossi (1812-1885), già investito di analogo incarico al Conservatorio di Milano, e, in quella sede, anche sagace insegnante d’armo-nia e contrappunto.

Non resta che sottolineare che - for-se - il canto vicino al declamato, tipico di Stefano Gobatti, anziché ad un fanta-smatico wagnerismo dovrà piuttosto farsi risalire alla conoscenza, allora ra-ra, del «recitar cantando» della musica italiana del tardo Cinquecento e del pri-mo Seicento, della cui riscoperta era stato primissimo fautore proprio Lauro Rossi. Una prova? Nelle scene de I Go-ti di massima tensione espressiva, per esempio nel duetto d’amore per sopra-no e tenore del quarto atto, il musicista concepisce e disegna il canto come una sorta di trattenuto, estatico affanno, adoprando in modo ricorrente la figura-zione del crescendo-decrescendo, quasi di misura in misura. E non risulta meno accorto, in altro ambito, ma anche suf-ficientemente ardito, quando immagina e delinea in orchestra un «Inno gotico», a note ribattute, che si snoda con un modo ritmico che si potrebbe definire «barbarico, ma non troppo».

Nato a Bergantino, un piccolo pae-se in provincia di Rovigo, il 7 luglio 1852, Stefano Gobatti mostra, in età

STORDITI dalle celebrazioni wagneria-ne e verdiane, in gran parte riuscite no-nostante gli exploit di taluni registi, ci si è troppo facilmente dimenticati che ricorrevano pure, nell’anno appena tra-scorso, cent’anni dalla morte di Stefano Gobatti e altrettanti dalla nascita di Be-njamin Britten: ricorrenze che sarebbe colpevole tralasciare, o sottovalutare, trattandosi di compositori meritevoli, ciascuno, di un peculiare, proporziona-to ricordo. Impresa che affronterò con due, distinti contributi, essendo sottin-teso che quivi affronterò il compito di subito discorrere con appassionata obiettività (mi si conceda l’apparente paradosso!) del musicista italiano, poi-ché ancora oggi oggetto di prevalenti valutazioni di segno negativo. E con qualche ragione, almeno in apparenza.

Si potrebbe affermare, per esempio, che, laddove si spinse nel regno dell’e-legia e nella evocazione dei misteri cre-puscolari che la Natura racchiude, non fu certo pari al contemporaneo Alfredo Catalani (1854-1894), così come riu-scirebbe difficile attribuirgli il ruolo d’inconsapevole antesignano dell’ap-prossimativo, ma vigoroso, wagneri-smo di Alberto Franchetti (1860-1942). Eppure il poeta Carducci (1835-1907) e il prosatore e critico musicale Enrico Panzacchi (1840-1904), così come il celeberrimo pianista e compositore rus-so, Anton G. Rubištein (1829-1894), il 4 dicembre 1873, al Teatro Comunale dell’Opera di Bologna, avevano saluta-to con un concorde entusiasmo la tra-gedia lirica I Goti, opera d’esordio del ventunenne Gobatti. Né erano stati da meno gli altri spettatori, chiamando l’autore al proscenio per cinquantuno volte e ottenendo di riudire il preludio dell’opera per tre volte.

Come spiegare siffatto abbaglio… se abbaglio vi fu? Vi è chi ricorda che, in quegli anni, Bologna amava contrap-porsi alla «verdiana» Milano, grazie ad un’accentuata preferenza per la musica

Insoliti destini ed altre stranezze

di ALBERTO CESARE AMBESI

PUNCTUM CONTRA PUNCTUM

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GIACOMO Guidi nasce a Roma il 16 settembre 1982. Nel 2002 vince l’Ar-gento nella sciabola a squadre ai Cam-pionati Europei di Scherma a Mosca e subito dopo ai Mondiali di Lisbona. Nel 2003 di nuovo l’Argento, agli Eu-ropei di Bourges. Nel 2004 si prepara per Atene quando, a tre mesi dall’ini-zio delle Olimpiadi, gli comunicano, a sorpresa, quella che sarà la sua più grande delusione: non farà parte della squadra nazionale italiana.

Oggi, a soli 32 anni, il suo nome è tra i più affermati nel panorama dell’arte. Ha una galleria a Roma inaugurata nel 2006, a Palazzo Sforza Cesarini, e un’altra a Milano dal 10 ottobre del 2013 mentre quest’anno è prevista l’apertura di un nuovo spa-zio, a Trastevere: 1.000 mq per alle-stimenti, moda, designer ma anche una cucina per cene post espositive e mini appartamenti per artisti, curato-ri, collezionisti e direttori di musei, per confronti tra posizioni dialettiche diverse.

Ha messo in mostra, tra gli altri, Jannis Kounellis, Maurizio Mochetti, Maurizio Nannucci, Nahum Tevet, Giulio Paolini, Imi Knoebel, soste-nendo gli artisti negli spazi pubblici quali il Macro, la Biennale di Vene-zia, la Quadriennale.

Lei è riuscito a trasformare una delusione in un successo, in un campo totalmente estraneo alle competizioni sportive. Perché la scelta dell’arte?

«La scherma per me era tutto, e soprattutto passione. Ho sempre amato la competizione e l’esclusione dalle Olimpiadi di Atene è stata una delusione, al tempo, non volevo aspettare oltre. Presi dunque una de-cisione anche drastica, lasciare tutto e iniziare una nuova avventura. L’ar-te è stata una passione che iniziavo già a sviluppare durante gli anni del-la scherma e l’avvicinamento ad arti-sti, quale Fabio Mauri, hanno acceso in me il desiderio di fare di un’altra mia passione una professione.»

Nei prossimi mesi inaugurerà

uno spazio a Trastevere, la Giaco-mo Guidi Contemporanea, di 1.000 mq.

«L’apertura del nuovo spazio a Roma, inizialmente prevista a prima-vera, sarà rimandata a settembre in quanto c’è una situazione internazio-nale che si è prospettata in questi me-si, l’apertura di uno spazio a New York che si dovrebbe realizzare, ap-punto, in primavera. Per questo la ne-cessità di rimandare l’apertura di un

volendo impedirgli di completare Luce: la sua seconda opera, accolta con molta cordialità, nel novembre di quell’anno al Teatro Comunale di Bologna e con un fragoroso insuccesso, il 15 febbraio 1876, al Teatro alla Scala, auspice il locale partito dei «verdiani», più che mai convinti che occorresse far barriera contro ogni tentativo di diffusione della «musica dell’avvenire». Enigma che si aggiunge ai precedenti enigmi: anche la partitura di Luce è scomparsa e a ri-cordarne l’esistenza rimane soltanto lo spartito completo, per canto e pianofor-te; ed è già qualcosa, tuttavia, se si pen-sa che s’ignora del tutto il destino che ebbero i diversi pezzi sacri, forse mai eseguiti, composti da Gobatti in quegli anni, o in anni di poco posteriori.

È risaputo, invece, che Cordelia, terza opera di Gobatti, ebbe una infeli-ce esecuzione al Teatro Comunale di Bologna, il 6 dicembre 1881. Esito che non ha invogliato la contemporanea musicologia a riguardare le pagine di tale lavoro, malgrado che, in questo caso, si sia conservato pressoché inte-gro, nell’insieme e in ogni sua parte. Per quanto concerne poi le ragioni che concorsero a determinare codesta, cla-morosa caduta, si possono enumerare, prima di tutto, un’abborracciata messa in scena e la indubbia impreparazione dei cantanti - a cui l’autore si era inva-no opposto - e, in secondo luogo, l’im-possibilità, per lo stesso Gobatti, di ri-vedere con calma ogni dettaglio della strumentazione e orchestrazione dell’o-pera, poiché, a causa delle personali, precarie condizioni economiche, aveva accettato di ultimare il lavoro entro un tempo piuttosto breve.

Veniamo alle conclusioni, giacché sta per esaurirsi lo spazio a mia dispo-sizione. Perciò posso soltanto sottoli-neare che la miseria, nel 1896, - la vera miseria - costrinse Stefano Gobatti a ritirarsi «ospite» di un convento france-scano sopra Bologna, dove gli riuscirà ancora di portare a termine la composi-zione dell’opera, in quattro atti, Mas-sias, nonostante il progressivo aggra-varsi della sciatica e della nefrite. Pur-troppo di Massias nulla si può dire, in quanto mai rappresentata o studiata. Risulta soltanto, dalle lettere dello stes-so Gobatti, ch’egli vi riversò un intimo lirismo, forse con l’intento di confron-tarsi con la Manon Lescaut di Puccini. Sepolto con grandi onori nella Certosa di Bologna, Stefano Gobatti, dall’Aldi-là o da chissà dove, pare tuttora atten-dere una seria, approfondita analisi del suo diseguale operato musicale. Capiat qui capere potest, dicevano i Latini.

Passioni, dalla scherma all’arte

di ANNA MARIA SANTORO

A COLLOQUIO CON GIACOMO GUIDI

Gennaio 2014 IL BORGHESE 71

rivolto alla gente di una città o di una nazione.

Diversi sono invece quegli eventi che per loro stessa natura sono rivolti ad un pubblico di cinefili o di specia-listi. In quel caso le motivazioni di-vengono altre, appartengono agli albi professionali o al sapere inteso come perfezionamento.

Il costo degli approfondimenti tematici non deve ricadere sullo Sta-to, ma su coloro che di quei temi fan-no una ragion di lavoro, sulle asso-ciazioni, sulle ditte che contribuisco-no al settore.

Se invece, come avviene spesso, e qui rispondiamo di nuovo alla prima domanda, i festival sono:

a) inutili culturalmente; b) non stimolanti; c) non gestiti professionalmente; allora lo Stato, e chiunque parte-

cipi alla manifestazione, getta i soldi alle ortiche.

Chi stabilisce quali sono i festival sani e quelli malsani?

Dovrebbe farlo il Ministero della Cultura, sulla base di un «reference» molto rigido, inflessibile e non di-screzionale. Elementi come il budget, i fondatori, le precedenti esperienze, il direttore artistico, i luoghi, gli ar-gomenti, dovrebbero diventare cen-trali nella scelta di un intervento eco-nomico o anche soltanto di patroci-nio, ma sappiamo bene che questo in Italia è un metodo sconosciuto.

Resta solo, nel nostro Paese, il criterio del… forse è il caso di prose-guire… come si fa ad interrompere… sì ma gli diamo meno soldi… glieli diamo a patto che…

Ed ecco la peculiarità nazionale, l’intromissione pubblica nella vita dei sistemi di spettacolo: se non met-tete Muller non pago un centesimo… dichiarava tronfia la Polverini in uno dei suoi peggiori interventi culturali in nome della Regione Lazio.

Muller poteva essere giusto o sba-gliato, ma la violenza era senza dub-bio sbagliata!

nuovo spazio romano, che quindi si potrà strutturare più chiaramente co-me idea nei primi mesi di quest’an-no.»

Il suo lavoro potrebbe com-

prendere, per il futuro, rapporti con scrittori?

«Com’era negli anni Settanta, mi piacerebbe molto se un pubblico an-che composto da scrittori, musicisti, registi, oltre che da artisti visivi, par-tecipasse agli eventi promossi dalla galleria, in modo da ricreare quello spirito critico e quello scambio di idee propri, appunto, di quel periodo. Credo che sia un momento importan-te in cui tentare di ricostruire un dia-logo tra i diversi mondi della cultura e vedo la galleria come uno spazio in cui condividere e creare uno stimolo per questo confronto.»

Perché la sua scelta si orienta

verso artisti che mettono al bando la tela e i vecchi pennelli sostituen-doli a mezzi che, attraverso la ri-cerca estetica, siano in grado di da-re risposte a domande di fisica, di storia, di percezione?

«Penso che nel mondo di oggi, un’arte che vuole rappresentare il contemporaneo abbia bisogno di co-municare con mezzi e linguaggi che si adattano alla realtà che ci circon-da. Magari la pittura può oggi risul-tare come un mezzo meno diretto, ma siamo noi che ci siamo abituati a sti-moli visivi più espliciti e, almeno in apparenza, meno riflessivi.»

Qual è la differenza tra creazio-

ne e creatività? «La creazione lasciamola a forme

divine, la creatività agli artisti.» Che cos’è l’arte? «Una forma di pensiero e di co-

municazione, più rapida del linguag-gio e più chiara della filosofia.»

Quanto la sua attività così am-

pia può aiutare a contrastare il di-sorientamento culturale della no-stra società?

«Questo potrò dirlo soltanto in futuro; noi crediamo nella qualità del lavoro dei nostri artisti e continuere-mo a seguire questa linea.»

Ha pensato di poter estendere il

suo lavoro anche Oltreoceano? «Non ci avevo ancora pensato,

ma l’occasione si sta presentando proprio ora.»

UNA lunga preparazione, mesi, deci-ne di persone pagate per lo scopo, agitazione mediatica e poi, puff…., in una settimana è tutto finito e non rimane nemmeno la brace.

Così appaiono oggi i festival a guardarli dall’alto o dall’interno. La domanda corre sul filo: ma è giusto che lo Stato agevoli la Kermesse in-vece di costruire asili o aiutare gli anziani?

La risposta sta nella risposta ad altre domande. I festival sono cultu-ra? Servono alla gente? Rientrano nei doveri dei sindaci?

Andiamo per ordine: 1) cultura cinematografica come

espressione artistica e come elemento di altre civiltà e nazioni. In questo senso il cinema avvicina, fa conosce-re, crea congiunzioni commerciali e stimola. Cultura come attività dello spirito, direbbe Gadamer, come avvi-cinamento alla verità.

2) la gente, se stimolata corretta-mente, ne può trarre vantaggio, occu-pando parte del proprio tempo non lavorativo all’arricchimento del pro-prio aspetto conoscitivo. I giovani si fanno trasportare in un mondo di fan-tasia, dove anche le loro menti navi-gano con facilità. Partecipare ad una manifestazione, se ben programmata, se ha un senso, può contribuire alla serenità personale. Essere interessati a qualcosa è un modo per non morire.

3) I sindaci hanno la responsabilità del bene comune. Se lo fanno con co-scienza e soprattutto con professionali-tà, anche i festival fanno parte degli strumenti di crescita di una città.

Pertanto la risposta alla prima do-manda, quella che corre sul filo, è: i festival vanno bene se

a) sono espressione culturale; b) se contribuiscono all’arricchi-

mento persone e sono «stimolanti» per la gente;

c) se sono gestiti professional-mente e ben programmati;

Questo vuol dire anche che i festi-val sono un fenomeno «popolare»,

Si fa presto a dire «festival»

di MICHELE LO FOCO

SPETTACOLANDO

72 IL BORGHESE Gennaio 2014

NELLA vita ognuno deve assumersi le proprie responsabilità. È questo il mes-saggio del raffinato film Il Passato, recentemente uscito nelle sale cinemato-grafiche, diretto dal cineasta iraniano Asghar Farhadi, noto al pubblico per le pellicole About Elly (2009) e Una Separazione (2011).

Premiato a Cannes 2013 per la migliore attrice, il film è ambientato a Parigi nel 2012, dove Marie, interpretata dalla splendida Berenice Bejo, va a prendere all’aeroporto il marito iraniano Ahmad, arrivato in Francia per firmare l’atto di scioglimento del matrimonio.

La pellicola offre allo spettatore uno spaccato molto toccante di un dramma familiare piuttosto frequente nella società occidentale post sessantottina: il di-vorzio. Marie ha due figlie, Lucie e Léa, avute dal primo marito belga, che adesso lavora a Bruxelles. Con la figlia grande Lucie ha un rapporto molto conflittuale. La figlia è ribelle e torna a casa la sera soltanto per dormire.

Non accetta che la madre voglia risposarsi con l’uomo di cui è innamorata, Samir. L’uomo, di origini magrebine, ha un figlio piccolo, Fouad ,e una mo-glie, che è in fin di vita per aver tentato il suicidio dopo aver scoperto l’infedel-tà del coniuge.

La ragazza prova sentimenti di angoscia e risentimento nei confronti della madre ma anche velati sensi di colpa verso quella povera donna in fin di vita. È soltanto al termine del film che l’intero mosaico si compone, che tutto appare chiaro e lineare. Merito soprattutto della straordinaria regia di Farhadi che ha curato, altresì, il soggetto e la sceneggiatura.

I centotrenta minuti della pellicola scorrono senza mai annoiare. Il ritmo è giusto, senza passaggi a vuoto e sbavature. Marie, che aspetta un figlio dall’uo-mo che vorrebbe sposare, lavora in una farmacia vicina alla lavanderia gestita da Samir. I due si sono conosciuti in farmacia e ben presto è nato l’amore.

Si scambiano messaggi d’amore per posta elettronica che sono letti, di na-scosto, da Lucie. La ragazza è molto gelosa della madre. È terrorizzata dall’i-dea che un nuovo matrimonio possa rivelarsi un ulteriore fallimento. Paventa che un terzo marito, figura di riferimento maschile nella sua psiche, possa scomparire dalle loro vite come suo padre e Ahmad, generando nel suo animo indifeso angoscia e senso di abbandono.

Lucie, nonostante Ahmad sia scappato in Iran quattro anni prima, le è mol-to affezionata. Consapevole di questo legame Marie prega l’ormai ex marito di aiutarla a ricomporre il dissidio con la figlia e a comprendere le ragioni profon-de della sua ostilità verso Samir.

La caratterizzazione dei personaggi, anche per merito della caratura degli interpreti, è davvero eccellente. Il personaggio di Ahmad è interessante. È un uomo dolce, colto e sensibile, probabilmente ancora innamorato di Marie. For-se anche lei prova ancora qualcosa per lui. Infatti, secondo Luciè, la madre sta con Samir perché assomiglia molto ad Ahmad.

Marie non prenota l’albergo all’ex marito perché desidera che dorma da lei segno che il sentimento non è del tutto sopito. Nel frattempo nella lavanderia la collaboratrice di colore, rispondendo a una telefonata di Lucie fornisce a que-st’ultima la mail della moglie di Samir permettendo a Lucie di inoltrarle le email d’amore tra Samir e la madre.

Ed è a questo punto che scoppia la tragedia, la moglie di Samir tenta il sui-cidio. Ecco perché Lucie prova un senso di colpa verso quella povera donna. Samir si arrabbia con la sua dipendente incolpandola del dramma che si è con-sumato. In realtà la colpa è soltanto sua. Lui ha tradito la moglie e la sua co-scienza lentamente comincia a rendersene conto.

ALDO LIGABÒ

Veltroni fece del «Festival di Ro-ma» una sua personalissima espres-sione, e questo non era giusto, ma almeno la affidò a Bettini che ci mise la sua cultura ed il suo vigore.

Bettini ci credeva, voleva fare cultura popolare; GianLuigi Rondi, dopo poco, si limitò a ripetere stanca-mente i riti festivalieri cui era avvez-zo a Venezia.

Morte a Venezia. Con il titolo del film è più facile descrivere la storia di una manifestazione che nel titolo (d’arte cinematografica) già risponde-va alla nostra prima domanda, e che si sta spegnendo sotto il peso della conduzione tetra di Baratta e Barbera. Niente giovani, niente star, niente di nuovo, prezzi alle stelle, soltanto bu-rocrati pagati dalle strutture pubbli-che. Dovrebbero scriverlo: questo festival è riservato ai burocrati che non pagano l’Excelsior.

Ci sono poi i festival non festival, occasioni cinematografiche, quelle, nelle quali le pellicole non contano più di tanto, ma contano le persone.

In testa le Giornate professionali, che sono una specie di congresso na-zionale degli operatori, e a seguire kermesse tipo il «Festival del Noir», nel quale la letteratura «importante» fa da spina dorsale, culturale, in una ambiente sofisticato e innevato.

Discorso a parte Capri Hollywood, e Ischia, le creature di Pascal Vicedo-mini che puntano sulla osmosi tra ope-ratori stranieri e operatori nazionali. Sono le uniche occasioni nelle quali l’internazionalità dei partecipanti, lega-ta ovviamente anche alla bellezza dei luoghi, è la spina dorsale delle manife-stazioni e va a merito di Vicedomini aver tenuto la barra dritta su questa spe-cialità. Ci sono ricadute positive? Con gli americani è difficile lavorare, si sa, ma a livello turistico e di diffusione delle immagini e dei sapori l’Italia, con Vicedomini, almeno esiste nel mondo.

Tirando le somme, e premesso che se ci fosse un reference il coordinamen-to sarebbe più facile, essendo pochi i professionisti, pochi i sindaci coscien-ziosi, pochi i ministri attenti al proble-ma, gran parte dei festival potrebbero trasformarsi in sagre paesane ed i soldi potrebbero essere spesi meglio.

Pochi festival di buon livello ben diretti e ben orientati potrebbero in-vece contribuire alla cultura naziona-le ed un serio mercato dei prodotti cinematografici, erede del defunto MIFED, potrebbe far rientrare il no-stro paese nell’ambito europeo dal quale è purtroppo uscito.

Il passato non muore mai

ANDIAMO AL CINEMA

LIBRI NUOVI E VECCHI L’indugiare della DC, nei primi

governi repubblicani, a fianco delle sinistre, determinò nel Paese il sorge-re di una vivace opposizione di destra che trovò nell’Uomo Qualunque di Giannini la sua prima aggregazione partitica. Il movimento dell’«omino nel torchio» dette voce a quell’Italia rimasta silenziosa e appartata durante la marcia trionfale del CLN e spinse De Gasperi verso la stabilizzazione centrista della neonata Repubblica. La DC non rinunciò all’antifascismo, ma lo declinò in termini diversi dalla vulgata resistenziale e, al contempo, visto il delinearsi della nuova situa-zione internazionale determinata dal-la dottrina Truman, si fece interprete dei valori dell’anticomunismo. Si giunse così al bimestre maggio-giugno 1947: De Gasperi formò il primo governo postbellico senza le sinistre. Nacque il centrismo. Nei mesi successivi, Togliatti, paradossal-mente, era ancora convinto che, pre-sto, si sarebbe tornati all’unità delle forze antifasciste. In realtà, l’antifa-scismo resterà il collante sul quale verrà costruito l’arco costituzionale che in Italia servì ad escludere la de-stra dall’effettivo gioco politico fino

giorno svanirono definitivamente la tenuta etico-politica dello Stato italia-no e quella del nostro popolo. La guerra civile, nel biennio 1943-45, ebbe per protagonisti due esigue mi-noranze: la maggioranza dei nostri connazionali rimase alla finestra, de-lusa dal fascismo a causa degli esiti drammatici della guerra ma, al con-tempo, diffidente nei confronti dell’antifascismo conclamato della minoranza vincente, quella resisten-ziale. Così, riferendosi a categorie sociologiche, è possibile individuare negli ultimi mesi del conflitto un’Ita-lia ribelle, partigiana e repubblichina, contrapposta a un’Italia renitente, espressione del diffuso atteggiamento afascista.

In quei mesi concitati l’oltranzi-smo ideologico del Fascismo di Salò faceva da contrappeso all’eterogeneo antifascismo del fronte opposto. L’u-nità dei partiti ciellenisti era destinata a dissolversi di fronte alla concretez-za ineludibile dei problemi legati alla ricostruzione, che avevano implica-zioni internazionali. La pressante at-tualità della questione sociale distinse dicotomicamente le soluzioni «mode-rate» da quelle della sinistra. Il resto lo fece il definirsi del mondo bipola-re. È su queste tematiche che le forze antifasciste mostrarono la loro etero-geneità. La sinistra si divise con la scissione di Palazzo Barberini nel 1947 e con la conseguente nascita del Partito socialista riformista di Sara-gat. I comunisti, pur legati al «para-diso» sovietico, agirono politicamen-te per preservare l’unità antifascista attraverso il pragmatismo togliattia-no, che dette il meglio di sé nell’am-nistia concessa agli ex fascisti in no-me della pacificazione nazionale (in realtà, ricorda Chiarini, per conqui-stare parte del voto repubblichino al referendum istituzionale del 2 giugno 1946).

CON la fine del berlusconismo, alme-no sotto il profilo strettamente politi-co, sono venute definitivamente me-no le speranze di quanti, fin dagli al-bori degli anni Novanta, si aspettava-no che la seconda Repubblica se-gnasse un momento di netta disconti-nuità rispetto alla prima. Così non è avvenuto: la cosa è talmente acclara-ta, che tale affermazione è lungi dall’essere contestata. In molti si chiedono quali siano state le ragioni che hanno bloccato il cambiamento politico, istituzionale, sociale del no-stro Paese. Per tentare di dare rispo-sta esaustiva al quesito risulta indi-spensabile interrogarsi, in termini di esegesi storica, sull’origine della no-stra Repubblica. È quanto fa, con analisi puntuali e pertinenti e con al-trettanta persuasività d’accenti nelle conclusioni, lo storico Roberto Chia-rini dell’Università di Milano, in un libro da poco distribuito per i tipi di Marsilio, Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politi-ca è di sinistra e il Paese di destra.

Si tratta di un testo snello e chia-ro, nel quale l’autore impiega la sa-gacia interpretativa che contraddi-stingue i suoi precedenti lavori ine-renti rispettivamente l’esperienza sa-loina, il dibattito ideale costruito at-torno al tema della memoria storica in Italia, e la destra nel panorama po-litico del dopoguerra, al fine di giun-gere a una diagnosi relativa allo stato presente delle cose, latrice di una possibile terapia dei nostri mali. Il tratto genetico essenziale dell’Italia contemporanea, indelebile durante l’intera storia repubblicana, è ravvi-sato da Chiarini nella mancanza di un effettivo «accordo sui fondamenti» tra le forze politiche della resistenza. Infatti, come è stato colto anche da Galli della Loggia, l’8 settembre non ratificò soltanto la fine del regime, ma la «morte della Patria». Quel

Paradossi, contraddizioni e ambiguità di una origine

di GIOVANNI SESSA

LA NASCITA DELLA REPUBBLICA IN ITALIA

74 IL BORGHESE Gennaio 2014

agli anni Novanta. Ma, nonostante ciò, le sinistre e i comunisti, non riu-scirono più ad esercitare un ruolo cen-trale e significativo come quello che avevano svolto prima fino al 1947. Chiarini mostra come la sinistra da allora abbia agito politicamente in ter-mini «azionisti»: attraverso il control-lo dei luoghi della formazione, quali la scuola, l’università, i mezzi di co-municazione, effettivamente realizzò un’egemonia culturale significativa, ma si mostrò incapace di agire in pro-fondità sul modo d’essere dell’italia-no medio, rimasto nel suo sentire, un «conservatore».

Dopo il crollo del Muro e parallela-mente all’uscita di scena della DC, do-

vuta a Tangentopoli, l’elettore medio si è sentito nuovamente libero di esprime-re la sua vocazione politica, tornado a guardare a destra. Una destra incapace di tradurre, nell’ultimo ventennio, in un effettivo «ammo-dernamento conserva-tore» il consenso ampiamente maggio-ritario intercettato nelle urne, a causa delle ragioni più varie. Il risultato è che oggi viviamo un possibile «centrismo» di ritorno, vera espressone del Nuovo Regime, quello della governance, che rischia di mettere fuori gioco, oltre la destra, la stessa sinistra il cui ubi consi-stam è stato, per due decenni, l’osses-sione dell’antiberlusconismo. Senza Berlusconi che senso può avere una sinistra siffatta?

Il nostro destino, pertanto, è quel-lo di morire democristiani? Ci augu-riamo di no. Perché ciò non accada è necessario che le forze di opposizione allo stato presente delle cose, in Italia ed in Europa, riescano a ritrovare le coordinate culturali ed esistenziali che classi dirigenti dissennate hanno obliato e dissipato. Soltanto riferi-menti intellettuali alti possono con-sentire un ritorno del pensiero di tra-dizione, dell’ideologia italiana, uni-che alternative al centrismo «finanziario» che allunga, da troppo tempo, le sue ombre sull’Europa. Le riflessioni di Chiarini possono aiutare a ricostruire percorsi di ricerca da tempo interrotti.

Il Nemico assoluto Psicopatologia

dell’antiberlusconismo GLI ULTIMI vent’anni della storia d’Italia, nel bene e nel male, sono stati segnati in modo pervasivo dalla figura di Silvio Berlusconi. Dapprima come imprenditore, uomo di comunicazione e di sport, poi come politico ed uomo di Stato, Berlusconi ha lasciato il segno. Ciò è dimostra-to dal fatto che egli, ancora oggi, o è amato o è (fortemente e da molti) odiato e detestato. Non c’è dub-bio alcuno che la sua persona sia stata, proprio da questi duplici e contrapposti sentimenti, resa «paradigmatica». Berlusconi è il simbolo della politica in senso schmittia-no, fondata sulla netta distinzione delle categorie di ami-co e nemico. Tanto i suoi seguaci e ammiratori, quanto i suoi detrattori hanno espresso giudizi politici, giuridico-giudiziari su di lui e le vicende in cui è stato coinvolto, guidati dall’amicizia o dall’inimicizia. Il Cavaliere è così divenuto la personificazione del Nemico assoluto.

Egli, per il popolo della sinistra dei «diritti dell’uo-mo», rappresenta una tipologia antropologica inferiore, di cui è necessario sbarazzarsi, in quanto incarnazione dei vizi peggiori della stirpe italica: truffatore, falso, ma-schilista, pedofilo e, per di più, colluso con ogni tipo di organizzazione malavitosa. Vera e propria incarnazione del male. Come si è giunti a tanto? Cerca di interpretare la paradossale situazione un recente libro di Giuseppe Magnarapa, psichiatra e docente dell’Università di Cas-sino, Nemico assoluto. Fenomenologia dell’antiberlu-sconismo militante, nelle librerie per Bietti editore (per ordini: 02/29528929).

Si tratta di un volume agile e di scorrevole lettura nel quale l’autore ricostruisce le tappe attraverso le quali è stato creato il Nemico assoluto mediatico. Innanzitutto, si analizza il «fronte giudiziario». Da questo punto di vista si rileva come indagini giudiziarie e processi siano inizia-ti, con la sola eccezione di intercettazioni risalenti al

1983, dopo la «discesa in campo» del Cavaliere. Si prose-gue affrontando il tema più rilevante per la creazione del mostro Berlusconi, il «fronte moralista». È in questo am-bito che l’odio nei confronti del leader del centrodestra è cresciuto esponenzialmente. Ci riferiamo alle diverse vi-cende giudiziarie nelle quali Berlusconi è stato inquisito a causa di rapporti con personaggi poco raccomandabili, veri e propri mediatori nei rapporti tra l’uomo di Arcore e escort varie (situazioni nelle quali il Cavaliere ci ha mes-so del suo per aiutare, come meglio poteva, i suoi detrat-tori). In questo contesto, i giudizi su di lui mostrano per altro un’evidente contraddittorietà; gli si affibbiano, a se-conda dei casi, gli epiteti di: pedofilo, impotente, maschi-lista o di mandrillo impenitente. Un colpo da novanta alle spalle di Berlusconi fu sferrato, in questo ambito, dalla allora consorte Veronica Lario con le due lettere a Repub-blica. Questi contesti hanno condotto all’apertura del «fronte somatico-psichico», nel quale si sono distinti de-gli psichiatri democratici doc, tra essi Cancrini. La dia-gnosi emessa è chiara: Berlusconi è un malato di mente al quale non si può permettere di governare, nonostante le maggioranze assai ampie intercettate in diverse tornate elettorali. Intervengano, pertanto, quanto prima giornali-sti e magistrati per chiudere questa intollerabile situazio-ne. Del resto, se Berlusconi è un malato psichico e come imprenditore un truffatore, che valore potrà mai avere il programma politico del «suo» centrodestra? Semplice-mente quello di tutelare i «suoi» interessi.

Siamo alla più completa delegittimazione personale e politica. Nel 2013 si compie il passo ulteriore: dalla dele-gittimazione alla negazione. Berlusconi non è più un pe-ricolo politico ed umano, è ormai fuori gioco. Così argo-mentavano molti commentatori. Risultato? Alle elezioni di febbraio il PDL rischiò addirittura di vincere. L’anti-berlusconismo assoluto, ci spiega Magnarapa, non con-sente di capire l’universo «Berlusconi» e di sconfiggerlo politicamente. Oggi, alla luce delle ultime condanne, sia-mo alla scena finale. La vera sorpresa è che da essa ri-schia di essere estromessa, assieme al Cavaliere, la sini-stra degli antiberlusconiani. Dietro le quinte, con le sem-bianze della vecchia «balena bianca», si fanno innanzi le ombre mondialiste della gvernance.

GIOVANNI SESSA

Gennaio 2014 IL BORGHESE 75

l’ambizione di evitare tragedie e soffe-renze all’umanità.

Siamo, è chiaro, all’interno di quel-la «cultura della decrescita», più o me-no felice, intorno alla quale, in modo trasversal, molti sperano di costruire i nuovi assetti socio-economici del mon-do (quello più sazio ed appagato), di-menticando che c’è un altro mondo ancora costretto a fare i conti con i bi-sogni primari del sostentamento. La provocazione di Io sto con la cicala è comunque utile per ripensare sintetica-mente i limiti, o le ragioni, dell’attuale sistema economico e sociale. In gioco entrano i temi/valori della crescita infi-nita (legata ad un continuo innalzamen-to della produzione e dei consumi), del-le risorse, della competitività, dell’eti-ca, del tempo, sia dal punto di vista del-la formica o da quello della cicala.

A fronte di una logica produttivisti-ca ed efficientistica, per la quale il tem-po pienamente vissuto è quello dedicato al lavoro, alla produzione, al guadagno, emerge la domanda di un tempo più lento, più intensamente vissuto: «La lentezza, infatti», scrive Gusmeroli, «ci obbliga a selezionare, a rinunciare al superfluo per andare all’essenza delle cose; ci stimola a soffermarci, a stare nel presente con più intensità, più pro-fondità, più pienezza». Lentius, profun-dius, suavius («più lento, più profondo, più dolce») era l’invito di Alex Langer, originale figura di ambientalista, che lo contrapponeva al motto olimpico citius, altius, fortius («più veloce, più in alto, più forte»). Della cicala tesseva le lodi anche Gianni Rodari: «Chiedo scusa alla favola antica, se non piace l’avara formica. Io sto dalla parte della cicala che il più bel canto non vende, regala».

La filosofia del cricri cricri ha in-dubbiamente un suo fascino, anche se porta con sé il rischio dell’accidia, l’av-versione ad operare, mista a noia ed indifferenza, e quindi la decadenza so-ciale e personale. L’autore di Io sto con la cicala ne è consapevole, mettendo il lettore sull’avviso rispetto ad una vita fatta di passatempi e di piaceri, insieme alle difficoltà «che la costruzione di una nuova società complessa comporta

IL BELLO delle favole è che non tra-montano mai, per la capacità che esse hanno di parlare all’animo umano, al di là del tempo e delle condizioni socio-culturali. Rito antico e moderno, per dirla con Attilio Mordini, attraverso cui «il fanciullo apre l’anima sua alla na-turale investitura della parola umana nel linguaggio evocativo; e tutte le an-cestralità vengono in lui rimosse e or-dinate alla calda meraviglia dell’esse-re», le favole si offrono tuttavia anche al gioco delle reinvenzioni/reinter-pretazioni, gioco anch’esso senza tem-po, in grado spesso di attualizzarne/ribaltarne il messaggio.

Tra le più antiche, La cicala e la formica, di Esopo, adattata, nel Seicen-to, da Jean de La Fontaine, è tra le più note: da una parte la cicala fannullona, dall’altra la formica laboriosa, con la prima condannata, nel gelido inverno, alla fame e la seconda garantita dalle riserve accumulate durante un’estate di lavoro. La storia, nei secoli, ha manife-stato una chiara «visione della vita e del mondo», nella quale ad uscirne vin-cente era sempre l’idea del lavoro e della prudenza, contrapposta a quella dell’accidia e della superficialità.

Il gioco degli opposti e le contin-genze contemporanee, segnate da una crisi epocale, hanno ora spinto Fausto Gusmeroli, un «uomo della terra», docente nel campo agroalimentare, a ribaltare le scontate e rassicuranti le-zioni del passato, intessendo in un agile pamphlet (Io sto con la cicala, «Emi», pagg. 61, Euro 4,50) le lodi della cicala ed appioppando alla for-mica lavoratrice l’accusa di essere «turbocapitalista».

Il «teorema» di Gusmeroli ha una sua logica. Nel momento in cui la «crisi» (intesa anche nel senso etimolo-gicamente più corretto di trasformazio-ne, cambiamento) mette in discussione tutte le vecchie certezze (economiche, ambientali, sociali, etiche, politiche), guardare alla cicala può servire - dice l’autore - per superare gli eccessi del produttivismo e dell’accumulazione, per fissare nuovi obiettivi e nuovi para-digmi all’uomo e alla società, con

e dell’utopia che ha in sé». Rivendicare un’aspettativa postmaterialista, nella quale ci sia spazio non soltanto utopi-sticamente per i sogni, ma anche per una visione ludica, artistica, spirituale della vita è un’esigenza reale che non può comunque essere disattesa e che anzi può trovare inaspettate conferme.

Curiosità nella curiosità del libretto di Gusmeroli ecco allora una coinci-denza significativa. Quasi in contempo-ranea con la pubblicazione di Io sto con la cicala, Cartevive, il periodico dell’Archivio Prezzolini - Biblioteca cantonale Lugano, ha pubblicato una rivisitazione della favola di Esopo da parte di un trentenne Giuseppe Prezzo-lini («La favola della cicala e della for-mica moderne») apparsa, nel 1912, sul-la romana Primavera, «rivista mensile per i fanciulli e giovinette».

La rilettura, quasi un inedito, visto il tempo trascorso, conferma non soltanto la freschezza e la modernità di Prezzoli-ni ma anche il suo genio anticonformi-sta. Di fronte ai giovani lettori, il nostro ribalta, da par suo, l’interpretazione ras-sicurante e moralistica della favola di Esopo, per difendere, a spada tratta, la cicala, immagine del poeta e del pensa-tore, che, in apparenza, non producono materialmente nulla, ma che invece - scrive Prezzolini - «…fanno vivere tutti quelli che lavorano, con le braccia o no; perché mentre sembrano oziare, le loro menti fatate si affaticano intorno alle origini e alle armonie di questa no-stra vita, e scoprendole danno a tutti la ragione, di faticare, di soffrire e di vive-re. Quanta gioia c’è ora nel canto della cicala, dacché la vedete non più oziosa, ma anzi spensieratamente lavoratrice e donatrice! Quanta gioia nel poeta di comunicare con il cielo e con gli uomini e d’aprir loro un orizzonte più vasto!»

È evidentemente lontana da Prez-zolini qualsiasi visione «sovverti-trice». A lui basta «mettere le cose al loro giusto posto», secondo quell’i-dea della «qualità» opposta alla «quantità», che, agli inizi degli Anni Settanta del ’900, pose alla base del suo famoso «Mani-festo». Importan-te, però, è non pretendere di omolo-gare l’umanità in un’unica visione. In un mondo «normale», qual era quello di Prezzolini, c’era spazio per le for-miche e per le cicale, secondo il prin-cipio «a ciascuno il suo». Senza asso-lutizzazioni, senza schemi ideologici, alla ricerca di un «senso della vita» pieno e complesso: aspettativa tutt’altro che utopistica, a cui ancora tendere ben al di là di qualsiasi pole-mica contingente.

Io sto con la cicala Da una recente «provocazione» contro il turbo capitalismo ad un quasi-inedito di Prezzolini

di MARIO BOZZI SENTIERI

76 IL BORGHESE Gennaio 2014

gimi autoritari, quali quello fascista italiano, franchista spagnolo e salaza-riano portoghese, piuttosto demoniz-zati nel testo e scorrettamente rag-gruppati nella categoria dei «totalitarismi», e quelli totalitari, ap-punto, cioè il nazionalsocialista tede-sco, il sovietico e le «democrazie po-polari» dell’Europa dell’Est.

L’autore, epigono (come la mag-gior parte degli scrittori di manuali scolastici italiani del dopoguerra) di quella che ancora egli continua a de-finire «la grande civiltà liberale e borghese dell’Ottocento europeo» (p. 51), e che è invece all’origine ideolo-gica delle esperienze totalitarie nove-centesche (ad esempio per aver de-molito l’articolazione sociale nei cor-pi intermedi ed il realismo indotto dalla combattuta influenza della Chiesa sul popolo), incappa in molte di quelle semplificazioni e distorsioni storiografiche che speravamo in via di superamento, almeno nell’ambito di una editoria «alternativa» come quella specializzata in medievistica di Ciolfi editore. Valga un esempio (macroscopico) per tutti. Scrive Lo Curto a conclusione del suo capitolo sul Comunismo: «Possiamo afferma-re che il processo storico della “destalinizzazione” coincise, sia pu-re in maniera non sempre lineare, con quello della “de-totalitarizzazione”, vale a dire della graduale eliminazione del totalitari-smo nell’URSS» (p. 38). Si tratta di un’affermazione che ignora total-mente non soltanto la testimonianza, ormai di larga diffusione editoriale, dei «dissidenti» dell’ex URSS post-staliniana (Vladimir Bukovsky, per fare un solo nome di quelli ancora viventi), ma anche delle risultanze de Il libro nero del comunismo, il quale ha documentato che le cose non cam-biarono affatto dopo il 1953. Sem-mai, fu proprio Nikita Kruscev ad accreditare, grazie alla capillare orga-nizzazione internazionale della «contro-informazione» sovietica e del KGB, che i «crimini stalinisti» fossero appunto una «degenerazione» degli ideali ed obiettivi del marxismo-leninismo delle origini.

Ad es. sotto il profilo della perse-cuzione religiosa, un grande storico della Chiesa come Cesare Marongiu Buonaiuti (1941-2003) ha completa-mente sfatato il mito del c.d. «comunismo della distensione”. L’avvento nel 1953 alla guida del PCUS di Kruscev, infatti, peggiorò la già grave situazione dei cristiani an-

Vito Lo Curto I Totalitarismi nell’Europa del Novecento Ciolfi Editore - 2013 [email protected] - tel.0776/21227 Pp. 160 - € 15,00

Questo libro, scritto con stile chiaro e linearmente didattico da un docente e preside nei Licei per destinarlo a manuale per le scuole secondarie superiori, è oggi riversato in saggio a seguito del fallimento della collana editoriale che doveva ospitarlo. La premessa è d’obbligo perché, sia nella prima parte, che è una introduzione di carattere generale sui fenomeni storici identificati come totalitari («nazismo»,«fascismo» e «comunismo») sia nella seconda, ri-servata ad una raccolta di 35 testi an-tologici funzionali al discorso svolto sui totalitarismi europei, sono ravvi-sabili molti degli stereotipi propagan-distico-ideologici diffusi a piene ma-ni nell’ultimo settantennio nelle no-stre aule scolastiche ed universitarie. Manipolazioni e semplificazioni, di cui sono oggetto, tanto i vinti del No-vecento, cioè i movimenti e regimi fascisti (italiani ed iberici), quanto la Germania pre-seconda guerra mon-diale, finita o meno nazionalsociali-sta, quanto i (presunti) vincitori del secondo dopoguerra, cioè comunisti e «internazionalisti» vari.

La prima pecca d’indagine è, ap-punto, la mancata distinzione fra re-

cora sopravvissuti nell’Unione Sovie-tica: «le prime avvisaglie», ha scritto Marongiu nel manuale universitario Chiese e Stati. Dall’età dell’Illumini-smo alla Prima guerra mondiale (Carocci, Roma 1997), «si videro nell’editoriale della Pravda del 1954. Nell’organo ufficiale del partito si affermava che “l’incoscienza, l’oscu-rità e l’oscurantismo travestiti da cre-di religiosi” non morivano da soli, ma “dovranno essere combattuti per-sistentemente con tutte le forze” e nel 1959 riprese una violenta persecuzio-ne (anche contro i battisti), persino con il ricorso al rafforzamento della propaganda atea ad opera di preti apostati. Al momento in cui Kruscev lasciò il potere nel 1964 il bilancio della nuova persecuzione fu la chiu-sura di 12.000 chiese, di 45 monaste-ri e di 5 seminari» (op. cit., pp. 318-319).

Secondo il sopracitato Libro nero i regimi comunisti hanno poi sulla coscienza, soltanto per citare i Paesi in cui sono state più vittime, il se-guente numero di morti: URSS, 20 milioni; Cina, 65 milioni; Corea del Nord, 2 milioni; Cambogia, 2 milio-ni. In un libro destinato alle scuole sul totalitarismo sembrerebbe quindi stato opportuno tenere conto, nell’e-conomia degli spazi dedicati ai vari approfondimenti, anche di tali entità di «esiti sociali», decisamente incom-parabili (perché inferiori) a quelli causati dai 12 anni di regime nazio-nalsocialista e del tutto sconosciuti ai regimi fascisti della prima metà del secolo.

La terza parte del libro di Lo Cur-to è composto da 18 illustrazioni, per lo più fotografie, ma anche vignette e disegni pubblicati in giornali e rivi-ste, che presentano un indubbio inte-resse, configurandosi come veri do-cumenti che avrebbero dovuto in-fluenzare di più la parte descrittiva dell’opera. Fra le altre illustrazioni, quindi, per rimanere allo stalinismo, segnaliamo quella intitolata «Un an-nuncio della morte di Stalin», nella quale si raffigura un militante comu-nista italiano mentre sta affiggendo un manifesto con la scritta: «Stalin è morto. Onore al GRANDE STALIN». Lo Curto giustamente commenta nel-la didascalia che utilmente correda ciascuna delle illustrazioni: «Trent’anni di dominio incontrastato e di martellante propaganda avevano ormai reso del tutto normali nel mon-do comunista espressioni come quella che compaiono nel manifesto di una

SCHEDE

Gennaio 2014 IL BORGHESE 77

sibilmente. L’età monarchica vide il susseguirsi di ben sette re prima di la-sciare il testimone al periodo d’oro del-la storia romana: l’età repubblicana.

La repubblica romana aveva un ordinamento giuridico molto equili-brato, che prevedeva istituti quali: il Senato, i Consolati, le varie Prefettu-re e Questure. Era previsto, altresì, che in caso di guerra il potere fosse concentrato, per un periodo massimo di sei mesi, nelle mani di un solo dit-tatore.

Una delle ragioni del successo di Roma è da ascrivere senza dubbio alle sue straordinarie legioni, al comando, spesso, di condottieri eccezionali. Uno su tutti, Giulio Cesare. Grazie alle sue straordinarie doti di stratega, Roma conquistò territori immensi, dalla Gal-lia alla Britannia, dalla Spagna all’Egit-to raggiungendo un’estensione enorme per quel periodo.

Dopo l’assassinio di Cesare, av-venuto in Senato il 15 Marzo del 43 a.C., per mano di alcuni congiurati, Roma fu retta da un triumvirato com-posto da Ottaviano, figlioccio di Ce-sare, Antonio e Lepido.

Nel 29 a.C. Ottaviano dopo dure lotte con gli altri triumviri, da cui ne uscì vincitore, rimase solo al comando. Il Senato romano abdicò i suoi poteri e gli conferì il titolo di Augusto.

Così Roma entrò nell’èra dei Ce-sari, trasformandosi da Repubblica a Impero. Furono molti gli imperatori romani, da Augusto a Tiberio, da Ca-ligola a Nerone, da Traiano ad Adria-no, da Settimio Severo a Dioclezia-no. Se Roma durante la fase imperia-le conobbe il suo apogeo, al tempo stesso, la granitica società romana,

fondata sui valori probi della formula repubblicana, cominciò un lento ma inesorabile declino verso la sua ulti-ma fase.

I fasti e i lussi imperiali comin-ciarono a corrompere i costumi dei romani, sia della popolazione sia del-le legioni temprate alla guerra nel corso dei secoli.

Nessuno voleva più ne combatte-re, né vivere la dura vita militare del legionario.

Roma fu costretta ad affidare il compito della propria difesa ad altre popolazioni, esterne al limes e a lei sottomesse. Fu l’inizio della sua fine.

ALDO LIGABÒ

V. Feltri - G. Sangiuliano Una Repubblica senza Patria. Storie d’Italia dal 1943 a oggi Mondadori 2013 Pp. 292 - € 16,15

La storia d’Italia è fatta di divisio-

ni, di guerre di campanile, di odio che resiste nel tempo anche quando dei motivi della contesa si è persa la memoria. L’Italia è un po’ come le due città toscane in perenne contra-sto, Pisa e Livorno, vicine eppure tanto lontane. Quella divergenza in-comprensibile a un osservatore è for-se la cartolina dell’intero Paese che ancora cerca una risposta a quell’in-dicazione risorgimentale: abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli Italiani. No, gli Italiani non ci sono. Non c’è un comune sentire, non c’è una me-moria condivisa, non c’è una sola fe-stività civile che ci unisca. Perfino il ricordo dell’unità ci ha separato, con una forza politica della stessa mag-gioranza (la Lega) che ha ostacolato le celebrazioni. Perfino quella data lontana che pure vide proprio il Nord protagonista oggi è contestata da chi non vorrebbe coabitare con l’altra parte dello stivale: il Sud.

Per non parlare poi di altre feste come il 25 aprile o il 2 giugno. Forse si sarebbe salvata la retorica del 4 novembre, ma la politica ha declassa-to questa festa rendendola di serie B. Così Caporetto, il Piave, il monte Grappa, appartengono alla geografia e pochi giovani sanno perché piazze e strade siano intitolate al generale Diaz.

La storia degli anni che vanno dalla seconda guerra a oggi, ha allar-gato il solco. È una storia di divisioni dove Destra e Sinistra sono apparsi come fascismo e comunismo, non soltanto antagonisti ma nemici fino

federazione del PCI qui riprodot-to» (p. 149). Questo come altre reali fonti antologiche e documentarie ri-portate nel libro (nella seconda parte, ad es., è opportunamente inserita una citazione del volume Analisi del tota-litarismo, di Domenico Fisichella, fondamentale per superare le sempli-ficazioni del fenomeno), avrebbero quindi meritato d’influenzare di più l’inquadramento complessivo fornito dall’autore per illustrare i totalitari-smi nell’Europa del Novecento.

GIUSEPPE BRIENZA

Antonio Spinosa La grande storia di Roma Mondadori (Oscar Storia) - 2000 Pp. 514 - € 12,00

Antonio Spinosa (1932-2009) è

stato uno scrittore, giornalista e stori-co italiano. Nella sua lunga carriera ha vinto numerosi riconoscimenti quali il Premio Estense, il Saint-Vincent ed il Bancarella, oltre ad es-sere finalista al Premio Strega 1996.

Uno dei suoi libri più famosi è La grande Storia di Roma, pubblicato dalla Mondadori nel 1996 e recente-mente ristampato in edizione econo-mica. Il saggio, ben scritto e articola-to, riesce in poco più di cinquecento pagine a narrare la formidabile storia della città eterna, dalla sua fondazio-ne alla caduta dell’impero.

La pubblicistica, su Roma e la sua storia, è sterminata ma, a parte Storia di Roma di Indro Montanelli (1909-2001), sono rari i saggi, sia pure a carattere divulgativo, dotati di una simile chiarezza espositiva.

La sua millenaria storia può esse-re suddivisa in quattro fasi: la Roma monarchica, la Roma repubblicana, la Roma dei Cesari e, infine, la Roma domata.

Secondo la leggenda, la città della lupa fu fondata il 21 aprile 753 a.C. da Romolo, che sarà il suo primo re, uscito vincitore da una lotta sangui-nosa con suo fratello Remo A quell’epoca, Roma era un piccolo villaggio di capanne e palafitte sulle sponde del fiume Tevere.

Erano tempi grami per i romani, quasi sempre in lotta con i popoli vi-cini. Gli abitanti dell’Urbe avevano un serio problema: la popolazione femminile era molto scarsa ed indivi-duarono la soluzione nel celeberrimo ratto delle sabine, il più famoso rapi-mento della storia antica.

Grazie alle donne sabine la popola-zione romana cominciò a crescere sen-

78 IL BORGHESE Gennaio 2014

Luciano Garibaldi «Brigate Rosse» Per non dimenticare Pref. di Marco Ferrazzoli Pp. 140 - € 14,00 NEL suo libro, Luciano Garibaldi, immerge il lettore in diciotto capi-toli ed una postfazione in cui ven-gono «ricordati» i cosiddetti «Anni di piombo», attraverso l’inchiostro utilizzato proprio in quegli anni nel suo lavoro di giornalista di inchie-sta nel noto settimanale Gente. Una lettura fluida e intensa che coinvol-ge. Gli scritti riportati vogliono ren-dere una ricostruzione esatta e veri-tiera di quello spaccato di storia italiana anche attraverso nomi me-no conosciuti o dimenticati e rende-re giustizia e difesa alle vittime del terrorismo rosso e ai loro cari. Do-didi anni di storia italiana (dal 1970 al 1982) spiegata con articoli, epi-sodi, personaggi da non dimentica-re, come appunto recita il titolo. Articoli dell’epoca e quindi pregni dell’intensità di quel momento sto-rico che riporta all’atmosfera di quel particolare periodo. L’autore intende fare vera informazione, quindi con amara costatazione, ac-cantonare e sottolineare al contem-po - come ci ricorda nella prefazio-ne al suo libro - «la controinforma-zione»… che «non fu quella elabo-rata dalla omonima rivista delle BR, ma quella propinata alla gente della grande stampa e dalla tv di Stato.». Luciano Garibaldi esclude episodi eccellenti firmati dal terro-rismo rosso come ad esempio l’as-sassinio di Moro (evento cruento ben noto anche ai giovani lettori) per privilegiare invece testimonian-ze esclusive come l’intervista al commissario capo della Digos ligu-re Salvatore Genova sulla liberazio-ne del generale James Lee Dozier, al collega Indro Montanelli (uno dei colpiti durante il periodo dei gambizzati) e i ritratti veritieri che tolgono odiosi cliché attribuiti in-giustamente come nel caso del ma-gistrato Mario Sossi; e ancora il profilo e la doppia vita di alcuni personaggi dalla parte della barrica-ta terroristica come Toni Negri, Giovanni Senzani o Anna Maria Ludmann «la compagna Cecilia». È

lo stesso Garibaldi, a spiegare, nel-la sua prefazione, che «Non a caso questi articoli, che quando furono scritti, rappresentavano una stecca nel coro, documentano oggi in ma-niera lampante le distorsioni e le complicità della stampa, i paurosi cedimenti della magistratura, la viltà dei governi che lasciarono al-lo sbaraglio la polizia giudiziaria. Essi costituiscono un’indimentica-bile galleria di volti e di nomi: pal-lidi e pavidi esponenti del potere; spavaldi sovversivi che dall’inerzia dello Stato ricavavano forza per il loro progetto; silenziosi eroi come Calabresi, Coco e Taliercio». Un libro che fa riflettere, perché i pro-tagonisti/vittime ci parlano attra-verso i ricordi discreti dei famiglia-ri, mentre Garibaldi tende alla ri-cerca della completezza della noti-zia; induce a riflettere sulle motiva-zioni di crudeltà dei terroristi nella scelta, nelle modalità di trattamento dei loro bersagli; ne condanna la violenza e contemporaneamente si siede accanto alle vittime di queste carneficine riportandone il dolore e i sentimenti con il perfetto distacco tra diritto di cronaca e rispetto delle persone vittime o inevitabilmente trasversalmente colpite anch’esse. Non a caso l’ultimo capitolo a mo’ di postfazione è intitolato «I morti chi li ricorda più?», dando spazio all’«Associa-zione italiana vittime del terrorismo e dell’eversione con-tro l’ordinamento costituzionale dello Stato» (Aiviter), fondata a To-rino nel 1985 da Maurizio Puddu; un ulteriore sprone ed appello a non dimenticare e - dalle parole di Pud-du - «di non permettere la disper-sione della memoria storica degli eventi».

MARIA RITA PARROCCINI

alla morte. Dirsi di Destra in Italia voleva dire autorizzare a considerarti fascista, e di Sinistra voleva dire pre-sentarti come comunista. Tutti lontani da quell’idea di Destra liberale o Si-nistra riformista presenti in Europa, dove la competizione elettorale non ha impedito di cementare un’idea co-mune di patria, di rendere universali alcuni valori. Noi siamo il Paese del-la contrapposizione. Perfino in tempi quando fascismo e comunismo rap-presentano soltanto un passato lonta-no e non certo una prospettiva. Ci siamo divisi tra berlusconiani e anti-berlusconiani non per ragioni politi-che, non per scelte programmatiche, ma per principio, per ideologia. Nuo-ve ideologie senza storia e senza va-lori eppure efficaci per contrastare il nuovo nemico.

Se questo è il quadro appare straordinariamente interessante la let-tura del libro di Vittorio Feltri e Gen-naro Sangiuliano. «Siamo legati a una strana idea della politica. Non lo consideriamo lo strumento che do-vrebbe permetterci di vivere meglio, ma una religione, nei confronti della quale c’è solo fede cieca e nessuna voglia di ragionare. Si procede senza valutare il proprio interesse, compor-tamento tipico di un Paese che non sa cosa sia la patria, quindi si attac-ca a un partito, a una confessione religiosa, talvolta al calcio. Tutto, pur di non riconoscersi come popolo unico e come patria.» Questa è l’a-mara constatazione dei due autori. Gennaro Sangiuliano e Vittorio Feltri ripercorrono le vicende fondamentali del dopoguerra, dalle origini della Repubblica fino ai nostri giorni, per giungere a una conclusione sconfor-tante: l’Italia è una Repubblica senza patria, che è come dire uno Stato sen-za nazione, fatto da cittadini che si riconoscono soltanto nel proprio gruppo.

Sangiuliano ricostruisce storica-mente la cronaca dal 1943 agli anni ’70. Vittorio Feltri racconta invece gli anni più recenti: dall’esperienza del centrosinistra di Fanfani alla strategia della tensione; da Mani Pulite con le inchieste di Antonio Di Pietro alla nascita della Lega e all’avvento di Silvio Berlusconi sulla scena politica. Nessun elemento di unità, nessun sentimento di Patria, nessuna ricerca del bene comune. Ma «una lotta sen-za quartiere che ha assorbito tutte le energie, dissanguato lo Stato e immi-serito la nazione».

GIUSEPPE SANZOTTA

«I LIBRI DEL BORGHESE»

IL BORGHESE 79Gennaio 2014

CARLO BERNARDI

Angeli in ospedale

Presenze discretelargiscono curecon buone parolee dolce attenzione.Il male distraespesso oscurail conforto portatodalla paziente vegliadi queste creature.Ma voi, Angeli,non vi smarritesappiate che spessola vostra presenzalenisce il doloree aiuta a guarire.

ALESSANDRO CANFORA

Notte

Notte e sangue di vita e sangue tiepido bolle;rozzi violoncelli intimi dai suoni profonditra le tue curve e la tua dolce voce e sangue tra te e me;notte blu volano diavoli ed elfi,dentro il letto dolcezze e ferite,bianco latte l’amorema furioso amore,sangue feroce sensualee mille rozzi selvaggi;cuori nella selva della nottee terra fiumana rossa,dolci fruttie conchiglie dorate del maree noi dueteneri momenti e fanciulli,gioia ed amplessi e papaveri amaranto dove il soleillumina noi ed il mondo;nella stanza uragani e calme farfallema fiori e perdizioni,dalla nascita,nascitura delle perleche avanza tra preziose pietre,dolci tuoi occhi,vaste colline di mare e di stelleed accecante sole e dolore.

FILIPPO CORRIDONI

Italia pervertita da demonizzante culturadi tirannica corruzione parlamentare ostaggio.

Angosciata, tra cipressi sgomenti,da ineguaglianze sociali.

Via Crucis, tra inquiete ombre,scorie del dubbio.

Eco di un progetto sociale rivoluzionario,lacerato.

Di una ragione per vivere o morire,nel bronzo degli eletti rivendicata.

Ma l’apostolato tuo, fulgido olocausto,da eroico sangue consacrato, sulla patria trincea,ricomporrà le nostre avanguardie,rigenerando trascendenti ideali.

Se Dio non è morto!

OTTAVIO DI STEFANO

Il diritto di esistere

Questo messaggio l’ho affidato al vento,perché nei luoghi dove è destinatonon esistono saggi ambasciatori,lì c’è solo dolore e carestia.

Corri pensiero, vola,raggiungi i desolati accampamenti,là dove tante gentipassivamente attendono la morte,e con amore dài loro coraggio.

Fa che ai potenti tutti al fine giungaquel sentimento disperato e pioche estirpi l’odio che rinnega vita.

Tutto s’avvera purché la giustiziasappia donare ancora la speranzaa chi non ha diritto all’esistenza.

OTELLO FABIANI

Omaggio ar Prof. Piermichele Paolillo a l’AiutiE dar primo all’urtimo Infermiere

È notte, pare che n se move gnentecomincia pur’a piove, piano pianoaccesi du lampioni solamentenun fanno vede manco n marcapiano.

N’ombra, pare che cià in testa n velo,gni tanto s’annisconne n d’un portonequannoche ce stà n lampo su ner celo,viso penato e qualche luccicone.

Ripenza a li momenti spensieratiE a tutto quer ch’è bello de naturaQuei d’oggi invece so angosciatiPerché lei porta n braccio na cratura.

Nun po’ tenella, nu je po’ da gnenteer latte l’ha finito ormai da tanto,ha chiesto aiuto poi a tanta genteporte chiuse, ma forze trova n santo.

Ja rimediato solo quer goccettoMo quella bocca sua puzza de cacio,sente scoppiasse…r core drent’ar petto,la lassa, ma je dà l’urtimo bacio.

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IL BORGHESE80 Gennaio 2014

CLAUDIO FRANCESCONI

L’amore pe l’imigrati

Ce ne so oprmai de tutti li colori,nun ce so ciovè solo li turchinia quarchiduno vengheno bollori;perché tiè li penzièri piccinini

e vorebbe menà co li tortoriquéli che qui so entrati clandestini.Ma pe’ ‘sta ginìa quàli so i valori?Penso che so parenti a l’aguzzini.

Poi se ritengheno bòni cristiani,pure se fann’orecchi da mercantie tratteno ‘ste genti come cani.

Nun senteno quélo che dice er Papafanno figura solo da screpanti.Tu vôi sapè chi so? Va ‘n Chièsa e capa!

Roma, 20 maggio 2002

MIRIANA NIKOLIC

Estate Bizzarra

Se ne sta andando viaquesta estate strana,la libertà incatenatagrida i sogni perduti,una donna contro una vita che non le appartienee le battaglie sanguinose ancora da fare.Se ne sta andando e va incontroall’autunno incertoalle foglie che cadrannocome le lacrime dal visodi una donna e i suoi sogni non realizzatie le battaglie atroci le lacerano l’anima.Se ne sta andandocome i giorni che passano,preziose perle che si staccanouna alla volta dalla collana di una donnache continua a combatteree non sa nemmeno perché.Se ne sta andando viaquesta estate bizzarracon i suoi sogni impossibilie i desideri della carnedi una donna che ha perso se stessadurante le guerreche le sono piombate addosso.Se ne sta andando viaquesta estate atroceporta via con sé una vita mai vissutadi una donna come la rosa non sbocciatagrazie alle guerreche non avevano senso di esistere.

MARIA RITA PARROCCINI

La Culla delle Sirene

… Fra le onde accarezzate dal vento,si cullano le sirene,nell’abbraccio dei poderosi ventisi annullano i sensie si ritrova la magia della vita.

ROSANNA IVANA RUSSO

Un sogno paradisiaco

Sogno di un mondo fatatoe me all’ombra frescadi una grande quercia.Sognodi un luogo incantatoe me che ispirata dai petali rosa di un fiorecompongo versi d’amore.Sì, sogno di un mondo fatatodi pace fra la gentee di un luogoincantatodove felini e bambini giocano felicemente,sogno di un sorriso fra la gente che mai si spegne. Sogno un mondo dove si piange solo di gioiae dove di Dio si adora la gloria.Sorrido beata e serena nel sonnoma, al destarmi, piangoperché era tutto un sogno!

LUISA STARTARI SIMONE

La parte letteraria

Ai confini di un tristezza immaginaria… Eri vicino al cuore ferito come un sasso dal sole troppo

[duro… E fra le tue dita il fiume delle primavere attesediventava un masso di foglie arideche non si ricordavano più delle stelle…Tu pensavi ai fragili paesi della fantasia. Al lungo cammino dell’amore… alla sorpresa piantata come un chiodo rosso su la tua

[fronte.Eccoti scendere verso le baie tranquillo con l’occhio

[vertiginoso…

ENZA TIRENDI

Un vecchio quaderno

Questa penna va velocescorre ferma tra le righe,lasciando spazi vacanticolora pagine bianched’inchiostro neroe non mi dà tempodi cogliere ogni parola…Questa penna va troppo velocescorre su e giùsu fogli di cartad’un vecchio quaderno,usato solo per metàche ormai da temponon tenevo fra le mani…

Per proporre poesie per questa rubrica (max 20versi), spedire una email con nome, indirizzo e nu-mero di telefono a: [email protected] conla dicitura «per il Borghese»

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