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CARVAJAL INTERNATIONAL ARCHITECTURE AWARD mario botta Sette riflessioni e un progetto Siete reflexiones y un proyecto

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� � � � � �C A R V A J A L� � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � � �I N T E R N A T I O N A L A R C H I T E C T U R E A W A R D

mariobottaSette riflessioni e un progetto

Siete reflexiones y un proyecto

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La presente edición incluye ocho textos del profesor MarioBotta con motivo de la concesión del Premio Javier Carvajal,otorgado el 7 de mayo de 2014 en la Escuela TécnicaSuperior de Arquitectura de la Universidad de Navarra

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EDITORJosé Manuel Pozo

TRADUCCIÓNJosé Manuel Pozo

DISEÑO Y MAQUETACIÓNIzaskun García

IMPRESIÓNLitografías IPAR

EDICIÓNT6) Ediciones

DEPÓSITO LEGALNA 600-2014

ISBN84-92409-60-0

T6) ediciones © 2014Escuela Técnica Superior de Arquitectura. Universidad de Navarra31080 Pamplona. España. Tel 948 425600. Fax 948 425629

Todos los derechos reservados. Ninguna parte de esta publicación, inclu-yendo el diseño de cubierta, puede reproducirse, almacenarse o transmi-tirse de forma alguna, o por algún medio, sea éste eléctrico, químico,mecánico, óptico, de grabación o de fotocopia sin la previa autorizaciónescrita por parte de la propiedad.

Este libro se presentó en la Escuela de Arquitectura de la Universidad deNavarra el día 7 de mayo de 2014, con motivo de la concesión de la segundaedición del Premio Javier Carvajal, promovido por las entidades siguientes:

Escuela Técnica Superior deArquitectura de Madrid

Escuela Técnica Superior de Arquitectura

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Sette riflessioni e un progetto Luce e gravitàL’Accademia di Architettura di MendrisioL'architetto generalistaI centri storiciBellezza e architetturaLo spazio del SacroLa compiutezza del monasteroSan Carlino a Lugano

Illustrazioni / Ilustraciones

Siete reflexiones y un proyectoLuz y gravedadAcademia de MendrisioEl arquitecto con visión de conjuntoLos centros históricosBelleza y arquitecturaEl espacio SagradoLa integridad del monasterioSan Carlino en Lugano

Apunte biográfico

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65

81838793101107109119125

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Sette riflessioni e un progetto

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Luce e gravità

9MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Nell’opera di architettura la luce genera lo spazio:

senza luce non esiste spazio. La luce naturale dà corpo

alle forme plastiche, modella le superfici dei materiali,

controlla ed equilibra i tracciati geometrici.

Lo spazio generato dalla luce è l’anima del fatto

architettonico.

I volumi costruiti concorrono alla definizione degli

spazi che nel progetto architettonico restano l’obiettivo

finale; é il vuoto che detta le relazioni spaziali e funzio-

nali, che controlla i tracciati visivi, che genera possibili

emozioni, attese, interpretazioni.

La luce è un’entità naturale che sussiste al di là del

fatto architettonico che nel confronto con l’opera cos-

truita trova la propria ragione d’essere nello scorrere

del tempo lungo l’arco del ciclo solare nel continuo rin-

corrersi delle stagioni.

La luce, per l’architetto, è il segno visibile del rappor-

to che esiste fra l’opera di architettura e i valori cosmi-

ci dell’intorno, è l’elemento che modella l’opera nello

specifico contesto ambientale, ne descrive la latitudine

e l’orientamento, relaziona il manufatto con le partico-

larità ambientali.

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10 Sette riflessioni e un progetto

La gravità è la forza che lega l’opera di architettura

alla terra. Si può dire che essa costituisce la ragione

d’essere del principio costruttivo nella ricerca dell’equi-

librio per trasmettere i carichi al suolo. Il segno primo del

costruire è dato dal gesto di sovrapporre alla terra una

pietra; piuttosto che di pietra su pietra si deve quindi

parlare di pietra sulla terra: tutte le architetture portano

nel loro grembo questa condizione assoluta di essere

parte del suolo.

Attraverso l’opera costruita l’uomo perpetua il con-

fronto con la terra-madre e attua una azione che tras-

forma una condizione di natura in un fatto di cultura.

Posare un manufatto sul suolo è una sfida all’equili-

brio esistente nella ricerca di nuovi valori ambientali

capaci di essere testimoni del proprio tempo.

Il paesaggio costruito è specchio (talvolta impieto-

so) della collettività che lo esprime, è un modo per dar

forma alla storia, è un modo per dare continuità ai

popoli esistiti, in altre parole è un modo per sentirsi arte-

fici del proprio tempo.

Di fronte alla varietà dei temi incontrati sull’arco di

una vita lavorativa, questa riflessione propone come

chiave di lettura due aspetti fondamentali della discipli-

na, quello della luce e quello della gravità; due costan-

ti attorno alle quali è possibile intraprendere una lettura

capace forse di evidenziare gli attuali interessi e le

recenti contraddizioni.

Sono queste, realtà che appartengono a tutte le

opere di architettura costruite per cui potrebbe appari-

re ingenuo e forse anche inutile cercare di interpretare

ora i loro messaggi, offrono una chiave di lettura che si

distanzia dalla maggior parte dalle attuali attenzioni

critiche. La cultura architettonica contemporanea

attraverso sperimentazioni, linee di tendenza in atto o

mode culturali, sembra allontanarsi da un confronto

con questi aspetti primari del costruire (luce e gravità)

quasi che l’opera architettonica ne possa fare a meno.

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11MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Si ha l’impressione, infatti, che oggi siano altre le pre-

occupazioni degli operatori, non più indirizzate all’ope-

ra costruita ma rivolte soprattutto agli aspetti e ai con-

fronti virtuali, ai tempi effimeri, alle componenti epider-

miche, agli aspetti ludici, i soli pare, che riescano anco-

ra a catalizzare l’interesse del dibattito disciplinare.

Sottolineare aspetti estranei a queste mode, al di là

degli stili e dei linguaggi, può sembrare velleitario o

inopportuno. Al contrario, io penso che richiamare l’at-

tenzione dell’architettura verso alcune componenti

essenziali sia un modo per misurare la loro capacità di

interpretare il mondo contemporaneo.

Nel concitato proporsi in questi ultimi anni di strava-

ganti sperimentazioni e tragici azzeramenti, i messaggi

architettonici che emergono sovente sfuggono dalla

disciplina, si rivolgono ad aree contigue; alle arti visive,

alla pubblicistica o a interpretazioni letterarie legitti-

mando un disimpegno rispetto ai compiti propri della

architettura e della ricerca della qualità degli spazi.

Sono atteggiamenti che si esauriscono nella virtualità

del dibattito teorico e lasciano i cittadini disarmati di

fronte ai veri problemi che li costringono ad affrontare

quotidianamente vere e proprie battaglie urbane, per

muoversi, per lavorare, per sostare, per vivere.

Sembra che l’impegno civile e sociale che ha sorret-

to per millenni la speranza della disciplina sia scompar-

so; le nuove forme espressive si piegano alle leggi sug-

gerite dalla omologazione ai “Diktat” della moda e del

mercato, dove tutto, ma proprio tutto, è ridotto a merce

da accogliere e valutare unicamente in funzione

dell’interesse economico.

Di fronte a questo quadro disarmante mi sembra di

intravedere che sussistano comunque ancora margini

per concorrere alla realizzazione di opere capaci di

proporsi come espressioni positive e di assumere le res-

ponsabilità e le grandi potenzialità del nostro tempo.

Nell’attuale confusione ambientale, dovuta alle rapide

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12 Sette riflessioni e un progetto

trasformazioni, un ancoraggio per una possibile resisten-

za critica può forse passare attraverso la rilettura della

città intesa come spazio specifico capace di farsi cari-

co delle aspirazioni collettive. La città come entità

suprema di aggregazione di vita e di speranze, può

divenire strumento di misura per le esigenze dei suoi cit-

tadini, per i valori dell’habitat, per una nuova lettura del

rapporto esistente con il territorio.

La città europea resta un modello di aggregazione

straordinario, la sua millenaria stratificazione la rende

baluardo di qualità in alternativa ai modelli di suburbio

o dei “non luoghi” che oggi si invocano quasi fossero

veri “valori”.

Gli anticorpi maturati nel “locale” delle differenti cul-

ture, trovano uno spazio privilegiato e possono fungere

da antidoti per far crescere un pensiero critico capace

di affrontare le contraddittorietà del nostro vivere.

La città resta una fortezza immersa nel territorio

della memoria dentro il quale l’architetto è chiamato a

pensare e ad agire.

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13MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

L’Accademia di architettura di Mendrisio

Per fare un bilancio dell’Accademia di architettura

di Mendrisio, a 17 anni dalla sua creazione e nel

momento in cui sto per lasciarne la direzione, vorrei

ripercorrerne un po’ la storia. È importante ricordare

che nel 1996 non fu fondata solo l’Accademia, ma

l’Università della Svizzera italiana: un nuovo polo univer-

sitario in una piccola regione di lingua italiana. Fu un

evento straordinario. In effetti, la forza della nostra strut-

tura accademica è proprio il fatto di essere parte di un

progetto più vasto, che mette finalmente al centro del

suo interesse la cultura italiana. L’Accademia nacque

dapprima come unica facoltà, ma venne subito affian-

cata da una fondazione e successivamente, dalle

facoltà di Scienze della Comunicazione, Scienze eco-

nomiche e Scienze informatiche, con sede a Lugano.

Ci sono state circostanze favorevoli che hanno fatto

sì che il momento storico per la creazione di una nuova

scuola di architettura fosse quello giusto. Si è trattato

anche di una sorta di debito di riconoscenza che rivol-

gevamo ai grandi emigranti dei secoli passati. Questa è

stata un terra di costruttori: dal Medioevo, dai mastri

comacini fino ai maestri che hanno toccato i cinque

continenti. Quando pensai a questo progetto –lo pre-

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14 Sette riflessioni e un progetto

sentai a Berna nel 1992, senza neanche sapere che

sarebbe stato poi realizzato nel Canton Ticino– la spinta

era data proprio da un contesto storico-geografico che

aveva alimentato la cultura architettonica del mondo

intero.

È importante richiamare queste radici, ricordare che

la nostra generazione, che ha avuto la fortuna di ope-

rare subito dopo la morte dei maestri del Movimento

Moderno, ha definito un proprio contesto storico, critico

e culturale abbastanza interessante.

Non parlerei di una scuola ticinese, ma di una soli-

darietà culturale che si è fondata su una matrice radi-

cata su una storia, una memoria.

Ci sono poi altri motivi all’origine dell’Accademia,

più legati al contesto attuale. C’è una ragione, per così

dire, politica: la Svizzera aveva, e ancora oggi ha, diffi-

coltà a relazionarsi con l’Europa, con il mondo in gene-

rale. Abbiamo allora intravisto la possibilità di creare un

rapporto attraverso uno strumento culturale: era un

modo per far sì che tutto il mondo mediterraneo entras-

se nella cultura svizzera più pragmatica, più nordica. È

stato un momento storico in cui, in un certo senso, noi

avevamo bisogno della Svizzera per nascere, ma la

Svizzera aveva bisogno di noi per trovare una colloca-

zione diversa da quella puramente calvinista. Questa è

stata sicuramente un’altra delle premesse. C’era poi un

ulteriore dato oggettivo: noi abbiamo trovato terreno

fertile anche grazie alle difficoltà –se possiamo chia-

marle così– dei Politecnici federali, che erano sopraffat-

ti, da una parte, dall’entità delle loro stesse dimensioni

e, dall’altra, dai limiti della loro impostazione didattica,

finalizzata a dare una risposta tecnica e funzionale,

matematica e razionale.

Proprio da qui nasce il nostro profilo particolare, che

comprende diverse discipline umanistiche. Ai docenti

abbiamo chiesto di fare una riflessione umanistica

attorno alla loro materia; perfino nel corso di matema-

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15MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

tica, il primo insegnamento non è rivolto alla risoluzione

dei problemi, ma allo sviluppo di idee, di un pensiero

matematico, per far sì che l’architetto riesca poi a dia-

logare con gli specialisti: abbiamo cercato, perciò, di

dare più forza alle discipline umanistiche.

L’Accademia, inoltre, vuole essere un momento di

sintesi tra la cultura architettonica mitteleuropea e que-

lla italiana. Questo deriva ovviamente anche dalla nos-

tra condizione geografica, che ci ha sollecitati in ques-

ta sintesi culturale.

In tutti questi anni il corpo docenti è stato molto

vario. Fin dall’inizio abbiamo voluto che i primi quattro

docenti di progettazione –Aurelio Galfetti, Peter

Zumthor, Panos Koulermos e io– fossero eterogenei tra di

loro. Peter Zumthor ci ha aiutato molto e l’ha fatto con

grande slancio: credo che questo sia stato possibile

anche grazie al privilegio di chi incomincia da zero. Di

fronte a un profilo come il nostro, per il corpo docenti

abbiamo potuto contare in quel momento sulle menti

migliori: da Leonardo Benevolo a Joseph Rykwert ad

Albeverio. Nei primi anni, i docenti venivano scelti per

chiara fama: il meglio sia della cultura italiana sia di

quella internazionale. Successivamente abbiamo cam-

biato, perché il sistema universitario svizzero è molto

rigoroso e impone, per esempio, che non ci siano più

chiamate dirette, ma che venga applicata la procedu-

ra dei concorsi e quindi dei titoli. Sostanzialmente, è

sempre rimasto il principio di non fare una scelta setta-

ria ma di aprire totalmente il nostro campo docenti,

che va da Olgiati, a Bearth, a Collomb, a Bonell.

Abbiamo tenuto costantemente vivo –e questo è forse

il pregio più grande di questi anni– un bilanciamento tra

l’attività progettuale, da un lato, e l’attività storico-criti-

ca, dall’altro; e non abbiamo mai lasciato prevalere i

critici. C’è stato un momento cruciale in questo senso

con la breve apparizione di Kurt Forster, che probabil-

mente proprio per questo è andato poi via. In seguito,

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16 Sette riflessioni e un progetto

ci siamo resi conto che forse questo fatto è stato una

grande fortuna, perché altrimenti sarebbero stati gli sto-

rici dell’arte a imporre una direzione alla scuola, e non

gli architetti. Per tradizione, la Svizzera ha sempre voluto

che i suoi professori di progettazione avessero anche

un’attività professionale oltre a quella accademica, e

noi abbiamo rispettato questo diktat.

Per quanto riguarda il profilo dell’Accademia rispet-

to al processo di standardizzazione dell’insegnamento

in Europa, posso affermare che la nostra scuola è carat-

terizzata da un’identità forte. Abbiamo, per esempio,

inserito come strutturali talune discipline che vengono

insegnate per più anni: cinque anni di filosofia, cinque

di storia dell’arte, cinque di storia dell’architettura e cin-

que di storia del territorio. L’internazionalizzazione degli

studenti è stata per noi una sorpresa. I bacini iniziali

erano tre: l’America Latina, l’ex Unione Sovietica e l’a-

rea del Mediterraneo; poi si è aggiunto, con una forte

partecipazione, l’Estremo Oriente –Cina, India, Corea e

Giappone.

Il profilo che noi cerchiamo all’interno del curriculum

dell’insegnamento è quello di un architetto generalista,

in contrapposizione alla specializzazione, ed è proprio

questa la nostra forza. Anche nell’arco del tempo acca-

demico, per esempio nel master, si esclude la specializ-

zazione. Questa non solo è una forma di resistenza, ma è

una scelta che vuole piegare anche la domanda del

mercato, che preferirebbe avere degli specialisti perché

risolvono di più i problemi specifici strutturali, ambientali,

di viabilità ecc. La nostra Accademia vuole formare una

figura interdisciplinare. Questo è un dato forte, e forse è

stata un’altra condizione storica per la sua fondazione:

il bisogno di una figura di architetto onnicomprensiva,

che abbia una visione generale del mondo, una

Weltanchauung; e la consapevolezza che l’architetto

non può più solo rispondere al problema del traffico, o al

problema statico, o al problema dei materiali. Questa

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17MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

figura di architetto globale è paradossalmente la vera

forma di resistenza alla globalizzazione, perché la globa-

lizzazione oggi ti chiede degli specialisti, ma quale divi-

sione c’è tra interior ed exterior design?

La formazione umanistica che noi tentiamo di forni-

re allo studente offre il meglio dell’architettura, dalla

struttura minima di un progetto artigianale alla grande

pianificazione territoriale. Attraverso una lettura umanis-

tica, vogliamo riportare tutti i problemi alla centralità

dell’uomo. La delocalizzazione dell’Accademia, con la

sede a Mendrisio piuttosto che a Lugano, è stata voluta

fin dall’inizio nella convinzione che una scuola d’archi-

tettura non sia una facoltà d’architettura, dove c’è una

semplice specializzazione disciplinare all’interno di

un’università. È molto di più, è anche un luogo fisico: ci

sono i laboratori, c’è la biblioteca, che si sta potenzian-

do in una maniera impensabile all’inizio, e c’è l’idea del

Teatro dell’architettura, la cui realizzazione spero sia

imminente.

Tutto questo non è assolutamente necessario per

una facoltà professionale: è un surplus che noi, però,

riteniamo fondamentale. Gli ultimi cicli di conferenze

che abbiamo fatto sui temi “Mare Nostrum” o “Finis

Urbis?” forse non erano strettamente necessari per una

buona scuola di architettura, ma sono convinto che ci

lascino in eredità un qualcosa in più.

Io ho insegnato al primo anno, dapprima personal-

mente, poi strutturando l’insegnamento con altri

colleghi e con altri giovani, in particolare del territorio:

anche l’insegnamento è stato pensato come un gran-

de atelier.

Mi piacerebbe che i problemi delle scuole fossero

come i problemi di casa mia, del mio studio, perché

attraverso il confronto sul tavolo di lavoro vengono

anche i grandi pensieri: puoi partire dal ragionamento

su come agganciare due pezzi di legno e da quell’in-

crocio ti viene fuori il mondo intero.

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18 Sette riflessioni e un progetto

Quindi è vero che io sono più un artigiano-architet-

to; però ho l’ambizione di essere un pensatore, di cer-

care di leggere dove sono le grandi contraddizioni del

mondo di oggi: vedere, per esempio, che il gridare

sopra le righe di questi sistemi degli star architects è in

realtà una forma pubblicitaria un po’ deleteria, e che

occorre ritornare invece alla centralità del lavoro.

Personalmente ho ricevuto tantissimo dall’Acca-

demia, da migliaia di studenti: i laureati sono ormai più

di 1.000. Ho ricevuto gratificazioni all’interno della disci-

plina, perché l’Accademia è per me anche uno stru-

mento di riflessione critica, che fornisce elementi poeti-

ci che aiutano a capire dove sei e che cosa stai facen-

do. Io sono del parere che ognuno di noi è cittadino del

mondo, però lo può essere in maniera forte e onesta

solo se ha degli anticorpi validi; quindi ha la necessità

di maturare all’interno della propria cultura, della pro-

pria storia e, soprattutto, all’interno di quello che oggi

credo debba essere il vero contesto sul quale lavora

l’architetto: il territorio della memoria.

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19MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

L’architetto generalista

Quando all’inizio degli anni ’90 del secolo appena

trascorso è stato elaborato il progetto per una nuova

scuola di architettura come prima facoltà per la nasci-

ta dell’Università della Svizzera italiana, era ben presen-

te come fosse necessario farsi carico delle straordinarie

tradizioni architettoniche che si erano succedute attra-

verso i secoli nel nostro Paese. Una nuova istituzione

accademica poteva trovare un proprio significato solo

attraverso un progetto intellettuale in grado di esaltare

i caratteri della cultura architettonica che nella storia, a

partire da queste nostre terre, si erano irradiati nei cin-

que continenti. Di fronte alla presenza dei due autore-

voli politecnici di Zurigo e Losanna avrebbe avuto poco

senso riproporre in Ticino un modello formativo che

ricalcasse gli indirizzi già presenti nelle aree linguistico-

culturali tedesca e francese; si rendeva invece neces-

sario proporre un profilo alternativo, anche se contiguo,

rispetto a quello delle due scuole svizzere.

Inoltre, in un momento storico, l’ultimo Novecento,

che andava evidenziando le prepotenti dinamiche

dello sviluppo tardo-moderno unitamente ai guasti

sociali portati dalla globalizzazione, ci si doveva chiede-

re quale futuro si preparasse per la disciplina dell’archi-

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20 Sette riflessioni e un progetto

tettura e quale figura professionale fosse in grado di

affrontare criticamente i nuovi scenari. L’architetto, in

particolare nelle aree culturali di ascendenza medite-

rranea, ha basato per lungo tempo la propria identità

su una visione umanistica in cui convergono abilità

composite, che spaziano dal progetto di costruzione in

senso stretto alla cultura del territorio, dall’immaginazio-

ne plastica al sapere artigiano, dal recupero del patri-

monio storico all’ideazione di nuove sfide sociali.

Questa ricca e articolata tradizione culturale non

manca di essere presente anche negli indirizzi formativi

dei politecnici di Zurigo e di Losanna, ma in essi, pur

secondo differenze anche forti tra le singole scuole, i

confini permeabili della disciplina architettonica tendo-

no a suddividersi in protocolli basati su singole compe-

tenze, con il rischio di assoggettare l’architettura alle

pressioni della specializzazione tecnico-scientifica del

mondo industrializzato o, ancor peggio, di disarmarla

davanti allo smembramento del processo progettuale e

costruttivo là dove questo è vittima dell’esasperata divi-

sione del lavoro su cui si regge la globalizzazione.

E’ sulla scorta di queste riflessioni che l’Accademia

di architettura (la cui denominazione è stata scelta per

distinguerla appunto dalle scuole politecniche) è

diventata il laboratorio di un ambizioso programma

pedagogico: formare una nuova figura di architetto

generalista in grado di esercitare un ampio controllo

che riporti l’uomo al centro degli interessi progettuali.

Non si deve però pensare che il progettista così inte-

so, discendente da una tradizione disciplinare tanto

nobile da poterne rimanere schiacciato, sia una figura

che si pone al di fuori della storia del nostro tempo per

sopravvivere con volontà anacronistica ai marosi della

specializzazione. Esercitando una critica non nostalgi-

ca, bensì innovativa e pragmatica rispetto alla divisione

del lavoro, l’architetto generalista si propone come

autentico interprete del dibattito moderno, in particola-

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21MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

re di quelle stagioni in cui il Movimento Moderno si è

profilato come disciplina autonoma, ossia come pratica

non riducibile a semplice esecuzione di programmi, a

banale risposta tecnico-funzionale o ad una semplice

applicazione costruttiva.

La lezione più significativa dei maestri del

Movimento Moderno è stata spesso improntata alla

difesa del proprio statuto disciplinare generalistico (si

pensi al famoso motto di Hermann Muthesius, che invita

a praticare l’architettura «dal cucchiaio alla città»). Si

direbbe però che ai nostri anni siano giunti in eredità

soltanto quegli elementi del linguaggio funzionale

dimostratisi strumentali alla speculazione fondiaria, alla

standardizzazione costruttiva e al corrispettivo smem-

bramento del processo compositivo. Del Movimento

Moderno abbiamo purtroppo abbandonato per strada

molte delle aspirazioni più ardite, tra cui la tensione

all’opera d’arte totale come immaginata da Gropius al

tempo del Bauhaus, o la valenza etico-sociale dell’ar-

chitettura come perseguita da Le Corbusier, ma anche

il controllo creativo esteso alla verifica costruttiva, a

modo di un Mies van der Rohe o di un Carlo Scarpa che

riconoscevano, appunto, come «Dio risiede nel detta-

glio». Ciò che accomuna questi esempi delle tradizioni

moderniste è dunque, a ben vedere, la volontà di pro-

teggere l’impianto generalistico del processo architet-

tonico, con particolare riferimento alle differenti scale

progettuali che possono controllare e preservare l’uni-

tarietà del processo compositivo. Ma in che misura sono

ancora praticabili?

Nel nostro tempo le infinite forme di divisione del

lavoro intellettuale, i sistemi di innovazione tecnologica

introdotti nel settore costruttivo, le richieste spesso

incontrollate di spinte continue rispetto alla rapidità

delle trasformazioni del territorio, gli urgenti problemi

ecologici ed energetici che gravano sul mondo fisico e

perfino le aspettative estetiche sempre più aggressive,

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22 Sette riflessioni e un progetto

esigono che l’architetto riformuli il proprio statuto disci-

plinare. A prima vista si direbbe che i molteplici fronti su

cui il progetto contemporaneo interviene impongano

una parallela divisione delle competenze, quasi che la

difficoltà dei compiti dati possa essere risolta unica-

mente attraverso la sommatoria dei singoli operatori.

Ma affidare la risposta alla “specializzazione” è un erro-

re tanto intellettuale quanto professionale.

L’architettura va difesa come cultura interdisciplinare

che si occupa dell’organizzazione dello spazio di vita,

perché al di fuori di essa prendono inevitabilmente il

sopravvento i singoli saperi settoriali, siano essi tecnici,

ingegneristici, scientifici, organizzativi e persino estetici.

E se si lascia che la logica della spartizione delle com-

petenze abbia la meglio, questi saperi si trasformeranno

da indispensabili contributi in precetti che riducono il

progetto a un collage di soluzioni, con risultati d’insieme

sconfortanti. Come è ben visibile nelle degenerazioni

mostrate da molti grandi studi anglo-americani o da

altri recenti cresciuti nell’estremo oriente, l’architetto è

a volte spinto a recitare la parodia di se stesso, a diven-

tare un «manager» del tutto sottomesso ai singoli “dik-

tat”, un ottimizzatore del processo produttivo, lusingato

da un mandato apparentemente “artistico” (di art

director) che lo confina di fatto in un ruolo di decorato-

re per compiti marginali.

Per evitare che l’architettura finisca relegata ad un

destino di servizio tecnico da un lato o di intrattenimen-

to estetico dall’altro, si rende necessario un continuo

ripensamento del processo progettuale che conduca a

rafforzare la figura di un operatore “totale”. Certo, nem-

meno l’architetto può ambire a una conoscenza onni-

vora capace di inglobare uno scibile universale. Se così

fosse, la sua stessa cultura disciplinare sfumerebbe in un

sapere dove verrebbe meno il senso professionale.

Tuttavia il processo di progettazione resta innanzitutto

un’arte legata all’idea del comporre - del mettere insie-

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23MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

me e dare nuova identità a componenti diverse - che

deve resistere alla tentazione continua dello scomporre

richiesta dal processo realizzativo. A sostegno di questa

resistenza culturale alla specializzazione non sarà inutile

richiamare le antiche idee vitruviane, riprese poi da

grandi umanisti quali Leon Battista Alberti, secondo cui

l’architetto “aveva da essere non solo un eccellente

disegnatore ed erudito di geometria, ottica e aritmeti-

ca, ma anche un letterato conoscitore della storia,

della filosofia e della musica, nonché di nozioni di giuris-

prudenza e di medicina…”. Poiché però non dobbiamo

indugiare in nostalgie per epoche lontane solo perché

presentavano un tasso inferiore di divisione del lavoro,

occorrerà inventare ora altri modi per affrontare la

complessità data e dotare l’architettura di un sapere

compositivo adatto ai nostri tempi.

Stabilito che la figura dell’architetto generalista non

va scambiata per un’ingenua riproposta del mito di

una conoscenza universale esercitata da un artista

demiurgo, si potrà allora cercare lo spazio concettuale

e operativo in cui riconoscere la possibilità di resistere

all’attuale frazionamento dei saperi. L’architetto è

peraltro tra le figure più indicate a contrastare lo stere-

otipo dell’artista quale artefice solitario che non conos-

ce la minaccia della divisione del lavoro. La sua arte,

per la complessità che la caratterizza, chiede al proget-

tista di operare continue scelte che lo facciano coordi-

natore di molteplici competenze. In tal senso l’architet-

to appare simile al regista cinematografico, cui lo

accomuna un’autorialità interdisciplinare retta dalla

sintesi tra i molti contributi, anche strettamente tecnici e

di complessità economica e organizzativa, che conco-

rrono a definire l’opera finale. Che vi sia un autore unico

che «firma» l’opera è quindi una finzione che non dà

conto dell’intreccio complesso dei contributi che con-

vergono nella pratica realizzativa. Ciò nonostante,

questa finzione non va condannata in blocco per le sue

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24 Sette riflessioni e un progetto

semplificazioni, ma piuttosto declinata in modo corret-

to, perché è da essa che scaturisce la poetica di un lin-

guaggio proprio ad ogni artista.

La poetica comporta una weltanschauung che, in

quanto «visione del mondo», non può essere compressa

né in una competenza specialistica né in un insieme di

saperi disciplinari. La qualità di un artista si fonda natu-

ralmente anche su peculiari conoscenze del proprio

“mestiere” o provenienti da ambiti disciplinari contigui,

ma questi saperi non ne esauriscono l’interpretazione

culturale; se così fosse l’architetto si identificherebbe

nella figura degli ingegneri, così come la regia di un film

verrebbe attribuita agli attori, agli sceneggiatori o

ancor più ai produttori. Se vuole sussistere come arte,

l’architettura non deve dunque rinunciare ad arricchire

con una propria poetica i contributi tecnici e i program-

mi operativi che ne rappresentano gli elementi impres-

cindibili: il suo generalismo creativo si gioca infatti su

un’estensione culturale del progetto oltre i limiti delle

conoscenze specialistiche e le strette risposte funziona-

li. E’ questo “andare oltre” che sollecita l’architetto a

sperimentare in modo innovativo altri modelli di vita, a

disegnare un nuovo modo di abitare che insegni a inte-

grare il paesaggio nel contesto fisico, a studiare gli

effetti di una luce che favoriscono la meditazione in

uno spazio sacro, o a immaginare un nuovo intervento

in grado di valorizzare la memoria culturale di una par-

ticolare storia. Allora la poetica cesserà di essere un’e-

legante decorazione aggiunta all’affidabilità del pro-

gettista e diventerà strutturale per la strategia di difesa

professionale in grado di migliorare la qualità degli spazi

di vita dell’uomo.

La necessità di un ruolo poetico è appunto figlia di

una figura generalista, forse la sola in grado di affronta-

re i paradossi più inquietanti del mondo odierno, dove i

processi di modernizzazione tecnica conducono spes-

so, anziché ad un progresso civile, a forme di degrado

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25MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

sociale. La resistenza rispetto alla specializzazione dei

saperi si giustifica quindi anche come alternativa alla

globalizzazione selvaggia che condiziona l’esperienza

culturale dell’uomo contemporaneo.

Quando nasceva a Mendrisio l’Accademia di archi-

tettura, queste considerazioni erano forse solo felici

intuizioni di scenari che sono poi cresciuti esponenzial-

mente nell’ultimo decennio.

Questo numero dei «Quaderni» dedicato all’archi-

tetto generalista è la testimonianza oggi che il progetto

intellettuale, pedagogico e professionale intrapreso ha

trovato una propria ragione storica di grande attualità.

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26 Sette riflessioni e un progetto

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27MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

I centri storici

In un momento storico caratterizzato dal rapido

espandersi della globalizzazione, la ricerca di una possi-

bile identità passa attraverso il senso di appartenenza

ad un territorio e quindi anche ad un naturale riferimen-

to all’immagine della città.

Territorio e città sono due termini di una stessa realtà

storico-geografica che connota il paesaggio umano.

Il tessuto urbano attraverso le sue trasformazioni

segna, forse ancor più che il contesto paesaggistico

della campagna, le vicende continue delle lotte e delle

passioni consumate lungo l’arco del tempo che nella

“polis” ritrovano una propria espressione formale.

Oggi è il paradigma urbano che meglio di altre rappre-

sentazioni riesce a sintetizzare la storia economica, politica

e sociale oltre a quella infinita delle dispute ideologiche

che hanno modellato le trasformazioni che viviamo.

La città ritorna come nel grande passato ad essere

baluardo verso il quale i cittadini si rivolgono natural-

mente ogniqualvolta avvertono la necessità di recupe-

rare risorse per resistere all’appiattimento ed alla bana-

lizzazione che li travolgono nel gran correre di ogni gior-

no, per tentare di ancorarsi ad una realtà territoriale

sentita come amica.

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28 Sette riflessioni e un progetto

Nel confronto con il mondo intero che ci è offerto

come realtà virtuale disponibile, la città in quanto cos-

truzione fisica e sociale rappresenta un punto di riferi-

mento che riflette (oggi forse in misura maggiore che

non nelle entità dei singoli stati e delle rispettive culture

nazionali) una condizione storica ed antropologica

capace di testimoniare un valore di unicum identifica-

bile e riconoscibile. La storia e le trasformazioni dei con-

testi urbani sono realtà a noi vicine che hanno condizio-

nato i nostri stili di vita e hanno di fatto modellato i nos-

tri comportamenti. Per questo riconosciamo alla cultura

urbana una forza espressiva forte, autentica e significa-

tiva della storia umana, con una pluralità di testimo-

nianze aperte a molteplici letture dove la presenza fisi-

ca di modelli spaziali, di reperti e di tipologie reali rende

l’interpretazione meno astratta e meno ideologica, vale

a dire più vicina alla nostra esperienza in una realtà

avvincente in grado di coinvolgere le nostre emozioni.

Non si tratta di enunciati teorici predisposti a molteplici

interpretazioni, ma di reali condizioni di vita e di spazi

entro i quali ci è concessa una conoscenza concreta.

La città come punto di riferimento dentro un territo-

rio fisico riscopre oggi talune prerogative proprie della

sua stessa storia. La condizione di centro che raccoglie

storia e memoria, dove le stratificazioni urbane si sono

accumulate e densificate, e quella altrettanto precisa

di limite rispetto ad una condizione esterna oltre muros,

dove regna un territorio che è altro rispetto alla polis,

sono presenti e percepibili nella maggior parte dei con-

testi urbani. Tutto questo viene recepito intuitivamente e

rassicura il cittadino che può, attraverso una realtà fisi-

ca, riscoprire gran parte della sua identità. Il fascino è

dato dalla sensazione che dentro la complessità della

trama urbana e della sua stratificazione edilizia è possi-

bile leggere come in uno specchio dilatato la condizio-

ne stessa della vita con speranze e contraddizioni che

si trasformano in immagini e figure reali. All’interno di

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29MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

questo contesto il fruitore può immergersi e vagabon-

dare in una condizione di anonimato, osservatore sco-

nosciuto che agisce da protagonista rispetto all’am-

biente circostante.

La nostra stessa personalità si arricchisce attraverso

le testimonianze e le esperienze di altri uomini; nel con-

testo costruito non siamo mai abbandonati, non siamo

soli, lo spazio che ci circonda è un territorio di memoria

con una sua storia che ci appartiene e riconosciamo

come parte del nostro essere. Attraverso il territorio fisi-

co interpretiamo un tessuto mentale atto a filtrare i

dubbi e le speranze del nostro operare. Nella città stori-

ca è sorprendente constatare come, pur essendo stato

predisposto per far fronte ad esigenze lontane dalla

nostra sensibilità, l’impianto urbano con la sua rete dis-

tributiva e funzionale risponda concretamente agli

attuali bisogni spesso attraverso una qualità di spazi

che noi stessi giudichiamo superiore rispetto a quella

offerta dai nuovi insediamenti.

Il tessuto urbano invecchiando migliora: questo

paradosso eclatante turba gli animi di architetti ed

urbanisti. Dobbiamo allora ammettere come non siano

gli aspetti tecnico-funzionali che costantemente rinco-

rriamo ad offrire una migliore qualità della vita, ma la

ricchezza della stratificazione ed in definitiva le memo-

rie che riaffiorano dal tracciato della città.

Attraverso l’esperienza del vivere nei centri storici,

disegnati e consolidati attraverso il lavoro continuo delle

generazioni estinte, riconosciamo facilmente una mag-

giore qualità e ritroviamo valori che ci appagano per

mezzo di realizzazioni di uomini scomparsi, frutto di fati-

che di comunità disperse, lontane nel tempo dalle ansie

e dalle preoccupazioni del nostro vivere. Riemerge forte

allora il bisogno di storia dato dal contesto costruito,

continuamente modificato e ridisegnato nel trascorrere

del tempo che trasforma e sconvolge gli usi ed i valori

originali ora riscopribili attraverso altri significati.

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30 Sette riflessioni e un progetto

La città offre l’insegnamento semplice e disarmante

che non è possibile vivere senza passato e che il territo-

rio della memoria rappresenta una condizione altret-

tanto indispensabile della misura del vivere presente.

Certo la città contemporanea, pur nella sua inelut-

tabilità, genera problemi che assillano il vivere quotidia-

no: dai dati allarmanti dell’inquinamento a quelli del

traffico, dall’approvvigionamento energetico alle gra-

vissime emergenze residenziali che vedono le aree più

pregiate consegnate ai commerci con la conseguente

espulsione di interi settori abitativi. Ma pur all’interno di

queste ed altre contraddizioni, il contesto urbano resta

una realtà di richiamo per il vivere collettivo e nel

mondo intero il processo centripeto verso la città appa-

re irreversibile e risuona come una nuova inarrestabile

frontiera. Nel 1950 le città con più di un milione di abi-

tanti erano ottanta; si calcola che nel 2015 saranno

oltre cinquecento. Un altro dato recente ci indica che

più della metà della popolazione mondiale già oggi si

concentra in grandi agglomerati urbani.

Il moltiplicarsi delle aree metropolitane ovviamente

viene a sconvolgere gli equilibri propri delle città tradizio-

nali, ma tutto questo può anche essere interpretato

come una crescita favorevole per la qualità dell’abitare

se appena fosse possibile controllare talune contraddizio-

ni. Il problema della densità degli insediamenti è forse la

chiave di volta per la realizzazione di nuovi equilibri abita-

tivi dentro i contesti metropolitani. Differenti modelli tipo-

logici si offrono per realizzare queste nuove densità urba-

ne, da quelli che vogliono uno sviluppo verticale a quelli

che indicano morfologie orizzontali, ma in entrambi i casi

sembra ormai consolidata l’indicazione che le città non

dovrebbero espandersi oltre gli attuali limiti urbanizzati. Lo

sviluppo all’interno di aree divenute obsolete (ex-indus-

triali, ex-militari, ecc) si prospetta vincente con tutti i van-

taggi derivanti dalle infrastrutture e dai servizi già esisten-

ti ed il conseguente contenimento dei costi sociali.

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31MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

La città dunque è destinata, anche nelle sue nuove

dimensioni, a crescere su se stessa, a consolidare il pro-

cesso di continua stratificazione storica che d’altronde è

stato una sua costante peculiarità. L’espansione dei nuovi

interventi edilizi dentro le aree dismesse segna una nuova

frontiera dell’urbanistica la quale, accanto alle inevitabili

demolizioni delle costruzioni ormai obsolete, progetta

nuovi territori e nuovi squarci di città capaci di ricucire e

ricomporre i grandi vuoti delle aree ex industriali. È certo

che la città nella totalità del suo essere contenitore socia-

le resta, per la maggior parte degli uomini una realtà di

riferimento dove per i futuri interventi (contraddicendo le

nichiliste prospettive di alcune recenti architetture votate

ad una completa autoreferenzialità, veri e propri oggetti

autonomi svincolati dal contesto in dialogo unicamente

con se stessi) si aprono prospettive di confronto fra le

nuove architetture e l’intorno già consolidato dalla storia.

Con un tessuto urbano forte, consapevole del proprio

passato e del valore della propria immagine, anche la

tipologia edilizia delle singole architetture non potrà fare

altro che concorrere a rafforzare il disegno d’insieme.

Risuona infantile rivendicare un’innovazione tipologica

del manufatto architettonico in aperta sfida alla tradizio-

ne, come se l’evoluzione dei modelli non dovesse trovare

collocazione dentro un contesto geografico che è anche

espressione della nostra storia. Di fronte a un processo

apparentemente disgiunto dalle regole dettate dalla

città, forse oggi è giunto il momento di riconoscere una

gerarchia di valori che le rivendicano un superiore valore

d’insieme, caposaldo di riferimento grazie al suo passato,

alla stratificazione storica, alla memoria dei suoi tracciati,

al richiamo di segni ed orme significativi per la qualità di

vita che la città europea può vantare: è attraverso la

memoria dei suoi spazi e nei meandri del suo passato che

riconosciamo ad essa le prerogative atte ad opporre una

resistenza etica prima ancora che estetica quale antido-

to alla nostra fragile cultura.

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32 Sette riflessioni e un progetto

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Bellezza e architettura

Come molte altre forme di comunicazione l’architet-

tura testimonia lo spirito ed i comportamenti di una

collettività; esiste una relazione diretta fra la cultura che

caratterizza un’epoca e le immagini delle sue costruzioni.

Per tutti noi è relativamente facile decodificare

un’opera costruita e riferirla ad un’epoca del passato

poiché riflette i pensieri, la tecnica e le speranze della

società che l’ha voluta. Per questo possiamo interpreta-

re l’architettura come espressione formale della storia.

Ciò evidentemente vale anche per la cultura odier-

na malgrado le perplessità in quanto le forme dell’at-

tualità sono meno evidenti rispetto a quelle del passa-

to, più ambigue e problematiche, talvolta apparente-

mente in contrasto con la nostra sensibilità.

La rapidità delle trasformazioni che viviamo ogni

giorno non ci permette quella distanza critica necessa-

ria per meglio cogliere il significato delle immagini che

modellano progressivamente il nostro vivere.

Per questo motivo è difficile parlare degli aspetti for-

mali dell’architettura contemporanea, più facile riferirci

a quelli del passato. Oggi sono differenti i registri forma-

li e altri i modelli con i quali siamo chiamati a confron-

to; le avanguardie del ventesimo secolo ci hanno reso

orfani di punti di riferimento obbligandoci a riscoprire

33MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

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nuove chiavi di lettura per comprendere i significati

etici ed estetici del nostro operare.

È il concetto stesso di bellezza che dobbiamo rifor-

mulare alla luce di una mutata sensibilità.

La ricerca del bello dentro i meandri della nostra

cultura risuona d’altronde come un campanello d’allar-

me se corrisponde al vero che s’incomincia a parlare di

qualcosa quando se ne avverte la mancanza.

In effetti oggi dobbiamo registrare che le forme

espressive della quotidianità vengono interpretate

dalla società, nel migliore dei casi, come fatti di servi-

zio –nei quali emergono gli aspetti tecnico-funzionali– e

quasi mai come possibili vettori di bellezza. Questo è

probabilmente dovuto all’aspetto pragmatico che

connota la maggior parte delle opere che interagisco-

no con il nostro tempo: fatti legati ad un consumo

immediato che sfuggono alla sfera dello spirito dove

dimora la bellezza che esige un confronto fra materia e

spirito, fra corpo e mente, fra cosa e idea.

La bellezza è un’astrazione che non può essere des-

critta e conosciuta in se stessa, non può essere circos-

critta dentro parametri o comportamenti; è uno stato di

grazia che richiede un’esperienza diretta da vivere fra

una realtà concreta ed un’idea immateriale.

Osserva Le Corbusier come il fatto architettonico è

in grado di “lasciar riaffiorare un’intuizione memore di

esperienze acquisite, assimilate, forse dimenticate che

riemergono in forma incosciente. La bellezza dello spa-

zio è dentro di noi, l’opera può evocarlo ed esso può

rivelarsi a coloro che lo meritano, a chi entra in sintonia

con il mondo creato dall’opera, un vero altro mondo. Si

spalanca allora un’immensa profondità che cancella i

muri, scaccia le presenze contingenti, compie il miraco-

lo dello spazio indicibile”.

34 Sette riflessioni e un progetto

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35MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Lo spazio del Sacro

La de-sacralizzazionePerché siamo così scontenti degli esempi di archi-

tetture che hanno disegnato lo spazio del sacro nella

storia recente? Una possibile spiegazione risiede

nell’accelerazione degli eventi e nelle relative trasfor-

mazioni che via via si sono succeduti nella seconda

metà del XX secolo con la complessità propria della

cultura moderna e il venir meno di molti valori ai quali

facevamo riferimento.

Con la velocità dei cambiamenti vi è stato un inde-

bolimento della memoria che ha lasciato progressiva-

mente spazio all’oblio. Inoltre la storia delle

Avanguardie del secolo scorso ha di fatto scardinato il

nostro modo di vedere ed interpretare i canoni estetici

strettamente connessi con i valori etici.

Il vuoto culturale e morale che dobbiamo registra-

re è figlio dell’attuale condizione storica dove

noi –orfani di una memoria capace di relazionarci al

passato– operiamo dentro l’attualità dei pensieri,

immersi nella cronaca, attenti alle dispute ideologi-

che, ai conflitti istituzionali, alle mode culturali nello

sforzo continuo di formulare testimonianze significative

del nostro essere.

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36 Sette riflessioni e un progetto

Non dobbiamo quindi meravigliarci che risulti così

difficile realizzare opere rivolte al sacro tali da assumere

un significato.

Tuttavia resta il fatto che l’architetto è chiamato a

rispondere alle attese della comunità attraverso la cos-

truzione dello spazio; e l’idea del sacro è una costante

che dobbiamo riformulare dentro la fragilità della cultu-

ra di oggi. È questo il nostro impegno per offrire un’emo-

zione costruita pur operando all’interno delle attuali

contraddizioni.

Da parecchi anni ormai mi sto confrontando con

questo tema e più volte ho affrontato progetti nella

speranza di dare forma al silenzio, di modellare costru-

zioni predisposte alla preghiera, alla meditazione.

Erigere una chiesa comporta, forse ancor più che

per altri temi, il confronto con interrogativi rispetto al

ruolo ed ai significati che l’opera di architettura può

assumere nella ricerca di una nuova qualità del contes-

to urbano. Nell’assenza di identikit, che contraddistin-

gue la città attuale, sono questi i problemi nuovi che

moltiplicano le difficoltà che una nuova costruzione

inevitabilmente implica.

L’edificazione di un nuovo tempio è spesso relegata

in aree residue, dentro un’urbanizzazione sparsa, senza

immagine, cresciuta attraverso normative suggerite per

un’utilizzazione del suolo che favorisce la speculazione

edilizia.

Le tipologie ecclesiali che per secoli hanno determi-

nato l’evoluzione di stili e linguaggi, appaiono mute ed

incapaci di interpretare l’attuale condizione. È in ques-

to quadro che il nostro impegno deve essere rivolto alla

ricerca di risposte attraverso la realizzazione di strutture

e spazi attenti alla nostra sensibilità e, nel contempo, in

grado di riannodare valenze simboliche, memorie

scomparse, ricordi ancestrali.

Ciò che mi ha colpito nelle tre culture monoteistiche

è la capacità dell’uomo di riconoscersi in un atto di

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37MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

umiltà prima di tutto verso se stesso, per vivere una spe-

ranza oltre i limiti del proprio sapere nel bisogno conti-

nuo che lo spinge verso l’infinito. È questo un modo per

interrogare e forse anche ritrovare se stessi. Il sacro è

una condizione dello spirito che siamo chiamati a rico-

noscere dentro di noi.

Attraverso la costruzione degli edifici di culto possia-

mo, nel migliore dei casi, predisporre una condizione

che faciliti questa attitudine; dobbiamo, da un canto,

far sì che il singolo individuo possa sentirsi protagonista

e, dall’altro, ottenere un’architettura capace di coin-

volgere l’intera comunità assembleare. Creare un luogo

che sottolinei la presenza dell’uomo quale entità viva,

tesa fra la terra e il cielo al di là degli usi e delle conta-

minazioni spaziali e visive che lo circondano ogni gior-

no. La rarefazione dello spazio dentro geometrie capa-

ci di tracciare –attraverso la luce ed il suo variare nel

tempo– immagini delle loro configurazioni, corrisponde

anche alla ricerca di una nuova bellezza.

Ogni volta che rivisito le chiese che ho realizzato ho

modo di verificare come l’architettura sia testimone

fedele del nostro tempo, specchio della storia dove si

intravedono il lavoro e le speranze insite nel progetto,

con le precarietà ed i limiti del nostro tempo ma anche

con la determinazione incessante necessaria per la

realizzazione.

Per l’architetto è gratificante vedere come, talvolta

a distanza di pochi anni, la comunità si sia appropriata

dell’architettura come fatto sociale e collettivo in modo

che appaia nel suo significato più profondo; come

espressione della storia e non unicamente il risultato di

una ricerca e di un lavoro individuali. Talvolta poi i luog-

hi di culto riescono a trasmettere la sensibilità e la cul-

tura della contemporaneità attraverso forme di un’ine-

dita bellezza.

È questa la vera scommessa che sottende oggi la

costruzione di luoghi dedicati al sacro: una realtà con-

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38 Sette riflessioni e un progetto

creta, fisica, costruita per durare nel tempo come

segno di una possibile speranza dentro i conflitti e le

contraddizioni del nostro vivere. In quanto testimone del

tempo costruire equivale anche a ridare forma al gran-

de passato così come alle recenti vicissitudini; l’archi-

tettura porta con se i principi stessi di una storia millena-

ria e nel contempo di un sapere più vicino che ha

sorretto ed alimentato la nostra cultura.

D’altronde il bisogno di immensità si manifesta oggi

nelle forme più inconsuete. È presente quando una

collettività secolarizzata manifesta un bisogno di oltre-

passare la quotidianità attraverso l’istituzione di musei

(come è copiosamente avvenuto nel recente passato),

un modo per permettere al cittadino un confronto

diretto con i valori dell’arte in modo che possa sentirsi

parte della storia del mondo.

In un contesto storico fortemente destrutturato, l’e-

dificio di culto può essere inteso (al di là delle funzioni

liturgiche e religiose per le quali è stato concepito)

come il luogo collettivo per eccellenza che rappresen-

ta gli uomini nella loro complessità, nel loro anelito verso

forme di comunicazione che ricercano la bellezza e

quindi le forme più evolute della sacralità.

Il bisogno di infinito che sorregge le nostre speranze

trova un’eco dentro gli spazi delle costruzioni, è allora una

condizione dell’animo umano che può appagarsi nelle

configurazioni dentro il corpo delle nuove architetture.

Re-inventare gli archetipiUno dei modi per affrontare progettualmente l’at-

tuale sfida rispetto allo spazio del sacro, è quella di re-

inventare gli archetipi della tradizione specificamente

cristiana, ricercando quella forza espressiva che ha pro-

dotto esempi eccelsi lungo i secoli.

I modelli della tradizione orientale (a pianta cen-

trale) come quelli della cultura occidentale (a pianta

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39MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

orientata o a croce latina), pur nella loro essenzialità,

sembrano ormai appartenere al passato poiché lega-

ti ad un insieme storico-urbanistico lontano dalle

attuali esigenze. È soprattutto il contesto che rende

obsolete le tipologie che per molto tempo hanno

offerto opportunità architettoniche eccezionali.

L’aspetto centripeto e monumentale attorno al quale

era modellato il tessuto connettivo dell’intorno, ha las-

ciato posto ad un’urbanizzazione dove lo spazio pre-

disposto all’incontro del sacro è sovente unicamente

una parte residua, con residenze, uffici, servizi, centri

direzionali, ecc. Come è avvenuto nel recente com-

parto della Spina Tre a Torino dove ho costruito l’insie-

me dei servizi che ruota attorno alla chiesa del Santo

Volto; solo un’attenzione particolare (quella del

Cardinale Poletto) ha permesso di individuare questo

sito come idoneo per una chiesa dentro il tessuto della

città. Il nuovo progetto fa proprie le qualità storiche,

geografiche, paesaggistiche e funzionali di questo

luogo con scelte “a posteriori” che, in questo caso for-

tunato, corrispondono anche ai bisogni pianificatori. È

il contesto che ha alimentato le decisioni progettuali

dove la costruzione si configura come scelta felice per

il territorio. Il principio insediativo, il modo stesso di

prendere possesso della terra, la sua orientazione, il

delinearsi come presenza di articolazione fra le diffe-

renti parti del tessuto cittadino sono invenzioni tipolo-

giche nate per relazionarsi (per confronto o, se si pre-

ferisce, per dialogo) con l’intorno. Il nuovo complesso

parrocchiale non può semplicemente essere traslato

da una trattazione manualistica ma, in quanto parte di

un processo lungo e complesso, è chiamato di volta in

volta ad interagire con le altre componenti del territo-

rio. La stratificazione storica, propria della cultura euro-

pea, diviene allora elemento di riferimento che esige

nuove interpretazioni. Ricreare una centralità laddove

la pianificazione urbana non la contemplava è, di

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40 Sette riflessioni e un progetto

fatto, una condizione diffusa nelle recenti aree messe

a disposizione per i servizi ecclesiali.

Per questo le nuove tipologie, chiamate a configu-

rarsi in secondo tempo, devono riformulare la loro stes-

sa condizione ripartendo dalla lettura critica della città.

La sacralità del fatto architettonicoL’architettura porta in sé l’idea del sacro. Il primo

atto del costruire è quello di tracciare un perimetro sulla

terra, quello di separare un microcosmo dal macrocos-

mo restante. Da questo primo atto deriva l’idea stessa

di soglia, elemento che distingue lo spazio interno ris-

petto al mondo esterno.

È attraverso il progetto di edifici religiosi che ho tro-

vato temi e principi che sorreggono l’architettura stes-

sa. Riflettendo attorno a questi concetti è evidente

come l’idea di uno spazio sacro risulti inevitabilmente

relazionata al contesto storico-geografico che la con-

nota, così come sempre deve avvenire per le opere di

architettura.

Penso che la lettura critica e l’interpretazione del

luogo dove si è chiamati ad intervenire sono elementi

chiave; e di questi purtroppo la recente costruzione non

ha tenuto debitamente conto. I luoghi di culto, di cui cri-

tichiamo la qualità, sono cresciuti negli ultimi decenni

dentro una prassi dove l’architettura è stata confusa

con la bizzarria, dove in nome di una sperimentazione

sono state realizzate opere senza nessun nesso con la

storia, senza vere invenzioni e soprattutto indifferenti ris-

petto al luogo che avrebbero dovuto riqualificare.

La costruzione di una chiesa equivale alla costruzio-

ne di un’istituzione, di un luogo collettivo deputato a

svolgere una funzione sociale; importante quindi per

l’intera comunità e non unicamente per coloro che la

frequentano. Per questo la qualità dell’opera e del con-

testo indicano un luogo di unione che assume un

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41MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

importante valore simbolico. Non conosco cultura che

sia cresciuta senza porsi il problema del tempio o

comunque di una costruzione deputata all’attività

dello spirito. È evidente che in un’ottica personale il

luogo per svolgere una funzione legata al sacro (rifles-

sione, preghiera, meditazione) potrebbe sussistere ovun-

que –anche sulla sponda di un fiume– ma quello rivolto

ad un’esigenza collettiva necessita di uno spazio dove

ognuno possa riconoscersi come parte di una comuni-

tà, oltre la propria individualità, per condividere la pro-

pria esperienza.

Edifici nati come parte dell’ambiente stesso (le chie-

se di Pordenone, Sartirana, Evry) sono state, nella mia

esperienza, occasioni concrete per connotare nel tes-

suto urbano luoghi e condizioni inaspettate come

nuove forme di vita tali da modificare profondamente

la città.

Nel progetto di un edificio religioso emergono con

forza aspetti già presenti nell’arte del costruire, quelli

che portano a modificare radicalmente un equilibrio

esistente nel tentativo di proporne uno nuovo con un

valore aggiunto, trasformando così una condizione di

natura in una condizione di cultura.

L’atto fondativo, quello dove si ritaglia un microcos-

mo rispetto alla realtà dell’intorno, corrisponde ad un

atto sacrale, quello della separazione che è propria di

ogni opera di architettura.

Credere nella necessità di distinguere lo spazio di

vita attraverso parti autonome significa credere nell’at-

to del costruire. La diversità degli spazi risponde a diffe-

renti esigenze che l’architettura modella dentro espe-

rienze quotidiane, ma l’opera deve poter rispondere

oltre la mera funzionalità per offrire ambienti dove la

luce genera spazi e condizioni che mirano alla bellezza.

In questo contesto appare chiaro come i materiali

impiegati diventino strumenti importanti che concorro-

no a definire la qualità. Nelle mie esperienze progettua-

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42 Sette riflessioni e un progetto

li le differenti tipologie vengono sorrette da una forte

geometria dell’impianto che spesso utilizzo per contro-

llare l’equilibrio della luce. Sono, tutti questi, strumenti

che concorrono a tracciare ambienti che nascono

dalla nostra cultura e che si propongono come possibi-

li alternative rispetto all’appiattimento diffuso dell’edili-

zia che caratterizza la prassi contemporanea. È attorno

agli aspetti primari dell’architettura (contesto, luce, gra-

vità, materiali) che la progettazione del sacro deve

porre attenzione –più che rincorrere immagini destinate

a divenire obsolete nella brevità del tempo necessario

alla loro realizzazione– per far sì che le nuove forme

espressive, belle e veritiere, possano caricarsi anche di

quella arcaicità che l’atto del costruire esige. Allora le

singole chiese saranno di volta in volta ripensate per ris-

pondere alle attese del contesto che, attraverso la

nuova architettura, potrà ritrovare le ragioni del proprio

essere, della propria storia che si mutua in una nuova

identità.

Il valore simbolicoLe opere di architettura costituiscono segni impor-

tanti di comunicazione dove, accanto agli aspetti stret-

tamente tecnici e funzionali, persistono valori simbolici e

metaforici.

La città è un libro di pietra e, al suo interno, siamo

portati di volta in volta a leggere oltre le funzioni, le isti-

tuzioni, la storia, le testimonianze, i ricordi, le emozioni.

Un edificio può assumere nel tempo significati e testi-

monianze indipendentemente dal fatto che risponda

ancora alla funzione primitiva. L’architettura è un segno

di memoria così come la città è un libro degli eventi

che utilizziamo solo parzialmente per piegarli alle nostre

funzioni. Pensiamo, per fare un esempio, al ruolo che

svolge il teatro nella città come struttura deputata

all’immaginario collettivo: lì si sono susseguiti desideri e

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43MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

rappresentazioni a volte lontani dal cittadino che non

ne ha mai fruito direttamente, ma resta il luogo simbolo

di quel sogno collettivo dove, generazioni dopo gene-

razioni, hanno inseguito eventi, lotte, amori e tragedie

lontani dalla quotidianità. Ancora oggi il teatro conser-

va la memoria di quel passato e quando gli passiamo

accanto non possiamo fare a meno di pensare a quel

suo ruolo anche se non abbiamo mai messo piede in

quella realtà.

La ricchezza della città (in particolare di quella

europea) è data proprio da questo aspetto che pres-

cinde da una diretta utilizzazione. Una piazza è una

pausa bella all’interno del tessuto urbano anche per

chi non la frequenta, così la chiesa è il luogo della fede

di una comunità anche per chi la sfiora unicamente

nell’attraversare la città.

L’interesse che ho maturato rispetto allo spazio del

sacro mi ha portato a riconoscere aspetti evocativi,

momenti di bellezza, silenzi significativi offerti dagli edi-

fici di culto nel loro stretto dialogare con l’ambiente

contiguo.

Una chiesa offre una presenza emblematica che

continua ad interrogarci rispetto ai temi ed ai misteri

della vita. Per questo la sua architettura, forse ancor più

di altre istituzioni, merita di essere opportunamente con-

notata dentro il paesaggio circostante. Non si tratta di

un semplice servizio ma di un segnale che assume valo-

ri evocativi, che ci parla dei bisogni primordiali del nos-

tro vivere, dell’essere oggi fragili o forti dentro la nostra

identità.

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44 Sette riflessioni e un progetto

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45MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

La compiutezza del monastero

Nell’affrontare alcune riflessioni attorno ai temi lega-

ti al disegno dello spazio “sacro” in una società forte-

mente secolarizzata come quella in cui viviamo, è utile

distinguere le ragioni storico-culturali che ancora oggi

motivano la domanda di queste architetture da altre

che trovano i propri significati dentro il fatto architetto-

nico stesso.

Oggi la richiesta di edifici “religiosi” predisposti ad

accogliere le attività dello spirito deve confrontarsi con

l’avvenuta trasformazione del contesto territoriale che

presenta una diversa gerarchia di valori nelle sue istitu-

zioni rispetto ai modelli ancora presenti in un recente

passato.

Si può osservare come nella città europea i luoghi

che hanno ospitato gli spazi del “sacro” hanno sempre

goduto di una centralità rispetto al tessuto edilizio

dell’intorno, mentre oggi agiscono, nel migliore dei casi,

come strutture complementari dentro un agglomerato

spesso privo di ogni ordine gerarchico –istituzionale. Le

nuove strutture ecclesiastiche vengono interpretate

come momenti di pausa in un’organizzazione urbana

che privilegia il gran correre quotidiano e, quando tro-

vano una loro legittimazione nella città, vengono rico-

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46 Sette riflessioni e un progetto

nosciute e valutate soprattutto per i valori simbolici che

le relazionano ad una tradizione storico-artistica.

È in questo nuovo contesto, caratterizzato da un

mutato rapporto di forza e di influenza fra le differenti

istituzioni umane presenti nella città, che l’architetto è

chiamato a ritrovare nuovi significati tali da consentire

all’opera costruita di dialogare con la frammentarietà

e la fragilità dell’attuale cultura.

Per comprendere questa condizione prendiamo ad

esempio due tipologie edilizie che hanno caratterizzato

lungo l’arco dei secoli la tradizione cristiano-occidenta-

le: quella del “monastero” e quella della “chiesa”.

Il monastero, ancora oggi, sembra meglio risponde-

re all’attuale situazione urbana in virtù della sua condi-

zione di “isola” in grado di soddisfare la propria funzione

in maniera autosufficiente, interprete di un modello di

vita ben strutturato rispetto a quelli confusi e nevrotici

della città contemporanea. Si può forse anche osserva-

re che il progressivo distacco avvenuto fra il modello di

organizzazione spaziale del monastero (semplice, con

poche regole di comportamento, dentro un territorio

compiuto) rispetto a quello dell’attuale spazio della

città (complesso, con infiniti comportamenti, dentro un

territorio in continuo sviluppo) giovi ad una reciproca

convivenza.

La società riconosce la “compiutezza” del monaste-

ro proprio in funzione della chiarezza dei suoi obiettivi e

della credibilità dei suoi adepti. Per questo il modello

architettonico, pur nelle varianti assunte nel corso della

storia, viene percepito come una costante coerente, un

riferimento per la chiara distinzione della sua organizza-

zione rispetto al tessuto quotidiano dell’intorno. La logi-

ca dei “comparti finiti” consolida inoltre l’autonomia

delle funzioni senza interferenze dirette con il tessuto

esterno e risulta una componente gradita sia alla città

sociale che alla città fisica. La presenza di “contenitori”

distinti evidenzia i ruoli nelle differenti parti. Il monastero

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47MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

in quanto spazio di vita, di lavoro e di preghiera per

uomini o donne che hanno scelto di condividere una

vita comunitaria, è un esempio di grande interesse di

fronte all’atomizzazione degli attuali comportamenti

sociali. Quella del monastero è una struttura architetto-

nica che si presenta come un’oasi di pace e di silenzio,

discreta e apprezzata. La forma architettonica è con-

vincente soprattutto in funzione della totale osmosi fra il

contenitore ed i contenuti; si riafferma in tal modo una

vocazione millenaria che la città percepisce come

valore di una memoria che le appartiene, una presen-

za lontana dagli attuali comportamenti ma che risuona

amica.

In quest’ambito l’espressione architettonica rispon-

de più a se stessa che non alle relazioni con i diversi

spazi urbani. Le trasformazioni tipologiche e stilistiche

del monastero vengono interpretate come aspetti posi-

tivi legati al variare della sensibilità lungo l’arco del

tempo. Non deve stupire, quindi, che l’architettura

monastica nella sua lenta trasformazione sia stata

accolta ed apprezzata anche per l’equilibrio delle sue

innovazioni.

La semplicità delle funzioni ha d’altronde richiama-

to una chiarezza dei linguaggi che ha via via risposto

all’evoluzione delle tecniche costruttive e quindi anche

agli stili ed alle forme delle costruzioni. Anche quando

l’innovazione del linguaggio si è presentata in modo

eclatante (si pensi al convento della Tourette di Le

Corbusier) è stata accolta dalla comunità come segno

positivo rispetto all’evolversi della cultura artistica.

L’architettura monastica nel corso dei tempi ha rappre-

sentato un felice esempio di aggiornamento dalle

forme tradizionali a quelle ultime della cultura contem-

poranea.

Diverso e più complesso il discorso sui significati che

assume l’architettura della chiesa nello spazio del nos-

tro tempo.

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48 Sette riflessioni e un progetto

Dopo secoli di straordinarie testimonianze di arte e

di fede, l’architettura ecclesiastica si ritrova oggi immer-

sa in un mare di contraddizioni che indicano più in

generale un difficile confronto con l’attuale cultura.

I due interlocutori indispensabili per l’elaborazione

di un progetto, la committenza ed il progettista, riflet-

tono entrambi questa condizione di crisi: la commit-

tenza il più delle volte con un’approssimazione che

l’ha portata ad un’estrema disinvoltura nell’elaborare

i contenuti dei programmi dopo il Concilio Ecumenico

Vaticano II, ed i progettisti colti del tutto impreparati,

orfani di una continuità storica dopo la “cesura” avve-

nuta nella cultura artistica del XX secolo. Il tema della

costruzione di uno spazio d’incontro per un’attività

rivolta al “sacro” è spesso valutato oggi in termini uni-

camente d’immagine o di stile, considera il fatto archi-

tettonico come un involucro edilizio a sé stante, indi-

pendente dalle relazioni che comunque vengono a

stabilirsi con l’intorno e con la storia del proprio con-

testo. Molte perplessità scaturiscono proprio da ques-

to approccio che vede l’architettura della chiesa uni-

camente come servizio liturgico e non come riflesso di

un’attesa e di una speranza che la comunità esige

dalla cultura del proprio tempo. È evidente che la

chiesa come ogni altra attività sociale e collettiva non

può unicamente fornire risposte tecniche legate al

fatto liturgico ma è chiamata, anche nel nostro tempo

(perché non dovrebbe esserlo?), a testimoniare signifi-

cati e modi di porsi presenti in ogni slancio progettua-

le, capaci di trasformare gli equilibri esistenti in nuovi

equilibri.

Interpretare la “casa di Dio” dentro il tessuto della

“casa dell’uomo” è il compito che ogni architettura del

sacro ha sempre affrontato. Partire da fatti semplici,

dall’assemblea, dal rito della parola e del sacrificio, per

giungere a nuove forme di spiritualità e di bellezza resta

l’obiettivo di ogni progetto.

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49MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Le molte domande che si pongono di fronte alla cos-

truzione di una chiesa: cos’è oggi la sacralità del luogo,

come esprimere la condizione di “altro” rispetto al tessu-

to quotidiano, quale continuità dare alla tradizione del

passato, quale permanenza esprimere nei valori simboli-

ci; sono domande legittime ma che non possono avere

risposte attraverso scorciatoie “stilistiche”.

Il limite delle recenti realizzazioni è evidenziato dall’i-

nadeguatezza che riconosciamo al contesto del territo-

rio sociale ed al ruolo “part-time” in cui è stata relegata

la chiesa stessa, sempre più vicina ad un’entità di servi-

zi che non ad una presenza simbolica “full-time” capa-

ce di testimoniare i valori dello spirito. La sua incompiu-

tezza tipologica è evidente nel ruolo subalterno che

svolge rispetto ad altre strutture (il nucleo storico, le vie

di traffico, la piazza, il parco, il centro commerciale, lo

stadio…) che vengono interpretate invece come com-

ponenti strutturali del tessuto urbano. Nella stratificazio-

ne storica e nella successiva sostituzione edilizia, la città

europea ha progressivamente emarginato i luoghi dello

spirito di cui i poli religiosi erano punti di riferimento.

Oggi esiste una separazione fra la vocazione di una

nuova chiesa e l’apatia del contesto con il quale

dovrebbe interagire che viene percepito come disagio

spaziale ed emotivo. Per ricucire questa frattura l’archi-

tettura deve esprimersi al meglio attraverso le più alte

forme espressive. Per questo la cultura del nuovo deve

nel contempo riferirsi ad un territorio di memoria capa-

ce di testimoniare valori ancestrali da riproporre per

un’autentica bellezza dentro la modernità. Sfuggire al

giudizio rispetto alla cultura ed alla sensibilità del pro-

prio tempo equivale capitolare di fronte a derive nos-

talgiche e storicistiche. Certo, la scommessa di costruire

una chiesa dopo gli sconvolgimenti etici ed estetici

attuati dalle avanguardie del secolo scorso (Duchamp,

Picasso e altri) risuona azzardata; ma è il nostro compi-

to. Per questo risuonano lontani dalla realtà, stonati e

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50 Sette riflessioni e un progetto

patetici i richiami tesi ad invocare un ritorno agli “stili del

passato” (ieri il Principe Carlo d’Inghilterra, poi lo scritto-

re Vittorio Messori, oggi il Prof. Salingaros) come tocca-

sana di una presunta verità.

L’operatore onesto sa che si tratta di un inganno, sa

che non è possibile sfuggire alla responsabilità d’essere

uomini del proprio tempo; viene voglia di richiamare

quanto notava Karl Kraus quando ricordava ai nostalgi-

ci ed ai conservatori “che la bella, cara, vecchia

Vienna, un tempo fu nuova”.

Certo, saper offrire il meglio dalla cultura contempo-

ranea, traendo insegnamenti dal passato, non è una

questione semplice ma la storia recente ha dato prova

di esempi eccelsi (Schwarz, Le Corbusier, Aalto, Kahn,

Scarpa, Ando, Siza…) che lasciano ancora qualche

speranza. L’architettura, come altre forme espressive,

porta con sé il mistero del fatto poetico e quindi anche

la capacità di stravolgere le logiche razionali.

La storia della chiesa è anche la storia di uno spazio

architettonico in grado di evocare emozioni incom-

mensurabili, ed è quanto ci si attende dalle nuove cos-

truzioni: come aveva intuito Le Corbusier, la conquista

di uno spazio “indicibile” capace di far sorgere nuove

emozioni, non è un fatto esterno ma una condizione

dello spirito che giace dentro l’animo di ognuno di noi.

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51MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Un progetto: La rappresentazione lignea delSan Carlino a Lugano

Lago di Lugano 1599-1999 Dopo quattrocento annidalla sua nascita, Francesco Castelli, Borromini, uno fra i

più straordinari architetti della storia, ritorna alla sua

terra natale sulle sponde del lago di Lugano con una

sorprendente edificazione: la rappresentazione lignea

in scala reale dello spaccato del suo capolavoro giova-

nile, la chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane eretta

a Roma per l’ordine dei Trinitari Scalzi fra il 1637 e il 1641.

L’occasione di questo “ritorno” è l’esposizione che il

Museo Cantonale d’Arte a Lugano dedica nell’autunno

del 1999 alla figura e all’opera giovanile dell’architetto.

La costruzione di questo modello in legno della chie-

sa è stata innalzata a conclusione del fronte a lago della

città. La rappresentazione evidentemente assume

anche altri significati e si carica di altri messaggi oltre a

quelli di un inconsueto omaggio all’architetto di Bissone.

Ogni opera di architettura determina uno stretto

dialogo con il proprio contesto; fra le due realtà, archi-

tettura e territorio, s’instaura un rapporto di dare-avere

reciproco: il territorio accoglie un insieme di elementi

(geografia, storia e memoria) che influenzano e mode-

llano il progetto e reciprocamente il nuovo intervento

modifica le preesistenze con una definizione dei rap-

porti spaziali e funzionali.

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52 Sette riflessioni e un progetto

La costruzione del San Carlino a Lugano non sfugge

a questa condizione, anzi, nasce dalla volontà di far

interagire un progetto contemporaneo con l’immagine

della città storica, oggi ovattata nel tepore un po’ obso-

leto di una tipologia consolidata in un modello turistico.

La città è un organismo vivo che richiede nel suo

evolversi nuove interpretazioni; la città parla contem-

poraneamente del passato come del presente, scrive

la propria storia attraverso i comportamenti e le trasfor-

mazioni di ogni giorno. L’idea di offrire alla città, in

occasione delle celebrazioni borrominiane, un’immagi-

ne capace di stimolare una differente lettura della

città, vuole spingere il visitatore ad indagare attraverso

lo strumento dell’architettura gli aspetti nascosti della

disciplina stessa.

La città vista come espressione formale della storia

è il luogo privilegiato al quale inconsciamente tutti noi

facciamo riferimento; la sua realtà di immagine, la sua

funzione e il suo passato offrono al fruitore stimoli per

continui aggiornamenti. La presenza inquietante dello

spaccato del San Carlino sul fronte a lago vuole interro-

garci sul nostro modo di fruire lo spazio urbano. La spet-

tacolare architettura dello spazio interno della chiesa a

Roma è presentata a Lugano come un “esterno” attra-

verso la costruzione in legno che utilizza tecniche e lin-

guaggi contemporanei.

Il progetto evoca condizioni fantastiche e impossibi-

li, architetture reali nel sovrapporsi degli ordini e delle

strutture, e nel contempo astratte ed immaginarie che

rimandano a epoche lontane ma che si esprimono con

tecniche e linguaggi che riconosciamo come propri

del nostro tempo.

Di fronte a questa rappresentazione il fruitore è solle-

citato a sognare e a vivere un territorio dove la storia non

è altro rispetto alla realtà; dove l’architettura si propone

come strumento di approfondimento all’interno di quel

“territorio della memoria” che caratterizza la città.

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1. Carlo Dossi – Note Azzurre

53MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

“Le architetture in generale prendono il motivodominante dalla conformazione della natura che cir-conda l’occhio dell’artista”. Se questa sorprendenteosservazione di Carlo Dossi1 si rivelasse verosimile, il pro-

getto di costruire il modello del San Carlino sul lago di

Lugano potrebbe offrire ulteriori spunti di riflessione.

E’ certo che il giovane Francesco Castelli, nato a

Bissone il 27 settembre del 1599, ha conosciuto il territo-

rio del lago prima di partire per le terre milanesi. E’ pos-

sibile immaginare che il suo innato spirito scultoreo

possa essere stato influenzato fin dall’infanzia, dal pae-

saggio e dalla geografia del contesto con la potente

presenza della catena del monte San Salvatore che

s’innalza di fronte al villaggio; ed è anche pensabile

che proprio dal confronto fra le presenze “plastiche” e

il piano del lago, il giovane Borromini abbia trovato

argomenti per quella sua vocazione. Il paesaggio in

quel punto è estremamente articolato con la configu-

razione planimetrica del lago che disegna differenti

rami a nord verso Lugano, a ovest verso Morcote e a

sud verso Riva San Vitale, dove ai bordi del lago le

montagne s’innalzano ripide, talvolta a strapiombo sul

piano dell’acqua. Mi piace immaginare che quel

mondo dev’essere stato un territorio di contemplazio-

ne e di sogni capace di alimentare fantastiche visioni

per il giovane Borromini. I profili delle montagne tutto

attorno al piano del lago sono evidentemente ancora

oggi gli stessi profili che il Castelli deve aver scrutato

nella sua ansia adolescenziale.

- Esiste una relazione fra questa configurazione del

paesaggio e le sue architetture?

- La rappresentazione del San Carlino ligneo presenta-

ta attraverso la se-zione trasversale e separata dal contes-

to urbano che lo ha modellato, può forse suggerirci rifles-

sioni sulla sorprendente equazione proposta dal Dossi?

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54 Sette riflessioni e un progetto

L’allestimento di una mostra di architettura si con-

fronta inevitabilmente con una contraddizione di

fondo: l’oggetto che s’intende esporre non può essere

fisicamente presente.

Per questo le esposizioni di architettura ricorrono a

strumenti che solo indirettamente parlano dell’opera

(schizzi, disegni, modelli, fotografie, ricostruzioni virtuali).

Solo raramente la mostra riesce a proporre al visitatore

una visita diretta dell’opera; ma anche in questo caso

le due azioni, mostra e fruizione diretta, restano momen-

ti distinti nello spazio e nel tempo.

Malgrado questi limiti la mostra di architettura può

essere strumento prezioso di conoscenza e di avvicina-

mento al pensiero che sorregge il progetto e aiuta la

lettura dell’opera. La mostra del giovane Borromini, pro-

prio perché si occupa di un’attività lontana nel tempo

può utilizzare al meglio gli strumenti che rimandano al

progetto, al cantiere e in generale al processo che ha

permesso la costruzione.

La rappresentazione in scala reale del San Carlino

vuole essere una proposta che altera la consueta lettu-

ra in scala del progetto e invita il visitatore ad un con-

fronto con gli aspetti geometrici e le sorprendenti

dimensioni (altezza di 33 metri) della chiesa. Inoltre, l’ar-

tificio espositivo che esige necessariamente la decon-

testualizzazione presenta l’opera come una composizio-

ne astratta, senza coinvolgimenti esterni e questo offre

un dialogo che trasmette al fruitore inedite emozioni.

La rilettura di un’opera di architettura che appartieneal passato comporta un’interpretazione che stravolge i

significati primitivi che hanno motivato la realizzazione.

Con il trascorrere del tempo, anche quando perman-

gono l’uso e la funzione originari, l’opera architettonica

acquista un “vissuto” che si trasforma in valore sociale e

collettivo indipendentemente dalle ragioni che l’hanno

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55MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

motivata. L’architettura, proprio perché disciplina capa-

ce di resistere nel tempo, si presenta come specchio di

una storia dove i messaggi simbolici e metaforici preval-

gono rispetto a quelli tecnici e funzionali.

Noi leggiamo le opere del passato con un filtro che

può evidenziarci aspetti del tutto estranei al momento

della realizzazione. Per questo l’opera che testimonia di

un “passato” ci affascina e ci coinvolge; parla di pre-

senze che hanno generato valori aggiunti che attraver-

so la memoria ritroviamo nello spazio contemporaneo.

Il progetto di costruzione del San Carlino a Lugano,

da un lato consolida le testimonianze di storia e dall’al-

tro se ne stacca proponendosi come opera del nostro

tempo. Della memoria ripropone infatti la configurazio-

ne, la geometria e l’immagine finale, aspetti oggi filtrati

attraverso materiali e tecniche costruttive completa-

mente nuovi.

La rappresentazione vuole che l’opera liberata

dalla funzione presenti unicamente se stessa; come una

costruzione scenografica che rinuncia all’illusione fina-

le, essa afferma il proprio valore e la propria presenza

senza altri intenti se non quelli propri al suo essere archi-

tettura, al suo configurarsi come strumento concepito

per organizzare lo spazio.

Il territorio della memoria rappresenta l’elemento di

riferimento e di confronto con il quale l’architetto dialo-

ga attraverso il progetto.

E’ impossibile testimoniare del nostro tempo e inter-

pretare le aspirazioni di oggi senza una consapevolezza

critica che ci lega al passato.

Il confronto con l’organizzazione dello spazio già

consolidato, costruito e vissuto da altri uomini, ci relazio-

na alla storia e al ricordo che riconosciamo come

aspetti essenziali per affrontare le sfide di oggi. Di fronte

all’appiattimento e alla banalizzazione che contraddis-

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56 Sette riflessioni e un progetto

tinguono la cultura moderna, gli spazi e le architetture

del passato offrono tipologie e modelli consolidati che,

anche se funzionalmente obsoleti, conservano testimo-

nianze con le quali siamo costantemente chiamati a

confronto.

La rapidità delle trasformazioni e la complessità che

caratterizza i nuovi processi di produzione, impongono

un’attenzione sempre più viva verso la storia, forse pro-

prio perché al suo interno è ancora possibile ritrovare gli

“anticorpi” necessari per resistere alle lusinghe contem-

poranee.

Il San Carlino proposto sulle rive del Ceresio, risulta

una presenza sorprendente e inquietante, proprio gra-

zie al confronto “impietoso” che attua con la città con-

temporanea. Il “passato” viene misurato con il presente,

senza nostalgia, senza rivisitazioni storicistiche, senza

pregiudizi di parte; il velo di malinconia che emana

dalle forme barocche è filtrato dal linguaggio contem-

poraneo e l’immagine finale della rappresentazione si

precisa solo con la partecipazione-interpretazione

richiesta al complice-fruitore.

La riproposta di un lavoro artigiano nell’attuale pro-

cesso di produzione risuona come un limite o offre un

valore aggiunto all’architettura?

Quale sarà il messaggio che potrà cogliere il visita-

tore affrettato e disattento di oggi nel leggere seicento-

sessanta strati di tavole di legno sovrapposti?

Saprà valutare la manualità artigiana impiegata per

la realizzazione?

La costruzione-rappresentazione riuscirà a trasmet-

tere i valori della forza lavoro investita?

Cosa rimarrà nel contesto della cultura e della città

contemporanea?

La tecnica elementare adottata e il semplice lin-

guaggio “minimalista” che richiama l’accatastarsi dei

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57MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

depositi di segheria riusciranno a portare con sé anche

il profumo del bosco?

Il “minimalismo” adottato saprà essere espressione

massima?

L’opera di architettura espressa attraverso un fram-mento possiede una capacità di espressione che

aggiunge messaggi e valori rispetto all’opera compiuta.

Il gesto della geometria interrotta obbliga il fruitore

ad un’interpretazione soggettiva; la parte rivela il tutto

scoprendo matrici costruttive e geometriche che strut-

turano il progetto.

Il fascino del non-finito che cogliamo di fronte ad

un’architettura interrotta, è forse dovuto ai messaggi

che oltre la funzione e la tecnica, l’architettura riesce a

comunicare; osserva Aldo Rossi: “Forse è solo attraverso

il frammento che ci è possibile cogliere completamen-

te un fatto”.

La sezione geometrica di un’architettura che ci è

familiare come immagine bidimensionale astratta cosa

diventerà nel momento in cui si configura come fatto

“costruito”?

Il rilievo architettonico della chiesa di San Carlo alleQuattro Fontane a Roma è stato richiesto

dall’Accademia di Architettura di Mendrisio al professor

Alessandro Sartor dell’Università della Sapienza nell’es-

tate del 1998. Gli intendimenti erano quelli di utilizzare i

rilievi ottenuti attraverso l’uso della fotogrammetria, per

realizzare un modello in scala 1:33 da esporre al Museo

Cantonale d’Arte di Lugano. I sorprendenti risultati otte-

nuti con la ricomposizione dell’immagine virtuale per

mezzo del computer, la ricchezza delle possibili letture

che si sono presentate, gli squarci e le prospettive inedi-

te che questa rappresentazione ha dato dello spazio

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58 Sette riflessioni e un progetto

borrominiano, hanno sollecitato curiosità e approfondi-

menti sfociati successivamente nel progetto di rappre-

sentazione in scala reale.

Il disegno del rilievo architettonico, preciso e analiti-

co, è uno strumento che non tollera approssimazioni cri-

tiche. La restituzione geometrica delle parti architetto-

niche, permette di ripercorrere l’iter di costruzione, di

individuare le leggi statiche, i processi costruttivi e gli

elementi aggiunti di decoro. Il ridisegno delle sezioni e

dei profili che nella realtà si percepiscono in modo

necessariamente approssimativo, si precisano nel diseg-

no di rilievo, attraverso una chiarezza geometrica dove

la sintesi della rappresentazione ortogonale permette

la lettura della consequenzialità delle fasi costruttive. La

bellezza del disegno di rilievo dell’opera realizzata ris-

petto al disegno di progetto risiede nella pacatezza di

alcuni dettagli che si presentano più equilibrati ed

armonici nei raccordi fra le parti, e gli stessi assumono

maggiore serenità nell’opera costruita rispetto alla “for-

zatura” che si riscontra sovente nei progetti. Disegnare

quanto è già costruito stravolge le regole del progetto,

si è confrontati con verifiche che esigono una più

approfondita lettura. Nel disegno dell’opera già costrui-

ta si ritrova una ricchezza che è assente nel disegno di

progetto; sono forse i fantasmi sommersi delle fatiche,

dei dubbi e dei pentimenti che riemergono con nuovo

splendore; il disegno dell’opera realizzata porta con sé

una sapienza ed una logica difficili da riscontrare nel

disegno del semplice progetto.

Il programma occupazionale è lo strumento opera-

tivo attraverso il quale si è reso possibile la realizzazione

del modello ligneo del San Carlino a Lugano.

Esso consiste in una procedura attivata dallo Stato

nell’intento di offrire possibilità di lavoro, d’aggiorna-

mento e di formazione per i disoccupati. Il programma

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59MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

prevede la realizzazione di progetti che offrono con-

temporaneamente anche corsi di formazione professio-

nale. L’idea è molto semplice: lo Stato invece di versare

l’indennità di disoccupazione versa un salario al lavora-

tore che viene inserito in iniziative nell’ambito della sua

professione. I progetti così realizzati non devono ovvia-

mente interferire nel normale mercato del lavoro e

quindi non possono risultare concorrenziali con le

imprese attive nell’economia del paese, né avere fina-

lità di profitto.

Con questi programmi occupazionali si offre uno spa-

zio di lavoro che, sorretto da intenti “assistenziali”, per-

mette alla comunità la possibilità di realizzare progetti

che altrimenti non troverebbero le risorse necessarie.

Il progetto San Carlino a Lugano ha impiegato una

settantina d’operatori nel settore dell’edilizia: quindici

fra architetti, tecnici, disegnatori e grafici che hanno

elaborato i piani esecutivi e di dettaglio per la realizza-

zione dello spaccato del Borromini e una sessantina di

operai, carpentieri, falegnami, fabbri, pittori e manovali

per la costruzione dei pannelli in legno e successiva-

mente per il loro montaggio.

L’eccezionalità dell’opera è stata vissuta dalla mag-

gior parte di questi collaboratori temporanei con un

interesse ed un entusiasmo sorprendenti. La finalità

sociale e culturale dell’iniziativa e il suo particolare sis-

tema di finanziamento hanno riservato sorprese inatte-

se per il clima di partecipazione ad un’avventura unica

nel suo genere, che pure ha saputo motivare le maes-

tranze.

Come architetto conservo un ricordo bellissimo di

quest’avventura; ogni visita in officina o in cantiere si è

trasformata in un’occasione d’apprendimento (per le

tecniche di costruzione e d’assemblaggio, per la fabbri-

cazione degli utensili di lavoro, per i suggerimenti ope-

rativi) che mi ha arricchito; l’atmosfera di bottega che

ha caratterizzato la realizzazione mi ha permesso di

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60 Sette riflessioni e un progetto

vivere un programma concreto e rapido (sei mesi di

lavoro per l’intera realizzazione) ma nel contempo

anche lontanissimo dalle attuali procedure tecnico-

burocratiche che caratterizzano la costruzione.

E’ stato un processo di produzione probabilmente

più vicino a quello dei cantieri del passato, dove la pre-

senza dell’artigiano inventore è riuscita, ancora ad inci-

dere sulla qualità della costruzione ultimata.

Quale sarà il colore delle nuvole sopra la scatola

nera ancorata sul lago?

Dal lungolago il profilo inclinato del monte Bré e

l’ombrosa sponda di Caprino appariranno più lontane?

La città riuscirà a vivere il lago come parte del suo

territorio?

Il modello ligneo potrà diventare parte della città e

della sua storia?

Il ricordo che sopravviverà all’opera del San Carlino

sarà legato allo straordinario profilo borrominiano o alla

sua temeraria rappresentazione?

Il cantiere per la costruzione-rappresentazione dellospaccato del San Carlino è stato organizzato in tre dis-

tinti settori.

A Mendrisio, negli spazi dell’Accademia di architet-

tura è stato ospitato un gruppo progettuale di architet-

ti, tecnici e disegnatori (una quindicina di operatori)

che, partendo dai dati di rilievo forniti dal professor

Sartor, ha rielaborato il rilievo fotogrammetrico trasfor-

mandolo in una rappresentazione tridimensionale. Da

quest’immagine globale dello spazio della chiesa si è

tracciata la sezione trasversale sull’asse minore dell’e-

llisse e si è quindi proceduto ad una serie di sezioni oriz-

zontali ogni 5,5 cm (la tavola di legno dello spessore di

4,5 cm più un centimetro dei distanziatori) attuando

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61MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

un’operazione simile a quella di una tomografia che

restituisce lo spazio sotto forma di “curve di livello” ogni

5,5 centimetri.

Questi profili, opportunamente divisi per parti, sono

stati disegnati in scala reale (oltre 36’000 elaborati) e

composti in pannelli per essere poi trasmessi all’officina.

Qui, nel grande laboratorio esecutivo, organizzato nei

padiglioni dell’ex macello a Lugano, sono state ritaglia-

te le tavole in legno e montate, tavola su tavola, per

comporre i pannelli.

Questo è stato un lavoro laborioso e complesso, per

la novità dell’assemblaggio e per la precisione e la

complessità richieste dalle forme tridimensionali dei

pannelli.

La terza tappa, rappresentata dal cantiere, ha per-

messo il montaggio sul lago.

Dopo aver realizzato una piattaforma quadrata su

palafitte di 22 metri di lato, è stato innalzato per un’al-

tezza complessiva di oltre 33 metri lo scheletro in ferro

della struttura portante alla quale sono stati aggancia-

ti e sospesi 491 pannelli in legno.

E’ evidente come lo scheletro strutturale abbia

dovuto rispondere alle notevoli difficoltà imposte dalla

situazione (spinta dei venti) e dalla particolare configu-

razione del modello (forma planimetrica aperta con

mezza cupola).

A questo montaggio, avvenuto in un punto strategi-

co della città (sul lungolago alla conclusione del fronte

urbano verso est), ha partecipato con curiosità gran

parte della città e dei suoi visitatori.

E’ stato un cantiere-esposizione dove i cittadini

appostati sul lungolago hanno verificato giorno dopo

giorno i faticosi lavori di avanzamento di questa così

inconsueta realizzazione, dove l’esecuzione di ogni det-

taglio (una cornice, una colonna, un capitello) ha con-

tinuamente stimolato il fruitore ad immaginare la confi-

gurazione finale.

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62 Sette riflessioni e un progetto

Contro questo progetto si sono innalzati strali e ana-temi. I soliti benpensanti e i cattivi maestri sulla stampa

hanno irriso e ostacolato questa rappresentazione con-

siderata anticulturale per le commemorazioni borromi-

niane e narcisista rispetto all’ideatore.

L’aspetto effimero e temporaneo dell’evento (pro-

babilmente meno di un anno la durata di questa pre-

senza sul lago) non ha trattenuto o attenuato le critiche

accanite e violente quasi si trattasse di una “deturpa-

zione” irreversibile. Io credo invece che il progetto, cer-

tamente inconsueto e discutibile, ha avuto il merito di

ricercare uno spazio di “ragionata follia” nel grigiore

delle procedure e delle normative che condizionano le

trasformazioni della città contemporanea.

Questo progetto ha utilizzato al meglio le risorse, non

solo economiche, ancora disponibili all’interno degli

attuali processi di produzione e ha offerto al cittadino-

visitatore un’occasione di riflessione, di festa e forse

anche di sogno fra lo spazio immaginario e quello della

realtà.

Nei confronti dei critici e delle cassandre di turno

resta un interrogativo: perché tanto rancore?

Le visite e gli incontri sul cantiere, che si sono succe-duti durante quei sorprendenti mesi di affannoso lavoro

(febbraio-agosto 1999) attorno alla rappresentazione

del San Carlino, sono stati motivati soprattutto dalla

curiosità che aleggiava sull’insolita edificazione. Verso

gli ospiti che ho via via accompagnato, quasi tutti

architetti o ricercatori, mi legava un sentimento di stima

e gratitudine per il loro impegno verso la disciplina e in

taluni casi si è trattato del primo incontro diretto sul

territorio di un cantiere.

Superato l’imbarazzo dell’inevitabile stupore di fron-

te alla sorprendente procedura di costruzione, mi ha

colpito in quasi tutti i visitatori il sentimento dapprima di

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63MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

incredulità e successivamente di meraviglia di fronte a

questo progetto. Vi è qualcosa di infantile e primitivo

nell’idea stessa che sottende il modello di architettura;

esso rincorre l’immagine finale dell’opera attraverso

una scorciatoia data dal “già conosciuto” e attraverso

una procedura che azzera le difficoltà che i materiali, la

costruzione, il contesto e l’uso funzionale dell’opera

devono invece affrontare.

Il modello attua un’approssimazione che mira alla

lettura finale dell’opera: evidentemente solo un aspet-

to formale e quindi parziale.

Il modello porta con sé i limiti di “un’impazienza”,

brucia le analisi e le interpretazioni dell’architettura, for-

nisce unicamente una visione, una rappresentazione

appunto.

Nel caso del San Carlino la novità che attenua o

trasforma queste prerogative è data dalla scala della

rappresentazione che nella sua dimensione reale pone

il visitatore di fronte ad un’immagine che è nel contem-

po rappresentazione e realtà.

Le tavole di legno accatastate non possono essere

lette unicamente come parti che conducono all’imma-

gine finale, esse stesse sono presenze espressive; attra-

verso la loro elementarità e la loro innocenza costrutti-

va si pongono in maniera critica rispetto ai sofisticati

strumenti dell’attuale produzione edilizia.

La grande povertà dei mezzi utilizzati, tavola su tavo-

la, risulta intrigante, così come lo può essere un’opera

d’arte povera o minimalista.

E’ attraverso lo sguardo incuriosito e meravigliato

dei miei ospiti in cantiere e dalle loro reazioni, talvolta

rivolte ad aspetti e dettagli apparentemente insignifi-

canti o altre volte proiettate verso interpretazioni teori-

che, che ho avuto modo di misurare il possibile impatto

critico nell’attuale realtà.

Mi piace ricordare fra le numerose testimonianze di

cantiere le osservazioni di Heinrich Thelen, grande stu-

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64 Sette riflessioni e un progetto

dioso del Borromini, preoccupato della rappresentazio-

ne dei capitelli che nella loro approssimazione lignea

non possono esprimere le raffinate variazioni originali; la

sorpresa di Joseph Connors (il grande studioso dell’ope-

ra “borrominiana”) che ha pensato ad una fotografia

accanto ai pannelli della cornice “per mostrare agli stu-

denti la sorprendente altezza che supera quella di un

uomo”; o ancora le rapidissime reazioni di Pierluigi

Nicolin, subito entrato nello spirito di questo progetto e

interessato all’idea progettuale della stratificazione oriz-

zontale .

E’ stata una continua lezione ascoltare direttamen-

te sul cantiere le osservazioni e le reazioni di amici e

colleghi. Ora, di fronte alla realtà del modello innalzato

sul lago, si può verificare come, anche dopo quattro-

cento anni, il Borromini conservi intatta tutta la sua forza

eversiva e riesca ancora a sollecitare le nostre attenzio-

ni per sperimentare nuove emozioni capaci forse di

arricchire il nostro spazio di vita.

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Illustrazioni / Ilustraciones

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Siete reflexiones y un proyecto

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83MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Luz y gravedad

En la obra de arquitectura la luz genera el espacio:

sin luz no hay espacio. La luz natural da cuerpo a las for-

mas plásticas, da forma a las superficies de los materia-

les, controla y equilibra los trazados geométricos.

El espacio generado por la luz es el alma del hecho

arquitectónico.

Los volúmenes construidos contribuyen a la defini-

ción de los espacios que en el diseño arquitectónico

siguen siendo el objetivo final; es el vacío el que dicta

las relaciones espaciales y funcionales, el que controla

los trazados visibles, lo que genera posibles emociones,

expectativas, interpretaciones

La luz es una entidad natural que existe más allá del

hecho arquitectónico que, comparado con la obra

construida, encuentra su razón de ser en el transcurso

del tiempo a lo largo del ciclo solar, en la continua

sucesión de las estaciones.

La luz representa para el arquitecto el signo visible

de la relación que existe entre la obra de la arquitectu-

ra y los valores cósmicos del entorno, es el elemento

que da forma a la obra en el contexto ambiental espe-

cífico, describiendo su latitud y la orientación, y relacio-

na lo construido con las particularidades ambientales.

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84 Siete reflexiones y un proyecto

La gravedad es la fuerza que une la obra de arqui-

tectura a la tierra. Se puede decir que es la que consti-

tuye la razón de ser del principio constructivo, en la bús-

queda del equilibrio para transmitir las cargas al terre-

no. El primer signo de la construcción viene dado por el

gesto de colocar una piedra en el suelo; más que de

piedras superpuestas se tiene que hablar de piedra

sobre la tierra: todas las arquitecturas llevan en su seno

esta condición absoluta de ser parte del suelo.

A través de la obra construida el hombre mantiene

un enfrentamiento perpetuo con la madre tierra y pone

en práctica una acción que transforma una condición

de la naturaleza en una cuestión de cultura.

Colocar un artefacto en el suelo es un reto al equi-

librio existente en la búsqueda de nuevos valores

ambientales capaces de ser testigos del propio tiempo.

El paisaje construido es espejo (a veces implacable)

de la comunidad que lo expresa, es una manera de dar

forma a la historia, es una forma de dar continuidad a

los pueblos que han existido y en definitiva es una

manera de sentirse artífices del propio tiempo.

Dada la diversidad de problemas que encontramos

a lo largo de una vida de trabajo, esta reflexión propo-

ne dos aspectos fundamentales de la disciplina como

clave de lectura, el de la luz y el de la gravedad; dos

constantes en torno a las cuales es posible emprender

una lectura capaz quizás de sacar a la luz los actuales

intereses y las recientes contradicciones.

Son estas, realidades que pertenecen a todas las

obras de arquitectura construidas, por lo que puede

parecer ingenuo y tal vez incluso inútil tratar de inter-

pretar ahora sus mensajes; ofrecen una interpretación

que se aparta de la mayoría de los actuales intereses

críticos. La cultura arquitectónica contemporánea a

través de la experimentación, las tendencias en boga o

las modas culturales, parece huir de la consideración

de estos aspectos primarios de la construcción –la luz y

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85MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

la gravedad– como si la obra arquitectónica pudiera

prescindir de ellos.

Da la impresión, de hecho, que en la actualidad

otras sean las preocupaciones de los operadores, que

no van dirigidas hacia la obra construida, sino principal-

mente hacia los aspectos y comparaciones virtuales, a

lo efímero, a los elementos epidérmicos, a los aspectos

lúdicos, que son aparentemente lo único que todavía

es capaz de centrar el interés del debate disciplinario.

Hacer hincapié en aspectos extraños a estas

modas, más allá de los estilos y los lenguajes, puede

parecer poco realista o inapropiado. Por el contrario,

creo que llamar la atención sobre algunos de los com-

ponentes esenciales de la arquitectura es una manera

de medir su capacidad para interpretar el mundo con-

temporáneo.

En las agitadas propuestas de los últimos años, de

extravagantes experimentos y trágicos reajustes, los

mensajes resultantes a menudo se escapan de la disci-

plina arquitectónica, y se dirigen hacia áreas próximas;

a las artes visuales, a la publicidad o a interpretaciones

literarias, que legitiman un descuido de las tareas espe-

cíficas de la arquitectura y de la búsqueda de la cali-

dad para los espacios. Son actitudes que se agotan en

la virtualidad del debate teórico y dejan a los ciudada-

nos desarmados frente a los problemas reales que les

obligan a afrontar diariamente verdaderas batallas

urbanas, para moverse, para trabajar, para descansar,

para vivir.

Parece que el compromiso cívico y social que ha

mantenido durante milenios la esperanza de la disci-

plina ha desaparecido; las nuevas formas de expre-

sión se someten a leyes surgidas de la homologación,

a los dictados de la moda y al mercado, donde todo,

absolutamente todo, es reducido a mercancía que se

recibe y valora atendiendo exclusivamente al interés

económico.

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86 Siete reflexiones y un proyecto

Frente a este cuadro desanimante me parece

entrever que aún queda margen para dedicarse a la

realización de obras capaces de se pueden proponer

como expresiones positivas y para asumir las responsa-

bilidades y el gran potencial de nuestro tiempo. En la

actual confusión ambiental, ocasionada por las rápidas

transformaciones, un punto de apoyo para una posible

resistencia crítica, puede pasar posiblemente por volver

a entender la ciudad como el espacio específico

capaz de hacerse cargo de las aspiraciones colecti-

vas. La ciudad, como entidad suprema de reunión de

vida y esperanzas, puede llegar a ser un instrumento a

la medida de las necesidades de sus ciudadanos, para

los valores del hábitat, para una nueva lectura de la

relación con el territorio.

La ciudad europea es un modelo de agregación

extraordinaria; su milenaria estratificación la convierte

en baluarte de la calidad, como alternativa a los

modelos suburbiales o los de los “no-lugares” que hoy se

invocan como si fueran verdaderos “valores”.

Los anticuerpos acumulados en lo “local” de las

diferentes culturas, encuentran un espacio privilegiado

y pueden hacer de antídotos para hacer crecer un

pensamiento crítico capaz de afrontarse la contradic-

ción de nuestro modo de vida.

La ciudad es una fortaleza inmersa en el territorio

de la memoria, dentro de la cual el arquitecto está lla-

mado a pensar y a actuar.

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87MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

La Academia de Arquitectura de Mendrisio

Para hacer un balance de la Academia de

Arquitectura de Mendrisio, a 17 años de su puesta en

marcha, y cuando estoy a punto de abandonar la

dirección, me gustaría hacer un recorrido por su histo-

ria. Es importante recordar que en 1996 no se fundó

sólo la Academia, sino la Universidad de la Suiza italia-

na: un nuevo núcleo universitario en una pequeña

región de lengua italiana. Fue un evento extraordina-

rio. De hecho, la fuerza de nuestra estructura académi-

ca estriba precisamente en el hecho de formar parte

de un proyecto más amplio, que en definitiva centra su

interés en la cultura italiana. De inicio la Academia

nació sólo como facultad, pero pronto tuvo el apoyo

de una fundación y posteriormente, de las facultades

de Ciencias de la Comunicación, de Ciencias

Económicas y de Ciencias de la Informática, con sede

en Lugano.

Ha habido circunstancias favorables que han lleva-

do a que el momento histórico para el establecimiento

de una nueva escuela de arquitectura fuese el más

adecuado. También fue una especie de deuda de

reconocimiento hacia los grandes emigrantes de los

siglos pretéritos. Esta era una tierra de constructores:

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1. Los maestros comacini eran constructores, albañiles, estucadores y artistas unidos

en un gremio de empresas constructoras compuesta de profesionales especializa-

dos, activos desde el siglo VII en la zona entre la provincia de Como, el cantón del

Tesino y en general toda Lombardía. (n. del t.)

88 Siete reflexiones y un proyecto

desde la Edad Media, desde los maestros comacini 1

hasta los maestros que han tocado los cinco continen-

tes. Cuando pensé en este proyecto –que presenté en

Berna en 1992, sin siquiera saber que se haría realidad

más tarde en el Cantón del Ticino– el empuje procedía

propiamente de un contexto histórico-geográfico que

había alimentado la cultura arquitectónica de todo el

mundo.

Es importante evocar estas raíces, y también recor-

dar que nuestra generación, que ha tenido la suerte de

trabajar inmediatamente después de la muerte de los

maestros del Movimiento Moderno, ha definido unos

contextos histórico, crítico y cultural propios, bastante

interesantes.

Yo no hablaría de una escuela del Ticino, sino una

solidaridad cultural que se basa en un sustrato, arraiga-

do en una historia, en un recuerdo.

Hay otras razones detrás de la Academia, que guar-

dan relación con el contexto actual. Hay una razón, por

así decirlo, política: Suiza tenía, y sigue teniendo, dificul-

tades en sus relaciones con Europa, y con el mundo en

general. Vimos entonces la oportunidad de crear una

relación a través de una herramienta cultural: se trata-

ba de lograr que el mundo mediterráneo entrase en

contacto con la cultura suiza, más pragmática, más

nórdica. Fue un momento histórico en el que, en cierto

sentido, nosotros necesitábamos de Suiza para nacer,

pero Suiza nos necesitaba para encontrar un sitio distin-

to del puramente calvinista. Esta fue sin duda otra de

las premisas. Hubo entonces otro hecho objetivo adi-

cional: encontramos un suelo fértil gracias a los proble-

mas –si podemos llamarlos así– de los Politécnicos

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89MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Federales, que por una parte estaban desbordados,

por la magnitud de su misma dimensión, y por otra, limi-

tados por el enfoque de su enseñanza, dirigida a pro-

porcionar una respuesta matemática, técnica, funcio-

nal, racional.

Y ahí aparece la singularidad de nuestro perfil, que

incluye diversas disciplinas humanísticas. A los profeso-

res les pedimos que hagan una reflexión humanística

acerca de su materia; incluso en la asignatura de

matemáticas, la primera enseñanza no se dirige a la

resolución de problemas, sino al desarrollo de ideas, de

un pensamiento matemático, para asegurar que el

arquitecto pueda ser capaz de tratar con los especia-

listas: hemos intentado, por eso, dar más fuerza a las dis-

ciplinas humanísticas.

La Academia, además, quiere ser un espacio para

la síntesis entre las culturas arquitectónicas centroeuro-

pea e italiana. Lo cual procede también por supuesto

de nuestra condición geográfica, que nos obliga a esta

síntesis cultural.

En todos estos años el cuerpo docente ha sido muy

variado. Desde el principio quisimos que los primeros

cuatro profesores de proyectos –Aurelio Galfetti, Peter

Zumthor, Panos Koulermos y yo– fueran heterogéneos

entre sí. Peter Zumthor nos ayudó mucho y lo hizo con

gran entusiasmo: creo que fue posible gracias al privile-

gio de quien empieza de cero. Frente a un perfil como

el nuestro, pudimos contar para el cuerpo docente con

las mejores mentes: desde Leonardo Benévolo a

Joseph Rykwert y a Albeverio. En los primeros años, los

profesores fueron elegidos por su prestigio: los mejores

tanto de la cultura italiana como de la internacional.

Posteriormente tuvimos que cambiar, porque el sistema

universitario suizo es muy estricto y exige, por ejemplo,

que no haya invitaciones directas, sino que se aplique

el procedimiento de los concursos y por tanto de los

títulos. Básicamente, siempre se ha mantenido el princi-

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90 Siete reflexiones y un proyecto

pio no hacer una elección sectaria sino de abrir com-

pletamente el perfil de nuestros profesores, que van

desde Olgiati, a Bearth, a Collomb, a Bonell.

Mantuvimos vivo siempre un equilibrio entre la activi-

dad proyectual, por un lado, y las actividades histórico-

críticas, por otro –y esto es tal vez el mayor valor de

estos años–; y nunca dejamos que los críticos prevale-

ciesen. En este sentido la breve aparición de Kurt

Forster supuso un momento crítico, y probablemente

por esto se fue. Más tarde, nos dimos cuenta de que

posiblemente hubiese sido una fortuna, ya que de lo

contrario hubieran sido los historiadores del arte quie-

nes hubiesen impuesto una dirección a la escuela y no

los arquitectos. Tradicionalmente, en Suiza siempre se

ha procurado que los profesores de proyectos tuviesen

una actividad profesional al margen de la académica,

y nosotros hemos cumplido con este diktat.

En cuanto al perfil de la Academia en relación con

el proceso de normalización de la enseñanza en

Europa, puedo decir que nuestra escuela se caracteri-

za por una fuerte identidad. Implantamos por ejemplo,

como estructurales ciertas disciplinas que se imparten

desde hace varios años: cinco años de filosofía, cinco

de historia del arte, cinco de historia de la arquitectura

y cinco de historia del territorio. La internacionalización

del alumnado fue una sorpresa para nosotros. Las can-

teras eran tres inicialmente: América Latina, la antigua

Unión Soviética y la zona mediterránea; luego se aña-

dió, con una fuerte participación, el lejano Oriente

–China, India, Corea y Japón.

El perfil que buscamos dentro del plan de estudios es

el de un arquitecto generalista, en contraposición a la

especialización, y esta es nuestra fuerza. Hasta el punto

de que dentro del espacio académico, por ejemplo en

el master, la especialización está excluida. Esto no sólo

es una forma de resistencia, sino una opción que quiere

incluso doblegar la demanda del mercado, que prefie-

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91MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

re tener especialistas para resolver la mayor parte de los

problemas específicos estructurales, ambientales, de

tráfico, etc… Nuestra Academia desea formar una figu-

ra interdisciplinar. Este es un dato fuerte, y quizás ha sido

otra de las condiciones históricas de su fundación: la

necesidad de una figura de arquitecto omnicomprensi-

va, que tiene una visión global del mundo, un

Weltanchauung; y la conciencia de que el arquitecto

no puede responder sólo al problema del tráfico, o de la

estática, o al problema de los materiales. Esta figura del

arquitecto global es, paradójicamente, la verdadera

forma de resistencia a la globalización, porque la globa-

lización hoy en día reclama especialistas, pero ¿que

división hay entre diseño interior y exterior?

La educación humanística que intentamos propor-

cionar al estudiante ofrece lo mejor de la arquitectura,

desde la estructura mínima de un proyecto artesanal a

la gran planificación territorial. A través de una interpre-

tación humanista, queremos dirigir todos problemas a

la centralidad del hombre. La desubicación de la

Academia, con sede en Mendrisio en vez de en

Lugano, se deseo desde el comienzo, convencidos de

que una escuela de arquitectura no es una facultad de

arquitectura, donde se proporciona una simple espe-

cialización disciplinaria dentro de una universidad. Es

mucho más, es también un lugar físico: hay laborato-

rios, una biblioteca, que se está potenciando de una

forma impensable al principio, y ahí está la idea del

Teatro de la arquitectura, cuya realización espero que

sea inminente.

Todo esto no es absolutamente necesario para una

facultad profesional: es un añadido que, sin embargo,

consideramos esencial. La última serie de conferencias

que hemos hecho sobre los temas “Mare Nostrum” o

“Finis Urbis?” quizás no fueran estrictamente necesarios

para una buena escuela de arquitectura, pero estoy

convencido de que dejamos en herencia algo más.

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92 Siete reflexiones y un proyecto

Yo he enseñado en el primer curso, al principio per-

sonalmente, y luego estructurando la docencia con

otros colegas y con otros jóvenes, en particular de la

zona: también esta enseñanza fue pensada como un

gran taller.

Me encantaría que los problemas de la escuela fue-

sen como los de mi casa, o los de mi estudio, porque

mediante la discusión en la mesa de trabajo surgen las

grandes ideas: puedes partir del razonamiento acerca

de cómo unir dos piezas de madera, y de esa intersec-

ción surge el mundo entero.

Por tanto es cierto que soy un artesano-arquitecto;

pero tengo la ambición de ser un pensador, tratando

de descubrir dónde están las grandes contradicciones

del mundo actual: ver, por ejemplo, que los gritos por

encima de los demás del sistema de los star arquitects

es en realidad una forma de hacer publicidad un tanto

perjudicial, y que es necesario regresar a la centralidad

del trabajo.

Personalmente, he recibido mucho de la Academia,

de miles de estudiantes: los graduados son ahora más

de 1.000. Recibí gratificaciones dentro de la disciplina,

porque la Academia es para mí también una herra-

mienta para la reflexión crítica, que proporciona ele-

mentos poéticos que ayudan a comprender dónde

estás y lo que estás haciendo. Yo soy de la opinión de

que cada uno de nosotros es un ciudadano del mundo,

pero sólo puedes serlo de modo fuerte y honesto si tie-

nes anticuerpos válidos; por lo tanto, es preciso madu-

rar dentro de la propia cultura, de la propia historia y,

sobre todo, dentro de lo que ahora creo que debe ser

el contexto real en el que el arquitecto trabaja: el terri-

torio de la memoria.

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1. La traducción literal del titulo sería: El arquitecto generalista, pero esto, en España,

tendría una connotación negativa que en mi opinión no hace justicia a lo que el

autor pretende transmitir con sus reflexiones. Por eso me ha parecido más adecuado

este título, que tampoco expresa completamente aquello a lo que se refiere pero

está más próximo. De todos modos, hecha esta observación que pone al lector sobre

aviso, en el texto se ha mantenido el término empleado por el autor (n del t.).

93MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

El arquitecto con visión de conjunto1

Cuando a principios de los años 90 del siglo apenas

terminado, elaboré el proyecto para una nueva escue-

la de arquitectura, como primer paso para el nacimien-

to de la Universidad de la Suiza Italiana, era muy cons-

ciente de lo necesario que era tener presente la

extraordinaria tradición arquitectónica que se había

dado en nuestro país a través de los siglos. Una nueva

institución académica podría encontrar su significado

sólo a través de un proyecto intelectual que realzase

las notas características de una cultura arquitectónica

que a lo largo de la historia, partiendo de estas tierras,

se difundió por los cinco continentes. Frente a la pre-

sencia de dos universidades politécnicas influyentes en

Zurich y Lausana habría tenido poco sentido proponer

otra vez en el Ticino un modelo de formación que rein-

cidiese sobre las orientaciones ya presentes en las

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94 Siete reflexiones y un proyecto

zonas lingüístico-culturales alemana y francesa; era por

tanto necesario proponer un perfil alternativo, aunque

próximo, respecto al de esas dos escuelas suizas.

Además, a finales del siglo veinte, en un momento

histórico en el que se estaba poniendo de relieve la

prepotente dinámica del desarrollo tardomoderno,

junto a los desastres sociales provocados por la globa-

lización, era obligado que nos preguntáramos qué

futuro debía esperarse para la disciplina arquitectóni-

ca, y cual debía ser el perfil del profesional capaz de

enfrentarse críticamente con los nuevos escenarios. El

arquitecto, en especial en las áreas culturales de

ascendencia mediterránea, ha apoyado durante

mucho tiempo su propia identidad en una visión

humanista, en la que incidían las habilidades composi-

tivas; que van desde el proyecto de construcción en

sentido estricto a la consideración territorial, de la ima-

ginación plástica al saber artesano, desde la recupe-

ración del patrimonio histórico a la imaginación de

nuevos desafíos sociales. Esta rica y variada tradición

cultural no deja de estar presente incluso en la orien-

tación formativa de los politécnicos de Zúrich y

Lausana, pero ambos, aun con diferencias fuertes

entre ellos, los límites permeables de la disciplina arqui-

tectónica tienden a subdividirse en protocolos basa-

dos en habilidades individuales, con el riesgo de some-

ter la arquitectura a las presiones de la especialización

técnico-científica del mundo industrializado o, peor

aún, de desarmarla frente a la desarticulación del pro-

ceso de diseño y de construcción, allí donde éste es

víctima de la exasperante división del trabajo sobre el

que se asienta la globalización.

Sobre la base de estas consideraciones fue sobre

las que la Academia de Arquitectura –cuyo nombre fue

elegido para distinguirla de las escuelas politécnicas–

se convirtió en el laboratorio de un programa educati-

vo ambicioso: la formación de un nuevo arquitecto

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95MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

generalista capaz de ejercer un gran control sobre la

obra, y que sitúe de nuevo al hombre en el centro de

los intereses proyectuales.

Pero no hay que pensar sin embargo que el proyec-

tista, entendido de este modo, descendiente de una

tradición disciplinar tan noble que puede ser aplastado

por ella, vaya a ser una figura que se ponga al margen

de la historia de nuestro tiempo, para vivir con voluntad

anacrónica las vicisitudes de la especialización.

Ejerciendo una crítica no nostálgica, sino innovadora y

pragmática respecto a la división del trabajo, el arqui-

tecto generalista se propone como auténtico intérpre-

te del debate moderno, en particular en aquellas tem-

poradas en las que el Movimiento Moderno se ha perfi-

lado como disciplina autónoma, esto es, como prácti-

ca que no se puede reducir a la simple ejecución de

programas, a una banal respuesta técnico-funcional o

una simple práctica constructiva.

La lección más importante de los maestros del

Movimiento Moderno se apoyó a menudo en la defensa

del estatuto disciplinar generalista (pensemos en el

famoso lema de Hermann Muthesius, que invitaba a

poner en práctica la arquitectura “de la cuchara a la

ciudad”). Podría decirse, sin embargo, que a nuestra

época ha llegado sólo la herencia de aquellos elemen-

tos del lenguaje funcional que resultaron útiles para la

especulación del suelo, la normalización constructiva y

el correspondiente desmembramiento del proceso com-

positivo. Del movimiento moderno, por desgracia, nos

hemos dejado por el camino muchas de sus aspiracio-

nes más audaces, incluyendo la tensión de la lucha por

la obra de arte total como imaginó Gropius en la época

de la Bauhaus, el valor ético y social de la arquitectura

perseguido por Le Corbusier, o incluso el control creativo,

extendido a la verificación en la construcción, al modo

que lo hicieron Mies van der Rohe o Carlo Scarpa, cuan-

do afirmaban que “Dios está en los detalles”. Lo que es

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96 Siete reflexiones y un proyecto

común a estos ejemplos de la tradición moderna es, por

lo tanto, en retrospectiva, el deseo de proteger la dispo-

sición generalista del proceso arquitectónico, con espe-

cial referencia a las diferentes escalas del diseño, que

pueden controlar y mantener la unidad del proceso de

proyecto. Pero ¿hasta qué punto es todavía posible?

En nuestra época, las infinitas formas de división del

trabajo intelectual, los sistemas de innovación tecnoló-

gica introducidos en el sector de la construcción, las

peticiones con frecuencia incontroladas de mejoras

continuas en relación con la rapidez de la transforma-

ción del territorio, los urgentes problemas ambientales y

energéticos que afectan al mundo físico, e incluso las

expectativas estéticas cada vez más agresivas, obligan

al arquitecto a reformular su estatuto disciplinar. A pri-

mera vista parece que los múltiples frentes en los que

opera el proyecto contemporáneo imponen una para-

lela división de la competencias, como si la dificultad

de las tareas a realizar sólo pudiera resolverse a través

de la suma de distintos operadores. Pero confiar la solu-

ción a la “especialización” es un error tanto intelectual

como profesional. La arquitectura debe ser defendida

como la cultura interdisciplinar que se ocupa de la

organización del espacio de la vida; ya que fuera de

ella toman la supremacía, inevitablemente, las distintas

ramas del saber, ya sean esas técnicas, ingenieriles,

científicas, organizativas e incluso estéticas. Y si se deja

a la lógica de la división de competencias que se salga

con la suya, esos conocimientos pasarán de ser contri-

buciones indispensables a normativas, que reducirán el

proyecto a un collage de soluciones, con resultados de

conjunto desalentadores. Como es bien visible en la

degeneración mostrada por muchos estudios importan-

tes angloamericanos o en otros que han surgido recien-

temente en el Lejano Oriente, en los que el arquitecto

es a veces empujado a hacer una parodia de sí mismo,

para convertirse en un ‘manager’ completamente sub-

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97MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

ordinado a cada diktat; un optimizador del proceso de

producción, halagado por un encargo aparentemente

“artístico” (director de arte) que es reducido de hecho

al papel de decorador para tareas marginales.

Para evitar que la arquitectura termine relegada a

un destino de servicio técnico de un lado o de entre-

tenimiento por el otro, se requiere un replanteamiento

continuo del proceso de diseño que lleve a fortalecer

la imagen de un operador “total”. Claro, el arquitecto

tampoco puede aspirar a un conocimiento omnívoro

capaz de incorporar un conocimiento universal. Si

fuese así, su propia cultura disciplinar desaparecería

en un saber en el que vendría a menos su sentido pro-

fesional. Pero a pesar de todo el proceso de diseño

sigue siendo, ante todo, un arte ligado a la idea de

componer –el armar y dar una nueva identidad a los

diferentes componentes– que debe vencer la tenta-

ción de descomponer que continuamente demanda

el proceso de ejecución.

En apoyo de esta resistencia cultural a la especiali-

zación no está de más recordar las antiguas ideas vitru-

vianas, retomadas después por los grandes humanistas

como Leon Battista Alberti, según el cual el arquitecto

“tenía que ser no sólo un excelente dibujante y estudio-

so de la geometría, la óptica y la aritmética, sino tam-

bién un gran conocedor de la historia literaria, la filoso-

fía y la música, así como de nociones de derecho y de

medicina ... “. Pero como no debemos caer en la nos-

talgia de tiempos pasados, sólo porque tenían una tasa

menor de división del trabajo, será necesario ahora

inventar otras maneras de lidiar la complejidad existen-

te y proporcionar a la arquitectura un saber compositi-

vo adecuado a nuestros tiempos.

Establecido que el arquitecto generalista no debe

ser confundido con una ingenua reproposición del mito

del conocimiento universal en manos de un artista

demiurgo, se puede entonces buscar el espacio con-

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98 Siete reflexiones y un proyecto

ceptual y operativo en el que se vislumbre la posibili-

dad de hacer frente a la fragmentación del conoci-

miento. El arquitecto es también una de las figuras más

adecuadas para contrarrestar el estereotipo del artista

como arquitecto solitario que no conoce la amenaza

de la división del trabajo. Su arte, debido a la compleji-

dad que lo caracteriza, exige del proyectista la toma

continua de decisiones que le convierten en coordina-

dor de múltiples habilidades. En este sentido, el arqui-

tecto es similar a un director de cine, que reúne una

autoría interdisciplinar dirigida por la síntesis de las múl-

tiples contribuciones, incluyendo las estrictamente téc-

nicas, y las de la complejidad económica y de organi-

zación, que concurren a definir el trabajo final. Que

haya un solo autor que “firma” el trabajo es por tanto,

una ficción que no da cuenta del entrelazamiento

complejo de las aportaciones que confluyen en la

práctica de la realización. Sin embargo, esta ficción no

se debe condenar en bloque por sus simplificaciones,

sino quizá debe matizarse de forma adecuada, ya que

es de ahí de donde surge la poética del lenguaje pro-

pio de cada artista.

La poética implica una weltanschauung (cosmovi-

sión) que, en cuanto “visión del mundo”, no puede ser

asumida ni por un conocimiento especializado ni por

un conjunto de conocimientos disciplinarios. La calidad

de un artista se basa, por supuesto, en su conocimiento

específico de su “trabajo” o de las disciplinas vecinas,

pero este conocimiento no agota su interpretación cul-

tural; si fuese así, el arquitecto se identificaría con la

figura de los ingenieros, así como la dirección de una

película se atribuiría a los actores, guionistas o incluso

más a los productores. Si quiere existir como el arte, la

arquitectura, por lo tanto, no debe renunciar a enrique-

cer con una propia poética las aportaciones técnicas

y los programas operativos que representan los elemen-

tos imprescindibles de aquella: su generalismo creativo

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99MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

se ejerce en la extensión cultural del proyecto más allá

de los límites de los conocimientos especializados y las

estrictas respuestas funcionales. Y este “ir más allá” es el

que exige del arquitecto una manera innovadora de

experimentar otras formas de vida, diseñar una nueva

forma de vivir que enseñe a integrar el paisaje en el

contexto físico, estudiar los efectos de una luz que favo-

rezca la meditación en un espacio sagrado, o imaginar

una nueva intervención que sea capaz de poner en

valor la memoria cultural de una historia particular.

Entonces la poética dejará de ser una decoración ele-

gante añadida a la fiabilidad del proyectista y se con-

vertirá en estructural para una estrategia de defensa

profesional que estará en condiciones de mejorar la

calidad de los espacios de la vida humana.

La necesidad de un papel poético es, de hecho,

hijo de una figura generalista, tal vez la única capaz de

hacer frente a las paradojas más preocupantes del

mundo de hoy, donde los procesos de modernización

técnica conducen a menudo, antes que a un progreso

civil, a formas de desintegración social. Por tanto, la

resistencia a la especialización de los saberes se justifi-

ca por tanto como una alternativa a la globalización

desenfrenada que afecta a la experiencia cultural del

hombre contemporáneo.

Cuando nació en Mendrisio la Academia de

Arquitectura, estas consideraciones eran quizás sólo

felices intuiciones de escenarios que han crecido de

manera exponencial en la última década.

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100 Siete reflexiones y un proyecto

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101MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Los centros históricos

En un momento histórico caracterizado por la rápi-

da expansión de la globalización, la búsqueda de una

posible identidad pasa por mantener el sentido de per-

tenencia a un territorio y, por lo tanto, por la referencia

natural a la imagen de la ciudad.

Territorio y ciudad son dos términos de una misma

realidad, histórica y geográfica, que caracteriza el pai-

saje humano.

El tejido urbano a través de sus transformaciones

señala, tal vez incluso más que el contexto paisajista del

campo, los episodios continuados de las luchas y pasio-

nes que se han sucedido en el transcurso del tiempo,

que en la "polis" encuentran su expresión formal propia.

Hoy el paradigma urbano es el que es capaz de sin-

tetizar, mejor que cualquier otra representación, la

situación económica, política y social, más allá de las

inacabables disputas ideológicas que han dado forma

a las transformaciones que vivimos.

La ciudad vuelve a ser, como en el pasado, un

baluarte hacia el que los ciudadanos se dirigen natu-

ralmente cada vez que sienten la necesidad de recu-

perar recursos con los que resistir el aplanamiento y la

banalización que les supera, en el ajetreo de cada día,

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102 Siete reflexiones y un proyecto

intentando anclarse a una realidad territorial que les

parece amigable.

En comparación con el mundo entero que se nos

ofrece como una realidad virtual disponible, la ciudad

en su construcción física y social es un punto de refe-

rencia que refleja una condición histórica y antropoló-

gica capaz de testimoniar un valor de unicum identifi-

cable y reconocible –quizá hoy en mayor medida ahí

que en la entidad de cada estado y en sus respectivas

culturas nacionales–. La historia y la transformación de

los contextos urbanos son ideas tan próximas a nosotros

que han influido en nuestra forma de vida y, de hecho,

han dado forma a nuestro comportamiento. Por eso

atribuimos a la cultura urbana una gran fuerza expresi-

va, auténtica y significativa de la historia humana, con

una pluralidad de testimonios abiertos a múltiples lectu-

ras donde la presencia física de modelos espaciales,

tipos, repertorios y tipologías reales hacen la interpreta-

ción menos abstracta y menos ideológica; que es

como decir más cercana a nuestra experiencia en una

realidad apremiante capaz de comprometer nuestras

emociones. No se trata de planteamientos teóricos dis-

puestos para múltiples interpretaciones, sino de condi-

ciones reales de vida y de espacios dentro de los cua-

les se nos ofrece una enseñanza concreta.

La ciudad como punto de referencia dentro de un

territorio físico redescubre hoy algunas prerrogativas de

su propia historia. La condición de centro donde se

reúne historia y memoria, donde la estratificación urba-

na se ha acumulado y densificado, así como aquella

condición, igualmente precisa, de límite con respecto a

una condición externa extra muros, donde sigue exis-

tiendo un territorio que es distinto de la polis, están pre-

sentes y son detectables en la mayor parte de los con-

textos urbanos. Todo esto, que se entiende de forma

intuitiva, asegura al ciudadano que, a través de una

realidad física, puede redescubrir gran parte de su

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103MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

identidad. La fascinación viene dada por la sensación

de que dentro de la complejidad de la trama urbana y

de su estratificación edilicia es posible leer en un espe-

jo ampliado la condición misma de la vida, con espe-

ranzas y contradicciones que se transforman en imáge-

nes y figuras reales. Dentro de este contexto, el usuario

puede bucear y pasear en una condición de anonima-

to, de observador desconocido que actúa como prota-

gonista del ambiente que le rodea.

Nuestra misma personalidad se ve reforzada a tra-

vés de los testimonios y las experiencias de otros hom-

bres; en el contexto construido nunca nos sentimos

abandonados, no estamos solos, el espacio que nos

rodea es un área de memoria con una historia que nos

pertenece y que reconocemos como parte de nuestro

ser. A través del territorio físico interpretamos un tejido

mental capaz de filtrar las dudas y esperanzas de nues-

tro trabajo. En la ciudad histórica es sorprendente

observar como, a pesar de que fue diseñada para

hacer frente a requisitos lejanos de nuestra sensibilidad,

las instalaciones urbanas con su implantación distributi-

va y funcional, responde eficazmente a las necesida-

des actuales a través de una calidad de espacios que

nosotros mismos juzgamos superiores respecto a los

ofrecidos por los nuevos asentamientos.

El tejido urbano envejeciendo mejora: esta sorpren-

dente paradoja perturba la mente de los arquitectos y

urbanistas. Debemos entonces admitir que no son los

aspectos técnicos y funcionales a los que constante-

mente recurrimos los que ofrecen una mejor calidad de

vida, sino la riqueza de capas y en última instancia, los

recuerdos que afloran del trazado de la ciudad.

A través de la experiencia de vivir en los centros his-

tóricos, diseñados y consolidados a través de la labor

continua de generaciones extinguidas, reconocemos

fácilmente una mayor calidad y volvemos a encontrar

valores que nos satisfacen por medio de los logros de

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104 Siete reflexiones y un proyecto

hombres que desaparecieron, fruto del trabajo de

comunidades perdidas, alejadas en el tiempo de las

ansiedades y preocupaciones de nuestra vida. Resurge

de nuevo entonces más fuerte la necesidad de la histo-

ria propuesta por el entorno construido, modificado y

rediseñado de forma continua, en el transcurso del

tiempo, que transforma y altera los usos y los valores ori-

ginales, que ahora se vuelven a descubrir a través de

otros significados.

La ciudad ofrece la enseñanza simple y desarman-

te de que no se puede vivir sin un pasado, y de que el

territorio de la memoria es una condición igualmente

indispensable para la medida de la vida presente.

Ciertamente, la ciudad contemporánea, a pesar de

ser inevitable, crea problemas que acechan a la vida

cotidiana: de los datos alarmantes de la contaminación

a los del tráfico; del aprovisionamiento de energía a las

importantes áreas residenciales emergentes que ven los

espacios más preciados entregados a los comercios,

con la consiguiente expulsión de enteros sectores habi-

tables. Pero incluso dentro de estas y otras contradiccio-

nes, el medioambiente urbano sigue siendo una llama-

da de atención para la vida colectiva, y el proceso cen-

trípeto hacia la ciudad parece irreversible en el mundo

entero y resuena como una nueva frontera imparable.

En 1950, las ciudades con más de un millón de habitan-

tes eran ochenta; se estima que en 2015 habrá más de

quinientas. Otro dato más reciente indica que más de la

mitad de la población del mundo en la actualidad se

concentra en las grandes áreas urbanas.

El creciente número de áreas metropolitanas altera,

obviamente, los equilibrios característicos de las ciuda-

des tradicionales, pero esto también puede interpretar-

se como un crecimiento favorable a la calidad de vida,

si fuese posible al menos controlar ciertas contradiccio-

nes. El problema de la densidad de los asentamientos es

quizás la clave para lograr nuevos equilibrios dentro de

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105MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

los contextos metropolitanos. Diferentes modelos tipoló-

gicos se ofrecen para lograr estas nuevas densidades

urbanas, desde los que quieren un desarrollo vertical a

los que apuntan morfologías horizontales, pero en

ambos casos parece haberse consolidado la idea de

que la ciudad no debe extenderse más allá de los lími-

tes urbanizados actuales. El desarrollo dentro de las

zonas que han quedado obsoletas (ex-industrial, ex-mili-

tar, etc...) se vislumbra ganador con todas las ventajas

que ofrece la infraestructura y los servicios que ya exis-

ten y la consiguiente reducción de los costes sociales.

La ciudad, por lo tanto, parece destinada, aun en su

nuevo tamaño, a crecer sobre sí misma, a continuar el

proceso de continua estratificación histórica, que por

otra parte era su peculiaridad característica. El creci-

miento de nuevos proyectos de edificación en las áreas

abandonadas marca una nueva frontera de la planifica-

ción urbana que, junto a la inevitable demolición de edi-

ficios obsoletos, proyecta nuevos territorios y nuevas visio-

nes de ciudad, capaces de coser y recomponer los

grandes vacíos creados por las antiguas zonas industria-

les. Es cierto que la ciudad en la totalidad de su ser,

como contenedor social, sigue siendo para la mayoría

de los hombres una realidad de referencia, donde las

intervenciones futuras abrirán perspectivas de confron-

tación entre las nuevas arquitecturas y el entorno ya

consolidado por la historia –contradiciendo la perspecti-

va nihilista de algunas arquitecturas recientes autorrefe-

rentes, objetos verdadera y propiamente desvinculados

del contexto y en diálogo sólo con ellos mismos–. Con

una trama urbana fuerte, consciente de su pasado y del

valor de su imagen, incluso el tipo de construcción de las

arquitecturas aisladas no puede hacer otra cosa que

ayudar a fortalecer el diseño general. Suena infantil rei-

vindicar una innovación tipológica del producto arqui-

tectónico en abierto desafío con la tradición, como si la

evolución de los modelos no debiese encontrar un lugar

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106 Siete reflexiones y un proyecto

dentro de un contexto geográfico que es también una

expresión de nuestra historia. Frente a un proceso apa-

rentemente desarticulado por las reglas establecidas

por la ciudad, tal vez ha llegado el momento de recono-

cer una jerarquía de valores que impone el valor mayor

del conjunto, base de referencia gracias a su pasado, a

su estratificación histórica, a la memoria de sus trazados

y a la reclamación de los signos y huellas significativos

para la calidad de vida de las que la ciudad europea

puede presumir: es a través de la memoria de sus espa-

cios y en los recovecos de su pasado donde reconoce-

mos a la ciudad las prerrogativas aptas para oponer una

resistencia, ética antes incluso que estética, como antí-

doto para nuestra frágil cultura.

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107MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Belleza y arquitectura

Al igual que muchas otras formas de comunicación,

la arquitectura testimonia el espíritu y el comporta-

miento de una comunidad; existe una relación directa

entre la cultura que caracteriza una época y las imá-

genes de sus edificios.

Para todos nosotros, es relativamente fácil descifrar

una obra construida en un tiempo anterior, ya que refle-

ja los pensamientos, la técnica y las esperanzas de la

sociedad que la produjo. Por eso podemos interpretar

la arquitectura como expresión formal de la historia.

Obviamente, esto también se aplica a la cultura de

hoy a pesar de las perplejidades, dado que las formas de

la arquitectura de hoy son menos evidentes que las del

pasado, más ambiguas y problemáticas, y a veces apa-

rentemente en contradicción con nuestra sensibilidad.

La rapidez de los cambios que experimentamos

todos los días no nos permiten guardar la distancia críti-

ca necesaria para comprender bien el significado de las

imágenes que poco a poco dan forma a nuestras vidas.

Por esta razón, es difícil hablar de los aspectos for-

males de la arquitectura contemporánea, y resulta más

sencillo referirse a las del pasado. Hoy en día son dife-

rentes los registros formales y los modelos con los que

estamos obligados a medirnos; las vanguardias del

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108 Siete reflexiones y un proyecto

siglo XX nos han dejado huérfanos de puntos de refe-

rencia, obligándonos a buscar nuevas claves de lectu-

ra para entender el significado de la ética y la estética

de nuestro trabajo. Y hasta tenemos que volver a for-

mular el concepto mismo de belleza a la luz de una

sensibilidad cambiada. Y por otra parte la búsqueda de

lo bello en los entresijos de nuestra cultura suena como

una voz de alarma si ha de ser cierto que sólo se

empieza a hablar de algo cuando se nota que falta.

De hecho tenemos que admitir que hoy las formas

de expresión de la vida cotidiana son interpretadas por

la sociedad, en el mejor de los casos, como actos de

servicio –en los que destacan los aspectos técnico-fun-

cionales– y casi nunca como posibles vectores de

belleza. Esto es probablemente debido al aspecto

pragmático que caracteriza a la mayor parte de las

obras que interactúan con nuestro tiempo: hechos rela-

cionados a un consumo inmediato que se escapan al

ámbito del espíritu, donde mora la belleza, que exige

un diálogo entre materia y espíritu, entre el cuerpo y la

mente, entre la cosa y la idea.

La belleza es una abstracción que no puede ser des-

crita y conocida en sí misma, que no puede confinarse

dentro de parámetros o comportamientos; es un estado

de gracia que requiere la experiencia surgida de vivir

entre una realidad concreta y una idea inmaterial.

Observaba Le Corbusier que el hecho arquitectónico

está en condiciones de "dejar que reaparezca una intui-

ción consciente de lecciones aprendidas, asimiladas, tal

vez olvidadas, que emergen de nuevo en forma incons-

ciente. La belleza del espacio está dentro de nosotros, y

la obra puede evocarlo y aquel puede revelarse a quie-

nes lo merecen, a quien sintoniza con el mundo creado

por la obra, que ciertamente es otro mundo. Se descubre

entonces de golpe una profundidad inmensa que limpia

las paredes, ahuyenta presencias superfluas, y produce el

milagro del espacio inefable".

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109MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

El espacio de lo Sagrado

La de-sacralización¿Por qué estamos tan descontentos con los ejem-

plos de arquitectura con los se que ha diseñado el

espacio sagrado en la historia reciente? Una posible

explicación se puede encontrar en la aceleración de

los acontecimientos y en las relativas transformaciones

que gradualmente han tenido lugar en la segunda

mitad del siglo XX, con la complejidad propia de la cul-

tura moderna y la desaparición de muchos de los valo-

res a los que teníamos como referencia.

Con la velocidad del cambio se ha producido un

debilitamiento de la memoria, que poco a poco ha ido

dejando espacio al olvido. Además, la historia de las

Vanguardias del siglo pasado ha afectado efectiva-

mente a la forma de ver e interpretar la estética, estre-

chamente relacionada con los valores éticos.

El vacío moral y cultural que constatamos es hijo de

la actual situación histórica en la que nosotros –huérfa-

nos de una memoria capaz de relacionarse con el

pasado– nos movemos: en la actualidad de los pensa-

mientos, inmersos en las noticias, atentos a las disputas

ideológicas, a los conflictos institucionales, a las modas

culturales en nuestro continuo esfuerzo para hacer

pruebas significativas de nuestro ser.

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110 Siete reflexiones y un proyecto

No debemos, por tanto, sorprendernos de que sea

tan difícil llevar a cabo obras destinadas a lo sagrado

capaces de asumir un significado.

Sin embargo, el hecho es que el arquitecto quien está

llamado a responder a las expectativas de la comunidad

a través de la construcción del espacio; y la idea de lo

sagrado es una constante que hay que reformular dentro

de la fragilidad de la cultura actual. Y nuestro compromi-

so es ofrecer una emoción añadida a pesar de encon-

trarnos inmersos en las contradicciones actuales.

Desde hace varios años, me estoy preocupando por

esta cuestión y con frecuencia he tenido que enfren-

tarme a proyectos con la esperanza de dar forma al

silencio, de modelar edificios preparados para la ora-

ción, para la meditación.

Construir una iglesia conlleva, tal vez incluso más

que para otros temas, enfrentarse con preguntas sobre

el papel y el significado que la obra de arquitectura

puede desempeñar en la búsqueda de una nueva cali-

dad del medio ambiente urbano. En ausencia de un

identikit que caracterice a la ciudad actual, son estos

los nuevos problemas que multiplican las dificultades

que la construcción de un nuevo edificio inevitable-

mente implica.

La construcción de un nuevo templo es a menudo

relegada a áreas residuales, dentro de una urbaniza-

ción dispersa, sin imagen, que crece gracias a normati-

vas promovidas por un uso del suelo que favorece la

especulación edificatoria.

Los tipos de iglesias que durante siglos han determi-

nado la evolución de los estilos y los lenguajes, parecen

mudos e incapaces de interpretar la actual condición.

Y es en este contexto donde nuestros esfuerzos deben

dirigirse a la búsqueda de respuestas mediante la cre-

ación de estructuras y espacios atentos a nuestra sensi-

bilidad, y al mismo tiempo, capaces de reunir valores

simbólicos, recuerdos perdidos, memorias ancestrales.

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111MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Lo que me ha llamado la atención en las tres cultu-

ras monoteístas es la capacidad del hombre para reco-

nocerse a sí mismo en un acto de humildad ante todo

hacia sí mismo, para vivir de una esperanza más allá de

los límites de sus conocimientos, en una continua nece-

sidad que lo empuja hacia lo infinito. Es este un modo

de preguntar y tal vez incluso de encontrarse a sí

mismo. Lo sagrado es un estado de la mente que debe-

mos reconocer en nosotros mismos.

A través de la construcción de lugares de culto

podemos, en el mejor de los casos, predisponer una

condición que facilite esa actitud; debemos, de una

parte, conseguir que el individuo pueda sentirse prota-

gonista y, de otra, conseguir una arquitectura capaz de

implicar a la totalidad de la comunidad reunida en

asamblea. Crear un lugar que haga énfasis en la pre-

sencia del hombre como ser vivo, tendido entre la tie-

rra y el cielo más allá de los usos y las influencias espa-

ciales y visuales que le rodean todos los días. La compli-

cación espacial dentro de la geometría capaz de tra-

zar imágenes de sus configuraciones –a través de la luz

y su cambio con el trascurrir del tiempo–, responde

también a la búsqueda de una nueva belleza.

Cada vez que vuelvo a visitar las iglesias que he

hecho tengo ocasión de comprobar cómo la arquitec-

tura es el testigo fiel de nuestro tiempo, el espejo de la

historia donde se entreven el trabajo y la esperanza

inherente al proyecto, con la precariedad y los límites

característicos de nuestra época, pero también con la

determinación implacable que requiere su puesta en

obra.

Para el arquitecto es gratificante ver cómo a

veces, con pocos años de diferencia, la comunidad se

ha apropiado de una arquitectura como hecho social

y colectivo de manera que aparece en su significado

más profundo: como expresión de la historia y no sólo

el resultado de una investigación y del trabajo perso-

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112 Siete reflexiones y un proyecto

nal. Y en ocasiones después los lugares de culto logran

también transmitir la sensibilidad y la cultura del arte

contemporáneo a través de formas de una inédita

belleza.

Este es el verdadero reto que subyace a los edifi-

cios que hoy en día se dedican a lo sagrado: una rea-

lidad concreta, física, construida para durar en el

tiempo como signo de una posible esperanza frente a

los conflictos y contradicciones de nuestra vida. Como

testigo del tiempo, construir también significa dar

forma al pasado, así como a los recientes aconteci-

mientos; la arquitectura conserva los mismos principios

de mil años de historia y al mismo tiempo los de un

saber más cercano que ha sostenido y alimentado

nuestra cultura.

Por otro lado la necesidad de inmensidad se mani-

fiesta hoy en día en la formas más desacostumbradas.

Está presente cuando en una sociedad secularizada se

manifiesta la necesidad de superar lo ordinario a través

de la creación de museos –como tan abundantemen-

te se ha producido en el pasado reciente–, una forma

de permitir a los ciudadanos un encuentro directo con

los valores del arte, para que puedan sentirse parte de

la historia del mundo.

En un contexto histórico fuertemente desestructura-

do, el lugar de culto se puede entender como el espa-

cio colectivo por excelencia, que representa a los hom-

bres en su complejidad –más allá de las funciones reli-

giosas y litúrgicas para las que fue diseñado–, en su

anhelo hacia formas de comunicación que buscan la

belleza y, por tanto, las formas más avanzadas de lo

sagrado.

La exigencia de infinito que alimenta nuestras espe-

ranzas se refleja en los espacios construidos; es una

condición del alma humana que puede ser satisfecha

en las configuraciones interiores del cuerpo de las nue-

vas arquitecturas.

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113MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Re-inventar los arquetiposUna de las formas de abordar proyectualmente el

desafío actual respecto al espacio sagrado, es reinven-

tar los arquetipos de la tradición específicamente cris-

tiana, a la búsqueda de la fuerza expresiva que ha

dado lugar a ejemplos sublimes a lo largo de los siglos.

Tanto los modelos de la tradición oriental –con plan-

ta central– como los de la cultura occidental –con

planta de cruz latina orientada– parecen pertenecer al

pasado, a pesar de su simplicidad, vinculados a un con-

junto histórico-urbanístico alejado de las necesidades

actuales.

Es el entorno sobre todo el que hace obsoletas las

tipologías que por mucho tiempo habían generado

oportunidades arquitectónicas excepcionales. El

aspecto centrípeta y monumental con el que se

modelaba a partir de ellos el tejido que los ligaba a lo

que les rodeaba, ha dado paso ahora a una urbaniza-

ción donde el espacio preparado para el encuentro

con lo sagrado es a menudo algo residual, con resi-

dencias, oficinas, centros de servicio, etc... Como suce-

dió recientemente en el caso del sector de la Spina Tre

en Turín, donde construí el conjunto de servicios que

giran en torno a la Iglesia de la Santa Faz; sólo una

mirada atenta –la del cardenal Poletto– permitió iden-

tificar este sitio como adecuado para una iglesia en el

tejido de la ciudad. El nuevo proyecto hizo suyas las

cualidades paisajísticas, históricas, geográficas y fun-

cionales del lugar con elecciones "a posteriori" que, en

este caso afortunado, coincidieron con las necesida-

des de los planificadores. Fue el entorno el que alimen-

tó las decisiones de proyecto, en el que el edificio apa-

rece como elección feliz para la zona. El modo de ubi-

carse, la forma misma de tomar posesión del terreno, su

orientación, su disposición como elemento de articula-

ción entre las diferentes partes del tejido urbano son

invenciones tipológicas que se crean para relacionar-

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114 Siete reflexiones y un proyecto

se –por contraposición, o, si se prefiere, por diálogo–

con el entorno. La nueva parroquia no puede simple-

mente plantarse ahí con un tratamiento de manual,

sino que, en la medida en que forma parte de un pro-

ceso largo y complejo, se necesita que a veces se rela-

cione con los demás elementos del territorio. La estra-

tificación histórica, típica de la cultura europea, se

convierte entonces en elemento de referencia, lo que

requiere nuevas interpretaciones. Recrear una centrali-

dad allí donde la planificación urbana no la contem-

plaba es, de hecho, una condición extendida en las

recientes zonas puestas a disposición de los servicios

de la iglesia.

Para esto las nuevas tipologías, llamadas a configu-

rarse en un segundo momento, deben volver a formular

su propia condición, partiendo otra vez de la lectura

crítica de la ciudad.

El carácter sagrado de la arquitecturaLa arquitectura lleva en sí la idea de lo sagrado. El

primer acto de la creación es trazar un perímetro en el

suelo para separar un microcosmos del macrocosmos

restante. A partir de este primer acto viene la idea

misma de umbral, un elemento que distingue el espacio

interior del mundo exterior.

En el diseño de edificios religiosos encontré temas y

principios que sustentan la arquitectura misma.

Reflexionando sobre estos conceptos es evidente que

la idea de un espacio sagrado está inevitablemente

relacionada con el contexto histórico y geográfico que

connota, como siempre se debe hacer en la obra de

arquitectura.

Pienso que la lectura crítica y la interpretación del

lugar en el que debemos actuar son elementos clave;

y de éstos, por desgracia, la construcción reciente no

se ha ocupado adecuadamente. Los lugares de culto,

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115MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

de los que criticamos la calidad, han crecido en las últi-

mas décadas dentro de una praxis en la que la arqui-

tectura se ha confundido con lo extraño, donde en

nombre de la experimentación se han llevado a cabo

obras sin ninguna relación con la historia, sin verdade-

ras innovaciones y, sobre todo, especialmente indiferen-

tes al lugar que habrían debido enriquecer.

La construcción de una iglesia es equivalente a la

construcción de una institución, de un lugar colectivo

llamado a servir para una función social; importante

por tanto para toda la sociedad y no sólo para aque-

llos que asisten. Por esta razón, la naturaleza de la obra

y el entorno establecen un punto de encuentro que

asume un importante valor simbólico. No conozco nin-

guna cultura que haya crecido sin plantear la cuestión

del templo o de un edificio dedicado a las actividades

del espíritu, sea este como fuere. Es evidente que desde

una óptica personal el lugar para llevar a cabo una

actividad en relación con lo sagrado –la reflexión, la

oración, la meditación– podría estar en cualquier parte

–incluso en la orilla de un río–, pero el que participa en

una actividad colectiva necesita de un espacio donde

todo el mundo pueda reconocerse a sí mismo como

parte de una comunidad, más allá de la propia indivi-

dualidad, para compartir su experiencia.

Edificios nacidos como parte del propio entorno

–las iglesias de Pordenone, Sartirana, Evry– han sido, en

mi experiencia, oportunidades concretas para señalar

en el tejido urbano lugares y condiciones inesperadas,

como nuevas formas de vida que alteran radicalmente

la ciudad.

En el proyecto de un edificio religioso emergen con

fuerza aspectos que ya están presentes en el arte de la

construcción, que son los que llevan a cambiar radical-

mente el equilibrio existente en un intento de proponer

uno nuevo, con un valor añadido, transformando la

condición natural en condición cultural.

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Page 116: mario botta - Universidad de NavarraBOTTA.pdf · 2015. 7. 2. · Siete reflexiones y un proyecto INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación 1 28/04/14 13:47 Página 1. INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación

116 Siete reflexiones y un proyecto

El acto fundacional, aquel en el que se separa un

microcosmos de la realidad del entorno, corresponde a

un acto sagrado, el de la separación que es inherente

a toda obra de arquitectura.

Creer en la necesidad de distinguir el espacio de

vida a través de partes autónomas, significa creer en el

acto de construir. La diversidad de espacios responde a

diferentes necesidades que la arquitectura modela

dentro de las experiencias cotidianas, pero la obra

debe ser capaz de dar una respuesta más allá de la

mera funcionalidad para proporcionar ambientes

donde la luz genera espacios y condiciones que bus-

can la belleza. En este contexto, es evidente que los

materiales utilizados se convierten en herramientas

importantes que ayudan a definir la cualidad.

En mis experiencias proyectuales las diferentes tipo-

logías se apoyan en la geometría fuerte de la implan-

tación, que a menudo utilizo para controlar el equilibrio

de la luz. Todas estas son herramientas que ayudan a

diseñar ambientes que proceden de nuestra cultura y

que se proponen como posibles alternativas frente a la

falta de carácter mostrada por las edificaciones carac-

terísticas de la práctica edilicia contemporánea. Es

precisamente en los aspectos principales de la arqui-

tectura –contexto, electricidad, gravedad, materiales–

donde debe apoyarse el diseño de lo sagrado para

conseguir que las nuevas formas, expresivas, bellas y

verdaderas, puedan enriquecerse también con aquel

arcaísmo que la acción de construir requiere –en lugar

de ir en busca de gestos formales que se quedarán

obsoletos durante el tiempo que se requiere para lle-

varlos a la práctica– Entonces cada iglesia deberá

estudiarse una y otra vez para que responda a las

expectativas del entorno que, a través de esa nueva

arquitectura, podrá encontrar las razones de su propio

modo de ser, de la propia historia, que se reconoce en

una nueva identidad.

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117MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

El valor simbólicoLas obras de la arquitectura son signos importantes

de comunicación donde, además de los aspectos

estrictamente técnicos y funcionales, persisten valores

simbólicos y metafóricos.

La ciudad es un libro de piedra en cuyo interior

estamos llamados a leer de vez en cuando además de

las funciones, las instituciones, la historia, los testimonios,

los recuerdos, las emociones. Un edificio puede asumir

significados nuevos con el paso del tiempo, al margen

de que continúe cumpliendo su función primitiva. La

arquitectura es un signo de memoria del mismo modo

que la ciudad es un libro de los acontecimientos, que

usamos sólo parcialmente para adaptarlos a nuestras

necesidades. Consideremos, por ejemplo, el papel des-

empeñado por el teatro de una ciudad como una

estructura dedicada al imaginario colectivo: allí se

generan deseos y representaciones a veces distantes

del ciudadano que nunca los ha disfrutado directa-

mente; pero sigue siendo el símbolo de ese sueño

colectivo en el que, generación tras generación, se han

dado acontecimientos, luchas, amores y tragedias lejos

de la cotidianeidad. Incluso hoy en día el teatro man-

tiene el recuerdo de ese pasado, y cuando pasamos

cerca no podemos dejar de pensar en su papel aun-

que nunca hayamos puesto un pie en esa realidad.

La riqueza de la ciudad –sobre todo de la europea–

viene dada precisamente por este aspecto que prescinde

de la utilización directa. Una plaza es una pausa bella en

el tejido urbano también para aquellos que no la frecuen-

tan; de igual modo la iglesia es el sitio de una comunidad

de fe incluso para los que solo la rozan al cruzar la ciudad.

El interés que he puesto en el espacio sagrado me

ha llevado a reconocer aspectos evocadores, momen-

tos de belleza, silencios significativos ofrecidos por los

edificios para el culto en su estrecho diálogo con el

entorno cercano.

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Page 118: mario botta - Universidad de NavarraBOTTA.pdf · 2015. 7. 2. · Siete reflexiones y un proyecto INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación 1 28/04/14 13:47 Página 1. INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación

118 Siete reflexiones y un proyecto

Una iglesia tiene una presencia emblemática que

nos hace preguntarnos por las cuestiones y los misterios

de la vida. Por esta razón, su arquitectura, tal vez incluso

más que la de otras instituciones, merece ser caracteri-

zada adecuadamente en el paisaje circundante. No se

trata de un simple servicio, sino de una señal que adop-

ta valores evocadores, que nos habla de las necesida-

des primordiales de nuestra vida, del hecho de ser hoy

frágiles o fuertes dentro de nuestra identidad.

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Page 119: mario botta - Universidad de NavarraBOTTA.pdf · 2015. 7. 2. · Siete reflexiones y un proyecto INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación 1 28/04/14 13:47 Página 1. INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación

119MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

La integridad del monasterio

Al afrontar algunas reflexiones sobre los temas rela-

cionados con el diseño del espacio "sagrado" en una

sociedad altamente secularizada como esta en la que

vivimos, es útil distinguir las razones histórico-culturales

que motivan aun hoy la demanda de estas arquitectu-

ras, de otras que encuentran su propio significado del

hecho arquitectónico mismo.

Hoy en día la demanda de edificios "religiosos" dis-

puestos a acoger las actividades del espíritu tiene que

ponerse en relación con la transformación territorial del

contexto que tuvo lugar, que presenta una jerarquía de

valores diferente en sus instituciones respecto a mode-

los que estaban presentes aún recientemente.

Así se puede observar que en las ciudades de

Europa los lugares que acogieron los espacios de lo

“sacro” gozaron siempre de una posición central en

relación con el tejido urbano adyacente; hoy en cam-

bio actúan, en el mejor de los casos, como estructuras

complementarias dentro de un conjunto a menudo

carente de cualquier orden jerárquico-institucional. Las

nuevas estructuras eclesiásticas se interpretan como

momentos de pausa en una organización que favorece

a diario la gran carrera urbana, y cuando encuentran su

legitimidad dentro de la ciudad, son reconocidos y valo-

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120 Siete reflexiones y un proyecto

rados principalmente por los valores simbólicos que los

ponen en relación con una tradición histórica-artística.

Y en este nuevo contexto, que se ha caracterizado

por el cambio en el equilibrio de fuerzas e influencia

entre las diferentes instituciones humanas presentes en

la ciudad, es en el que el arquitecto está llamado a

encontrar nuevos significados que permitan que la

obra construida dialogue con la fragmentación y la fra-

gilidad propias de la cultura actual.

Para entender esta condición tomamos por ejem-

plo dos tipos de edificios que han caracterizado a lo

largo de los siglos la tradición cristiana occidental: la

del "monasterio" y la de la “iglesia".

El monasterio, aún hoy en día, parece responder

mejor a la situación actual de la ciudad en virtud de su

condición de "isla" capaz de cumplir su función de

modo auto-suficiente, como interprete de un modo de

vida bien estructurado en comparación con el neuróti-

co y confuso de la ciudad contemporánea. Se puede

incluso señalar que el progresivo distanciamiento entre

el modelo de organización espacial del monasterio

–simple, con pocas reglas de comportamiento, dentro

de un territorio cerrado– en relación con el espacio de

la ciudad –complejo, con infinitos comportamientos, en

un territorio en continuo desarrollo– es beneficioso para

la convivencia mutua.

La sociedad reconoce la "integridad" del monaste-

rio precisamente atendiendo a la claridad de sus obje-

tivos y a la credibilidad de sus adeptos. Por eso el mode-

lo arquitectónico, incluso en las variantes empleadas a

lo largo de la historia, se percibe como una constante

coherente, una referencia clara para la distinción de su

organización en comparación con el tejido habitual del

entorno. La lógica de las "fincas cerradas" también

refuerza la independencia de las funciones sin interfe-

rencias directas sobre el tejido exterior, y es un elemen-

to grato, tanto para la ciudad social como para la físi-

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121MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

ca. La presencia de "contenedores" distintos pone en

evidencia los papeles distintos de las diferentes partes.

El monasterio en cuanto espacio de vida, de trabajo y

de oración para hombres o mujeres que han decidido

compartir una vida en común, es un ejemplo de gran

interés frente a la atomización de la conducta social

actual. La del monasterio es una estructura arquitectó-

nica que se ve como un oasis de paz y tranquilidad, dis-

creto y muy apreciado. La forma arquitectónica es con-

vincente especialmente en función de la ósmosis total

entre el continente y los contenidos; se reafirma de esta

forma una vocación milenaria que la ciudad percibe

como valor de una memoria que le pertenece, una pre-

sencia muy lejana con relación al comportamiento

actual, pero que resulta amigable.

En este contexto, la expresión arquitectónica res-

ponde más a sí misma que a las relaciones con los dife-

rentes espacios urbanos. Las transformaciones tipológi-

cas y estilísticas del monasterio se interpretan como

aspectos positivos ligados a los cambios de sensibilidad

en el transcurso del tiempo. No es de extrañar, por

tanto, que la arquitectura monástica, en su lenta trans-

formación, haya sido aceptada y apreciada por el

equilibrio de sus innovaciones.

Por otra parte la simplicidad de las funciones invita

a la claridad de los lenguajes, que poco a poco han

ido respondiendo gradualmente a la evolución de las

técnicas de construcción y por tanto también a los esti-

los y formas de las construcciones. Incluso cuando la

innovación del lenguaje se ha producido de forma

impactante –piénsese en el convento de La Tourette de

Le Corbusier– ha sido bien acogida por la comunidad

como un signo positivo con respecto a la evolución de

la cultura artística. La arquitectura monástica ha sido,

en el transcurso del tiempo, un ejemplo de éxito de

actualización de las formas tradicionales a las noveda-

des de la cultura contemporánea.

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122 Siete reflexiones y un proyecto

Discurso diferente y más complejo es el que se

puede hacer en relación con los significados que

asume la arquitectura de la iglesia en el espacio de

nuestro tiempo.

Después de siglos de ejemplos extraordinarios de

arte y de fe, la arquitectura eclesiástica se encuentra

hoy inmersa en un mar de contradicciones que dan

cuenta, en general, de una relación difícil con la cultu-

ra actual.

Los dos interlocutores indispensables para el des-

arrollo de un proyecto, el cliente y el proyectista, refle-

jan este estado de crisis: el cliente la mayor parte de las

veces con una aproximación que le ha llevado a un

extremo desenfado en la elaboración de los conteni-

dos del programa después del Concilio Vaticano II; y los

proyectistas, pillados completamente desprevenidos,

huérfanos de una continuidad histórica después de la

"fractura" que se dio en la cultura artística del siglo XX.

El tema de la construcción de un lugar de encuentro

para una actividad dirigida a lo "sagrado" se valora hoy

en día a menudo solo en términos de imagen o estilo;

se considera el hecho arquitectónico en sí como una

simple envoltura construida, independiente de las rela-

ciones que en cualquier caso se establecen con el

entorno y la historia del propio contexto. Muchas per-

plejidades surgen de este mismo enfoque que ve la

arquitectura de la iglesia sólo como un servicio litúrgico

y no como el reflejo de una espera y de una esperanza

que la comunidad exige de la cultura del propio tiem-

po. Es evidente que la iglesia como cualquier otra acti-

vidad social y colectiva no puede limitarse sólo a dar

respuestas técnicas al hecho litúrgico, sino que está lla-

mada, incluso en nuestro tiempo –¿por qué no iba a

serlo?– a dar testimonio de significados y formas de

hacerse presente que sean capaces de transformar el

equilibrio existente en nuevos equilibrios en cada fase

del proyecto.

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Page 123: mario botta - Universidad de NavarraBOTTA.pdf · 2015. 7. 2. · Siete reflexiones y un proyecto INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación 1 28/04/14 13:47 Página 1. INTERIOR MARIO BOTTA_Maquetación

123MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Interpretar la "casa de Dios" dentro del tejido de la

"casa del hombre" es la tarea que ha afrontado siem-

pre cualquier arquitectura sagrada. Partir de hechos

sencillos, de la asamblea, del rito de la palabra y del

sacrificio, para llegar a nuevas formas de espiritualidad

y de belleza, es el objetivo de cada proyecto.

Son muchas las preguntas que se formulan frente de

la construcción de una iglesia: que significa hoy la san-

tidad del lugar, la manera de expresar la condición de

"otro" con respecto al tejido ordinario, qué continuidad

debe darse a la tradición del pasado, qué se puede

expresar por medio de los valores simbólicos; son todas

preguntas legítimas, pero que no pueden obtener res-

puesta a través de atajos "estilísticos".

Lo limitado de las recientes realizaciones se ha pues-

to de manifiesto en la insuficiencia que debemos reco-

nocer en el contexto del territorio social actual al papel

"a tiempo parcial" al que ha sido relegada la iglesia

misma, más cercana a una entidad de servicios que no

a una presencia simbólica "a tiempo completo", capaz

de dar testimonio acerca de los valores del espíritu. Su

imperfección tipológica es evidente por el papel subor-

dinado que desempeña en comparación con otras

estructuras –el núcleo histórico, vías de circulación, la

plaza, el parque, el centro comercial, el estadio,...– que

se interpretan en cambio como componentes estructu-

rantes de la trama urbana. En la estratificación histórica

y en la posterior sustitución edificada, la ciudad europea

ha marginado gradualmente los lugares del espíritu,

entre los que los monumentos religiosos eran puntos de

referencia. Hoy en día hay una separación entre la apa-

rición de una nueva iglesia y la apatía del entorno con

el que debe interactuar que se percibe como disgusto

espacial y emocional. Para reparar esta fractura la arqui-

tectura debe manifestarse óptimamente por medio de

las más altas formas de expresión. Para esto la cultura de

lo nuevo debe a la vez hacer referencia a una parcela

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124 Siete reflexiones y un proyecto

de la memoria capaz de evocar valores ancestrales, que

puedan volver a proponerse para el logro de una belle-

za auténtica dentro de la modernidad. Escapar al juicio

de la cultura y la sensibilidad del propio tiempo equivale

a capitular frente a derivas nostálgicas e historicistas. Por

supuesto, el reto de construir una iglesia después de las

revoluciones ética y estética llevadas a cabo por las

vanguardias en el siglo pasado –Duchamp, Picasso y

otros– parece atrevido; pero es nuestra tarea. Por eso

resultan irreales, fuera de tono y argumentos patéticos

los llamamientos a un retorno a los "estilos del pasado"

–ayer el Príncipe Carlos de Inglaterra, antes el escritor

Vittorio Messori, hoy el Profesor Salingaros– como pana-

cea de una supuesta verdad.

El trabajador honesto sabe que es un engaño, sabe

que no puede escapar de la responsabilidad de ser

hombre de su tiempo; entran ganas de evocar lo que

apuntaba Karl Kraus dijo cuando recordaba a los nos-

tálgicos y a los conservadores "que la bella, querida y

vieja Viena, una vez fue nueva”.

Por supuesto, ser capaz de ofrecer lo mejor de la

cultura contemporánea, recuperando lecciones del

pasado, no es un asunto sencillo, pero la historia recien-

te ha dado prueba de ejemplos sublimes –Schwarz, Le

Corbusier, Aalto, Kahn, Scarpa, Ando, Siza,... – que dejan

aun alguna esperanza. La arquitectura, al igual que

otras formas de expresión lleva consigo el misterio del

hecho poético y por lo tanto también el de la capaci-

dad de superar la lógica racional.

La historia de la Iglesia es también la historia de un

espacio arquitectónico capaz de evocar emociones

inconmensurables, y esto es lo que esperamos de las

nuevas construcciones: como intuyó Le Corbusier, la

conquista del espacio "indecible" capaz de dar lugar a

nuevas emociones, no es un hecho externo, sino una

condición del espíritu que se encuentra dentro del

alma de cada uno de nosotros.

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1. Aunque el término en español debería ser maqueta, hemos preferido mantener el

término italiano modello a la vista de la excepcionalidad de la maqueta de que se

trata (a escala uno-uno) porque el término español obligaría al lector a un esfuerzo

de separación de su contenido primario e inmediato para atribuirle el significado

excepcional que en este caso tiene; pues una maqueta nunca suele alcanzar esa

proporción con respecto al objeto tomado como modelo para la representación tri-

dimensional a escala de que se trate (n. del t.).

125MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

Un proyecto: San Carlino en Lugano

Lago de Lugano 1599-1999 Cuatrocientos años después de su nacimiento,

Francesco Castelli, Borromini, uno de los arquitectos más

extraordinarios de la historia, regresa a su tierra natal en

las orillas del lago de Lugano con una construcción sor-

prendente: la reproducción en madera de la sección a

escala uno/uno de su obra juvenil, la iglesia de San

Carlo alle Quattro Fontane en Roma, erigida por la

Orden de los trinitarios descalzos entre 1637 y 1641.

El motivo de este "retorno" es la exposición que el

Museo de Arte del Cantón de Lugano dedicó en otoño

de 1999 a la figura y a la obra temprana del arquitecto.

La construcción de este modello 1 en madera de la

iglesia se erigió en el extremo del frente de la ciudad

sobre el lago. Evidentemente esta representación asu-

mía también otros significados adicionales y se carga-

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126 Siete reflexiones y un proyecto

ba de otros mensajes al margen del hecho de ser un

inusual homenaje al arquitecto de Bissone.

Cada obra de arquitectura determina un estrecho

diálogo con su entorno; entre las dos realidades, arqui-

tectura y territorio, se establece una relación de mutuo

dar-recibir: el territorio acoge un conjunto de elemen-

tos (geografía, historia y memoria) que influyen y dan

forma al proyecto y recíprocamente el nuevo proyecto

modifica lo preexistente alterando las relaciones espa-

ciales y funcionales.

La construcción de San Carlino en Lugano no eludió

este proceso; antes al contrario, nació con el deseo de

establecer relaciones entre un diseño contemporáneo

y la imagen de la ciudad histórica, hoy en día envuelta

en la tibieza un poco obsoleta de una tipología conso-

lidada como modelo turístico.

La ciudad es un organismo vivo que requiere en su

desarrollo nuevas interpretaciones; la ciudad habla al

mismo tiempo del pasado y del presente, escribe la

propia historia a través de los comportamientos y las

transformaciones diarias. La idea de ofrecer a la ciu-

dad, con ocasión de las celebraciones borrominianas,

una imagen capaz de estimular una lectura diferente

de la ciudad, quería animar al visitante a investigar los

aspectos ocultos de la disciplina arquitectónica usan-

do como instrumento la arquitectura misma.

La ciudad vista como expresión formal de la historia

es el lugar privilegiado al que inconscientemente todos

nos referimos; su realidad como imagen, su función y su

pasado facilitan al usuario estímulos para una continua

puesta al día. La presencia inquietante de la sección

de San Carlino frente al lago nos plantea la cuestión de

como disfrutar del espacio urbano. La espectacular

arquitectura del espacio interior de la iglesia de Roma

se presentaba en Lugano como un "afuera" a través del

edificio de madera que utilizaba técnicas y lenguajes

contemporáneos.

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2. Carlo Dossi – notas azules.

127MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

El proyecto evocaba condiciones fantásticas e

imposibles, arquitecturas reales en la superposición de

órdenes y estructuras; abstracta e imaginaria a la vez,

nos reenviaba hacia épocas distantes, pero estaba

expresada con técnicas y lenguaje que reconocemos

como propios de nuestro tiempo.

Frente a esta representación al usuario se le exigía

soñar y vivir un territorio donde la historia no era nada

más que la realidad; donde la arquitectura se proponía

como un medio para profundizar en ese “territorio de la

memoria" que caracteriza la ciudad.

“Las arquitecturas por lo común toman el motivodominante de la conformación de la naturaleza querodea el ojo del artista". Si esta sorprendente observa-ción de Carlo Dossi2 fuese plausible, el proyecto de

construir el modello de San Carlino en el lago de

Lugano podría proporcionar nuevos alicientes para la

reflexión.

Es cierto que el joven Francesco Castelli, nacido en

Bissone el 27 de septiembre de 1599, conocía el territorio

del lago antes de partir hacia tierras milanesas. Podemos

suponer que sobre su innato espíritu de escultor hubiese

influido, desde muy temprana edad, el paisaje y la geo-

grafía del contexto que impone la poderosa presencia

de la cordillera del monte San Salvatore que se yergue

frente a la aldea; y es plausible pensar que en ese con-

traste entre las presencias "plásticas" y la superficie del

lago, haya encontrado argumentos para su vocación el

joven Borromini. El paisaje resulta ser en ese lugar suma-

mente elocuente con la configuración planimétrica del

lago que dibuja diferentes ramas, al norte hacia Lugano,

al oeste hacia Morcote y al sur hacia Riva San Vitale,

donde al borde del lago las montañas se levantan empi-

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3. Cantiere: término que no tiene una palabra equivalente en español, pues se refie-

re al conjunto que forman tanto el lugar en que se construye la obra, como a los uten-

silios, los materiales y hasta a los operarios y su trabajo. Si acaso podría traducirse por

obra o fábrica, o ‘lugar de la obra’ pero aún así se entendería mal. Por eso manten-

dremos el término italiano que es mucho más rico y expresivo (n. del t.).

128 Siete reflexiones y un proyecto

nadas, a veces a extraplomo sobre el plano del agua.

Me gusta imaginar que aquel mundo debe haber sido

un espacio de contemplación y de sueños capaces de

alimentar fantásticas visiones para el joven Borromini. El

perfil de las montañas alrededor de la superficie del lago

es aun hoy es con seguridad el mismo que observó el

Castelli en su ansia adolescente.

–¿Existe una relación entre esta configuración del

paisaje y sus obras de arquitectura?

– La representación del San Carlino de madera por

medio de la sección transversal y separada del contexto

urbano que le ha dado forma, ¿puede sugerirnos reflexio-

nes sobre la sorprendente ecuación propuesta por Dossi?

La preparación de una exposición de arquitecturase enfrenta inevitablemente con una contradicción de

fondo: el objeto que se pretende exponer no puede

estar físicamente presente. Por eso las exposiciones de

arquitectura recurren a herramientas que solo indirec-

tamente hablan de la obra (bocetos, dibujos, modelos,

fotografías, reconstrucciones virtuales). Rara vez la

exposición consigue ofrecer al visitante un examen

directo de la obra: pero incluso en este caso las dos

acciones, vista y acceso directo, siguen siendo momen-

tos diferentes en el tiempo y el espacio.

A pesar de estos límites la exposición de arquitectu-

ra puede ser valiosa herramienta para el conocimiento

y el acercamiento al pensamiento que alimenta el pro-

yecto y ayuda a la comprensión de la obra. La exposi-

ción sobre el joven Borromini, precisamente porque se

refiere a una obra muy alejada en el tiempo, puede uti-

lizar del mejor modo posible los instrumentos que nos

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129MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

conducen al proyecto, al ‘cantiere’3 y en general al

proceso que permitió la construcción.

La representación a escala real de San Carlino

quiso ser una propuesta que modificase la habitual

vista a escala del proyecto e invitase al visitante a

enfrentarse con los aspectos geométricos y las sorpren-

dentes dimensiones de la iglesia –33 metros de altura–.

Además, el artificio expositivo exigía necesariamente la

descontextualización y presentaba la obra como una

composición abstracta, sin intervenciones externas y

esto ofrecía al que lo disfrutaba un diálogo que gene-

raba emociones sin precedentes.

La relectura de una obra de arquitectura pertene-

ciente al pasado implica una interpretación que va

más allá de los significados primitivos que motivaron su

realización.

Con el paso del tiempo, incluso cuando se conser-

van el uso y la función originarias, la obra arquitectóni-

ca adquiere un "vivido" que se transforma en valor

social y colectivo independientemente de las razones

que la hubieran motivado. La arquitectura, precisamen-

te porque es una disciplina capaz de resistir el paso del

tiempo, se presenta como el espejo de una historia

donde los mensajes simbólicos y metafóricos prevale-

cen sobre los técnicos y los funcionales.

Leemos las obras del pasado con un filtro que

puede hacer evidentes aspectos completamente

extraños al momento en que se hizo. Por eso la obra

que da testimonio de un "pasado" nos fascina y nos

afecta; habla de presencias que han dado lugar a

valores añadidos que por medio de la memoria encon-

tramos de nuevo en el espacio contemporáneo.

El proyecto de construcción de San Carlino en

Lugano, por un lado reforzaba la evidencia de la histo-

ria y por otro se separaba de ella proponiéndose como

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130 Siete reflexiones y un proyecto

obra de nuestro tiempo. La memoria propone de hecho

otra vez la configuración, la geometría y la imagen

final, aspectos hoy en día filtrados a través de materia-

les y técnicas constructivas completamente nuevas.

La representación requiere que la obra liberada de

la funcionalidad se muestre solo a sí misma: como una

construcción escenográfica que renuncia a la ilusión

final, aquella afirma el valor propio y su presencia sin

ninguna otra intención que la de su propia condición

de arquitectura, su configuración como un instrumento

concebido para organizar el espacio.

El territorio de la memoria representa el elemento

de referencia y de contraste con el que el arquitecto

dialoga por medio del proyecto.

Es imposible dar testimonio del propio tiempo e

interpretar las aspiraciones actuales sin tener una con-

ciencia crítica que nos ligue al pasado.

La confrontación con la organización del espacio

ya consolidado, construido y habitado por otros hom-

bres, nos relaciona con la historia y con la memoria,

que reconocemos como aspectos esenciales para

afrontar los retos actuales. Frente a la falta de relieve y

la banalización característicos de la cultura moderna,

los espacios y las arquitecturas del pasado ofrecen

tipologías y modelos consolidados que, aunque funcio-

nalmente obsoletos, conservan testimonios con los que

constantemente estamos llamados a relacionarnos.

La rapidez de los cambios y la complejidad que

caracteriza a los nuevos procesos de producción,

requieren una atención cada vez más despierta hacia

la historia, tal vez porque en su interior es posible aun

encontrar los "anticuerpos" necesarios para resistir las

tentaciones contemporáneas.

El San Carlino propuesto en las orillas del Ceresio,

supuso una presencia inquietante y sorprendente, gra-

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131MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

cias precisamente a la comparación "despiadada" que

provocaba con la ciudad contemporánea. El "pasado"

se mide con el presente, sin nostalgia, sin revivalismos

historicistas ni prejuicios partidistas; el velo de la melan-

colía que emana de las formas barrocas es filtrado por

el lenguaje contemporáneo y la imagen final de la

representación se determina sólo con la participación-

interpretación exigida al cómplice-usuario.

Replantear un trabajo artesanal en el actual proce-so productivo ¿supone un límite u ofrece un valor aña-

dido a la arquitectura?

¿Cuál será el mensaje que puede captar el visitan-

te apresurado y desatento hoy en la lectura de seis-

cientas sesenta capas superpuestas de tablones de

madera?

¿Sabrá valorar el trabajo manual artesano emplea-

do para hacerlo?

El edificio-representación ¿logrará transmitir el valor

de todo el trabajo invertido?

¿Qué quedará en el contexto de la cultura y de la

ciudad contemporánea?

La técnica elemental adoptada y el sencillo len-

guaje "minimalista" que sugiere el amontonamiento de

los depósitos de lo aserrado ¿serán capaces de traer

consigo incluso el aroma de los bosques?

El "minimalismo" adoptado ¿sabrá ser expresión

máxima?

La obra de arquitectura expresada a través de unfragmento tiene una capacidad de expresión que

añade mensajes y valores en relación con la obra ter-

minada.

El gesto de la geometría interrumpida obliga al

espectador a una interpretación subjetiva; la parte

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132 Siete reflexiones y un proyecto

revela el todo descubriendo matrices constructivas y

geométricas que estructuran el proyecto.

La fascinación de obra inconclusa que sentimos

frente a una arquitectura interrumpida, se debe tal vez

a los mensajes que es capaz de transmitir la arquitectu-

ra más allá de la función y la técnica; Aldo Rossi obser-

va: "Tal vez es sólo a través del fragmento como nos

resulta posible entender un hecho totalmente".

La sección geométrica de una arquitectura que nos

resulta familiar como imagen bidimensional abstracta

¿en qué se convertirá en el momento en que se confi-

gure como hecho "construido"?

El levantamiento arquitectónico de la iglesia de San

Carlo alle Quattro Fontane en Roma fue pedido por la

Academia de Arquitectura de Mendrisio al profesor

Alessandro Sartor de la Universidad de la Sapienza en el

verano de 1998. La pretensión era emplear el levanta-

miento obtenido mediante el uso de la fotogrametría

para producir una maqueta a escala 1:33 que se

expondría en el Museo Cantonal de Arte de Lugano.

Los sorprendentes resultados obtenidos con la recons-

trucción de la imagen virtual utilizando la computado-

ra, la riqueza de las posibles lecturas que aparecieron,

las secciones y las perspectivas inéditas que esta repre-

sentación proporcionó del espacio borrominiano, pro-

vocaron curiosidad y profundizaciones que desembo-

caron posteriormente en el proyecto de representación

a escala real.

El dibujo del levantamiento arquitectónico, preciso y

analítico, es una herramienta que no admite aproxima-

ciones críticas. La restitución geométrica de las partes

arquitectónicas, permite recorrer el iter de la construc-

ción, determinar las leyes estáticas, los procesos cons-

tructivos y los elementos decorativos añadidos. Al volver

a dibujar las secciones y los perfiles, que en lo real se

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133MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

perciben forzosamente de modo aproximado, se preci-

san mediante el dibujo de levantamiento, por medio de

una claridad gométrica en la que la síntesis de la repre-

sentación ortogonal permite la lectura del encadena-

miento de las fases constructivas. La belleza del dibujo

de levantamiento de la obra realizada con respecto al

dibujo del proyecto estriba en el sosiego de algunos

detalles, que ahora se perciben más equilibrados y

armoniosos, por el acuerdo entre las partes, adquiriendo

una serenidad mayor en la estructura final que contras-

ta con lo "forzado" que observamos a menudo en los

proyectos. Dibujar lo que ya está construido distorsiona

las normas del proyecto, si se contrapone con verifica-

ciones que requieren una lectura más profunda. En el

diseño de la obra ya construida se vuelve a encontrar

una riqueza que está ausente en el diseño de proyecto;

se trata tal vez de los fantasmas ocultos de los cansan-

cios, las dudas y los arrepentimientos que emergen de

nuevo con esplendor renovado; el dibujo de la obra

realizada conlleva una lógica y una sabiduría difíciles

de encontrar en el dibujo del simple proyecto.

El programa de empleo fue la herramienta operati-

va que hizo posible la construcción del modello en

madera de San Carlino en Lugano.

Se trataba de un procedimiento puesto en marcha

por el Estado con el fin de proporcionar oportunidades

de empleo, de puesta al día y de formación para los

desempleados. El programa preveía la ejecución de

proyectos que ofreciesen simultaneamente cursos de

formación profesional. La idea era muy simple: el

Estado en vez de pagar el subsidio de desempleo

pagaba un sueldo a los empleados que se implicaban

en iniciativas en el marco de su profesión. Los proyectos

realizados de este modo no debían interferir en el mer-

cado laboral ordinario, y por tanto no podían suponer

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134 Siete reflexiones y un proyecto

competencia para las empresas activas en la econo-

mía del país, ni tener fines lucrativos.

Con estos programas de empleo se abría un espa-

cio de trabajo que, movido por intenciones "asistencia-

les", ofrecía a la comunidad la oportunidad de llevar a

cabo proyectos que de lo contrario no dispondrían de

los recursos necesarios.

El proyecto de San Carlino en Lugano ocupó a unos

setenta operarios del sector de la construcción: quince

entre arquitectos, ingenieros, dibujantes y diseñadores

gráficos que desarrollaron el proyecto de ejecución y

los detalles para la construcción de la sección del

Borromini, y unos sesenta trabajadores, carpinteros,

ebanistas, herreros, pintores y obreros de la construc-

ción para la construcción de los paneles de madera y

más tarde para su instalación.

El carácter excepcional de la obra se vivió con un inte-

rés y un entusiasmo sorprendentes por parte de la mayoría

de estos empleados temporales. La finalidad social y cultu-

ral de la iniciativa y su peculiar sistema de financiación

proporcionaron sorpresas inesperadas, por el clima de par-

ticipación en una aventura única en su género que se

generó, que incluso llegó a implicar a los capataces.

Como arquitecto, tengo recuerdos maravillosos de

esta aventura; cada visita a la oficina de la obra o al

cantiere se convirtió en una ocasión de aprendizaje que

me enriqueció (por las técnicas de construcción y de

montaje, por la fabricación de herramientas, por las

sugerencias prácticas); la atmósfera de taller artesanal

que caracterizó la ejecución me permitió vivir un progra-

ma concreto y rápido (seis meses de trabajo en total)

que está a la vez lejísimo de los actuales procedimientos

técnico-burocráticos que caracterizan la construcción.

Fue un proceso de producción que está probable-

mente más cercano al de tiempos pasados, donde la

presencia del artesano inventor se conseguía, y que

afectan a la calidad del edificio terminado.

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135MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

¿Cuál será el color de las nubes por encima de la

caja negra anclada en el lago?

Desde la orilla del lago el perfil inclinado del monte

Bré y la umbría ribera de Caprino ¿parecerán lejanos?

¿Será capaz la ciudad de experimentar el lago

como parte de su territorio?

El modello de madera ¿podrá llegar a ser parte de

la ciudad y de su historia?

El recuerdo que sobrevivirá a la obra de San Carlino

¿quedará ligado al extraordinario perfil borrominiano o

a su temeraria representación?

El cantiere para la construcción-representación de

la sección transversal de San Carlino fue organizado en

tres zonas diferenciadas.

En Mendrisio, en los espacios de la Academia de

Arquitectura se instaló un grupo proyectual de arqui-

tectos, ingenieros y diseñadores –una quincena de tra-

bajadores– que, a partir de los datos del levantamiento

proporcionados por el profesor Sartor, reelaboró el estu-

dio fotogramétrico, transformándolo en una represen-

tación tridimensional. Partiendo de esta imagen de

conjunto de la iglesia, se dibujó la sección transversal

siguiendo el eje menor de la elipse, y después se hicie-

ron cortes horizontales cada cinco centímetros y medio

–un tablero de madera de cuatro centímetros y medio

de espesor más un centímetro para los separadores–,

implementando una operación similar a la de un tomó-

grafo que restituye el espacio en forma de "curvas de

nivel" cada cinco centímetros y medio.

Estos perfiles, convenientemente divididos por par-

tes, fueron dibujados a escala real –se hicieron más de

36.000– y compuestos en paneles para luego ser envia-

dos al taller. Aquí, en el gran laboratorio ejecutivo, dis-

puesto en los pasillos del antiguo matadero de Lugano,

se cortaron los tableros de madera y se montaron, tabla

sobre tabla, para componer los paneles.

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136 Siete reflexiones y un proyecto

Fue un trabajo laborioso y complejo, por la novedad

del ensamblaje y por la precisión y la complejidad

requerida por las formas tridimensionales de los paneles.

La tercera etapa, representada por el cantiere, per-

mitió el montaje en el lago.

Después de crear una plataforma cuadrada a

modo de palafito de 22 metros de lado, se levantó

hasta una altura total de más de 33 metros el esquele-

to en hierro de la estructura portante, a la que fueron

atados y colgados 491 paneles de madera.

Es evidente que ese esqueleto estructural tuvo que

responder a las considerables dificultades impuestas

por la situación –empuje del viento– y por la configura-

ción particular del modello –forma planimétrica abierta

con media cúpula–. En este montaje, que tuvo lugar en

un punto estratégico de la ciudad –en el borde del

lago en el extremo final del frente urbano hacia el

este–, participó con mucha curiosidad gran parte de la

ciudad y de sus visitantes.

Fue un cantiere-exposición en el que los ciudada-

nos apostados junto al lago han verificado día tras día

el agotador avance del trabajo de tan inusual obra,

donde la ejecución de cada detalle –una cornisa, una

columna, un capitel– ha animado al público continua-

mente a imaginar la configuración final.

Contra este proyecto se lanzaron dardos y anatemas.Los habituales bien pensantes y los malos profesores

han hecho burlas en la prensa y han obstaculizado esta

representación considerada anticultural para las con-

memoraciones borrominianas y narcisista en relación

con el autor del proyecto.

El aspecto efímero y temporal del evento –proba-

blemente menos de un año de duración de esta pre-

sencia en el Lago– no ha detenido o atenuado las crí-

ticas feroces y violentas, como si se tratase de una "des-

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137MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

figuración" irreversible. Yo pienso en cambio que el pro-

yecto, ciertamente inusual y cuestionable, tuvo el méri-

to de buscar un espacio de "locura razonable" en

medio del tono gris de los procedimientos y las norma-

tivas que afectan las transformaciones de la ciudad

contemporánea.

Este proyecto ha utilizado óptimamente los recur-

sos, no sólo los económicos, aun disponibles dentro de

los actuales procesos de producción existentes, y ha

ofrecido al ciudadano que lo visitaba una oportunidad

para la reflexión, la celebración e incluso tal vez para el

sueño entre el espacio de lo imaginario y el de lo real.

En relación con los críticos y las cassandras de turno

persiste un interrogante: ¿por qué tanto rencor?

Las visitas y las reuniones en el cantiere, que sesucedieron durante aquellos meses increíbles de traba-

jo en torno a la representación del San Carlino (de

febrero a agosto de 1999), fueron provocadas sobre

todo por la curiosidad que se cernía sobre la insólita

construcción. Un sentimiento de estima y gratitud me

unía con los invitados a los que poco a poco fuí acom-

pañando, casi todos arquitectos o investigadores, por

su compromiso con la disciplina, que en algunos casos

era su primer encuentro directo con el territorio de una

obra en construcción.

Después del apuro provocado por el inevitable

asombro ante el sorprendente proceso de construc-

ción, me impresionó que, en casi todos los visitantes, el

inicial sentimiento de incredulidad posteriromente

derivaba en maravilla ante este proyecto. Hay algo

infantil y primitivo en la idea que subyace a la maque-

ta de arquitectura; persigue la imagen final de la obra

a través de un atajo que procede del "ya conocido" y

a través de un procedimiento que elimina las dificulta-

des con las que los materiales, la construcción, el con-

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138 Siete reflexiones y un proyecto

texto y el uso funcional del edificio deben en cambio

enfrentarse.

La maqueta ofrece una aproximación que apunta

a la lectura final de la obra: indudablemente es sólo en

un aspecto formal y por lo tanto parcial.

El modelo conlleva las limitaciones de "una impa-

ciencia", quema los análisis y las interpretaciones de la

arquitectura, proporciona unicamente una visión, una

representación en definitiva.

En el caso de San Carlino la novedad que atenua-

ba o transformaba estas características venía dada por

la escala de la representación, que con su tamaño real

situaba al visitante frente a una imagen que era al

mismo tiempo realidad y representación.

Los tableros de madera apilados no podían leerse

sólo como partes que conducen a la imagen final; ellos

mismos eran presencias significativas; a través de su

simplicidad y su inocencia constructiva se disponían crí-

ticamente frente a las sofisticadas herramientas de la

producción edilicia moderna.

La gran pobreza de los medios utilizados, tablero

sobre tablero, resultaba intrigante, tanto como pudiera

serlo una obra de arte povera o minimalista.

A través de la mirada intrigada y sorprendida de mis

invitados en el sitio y de sus reacciones, a veces dirigi-

da hacia aspectos y detalles aparentemente insignifi-

cantes, y otras veces proyectados hacia interpretacio-

nes teóricas, fui capaz de medir el posible impacto crí-

tico sobre la realidad de hoy.

Me gusta recordar entre los numerosos testimonios

sobre las observaciones de cantiere las de Heinrich

Thelen, erudito de Borromini, preocupado con la repre-

sentación de los capiteles, que en su versión ‘lígnea’ no

podían expresar las refinadas variaciones originales; la

sorpresa de Joseph Connors (el erudito de la obra

"borrominiana") que pensó en hacerse una fotografía

junto a los paneles de la cornisa "para mostrar a los

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139MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

estudiantes la increíble altura, que supera la de un

hombre"; o finalmente las rapidísimas reacciones de

Pierluigi Nicolin, que inmediatamente captó el espíritu

de este proyecto y estaba interesado en la idea pro-

yectual de la estratificación horizontal.

Fue una lección constante escuchar directamente

en el cantiere observaciones y reacciones de amigos y

colegas. Ante la realidad del modello erigido en el

lago, se pudo ver cómo, incluso después de cuatrocien-

tos años, el Borromini conservaba intacta toda su fuer-

za subversiva y conseguía aun atraer nuestra atención

para experimentar nuevas emociones capaces, tal vez,

de enriquecer nuestro espacio vital.

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Apunte biográfico

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Mario Botta nació el 1 de abril de 1943 en Mendrisio,

Ticino. Después de un período de entrenamiento en

Lugano, cursó el liceo artístico en Milán y continuó sus

estudios en la Escuela de Arquitectura de Venecia,

donde se graduó en 1969 con los ponentes Carlo

Scarpa y Giuseppe Mazzariol. Durante el período vivido

en Venecia, tiene la oportunidad de conocer y trabajar

con Le Corbusier y Louis I. Kahn.

En 1970 abrió su propio estudio en Lugano y, desde

entonces, desempeña una importante actividad edu-

cativa, impartiendo conferencias, seminarios y cursos

en escuelas de arquitectura de Europa, Asia, Estados

Unidos y América Latina.

En 1976 fue nombrado profesor visitante en la EPFL

de Lausanne y en 1987 de la Escuela de arquitectura

de Yale en New Haven, Connecticut, EE.

Desde 1983, fue nombrado profesor de Escuela

Politécnica de Suiza.

Entre 1982 y 1987 fue miembro de la Comisión

Federal de Bellas Artes de Suiza.

En 1996 puso en marcha la nueva Accademia di

Architettura di Mendrisio, en donde todavía enseña y

ha ocupado el puesto de Director en 2002-2003 y en

2011-2013.

Su trabajo ha sido galardonado con importantes

premios internacionales y numerosas exposiciones

dedicadas a sus investigaciones.

Como arquitecto después de llevar a cabo diversas

viviendas unifamiliares en el Cantón Ticino, su trabajo se

ha referido a todo tipo de edificios por todo el mundo:

escuelas, bancos, edificios administrativos, bibliotecas,

museos y edificios religiosos.

De entre ellas merecen ser mencionadas:

- el teatro y casa de cultura en Chambéry;

- la Mediateca de Villeurbanne;

Apunte biográfico

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143MARIO BOTTA. Premio Jav ie r Car va ja l 2014

- MOMA, el Museo de arte moderno de San

Francisco;

- la Catedral de la resurrección en Evry;

- el Museo de Jean Tinguely en Basilea;

- la sinagoga Cymbalista y Jewish Heritage Center

en Tel Aviv;

- la biblioteca municipal de Dortmund;

- el centro de Dürrenmatt en Neuchâtel;

- el MART museo de arte moderno y contemporá-

neo di Trento y Rovereto.

- la torre Kyobo y el Museo Leeum en Seúl;

- los edificios administrativos de la Tata Consultancy

Services en Nueva Delhi y Hyderabad;

- el Museo y la biblioteca Fondation Bodmer en

Cologny;

- la iglesia del Papa Juan XXIII en Seriate;

- la renovación del Teatro alla Scala de Milán;

- la iglesia de la Santa Faz, Turín;

- el wellness Oase, Arosa Tschuggen Berg;

- la bodega de Château Faugères en Saint-Emilion;

- el Museo Bechtler en Charlotte;

- la iglesia de Santa Maria Nuova en Terranuova

Bracciolini, Campari y

- residencias en Sesto San Giovanni;

- la biblioteca de la Universidad Tsinghua de Beijing;

- la regeneración urbana de la ex Appiani en

Treviso;

- el centro de bienestar en el Rigi Kaltbad;

- el Museo de los fósiles en Meride;

- hotel Twelve at Hengshan a Shanghai;

- la capilla Granato nella Zillertal, in Austria.

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