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Marco Belfanti
CORPORAZIONI E PATENTI: LE DUE FACCEDEL PROGRESSO TECNICO
IN UN’ECONOMIA PREINDUSTRIALE (ITALIA SETTENTRIONALE, SECOLI XVI-XVIII)
DSS PAPERS STO 1-00
Corporazioni e patenti 3
Nella storiografia della tecnica i secoli dell’Età Moderna sono spesso
descritti come una sorta di periodo grigio, schiacciato tra le conquiste
tecniche del Medioevo e i “miracoli” della Rivoluzione industriale, durante
il quale, nonostante gli straordinari progressi scientifici, non si verificarono
innovazioni di portata comparabile a quelle della fase storica precedente o
di quella successiva1. Questa valutazione, che pure si fonda su elementi
condivisibili in una prospettiva comparativa, rischia tuttavia di fuorviare la
comprensione di un’epoca connotata dalla consapevolezza della centralità
del progresso tecnico nella crescita economica. Due esempi tra i molti che si
potrebbero addurre a suffragio di questa tesi: la crescente frequenza con cui
venivano pubblicati trattati di argomento tecnico e l’istituzione da parte di
gran parte degli stati europei di norme volte a premiare e tutelare
l’innovazione2. C’è un aspetto che discende da quanto detto e che sembra
caratterizzare in modo particolare i secoli dell’Età Moderna: la diffusione
delle conoscenze tecniche attraverso la mobilità del capitale umano. Il
sapere tecnico dell’epoca era ancora essenzialmente pratico3, fondato cioè
sul “saper fare” di cui era depositario soprattutto l’artigiano. Ne consegue
che la diffusione di tali conoscenze dipendeva prima di tutto dagli
Paper presentato al colloquio internazionale “Pratiques historiques de l’innovation”, Parigi, 20-22
marzo 2000
1J. Mokyr, The Lever of Riches. Technological Creativity and Economic Progress, NewYork and Oxford, 1990, pp. 57-80.
2 K. Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modern Europe’, in K. Davids andJ. Lucassen (editors), A miracle mirrored. The Dutch Republic in EuropeanPerspective, Cambridge 1995, pp. 345-346.
3A. Koyré, ‘Dal mondo del pressappoco all’universo della precisione’, in Idem, Dalmondo del pressappoco all’universo della precisione, Torino, 1967, pp.89-111.
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spostamenti di coloro che “sapevano fare” più che dalla proliferazione dei
trattati di tecnica4, che, come s’è già accennato, rappresentavano semmai il
segno di una acquisita consapevolezza culturale piuttosto che una guida
concretamente utilizzabile5.
E’ ben noto il classico esempio di trasferimento di know-how
determinato dalle migrazioni dei perseguitati religiosi: dai Paesi Bassi
spagnoli all’Olanda e all’Inghilterra o dalla Francia alla Germania e così via.
Un’altra via di propagazione delle esperienze tecniche era data dalla
mobilità degli artigiani salariati (journeymen) dell’Europa centrale, che, sin
dal XIV secolo, erano tenuti a trascorrere un periodo di lavoro in una città
diversa da quella di origine prima di divenire maestri6. Anche nella Francia
del XVIII secolo gli artigiani salariati itineranti, organizzati in associazioni
clandestine (compagnonnages), rappresentavano una quota rilevante della
forza lavoro specializzata7. Queste esperienze costituiscono gli aspetti più
4C.M. Cipolla, ‘The Diffusion of Innovations in Early Modern Europe’, Comparative
Studies in Society and History, 14, 1972, pp. 46-52; D. Landes, The Wealth andPoverty of Nations, London 1998, p. 278
5Koyré, op.cit., pp. 95-96; R. T. Rapp, Industria e decadenza economica a Venezia nelXVII secolo, Roma, 1986, pp. 144-147; M. Calegari, ‘Forni “alla bresciana” nell’Italiadel XVI secolo’, Quaderni storici, 24, 1989, p. 92.
6 Si vedano C. Lis and H. Soly, ‘‘An Irresistible Phalanx’: Journeymen Associations inWestern Europe, 1300-1800’, International Review of Social History, 39, 1994,Supplement n.2, pp. 11-52; R. Reith, ‘Arbeitsmigration und Gruppenkultur deutscherHandwerksgesellen vom 18. bis ins frühe 19. Jahrhundert’, Scripta Mercaturae.Zeitschrift für Wirtschafts- und Sozialgeschichte, 23, 1989, pp. 1-35; Idem, ‘LaborMigration and the Diffusion of Technical Knowledge: the Example of the HabsburgMonarchy in the 18th Century’, communication presentée au XIIème CongrésInternational d’Histoire Economique, Session C7 “Inventions, Innovations etEspionage: la diffusione du savoir technique dans l’Europe Moderne”, Madrid, 24-28Aout, 1998; J. Ehmer, ‘Worlds of Mobility: Migration Patterns of Viennese Artisansin the 18th Century’, in G. Crossick (editor), The Artisan and the European Town,1500-1900, Aldershot, 1997, pp. 172-199; M. Berengo, L’Europa delle città. Il voltodella società urbana europea tra Medioevo ed Età Moderna, Torino, 1999, pp. 448-451.
7Si vedano ad esempio, oltre a Lis and Soly, ‘‘An Irresistible Phalanx’, cit., M.Sonenscher, Work and wages. Natural law, politics and the Eighteenth-century
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conosciuti del fenomeno, ma non lo esauriscono. Numerose altre vicende di
diffusione di conoscenze tecniche a seguito di migrazioni a medio e lungo
raggio sono documentate nelle pagine della storiografia minore o locale dei
vari paesi. Forse il successo arrise soltanto a qualcuno di quei migranti,
mentre i più furono costretti a ritornare al luogo d’origine o comunque
fallirono, ma senza dubbio furono in molti a tentare l’impresa. Un recente
studio relativo a Venezia, per esempio, mette in luce l’affollato e variegato
mondo di quanti, o per iniziativa propria o per sollecitazione degli
ambasciatori veneziani, giunsero nella città lagunare per ottenere vantaggi
economici dai monopoli concessi dalla Repubblica a chi portava nuovi
prodotti o processi8. Certo, Venezia è un caso particolare, ma è lecito
presumere che molte altre città europee - seppure in misura diversa - fossero
mete ambite per quel particolare tipo di emigrante.
Si ha insomma l’impressione che durante i secoli della prima Età
Moderna non soltanto le metropoli, ma anche buona parte delle città
manifatturiere fossero crocevia strategici per la trasmissione delle
conoscenze tecniche: era infatti frequente che chi non aveva ottenuto in un
centro urbano adeguato riconoscimento per la specializzazione di cui era
depositario, si rivolgesse ad un altra città in cerca di migliore accoglienza.
Ne esce un’immagine di grande dinamismo e vivacità nella diffusione delle
conoscenze tecniche che rende molto più complessa e articolata una
ricostruzione fondata eminentemente sulle vicende che hanno avuto come
protagonisti i rifugiati religiosi o sulle migrazioni degli artigiani salariati. E,
al tempo stesso, ne scaturisce un quadro apparentemente caotico, animato
appunto da un brulicante andirivieni di tecnici e artigiani, ma anche di
French trades, Cambridge, 1989, pp. 295-327; C. M. Truant, The Rites of Labor.Brotherhoods of Compagnonnage in Old and New Regime France, Ithaca 1994.
8P. Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano, 1995, pp. 381-421.
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avventurieri e truffatori che si spacciavano come latori di innovazioni. Non
v’è tuttavia dubbio che tali movimenti erano soltanto in apparenza governati
dalla casualità, mentre possiamo ritenere che in realtà fossero regolati da
logiche piuttosto precise. Questo articolo vuole offrire un contributo alla
comprensione di quelle logiche, cercando di individuare qualcuno dei
potenziali fattori di attrazione e espulsione che regolavano gli spostamenti
della forza lavoro specializzata nell’Italia settentrionale tra XVI e XVIII
secolo, dove non si verificarono rilevanti migrazioni di manodopera
determinate dalle persecuzioni religiose, né esistevano forme
istituzionalizzate di mobilità degli artigiani salariati. Si vuole inoltre
illustrare come l’interazione tra le corporazioni artigiane cittadine e le
legislazioni in materia di brevetti creò un assetto istituzionale favorevole alla
diffusione delle conoscenze tecniche.
Il sapere tecnico nelle economie preindustriali si fondò a lungo
essenzialmente, anche se non esclusivamente, sull’accumulazione e sulla
sedimentazione dell’esperienza artigianale: si trattava di un processo
relativamente lento di crescita cumulativa, trainato da miglioramenti tecnici
incrementali, che da un settore produttivo spesso si rifletteva in quelli
finitimi9. Decisivo ai fini dell’accumulazione, della conservazione e della
trasmissione dei saperi tecnici in molti centri urbani dell’Italia settentrionale
fu il ruolo svolto dalle organizzazioni corporative. Furono infatti le
corporazioni artigiane cittadine a “consolidare” le conoscenze relative ai
vari processi produttivi, nonché ad assicurare che tale patrimonio venisse
conservato e trasmesso di generazione in generazione attraverso una rigida e
9 K.G. Persson, Pre-industrial Economic Growth.. Social Organization and
Technological Progress in Europe, Oxford, 1988, pp. 9-10.
Corporazioni e patenti 7
severa gestione dell’apprendistato10. Pertanto la supremazia tecnica a livello
continentale, raggiunta da molti centri manifatturieri dell’Italia settentrionale
tra Medioevo e prima Età Moderna, si spiega anche con l’azione esercitata
dalle istituzioni corporative, oltre che con l’acquisizione di una posizione
strategica nel commercio internazionale11.
In tale contesto spesso emergevano e si affermavano - grazie al facile
accesso alle materie prime, o in presenza di una consistente domanda, o,
ancora, in virtù di favorevoli condizioni ambientali – una o più precipue
specializzazioni produttive, che connotavano e distinguevano i vari centri
produttori. Come ricorda Carlo Poni, i mercanti di seta bolognesi ritenevano
che il pregio dei veli prodotti a Bologna si doveva “alla qualità irripetibile
delle sete locali (oltre che alla virtù delle acque del canale di Savena dove
venivano purgate)”12 Molte importanti città manifatturiere dell’Italia
moderna avevano una propria particolare produzione, per la quale erano
note sul mercato internazionale. Giovanni Botero, autore del trattato sulle
“cause della grandezza delle città” pubblicato alla fine del secolo XVI,
sottolineava che tale specializzazione era effettivamente un attributo
fondamentale del rango urbano: “Gioverà anco assai, per tirar la gente nella
10 Persson, Pre-industrial Economic Growth, cit., pp. 9-10; S.R. Epstein, ‘Craft Guilds,
Apprenticeship, and Technological Change in Preindustrial Europe’, The Journal ofEconomic History, 58, 1998, pp. 688-693; Berengo, L’Europa delle città, cit., pp. 437-446. Assimilabili alle corporazioni urbane erano gli artigiani specializzati cheproducevano canne per armi da fuoco nel territorio bresciano (C.M. Belfanti, ‘A chainof skills: the production cycle of firearms manufacture in the Brescia area from thesixteenth to the eighteenth centuries’, in A. Guenzi, P. Massa and F. Piola Caselli(editors), Guilds, Markets and Work Regulations in Italy, 16th-19th Centuries,Aldershot, 1998, cit., pp.266-283). Va tuttavia segnalato il caso particolare di uninnovativo processo di lavorazione della canapa che si diffuse tra le famiglie dellecampagne bolognesi: A. Guenzi, La fabbrica delle tele fra città e campagna, Ancona,1987, p. 57.
11Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modern Europe’, cit., pp. 343-345.12 C. Poni, ‘Per una storia del distretto industriale serico di Bologna (secoli XVI-XIX)’,
Quaderni Storici, 25, 1990, p. 131.
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nostra città, ch’essa abbia qualche grossa mercatanzia nelle mani: il che può
essere, o per beneficio della terra dove nasce tutta, o in parte, o in
eccellenza (...). Vi è anche eccellenza d’artificio, che per qualità d’acqua, o
per sottigliezza d’abitanti, o per occolto secreto de’ medesimi, o per altra
simil cagione, riesce più in un luogo che in un altro, come l’arme in
Damasco ed in Sciras13, le tapezzerie in Arazzo14, le rascie15 in Fiorenza, i
velluti in Genova, i broccati in Milano, li scarlatti16 in Venezia”17.
Considerazioni analoghe venivano proposte un paio di secoli più tardi da
Marsilio Landriani18, che, viaggiando attraverso l’Europa per visitare le più
importanti manifatture, aveva avuto modo di constatare i progressi compiuti.
Così egli ricordava la perduta supremazia tecnica delle manifatture seriche
italiane: ”Chi evvi mai che non sappia che Venezia ha insegnato a tutta
l’Europa l’arte di fabbricare i broccati, che a Genova dobbiamo la fabbrica
de migliori velluti e l’arte perfezionata delle tinture, che Firenze e la
Toscana forniva le migliori moelle ed i lustrini, Bologna i veli, e che
Milano, oltre alle molte fabbriche di seta (…) è stata una delle città in cui le
manifatture d’oro e d’argento abbiano il più prosperato (…)?”19.
13Schiraz in Persia.14Arras.15Tessuto di lana.16Tessuti di lana di colore rosso.17G. Botero, Della ragion di stato...con tre libri delle cause della grandezza delle città, a
cura di L. Firpo, Torino, 1948, pp. 377-78.18 Sul personaggio si veda S. Escobar, ‘I viaggi di informazione di Marsilio Landriani.
Un caso di spionaggio industriale’, in A. De Maddalena, E. Rotelli, G. Barbarisi (acura di), Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa,Bologna, 1982, vol. II, pp. 533-542.
19 M. Pessina (a cura di), Relazioni di Marsilio Landriani sui progressi delle manifatturein Europa alla fine del Settecento, Milan, 1981, p. 11. Si veda anche R. Sabbatini,L’innovazione prudente, Firenze, 1996, pp.72-74.
Corporazioni e patenti 9
Queste specializzazioni produttive - alle quali spesso se ne
affiancavano anche altre20 - nascevano dalla costruzione di un’ampia rete di
competenze e di complementarità tecniche21, che, ad esempio nel settore
della seta, comprendevano naturalmente filatori, tessitori e tintori, ma anche
i falegnami che costruivano e riparavano filatoi e telai22, quanti fabbricavano
i pettini impiegati nella fase della tessitura23, nonché i disegnatori dei motivi
da riprodurre su tessuto e così via24. La supremazia acquisita in un
particolare settore produttivo veniva difesa attraverso una attenta e gelosa
custodia delle tecniche di lavorazione, la cui segretezza vincolava tutti i
membri della corporazione25. L’efficace tutela del segreto sugli aspetti
qualificanti del processo produttivo avrebbe bloccato la diffusione di tali
cognizioni tecniche e, di conseguenza, avrebbe impedito la nascita di
manifatture concorrenti. Il segreto era custodito con cura anche da quegli
artigiani specializzati - anche se non formalmente strutturati in corporazione
– che esercitavano le loro attività lontano dal luogo di residenza abituale.
Rientrano nel novero i numerosi gruppi di artigiani impegnati nel settore
20 Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modern Europe’, cit., p. 340.21N. Rosenberg, ‘Factors Affecting the Diffusion of Technology’, Explorations in
Economic History, 10, 1972, pp. 3-31 e Idem, ‘Technological Interdependence in theAmerican Economy’, Technology & Culture, 20, 1979, pp. 25-50. Si veda anchePersson, Pre-industrial Economic Growth, cit., pp. 24-31.
22 Cfr.Poni, ‘Per una storia del distretto’, cit. , pp. 138-139.23 L’importanza di questo attrezzo è sottolineata da Marsilio Landriani nella relazione
sulle manifatture di seta di Lyon, in cui analizza accuratamente i pettini in uso,giudicati “uno de’ principali articoli delle manifatture di seta” (Relazioni di MarsilioLandriani, cit., p. 28).
24 Poni, ‘Per una storia del distretto, p. 119. Si veda la puntuale analisi del processoproduttivo dei tessuti di seta delle manifatture lionesi in Relazioni di MarsilioLandriani, cit., pp. 12-33.
25 Sull’argomento si vedano i contributi di K. Davids, ‘Opennes or Secrecy? IndustrialEspionage in the Dutch Republic’, The Journal of European Economic History, 24,1995, pp. 333-349; Epstein, ‘Craft Guilds, Apprenticeship’, cit., pp. 703-704; P.O.Long, ‘Invention, secrecy, theft: meaning and context in late medieval technical
10 Corporazioni e patenti
dell’edilizia, come gli stuccatori di Como o i tagliapietra e gli scalpellini
della Toscana e del Bresciano, che andavano a lavorare laddove si aprivano
cantieri per edificare chiese e palazzi26. Aspetti simili sono ravvisabili nelle
vicende dei cosiddetti “pratici” lombardi, che venivano chiamati dai vari
stati italiani a costruire e far funzionare gli altiforni: essi riuscirono a
salvaguardare il patrimonio tecnico che detenevano, dominando la scena
fino all’inizio del XVIII secolo27. Meno noto, ma assai interessante, è il caso
dei vetrai di Altare, villaggio dell’entroterra ligure. Gli statuti della
corporazione consentivano agli artigiani di recarsi altrove a lavorare, a
condizione che essi pagassero una tassa al comune, non producessero alcuni
tipi di vetro, rientrassero in patria entro tre mesi al massimo e, naturalmente,
conservassero il segreto del mestiere28.
Complementare alla difesa del segreto era la necessità che gli artigiani
si attenessero alle consolidate procedure di lavorazione in grado di garantire
quegli standard qualitativi che, fino a quel momento, avevano decretato il
transmission’, History and Technology, 16, 1999, in corso di stampa; Sabbatini,‘L’innovazione prudente’, cit., pp. 58-60.
26 C.M. Belfanti, ‘L’economia della pietra’, in A. Porteri e C. Simoni (a cura di), Ilmarmo bresciano. Territorio, vicende, economia, Brescia, 1997, pp. 45-56. In questimestieri la distinzione tra artigiano e artista era quanto mai sottile. Si veda ad esempioP. Burke, ‘L’artista: momenti e problemi’, in Storia dell’arte italiana, Torino, 1979,vol. II, pp. 87-113.
27 Calegari, ‘Forni “alla bresciana”’, cit., pp. 95-96.28 Nel corso del secolo XVII i vetrai di Altare si sparsero per tutta l’Europa. Si vedano R.
Leboutte, ‘Le secret gyrovague: migrations de verriers dans les Pays Bas aux 16e-18esiècles’, communication presentée au XIIème Congrés International d’HistoireEconomique, Session C7 “Inventions, Innovations et Espionage: la diffusione dusavoir technique dans l’Europe Moderne”, Madrid, 24-28 Aout, 1998, e C. Maitte,‘Mobilités, migrations des spécialistes et communauté villageoise: les verriersd’Altare ( XVIe-XVIIIe siècles)’, communication presentée au colloque de laSorbonne “Mobilité du capital humain et industrialisation régionale en Europe:entrepreneurs, techniciens et main d’oeuvre specialisée (XVIe-XXe siècles), Paris, 27-28 Novembre 1998.
Corporazioni e patenti 11
successo dei loro prodotti sul mercato29. Durante i secoli dell’Età moderna le
corporazioni artigiane finirono spesso per strutturare un contesto
istituzionale tendenzialmente refrattario alle innovazioni radicali30 o, per
usare le parole di un sociologo della tecnica, un quadro di riferimento
consolidato connotato da “un’attività tecnologica ordinaria (innovazione
incrementale)”31. Il che poteva rappresentare, da un lato, un limite alla
diffusione delle tecniche e, dall’altro, un vincolo alla possibilità di introdurre
nuovi processi e prodotti32. Sappiamo però anche che i governi di quelle
stesse città in cui si erano affermate forti organizzazioni corporative erano
comunque assai attivi sul mercato internazionale delle conoscenze tecniche
ed erano sempre pronti ad accaparrarsi chiunque fosse in grado di avviare
manifatture innovative.
In effetti la stessa varietà di specializzazioni produttive che distingueva
gran parte delle più importanti città manifatturiere - alle quali si è accennato
- innescava un meccanismo di competizione che spingeva i governi urbani a
servirsi di ogni sorta di stratagemma per acquisire le competenze - i segreti!
- indispensabili per intraprendere quelle attività manifatturiere che si
29 Cfr. Poni, ‘Per una storia del distretto’, cit., pp. 139-140.30Si vedano le riflessioni di M. T Hannan and J. Freeman, ‘Structural Inertia and
Organizational Change’, American Sociological Review, 49, 1984, p. 149.31 P. Flichy, L’innovazione tecnologica, Milano, 1996, p. 173. La distinzione tra
“innovazioni strategiche” e “piccoli miglioramenti” era già stata introdotta da A. P.Usher, A History of Mechanical Inventions, Oxford, 1966. Per una messa a puntorecente cfr. Mokyr, The Lever of Riches, cit.
32Cfr., ad esempio, P. Malanima, La decadenza di un’economia cittadina. L’industria diFirenze nei secoli XVI-XVIII, Bologna, 1982, pp. 237-251; R. Berveglieri, ‘CosmoScatini e il nero di Venezia’, Quaderni Storici, 18, 1983, p. 168; P. Lanaro, ‘Scelteeconomiche e politica corporativa tra Cinque e Seicento in Terraferma Veneta’, Studistorici Luigi Simeoni, XLI, 1991, pp. 189-192. Per una discussione di questo tema conriferimento all’intera Europa occidentale si veda Epstein, ‘Craft Guilds,Apprenticeship’, cit., pp. 693-705.
12 Corporazioni e patenti
volevano sottrarre ai centri concorrenti 33. L’importanza di tale strategia è
sottolineata con forza ancora da Giovanni Botero, che sentenziava: “Deve
dunque il principe, che vuol render popolosa la sua città, introdurvi ogni
sorte d’industria e d’artificio, il che farà e col condurre artefici eccellenti da’
paesi altrui e dar loro ricapito e commodità conveniente, e col tener conto
de’ belli ingegni e stimare l’invenzione e l’opere che hanno del singolare o
del raro, e propor premi alla perfezione ed all’eccellenza”34.
Come riuscirono le città manifatturiere a conciliare le esigenze
conservative delle corporazioni con la necessità di acquisire tecniche
innovative? Si può pensare ad un assetto istituzionale che fosse in grado
tanto di governare il lento e prevedibile metabolismo tecnico del sistema
corporativo, quanto di intercettare i ritmi ben più rapidi imposti dalle
opportunità che il mercato delle innovazioni poteva offrire. In altre parole, la
vischiosità dell’organizzazione corporativa - che aveva quelle precise
finalità che si sono indicate - era bilanciata dalla facoltà delle
amministrazioni cittadine di concedere patenti, privative o brevetti35, che
33 L’importanza della competizione tecnica tra le città e gli stati è stata efficacemente
sottolineata già da E. L. Jones, The European Miracle, Cambridge, 1981, chap. III epassim. Si vedano inoltre le sempre stimolanti considerazioni di N. Rosenberg,‘Economic Experiments’, Industrial and Corporate Change, 1, 1992, pp.181-203 e, inparticolare, 186-189.
34Botero, Della ragion di stato, cit., p. 249.35Sul sistema delle patenti si vedano Christine MacLeod, Inventing the Industrial
Revolution: the English Patent System, 1660-1800 (Cambridge:CUP, 1988); PamelaO. Long, “Invention, Authorship, ‘Intellectual Property’, and the Origin of Patents:Notes toward a Conceptual History”, Technology and Culture, (1991), 32: 846-884;Christine MacLeod, “The Paradoxes of Patenting: Invention and Its Diffusion in 18th
and 19th Century Britain, France and North America”, Technology and Culture,(1991), 32: 885-910; Liliane Hilaire-Pérez, “Invention and the State in in 18th-Century France”, Technology and Culture, (1991), 32: 910-930; Eadem, ‘Technicalinvention and institutional credit in France and Britain in the 18th century’, Historyand Technology, 16, 1999, in corso di stampa; Nicolas Garcia Tapia, Patentes deinvenciòn espanolas en el Siglo de Oro (Madrid: Ministerio de Industria y Energia,1990); Marcus Popplow, “Erfindungsschutz und Maschinenbucher: Etappen der
Corporazioni e patenti 13
avevano invece lo scopo, in parte, di stimolare le innovazioni, ma,
soprattutto, di attrarre artigiani in grado di avviare nuove manifatture. Le
due sfere erano separate, ma complementari. A Venezia, che è il caso
meglio conosciuto, la concessione dei brevetti andava generalmente a
premiare artigiani o tecnici che proponevano l’introduzione di processi o
prodotti sconosciuti nella realtà locale e che, proprio per questa ragione,
raramente entravano in conflitto con le corporazioni artigiane cittadine36. I
titolari della patente, che erano tenuti a realizzare il procedimento brevettato
entro il termine di un anno37, ottenevano il privilegio esclusivo per un
periodo pluriennale, al termine del quale la nuova manifattura, se aveva
avuto successo, poteva essere collocata nell’ambito del sistema
Institutionaliserung Technischen Wandels in der Fruhen Neuzeit”, Technikgeschichte,(1996), 63: 21-46; Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modern Europe’,cit., p. 345 e Idem, ‘Patents and patentees in the Dutch Republic between c. 1580 and1720’, History and Technology, 16, 1999, in corso di stampa.
Per quanto concerne la realtà italiana vanno innanzitutto segnalati gli studi di GiulioMandich: G. Mandich, ‘Le privative industriali veneziane (1450-1550), Rivista deldiritto commerciale e del diritto generale delle obbligazioni, 24, 1936, pp. 511-547;Idem, ‘Primi riconoscimenti veneziani di un diritto di privativa agli inventori’, Rivistadi diritto industriale, 7, 1958, pp. 101-155. Studi più recenti sono quelli di M.Calegari, La Società patria delle arti e manifatture. Iniziativa imprenditorialerinnovamento tecnologico nel riformismo genovese del settecento, Firenze, 1969; R.Berveglieri, Inventori stranieri a Venezia (1474-1788). Importazione di tecnologia ecircolazione di tecnici, artigiani, inventori, Venezia, 1995; Sabbatini, L’innovazioneprudente, cit.
36 Berveglieri, Inventori stranieri, cit., pp. 23-24. Anche gli artigiani lucchesi trasferitisi aVenezia nel tardo Medioevo furono integrati nella corporazione cittadina (L. Molà,‘L’industria della seta a Lucca nel tardo Medioevo: emigrazione della manodopera ecreazione di una rete produttiva a Bologna e Venezia’, in S. Cavaciocchi (a cura di),La seta in Europa secc. XIII-XX, Firenze, Istituto Internazionale di Storia economica“F.Datini” Prato, 1993). Si veda anche G. Caligaris, ‘Trade Guilds, Manufacturingand Economic Privilege in the Kingdom of Sardinia during the Eighteenth Century’,in Guenzi, Massa, Piola Caselli, (editors), Guilds, Markets and Work Regulations inItaly, cit., p. 69.
37 Berveglieri, Inventori stranieri, cit., pp. 27-29. Per l’analogia con il sistema olandese siveda Davids, ‘Patents and patentees’, cit.
14 Corporazioni e patenti
corporativo38. In virtù di questa procedura le conoscenze relative al nuovo
processo produttivo venivano inserite nella struttura organizzativa deputata a
consolidarle e trasmetterle alle generazioni successive. Così, ad esempio,
l’artigiano che aveva introdotto la lavorazione delle calze di seta a telaio fu
premiato con un monopolio decennale, successivamente rinnovato, ma, alla
scadenza di tale privilegio, quanti avevano appreso i rudimenti del processo
produttivo furono organizzati in una corporazione istituita ad hoc39.
Analogamente il fiorentino Cosmo Scatini, che aveva ottenuto il brevetto
per un nuovo processo per la tintura della seta, chiedeva di essere
immatricolato nella corporazione dei tintori una volta scaduto il privilegio,
impegnandosi ad insegnare il procedimento agli artigiani veneziani40.
Organizzazione corporativa e sistema delle patenti svolgevano quindi
funzioni diverse in una medesima architettura istituzionale41.
Naturalmente non sempre questo sistema funzionava in maniera tale
da evitare o prevenire conflitti d’interesse fra gli attori. Gli esiti
dell’interazione tra le parti in gioco dipendeva, tra le altre cose, dai rapporti
di forza tra le corporazioni artigiane e il potere politico42, nonché dalla
determinazione con cui i governi cittadini potenziarono il sistema delle
38 Analoga procedura era adottata a Lucca (Sabbatini, L’innovazione prudente, cit., pp.
27-28).39Evoluzione simile si ebbe a Torino e a Genova: C. M. Belfanti, ‘Fashion and
Innovation: The Origins of the Italian Hosiery Industry in the Sixteenth andSeventeenth Centuries’, Textile History, 27, 1996, pp. 132-147.
40 Berveglieri, ‘Cosmo Scatini’, cit., p. 170. Anche a Lucca quanti ottenevano ilprivilegio erano tenuti ad insegnare la nuova tecnica alla manodopera locale(Sabbatini, L’innovazione prudente, p. 59).
41 Riscontri in L. Bulferetti e C. Costantini, Industria e commercio in Liguria nell’età delRsirogimento ((1700-1861), Milano, 1966, p. 85; Berveglieri, Inventori stranieri, cit.;Sabbatini, L’innovazione prudente, cit.; Caligaris, ‘Trade Guilds’, cit.; Belfanti,‘Fashion and Innovation’, cit.
42 Su questo punto si vedano Persson, Pre-industrial Economic Growth, cit., pp. 52-54;Rapp, Industria e decadenza, cit., pp.200-205; Epstein, ‘Craft Guilds,Apprenticeship’, cit., pp. 696-697.
Corporazioni e patenti 15
patenti. I casi di studio disponibili inducono comunque a ritenere che
l’introduzione di nuovi processi o prodotti creasse frequenti occasioni di
conflitto con le corporazioni mercantili piuttosto che con quelle artigiane43.
Qualche esempio. L’adozione della tecnica per tingere la seta brevettata a
Venezia all’inizio del XVIII secolo dal già citato Scatini comportava la
creazione di una tintoria centralizzata, nella quale tutti i tintori veneziani
avrebbero potuto lavorare con il nuovo procedimento. Il progetto naufragò a
causa dell’ostilità della corporazione dei mercanti di seta, i quali temevano
che in quel modo gli artigiani avrebbero potuto affrancarsi e conquistare un
posizione di forza nei confronti del ceto mercantile44. Nella seconda metà
del secolo XVII il tentativo di introdurre il knitting frame per la confezione
di calze a maglia suscitò conflitti di analoga natura a Milano e Padova. La
lavorazione a maglia con gli aghi - rispettivamente di seta e di lana - esisteva
già ed era imperniata su un diffuso putting-out system urbano in entrambe le
città, quando artigiani stranieri proposero ai governi locali di avviare la
produzione della maglieria con i telai “all’uso d’Inghilterra”. La proposta
scatenò la dura opposizione dei mercanti, consapevoli che, con
l’affermazione della nuova tecnica produttiva, si sarebbe formata una forte
organizzazione di artigiani specializzati, molto più difficile da controllare
della docile manodopera, prevalentemente femminile, a domicilio. I
43Sui rapporti tra artigiani e mercanti si vedano le recenti messe a punto di G. Borelli, ‘A
Reading of the Relationships between Cities, Manufacturing Crafts and Guilds in inEarly Modern Italy’ e A. Moioli, ‘ The Changing Role of the Guilds in theReorganisation of the Milanese Economy throughout the Sixteenth and theEighteeenth Centuries’, entrambi in Guenzi, Massa, Piola Caselli, (editors), Guilds,Markets and Work Regulations, cit., pp. 19-31 e 32-55. I conflitti tra manodopera emercanti nel settore serico sono analizzati da Poni, ‘Per una storia del distretto’, cit.,pp. 135-136 e, più in generale, P. Massa, ‘Tipologia tecnica e organizzazioneeconomica della manodopera serica in alcune esperienze italiane (secoli XIV-XVIII)’,in Cavaciocchi, La seta in Europa, cit., pp. 211-215.
44 Berveglieri, ‘Cosmo Scatini’, cit.
16 Corporazioni e patenti
mercanti di Milano e Padova agitarono davanti ai rispettivi governi cittadini
lo spauracchio delle migliaia di lavoranti che sarebbero rimasti senza lavoro
se la nuova manifattura fosse stata accolta ed ebbero la meglio45. Ancora a
Milano l’innovativa manifattura per la produzione di tele di cotone
all’indiana, che aveva ottenuto il privilegio esclusivo dal governo alla metà
del XVIII secolo, non entrò in conflitto con le pre-esistenti organizzazioni
artigiane, ma fu strenuamente avversata dalla corporazione dei
commercianti al dettaglio (merzari)46. Tuttavia è lecito presumere che
proprio l’efficiente funzionamento47 di tale assetto istituzionale “a due
velocità” fosse uno dei fattori che potevano contribuire in maniera decisiva,
unitamente al dominio di un’area commerciale che rendesse agevole
l’accesso alle materie prime ed alle informazioni, alla conquista della
posizione di supremazia tecnica da parte di una città o di una regione48.
Il sapere tecnico degli artigiani era essenzialmente “conoscenza tacita”,
cioè trasmessa dal maestro all’apprendista nella pratica quotidiana
all’interno della bottega, e come tale non poteva essere disgiunta
dall’artigiano stesso. Diversamente dalla conoscenza “codificata”, che
poteva essere diffusa in forma di ricetta o di manuale49, la “conoscenza
tacita” non poteva essere trasferita se non con l’emigrazione dell’artigiano
stesso50. Proprio l’acuirsi del conflitto fra la componente mercantile e quella
45 Belfanti, ‘Fashion and Innovation’, cit.46 E. Merlo, ‘Corporazione e manifattura privilegiata a Milano (1755-1780)’, Studi storici
Luigi Simeoni, XLI, 1991, pp. 221-232.47Cioè caratterizzato da un tollerabile livello di conflittualità tra le parti in causa.48Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modern Europe’, cit., pp. 343-346.49Anche se David Landes ci ricorda che “it takes more than recipes, blueprints, and even
personal testimony to learn industrial cuisine” (Landes, The Wealth and Poverty, p.288).
50Long, ‘Invention, secrecy, theft’, cit. Spunti interessanti anche in F. Sachwald,‘Cooperative agreements and the theory of the firm: Focusing on barriers to change’,Journal of Economic Behavior and Organization, 35, 1998, pp. 208-209.
Corporazioni e patenti 17
artigianale del sistema corporativo poteva effettivamente costituire un
fattore in grado di indurre i soggetti appartenenti a quest’ultima a trasferirsi
in un’altra città nella speranza di conquistare una migliore posizione
economica grazie alle proprie competenze51. Ovviamente anche una
congiuntura negativa era un fattore che spingeva alla fuga52: come avvenne,
ad esempio, a Mantova in occasione della carestia del 1590, quando i
mercanti lamentarono l’esodo di “molti artefici di lana et seda, che se ne
vanno in altre città et si dice per la carestia”53. Analogo comportamento era
adottato dai fabbricanti di canne di fucile del territorio bresciano, che
abbandonavano le loro case per andare alla ricerca di opportunità di lavoro
quando le commesse di armi latitavano54. In situazioni come quelle descritte,
ma altre ancora se ne potrebbero individuare, gli artigiani, depositari del
sapere tecnico, si sentivano legittimati a rompere il patto di solidarietà che
era alla base dell’associazione corporativa: essi si sentivano cioè autorizzati
a “tradire” il gruppo sociale a cui appartenevano, e dal quale avevano
appreso il mestiere, nonché lo stato, trasferendo altrove le proprie
conoscenze. Naturalmente le corporazioni e lo stato non concedevano affatto
tale legittimazione e gli artigiani che fuggivano all’estero erano ritenuti
esattamente dei traditori e perseguiti come tali55. Esemplare in proposito è la
vicenda del bolognese Ugolino Menzani, che fu condannato a morte in
contumacia all’inizio del XVII secolo per aver esportato a Venezia
attrezzature per la filatura della seta: l’immagine che lo ritraeva impiccato
51Cfr. F. Giusberti, Impresa e avventura. L’industria del velo di seta a Bologna nel XVIII
secolo, Milano, 1989, pp. 20-21.52Cipolla, ‘The Diffusion of Innovations’,cit.53C.M. Belfanti, ‘Una città e la carestia: Mantova 1590-1592’, Annali della Fondazione
Luigi Einaudi, 16, 1982, p. 140.54 Belfanti, ‘A chain of skills’, cit., pp.266-283.55Giusberti, Impresa e avventura, cit., pp. 11-66. Si veda anche Preto, I servizi segreti,
cit., pp. 382-417.
18 Corporazioni e patenti
per i piedi rimase pubblicamente esposta nella città di Bologna per oltre un
secolo56.
In teoria si potrebbe presumere che il trasferimento di conoscenze
avesse origine da centri che avevano conseguito un livello di maturità
tecnica in un determinato settore produttivo - il che poteva contribuire ad
accentuare la conflittualità laddove si era toccato il limite dei rendimenti
decrescenti nel settore stesso - per indirizzarsi verso località meno evolute
dal punto di vista delle conoscenze. Tuttavia, la ricostruzione di alcuni casi
empirici sembra dimostrare che alcuni fattori intervenivano a distorcere o a
inibire la potenziale forza di attrazione esercitata dai centri di livello tecnico
meno evoluto. I numerosi tentativi messi in atto nella prima metà del XVIII
secolo per esportare da Bologna la tecnica della filatura della seta e della
tessitura dei veli, ad esempio, mettono in luce che i protagonisti della
vicenda non avviarono contatti con città dove l’industria della seta non
esisteva o era semplicemente agli esordi, ma si interessarono piuttosto a
centri che vantavano una solida tradizione nel settore, come Venezia e
Zurigo57. In maniera del tutto simile si comportarono gli artigiani emigrati
dall'Inghilterra con il segreto del telaio da calze, che si rivolsero ai governi
delle più importanti città della seta europee58. Se ne potrebbe dedurre che i
trasferimenti di conoscenze tecniche avvenissero preferibilmente tra centri
che non presentavano sensibili divari di maturità tecnica nello stesso settore.
In effetti una particolare specializzazione produttiva, per esempio
nell’ambito della seta, poteva essere trasferita con minori difficoltà laddove
esisteva già un radicata tradizione manifatturiera nel settore, caratterizzata 56C. Poni, ‘Archéologie de la fabrique: la diffusione des moulins à soie “alla bolognese
dans les Etats Vénitiens du XVI au XVIII siècles’, Annales E.S.C., XXVII, 1972, p.1480; Giusberti, Impresa e avventura, cit., p. 19.
57Giusberti, Impresa e avventura, cit., pp. 11-66.
Corporazioni e patenti 19
perciò da consolidate competenze tecniche, da agevole accesso al mercato
della materia prima, oltre che dalla conoscenza dei mercati di sbocco e da
una rete distributiva per accedervi. In altre parole, un trasferimento di
conoscenze tecniche avrebbe avuto maggiori possibilità di successo in un
contesto tale da offrire i vantaggi di quello che è stato chiamato “rendimento
crescente da adozione”59. Ben più complesso, e dispendioso in termini di
costi di transazione, si profilava il trasferimento delle conoscenze relative ad
un processo produttivo in un contesto che fosse assolutamente privo di
esperienza nel campo60. Naturalmente queste considerazioni si applicano
soprattutto ai settori connotati da un avanzato livello tecnico, in cui maggiori
erano le barriere all’entrata. Così, ad esempio, per esportare la tecnica della
filatura “alla bolognese” non era sufficiente che fosse disposto ad emigrare
un esperto filatore, ma era anche necessaria la competenza di un falegname
specializzato nella costruzione e nella manutenzione dei filatoi, di un
artigiano capace di fabbricare i rocchetti e così via61. Una risposta a questa
esigenza era probabilmente data dal fenomeno, frequente già nel tardo
Medioevo, del trasferimento di interi gruppi di artigiani specializzati,
58Belfanti, ‘Fashion and Innovation’, cit.59 Flichy, L’innovazione tecnologica, cit., pp.154-159; B. Arthur, ‘Competing
Technologies: an Overview’, in G. Dosi et alii (editors), Technical Change andEconomic Theory, London, 1988, p. 590; D. Foray, ‘Choix des techniques,rendements croissants et processus historique’, in J. Prades (editor), La technoscience.Les fractures du discours, Paris, 1992, p. 66.
60Sul tema si vedano anche G.S. Becker and K.M. Murphy, ‘The Division of Labor,Coordinations Costs, and Knowledge’, Quarterly Journal of Economics, CVII, 1992,pp. 1137-1160; A. Arrighetti and G. Seravalli, Istituzioni e costi di coordinamento,Istituto di scienze economiche, Università di Parma, WP 6/1999. Alcuni casi difallimento sono documentati da S. Ciriacono, ‘La manodopera italiana e il mercatoserico germanico (secoli XVI-XVIII)’, in Cavaciocchi (editor), La seta in Europa, cit.,pp. 375-386; G. Chicco, La seta in Piemonte 1650-1800, Milano, 1995, pp. 80-91,287-88, 293-94; Sabbatini, ‘L’innovazione prudente’, cit., pp. 51-54.
61Si vedano Poni, ‘Per la storia del distretto’, cit., p. 138; Giusberti, Impresa e avventura,cit., pp. 16-20.
20 Corporazioni e patenti
organizzato da mercanti o governi cittadini62. In effetti, lo spostamento di
forza lavoro, sia solitario che in gruppo, era quasi sempre preparato sulla
scorta di informazioni raccolte presso mercanti, altri artigiani o
intermediari63: tale preparazione doveva essere particolarmente accurata per
quanto concerne l’imballaggio e il trasferimento delle attrezzature
tecniche64. In qualche occasione poi l’emigrazione di manodopera
specializzata era determinata da particolari condizioni, in virtù delle quali gli
emigrati potevano mantenere con la madrepatria i contatti necessari per
accedere alle informazioni tecniche e ai mercati. Le turbolenze politiche del
XIV secolo indussero molti artigiani serici ad abbandonare Lucca per
trasferirsi a Bologna, Firenze e Venezia, ma, una volta ristabilita la pace, i
lucchesi fuoriusciti riallacciarono con la città d’origine stretti legami e
divennero poli produttivi di uno stesso network, che condivideva mercati e
know-how65.
Tuttavia, nella maggioranza dei casi l’emigrazione di manodopera
specializzata comportava l’interruzione delle relazioni con la madrepatria e
il buon esito delle attività intraprese dagli artigiani fuggiaschi in larga
misura dipendeva, come s’è già accennato, dalla possibilità di disporre di
tutta una serie di competenze tecniche complementari, nonché di accedere a
materie prime e semilavorati66. Il problema era ben chiaro ai protagonisti,
62 M. Fennell Mazzoui, ‘Artisan migration and technology in the Italian textile industry
in the late Middle Ages (1100-1500)’, in R. Comba, G. Piccinni, G. Pinto (a cura di),Strutture familiari, epidemie, migrazioni nell’Italia medievale, Napoli, 1984, pp. 522-25.
63 Fennell Mazzoui, ‘Artisan migration’, p. 523; D. Jacoby, ‘The Migration of Merchantsand Craftsmen: a Mediterranean Perspective (12th-15th Century)’, in S. Cavaciocchi (acura di), Le migrazioni in Europa secc. XIII-XVIII, Firenze, Istituto Internazionale diStoria economica “F.Datini” Prato, 1994, p. 553.
64 Giusberti, Impresa e avventura, cit., pp. 25-27.65 Molà, ‘L’industria della seta’, cit., pp. 435-444.66 Cfr. ad esempio Jacoby, ‘The Migration of Merchants and Craftsmen’, cit., p. 554.
Corporazioni e patenti 21
come testimonia efficacemente la vicenda dei vetrai veneziani specializzati
nella fabbricazione delle perle, che espatriarono in gran numero nel corso
del XVIII secolo e avviarono manifatture in molte località italiane e
straniere. Tale esodo fu duramente combattuto, con alterno successo, dalle
autorità della Serenissima67, che, nel corso delle numerose inchieste
giudiziarie, scoprirono l’esistenza di un vasto commercio clandestino dei
semilavorati necessari alla fabbricazione delle perle tra Venezia e i centri
dove erano sorte le manifatture create dagli artigiani transfughi68. Una
vicenda simile venne alla luce durante un processo bolognese contro un
gruppo di persone che avevano tentato di esportare la tecnica per produrre i
veli. Dalle deposizioni si apprende che un mercante aveva trasferito a
Firenze il segreto dei veli crespi alla bolognese già da una ventina d’anni,
ma continuava ad intrattenere relazioni con la città d’origine per rifornirsi di
materia prima e di know-how69. L’emigrazione di manodopera specializzata
da un centro all’altro sembra perciò attivare vie di comunicazione, lungo le
quali merci e informazioni scorrono, in forma più o meno legale, nonostante
vincoli e divieti. Non si può comunque escludere a priori che le realtà
sprovviste di un intero ciclo produttivo non potessero beneficiare di
trasferimenti dei saperi tecnici necessari per avviare una nuova manifattura:
proprio a questo scopo quegli stati mercantilisti che, facendo arrivare
dall’estero artigiani specializzati, si preoccupavano di agevolare gli esordi
delle neonate industrie con esenzioni e privilegi in materia fiscale e
commerciale, tali da compensare, almeno in parte, il gap iniziale con i
concorrenti già affermati.
67 Preto, I servizi segreti, cit., pp. 403-42168 B. Bettoni, La manifattura veneziana delle perle di vetro nel XVIII secolo, tesi di
laurea, Università di Brescia, 1997/98, Rel. C.M. Belfanti.69 Giusberti, Impresa e avventura, cit., pp. 21-22.
22 Corporazioni e patenti
Tra XVI e XVIII secolo la diaspora degli artigiani dai vari centri
manifatturieri andò senza dubbio aumentando70 e di pari passo si diffuse il
know-how dei vari settori, ad un punto tale che verso la fine del XVIII
secolo, come osservava Marsilio Landriani nel brano citato71, le città italiane
avevano perso l’antico primato nell’ambito della seta, mentre quei tessuti
che un tempo erano la loro specialità, ora si producevano anche altrove in
Europa. Un sedicente mercante olandese, autore di in pamphlet pubblicato a
Bologna nel 1771, sentenziava che le manifatture “a’ tempi nostri non sono
più un arcano”72. Gli faceva eco nello stesso anno l’anonimo estensore di un
memoriale sull’industria della seta, in cui si argomentava che nessun centro
manifatturiero era riuscito a conservare l’esclusiva di una specializzazione
produttiva per più di uno o due secoli senza che ne venisse carpito il segreto
“o per tradimento dei suoi o per industria degli esteri” e si affermava,
inoltre, che “il mondo ora si pasce più che in ogni altro tempo di novità e di
apparenza”73. Sembrerebbe di capire che le manifatture tradizionali non
avevano più molti segreti da nascondere74: alla mobilità degli artigiani si era
infatti aggiunta la pubblicazione dei testi e delle planches dell’Encyclopédie,
che avevano contribuito a “codificare” quella conoscenza “tacita” a lungo
conservata nelle botteghe75. Il richiamo dell’anonimo bolognese alla
70 Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modern Europe’, cit., p. 341.71 Cfr. supra n. 17.72 Poni, ‘Per una storia del distretto’, cit., p. 108.73 Poni, ‘Per una storia del distretto’, cit., p. 129.74 La conseguenza di questa percezione è probabilmente ravvisabile anche nella minore
attenzione dedicata alla regolamentazione tecnica negli statuti delle corporazioni piùrecenti: cfr. G. De Luca, ‘Mercanti imprenditori, élite artigiane e organizzazioniproduttive: la definizione del sistema corporativo milanese (1568-1627)’, in A.Guenzi, P. Massa, A. Moioli (a cura di), Corporazioni e gruppi professionalinell’Italia moderna, Milano, 1998, pp. 85-86.
75Nella seconda metà del XVIII secolo la tecnica fu oggetto di importanti iniziativeeditoriali. Si vedano, tra gli altri, M. Infelise, L’editoria veneziana nel ‘700, Milano,1989, pp. e D. Baggiani, ‘Tecnologia e riforme nella Toscana di Pietro Leopoldo: la
Corporazioni e patenti 23
passione della società contemporanea per “novità” e “apparenza” è forse da
interpretare come il segno di un crescente interesse per le innovazioni di
prodotto76?
Non è agevole riuscire ad individuare casi di attività manifatturiere che
fondarono il proprio successo sull’invenzione di un prodotto, senza che la
tradizionale tecnica produttiva del settore fosse radicalmente modificata. Un
esempio potrebbe essere quello delle calze a maglia prima dell’invenzione
del knitting frame di Lee77. La produzione di minuterie degli artigiani vetrari
veneziani – perleri e margariteri -, che fabbricavano una grande varietà di
perle e grani di vetro, era caratterizzata da una grande abilità nel cambiare le
tipologie dei prodotti78 Potrebbero in qualche misura essere avvicinate alle
innovazioni di prodotto le annuali variazioni dei disegni sui tessuti di seta
confezionati a Lyon nel secolo XVIII79. Si può supporre che i nuovi prodotti
si diffondessero attraverso l’Europa come le conoscenze tecniche: con
rapidità se il nuovo manufatto poteva essere imitato con relativa facilità,
traduzione del “The advancement of arts, manufactures and commerce” di WilliamBailey’, Rivista storica italiana, CV, 1993, pp. 515-554.
76Su questo tema spunti in Davids, ‘Shifts of technolgical leadership in early modernEurope’, cit., p. 342. Ovviamente la questione è strettamente correlata aicomportamenti dei consumatori, argomento molto ampio che esula dalla presentetrattazione: si vedano i saggi e la bibliografia contenuti in J. Brewer and R. Porter(editors), Consumption and the World of Goods, London and New York, 1993 e inA.J. Schuurman and L. S. Walsh (editors), Material culture: consumption, life-style,standard of living, 1500-1900, Milan, Proceedings Eleventh International EconomicHistory Congress, 1994; D. Roche, Histoire des choses banales. Naissance de laconsommation dans les sociétés traditionnelles (XVIIe-XVIIIe siècles), Paris, 1997.Sull’Italia si vedano P. Malanima, Il lusso dei contadini. Consumi e industrie nellecampagne toscane del Sei e Settecento, Bologna, 1990; Guenzi, La fabbrica delle tele,cit. e Idem, ‘The Hatmakers’ Guild in Bologna in the Early Modern Era’, in Guenzi,Massa, Piola Caselli (editors), Guilds, Market and Work Regulations, cit., pp. 284-299.
77Belfanti, ‘Fashion and Innovation’, cit.78 Si veda L. Zecchin, Vetro e Vetrai di Murano, Venezia, 1987-1990, voll. 3, passim.
24 Corporazioni e patenti
come avvenne nel caso delle calze a maglia, con maggiore difficoltà laddove
era la creatività dell’artigiano a conferire il carattere di novità alla
produzione, come nel caso delle perle veneziane o dei tessuti di seta di
Lyon. E’ interessante notare come le strategie adottate per acquisire le
novità che riguardavano i prodotti fossero sostanzialmente le stesse
utilizzate da secoli per carpire i segreti delle manifatture. Nel tentativo di
risollevare le sorti dell’industria serica veneziana, che subiva la concorrenza
di quella lionese, l’ambasciatore della Serenissima in Francia fu incaricato
di ingaggiare un disegnatore di tessuti che insegnasse ai tessitori di Venezia
il “segreto” della superiorità delle fantasie delle stoffe di seta di Lyon. Ma
l’ambasciatore riferiva che quella strategia, tante volte adottata per reclutare
artigiani in grado di portare a Venezia nuove conoscenze tecniche, non
avrebbe funzionato, poiché “la residenza di Lione, la gara di tante fabbriche,
l’esercizio incessante, la vista degli altrui ritrovati, la necessità di inventare
altrimenti non si smaltisce: tutto concorre in quel luogo a spronare e sforzare
gl’ingegni e la volontà in modo particolare e forse unico talmente che quello
stesso disegnatore non suol più fare una eguale riuscita non che trasportato
dovunque, ma ancora in Parigi”80.
79C. Poni, ‘Fashion as flexible production: the strategies of the Lyon silk merchants in the
eighteenth century’, in Ch. F. Sabel and J. Zeitlin editors, World of Possibilities,Cambridge, 1997, pp. 37-74.
80Archivio di Stato di Venezia, V Savi, Diversorum, b. 388, n. 45, 28 Aprile 1777.Le stesse valutazioni vennero espresse da Marsilio Landriani, che sciveva: ”Il commercio
delle stoffe lionesi non solo è sostenuto dal loro buon mercato, dalla perfezione nellaesecuzione, dal prestigio delle mode, ma eziandio dall’eleganza e dalla vivacità deidisegni, e dai ricami per cui le stoffe acquistano un pregio considerevole sopra tutte lealtre dell’Europa. In questa parte non vi è alcuna nazione o città che possa gareggiaree andar di pari con Lione. Il gran numero dei disegnatori che ivi si trovano, e che amisura della loro superiorità, de’ talenti acquistano una maggiore fortuna, eccita unaemulazione ed una concorrenza che promove l’arte del disegno ed una perfezionesorprendente. Ogni anno il valente disegnatore fa un viaggio a Parigi per istudiare,nell’infinita varietà delle mode e del capriccio degli eleganti di Parigi, quel colore,
Corporazioni e patenti 25
Durante i secoli XVI –XVIII i centri manifatturieri dell’Italia settentrionale
agirono come poli catalizzatori - ora attraendo, ora espellendo artigiani – di
frequenti e diffusi spostamenti di manodopera specializzata, che
rappresentarono un potente motore di propagazione delle conoscenze
tecniche. Queste migrazioni di artigiani non furono mobilitate, come in altri
paesi europei, da persecuzioni religiose o da forme istituzionalizzate di
lavoro itinerante, quanto dalla concorrenza tra le economie cittadine, da un
lato, e dall’assetto istituzionale che regolava l’attività manifatturiera urbana,
dall’altro. Le organizzazioni corporative avevano elaborato, consolidato e
trasmesso quel patrimonio di conoscenze che aveva consentito a molti centri
urbani di conseguire livelli di eccellenza in alcuni settori produttivi. Proprio
la varietà di specializzazioni che caratterizzava e distingueva una città
dall’altra contribuiva, unitamente alla marcata frammentazione politica, ad
innescare la competizione per strappare al concorrente “il segreto” tecnico
alla base della supremazia in un particolare settore. Era questo lo scopo
fondamentale della legislazione in materia di brevetti introdotta in molti stati
a partire dal XV secolo81: tale normativa offriva una serie di vantaggi e
agevolazioni a quanti disponevano delle competenze necessarie ad avviare
una nuova manifattura. L’acquisizione del “segreto” di un processo
produttivo, infatti, passava necessariamente attraverso il trasferimento di un
artigiano, il solo in grado di applicare e trasmettere i contenuti di un sapere
tecnico prevalentemente non codificato, quanto, piuttosto, “tacito” e
quell’ornato, quella bizzarria o pensiero che possa dare una novità ed un brio a’ suoidisegni” (Relazioni di Marsilio Landriani, cit., pp. 30-31).
81 Coglie nel segno Pam Long, quando scrive: “The role of the patent in the process ofthe transmission of craft knowledge, I would argue, is at least as important as its rolein encouraging innovation and invention” (Long, ‘Invention, secrecy, theft’, cit.).
26 Corporazioni e patenti
“pratico”: una sorta di “scatola nera”82 dell’economia preindustriale. Le
migrazioni della manodopera specializzata creavano spesso effetti sinergici,
attivando flussi di merci e attrezzature tecniche tra il luogo d’origine e il
nuovo insediamento. Corporazioni e patenti formavano un binomio
istituzionale volto a combinare la fondamentale funzione di gestione e
trasmissione del know-how consolidato con l’indispensabile adozione di
nuove tecniche produttive senza incorrere in elevati rischi di conflitto tra gli
attori. Nella seconda parte dl XVIII secolo la crescente diffusione di forme
“codificate” di know-how, ma, soprattutto, l’ampia diffusione delle
conoscenze, resa possibile dall’efficace funzionamento del sistema descritto,
sembrano aver ormai svelato ogni segreto delle manifatture tradizionali e la
competizione parrebbe spostarsi sul piano della varietà dei prodotti83, che,
come ha scritto Marsilio Landriani, dovevano seguire le mode del momento:
“La moda non esige una correzione del disegno, ma piuttosto un’infinita
capricciosa varietà, un felice ritrovato analogo alle combinazioni e
circostanze del momento e perfino un’apparente solidità. E difatti a che
servirebbe una reale solidità se l’instabilità della moda condanna oggi, come
assurdo, ciò che ieri proponeva come eccellente?”84.
82 Naturalmente mutuo da N. Rosenberg, Inside the Black Box: Technology and
Economics, Cambridge, 1982.83 Si pensi ai “populuxe goods” studiati da C. Fairchilds, ‘The production and marketing
of populuxe goods in eighteenth century Paris’, in Brewer and Porter (editors),Consumption and the World of Goods, cit., pp. 228-248.
84 Relazioni di Marsilio Landriani, cit., p. 15.