luigi pirandello - antologia

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Antologia Op. Grande biblioteca della letteratura italiana ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli Luigi Pirandello

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Antologia

Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello

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Edizioni di riferimentoG. Bicci - M. Romanelli, Letteratura italiana, 8/Il Novecento, Firenze, G.D’Anna

DesignGraphiti, Firenze

ImpaginazioneThèsis, Firenze-Milano

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3Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Antologia

Sommario

“Comico” e “umoristico” .................................... 5

Le novelleLa giara .......................................................... 7Una giornata ................................................ 16La rallegrata ................................................. 23

L’uomo solo ................................................ 28Il treno ha fischiato... ................................... 35Volare .......................................................... 41La veste lunga .............................................. 50

Il fu Mattia Pascal ............................................. 61Premessa (Capitolo I) .................................. 61Premessa seconda (filosofica)a mo’ di scusa (Capitolo II) .......................... 63La casa e la talpa (Capitolo III) ..................... 66Il ritorno di Mattia (Capitolo XVIII) ........... 74

Quaderni di Serafino Gubbio operatore ............ 77Civiltà delle macchine (I, capitoli I e II)....... 77

Uno, nessuno e centomila ................................. 82Mia moglie e il mio naso (I, capitolo I) ........ 82E il vostro naso? (I, capitolo II) ................... 85Bel modo d’esser soli! (I, capitolo III) ......... 88Fuga da se stesso (I, capitolo IV) .................. 90

Lumie di Sicilia (commedia in un atto) ............. 93

Il dovere del medico (un atto) ......................... 112

L’altro figlio ................................................... 127

L’uomo dal fiore in bocca ............................... 143

Sei personaggi in cerca di autore ...................... 152I “personaggi” si presentano al capocomico .152

La patente ...................................................... 157

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Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandelo Antologia

Comico e umoristico

Vediamo dunque, senz’altro, qual è il processo da cui risulta quellaparticolar rappresentazione che si suol chiamare umoristica: se questa ha pe-culiari caratteri che la distinguono, e da che derivano: se vi è un particolarmodo di considerare il mondo, che costituisce appunto la materia e la ragio-ne dell’umorismo.

Ordinariamente, – ho già detto altrove, e qui m’è forza ripetere – l’operad’arte è creata dal libero movimento della vita interiore che organa le idee e leimmagini in una forma armoniosa, di cui tutti gli elementi han corrispon-denza tra loro e con l’idea– madre che le coordina. La riflessione, durante laconcezione, come durante l’esecuzione dell’opera d’arte, non resta certamen-te inattiva: assiste al nascere e al crescere dell’opera, ne segue le fasi progressivee ne gode, raccosta i varii elementi, li coordina, li compara. La coscienza nonrischiara tutto lo spirito; segnatamente per l’artista essa non è un lume distin-to dal pensiero, che permetta alla volontà di attingere in lei come in untesoro d’immagini e d’idee. La coscienza, in somma, non è una potenzacreatrice, ma lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira; si può dire anzich’essa sia il pensiero che vede sé stesso, assistendo a quello che esso fa spon-taneamente. E, d’ordinario, nell’artista, nel momento della concezione, lariflessione si nasconde, resta, per così dire, invisibile: è, quasi, per l’artista unaforma del sentimento. Man mano che l’opera si fa, essa la critica, non fred-damente, come farebbe un giudice spassionato, analizzandola; ma d’un trat-to, mercé l’impressione che ne riceve.

Questo, ordinariamente. Vediamo adesso se, per la natural disposizioned’animo di quegli scrittori che si chiamano umoristi e per il particolar modoche essi hanno di intuire e di considerar gli uomini e la vita, questo stessoprocedimento avviene nella concezione delle loro opere, se cioè la riflessionevi tenga la parte che abbiamo or ora descritto, o non vi assuma piuttosto unaspeciale attività.

Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, lariflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè una forma delsentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si poneinnanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene: ne scompone l’immagine;da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge ospira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento delcontrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qualeorribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giova-

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nili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciòche una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giuntae superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è ap-punto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessio-ne, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacerea pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltantoperché pietosamente s’inganna che, parata così, nascondendo così le rughe ela canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei,ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione,lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piut-tosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fattopassare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra ilcomico e l’umoristico.

Da: Luigi Pirandello, L’umorismo, parte seconda, a cura di A. Ghidetti, Giunti, Firenze,1994

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Luigi Pirandello Le novelle

La giara

La giara

Piena anche per gli olivi quell’annata. Piante massaje, cariche l’anno avanti,avevano raffermato tutte, a dispetto della nebbia che le aveva oppresse sulfiorire.

Lo Zirafa, che ne aveva un bel giro nel suo podere delle Quote aPrimosole, prevedendo che le cinque giare vecchie di coccio smaltato cheaveva in cantina non sarebbero bastate a contener tutto l’olio della nuovaraccolta, ne aveva ordinata a tempo una sesta più capace a Santo Stefano diCamastra, dove si fabbricavano: alta a petto d’uomo, bella panciuta e mae-stosa, che fosse delle altre cinque la badessa.

Neanche a dirlo, aveva litigato anche col fornaciajo di là per questa giara.E con chi non l’attaccava Don Lollò Zirafa? Per ogni nonnulla, anche peruna pietruzza caduta dal murello di cinta, anche per una festuca di paglia,gridava che gli sellassero la mula per correre in città a fare gli atti. Così, a furiadi carta bollata e d’onorarii agli avvocati, citando questo, citando quello epagando sempre le spese per tutti, s’era mezzo rovinato.

Dicevano che il suo consulente legale, stanco di vederselo comparire da-vanti due o tre volte la settimana, per levarselo di torno, gli aveva regalato unlibricino come quelli da messa: il codice, perché ci si scapasse a cercare da sé ilfondamento giuridico alle liti che voleva intentare.

Prima, tutti coloro con cui aveva da dire, per prenderlo in giro gli grida-vano: – Sellate la mula! – Ora, invece: – Consultate il calepino! –

E Don Lollò rispondeva:– Sicuro, e vi fulmino tutti, figli d’un cane!Quella bella giara nuova, pagata quattr’onze ballanti e sonanti, in

attesa del posto da trovarle in cantina, fu allogata provvisoriamente nelpalmento. Una giara così non s’era mai veduta. Allogata in quell’antrointanfato di mosto e di quell’odore acre e crudo che cova nei luoghisenz’aria e senza luce, faceva pena.

Da due giorni era cominciata l’abbacchiatura delle olive, e Don Lollò erasu tutte le furie perché, tra gli abbacchiatori e i mulattieri venuti con le mulecariche di concime da depositare a mucchi su la costa per la favata della nuo-va stagione, non sapeva più come spartirsi, a chi badar prima. E bestemmiavacome un turco e minacciava di fulminare questi e quelli, se un’oliva, chefosse un’oliva, gli fosse mancata, quasi le avesse prima contate tutte a una auna sugli alberi; o se non fosse ogni mucchio di concime della stessa misura

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Luigi Pirandello Le novelle

degli altri. Col cappellaccio bianco, in maniche di camicia, spettorato, affocatoin volto e tutto sgocciolante di sudore, correva di qua e di là, girando gliocchi lupigni e stropicciandosi con rabbia le guance rase, su cui la barba pre-potente rispuntava quasi sotto la raschiatura del rasojo.

Ora, alla fine della terza giornata, tre dei contadini che avevano abbac-chiato, entrando nel palmento per deporvi le scale e le canne, restarono allavista della bella giara nuova, spaccata in due, come se qualcuno, con un taglionetto, prendendo tutta l’ampiezza della pancia, ne avesse staccato tutto illembo davanti.

– Guardate! guardate!– Chi sarà stato?– Oh, mamma mia! E chi lo sente ora Don Lollò? La giara nuova,

peccato!Il primo, più spaurito di tutti, propose di raccostar subito la porta e

andare via zitti zitti, lasciando fuori, appoggiate al muro, le scale e le canne.Ma il secondo:– Siete pazzi? Con don Lollò? Sarebbe capace di credere che gliel’abbia-

mo rotta noi. Fermi qua tutti!Uscì davanti al palmento e, facendosi portavoce delle mani, chiamò:– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!Eccolo là sotto la costa con gli scaricatori del concime: gesticolava al

solito furiosamente, dandosi di tratto in tratto con ambo le mani una rincalcataal cappellaccio bianco. Arrivava talvolta, a forza di quelle rincalcate, a nonpoterselo più strappare dalla nuca e dalla fronte. Già nel cielo si spegnevanogli ultimi fuochi del crepuscolo, e tra la pace che scendeva su la campagnacon le ombre della sera e la dolce frescura, avventavano i gesti di quell’uomosempre infuriato.

– Don Lollò! Ah, Don Lollòoo!Quando venne su e vide lo scempio, parve volesse impazzire. Si sca-

gliò prima contro quei tre; ne afferrò uno per la gola e lo impiccò almuro gridando:

– Sangue della Madonna, me la pagherete!Afferrato a sua volta dagli altri due, stravolti nelle facce terrigne e bestia-

li, rivolse contro se stesso la rabbia furibonda, sbatacchiò a terra il cappellaccio,si percosse le guance, pestando i piedi e sbraitando a modo di quelli chepiangono un parente morto:

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Luigi Pirandello Le novelle

– La giara nuova! Quattr’onze di giara! Non incignata ancora!Voleva sapere chi gliel’avesse rotta! Possibile che si fosse rotta da sé? Qual-

cuno per forza doveva averla rotta, per infamità o per invidia! Ma quando?Ma come? Non gli si vedeva segno di violenza! Che fosse arrivata rotta dallafabbrica? Ma che! Sonava come una campana!

Appena i contadini videro che la prima furia gli era caduta, cominciaro-no ad esortarlo a calmarsi. La giara si poteva sanare. Non era poi rotta mala-mente. Un pezzo solo. Un bravo conciabrocche l’avrebbe rimessa su, nuova.C’era giusto Zi’ Dima Licasi, che aveva scoperto un mastice miracoloso, dicui serbava gelosamente il segreto: un mastice, che neanche il martello cipoteva, quando aveva fatto presa. Ecco, se don Lollò voleva, domani, allapunta dell’alba, Zi’ Dima Licasi sarebbe venuto lì e, in quattro e quattr’otto,la giara, meglio di prima.

Don Lollò diceva di no, a quelle esortazioni: ch’era tutto inutile; chenon c’era più rimedio; ma alla fine si lasciò persuadere, e il giorno appresso,all’alba, puntuale, si presentò a Primosole Zi’ Dima Licasi con la cesta degliattrezzi dietro le spalle.

Era un vecchio sbilenco, dalle giunture storpie e nodose, come un ceppoantico di olivo saraceno. Per cavargli una parola di bocca ci voleva l’uncino.Mutria o tristezza radicate in quel suo corpo deforme; o anche sconfidenzache nessuno potesse capire e apprezzare giustamente il suo merito d’invento-re non ancora patentato.

Voleva che parlassero i fatti, Zi’ Dima Licasi. Doveva poi guardarsi da-vanti e dietro, perché non gli rubassero il segreto.

– Fatemi vedere codesto mastice – gli disse per prima cosa Don Lollò,dopo averlo squadrato a lungo con diffidenza.

Zi’ Dima negò col capo, pieno di dignità.– All’opera si vede.– Ma verrà bene?Zi’ Dima posò a terra la cesta; ne cavò un grosso fazzoletto di cotone

rosso, logoro e tutto avvoltolato; prese a svolgerlo pian piano, tra l’attenzio-ne e la curiosità di tutti, e quando alla fine venne fuori un pajo d’occhiali colsellino e le stanghette rotte e legate con lo spago, lui sospirò e gli altri risero.Zi’ Dima non se ne curò; si pulì le dita prima di pigliare gli occhiali; se liinforcò; poi si mise a esaminare con molta gravità la giara tratta sull’aja.Disse:

– Verrà bene.

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Luigi Pirandello Le novelle

– Col mastice solo però – mise per patto lo Zirafa – non mi fido. Civoglio anche i punti.

– Me ne vado – rispose senz’altro Zi’ Dima, rizzandosi e rimettendosi lacesta dietro le spalle.

Don Lollò lo acchiappò per un braccio.– Dove? Messere e porco, così trattate? Ma guarda un po’ che arie da

Carlomagno! Scannato miserabile e pezzo d’asino, ci devo metter olio, io, làdentro, e l’olio trasuda! Un miglio di spaccatura, col mastice solo? Ci voglioi punti. Mastice e punti. Comando io.

Zi’ Dima chiuse gli occhi, strinse le labbra e scosse il capo. Tutti così! Gliera negato il piacere di fare un lavoro pulito, filato coscienziosamente a rego-la d’arte, e di dare una prova della virtù del suo mastice.

– Se la giara – disse – non suona di nuovo come una campana...– Non sento niente, – lo interruppe Don Lollò. – I punti! Pago mastice

e punti. Quanto vi debbo dare?– Se col mastice solo...– Càzzica che testa! – esclamò lo Zirafa. – Come parlo? V’ho detto che

ci voglio i punti. C’intenderemo a lavoro finito: non ho tempo da perderecon voi.

E se ne andò a badare ai suoi uomini.Zi’ Dima si mise all’opera gonfio d’ira e di dispetto. E l’ira e il dispetto

gli crebbero ad ogni foro che praticava col trapano nella giara e nel lembospaccato per farvi passare il fil di ferro della cucitura. Accompagnava il frullodella saettella con grugniti a mano a mano più frequenti e più forti; e il visogli diventava più verde dalla bile e gli occhi più aguzzi e accesi di stizza. Finitaquella prima operazione, scagliò con rabbia il trapano nella cesta; applicò illembo staccato alla giara per provare se i fori erano a egual distanza e incorrispondenza tra loro, poi con le tenaglie fece del fil di ferro tanti pezzettiquanti erano i punti che doveva dare, e chiamò per ajuto uno dei contadiniche abbacchiavano.

– Coraggio, Zi’ Dima! – gli disse quello, vedendogli la faccia alterata.Zi’ Dima alzò la mano a un gesto rabbioso. Aprì la scatola di latta che

conteneva il mastice, e lo levò al cielo, scotendolo, come per offrirlo a Dio,visto che gli uomini non volevano riconoscerne le virtù: poi col dito comin-ciò a spalmarlo tutt’in giro al lembo staccato e lungo la spaccatura; prese letenaglie e i pezzetti di fil di ferro preparati avanti, e si cacciò dentro la pancia

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Luigi Pirandello Le novelle

aperta della giara, ordinando al contadino di applicare il lembo alla giara, cosìcome aveva fatto lui poc’anzi. Prima di cominciare a dare i punti:

– Tira! – disse dall’interno della giara al contadino. – Tira con tutta la tuaforza! Vedi se si stacca più? Malanno a chi non ci crede! Picchia, picchia!Suona, si o no, come una campana anche con me qua dentro? Va’, va’ a dirloal tuo padrone!

– Chi è sopra comanda, Zi’ Dima, – sospirò il contadino – e chi è sottosi danna! Date i punti, date i punti.

E Zi’ Dima si mise a far passare ogni pezzetto di fil di ferro attraverso idue fori accanto, l’uno di qua e l’altro di là della saldatura; e con le tanagliene attorceva i due capi. Ci volle un’ora a passarli tutti. I sudori, giù a fontana,dentro la giara. Lavorando, si lagnava della sua mala sorte. E il contadino, difuori, a confortarlo.

– Ora ajutami a uscirne, – disse alla fine Zi’ Dima.Ma quanto larga di pancia, tanto quella giara era stretta di collo. Zi’

Dima, nella rabbia, non ci aveva fatto caso. Ora, prova e riprova, non trova-va più il modo di uscirne. E il contadino invece di dargli ajuto, eccolo là, sitorceva dalle risa. Imprigionato, imprigionato lì, nella giara da lui stesso sa-nata e che ora – non c’era via di mezzo – per farlo uscire, doveva essere rottadaccapo e per sempre.

Alle risa, alle grida, sopravvenne Don Lollò. Zi’ Dima, dento la giara,era come un gatto inferocito.

Fatemi uscire! – urlava – . Corpo di Dio, voglio uscire! Subito! Datemiajuto!

Don Lollò rimase dapprima come stordito. Non sapeva crederci.– Ma come? là dentro? s’è cucito là dentro?S’accostò alla giara e gridò al vecchio:– Ajuto? E che ajuto posso darvi io? Vecchiaccio stolido, ma come? non

dovevate prender prima le misure? Su, provate: fuori un braccio... così! e latesta... su... no, piano! Che! giù... aspettate! così no! giù, giù... Ma comeavete fatto? E la giara, adesso? Calma! Calma! Calma! – si mise a raccoman-dare tutt’intorno, come se la calma stessero per perderla gli altri e non lui. –Mi fuma la testa! Calma! Questo è caso nuovo... La mula!

Picchiò con le nocche delle dita su la giara. Sonava davvero come unacampana.

– Bella! Rimessa a nuovo... Aspettate! – disse al prigioniero. – Va’ a

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Luigi Pirandello Le novelle

sellarmi la mula! – ordinò al contadino; e, grattandosi con tutte le dita lafronte, seguitò a dire tra sé: ïMa vedete un po’ che mi capita! Questa non ègiara! quest’è ordigno del diavolo! Fermo! Fermo lì!

E accorse a regger la giara, in cui Zi’ Dima, furibondo, si dibatteva comeuna bestia in trappola.

– Caso nuovo, caro mio, che deve risolvere l’avvocato! Io non mi fido.La mula! La mula! Vado e torno, abbiate pazienza! Nell’interesse vostro...Intanto, piano! calma! Io mi guardo i miei. E prima di tutto, per salvare ilmio diritto, faccio il mio dovere. Ecco: vi pago il lavoro, vi pago la giornata.Cinque lire. Vi bastano?

– Non voglio nulla! – gridò Zi’ Dima. – Voglio uscire.– Uscirete. Ma io, intanto, vi pago. Qua, cinque lire.Le cavò dal taschino del panciotto e le buttò nella giara. Poi domandò,

premuroso:– Avete fatto colazione? Pane e companatico, subito! Non ne volete?

Buttatelo ai cani! A me basta che ve l’abbia dato.Ordinò che gli si désse; montò in sella, e via di galoppo per la città. Chi

lo vide, credette che andasse a chiudersi da sé in manicomio, tanto e in cosìstrano modo gesticolava.

Per fortuna, non gli toccò di fare anticamera nello studio dell’avvocato;ma gli toccò d’attendere un bel po’, prima che questo finisse di ridere, quan-do gli ebbe esposto il caso. Delle risa si stizzì.

– Che c’è da ridere, scusi? A vossignoria non brucia! La giara è mia!Ma quello seguitava a ridere e voleva che gli rinarrasse il caso com’era

stato, per farci su altre risate. “Dentro, eh? S’era cucito dentro? E lui, donLollò che pretendeva? Te... tene... tenerlo là dentro... ah ah ah... ohi ohiohi... tenerlo là dentro per non perderci la giara?”

– Ce la devo perdere? – domandò lo Zirafa con le pugna serrate. – Ildanno e lo scorno?

– Ma sapete come si chiama questo? – gli disse infine l’avvocato. – Sichiama sequestro di persona!

– Sequestro? E chi l’ha sequestrato? – esclamò lo Zirafa. – Si è sequestra-to lui da sé! Che colpa ne ho io?

L’avvocato allora gli spiegò che erano due casi. Da un canto, lui, DonLollò, doveva subito liberare il prigioniero per non rispondere di sequestrodi persona; dall’altro il conciabrocche doveva rispondere del danno che veni-va a cagionare con la sua imperizia o con la sua storditaggine.

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– Ah! – rifiatò lo Zirafa. Pagandomi la giara!– Piano! – osservò l’avvocato. – Non come se fosse nuova, badiamo!– E perché?– Ma perché era rotta, oh bella!– Rotta? Nossignore. Ora è sana. Meglio che sana, lo dice lui stesso! E se

ora torno a romperla, non potrò più farla risanare. Giara perduta, signoravvocato!

L’avvocato gli assicurò che se ne sarebbe tenuto conto, facendogliela pa-gare per quanto valeva nello stato in cui era adesso.

– Anzi – gli consigliò – fatela stimare avanti da lui stesso.– Bacio le mani – disse Don Lollò, andando via di corsa.Di ritorno, verso sera, trovò tutti i contadini in festa attorno alla giara

abitata. Partecipava alla festa anche il cane di guardia, saltando e abbajando.Zi’ Dima s’era calmato, non solo, ma aveva preso gusto anche lui alla suabizzarra avventura e ne rideva con la gajezza mala dei tristi.

Lo Zirafa scostò tutti e si sporse a guardare dentro la giara.– Ah! Ci stai bene?– Benone. Al fresco – rispose quello. – Meglio che a casa mia.– Piacere. Intanto ti avverto che questa giara mi costò quattr’onze nuo-

va. Quanto credi che possa costare adesso?– Come me qua dentro? – domandò Zi’ Dima.I villani risero.– Silenzio! – gridò lo Zirafa. – Delle due l’una: o il tuo mastice serve a

qualche cosa, o non serve a nulla: se non serve a nulla tu sei un imbroglione;se serve a qualche cosa, la giara, così com’è, deve avere il suo prezzo. Cheprezzo? Stimala tu.

Zi’ Dima rimase un pezzo a riflettere, poi disse:– Rispondo. Se lei me l’avesse fatta conciare col mastice solo, com’io

volevo, io, prima di tutto, non mi troverei qua dentro, e la giara avrebbe super giù lo stesso prezzo di prima. Così conciata con questi puntacci, che hodovuto darle per forza di qua dentro, che prezzo potrà avere? Un terzo diquanto valeva, sì e no.

– Un terzo? – domandò lo Zirafa. – Un’onza e trentatré?– Meno sì, più no.– Ebbene, – disse Don Lollò. – Passi la tua parola, e dammi un’onza e

trentatré.

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Luigi Pirandello Le novelle

– Che? – fece Zi’ Dima, come se non avesse inteso.– Rompo la giara per farti uscire, – rispose Don Lollò – e tu, dice l’avvo-

cato, me la paghi per quanto l’hai stimata: un’onza e trentatré.– Io pagare? – sghignazzò Zi’ Dima. – Vossignoria scherza! Qua dentro

ci faccio i vermi.E, tratta di tasca con qualche stento la pipetta intartarita, l’accese e si

mise a fumare, cacciando il fumo per il collo della giara.Don Lollò ci restò brutto. Quest’altro caso, che Zi’ Dima ora non vo-

lesse più uscire dalla giara, nè lui nè l’avvocato l’avevano previsto. E come sirisolveva adesso? Fu lì lì per ordinare di nuovo: “La mula”, ma pensò che eragià sera.

– Ah, sì – disse. – Tu vuoi domiciliare nella mia giara? Testimonii tuttiqua! Non vuole uscirne lui, per non pagarla; io sono pronto a romperla!Intanto, poiché vuole stare lì, domani io lo cito per alloggio abusivo e perchémi impedisce l’uso della giara.

Zi’ Dima cacciò prima fuori un’altra boccata di fumo, poi risposeplacido:

– Nossignore. Non voglio impedirle niente, io. Sto forse qua per piace-re? Mi faccia uscire, e me ne vado volentieri. Pagare... neanche per ischerzo,vossignoria!

Don Lollò, in un impeto di rabbia, alzò un piede per avventare un calcioalla giara; ma si trattenne; la abbrancò invece con ambo le mani e la scrollòtutta, fremendo.

– Vede che mastice? – gli disse Zi’ Dima.– Pezzo da galera! – ruggì allora lo Zirafa. – Chi l’ha fatto il male, io o

tu? E devo pagarlo io? Muori di fame là dentro! Vediamo chi la vince!E se ne andò, non pensando alle cinque lire che gli aveva buttate la mat-

tina dentro la giara. Con esse, per cominciare, Zi’ Dima pensò di far festaquella sera coi contadini che, avendo fatto tardi per quello strano accidente,rimanevano a passare la notte in campagna, all’aperto, su l’aja. Uno andò afar le spese in una taverna lì presso. A farlo apposta, c’era una luna che parevafosse raggiornato.

A una cert’ora don Lollò, andato a dormire, fu svegliato da un baccanod’inferno. S’affacciò a un balcone della cascina, e vide su l’aja, sotto la luna,tanti diavoli; i contadini ubriachi che, presisi per mano, ballavano attornoalla giara. Zi’ Dima, là dentro, cantava a squarciagola.

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Luigi Pirandello Le novelle

Questa volta non poté più reggere, Don Lollò: si precipitò come untoro infuriato e, prima che quelli avessero tempo di pararlo, con uno spinto-ne mandò a rotolare la giara giù per la costa. Rotolando, accompagnata dallerisa degli ubriachi, la giara andò a spaccarsi contro un olivo.

E la vinse Zi’ Dima.

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Roma, Newton– Compton, 1994

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Luigi Pirandello Le novelle

Una giornata

La signora Frola e il signor Ponza, suo genero

Ma insomma, ve lo figurate? c’è da ammattire sul serio tutti quanti anon poter sapere chi tra i due sia il pazzo, se questa signora Frola o questosignor Ponza, suo genero. Cose che capitano soltanto a Valdana, città disgra-ziata, calamita di tutti i forestieri eccentrici!

Pazza lei o pazzo lui; non c’è via di mezzo: uno dei due dev’esser pazzoper forza. Perché si tratta niente meno che di questo... Ma no, è meglioesporre prima con ordine.

Sono, vi giuro, seriamente costernato dell’angoscia in cui vivono da tremesi gli abitanti di Valdana, e poco m’importa della signora Frola e del si-gnor Ponza, suo genero. Perché, se è vero che una grave sciagura è loro tocca-ta, non è men vero che uno dei due, almeno, ha avuto la fortuna d’impazzir-ne e l’altro l’ha ajutato, seguita ad ajutarlo così che non si riesce, ripeto, asapere quale dei due veramente sia pazzo; e certo una consolazione meglio diquesta non se la potevano dare. Ma dico di tenere così, sotto quest’incubo,un’intera cittadinanza, vi par poco? togliendole ogni sostegno al giudizio, permodo che non possa più distinguere tra fantasma e realtà. Un’angoscia, unperpetuo sgomento. Ciascuno si vede davanti, ogni giorno, quei due; li guar-da in faccia; sa che uno dei due è pazzo; li studia, li squadra, li spia e, niente!non poter scoprire quale dei due; dove sia il fantasma, dove la realtà. Natu-ralmente, nasce in ciascuno il sospetto pernicioso che tanto vale allora larealtà quanto il fantasma, e che ogni realtà può benissimo essere un fantasmae viceversa. Vi par poco? Nei panni del signor Prefetto, io darei senz’altro,per la salute dell’anima degli abitanti di Valdana, lo sfratto alla signora Frolae al signor Ponza, suo genero.

Ma procediamo con ordine.Questo signor Ponza arrivò a Valdana or sono tre mesi, segretario di

prefettura. Prese alloggio nel casone nuovo all’uscita del paese, quello chechiamano “il Favo”. Lì. All’ultimo piano, un quartierino. Tre finestre chedanno su la campagna, alte, tristi (ché la facciata di là, all’aria di tramontana,su tutti quegli orti pallidi, chi sa perché, benché nuova, s’è tanto intristita) etre finestre interne, di qua, sul cortile, ove gira la ringhiera del ballatojo divi-so da tramezzi a grate. Pendono da quella ringhiera, lassù lassù, tanti panierinipronti a esser calati col cordino a un bisogno.

Nello stesso tempo, però, con maraviglia di tutti, il signor Ponza fissònel centro della città, e propriamente in Via dei Santi n. 15, un altro quartierino

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mobigliato6 di tre camere e cucina. Disse che doveva servire per la suoce-ra, signora Frola. E difatti questa arrivò cinque o sei giorni dopo; e ilsignor Ponza si recò ad accoglierla, lui solo, alla stazione e la condusse e lalasciò lì, sola.

Ora, via, si capisce che una figliuola, maritandosi, lasci la casa dellamadre per andare a convivere col marito, anche in un’altra città; ma chequesta madre poi, non reggendo a star lontana dalla figliuola, lasci il suopaese, la sua casa, e la segua, e che nella città dove tanto la figliuola quan-to lei sono forestiere vada ad abitare in una casa a parte, questo non sicapisce più facilmente; o si deve ammettere tra suocera e genero una cosìforte incompatibilità da rendere proprio impossibile la convivenza, an-che in queste condizioni.

Naturalmente a Valdana dapprima si pensò così. E certo chi scapitò perquesto nell’opinione di tutti fu il signor Ponza. Della signora Frola, se qual-cuno ammise che forse doveva averci anche lei un po’ di colpa, o per scarsocompatimento o per qualche caparbietà o intolleranza, tutti consideraronol’amore materno che la traeva appresso alla figliuola, pur condannata a nonpoterle vivere accanto.

Gran parte ebbe in questa considerazione per la signora Frola e nel con-cetto che subito del signor Ponza s’impresse nell’animo di tutti, che fossecioè duro, anzi crudele, anche l’aspetto dei due, bisogna dirlo. Tozzo, senzacollo, nero come un africano, con folti capelli ispidi su la fronte bassa, densee aspre sopracciglia giunte, grossi mustacchi lucidi da questurino, e negliocchi cupi, fissi, quasi senza bianco, un’intensità violenta, esasperata, a stentocontenuta, non si sa se di doglia tetra o di dispetto della vista altrui, il signorPonza non è fatto certamente per conciliarsi la simpatia o la confidenza.Vecchina gracile, pallida, è invece la signora Frola, dai lineamenti fini, nobi-lissimi, e un’aria malinconica, ma d’una malinconia senza peso, vaga e genti-le, che non esclude l’affabilità con tutti.

Ora di questa affabilità, naturalissima in lei, la signora Frola ha datosubito prova in città, e subito per essa nell’animo di tutti è cresciuta l’avver-sione per il signor Ponza; giacché chiaramente è apparsa a ognuno l’indole dilei, non solo mite, remissiva, tollerante, ma anche piena d’indulgente com-patimento per il male che il genero le fa; e anche perché s’è venuto a sapereche non basta al signor Ponza relegare in una casa a parte quella povera ma-dre, ma spinge la crudeltà fino a vietarle anche la vista della figliuola.

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Se non che, non crudeltà, non crudeltà, protesta subito nelle sue visitealle signore di Valdana la signora Frola, ponendo le manine avanti, veramen-te afflitta che si possa pensar questo di suo genero. E s’affretta a decantarnetutte le virtù, a dirne tutto il bene possibile e immaginabile; quale amore,quante cure, quali attenzioni egli abbia per la figliuola, non solo, ma ancheper lei, sì, sì, anche per lei; premuroso, disinteressato... Ah, non crudele, no,per carità! C’è solo questo: che vuole tutta, tutta per sé la mogliettina, ilsignor Ponza, fino al punto che anche l’amore, che questa deve avere (e l’am-mette, come no?) per la sua mamma, vuole che le arrivi non direttamente,ma attraverso lui, per mezzo di lui, ecco. Sì, può parere crudeltà, questa, manon è: è un’altra cosa, un’altra cosa ch’ella, la signora Frola, intende benissi-mo e si strugge di non sapere esprimere. Natura, ecco... ma no, forse unaspecie di malattia... come dire? Dio mio, basta guardarlo negli occhi. Fannoin prima una brutta impressione, forse, quegli occhi; ma dicono tutto a chi,come lei, sappia leggere in essi: la pienezza chiusa, dicono, di tutto un mon-do d’amore in lui, nel quale la moglie deve vivere senza mai uscirne minima-mente, e nel quale nessun altro, neppure la madre, deve entrare. Gelosia? Sì,forse; ma a voler definire volgarmente questa totalità esclusiva d’amore.

Egoismo? Ma un egoismo che si dà tutto, come un mondo, alla propriadonna! Egoismo, in fondo, sarebbe forse quello di lei a voler forzare questomondo chiuso d’amore, a volervisi introdurre per forza, quand’ella sa che lafigliuola è felice, così adorata... Questo a una madre può bastare! Del resto,non è mica vero ch’ella non la veda, la sua figliuola. Due o tre volte al giornola vede: entra nel cortile della casa; suona il campanello e subito la sua fi-gliuola s’affaccia di lassù.

– Come stai Tildina?– Benissimo, mamma. Tu?– Come Dio vuole, figliuola mia. Giù, giù il panierino!E nel panierino, sempre due parole di lettera, con le notizie della giorna-

ta. Ecco, le basta questo. Dura ormai da quattr’anni questa vita, e ci s’è abi-tuata la signora Frola. Rassegnata, sì. E quasi non ne soffre più.

Com’è facile intendere, questa rassegnazione della signora Frola, que-st’abitudine ch’ella dice d’aver fatto al suo martirio, ridondano a carico delsignor Ponza, suo genero, tanto più, quanto più ella col suo lungo discorso siaffanna a scusarlo.

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Con vera indignazione perciò, e anche dirò con paura, le signore di Valdanache hanno ricevuto la prima visita della signora Frola, accolgono il giornodopo l’annunzio di un’altra visita inattesa, del signor Ponza, che le prega diconcedergli due soli minuti d’udienza, per una “doverosa dichiarazione”, senon reca loro incomodo.

Affocato in volto, quasi congestionato, con gli occhi più duri e più tetriche mai, un fazzoletto in mano che stride per la sua bianchezza, insieme coipolsini e il colletto della camicia, sul nero della carnagione, del pelame e delvestito, il signor Ponza, asciugandosi di continuo il sudore che gli sgoccioladalla fronte bassa e dalle gote raschiose e violacee, non già per il caldo, ma perla violenza evidentissima dello sforzo che fa su se stesso e per cui anche legrosse mani dalle unghie lunghe gli tremano; in questo e in quel salotto,davanti a quelle signore che lo mirano quasi atterrite, domanda prima se lasignora Frola, sua suocera, è stata a visita da loro il giorno avanti; poi, conpena, con sforzo, con agitazione di punto in punto crescenti, se ella ha parla-to loro della figliuola e se ha detto ch’egli le vieta assolutamente di vederla edi salire in casa sua.

Le signore, nel vederlo così agitato, com’è facile immaginare, s’affretta-no a rispondergli che la signora Frola, sì, è vero, ha detto loro di quellaproibizione di veder la figlia, ma anche tutto il bene possibile e immaginabi-le di lui, fino a scusarlo, non solo, ma anche a non dargli nessun’ombra dicolpa per quella proibizione stessa.

Se non che, invece di quietarsi, a questa risposta delle signore, il signorPonza si agita di più; gli occhi gli diventano più duri, più fissi, più tetri; legrosse gocciole di sudore più spesse; e alla fine, facendo uno sforzo ancor piùviolento su se stesso, viene alla sua “dichiarazione doverosa”.

La quale è questa, semplicemente: che la signora Frola, poveretta, nonpare, ma è pazza.

Pazza da quattro anni, sì. E la sua pazzia consiste appunto nel credere cheegli non voglia farle vedere la figliuola. Quale figliuola? È morta, è morta daquattro anni la figliuola; e la signora Frola, appunto per il dolore di questamorte, è impazzita; per fortuna, impazzita, sì, giacché la pazzia è stata per leilo scampo dal suo disperato dolore. Naturalmente non poteva scamparne, senon così, cioè credendo che non sia vero che la sua figliuola è morta e che sialui, invece, suo genero, che non vuole più fargliela vedere.

Per puro dovere di carità verso un’infelice, egli, il signor Ponza, seconda

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da quattro anni, a costo di molti e gravi sacrifici, questa pietosa follia: tiene,con dispendio superiore alle sue forze, due case: una per sé, una per lei; eobbliga la sua seconda moglie, che per fortuna caritatevolmente si prestavolentieri, a secondare anche lei questa follia. Ma carità, dovere, ecco, fino aun certo punto: anche per la sua qualità di pubblico funzionario, il signorPonza non può permettere che si creda di lui, in città, questa cosa crudele einverosimile: ch’egli cioè, per gelosia o per altro, vieti a una povera madre divedere la propria figliuola.

Dichiarato questo, il signor Ponza s’inchina innanzi allo sbalordimentodelle signore, e va via. Ma questo sbalordimento delle signore non ha neppu-re il tempo di scemare un po’, che rieccoti la signora Frola con la sua ariadolce di vaga malinconia a domandare scusa se, per causa sua, le buone signo-re si sono prese qualche spavento per la visita del signor Ponza, suo genero.

E la signora Frola, con la maggior semplicità e naturalezza del mondo,dichiara a sua volta, ma in gran confidenza, per carità! poiché il signor Ponzaè un pubblico funzionario, e appunto per questo ella la prima volta s’è astenutadal dirlo, ma sì, perché questo potrebbe seriamente pregiudicarlo nella car-riera; il signor Ponza, poveretto – ottimo, ottimo inappuntabile segretarioalla prefettura, compìto, preciso in tutti i suoi atti, in tutti i suoi pensieri,pieno di tante buone qualità – il signor Ponza, poveretto, su quest’unicopunto non... non ragiona più; ecco; il pazzo è lui, poveretto; e la sua pazziaconsiste appunto in questo: nel credere che sua moglie sia morta da quattroanni e nell’andar dicendo che la pazza è lei, la signora Frola che crede ancoraviva la figliuola. No, non lo fa per coonestare in certo qual modo innanziagli altri quella sua gelosia quasi maniaca e quella crudele proibizione a lei diveder la figliuola, no; crede, crede sul serio il poveretto che sua moglie siamorta e che questa che ha con sé sia una seconda moglie. Caso pietosissimo!Perché veramente col suo troppo amore quest’uomo rischiò in prima di di-struggere, d’uccidere la giovane moglietta delicatina, tanto che si dovettesottrargliela di nascosto e chiuderla a insaputa di lui in una casa di salute.Ebbene, il pover’uomo, a cui già per quella frenesia d’amore s’era anche gra-vemente alterato il cervello, ne impazzì; credette che la moglie fosse mortadavvero: e questa idea gli si fissò talmente nel cervello, che non ci fu piùverso di levargliela, neppure quando, ritornata dopo circa un anno floridacome prima, la moglietta gli fu ripresentata. La credette un’altra; tanto che sidovette con l’ajuto di tutti, parenti e amici, simulare un secondo matrimo-nio, che gli ha ridato pienamente l’equilibrio delle facoltà mentali.

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Ora la signora Frola crede d’aver qualche ragione di sospettare che da unpezzo suo genero sia del tutto rientrato in sé e ch’egli finga, finga soltanto dicredere che sua moglie sia una seconda moglie, per tenersela così tutta per sé,senza contatto con nessuno, perché forse tuttavia di tanto in tanto gli balenala paura che di nuovo gli possa esser sottratta nascostamente.

Ma sì. Come spiegare, se no, tutte le cure, le premure che ha per lei, suasuocera, se veramente egli crede che è una seconda moglie quella che ha consé? Non dovrebbe sentire l’obbligo di tanti riguardi per una che, di fatto,non sarebbe più sua suocera, è vero? Questo, si badi, la signora Frola lo dice,non per dimostrare ancor meglio che il pazzo è lui; ma per provare anche a sestessa che il suo sospetto è fondato.

– E intanto, – conclude con un sospiro che su le labbra le s’atteggia in undolce mestissimo sorriso, – intanto la povera figliuola mia deve fingere dinon esser lei, ma un’altra; e anch’io sono obbligata a fingermi pazza credendoche la mia figliuola sia ancora viva. Mi costa poco, grazie a Dio, perché è là,la mia figliuola, sana e piena di vita; la vedo, le parlo; ma sono condannata anon poter convivere con lei, e anche a vederla e a parlarle da lontano, perchéegli possa credere, o fingere di credere che la mia figliuola, Dio liberi, è mortae che questa che ha con sé è una seconda moglie. Ma torno a dire, che impor-ta se con questo siamo riusciti a ridar la pace a tutti e due? So che la miafigliuola è adorata, contenta; la vedo; le parlo; e mi rassegno per amore di leie di lui a vivere così e a passare anche per pazza, signora mia, pazienza...

Dico, non vi sembra che a Valdana ci sia proprio da restare a bocca aper-ta, a guardarci tutti negli occhi, come insensati? A chi credere dei due? Chi èil pazzo? Dov’è la realtà? dove il fantasma?

Lo potrebbe dire la moglie del signor Ponza. Ma non c’è da fidarsi se,davanti a lui, costei dice d’esser seconda moglie; come non c’è da fidarsi se,davanti alla signora Frola, conferma d’esserne la figliuola. Si dovrebbe pren-derla a parte e farle dire a quattr’occhi la verità. Non è possibile. Il signorPonza – sia o no lui il pazzo – è realmente gelosissimo e non lascia veder lamoglie a nessuno. La tiene lassù, come in prigione, sotto chiave; e questofatto è senza dubbio in favore della signora Frola; ma il signor Ponza dice cheè costretto a far così, e che sua moglie stessa anzi glielo impone, per paura chela signora Frola non le entri in casa all’improvviso. Può essere una scusa. Staanche di fatto che il signor Ponza non tiene neanche una serva in casa. Dice

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che lo fa per risparmio, obbligato com’è a pagar l’affitto di due case; e sisobbarca intanto a farsi da sé la spesa giornaliera; e la moglie, che a suo direnon è la figlia della signora Frola, si sobbarca anche lei per pietà di questa,cioè d’una povera vecchia che fu suocera di suo marito, a badare a tutte lefaccende di casa, anche alle più umili, privandosi dell’ajuto d’una serva. Sem-bra a tutti un po’ troppo. Ma è anche vero che questo stato di cose, se noncon la pietà, può spiegarsi con la gelosia di lui.

Intanto, il signor Prefetto di Valdana s’è contentato della dichiarazionedel signor Ponza. Ma certo l’aspetto e in gran parte la condotta di costui nondepongono in suo favore, almeno per le signore di Valdana più propensetutte quante a prestar fede alla signora Frola. Questa, difatti, viene premuro-sa a mostrar loro le letterine affettuose che le cala giù col panierino la figliuo-la, e anche tant’altri privati documenti, a cui però il signor Ponza toglie ognicredito, dicendo che le sono stati rilasciati per confortare il pietoso inganno.

Certo è questo, a ogni modo: che dimostrano tutt’e due, l’uno per l’al-tra, un meraviglioso spirito di sacrifizio, commoventissimo; e che ciascunoha per la presunta pazzia dell’altro la considerazione più squisitamente pieto-sa. Ragionano tutt’e due a meraviglia; tanto che a Valdana non sarebbe maivenuto in mente a nessuno di dire che l’uno dei due era pazzo, se non l’aves-sero detto loro: il signor Ponza della signora Frola, e la signora Frola delsignor Ponza.

La signora Frola va spesso a trovare il genero alla Prefettura per aver dalui qualche consiglio, o lo aspetta all’uscita per farsi accompagnare in qualchecompera: e spessissimo, dal canto suo, nelle ore libere e ogni sera il signorPonza va a trovare la signora Frola nel quartierino mobigliato; e ogni qualvolta per caso l’uno s’imbatte nell’altra per via, subito con la massima cor-dialità si mettono insieme; egli le dà la destra e, se stanca, le porge il braccio,e vanno così, insieme, tra il dispetto aggrondato e lo stupore e la costernazio-ne della gente che li studia, li squadra, li spia e, niente!, non riesce ancora innessun modo a comprendere quale sia il pazzo dei due, dove sia il fantasma,dove la realtà.

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, vol. II, Mondadori, Milano, 1957

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La rallegrata

I tre pensieri della sbiobbina

Bene, fino a nove anni: nata bene, cresciuta bene.A nove anni, come se il destino avesse teso dall’ombra una manaccia

invisibile e gliel’avesse imposta sul capo: – Fin qua!– , Clementina, tutt’a untratto, aveva fatto il groppo. Là, a poco più d’un metro da terra.

I medici, eh! subito, con la loro scienza, avevano compreso che nonsarebbe cresciuta più. Linfatico, cachessia, rachitide...

Bravi! Farlo intendere alle gambe, adesso, al busto di Clementina, chenon si doveva più crescere! Busto e gambe, dacché, nascendo, ci s’erano mes-si, avevano voluto crescere per forza, senza sentir ragione. Non potendo perlungo, sotto l’orribile violenza di quella manaccia che schiacciava, s’eranoostinati a crescere di traverso: sbieche, le gambe; il busto, aggobbito, davantie dietro. Pur di crescere...

Che non crescono forse così, del resto, anche certi alberelli, tutti a nodie a sproni e a giunture storpie? Così. Con questa differenza però: che l’alberello,intanto, non ha occhi per vedersi, cuore per sentire, mente per pensare; e unapovera sbiobbina, sì; che l’alberello storpio non è, che si sappia, deriso daquelli dritti, malvisto per paura del malocchio, sfuggito dagli uccellini; e unapovera sbiobbina, sì, dagli uomini, e sfuggita anche dai fanciulli; e chel’alberello infine non deve fare all’amore, perché fiorisce a maggio da sé,naturalmente, così tutto storpio com’è, e darà in autunno i suoi frutti; men-tre una povera sbiobbina...

Là, via, era una cosa riuscita male, e che non si poteva rimediare in alcunmodo. Chi scrive una lettera, se non gli vien bene, la strappa e la rifà da capo.Ma una vita? Non si può mica rifar da capo, a strapparla una volta, la vita.

E poi, Dio non vuole.Quasi quasi verrebbe voglia di non crederci, in Dio, vedendo certe cose.

Ma Clementina ci credeva. E ci credeva appunto perché si vedeva così. Qualealtra spiegazione migliore di questa, di tutto quel gran male che, innocente,senz’alcuna sua colpa, le toccava soffrire per tutta, tutta la vita, che è una sola,e che lei doveva passar tutta, tutta così, come fosse una burla, uno scherzo,compatibile sì e no per un minuto solo e poi basta? Poi dritta, su, svelta,agile, alta, e via tutta quella oppressione... Ma che! Sempre così.

Dio, eh? Dio – era chiaro – aveva voluto così, per un suo fine segreto.Bisognava far finta di crederci, per carità; ché altrimenti Clementina si sareb-be disperata. Spiegandoselo così, invece, lei poteva anche considerare come

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un bene tutto il suo gran male: un bene sommo e glorioso. Di là, s’intende.In cielo. Che bella angeletta sarà poi in cielo Clementina!

Ed ecco, ella sorride talvolta, camminando, alla gente che la guarda peristrada. Pare voglia dire: “Non mi deridete, via! perché, vedete? ne sorrido ioper la prima. Sono fatta così; non mi son fatta da me; Dio l’ha voluto; edunque non ve n’affliggete neppure, come non me n’affliggo io, perché, sel’ha voluto Dio, lo so sicuro che una ricompensa, poi, me la darà!”.

Del resto, le gambe, tanto tanto non pajono, sotto la veste.Dio solo sa quanto peni Clementina a farle andare, quelle gambe. E

tuttavia sorride.La pena è anche accresciuta dallo studio ch’ella pone a non barellare tan-

to, per non dar troppo nell’occhio alla gente. Passare inosservata non potreb-be. Sbiobbina è. Ma via, andando così, con una certa lestezza, e poi modesta,e poi sorridendo...

Qualcuno però, a quando a quando, si dimostra crudele: la osserva, magaricol volto atteggiato di compassione, e le torna poco dopo davanti dall’altrolato, quasi volesse a tutti i costi rendersi conto di com’ella faccia con quellegambe ad andare. Clementina, vedendo che col suo solito sorriso non riescea disarmare quella curiosità spietata, arrossisce dalla stizza, abbassa il capo;talvolta, perdendo il dominio di sé, per poco non inciampa, non rotola giùper terra; e allora, arrabbiata, quasi quasi si tirerebbe su la veste e griderebbe aquel crudele:

“Eccoti qua: vedi? E ora lasciami fare la sbiobbina in pace”.In questo quartiere non è ancora conosciuta. Clementina ha cambiato

casa da poche settimane. Dove stava prima, era conosciuta da tutti; e nessunopiù la molestava. Sarà così, tra breve, anche qua. Ci vuol pazienza! Lei èmolto contenta della nuova casa, che sorge in una piazzetta quieta e pulita.Lavora da mane a sera, con gentilezza e maestria, di scatolette e sacchettiniper nozze e per nascite. La sorella (ha una sorella, Clementina, che si chiamaLauretta, minore di cinque anni: ma... diritta lei, eh altro! e svelta e tantobella, bionda, florida) lavora da modista in una bottega: va ogni mattina, alleotto; rincasa la sera, alle sette. Fra loro, le due sorelle si son fatte da mammaa vicenda; Clementina, prima, a Lauretta; ora Lauretta, invece, a Clementina,quantunque minore d’età. Ma se questa, per la disgrazia, è rimasta come unaragazzina di dieci anni!... Lauretta ha acquistato invece tanta esperienza dellavita! Se non ci fosse lei...

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Spesso Clementina sta ad ascoltarla a bocca aperta.Gesù, Gesù... che cose!E capisce, ora, che con que’ due poveri piedi sbiechi non potrà mai en-

trare nel mondo misterioso, che Lauretta le lascia intravedere. Non ne provainvidia, però: sì un timor vago e come un intenerimento angoscioso, di pietàper sé. Lauretta, un giorno o l’altro, si lancerà in quel mondo fatto per lei; ecome resterà, allora, la povera Clementina? Ma Lauretta l’ha rassicurata, le hagiurato che non l’abbandonerà mai, anche se le avverrà di prender marito.

E Clementina ora pensa a questo futuro marito di Lauretta. Chi sarà?Come si conosceranno? Per via, forse. Egli la guarderà, la seguirà; poi,qualche sera la fermerà. E che si diranno? Ah come dev’esser buffo, fareall’amore.

Con gli occhi invagati, seduta innanzi al tavolino presso la finestra,Clementina, così fantasticando, non sa risolversi a metter mano al lavoroapparecchiato sul piano del tavolino. Guarda fuori... Che guarda?

C’è un giovine, un bel giovine biondo, coi capelli lunghi e la barbettaalla nazarena13, seduto a una finestra della casa dirimpetto, coi gomiti ap-poggiati sul davanzale e la testa tra le mani.

Possibile? Gli occhi di quel giovine sono fissi su lei, con una intensitàstrana. Pallido... Dio, com’è pallido! dev’esser malato. Clementina lo vedeadesso per la prima volta, a quella finestra. Ed ecco, egli seguita a guardare...Clementina si turba; poi sospira e si rinfranca. Il primo pensiero che le vienein mente è questo:

“ Non guarda me! “.Se Lauretta fosse in casa, lei penserebbe che quel giovine... Ma Lauretta

non è mai in casa, di giorno. Forse alla finestra del quartierino accanto saràaffacciata qualche bella ragazza, con cui quel giovine fa all’amore. Ma si di-rebbe proprio ch’egli guarda qua, ch’egli guarda lei. Con quegli occhi? Via,impossibile! Oh, che! Ha fatto un cenno, quel giovine, con la mano: comeun saluto! A lei? No, no! Ci sarà senza dubbio qualcuna affacciata.

E Clementina si fa alla finestra, monta su lo sgabelletto che sta lì appostaper lei, e – senza parere – guarda alla finestra accanto e poi all’altra appresso...guarda giù, alla finestra del piano di sotto, poi a quella del piano di sopra...

Non c’è nessuno!Timidamente, volge di sfuggita uno sguardo al giovine, ed ecco... un

altro cenno di saluto, a lei, proprio a lei... ah, questa volta non c’è piùdubbio!

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Clementina scappa dalla finestra, scappa dalla stanza, col cuore in tu-multo. Che sciocca! Ma è uno sbaglio, certamente... Quel giovine là dev’es-sere miope. Chi sa per chi l’avrà scambiata... Forse per Lauretta? Ma sì! Forseavrà seguito Lauretta per via; avrà saputo che lei abita qua, dirimpetto a lui...Ma, altro che miope, allora! Dev’esser cieco addirittura... Eppure, non portaocchiali. Sì, Clementina non è brutta, di faccia: somiglia veramente un po’alla sorella; ma il corpo! Forse, chi sa! vedendola seduta, lì davanti al tavoli-no, col cuscino sotto, egli avrà potuto avere, così da lontano, l’illusione diveder Lauretta al lavoro.

Quella sera stessa ne domanda alla sorella. Ma questa casca dalle nuvole.– Che giovine?– Sta lì, dirimpetto. Non te ne sei accorta?– Io, no. Chi è?Clementina glielo descrive minutamente; e Lauretta allora le dichiara di

non saperne nulla, di non averlo mai incontrato, mai veduto, né da vicino néda lontano.

Il giorno appresso, da capo. Egli è là, nello stesso atteggiamento, coigomiti sul davanzale e il bel capo biondo tra le mani; e la guarda, la guardacome il giorno avanti, con quella strana intensità nello sguardo.

Clementina non può sospettare che quel giovine, il quale appare tanto,tanto triste, si voglia pigliare il gusto di beffarsi di lei. A che scopo? Ella è unapovera disgraziata, che non potrebbe mai e poi mai prender sul serio la beffacrudele, abboccare all’amo, lasciarsi lusingare... E dunque? Oh, ecco: egliripete il cenno di jeri, la saluta con la mano, china il capo più volte, come perdire: – “ A te, sì, a te “ – e si nasconde il volto con le mani, dolorosamente.

Clementina non può più rimanere lì, presso la finestra; scende dalla se-dia, tutta in sussulto, e come una bestiolina insidiata va a spiare dalla finestradella camera accanto, dietro le tendine abbassate. Egli si è tratto dal davanza-le; non guarda più fuori; sta ora in un atteggiamento sospeso e accorato; edecco, si volta di tratto in tratto a guardare verso la finestra di lei, per vedere seella vi sia ritornata. La aspetta!

Che deve supporre Clementina? Le viene in mente quest’altro pensiero:“ Non vedrà bene come sono fatta “.E, per essere lasciata in pace, povera sbiobbina, immagina d’un tratto

questo espediente: accosta il tavolino alla finestra, prende uno strofinaccio epoi, con l’ajuto d’una seggiola, monta a gran fatica sul tavolino, là, in piedi,

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come per pulire con quello strofinaccio i vetri della finestra. Così egli lavedrà bene!

Ma per poco Clementina non precipita giù in istrada, nell’accorgersi chequel giovine, vedendola lì, s’è levato in piedi e gesticola furiosamente, spa-ventato, e le accenna di smontare, giù di lì, giù di lì, per carità: incrocia lemani sul petto, si prende il capo tra le mani e grida, ora, grida!

Clementina scende dal tavolino quanto più presto può, sgomenta, anziatterrita; lo guarda, tutta tremante, con gli occhi sbarrati; egli le tende lebraccia, le invia baci; e allora:

“ È matto... “ pensa Clementina, stringendosi, storcendosi le mani. “OhDio, è matto! è matto!”.

Difatti, la sera, Lauretta glielo conferma.Messa in curiosità dalle domande di Clementina, ella ha domandato

notizie di quel giovine, e le hanno detto ch’egli è impazzito da circa un annoper la morte della fidanzata che abitava lì, dove abitano loro, Lauretta eClementina. A quella fidanzata, prima che morisse, avevan dovuto amputareuna gamba e poi l’altra, per un sarcoma che s’era rinnovato.

Ah, ecco perché! Clementina, ascoltando questo racconto della sorella,sente riempirsi gli occhi di lagrime. Per quel giovine o per sé? Sorride poipallidamente e dice con tremula voce a Lauretta:

– Me l’ero figurato, sai? Guardava me...

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, vol. I, Mondadori, Milano, 1957

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Le novelle

L’uomo solo

L’uomo solo

Si riunivano all’aperto, ora che la stagione lo permetteva, attorno a untavolinetto del caffè sotto gli alberi di via Veneto.

Venivano prima i Groa, padre e figlio. E tanta era la loro solitudine che,pur così vicini, parevano l’uno dall’altro lontanissimi. Appena seduti, spro-fondavano in un silenzio smemorato, che li allontanava anche da tutto, cosìche se qualche cosa cadeva loro per caso sotto gli occhi, dovevano strizzare unpo’ le palpebre per guardarla. Venivano alla fine insieme gli altri due: FilippoRomelli e Carlo Spina. Il Romelli era vedovo da cinque mesi; lo Spina,scapolo. Mariano Groa era diviso dalla moglie da circa un anno e s’era tenutocon sé l’unico figliuolo, Torellino, già studente di liceo, smilzo, tutto naso,dai lividi occhietti infossati e un po’ loschi.

Là attorno al tavolino, dopo i saluti, raramente scambiavano tra loroqualche parola. Sorseggiavano una piccola Pilsen, succhiavano qualche sci-roppo con un cannuccio di paglia, e stavano a guardare, a guardar tutte ledonne che passavano per via, sole, a coppie, o accompagnate dai mariti: spo-se, giovinette, giovani madri coi loro bambini; e quelle che scendevano dallatranvia, dirette a Villa Borghese, e quelle che ne tornavano in carrozza, e leforestiere che entravano al grande albergo dirimpetto o ne uscivano, a piedi,in automobile.

Non staccavano gli occhi da una che per attaccarli subito a un’altra, e laseguivano con lo sguardo, studiandone ogni mossa o fissandone qualche tratto,il seno, i fianchi, la gola, le rosee braccia trasparenti dai merletti delle mani-che: storditi, inebriati da tutto quel brulichio, da tutto quel fremito di vita,da tanta varietà d’aspetti e di colori e di espressioni, e tenuti in un’ansia ango-sciosa di confusi sentimenti e pensieri e rimpianti e desiderii, ora per unosguardo fuggevole, ora per un sorriso lieve di compiacenza che riuscivano acogliere da questa o da quella, tra il frastuono delle vetture e il passerajo fitto,continuo che veniva dalle prossime ville.

Sentivano tutti e quattro, ciascuno a suo modo, il bisogno cocente delladonna, di quel bene che nella vita può dar solo la donna, che tante di quelledonne già davano col loro amore, con la loro presenza, con le loro cure, eforse senz’esserne ricompensate a dovere dagli uomini ingrati.

Appena questo dubbio sorgeva in essi per l’aria triste di qualcuna, i lorosguardi s’affrettavano a esprimere un intenso accoramento o un’acerba con-danna o una pietosa adorazione. E quelle giovinette? Chi sa com’erano di-

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Luigi Pirandello Le novelle

sposte e pronte a dar la gioja del loro corpo! E dovevano invece sciuparsiin un’attesa forse vana tra finte ritrosie in pubblico e chi sa che smanie insegreto.

Ciascuno, con quel quadro fascinoso davanti, pensando alla propria casasenza donna, vuota, squallida, muta, compreso da una profonda amarezza,sospirava.

Filippo Romelli, il vedovo, piccolino di statura, pulito, in quel suo abi-to nero da lutto ancora senza una grinza, preciso in tutti i lineamenti fini,d’omettino bello vezzeggiato dalla moglie, si recava tutte le domeniche alcamposanto a portar fiori alla sua morta, e più degli altri due sentiva l’orroredella propria casa attufata dai ricordi, dove ogni oggetto, nell’ombra e nelsilenzio, pareva stesse ancora ad aspettare colei che non vi poteva più farritorno, colei che lo accoglieva ogni volta con tanta festa e lo curava e lolisciava e gli ripeteva con gli occhi ridenti come e quanto fosse contentad’esser sua.

In tutte le donne che vedeva passare per via lui badava ora a sorprender lagrazia di qualche mossa che gli richiamasse viva l’immagine della sua donna,non com’era ultimamente, ma qual era stata un tempo, quando gli avevadato quella tal gioja che quest’altra, ora, gli ridestava pungente nella memo-ria; e subito serrava le labbra per l’impeto della commozione che gli salivaamara alla gola, e socchiudeva un po’ gli occhi, come fanno al vento gliuccelli abbandonati su un ramo.

Anche nella sua donna, negli ultimi tempi, aveva amato il ricordo dellegioje passate, che non potevano più, ormai, esser per lui. Nessuna donna piùlo avrebbe amato, ora, per se stesso. Aveva già quasi cinquant’anni.

Ah, per lui la sorte era stata veramente crudele! Vedersi strappare la com-pagna in quel punto, alla soglia della vecchiaja, quando ne aveva più bisogno,quando anche l’amore, sempre irrequieto nella gioventù, cominciava a pregiarsoltanto la tranquillità del nido fedele! E ecco che ora gli toccava a risentirel’irrequietezza di esso, fuori tempo, e perciò ridicola e disperata.

Allo Spina, amico suo indivisibile da tanti anni, aveva detto più volte:– Verità sacrosanta, amico mio: l’uomo non può esser tranquillo, se non

s’è assicurate tre cose: il pane, la casa, l’amore. Donne, tu ne trovi adesso; tiposso anche ammettere che, quanto a questo, tu stai meglio di me, per ora.Ma la gioventù, caro, è assai più breve della vecchiaja. Lo scapolo gode ingioventù; ma poi soffre in vecchiaja. L’ammogliato, al contrario. Ha piùtempo di goder l’ammogliato dunque, come vedi!

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Luigi Pirandello Le novelle

Sissignori. Bella risposta gli aveva dato la sorte! Lo Spina, ora, vecchioscapolo, cominciava a soffrire del vuoto della sua vita, in una camera d’affit-to, tra mobili volgari, neppur suoi; ma almeno poteva dire d’aver goduto asuo modo in gioventù e d’aver voluto lui che fosse così sola e senza confortodi cure amiche e senz’abitudine d’affetti la sua vecchiaja. Ma lui!

Eppure, forse più crudele della sua era la sorte di Mariano Groa. Bastavaguardarlo, poveretto, per comprenderlo.

Lui, Romelli, pur così sconsolato com’era, trovava tuttavia in sé la forzadi pulirsi, d’aggiustarsi, perfino d’insegarsi ancora i baffettini grigi; mentrequel povero Groa... Eccolo là: panciuto, sciamannato, con una grinta da canmastino con gli occhiali, ispido di una barba non rifatta chi sa da quantigiorni, e con la giacca senza bottoni, il colletto spiegazzato, giallo di sudore,la cravatta sudicia, annodata di traverso.

Guardava le donne con occhiacci feroci, quasi se le volesse mangiare.E ogni tanto, fissandone qualcuna, ansimava, come se gli si stringesse il

naso; si scoteva, facendo scricchiolar la sedia, e si metteva in un’altra posituranon meno truce, col pomo del bastone sotto il mento, affondato nella pap-pagorgia lustra di sudore.

Sapeva da tant’anni che la moglie – vezzosa donnettina dal nasino ritto,due fossette impertinenti alle guance e occhietti vivi vivi, da furetto – lotradiva. Alla fine, un brutto giorno, era stato costretto ad accorgerse, e s’eradiviso da lei legalmente. Se n’era pentito subito dopo; ma lei non aveva piùvoluto saperne, contenta delle duecento lire al mese ch’egli le passava permezzo del figliuolo, il quale andava a visitarla ogni due giorni.

Il pover uomo era divorato dalla brama di riaverla. La amava ancoracome un pazzo, e senza lei non poteva più stare; non aveva più requie!

Spesso, il figliuolo, che gli dormiva accanto, sentendolo piangere o ge-mere con la faccia affondata nel guanciale, si levava su un gomito e cercava diconfortarlo amorosamente:

– Papà, papà...Ma spesso anche Torellino si seccava a vederlo smaniare così; e nei

giorni che doveva recarsi a visitare la madre, sbuffava ogni qual volta eglisi metteva a suggerirgli tutto quello che avrebbe desiderato le dicesse perintenerirla, lo stato in cui si trovava, così senza cure, alla sua età; la suadisperazione; il suo pianto; e che non poteva dormire, e che non sapevapiù reggere, né come fare.

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Luigi Pirandello Le novelle

Era un tormento per Torellino! E anche una vergogna che lo sconcertavatutto e lo faceva sudar freddo. Tanto più che poi quelle ambasciate non ser-vivano a nulla, perché già più volte la madre, irremovibile, gli aveva fattorispondere che non ne voleva nemmeno sentir parlare.

E che altro tormento ogni qual volta ritornava da quelle visite! Ilpadre lo aspettava a piè della scala, ansante, la faccia infiammata e gliocchi acuti e spasimosi, lustri di lagrime. Subito, appena lo vedeva, loassaliva di domande:

– Com’è? com’è? che t’ha detto? come l’hai trovata?E a ogni risposta, arricciava il naso, chiudeva gli occhi, divaricava le lab-

bra, come se ricevesse pugnalate.– Ah, sì, tranquilla? Non dice niente? Ah, dice che sta bene così? E tu, tu

che le hai detto?– Niente, io, papà...Ah, niente, è vero? E si mordeva le mani dalla rabbia; poi prorompeva:– Eh sì! eh sì! Seguitate! Seguitate! È comodo... Seguita così, tu pure,

caro! Sfido... Che vi manca? C’è il bue qua, che lavora per voi... Seguitate,seguitate senza nessuna considerazione per me! Ma non lo capisci, perdio,che io non posso più vivere così? Che ho bisogno d’ajuto? Che io così muojo,non lo capisci? Non lo capisci?

– Ma che ci posso fare io, papà? – si scrollava Torellino, alla fine,esasperato.

– Niente! Niente! Seguita! – riprendeva lui, ingozzando le lagrime. –Ma non ti pare almeno che sia una nequizia farmi morire così? Perché, sai? iomuojo! Io vi lascio tutti e due in mezzo a una strada, e la faccio finita! Lafaccio finita!

Si pentiva subito di queste sfuriate, e compensava con carezze, con regaliil figliuolo; lo avviziava; gli prodigava le cure di una madre; e non badava asé, ai suoi abiti, alle sue scarpe, alla sua biancheria, purché il figlio andasse benvestito, di tutto punto, e si presentasse alla mamma ogni due giorni come unfigurino.

S’inteneriva lui stesso di quella sua bontà, non solo non rimeritata, maneppur commiserata da nessuno, calpestata anzi da tutti; si struggeva in quel-la sua tenerezza; sentiva proprio che il cuore gli si sfaceva in petto, strizzatodall’angoscia, macerato dalla pena.

Aveva coscienza di non aver fatto mai, mai, il minimo torto a quell’infa-me donna che lo aveva trattato così!

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Luigi Pirandello Le novelle

Che ci poteva far lui se attorno al suo cuore tenero e semplice, di bambi-no, era cresciuto tutto quel corpaccio da maiale? Nato per la casa, per adorareuna donna sola nella vita, che gli volesse – non molto! non molto! – un po’di bene, quanto compenso le avrebbe saputo dare, per questo po’ di bene!

Con gli occhi invetrati dalle lagrime a stento contenute, ora stava a mirarper via ogni coppia di sposi, che gli pareva andasse d’amore e d’accordo. Sisarebbe buttato in ginocchio davanti a ogni moglie onesta e saggia, che fosseil sorriso e la benedizione d’una casa, che amasse teneramente il suo sposo ecurasse i suoi figliuoli.

A lui, giusto a lui doveva toccare una donna come quella! Chi sa quantece n’erano di buone, lì, tra quelle che passavano per via; quante avrebberofatto la sua felicità, perché non chiedeva molto lui, un po’ d’affetto, poco!

Lo mendicava con quegli occhi, che parevano truci, a tutte le donne chevedeva passare; ma non per averlo da esse: da una sola, da quella, lui lo vole-va, poiché quella sola avrebbe potuto darglielo onestamente, legato com’eradal vincolo del matrimonio e con quel suo povero figliuolo accanto.

All’ombra dei grandi alberi della via, brulicava quella sera con fremitopiù intenso la vita.

I due amici Spina e Romelli tardavano ancora a venire.L’aria, satura di tutte le fragranze delle ville vicine, pareva grillasse

d’un baglior d’oro, e tutti i visi delle donne, sotto i cappelloni spavaldi,sorridevano accesi da riflessi purpurei. Offrivano con quel sorriso all’am-mirazione e al desiderio degli uomini il loro corpo disegnato nettamentedagli abiti succinti.

Le rose d’una bottega di fiorajo lì presso, dietro le spalle del Groa,esalavano un profumo così voluttuoso, che il pover uomo ne aveva un grevestordimento di ebbrezza, per cui già tutto quel brulichio di vita assumevainnanzi a lui contorni vaporosi di sogno, e gli destava quasi il dubbio dellairrealità di quanto vedeva, coi romori che gli si attutivano agli orecchi, comese venissero da lontano lontano, e non da tutto quel sogno lì maraviglioso.

Alla fine, quegli altri due arrivarono. Discutevano tra loro animatamen-te. Il piccolo Romelli, vestito di nero, era nervoso, convulso; scattava a tratticome per scosse elettriche, e lo Spina, accalorato, cercava di calmarlo, diconvincerlo.

– Sì, due sorelle, due sorelle! Lasciate fare a me! Ancora è presto. Orasediamo.

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Luigi Pirandello Le novelle

Il Groa fece segno con gli occhi ai due di non parlar di tali cose davantial suo figliuolo; poi, comprendendo che essi così accesi com’erano, non avreb-bero saputo frenarsi, si volse a Torellino e lo invitò a farsi una giratina lì aVilla Borghese.

Il ragazzo s’avviò, svogliato, sbuffando. Fatti pochi passi, si voltò e videche i tre, con le teste riunite, confabulavano misteriosamente attorno al tavo-lino; ma il padre scrollava il capo, diceva di no, di no.

Lo Spina, certo, li tentava.Quando, dopo una mezz’ora, Torellino ritornò, i due, il Romelli e lo

Spina, erano andati via. Il padre era solo, ad attenderlo; in una solitudinedisperata; con un viso così alterato, con tanto spasimo tetro negli occhi, cheil figlio restò a mirarlo, sgomento.

– Vogliamo andare, papà?Il Groa parve non lo sentisse. Lo guatò. Serrò le labbra con una smorfia

di pianto, quasi infantile, ed ebbe per tutta la persona uno scotimento disinghiozzi soffocati.

Poi si alzò; prese il figlio per un braccio; glielo strinse con tutta la forza,come se volesse comunicargli con quella stretta qualcosa che non poteva onon sapeva dire. E andarono, andarono verso via di porta Pinciana.

Torellino si sentiva trascinato verso la casa ove abitava la madre. Ecco, visarebbero giunti tra poco; era là in capo al secondo vicolo, ove ardeva ilfanale. E a mano a mano s’induriva contro il braccio del padre, il quale,avvertendo la resistenza, lo guardava ansioso, per intenerirlo.

“Oh Dio, oh Dio, – pensava Torellino, – la solita storia! Il solito tor-mento! Andar su, è vero? Pregare la madre che s’arrendesse finalmente; sen-tirsi dire di no ancora una volta? No, no”.

E, risoluto, davanti al vicolo, sotto il fanale, s’impuntò e disse al padre:– No, sai, papà? Io non salgo! Io non ci vado!Il Groa guardò il figlio con occhi atroci.– No? – fremette. – No?E lo respinse da sé, piano, senza aggiungere altro. Lasciato lì quieto in

mezzo alla via deserta, Torellino, dapprima un po’ stordito, ebbe a un trattol’impressione che il padre si fosse per sempre staccato da lui, quasi balzandod’improvviso laggiù, lontano, e che per sempre si perdesse confuso, estraneotra i tanti estranei che andavano per quella via in discesa. Allora si mosse aseguirlo da lontano, costernato.

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Luigi Pirandello Le novelle

Lo seguì, senza farsi scorgere, giù per Capo le Case, giù per via DueMacelli, per via Condotti, per via Fontanella di Borghese, per piazza Nico-sia... Sboccando in via di Tordinona, si fermò.

Venivano fuori da un vicoletto bujo il Romelli e lo Spina, e il padres’univa ad essi. Il Romelli aveva sugli occhi un fazzoletto listato di nero esinghiozzava. Tutti e tre andavano ad appoggiarsi alla spalletta del Lungotevere.

– Ma stupido! Perché? – gridava lo Spina, scotendo per un braccio ilRomelli. – Tanto carina! Tanto graziosa!

E il Romelli, tra i singhiozzi:– Impossibile! Impossibile! Tu non puoi comprendere... Il pudore! La

santità della casa!Lo Spina allora si volgeva al padre.Nella chiara sera di maggio, presso le acque del fiume che pareva ritenes-

sero ancora la luce del giorno sparito, si distinguevano con precisione tutti igesti e anche i tratti del volto di quei tre uomini agitati.

Lo Spina voleva ora convincere il padre del torto del Romelli, che segui-tava ad asciugarsi il volto in disparte. Il padre stava a guardar lo Spina conocchi sbarrati, feroci; all’improvviso lo afferrava per il bavero della giacca, glidava un poderoso scrollone e lo mandava a schizzar lontano; poi, balzandosul parapetto dell’argine, gridava con le braccia levate, enorme:

– Ecco, si fa così!E giù, nel fiume. Un tonfo. Due gridi, e un terzo grido, da lontano, più

acuto, del figlio che non poteva accorrere, con le gambe quasi stroncate dalterrore.

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Roma, Newton– Compton, 1994

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Il treno ha fischiato...

Farneticava. Principio di febbre cerebrale, avevano detto i medici; e loripetevano tutti i compagni d’ufficio, che ritornavano a due, a tre, dall’ospi-zio, ov’erano stati a visitarlo.

Pareva provassero un gusto particolare a darne l’annunzio coi terminiscientifici, appresi or ora dai medici, a qualche collega ritardatario che incon-travano per via:

– Frenesia, frenesia.– Encefalite.– Infiammazione della membrana.– Febbre cerebrale.E volevan sembrare afflitti; ma erano in fondo così contenti, anche per

quel dovere compiuto; nella pienezza della salute, usciti da quel triste ospizioal gajo azzurro della mattinata invernale.

– Morrà? Impazzirà?– Mah!– Morire, pare di no...– Ma che dice? che dice?– Sempre la stessa cosa. Farnetica...– Povero Belluca!E a nessuno passava per il capo che, date le specialissime condizioni in

cui quell’infelice viveva da tant’anni, il suo caso poteva anche essere natura-lissimo; e che tutto ciò che Belluca diceva e che pareva a tutti delirio, sinto-mo della frenesia, poteva anche essere la spiegazione più semplice di quel suonaturalissimo caso.

Veramente, il fatto che Belluca, la sera avanti, s’era fieramente ribellato alsuo capo– ufficio, e che poi, all’aspra riprensione di questo, per poco non glis’era scagliato addosso, dava un serio argomento alla supposizione che si trat-tasse d’una vera e propria alienazione mentale.

Perché uomo più mansueto e sottomesso, più metodico e paziente diBelluca non si sarebbe potuto immaginare.

Circoscritto... sì, chi l’aveva definito così? Uno dei suoi compagni d’uffi-cio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua aridamansione di computista, senz’altra memoria che non fosse di partite aperte,di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti eimpostazioni; note, libri– mastri, partitarii, stracciafogli e via dicendo.

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Casellario ambulante; o piuttosto, vecchio somaro, che tirava zitto zitto,sempre d’un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto diparaocchi.

Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigatosenza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzireun po’, a fargli almeno almeno drizzare un po’ le orecchie abbattute, se nona dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente!S’era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre,senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentissepiù, avvezzo com’era da anni e anni alle continue solenni bastonature dellasorte.

Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non comeeffetto d’una improvvisa alienazione mentale.

Tanto più che, la sera avanti, proprio gli toccava la riprensione; proprioaveva il diritto di fargliela, il capo– ufficio. Già s’era presentato, la mattina,con un’aria insolita, nuova; e – cosa veramente enorme, paragonabile, che so?al crollo d’una montagna – era venuto con più di mezz’ora di ritardo.

Pareva che il viso, tutt’a un tratto, gli si fosse allargato. Pareva che iparaocchi gli fossero tutt’a un tratto caduti, e gli si fosse scoperto, spalancatod’improvviso all’intorno lo spettacolo della vita. Pareva che gli orecchi tutt’aun tratto gli si fossero sturati e percepissero per la prima volta voci, suoninon avvertiti mai.

Così ilare, d’una ilarità vaga e piena di stordimento, s’era presentato al-l’ufficio. E, tutto il giorno, non aveva combinato niente.

La sera, il capo– ufficio, entrando nella stanza di lui, esaminati i registri,le carte:

– E come mai? Che hai combinato tutt’oggi?Belluca lo aveva guardato sorridente, quasi con un’aria d’impudenza,

aprendo le mani.– Che significa? – aveva allora esclamato il capo– ufficio, accostandoglisi

e prendendolo per una spalla e scrollandolo. – Ohé, Belluca!– Niente, – aveva risposto Belluca, sempre con quel sorriso tra d’impu-

denza e d’imbecillità su le labbra. – Il treno, signor Cavaliere.– Il treno? Che treno?– Ha fischiato.– Ma che diavolo dici?

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Luigi Pirandello Le novelle

– Stanotte, signor Cavaliere. Ha fischiato. L’ho sentito fischiare...– Il treno?– Sissignore. E se sapesse dove sono arrivato! In Siberia... oppure oppu-

re... nelle foreste del Congo... Si fa in un attimo, signor Cavaliere!Gli altri impiegati, alle grida del capo– ufficio imbestialito, erano entrati

nella stanza e, sentendo parlare così Belluca, giù risate da pazzi.Allora il capo– ufficio – che quella sera doveva essere di malumore –

urtato da quelle risate, era montato su tutte le furie e aveva malmenato lamansueta vittima di tanti suoi scherzi crudeli.

Se non che, questa volta, la vittima, con stupore e quasi con terrore ditutti, s’era ribellata, aveva inveito, gridando sempre quella stramberia deltreno che aveva fischiato, e che, perdio, ora non più, ora ch’egli aveva sentitofischiare il treno, non poteva più, non voleva più esser trattato a quel modo.

Lo avevano a viva forza preso, imbracato e trascinato all’ospizio dei matti.Seguitava ancora, qua, a parlare di quel treno. Ne imitava il fischio. Oh,

un fischio assai lamentoso, come lontano, nella notte; accorato. E, subitodopo, soggiungeva:

– Si parte, si parte... Signori, per dove? per dove?E guardava tutti con occhi che non erano più i suoi. Quegli occhi, di

solito cupi, senza lustro, aggrottati, ora gli ridevano lucidissimi, come quellid’un bambino o d’un uomo felice; e frasi senza costrutto gli uscivano dallelabbra. Cose inaudite; espressioni poetiche, immaginose, bislacche, che tan-to più stupivano, in quanto non si poteva in alcun modo spiegare come, perqual prodigio, fiorissero in bocca a lui, cioè a uno che finora non s’era maioccupato d’altro che di cifre e registri e cataloghi, rimanendo come cieco esordo alla vita: macchinetta di computisteria. Ora parlava di azzurre fronti dimontagne nevose, levate al cielo; parlava di viscidi cetacei che, voluminosi,sul fondo dei mari, con la coda facevan la virgola. Cose, ripeto, inaudite.

Chi venne a riferirmele insieme con la notizia dell’improvvisa alienazio-ne mentale rimase però sconcertato, non notando in me, non che meraviglia,ma neppur una lieve sorpresa.

Difatti io accolsi in silenzio la notizia.E il mio silenzio era pieno di dolore. Tentennai il capo, con gli angoli

della bocca contratti in giù, amaramente, e dissi:– Belluca, signori, non è impazzito. State sicuri che non è impazzito.

Qualche cosa dev’essergli accaduta; ma naturalissima. Nessuno se la può spie-

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Luigi Pirandello Le novelle

gare, perché nessuno sa bene come quest’uomo ha vissuto finora. Io che loso, son sicuro che mi spiegherò tutto naturalissimamente, appena l’avrò ve-duto e avrò parlato con lui.

Cammin facendo verso l’ospizio ove il poverino era stato ricoverato,seguitai a riflettere per conto mio:

“A un uomo che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè una vita “im-possibile”, la cosa più ovvia, l’incidente più comune, un qualunque lievissi-mo inciampo impreveduto, che so io, d’un ciottolo per via, possono pro-durre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione, se nonpensa appunto che la vita di quell’uomo è “impossibile”. Bisogna condurrela spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, edessa apparirà allora semplice e chiara. Chi veda soltanto una coda, facendoastrazione dal mostro a cui essa appartiene, potrà stimarla per se stessa mo-struosa. Bisognerà riattaccarla al mostro; e allora non sembrerà più tale; maquale dev’essere, appartenendo a quel mostro.

Una coda naturalissima”.Non avevo veduto mai un uomo vivere come Belluca.Ero suo vicino di casa, e non io soltanto, ma tutti gli altri inquilini della

casa si domandavano con me come mai quell’uomo potesse resistere in quel-le condizioni di vita.

Aveva con sé tre cieche, la moglie, la suocera e la sorella della suocera:queste due, vecchissime, per cataratta; l’altra, la moglie, senza cataratta, ciecafissa; palpebre murate.

Tutt’e tre volevano esser servite. Strillavano dalla mattina alla sera perchénessuno le serviva. Le due figliuole vedove, raccolte in casa dopo la morte deimariti, l’una con quattro, l’altra con tre figliuoli, non avevano mai né temponé voglia di badare ad esse; se mai, porgevano qualche ajuto alla madre sol-tanto.

Con lo scarso provento del suo impieguccio di computista poteva Bellucadar da mangiare a tutte quelle bocche? Si procurava altro lavoro per la sera, incasa: carte da ricopiare. E ricopiava tra gli strilli indiavolati di quelle cinquedonne e di quei sette ragazzi finché essi, tutt’e dodici, non trovavan posto neitre soli letti della casa.

Letti ampii, matrimoniali; ma tre.Zuffe furibonde, inseguimenti, mobili rovesciati, stoviglie rotte, pianti,

urli, tonfi, perché qualcuno dei ragazzi, al bujo, scappava e andava a cacciarsi

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Luigi Pirandello Le novelle

fra le tre vecchie cieche, che dormivano in un letto a parte, e che ogni seralitigavano anch’esse tra loro, perché nessuna delle tre voleva stare in mezzo esi ribellava quando veniva la sua volta.

Alla fine, si faceva silenzio, e Belluca seguitava a ricopiare fino a tardanotte, finché la penna non gli cadeva di mano e gli occhi non gli si chiudeva-no da sé.

Andava allora a buttarsi, spesso vestito, su un divanaccio sgangherato, esubito sprofondava in un sonno di piombo, da cui ogni mattina si levava astento, più intontito che mai.

Ebbene, signori: a Belluca, in queste condizioni, era accaduto un fattonaturalissimo.

Quando andai a trovarlo all’ospizio, me lo raccontò lui stesso, per filo eper segno. Era, sì, ancora esaltato un po’, ma naturalissimamente, per ciò chegli era accaduto. Rideva dei medici e degli infermieri e di tutti i suoi colleghi,che lo credevano impazzito.

– Magari! – diceva. – Magari!Signori, Belluca, s’era dimenticato da tanti e tanti anni – ma proprio

dimenticato – che il mondo esisteva.Assorto nel continuo tormento di quella sua sciagurata esistenza, assorto

tutto il giorno nei conti del suo ufficio, senza mai un momento di respiro,come una bestia bendata, aggiogata alla stanga d’una nòria o d’un molino,sissignori, s’era dimenticato da anni e anni – ma proprio dimenticato – che ilmondo esisteva.

Due sere avanti, buttandosi a dormire stremato su quel divanaccio, forseper l’eccessiva stanchezza, insolitamente, non gli era riuscito d’addormentar-si subito. E, d’improvviso, nel silenzio profondo della notte, aveva sentito,da lontano, fischiare un treno.

Gli era parso che gli orecchi, dopo tant’anni, chi sa come, d’improvvisogli si fossero sturati.

Il fischio di quel treno gli aveva squarciato e portato via d’un tratto lamiseria di tutte quelle sue orribili angustie, e quasi da un sepolcro scoperchiatos’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spa-lancava enorme tutt’intorno.

S’era tenuto istintivamente alle coperte che ogni sera si buttava addosso,ed era corso col pensiero dietro a quel treno che s’allontanava nella notte.

C’era, ah! c’era, fuori di quella casa orrenda, fuori di tutti i suoi tormen-

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ti, c’era il mondo, tanto, tanto mondo lontano, a cui quel treno s’avviava...Firenze, Bologna, Torino, Venezia... tante città, in cui egli da giovine erastato e che ancora, certo, in quella notte sfavillavano di luci sulla terra. Sì,sapeva la vita che vi si viveva! La vita che un tempo vi aveva vissuto anche lui!E seguitava, quella vita; aveva sempre seguitato, mentr’egli qua, come unabestia bendata, girava la stanga del molino. Non ci aveva pensato più! Ilmondo s’era chiuso per lui, nel tormento della sua casa, nell’arida, ispidaangustia della sua computisteria... Ma ora, ecco, gli rientrava, come per tra-vaso violento, nello spirito. L’attimo, che scoccava per lui, qua, in questa suaprigione, scorreva come un brivido elettrico per tutto il mondo, e lui conl’immaginazione d’improvviso risvegliata poteva, ecco, poteva seguirlo percittà note e ignote, lande, montagne, foreste, mari... Questo stesso brivido,questo stesso palpito del tempo. C’erano, mentr’egli qua viveva questa vita“impossibile”, tanti e tanti milioni d’uomini sparsi su tutta la terra, che vive-vano diversamente. Ora, nel medesimo attimo ch’egli qua soffriva, c’eranole montagne solitarie nevose che levavano al cielo notturno le azzurre fronti...Sì, sì, le vedeva, le vedeva, le vedeva così... c’erano gli oceani... le foreste...

E, dunque, lui – ora che il mondo gli era rientrato nello spirito – potevain qualche modo consolarsi! Sì, levandosi ogni tanto dal suo tormento, perprendere con l’immaginazione una boccata d’aria nel mondo.

Gli bastava!Naturalmente, il primo giorno, aveva ecceduto. S’era ubriacato. Tutto il

mondo, dentro d’un tratto: un cataclisma. A poco a poco, si sarebbericomposto. Era ancora ebro della troppa troppa aria, lo sentiva.

Sarebbe andato, appena ricomposto del tutto, a chiedere scusa al capo–ufficio, e avrebbe ripreso come prima la sua computisteria. Soltanto il capo–ufficio ormai non doveva pretender troppo da lui come per il passato: dove-va concedergli che di tanto in tanto, tra una partita e l’altra da registrare, eglifacesse una capatina, sì, in Siberia... oppure oppure... nelle foreste del Congo:

– Si fa in un attimo, signor Cavaliere mio. Ora che il treno ha fi-schiato...

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, vol. I, Mondadori, Milano, 1957

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Luigi Pirandello Le novelle

Volare

Cortesemente la morte, due anni fa, le aveva fatto una visitina di passata:– No, comoda! Comoda!Solo per avvertirla che sarebbe ritornata tra poco. Per ora, lì, da brava, a

sedere su quella poltrona; in attesa.Ma come, Dio mio? Così, senza più forza neanche di sollevare un

braccio?Brodi consumati, polli, che altro? Latte d’uccello; lingue di pappa-

gallo...Cari, i signori medici!Prima che questo male la assolasse così, poteva almeno aiutare un poco

le due povere figliuole, recandosi a cucire a giornata ora da questa ora daquella signora, che le davano da mangiare e qualche soldo; più per carità cheper altro, lo capiva lei stessa. Non ci vedeva quasi più; le dita avevano perdu-to l’agilità, le gambe la forza di mandare avanti il pedale della macchina. Eh,ci galoppava, prima, su un pedale di macchina! Ora, invece...

Niente quasi, quel che portava a casa; ma pure poteva dire allora di nonstare del tutto a carico delle figliuole. Le quali lavoravano, poverine, dallamattina alla sera, la maggiore a bottega, la minore a casa: astucci, scatole,sacchettini per nozze e per nascita: lavoro fino, delicato; ma che non fruttavaquasi più nulla ormai. Figurarsi che la maggiore, Adelaide, nella bottega do-v’era anche addetta alla vendita e alla cassa, tirava in tutto tre lire al giorno.Guadagnava un po’ più la minore, col lavoro a cottimo; ma non trovava dalavorare ogni giorno, Nené.

Tutt’e tre, insomma, riuscivano a mettere insieme appena appena tantoda pagar la pigione di casa e da levarsi la fame; non sempre.

Ma ora, al principio di quell’inverno, anche Adelaide s’era ammalata, ecome! Veramente avvertiva da un pezzo quello spasimo fisso alle reni; mafinché s’era potuta reggere, non ne aveva detto nulla. Poi le si erano gonfiatele gambe e aveva dovuto farsi vedere da un medico.

– Dottore, che è?Niente. Cosa da nulla. Nefrite. State a letto tre o quattro mesi, ben

riguardata dal fresco, con una bella fascia di lana attorno alla vita; letto, lanae latte; latte, lana e letto. Tre elle. La nefrite si cura così.

Quel guadagno fisso, su cui facevano il maggiore assegnamento, era ve-nuto per tanto a mancare. E allegramente! La padrona della bottega aveva

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promesso di serbare il posto ad Adelaide, e che intanto, per tutto il tempodella malattia, non avrebbe fatto venir meno il lavoro a Nené. Ma con unpajo solo di mani che poteva fare adesso questa povera figliuola, cresciute lespese per la cura di due malate?

Tutto quello che avevano potuto mettere in pegno, lo avevano già mes-so. Fosse morta lei, almeno, vecchia e ormai inutile! Adelaide, dal letto, purcon quel tarlo alle reni, ajutava la sorella, incollava i cartoncini, li rifilava. Malei? Niente. Neanche la colla in cucina poteva preparare. Doveva rimanere lì,per castigo, lei, su quella poltrona, ad affliggere le due figliuole con la suavista e i suoi lamenti. Perché si lamentava, anche, per giunta! Sicuro. Certilamenti modulati, nel sonno. La debolezza – bestialmente – la faceva lamen-tare così, appena socchiudeva gli occhi. Per cui si sforzava di tenerli quantopiù poteva aperti.

Ma che bello spettacolo, allora! Pareva una tomba, quella camera.Senz’aria, senza luce, là, a mezzanino, in una delle vie più vecchie e più angu-ste, presso Piazza Navona. (E dalla piazza, piena di sole nelle belle giornate,arrivavano in quella tomba gli allegri rumori della vita!).

Avrebbe tanto desiderato, la signora Maddalena, d’andare ad abitar lon-tano lontano, magari fuor di porta, non potendo dove sapeva lei. Si sarebbecontentata anche su ai quartieri alti, magari in una stanza più piccola, ma noncosì oppressa dalle case di rimpetto. Lì però eran più basse le pigioni, e vicinala bottega ove Adelaide doveva recarsi ogni mattina; quando vi si recava.

Tre lettini, in quella camera, un cassettone, un tavolino, un divanuccio equattro sedie. Puzzo di colla, tanfo di rinchiuso. La povera Nené non avevapiù tempo, e neanche voglia, per dir la verità, di fare un po’ di pulizia. Sulcassettone, ci si poteva scrivere col dito, tanta era la polvere. Stracci e ritagliper terra. E lo specchio, su quel cassettone, fin dall’estate scorsa, tutto rica-mato dalle mosche. Ma se non si curava più neanche della sua persona, quellapovera figliuola...

Eccola là, tutta sbracata, senza busto, in sottanina e col corpetto sbotto-nato, e i capelli spettinati che le cascavano da tutte le parti. Ma che seno e cherespiro di gioventù!

S’era forse ingrassata un po’; ma era pur tanto bellina ancora! Un po’meno, forse, della sorella maggiore, che aveva un volto da Madonna, primache il male glielo gonfiasse a quel modo. Ma ormai Adelaide aveva trentaseianni. Dieci di meno, Nené, perché tra l’una e l’altra c’erano stati tre maschi

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che il buon Dio aveva voluti per sé. I maschi, che avrebbero potuto sostenerla casa e formarsi facilmente uno stato, morti; e quelle due povere figliuole,invece, che le avevano dato e le davano tuttora tanto pensiero, quelle sì, leerano rimaste. E non trovare in tanti anni da accasarsi, belline com’erano,sagge, modeste, laboriose. Eppure, oh, se ne facevano, di matrimonii! Quan-ti sacchetti, quante scatoline ogni giorno! Ma li facevano per le altre, i sac-chetti e le scatoline, le sue figliuole.

Uno solo s’era fatto avanti, l’inverno scorso: un bel tipo! Vecchio impie-gato in ritiro, tutto ritinto, doveva aver messo da parte – chi sa come – unabuona sommetta, perché prestava a usura. Nené aveva detto di sì, solo perfarle chiudere gli occhi meno disperatamente. Ma poi s’era presto capito chetanta voglia di sposare colui non la aveva, e che invece... Ma sì, tutt’a untratto, s’era sparsa la voce che lo avevano messo dentro per offese al buoncostume.

Così vecchio, e così... Ma già, il mondo, tutto rivoltato! E non avevaavuto il coraggio di ripresentarsi, dopo tre mesi, appena uscito dal carcere?Prima nero come un corvo, e ora biondo come un canarino... Per poco Nenénon gli aveva fatto ruzzolar le scale. Eppure ancora, laido vecchiaccio sfronta-to, la seguiva e la infastidiva per via, quand’ella si recava a lasciare a bottega isacchettini e le scatolette o a prender le commissioni.

Più che per Adelaide la signora Maddalena sentiva pietà per questa piùpiccola. Perché Adelaide, almeno, da ragazzina, aveva goduto, mentre Nenéera nata e cresciuta sempre in mezzo alla miseria.

Di tratto in tratto la signora Maddalena alzava gli occhi a un ritratto fotogra-fico ingiallito e quasi svanito, appeso in cornice alla parete di faccia; e, contem-plando quella figura d’uomo zazzeruto, tentennava amaramente il capo.

Lo aveva sposato per forza. Ai suoi tempi, quel tomo lì, era stato unfamoso baritono buffo.

Da giovane lei aveva studiato canto, perché aveva una bellissima voce disoprano sfogato. Faceva all’amore, allora, con un giovanotto che forse l’avreb-be resa felice. Ma la madre, donna terribile, un giorno – rimedio spiccio –l’aveva schiaffeggiata pulitamente al balcone, coram populo, mentre stava indolce corrispondenza con l’innamorato seduto sul balcone dirimpetto.

Aveva esordito a Palermo, prima del 1860, al Carolino, e aveva fattofurore. Eh, altro... Ma quell’uomo là con la zazzera, che cantava con lei,innamorato cotto, l’aveva chiesta subito in moglie. E subito, appena sposati,le aveva proibito di seguitare a cantare. Per gelosia, pezzo d’imbecille! Sì,

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guadagnava tesori, lui, è vero, e la teneva come una regina, ma sempre incin-ta, e senza casa, di città in città, con un esercito di casse e di fagotti appresso.E i denari, com’erano entrati, eran volati via. Poi lui s’era ammalato, avevaperduto la voce di baritono buffo, e buonanotte ai sonatori! Lui, morto inun ospedale; e lei rimasta in mezzo alla strada con cinque figliuoli, tuttipiccini così.

Non solo il corpo, ma pure l’anima si sarebbe venduta per dar da man-giare a quei piccini. Aveva fatto di tutto; anche da serva, tre mesi; poi, i tremaschietti le erano morti fra gli stenti; e quelle due femminucce se le eratirate su, non sapeva più come neanche lei. Eccole là.

– Piove, Nené?– Piove.Da quindici giorni pioveva, signori miei, senza smettere un momento.

E per l’umidaccio che la acchiappava subito alle reni, Adelaide, ecco, non sipoteva tenere neppure a sedere sul letto.

Oh! sonavano alla porta. E chi poteva essere con quella bella giornata?La signora Elvira, che piacere!, la padrona della bottega d’Adelaide. S’era

incomodata a venir lei stessa a pagare fino in casa la settimana? Quanta bon-tà... No?

– No, care mie, – prese a dire la signora Elvira, deponendo nelle mani diNené l’ombrello sgocciolante e poi un fazzoletto e poi la borsetta, per tirarsisu e commiserare le sue sottane zuppe da strizzare.

In gioventù, una trentina d’anni fa, si doveva esser molto compiaciuta dise stessa, quella signora Elvira, se con tanta ostinazione aveva voluto conser-varsi tal quale, coi capelli biondi d’allora e il roseo delle guance e il rosso dellelabbra e quella ridicola formosità del busto e dei fianchi. Sapendo di nonpoter più ingannare nessuno e neanche se stessa, si ritruccava quella sua pove-ra maschera sciupata con violento dispetto per rappresentare almeno per qual-che momento, di sfuggita, davanti allo specchio quella lontana immagine digioventù passata invano, ahimè. Se non che, certe volte, se ne dimenticava; eallora il contrasto fra quella truccatura di rosea zitellina e la sguajatagginedella vecchia inacidita, strideva buffissimo e sconcio.

– No no, care mie, – seguitò. – Bontà, scusate, bontà fino a un certopunto! Se non mi sfogo, schiatto. Dov’è la tasca? Eccola qua! Leggi, leggi tu,anima mia; leggi qua!

– Che cos’è? – domandò la signora Maddalena dalla poltrona, co-sternata.

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Luigi Pirandello Le novelle

La signora Elvira porse a Nené una lettera e rispose con mani per aria:– Che cos’è? Centoquattordici lire di ritenuta! Bisogna che mi vuoti il

cuore dalla bile, o schiatto! Sono parti da fare a una come me? Ma dico... Losa Dio quel che sto patendo per voi a bottega, per serbare il posto a Lalla, e tuintanto, anima mia, qua... centoquattordici lire di ritenuta? Impazzisco.

– Ma che c’entro io? – fece Nené.– Che c’entri tu? – rimbeccò pronta quella. – E il lavoro chi l’ha fatto?– Non io sola.– Tu per la maggior parte; tu che vuoi prendertene sempre più di quello

che puoi fare! Ed ecco che ne viene. Hai visto? Piombi la sera tardi a bottega,approfitti che non ho tempo di vedere e che mi fido di te... Ah, cara mia, no!Io non le pago. Centoquattordici lire? Fossi matta! Ci ho colpa anch’io, chenon ho sorvegliato. Pagheremo, metà io, metà tu.

– E con che pago io? – fece Nené, quasi ridendo.– Me lo sconti col lavoro, – rispose la signora Elvira. – Oh bella, toh!

Cominciando da questa settimana.– Signora Elvira...– Non sento ragioni!– Ma guardi come siamo tutt’e tre! Se ci toglie... Domani viene il padron

di casa per la pigione...– E tu non gliela dare!– Come non gliela do? Siamo in arretrato di due mesi. Ci butta in mez-

zo alla strada. Creda, signora Elvira, che le vogliono fare una soperchieria,perché il lavoro...

– Zitta, zitta, bella mia, non mi parlare del lavoro! – la interruppe quel-la. – Ridammi il paracqua e ringrazia Dio, anima mia, se non ti volto lespalle, come dovrei. Se non tutto in una volta, sconterai a poco a poco, inconsiderazione, bada bene! di tua sorella che mi lasciò sempre contenta e ditua madre. C’è malattie; compatisco. Ti do la metà, e basta. Statevi bene.

Posò il denaro sul cassettone, e scappò via.Le tre donne rimasero un pezzo a guardarsi negli occhi senza fiatare. La

signora Maddalena e Adelaide s’erano accorte, e le stessa, Nené, sapeva bene,che veramente la manifattura di quelle scatoline per un dolciere d’Aquilalasciava molto a desiderare. Premeva a Nené di raggranellare il mensile per ilpadrone di casa, e aveva lavorato anche di notte, con le mani stanche e gliocchi imbambolati dal sonno. Ora, con la giunta di quelle poche lire, ilmensile per il padrone di casa lo metteva insieme; ma non restava nulla per la

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settimana ventura. Cioè, restavano i debiti coi fornitori, i quali certo, nonricevendo neppure il piccolo acconto promesso, non le avrebbero fatto piùcredito per un’altra settimana.

Stimando vano ogni sfogo di parole, si stettero zitte tutt’e tre. Nellosguardo della madre però e in quello d’Adelaide parve a Nené di scorgerecome un rimprovero per quel lavoro eseguito male; quel rimprovero cheforse avrebbero voluto rivolgerle a tempo e che non le avevano rivolto perdelicatezza, giacché vivevano ormai alle spalle di lei. Parve anche a Nené chequel poco denaro lasciato lì sul cassettone dalla padrona della bottega fossedato come in elemosina a lei che aveva lavorato, non perché lo meritasse, masolamente per riguardo alla sorella che se ne stava a letto e alla madre che sene stava in poltrona. Così infatti aveva detto colei. Non meritava dunquenessuna considerazione, lei come lei, pur essendo ridotta in quello stato,peggio d’una serva? E sissignori! Per disgrazia, a un certo punto, ad Adelaidescappò un sospiro in forma di domanda:

– E ora come si fa?– Come si fa? – rispose agra Nené. – Si fa così, che mi corico anch’io e

staremo a guardar dal letto tutte e tre come piove.Tin tin tin – di nuovo alla porta. Un’altra visita? La provvidenza, questa

volta.Un’amica di Nené. Una spilungona miope, tutta collo, dai capelli rossi

crespi; e gli occhi ovati e una bocca da pescecane. Ma tanto buona, poverina!Da più d’un anno non si faceva vedere. Ora veniva tutta festante, vestitabene, ad annunziare all’amica il suo prossimo matrimonio. Sposava, sposavaanche lei, e pareva non ci sapesse credere lei stessa. Stringeva forte forte lebraccia a Nené nel darle l’annunzio, e rideva (con quella bocca!) e per mira-colo non saltava dalla gioja, senza pensare che lì, in quella camera squallida,c’erano due povere malate e che la sua amica, tanto più giovane, tanto piùbellina di lei... Oh, ma ella era venuta per un buon fine! Sapeva delle malat-tie, sapeva delle angustie, e aveva pensato subito alla sua Nené. Ecco: percommissionarle i sacchettini dei confetti. Li voleva fatti da lei. Cento. Ebelli, belli, belli li voleva, e senza risparmio. Pagava lui, lo sposo.

– Un ottimo posto, sai! Segretario al Ministero della Guerra. E un annomeno di me. Un bel giovine, sì. Eccolo qua!

Aveva il ritratto con sé: lo aveva portato apposta per farlo vedere a Nené.Bello, eh? E tanto buono, e tanto innamorato: uh, pazzo addirittura! Fra unasettimana le nozze. Bisognava dunque che fossero fatti presto, quei sacchettini.

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Parlò sempre lei in quella mezz’oretta che si trattenne in casa dell’amica.Più non poteva, perché era già tardi: alle cinque e mezzo lui usciva dal Mini-stero, volava da lei, e guai se non la trovava a casa.

– Geloso?– No, Dio liberi! Geloso no, ma non vuol perdere neanche un minutino,

capisci? Oh, senti, Nené mia: senza cerimonie tra noi! Tu avrai certo bisognodi qualche anticipazioncina per le spese...

– No, cara, – le disse subito Nené. – Non ho proprio bisogno di nulla.Va’ pure tranquilla.

– Proprio di nulla? E allora, cento, eh?– Cento, ti servo io. E rallegramenti!La sposina corse a baciare la signora Maddalena, poi Adelaide; baciò

Nené, bacioni di cuore, e via.Le tre donne, questa volta, non tornarono a guardarsi negli occhi. La

madre li richiuse, mentre le labbra le fremevano di pianto. Adelaide li volsesenza sguardo al soffitto. Poco dopo, Nené scoppio in una fragorosa risata.

– Bello davvero, oh, quello sposino!– Fortune! – sospirò, dalla poltrona, la madre.Adelaide, dal letto:– Imbecille!L’ombra s’era addensata nella camera. E spiccava solo, in quell’ombra,

un fazzoletto bianco sulle ginocchia della madre, e il bianco della rimboccaturadel lenzuolo sul letto d’Adelaide. Ai vetri della finestra, lo squallore dell’ulti-mo crepuscolo.

– Intanto, – riprese la madre, che non si scorgeva quasi più, l’anticipa-zione... Sei andata a dirle che non ne avevi bisogno...

– Già! Come farai? – soggiunse Adelaide.Nené guardò l’una e l’altra, poi alzò le spalle e rispose:– Semplicissimo! Non glieli farò.– Come? Se hai preso l’impegno! – disse la madre.E Nené:– Mi prenderò il gusto di farla sposare senza sacchettini. Oh, a lei poi

non glieli fo, non glieli fo e non glieli fo! Questo piacere me lo voglio pren-dere. Non glieli fo.

La madre e la sorella non insistettero, sicure che la mattina dopo, ripen-sandoci meglio, Nené si sarebbe recata a provvedersi a credito della stoffa perquel lavoro di cui c’era tanto bisogno. Ma tutta la notte Nené s’agitò in

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continue smanie sul letto. Il padrone di casa venne nelle prime ore dellagiornata e si portò via tutto il denaro.

– Piove, Nené?Pioveva anche quel giorno; e tutta la notte era piovuto.Nené rifece il suo lettino; ajutò la madre a vestirsi; l’adagiò piano piano

sulla poltrona; rifece anche il letto di lei e aggiustò alla meglio quello diAdelaide, che volle provarsi a seder di nuovo, sorretta dai guanciali. Ma per-ché? Se non c’era proprio nulla da fare...

Stettero in silenzio per un lungo pezzo. Poi la madre disse:– E pettinati almeno, Nené! Non posso più vederti così arruffata!– Mi pettino, e poi? – domandò Nené, riscotendosi.– E poi... poi t’acconci un po’ – aggiunse la madre. – Non vuoi davvero

andare per quei sacchettini?– Dove vado? con che vado? – gridò Nené, scattando in piedi, rabbiosa-

mente.– Potresti da lei...– Da chi?– Dalla tua amica, con una scusa.– Grazie!– Oh, per me, sai, – disse allora, stanca, la madre, – se mi lasci morire

così, tanto meglio!Nené non rispose, lì per lì; ma sentì in quel breve silenzio crescere in sé

l’esasperazione; alla fine proruppe:– Ma se non basto! se non basto! Non vedete? M’arrabatto e, per far più

presto, invece di guadagnare, la ritenuta a quella strega ritinta! e qua isacchettini alla giraffa sposa, che li vuol belli... Non ne posso più! Che vita èquesta?

Adelaide allora balzò dal letto, pallida, risoluta:– Qua la veste! Dammi la veste! Torno a bottega!Nené accorse per costringerla a rimettersi a letto, la madre si protese,

spaventata, dalla poltrona; ma Adelaide insisteva, cercando di svincolarsi dal-la sorella.

– La veste! la veste!– Sei matta? Vuoi morire?– Morire. Lasciami!– Adelaide! Ma dici sul serio?– Lasciami, ti dico!

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– Ebbene, va’! – disse allora Nené, lasciandola. – Voglio vederti!Adelaide, lasciata, si sentì mancare; si sorresse al letto; sedette sulla seg-

giola, lì, in camicia; si nascose il volto con le mani e ruppe in pianto.– Ma non fare storie! – le disse allora Nené. – Non prendere altro fresco,

e non scherziamo!La ajutò a ricoricarsi.– Esco io, più tardi, – poi disse, facendosi davanti allo specchio sul cas-

settone, e ravviandosi dopo tanti giorni i capelli con un tale gesto, che lamadre dalla poltrona rimase a mirarla per un lungo pezzo, atterrita.

Non disse altro Nené.Prima di uscire, col cappello già in capo, stette a lungo, a lungo, presso la

finestra a guardar fuori, attraverso i vetri bagnati dalla pioggia.Sul davanzale di quella finestra, in un angolo, era rimasta dimenticata

una gabbietta, dalle gretole irrugginite, infradiciata ora dalla pioggia che ca-deva da tanti giorni.

In quella gabbietta era stata per circa due mesi una passerina caduta dalnido, nei primi giorni della scorsa primavera.

Nené l’aveva allevata con tante cure; poi, quando aveva creduto ch’essafosse in grado di volare, le aveva aperto lo sportellino della gabbia:

– Godi!Ma la passeretta – chi sa perché! – non aveva voluto prendere il volo. Per

due giorni lo sportellino era rimasto aperto. Accoccolata sulla bacchetta, sor-da agli inviti dei passeri che la chiamavano dai tetti vicini, aveva preferito dimorir lì, nella gabbia, mangiata da un esercito di formiche venute su per ilmuro da una finestrella ferrata del pianterreno, dov’era forse una dispensa.Proprio così. Quella passeretta era stata uccisa dalle formiche in una notte,mangiata dalla formiche, sciocca, per non aver voluto volare. Per non avervoluto cedere all’invito, forse, d’un vecchio passero spennacchiato, ch’erastato in gabbia anch’esso tre mesi, una volta, per offese al buon costume.

Ebbene, no. Dalle formiche, no, lei non si sarebbe lasciata mangiare.– Nené, chiamò la madre, per scuoterla.Ma Nené uscì di fretta, senza salutar nessuno. Mandò i denari, ogni

giorno. Non la rividero più.

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Roma, Newton– Compton, 1994

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La veste lunga

Era il primo viaggio lungo di Didì. Da Palermo a Zùnica. Circa otto oredi ferrovia.

Zùnica per Didì era un paese di sogno, lontano lontano, ma più neltempo che nello spazio. Da Zùnica infatti il padre recava un tempo, a leibambina, certi freschi deliziosi frutti fragranti, che poi non aveva saputo piùriconoscere, né per il colore, né per il sapore, né per la fragranza, in tanti altriche il padre le aveva pur recati di là: celse more in rustici ziretti di terracottatappati con pampini di vite; perine ceree da una parte e sanguigne dall’altra,con la corona: e susine iridate e pistacchi e lumie.

Tuttora, dire Zùnica e immaginare un profondo bosco d’olivi saraceni epoi distese di verdissimi vigneti e giardini vermigli con siepi di salvie ronzan-ti d’api e vivai muscosi e boschetti d’agrumi imbalsamati di zagare e di gelso-mini, era per Didì tutt’uno, quantunque già da un pezzo sapesse che Zùnicaera una povera arida cittaduzza dell’interno della Sicilia, cinta da ogni partedai lividi tufi arsicci delle zolfare e da scabre rocce gessose fulgenti alle rabbiedel sole, e che quei frutti, non più gli stessi della sua infanzia, venivano da unfeudo, detto di Ciumìa, parecchi chilometri lontano dal paese.

Aveva queste notizie dal padre: lei non era mai stata più là di Bagheria,presso Palermo, per la villeggiatura: Bagheria, sparsa tra il verde, bianca, sot-to il turchino ardente del cielo. L’anno scorso, era stata anche più vicino, trai boschi d’aranci di Santa Flavia, e ancora con le vesti corte.

ora, per il viaggio lungo fino a Zùnica indossava anche, per la primavolta, una veste lunga.

E le pareva d’esser già un’altra. Una damina proprio per la quale. Avevalo strascico finanche negli sguardi; alzava, a tratti, le sopracciglia come a tirar-lo su, questo strascico dello sguardo; e teneva alto il nasino ardito, alto ilmento con la fossetta, e chiusa la bocca. Bocca da signora con la veste lunga;bocca che nasconde i denti, come la veste lunga i piedini.

Se non che, seduto dirimpetto a lei, c’era Cocò, il fratello maggiore,quel birbante di Cocò il quale, col capo abbandonato su la spalliera rossadello scompartimento di prima classe, tenendo gli occhi bassi e la sigarettaattaccata al labbro superiore, di tanto in tanto le sospirava, stanco:

– Didì, mi fai ridere.Dio, che rabbia! Dio, che prurito nelle dita!Ecco: se Cocò non si fosse rasi i baffi come voleva la moda, Didì glieli

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avrebbe strappati, saltandogli addosso come una gattina.Invece, sorridendo con le ciglia alzate, gli rispondeva, senza scomporsi:– Caro mio, sei un cretino.Ridere della sua veste lunga e anche, se vogliamo, delle arie che si dava,

dopo il serio discorso che le aveva tenuto la sera avanti a proposito di questoviaggio misterioso a Zùnica...

Era o non era, questo viaggio, una specie di spedizione, un’impresa, qual-cosa come la scalata a un castello ben munito in cima a una montagna? Eranoo non erano macchine da guerra per quella scalata le sue vesti lunghe? Edunque, che c’era da ridere se lei, sentendosi armata con esse per una conqui-sta, provava di tratto in tratto le armi col darsi quelle arie?

Cocò, la sera avanti, le aveva detto che finalmente era venuto il tempo dipensare sul serio ai casi loro.

Didì aveva sgranato tanto d’occhi.Casi loro? Che casi? Ci potevano esser casi anche per lei, a cui pensare, e

per giunta sul serio?Dopo la prima sorpresa, una gran risata.Conosceva una persona sola, fatta apposta per pensare ai casi suoi e an-

che a quelli di tutti loro: donna Sabetta, la sua governante, intesa donnaBebé, o donna Be’, come lei per far più presto la chiamava. Donna Be’ pen-sava sempre ai casi suoi. Investita, spinta, trascinata da certi suoi furibondiimpeti improvvisi, la poveretta fingeva di mettersi a frignare e, grattandosicon ambo le mani la fronte, gemeva:

– Oh, benedetto il nome del Signore, mi lasci pensare ai casi miei, si-gnorina!

La prendeva per donna Be’, adesso, Cocò? No, non la prendeva perdonna Be’. Cocò, la sera avanti, le aveva assicurato che proprio questi bene-detti casi loro c’erano, e serii, molto serii, come quella sua veste lunga daviaggio.

Fin da bambina, vedendo andare il padre ogni settimana e talvolta anchedue volte la settimana a Zùnica, e sentendo parlare del feudo di Ciumìa edelle zolfare di Monte Diesi e d’altre zolfare e poderi e case, Didì aveva sem-pre creduto che tutti questi beni fossero del padre, la baronia dei Brilla.

Erano, invece, dei marchesi Nigrenti di Zùnica. Il padre, barone Brilla,ne era soltanto l’amministrazione giudiziario. E quell’amministrazione dacui per vent’anni al padre era venuta la larga agiatezza, della quale loro due,Cocò e Didì, avevano sempre goduto, sarebbe finita tra pochi mesi.

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Didì era veramente nata e cresciuta in mezzo a quell’agiatezza; avevapoco più di sedici anni; ma Cocò ne aveva ventisei; e Cocò serbava unachiara, per quanto lontana memoria dei gravi stenti tra cui il padre s’era di-battuto prima d’esser fatto, per maneggi e brighe d’ogni sorta, amministra-tore giudiziario dell’immenso patrimonio di quei marchesi di Zùnica.

Ora, c’era tutto il pericolo di ricadere in quegli stenti che, se anche mi-nori, sarebbero sembrati più duri dopo l’agiatezza. Per impedirlo, bisognavache riuscisse, ora, ma proprio bene e in tutto, il piano di battaglia architetta-to dal padre, e di cui quel viaggio era la prima mossa.

La prima, no, veramente. Cocò era già stato a Zùnica col padre, circa tremesi addietro, in ricognizione; vi si era trattenuto quindici giorni, e avevaconosciuto la famiglia Nigrenti.

La quale era composta, salvo errore, di tre fratelli e di una sorella. Salvoerrore, perché nell’antico palazzo in cima al paese c’erano anche due vecchieottuagenarie, due zônne (zie– donne), che Cocò non sapeva bene se fosserodei Nigrenti anche loro, cioè se sorelle del nonno del marchese o se sorelledella nonna.

Il marchese si chiamava Andrea; aveva circa quarantacinque anni e, cessa-ta l’amministrazione giudiziaria, sarebbe stato per le disposizioni testamen-tarie il maggior erede. Degli altri due fratelli, uno era prete – don Arzigogolo,come lo chiamava il padre – l’altro, il così detto Cavaliere, un villanzone.Bisognava guardarsi dall’uno e dall’altro, e più dal prete che dal villanzone.La sorella aveva ventisette anni, un anno più di Cocò, e si chiamava Agata, oTitina: gracile come un’ostia e pallida come la cera; con gli occhi costante-mente pieni d’angoscia e con le lunghe mani esili e fredde che le tremavanodi timidezza, incerte e schive. Doveva essere la purezza e la bontà in persona,poverina: non aveva mai dato un passo fuori del palazzo: assisteva le duevecchie ottuagenarie, le due zônne; ricamava e sonava “divinamente” il piano-forte.

Ebbene: il piano del padre era questo: prima di lasciare quell’ammini-strazione giudiziaria, concludere due matrimoni: dare cioè a Didì il marcheseAndrea e Agata a lui, Cocò.

Didì al primo annunzio era diventata in volto di bragia e gli occhi leavevano sfavillato di sdegno. Lo sdegno era scoppiato in lei più che per lacosa in se stessa, per l’aria cinicamente rassegnata con cui Cocò la accettavaper sé e la profferiva a lei come una salvezza. Sposare per denari un vecchio,uno che aveva ventotto anni più di lei?

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– Ventotto, no, – le aveva detto Cocò, ridendo di quella vampata disdegno. – Che ventotto, Didì! Ventisette, siamo giusti, ventisette e qualchemese.

– Cocò, mi fai schifo! Ecco: schifo! – gli aveva allora gridato Didì, tuttafremente, mostrandogli le pugna.

E Cocò:– Sposo la Virtù, Didì, e ti faccio schifo? Ha un annetto anche lei più di

me; ma la Virtù, Didì mia, ti faccio notare, non può esser molto giovane. Eio n’ho tanto bisogno! sono un discolaccio, un viziosaccio, tu lo sai: un fara-butto, come dice papà: metterò senno: avrò ai piedi un bellissimo pajo dipantofole ricamate, con le iniziali in oro e la corona baronale, e un berrettoin capo, di velluto, anch’esso ricamato, e col fiocco di seta, bello lungo. Ilbaronello Cocò La Virtù... Come sarò bello, Didì mia!

E s’era messo a passeggiare melenso melenso, col collo torto, gli occhibassi, il bocchino appuntito, le mani una su l’altra, pendenti dal mento, abarba di capro.

Didì, senza volerlo, aveva sbruffato una risata.E allora Cocò s’era messo a rabbonirla, carezzandola e parlandole di tut-

to il bene che egli avrebbe potuto fare a quella poveretta, gracile come un’ostia,pallida come la cera, la quale già, nei quindici giorni ch’egli s’era trattenuto aZùnica, aveva mostrato, pur con la timidezza che le era propria, di vedere inlui il suo salvatore. Ma sì! certamente! Era interesse dei fratelli e specie di quelcosì detto Cavaliere (il quale aveva con sé, fuori del palazzo, una donnacciada cui aveva avuto dieci, quindici, venti, insomma, non si sa quanti figliuoli)ch’ella restasse nubile, tappata lì a muffir nell’ombra. Ebbene, egli sarebbestato il sole per lei, la vita. La avrebbe tratta fuori di lì, condotta a Palermo,in una bella casa nuova: feste, teatri, viaggi, corse in automobile... Bruttinaera, sì; ma pazienza: per moglie, poteva passare. Era tanto buona poi, e avvez-za a non aver mai nulla, si sarebbe contentata anche di poco.

E aveva seguitato a parlare a lungo, apposta, di sì solamente, su questotono, cioè del bene che pur si riprometteva di fare, perché Didì, stuzzicatacosì da una parte e, dall’altra, indispettita di vedersi messa da canto, alla finedomandasse:

– E io?Venuta fuori la domanda, Cocò le aveva risposto con un profondo so-

spiro:

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– Eh, per te, Didì mia, per te la faccenda è molto, ma molto più diffici-le! Non sei sola.

Didì aveva aggrottato le ciglia.– Che vuol dire?– Vuol dire... vuol dire che ci sono altre attorno al marchese, ecco. E una

specialmente... una!Con un gesto molto espressivo Cocò le aveva lasciato immaginare una

straordinaria bellezza.– Vedova, sai? Su i trent’anni. Cugina, per giunta... E, con gli occhi

socchiusi, s’era baciate le punte delle dita.Didì aveva avuto uno scatto di sprezzo.– E se lo pigli!Ma subito Cocò:– Una parola, se lo pigli! Ti pare che il marchese Andrea... (Bel nome,

Andrea! Senti come suona bene: il marchese Andrea ... In confidenza peròpotresti chiamarlo Nenè, come lo chiama Agata, cioè Titina, sua sorella). Èdavvero un uomo, Nenè, sai? Ti basti sapere che ha avuto la... la come sichiama... la fermezza di star vent’anni chiuso in casa. Vent’anni, capisci? nonsi scherza... dacché tutto il suo patrimonio cadde sotto amministrazionegiudiziaria. Figurati i capelli, Didì mia, come gli sono cresciuti in questiventi anni! Ma se li taglierà. Puoi esserne sicura, se li taglierà. Ogni mattina,all’alba, esce solitario... ti piace? solitario e avvolto in un mantello, per unalunga passeggiata fino alla montagna. A cavallo, sai? La cavalla è piuttostovecchiotta, bianca; ma lui cavalca divinamente. Sì, divinamente, come lasorella Titina suona divinamente il pianoforte. E pensa, oh, pensa che dagiovine, fino a venticinque anni, cioè finché non lo richiamarono a Zùnicaper il rovescio finanziario, lui “fece vita”, e che vita, cara mia! fuori, in Con-tinente, a Roma, a Firenze; corse il mondo; fu a Parigi, a Londra... Ora pareche da giovanotto abbia amato questa cugina di cui t’ho parlato, che si chia-ma Fana Lopes. Credo si fosse anche fidanzato con lei. Ma, venuto il disse-sto, lei non volle più saperne e sposò un altro. Adesso che egli ritorna nelprimiero stato... capisci? Ma è più facile che il marchese, guarda, per farledispetto, sposi un’altra cugina, zitellona questa, una certa Tuzza La Dia, checredo abbia sospirato sempre in segreto per lui, pregando Iddio. Dati gliumori del marchese e i suoi capelli lunghi, dopo questi venti anni di clausura,è temibile anche questa zitellona, cara Didì. Basta – aveva concluso la sera

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avanti Cocò, – ora chinati, Didì, e tienti con la punta delle dita l’orlo dellaveste su le gambe.

Stordita da quel lungo discorso, Didì s’era chinata, domandando:– Perché?E Cocò:– Te le saluto. Quelle ormai non si vedranno più!Gliele aveva guardate e le aveva salutate con ambo le mani; poi, sospi-

rando, aveva soggiunto:– Rorò! Ricordi Rorò Campi, la tua amichetta? Ricordi che salutai le

gambe anche a lei, l’ultima volta che portò le vesti corte? Credevo di nondovergliele più rivedere. Eppure gliele rividi!

Didì s’era fatta pallida e seria.– Che dici?– Ah, sai, morta! – s’era affrettato a risponderle Cocò. – Morta, te lo

giuro, glieli rividi, povera Rorò! Lasciarono la cassa mortuaria aperta, quan-do la portarono chiesa, a San Domenico. La mattina io ero là, in chiesa. Vidila bara, tra i ceri, e mi accostai. C’erano attorno alcune donne del popolo,che ammiravano il ricco abito da sposa di cui il marito aveva voluto che fosseparata, da morta. A un certo punto, una di quelle donnette sollevò un lembodella veste per osservare il merletto della sottana, e io così rividi le gambedella povera Rorò.

Tutta quella notte Didì s’era agitata sul letto senza poter dormire.Già, prima d’andare a letto, aveva voluto provarsi ancora una volta la

veste lunga da viaggio, davanti allo specchio dell’armadio. Dopo il gestoespressivo, con cui Cocò aveva descritto la bellezza di colei... come si chia-mava? Fana... Fana Lopes... – si era veduta, lì, nello specchio, troppo piccola,magrolina, miserina... Poi s’era tirata su la veste davanti per rivedersi queltanto, pochino pochino, delle gambe che aveva finora mostrato, e subitoaveva pensato alle gambe di Rorò Campi, morta.

A letto, aveva voluto riguardarsele sotto le coperte: impalate, stecchite;immaginandosi morta anche lei, dentro una bara, con l’abito da sposa, dopoil matrimonio col marchese Andrea dai capelli lunghi...

Che razza di discorsi, quel Cocò!Ora, in treno, Didì guardava il fratello sdrajato sul sedile dirimpetto e si

sentiva prendere a mano a mano da una gran pena per lui.In pochi anni aveva veduto sciuparsi la freschezza del bel volto fraterno,

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alterarsi l’aria di esso, l’espressione degli occhi e della bocca. Le pareva ch’eglifosse come arso, dentro. E quest’arsura interna, di trista febbre, gliela scorge-va negli sguardi, nelle labbra, nell’aridità e nella rossedine della pelle,segnatamente, sotto gli occhi. Sapeva ch’egli rincasava tardissimo ogni notte;che giocava; sospettava altri vizi in lui, più brutti, dalla violenza dei rimpro-veri che il padre gli faceva spesso, di nascosto a lei, chiusi l’uno e l’altro nelloscrittojo. E che strana impressione, di dolore misto a ribrezzo, provava daalcun tempo nel vederlo da quella trista vita impenetrabile accostarsi a lei; alpensiero che egli, pur sempre per lei buon fratellino affettuoso, fosse poi,fuori di casa, peggio che un discolo, un vizioso, se non proprio un farabutto,come tante volte nell’ira gli aveva gridato in faccia il padre. Perché, perchénon aveva egli per gli altri lo stesso cuore che per lei? Se era così buono perlei, senza mentire, come poteva poi, nello stesso tempo, essere così tristo pergli altri?

Ma forse la tristezza era fuori: fuori, là, nel mondo, ove a una certa età,lasciati i sereni, ingenui affetti della famiglia, si entrava coi calzoni lunghi gliuomini, con le vesti lunghe le donne. E doveva essere una laida tristezza, senessuno osava parlarne, se non sottovoce e con furbeschi ammiccamenti, cheindispettivano chi – come lei – non riusciva a capirci nulla; doveva essere unatristezza divoratrice, se in sì poco tempo suo fratello, già così fresco e candi-do, s’era ridotto a quel modo; se Rorò Campi, la sua amicuccia, dopo unanno appena, ne era morta...

Didì si sentì pesare sui piedini, fino al giorno avanti liberi e scoperti, laveste lunga, e ne provò un fastidio smanioso: si sentì oppressa da una ango-scia soffocante, e volse lo sguardo dal fratello al padre, che sedeva all’altroangolo della vettura, intento a leggere alcune carte d’amministrazione, tratteda una borsetta di cuojo aperta su le ginocchia.

Entro quella borsetta, foderata di stoffa rossa, spiccava lucido il turac-ciolo smerigliato di una fiala. Didì vi fissò gli occhi e pensò che il padre era,da anni, sotto la minaccia continua d’una morte improvvisa, potendo da unistante all’altro essere colto da un accesso del suo male cardiaco, per cui por-tava sempre con sé quella fiala.

Se d’un tratto egli fosse venuto a mancarle... Oh Dio, no, perché pensa-re a questo? Egli, pur con quella fiala lì davanti, non ci pensava. Leggeva lesue carte d’amministrazione e, di tratto in tratto, si aggiustava le lenti insellatesu la punta del naso; poi, ecco, si passava la mano grassoccia, bianca e pelosa,

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sul capo calvo, lucidissimo; oppure staccava gli occhi dalla lettura e li fissavanel vuoto, restringendo un po’ le grosse palpebre rimborsate. Gli occhi ceruli,ovati, gli s’accendevano allora di un’acuta vivezza maliziosa, in contrasto conla floscia stanchezza della faccia carnuta e porosa, da cui schizzavano, sotto ilnaso, gl’ispidi e corti baffetti rossastri, già un po’ grigi, a cespugli.

Da un pezzo, cioè dalla morte della madre, avvenuta tre anni addietro,Didì aveva l’impressione che il padre si fosse come allontanato da lei, anzistaccato così, che lei, ecco, poteva osservarlo come un estraneo. E non ilpadre soltanto: anche Cocò. Le pareva che fosse rimasta lei sola a vivere anco-ra della vita della casa, o piuttosto a sentire il vuoto di essa, dopo la scompar-sa di colei che la riempiva tutta e teneva tutti uniti.

Il padre, il fratello s’erano messi a vivere per conto loro, fuori di casa,certo; e quegli atti della vita, che seguitavano a compiere lì insieme con lei,erano quasi per apparenza, senza più quella cara, antica intimità, da cui spiraquell’alito familiare, che sostiene, consola e rassicura.

Tuttora Didì ne sentiva un desiderio angoscioso, che la faceva piangereinsaziabilmente, inginocchiata innanzi a un’antica cassapanca, ov’erano con-servate le vesti della madre.

L’alito della famiglia era racchiuso là, in quella cassapanca antica, di noce,lunga e stretta come una bara; e di là, dalle vesti della mamma, esalava, ainebriarla amaramente coi ricordi dell’infanzia felice.

Tutta la vita s’era come diradata e fatta vana, con la scomparsa di lei;tutte le cose pareva avessero perduto il loro corpo e fossero diventate ombre.E che sarebbe avvenuto domani? Avrebbe ella sempre sentito quel vuoto,quella smania di un’attesa ignota, di qualche cosa che dovesse venire a col-marglielo, quel vuoto, e a ridarle la fiducia, la sicurezza, il riposo?

Le giornate eran passate per Didì come nuvole davanti alla luna.Quante sere, senz’accendere il lume nella camera silenziosa, non se n’era

stata dietro le alte invetriate della finestra a guardar le nuvole bianche e cinereeche avviluppavano la luna! E pareva che corresse la luna, per liberarsi da queiviluppi. E lei era rimasta a lungo, lì nell’ombra, con gli occhi intenti e senzasguardo, a fantasticare; e spesso gli occhi, senza che lei lo volesse, le si eranoriempiti di lagrime.

Non voleva esser triste, no; voleva anzi esser lieta, alacre, vispa. Ma nellasolitudine, in quel vuoto, questo desiderio non trovava da sfogarsi altrimentiche in veri impeti di follia, che sbigottivano la povera donna Bebé.

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Senza più guida, senza più nulla di consistente attorno, non sapeva checosa dovesse fare nella vita, qual via prendere. Un giorno avrebbe volutoessere in un modo, il giorno appresso in un’altro. Aveva anche sognato tuttauna notte, di ritorno dal teatro, di farsi ballerina, sì, e suora di carità la mat-tina dopo, quand’erano venute per la questua le monacelle del Boccone delpovero. E un po’ voleva chiudersi tutta in se stessa e andar vagando per ilmondo assorta nella scienza teosofica, come Frau Wenzel, la sua maestra ditedesco e di pianoforte; un po’ voleva dedicarsi tutta all’arte, alla pittura. Mano, no: alla pittura veramente, no, più: le faceva orrore, ormai, la pittura,come se avesse preso corpo in quell’imbecille di Carlino Volpi, figlio delpittore Volpi, suo maestro, perché un giorno Carlino Volpi, venuto invecedel padre ammalato, a darle lezione... Com’era stato?... Lei, a un certo pun-to, gli aveva domandato:

– Vermiglione o carminio?E lui, muso di cane:– Signorina, carminio... così!E l’aveva baciata in bocca.Via, da quel giorno e per sempre, tavolozza, pennelli e cavalletto! Il ca-

valletto glielo aveva rovesciato addosso e, non contenta, gli aveva anche sca-gliato in faccia il fascio dei pennelli, e lo aveva cacciato via, senza neanchedargli il tempo di lavarsi la grinta impudente, tutta pinticchiata di verde, digiallo, di rosso.

Era alla discrezione del primo venuto, ecco... Non c’era più nessuno, incasa, che la proteggesse. Un mascalzone, così, poteva entrarle in casa e per-mettersi, come niente, di baciarla in bocca. Che schifo le era rimasto, di quelbacio! S’era stropicciate fino a sangue le labbra; e ancora a pensarci, istintiva-mente, si portava una mano alla bocca.

Ma aveva una bocca, veramente?... Non se la sentiva! Ecco: si stringevaforte forte, con due dita, il labbro, e non se lo sentiva. E così, di tutto ilcorpo. Non se lo sentiva. Forse perché era sempre assente da se stessa, lonta-na?... Tutto era sospeso, fluido e irrequieto dentro di lei.

E le avevano messo quella veste lunga, ora così... su un corpo, che leinon si sentiva. Assai più del suo corpo pesava quella veste! Si figuravano checi fosse qualcuna, una donna, sotto quella veste lunga, e invece no; invece lei,tutt’al più, non poteva sentirvi altro, dentro, che una bambina; sì, ancora, dinascosto a tutti, la bambina ch’era stata, quando tutto ancora intorno aveva

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per lei una realtà, la realtà della sua dolce infanzia, la realtà sicura che suamadre dava alle cose col suo alito e col suo amore. Il corpo di quella bimba,sì viveva e si nutriva e cresceva sotto le carezze e le cure della mamma. Mortala mamma, lei aveva cominciato a non sentire più neanche il suo corpo,quasi che anch’esso si fosse diradato, come tutt’intorno la vita della famiglia,la realtà che lei non riusciva più a toccare in nulla.

Ora, questo viaggio...Guardando di nuovo il padre e il fratello, Didì provò dentro, a un trat-

to, una profonda, violenta repulsione.Si erano addormentati entrambi in penosi atteggiamenti. Ridondava al

padre da un lato, premuta dal colletto, la flaccida giogaja sotto il mento. Eaveva la fronte imperlata di sudore. E nel trarre il respiro, gli sibilava un po’il naso.

Il treno, in salita, andava lentissimamente, quasi ansimando, per terredesolate, senza un filo d’acqua, senza un ciuffo d’erba, sotto l’azzurro inten-so e cupo del cielo. Non passava nulla, mai nulla davanti al finestrino dellavettura; solo, di tanto in tanto, lentissimamente, un palo telegrafico, aridoanch’esso, coi quattro fili che s’avvallavano appena.

Dove la conducevano quei due, che anche lì la lasciavano così sola? Aun’impresa vergognosa. E dormivano! Sì, perché, forse, era tutta così, e nonera altro, la vita. Essi, che già c’erano entrati, lo sapevano; c’erano ormaiavvezzi e, andando, lasciandosi portare dal treno, potevano dormire... Leavevano fatto indossare quella veste lunga per trascinarla lì, a quella laidaimpresa, che non faceva più loro alcuna impressione. Giusto lì la trascinava-no, a Zùnica, ch’era il paese di sogno della sua infanzia felice! E perché nemorisse dopo un anno, come la sua amichetta Rorò Campi?

L’ignota attesa, l’irrequietezza del suo spirito, dove, in che si sarebberofermate? In una cittaduzza morta, in un fosco palazzo antico, accanto a unvecchio marito dai capelli lunghi... E forse le sarebbe toccato di sostituire lacognata nelle cure di quelle due vecchie ottuagenarie, seppure il padre fosseriuscito nella sua insidia.

Fissando gli occhi nel vuoto, Didì vide le stanze di quel fosco palazzo.Non c’era già stata una volta? Sì, in sogno, una volta, per restarvi per sem-pre... Una volta? Quando? Ma ora, ecco... e già da tanto tempo, vi era, e perstarvi per sempre, soffocata nella vacuità d’un tempo fatto di minuti eterni,tentato da un ronzio perpetuo, vicino, lontano, di mosche sonnolente nel

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Luigi Pirandello Le novelle

sole che dai vetri pinticchiati delle finestre sbadigliava sulle nude pareti gialledi vecchiaia, o si stampava polveroso sul pavimento di logori mattoni diterracotta.

Oh Dio, e non poter fuggire... non poter fuggire... legata com’era, qua,dal sonno di quei due, dalla lentezza enorme di quel treno, uguale alla lentez-za del tempo là, nell’antico palazzo, dove non si poteva far altro che dormire,come dormivano quei due...

Provò a un tratto in quel fantasticare che assumeva nel suo spirito unarealtà massiccia, ponderosa, infrangibile, un senso di vuoto così arido, unacosì soffocante e atroce afa della vita, che istintivamente, proprio senza voler-lo, cauta, allungò una mano alla borsetta di cuojo, che il padre aveva posato,aperta, sul sedile. Il turacciolo smerigliato della fiala aveva già attratto con lasua iridescenza lo sguardo di lei.

Il padre, il fratello seguitavano a dormire. E Didì stette un pezzo a esa-minare la fiala, che luceva col veleno roseo. Poi, quasi senza badare a quelloche faceva, la sturò pian piano e lentamente l’accostò alle labbra, tenendofissi gli occhi ai due che dormivano. E vide, mentre beveva, che il padrealzava una mano, nel sonno, per scacciare una mosca, che gli scorreva su lafronte, lieve.

A un tratto, la mano che reggeva la fiala le cascò in grembo, pesantemen-te. Come se gli orecchi le si fossero all’improvviso sturati, avvertì enorme,fragoroso, intronante il rumore del treno, così forte che temette dovessesoffocare il grido che le usciva dalla gola e gliela dilacerava... No... ecco, ilpadre, il fratello balzavano dal sonno... le erano sopra... Come aggrapparsipiù a loro?

Didì stese le braccia; ma non prese, non vide, non udì più nulla.Tre ore dopo, arrivò, piccola morta con quella sua veste lunga, a Zùnica,

al paese di sogno della sua infanzia felice.

Da: Luigi Pirandello, Novelle per un anno, Roma, Newton– Compton, 1994

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Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal

Il fu Mattia Pascal

Premessa (I)

Una delle poche cose, anzi forse la sola ch’io sapessi di certo era questa:che mi chiamavo Mattia Pascal. E me ne approfittavo. Ogni qual volta qual-cuno de’ miei amici o conoscenti dimostrava d’aver perduto il senno fino alpunto di venire da me per qualche consiglio o suggerimento, mi stringevonelle spalle, socchiudevo gli occhi e gli rispondevo:

– Io mi chiamo Mattia Pascal.– Grazie, caro. Questo lo so.– E ti par poco?Non pareva molto, per dir la verità, neanche a me. Ma ignoravo allora

che cosa volesse dire il non sapere neppur questo, il non poter più risponde-re, cioè, come prima, all’occorrenza:

– Io mi chiamo Mattia Pascal.Qualcuno vorrà bene compiangermi (costa così poco), immaginando

l’atroce cordoglio d’un disgraziato, al quale avvenga di scoprire tutt’a untratto che... sì, niente, insomma: né padre, né madre, né come fu o comenon fu; e vorrà pur bene indignarsi (costa anche meno) della corruzione deicostumi, e de’ vizii, e della tristezza dei tempi, che di tanto male possonoesser cagione a un povero innocente.

Ebbene, si accomodi. Ma è mio dovere avvertirlo che non si tratta pro-priamente di questo. Potrei qui esporre, di fatti, in un albero genealogico,l’origine e la discendenza della mia famiglia e dimostrare come qualmentenon solo ho conosciuto mio padre e mia madre, ma e gli antenati miei e leloro azioni, in un lungo decorso di tempo, non tutte veramente lodevoli.

E allora?Ecco: il mio caso è assai più strano e diverso; tanto diverso e strano che

mi faccio a narrarlo.Fui, per circa due anni, non so se più cacciatore di topi che guardiano di

libri nella biblioteca che un monsignor Boccamazza, nel 1803, volle lasciarmorendo al nostro Comune. È ben chiaro che questo Monsignore dovetteconoscer poco l’indole e le abitudini de’ suoi concittadini; o forse sperò cheil suo lascito dovesse col tempo e con la comodità accendere nel loro animol’amore per lo studio. Finora, ne posso rendere testimonianza, non si è acce-so: e questo dico in lode de’ miei concittadini. Del dono anzi il Comune sidimostrò così poco grato al Boccamazza, che non volle neppure erigergli unmezzo busto pur che fosse, e i libri lasciò per molti e molti anni accatastati in

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal

un vasto e umido magazzino, donde poi li trasse, pensate voi in quale stato,per allogarli nella chiesetta fuori mano di Santa Maria Liberale, non so perqual ragione sconsacrata. Qua li affidò, senz’alcun discernimento, a titolo dibeneficio, e come sinecura, a qualche sfaccendato ben protetto il quale, perdue lire al giorno, stando a guardarli, o anche senza guardarli affatto, neavesse sopportato per alcune ore il tanfo della muffa e del vecchiume.

Tal sorte toccò anche a me; e fin dal primo giorno io concepii così mise-ra stima dei libri, sieno essi a stampa o manoscritti (come alcuni antichissimidella nostra biblioteca), che ora non mi sarei mai e poi mai messo a scrivere,se, come ho detto, non stimassi davvero strano il mio caso e tale da poterservire d’ammaestramento a qualche curioso lettore, che per avventura, ridu-cendosi finalmente a effetto l’antica speranza della buon’anima di monsignorBoccamazza, capitasse in questa biblioteca, a cui io lascio questo mio mano-scritto, con l’obbligo però che nessuno possa aprirlo se non cinquant’annidopo la mia terza, ultima e definitiva morte.

Giacché, per il momento (e Dio sa quanto me ne duole), io sono mor-to, sì, già due volte, ma la prima per errore, e la seconda... sentirete.

Da: Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1986

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Premessa seconda (filosofica) a mo’ di scusa (II)

L’idea o piuttosto, il consiglio di scrivere mi è venuto dal mio reve-rendo amico don Eligio Pellegrinotto, che al presente ha in custodia ilibri della Boccamazza, e al quale io affido il manoscritto appena saràterminato, se mai sarà.

Lo scrivo qua, nella chiesetta sconsacrata, al lume che mi viene dallalanterna lassù, della cupola; qua, nell’abside riservata al bibliotecario e chiusada una bassa cancellata di legno a pilastrini, mentre don Eligio sbuffa sottol’incarico che si è eroicamente assunto di mettere un po’ d’ordine in questavera babilonia di libri. Temo che non ne verrà mai a capo. Nessuno prima dilui s’era curato di sapere, almeno all’ingrosso, dando di sfuggita un’occhiataai dorsi, che razza di libri quel Monsignore avesse donato al Comune: siriteneva che tutti o quasi dovessero trattare di materie religiose. Ora ilPellegrinotto ha scoperto, per maggior sua consolazione, una varietà grandis-sima di materie nella biblioteca di Monsignore; e siccome i libri furon presidi qua e di là nel magazzino e accozzati così come venivano sotto mano, laconfusione è indescrivibile. Si sono strette per la vicinanza fra questi libriamicizie oltre ogni dire speciose: don Eligio Pellegrinotto mi ha detto, adesempio, che ha stentato non poco a staccare da un trattato molto licenziosoDell’arte di amar le donne libri tre di Anton Muzio Porro, dell’anno 1571,una Vita e morte di Faustino Materucci, Benedettino di Polirone, che talunichiamano beato, biografia edita a Mantova nel 1625. Per l’umidità, le legatu-re de’ due volumi si erano fraternamente appiccicate. Notare che nel librosecondo di quel trattato licenzioso si discorre a lungo della vita e delle avven-ture monacali.

Molti libri curiosi e piacevolissimi don Eligio Pellegrinotto, arrampica-to tutto il giorno su una scala da lampionajo, ha pescato negli scaffali dellabiblioteca. Ogni qual volta ne trova uno, lo lancia dall’alto, con garbo, sultavolone che sta in mezzo; la chiesetta ne rintrona; un nugolo di polvere sileva, da cui due o tre ragni scappano via spaventati: io accorro dall’abside,scavalcando la cancellata; do prima col libro stesso la caccia ai ragni su pe’ltavolone polveroso; poi apro il libro e mi metto a leggiucchiarlo.

Così, a poco a poco, ho fatto il gusto a siffatte letture. Ora don Eligiomi dice che il mio libro dovrebbe esser condotto sul modello di questi ch’egliva scovando nella biblioteca, aver cioè il loro particolar sapore. Io scrollo lespalle e gli rispondo che non è fatica per me. E poi altro mi trattiene.

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Tutto sudato e impolverato, don Eligio scende dalla scala e viene a pren-dere una boccata d’aria nell’orticello che ha trovato modo di far sorgere quidietro l’abside, riparato giro giro da stecchi e spuntoni.

– Eh, mio reverendo amico, – gli dico io, seduto sul murello, col mentoappoggiato al pomo del bastone, mentr’egli attende alle sue lattughe. – Nonmi par più tempo, questo, di scriver libri, neppure per ischerzo. In conside-razione anche della letteratura, come per tutto il resto, io debbo ripetere ilmio solito ritornello: Maledetto sia Copernico!

– Oh oh oh, che c’entra Copernico! – esclama don Eligio, levandosi sula vita, col volto infocato sotto il cappellaccio di paglia.

– C’entra, don Eligio. Perché, quando la Terra non girava...– E dàlli! Ma se ha sempre girato!– Non è vero. L’uomo non lo sapeva, e dunque era come se non girasse.

Per tanti, anche adesso non gira. L’ho detto l’altro giorno a un vecchio con-tadino, e sapete come m’ha risposto? ch’era una buona scusa per gli ubriachi.Del resto, anche voi scusate, non potete mettere in dubbio che Giosuè fermòil Sole. Ma lasciamo star questo. Io dico che quando la Terra non girava, el’uomo, vestito da greco o da romano, vi faceva così bella figura e così alta-mente sentiva di sé e tanto si compiaceva della propria dignità, credo beneche potesse riuscire accetta una narrazione minuta e piena d’oziosi particola-ri. Si legge o non si legge in Quintiliano, come voi m’avete insegnato, che lastoria doveva esser fatta per raccontare e non per provare?

– Non nego, – risponde don Eligio, – ma è vero altresì che non si sonomai scritti libri così minuti, anzi minuziosi in tutti i più riposti particolari,come dacché, a vostro dire, la Terra s’è messa a girare.

– E va bene! Il signor conte si levò per tempo, alle ore otto e mezzo precise...La signora contessa indossò un abito lilla con una ricca fioritura di merletti allagola... Teresina si moriva di fame... Lucrezia spasimava d’amore...Oh, santoDio! e che volete che me n’importi? Siamo o non siamo su un’invisibiletrottolina, cui fa da ferza un fil di sole, su un granellino di sabbia impazzitoche gira e gira e gira, senza saper perché, senza pervenir mai a destino, come seci provasse gusto a girar così, per farci sentire ora un po’ più di caldo, ora unpo’ più di freddo, e per farci morire – spesso con la coscienza d’aver commes-so una sequela di piccole sciocchezze – dopo cinquanta o sessanta giri? Co-pernico, Copernico, don Eligio mio ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente.Ormai noi tutti ci siamo a poco a poco adattati alla nuova concezione del-

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l’infinita nostra piccolezza, a considerarci anzi men che niente nell’Universo,con tutte le nostre belle scoperte e invenzioni e che valore dunque volete cheabbiano le notizie, non dico delle nostre miserie particolari, ma anche dellegenerali calamità? Storie di vermucci ormai le nostre. Avete letto di quelpiccolo disastro delle Antille? Niente. La Terra, poverina, stanca di girare,come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo motod’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche.Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degliuomini che non sono stati mai così nojosi come adesso. Basta. Parecchiemigliaja di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più?

Don Eligio Pellegrinotto mi fa però osservare che per quanti sforzi fac-ciamo nel crudele intento di strappare, di distruggere le illusioni che la prov-vida natura ci aveva create a fin di bene, non ci riusciamo. Per fortuna, l’uo-mo si distrae facilmente.

Questo è vero. Il nostro Comune, in certe notti segnate nel calendario,non fa accendere i lampioni, e spesso – se è nuvolo – ci lascia al bujo.

Il che vuol dire, in fondo, che noi anche oggi crediamo che la luna nonstia per altro nel cielo, che per farci lume di notte, come il sole di giorno, e lestelle per offrirci un magnifico spettacolo. Sicuro. E dimentichiamo spesso evolentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda,e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci di certecose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo, dovreb-bero parerci miserie incalcolabili.

Ebbene, in grazia di questa distrazione provvidenziale, oltre che per lastranezza del mio caso, io parlerò di me, ma quanto più brevemente mi saràpossibile, dando cioè soltanto quelle notizie che stimerò necessarie.

Alcune di esse, certo, non mi faranno molto onore; ma io mi trovo orain una condizione così eccezionale, che posso considerarmi come già fuoridella vita, e dunque senza obblighi e senza scrupoli di sorta.

Cominciamo.

Da: Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1986

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La casa e la talpa (III)

Ho detto troppo presto, in principio, che ho conosciuto mio padre.Non l’ho conosciuto. Avevo quattr’anni e mezzo quand’egli morì. Andatocon un suo trabaccolo in Corsica, per certi negozii che vi faceva, non tornòpiù, ucciso da una perniciosa, in tre giorni, a trentotto anni. Lasciò tuttavianell’agiatezza la moglie e i due figli: Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto,maggiore di me di due anni.

Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a credere che laricchezza di mio padre (la quale pure non gli dovrebbe più dar ombra,passata com’è da un pezzo in altre mani) avesse origini – diciamo così –misteriose.

Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte, a Marsiglia, colcapitano d’un vapore mercantile inglese, il quale, dopo aver perduto tutto ildenaro che aveva seco, e non doveva esser poco, si era anche giocato un gros-so carico di zolfo imbarcato nella lontana Sicilia per conto d’un negoziantedi Liverpool (sanno anche questo! e il nome?), d’un negoziante di Liverpool,che aveva noleggiato il vapore; quindi, per disperazione, salpando, s’era anne-gato in alto mare. Così il vapore era approdato a Liverpool, alleggerito anchedel peso del capitano. Fortuna che aveva per zavorra la malignità de’ mieicompaesani.

Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio padre non ebbemai pe’ suoi commerci stabile sede: sempre in giro con quel suo trabaccolo,dove trovava meglio e più opportunamente comprava e subito rivendevamercanzie d’ogni genere; e perché non fosse tentato a imprese troppo grandie rischiose, investiva a mano a mano i guadagni in terre e case, qui, nel pro-prio paesello, dove presto forse contava di riposarsi negli agi faticosamenteacquistati, contento e in pace tra la moglie e i figliuoli.

Così acquistò prima la terra delle Due Riviere ricca di olivi e di gelsi, poiil podere della Stìa anch’esso riccamente beneficato e con una bella sorgivad’acqua, che fu presa quindi per il molino; poi tutta la poggiata dello Spero-ne ch’era il miglior vigneto della nostra contrada, e infine San Rocchino, oveedificò una villa deliziosa. In paese, oltre alla casa in cui abitavamo, acquistòdue altre case e tutto quell’isolato, ora ridotto e acconciato ad arsenale.

La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia madre, inetta algoverno dell’eredità, dovette affidarlo a uno che, per aver ricevuto tantibeneficii da mio padre fino a cangiar di stato, stimo dovesse sentir l’obbligo

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di almeno un po’ di gratitudine, la quale, oltre lo zelo e l’onestà, non glisarebbe costata sacrifizii d’alcuna sorta, poiché era lautamente remunerato.

Santa donna, mia madre! D’indole schiva e placidissima, aveva così scar-sa esperienza della vita e degli uomini! A sentirla parlare, pareva una bambi-na. Parlava con accento nasale e rideva anche col naso, giacché ogni volta,come si vergognasse di ridere, stringeva le labbra. Gracilissima di complessione,fu, dopo la morte di mio padre, sempre malferma in salute; ma non si lagnòmai de’ suoi mali, né credo se ne infastidisse neppure con se stessa, accettan-doli, rassegnata, come una conseguenza naturale della sua sciagura. Forse siaspettava di morire anch’essa, dal cordoglio, e doveva dunque ringraziareIddio che la teneva in vita, pur così tapina e tribolata, per il bene dei figliuoli.

Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena di palpiti e disgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse di perderci, e spesso man-dava in giro le serve per la vasta casa, appena qualcuno di noi si fosse un po’allontanato.

Come una cieca, s’era abbandonata alla guida del marito; rimastane sen-za, si sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casa, tranne le domeniche,di mattina per tempo, per andare a messa nella prossima chiesa, accompa-gnata dalle due vecchie serve, ch’ella trattava come parenti. Nella stessa casa,anzi, si restrinse a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le molte altrealle scarse cure delle serve e alle nostre diavolerie.

Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d’antica foggia, dalle tendescolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro d’un altrotempo; e ricordo che più d’una volta io mi guardai attorno con una stranacosternazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi ogget-ti da tanti anni lì senz’uso, senza vita.

Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma era una sorella dimio padre, zitellona bisbetica, con un pajo d’occhi da furetto, bruna e fiera.Si chiamava Scolastica. Ma si tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tut-t’a un tratto, discorrendo, s’infuriava, e scappava via senza salutare nessuno.Io, da ragazzo, ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto d’occhi,specialmente quando la vedevo scattare in piedi su le furie e le sentivo grida-re, rivolta a mia madre e pestando rabbiosamente un piede sul pavimento:

– Senti il vuoto? La talpa! la talpa!Alludeva al Malagna, all’amministratore che ci scavava soppiatto la fossa

sotto i piedi.

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Zia Scolastica (l’ho saputo dipoi) voleva a tutti i costi che mia madreriprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno di queste idee né dànnodi questi consigli. Ma ella aveva un sentimento aspro e dispettoso della giu-stizia; e più per questo, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare chequell’uomo ci rubasse così, a man salva. Ora, data l’assoluta inettitudine e lacecità di mia madre, non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. Elo designava anche in persona d’un pover’uomo, che si chiamava GerolamoPomino.

Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora e si chiama Gerolamocome il padre: amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò appresso. Finda ragazzo veniva col padre in casa nostra, ed era la disperazione mia e di miofratello Berto.

Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla mano di zia Scolasti-ca, che non aveva voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del resto,di alcun altro; e non già perché non si fosse sentita disposta ad amare, maperché il più lontano sospetto che l’uomo da lei amato avesse potuto anchecol solo pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere – diceva – un delitto.Tutti finti, per lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco:Pomino, no. Ma se n’era accorta troppo tardi. Di tutti gli uomini che aveva-no chiesto la sua mano, e che poi si erano ammogliati, ella era riuscita ascoprire qualche tradimento, e ne aveva ferocemente goduto. Solo di Pomino,niente; anzi il pover’uomo era stato un martire della moglie.

E perché dunque, ora, non lo sposava lei ? Oh bella, perché era vedovo!era appartenuto a un’altra donna, alla quale forse, qualche volta, avrebbepotuto pensare. E poi perché... via! si vedeva da cento miglia lontano, nonostante la timidezza: era innamorato, era innamorato... s’intende di chi, quelpovero signor Pomino!

Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le sarebbe parso unvero e proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure, poverina, che ziaScolastica dicesse sul serio; e rideva in quel suo modo particolare alle sfuriatedella cognata, alle esclamazioni del povero signor Pomino, che si trovava lìpresente a quelle discussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi piùsperticate.

M’immagino quante volte egli avrà esclamato, dimenandosi su la seg-giola, come su un arnese di tortura:

– Oh santo nome di Dio benedetto!

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Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli mansueti, credo che s’in-cipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po’ di rossetto, appenaappena, un velo, su le guance: certo si compiaceva d’aver conservato fino allasua età i capelli, che si pettinava con grandissima cura, a farfalla, e si rassettavacontinuamente con le mani.

Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se mia madre, noncerto per sé ma in considerazione dell’avvenire dei suoi figliuoli, avesse seguìtoil consiglio di zia Scolastica e sposato il signor Pomino. È fuor di dubbioperò che peggio di come andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sareb-bero potuti andare.

Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli averi nostri, è vero,era andata in fumo; ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfie di quelladro il resto che, se non più agiatamente, ci avrebbe certo permesso di viveresenza bisogni. Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero di nul-la, seguitando, da grandi, a vivere come nostra madre, da piccoli, ci avevaabituati.

Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal Pinzone fu ilnostro ajo e precettore. Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, DelCinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone, ed egli ci s’era già tanto abituatoche si chiamava Pinzone da sé.

Era d’una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di statura; e più alto,Dio mio, sarebbe stato, se il busto, tutt’a un tratto quasi stanco di tallirgracile in sù, non gli si fosse curvato sotto la nuca in una discreta gobbetta, dacui il collo pareva uscisse penosamente, come quel d’un pollo spennato, conun grosso nottolino protuberante, che gli andava sù e giù. Pinzone si sforza-va spesso di tener tra i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascon-dere un risolino tagliente, che gli era proprio; ma lo sforzo in parte era vano,perché questo risolino, non potendo per le labbra così imprigionate, gli scap-pava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai.

Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere nella nostra casa, chené la mamma né noi vedevamo. Non parlava, forse perché non stimava do-ver suo parlare, o perché – com’io ritengo più probabile – ne godeva insegreto, velenosamente.

Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci lasciava fare; mapoi, come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno celo saremmo aspettato, ci tradiva.

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Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di condurci in chiesa; eraprossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione, una brevevisitina alla moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che diver-timento! Ma, appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scap-patella: gli avremmo pagato un buon litro di vino, purché lui, invece che inchiesa e dal Malagna, ci avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzoneaccettò felicissimo, stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve;andammo nel podere; fece il matto con noi per circa tre ore, ajutandoci adarrampicarci su gli alberi, arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritor-no a casa, appena la mamma gli domandò se avevamo fatto la nostra confes-sione e la visita al Malagna:

– Ecco, le dirò... – rispose, con la faccia più tosta del mondo; e le narròper filo e per segno quanto avevamo fatto.

Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi tradimenti noi ciprendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio,io e Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto su la cassapanca, nellasaletta d’ingresso, in attesa della cena, saltammo furtivamente dal letto, incui ci avevano messo per castigo prima dell’ora solita, riuscimmo a scovareuna canna di stagno, da serviziale, lunga due palmi, la riempimmo d’acquasaponata nella vaschetta del bucato; e, così armati, andammo cautamente alui, gli accostammo la canna alle nari – e zifff!– . Lo vedemmo balzare finsotto al soffitto.

Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar nello studio, nonsarà difficile immaginare. La colpa però non era tutta di Pinzone; ché eglianzi, pur di farci imparare qualche cosa, non badava a metodo né a discipli-na, e ricorreva a mille espedienti per fermare in qualche modo la nostra at-tenzione. Spesso con me, ch’ero di natura molto impressionabile, ci riusciva.Ma egli aveva una erudizione tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era, peresempio, dottissimo in bisticci: conosceva la poesia fidenziana e lamaccaronica, la burchiellesca e la leporeambica, e citava allitterazioni eannominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di tutti i poetiperdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso.

Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece ripetere alla collina dirimpet-to non so più quante volte questa sua Eco:

In cuor di donna quanto dura amore?– (Ore).

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Ed ella non mi amò quant’io l’amai?– (Mai).Or chi sei tu che sì ti lagni meco?– (Eco).E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi in ottava rima di Giulio Cesare

Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in sonetti, d’un altroscioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il nome diCaton l’Uticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchiocartolare dalle pagine ingiallite.

– Udite, udite quest’altro dello Stigliani. Bello! Che sarà? Udite:A un tempo stesso io mi son una, e due,E fo due ciò ch’era una primamente.Una mi adopra con le cinque sueContra infiniti che in capo ha la gente.Tutta son bocca dalla cinta in sue,E più mordo sdentata che con dente.Ho due bellichi a contrapposti siti,Gli occhi ho ne’ piedi, e spesso a gli occhi i ditiMi pare di vederlo ancora, nell’atto di recitare, spirante delizia da tutto il

volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il chiocciolino.Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse bastare ciò che

Pinzone c’insegnava; e credeva fors’anche, nel sentirci recitare gli enimmi delCroce o dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia Scolasti-ca, la quale – non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo predilettoPomino – s’era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezio-ne della mamma, non le davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, seavesse potuto senza farsi vedere o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino alevarci la pelle. Ricordo che una volta, scappando via al solito su le furie,s’imbatté in me per una delle stanze abbandonate; m’afferrò per il mento,me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: – Bellino! bellino! bellino!– eaccostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al volto, con gliocchi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò, rug-gendo tra i denti:

– Muso di cane!Ce l’aveva specialmente con me, che pure attendevo agli strampalati in-

segnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la mia

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faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano impo-sto per raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardareper conto suo, altrove.

Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un certo punto, libuttai via e lasciai libero l’occhio di guardare dove gli piacesse meglio. Tanto,se dritto, quest’occhio non m’avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mibastava.

A diciott’anni m’invase la faccia un barbone rossastro e ricciuto, a scàpitodel naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e la frontespaziosa e grave.

Forse, se fosse in facoltà dell’uomo la scelta d’un naso adatto alla propriafaccia, o se noi, vedendo un pover’uomo oppresso da un naso troppo grossoper il suo viso smunto, potessimo dirgli: Questo naso sta bene a me, e me lopiglio; forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli occhi etante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rasse-gnato alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.

Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno paragonato conme), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e sprecavadenari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per labiancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guar-daroba una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di vellutonero, il gibus, e me ne andai a caccia così parato.

Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso mia madre lemal’annate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvederealle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano con-tinuamente bisogno le campagne.

– Abbiamo avuto un’altra bella bussata! – diceva ogni volta, entrando.La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due Riviere; oppure la

fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare vitigni americani, resi-stenti al male. E dunque, altri debiti. Poi il consiglio di vendere lo Sperone,per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu venduto loSperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le case e il poderedella Stia, col molino. Mia madre s’aspettava ch’egli un giorno venisse a direch’era seccata la sorgiva.

Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza misura; ma è anchevero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su la faccia

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della terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela chefui costretto a contrarre con lui.

Egli ebbe l’arte di non farci mancare mai nulla, finché visse mia madre.Ma quell’agiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci lasciava godere,serviva a nascondere l’abisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo;giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimoniovantaggioso.

Il mio matrimonio, invece...– Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del mio matrimonio?Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don Eligio Pellegrinotto

mi risponde:– E come no? Sicuro. Pulitamente...– Ma che pulitamente! Voi sapete bene che...Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con lui. Poi mi consiglia:– S’io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima leggermi qualche novella

del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono...Ce l’ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come vien viene.Coraggio, dunque; avanti!

Da: Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Milano, Mondadori, 1986

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Il ritorno di Mattia (Capitolo XVIII)

Sceso giù in istrada, mi trovai ancora una volta sperduto, pur qui, nelmio stesso paesello nativo: solo, senza casa, senza mèta.

“E ora?” domandai a me stesso. “Dove vado?”.Mi avviai, guardando la gente che passava. Ma che! Nessuno mi ricono-

sceva? Eppure ero ormai tal quale: tutti, vedendomi, avrebbero potuto alme-no pensare: “Ma guarda quel forestiero là, come somiglia al povero MattiaPascal! Se avesse l’occhio un po’ storto, si direbbe proprio lui”. Ma che!Nessuno mi riconosceva, perché nessuno pensava più a me. Non destavoneppure curiosità, la minima sorpresa... E io che m’ero immaginato unoscoppio, uno scompiglio, appena mi fossi mostrato per le vie! Nel disingan-no profondo, provai un avvilimento, un dispetto, un’amarezza che non sa-prei ridire; e il dispetto e l’avvilimento mi trattenevano dallo stuzzicar l’at-tenzione di coloro che io, dal canto mio, riconoscevo bene: sfido! dopo dueanni... Ah, che vuol dir morire! Nessuno, nessuno si ricordava più di me,come se non fossi mai esistito...

Due volte percorsi da un capo all’altro il paese, senza che nessuno mifermasse. Al colmo dell’irritazione, pensai di ritornar da Pomino, per dichia-rargli che i patti non mi convenivano e vendicarmi sopra lui dell’affronto chemi pareva tutto il paese mi facesse non riconoscendomi più. Ma né Romildacon le buone mi avrebbe seguito, né io per il momento avrei saputo dovecondurla. Dovevo almeno prima cercarmi una casa. Pensai d’andare al Muni-cipio, all’ufficio dello stato civile, per farmi subito cancellare dal registro deimorti; ma, via facendo, mutai pensiero e mi ridussi invece a questa bibliote-ca di Santa Maria Liberale, dove trovai al mio posto il reverendo amico donEligio Pellegrinotto, il quale non mi riconobbe neanche lui, lì per lì. DonEligio veramente sostiene che mi riconobbe subito e che soltanto aspettòch’io pronunziassi il mio nome per buttarmi le braccia al collo, parendogliimpossibile che fossi io, e non potendo abbracciar subito uno che gli parevaMattia Pascal. Sarà pure così! Le prime feste me le ebbi da lui, calorosissime;poi egli volle per forza ricondurmi seco in paese per cancellarmi dall’animola cattiva impressione che la dimenticanza dei miei concittadini mi avevafatto.

Ma io ora, per ripicco, non voglio descrivere quel che seguì alla farmaciadel Brìsigo prima, poi al Caffè dell’Unione, quando don Eligio, ancor tuttoesultante, mi presentò redivivo. Si sparse in un baleno la notizia, e tutti ac-

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corsero a vedermi e a tempestarmi di domande. Volevano sapere da me chifosse allora colui che s’era annegato alla Stìa, come se non mi avessero rico-nosciuto loro: tutti, a uno a uno. E dunque ero io, proprio io: donde torna-vo? dall’altro mondo! che avevo fatto? il morto! Presi il partito di non ri-muovermi da queste due riposte, e lasciar tutti stizziti nell’orgasmo dellacuriosità, che durò parecchi e parecchi giorni. Né più fortunato degli altri ful’amico Lodoletta che venne a “intervistarmi” per il Foglietto. Invano, percommuovermi, per tirarmi a parlare mi portò una copia del suo giornale didue anni avanti, con la mia necrologia. Gli dissi che la sapevo a memoria,perché all’Inferno il Foglietto era molto diffuso.

– Eh, altro! Grazie caro! Anche della lapide... Andrò a vederla, sai?Rinunziò a trascrivere il suo nuovo pezzo forte della domenica seguente

che recava a grosse lettere il titolo: MATTIA PASCAL È VIVO!Tra i pochi che non vollero farsi vedere, oltre ai miei creditori, fu Batta

Malagna, che pure – mi dissero – aveva due anni avanti mostrato una granpena per il mio barbaro suicidio. Ci credo. Tanta pena allora, sapendomisparito per sempre, quanto dispiacere adesso, sapendomi ritornato alla vita.Vedo il perché di quella e di questo.

E Oliva? L’ho incontrata per via, qualche domenica, all’uscita della mes-sa, col suo bambino di cinque anni per mano, florido e bello come lei: – miofiglio! Ella mi ha guardato con occhi affettuosi e ridenti, che m’han detto inun baleno tante cose...

Basta. Io ora vivo in pace, insieme con la mia vecchia zia Scolastica, chemi ha voluto offrir ricetto in casa sua. La mia bislacca avventura m’ha rialza-to d’un tratto nella stima di lei. Dormo nello stesso letto in cui morì lapovera mamma mia, e passo gran parte del giorno qua, in biblioteca, incompagnia di don Eligio, che è ancora ben lontano dal dare assetto e ordineai vecchi libri polverosi.

Ho messo circa sei mesi a scrivere questa mia strana storia, ajutato da lui.Di quanto è scritto qui egli serberà il segreto, come se l’avesse saputo sotto ilsigillo della confessione.

Abbiamo discusso a lungo insieme su i casi miei, e spesso io gli ho di-chiarato di non saper vedere che frutto se ne possa cavare.

– Intanto, questo, – egli mi dice: – che fuori della legge e fuori di quelleparticolarità, liete o tristi che sieno, per cui noi siamo noi, caro signor Pascal,non è possibile vivere.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal

Ma io gli faccio osservare che non sono affatto rientrato né nella legge,né nelle mie particolarità. Mia moglie è moglie di Pomino, e io non sapreiproprio dire ch’io mi sia.

Nel cimitero di Miragno, su la fossa di quel povero ignoto che s’uccisealla Stìa, c’è ancora la lapide dettata da Lodoletta:

COLPITO DA AVVERSI FATIMATTIAPASCALBIBLIOTECARIO

CVOR GENEROSO ANIMA APERTAQVI VOLONTARIO

RIPOSALA PIETÀ DEI CONCITTADINI

QVESTA LAPIDE POSE

Io vi ho portato la corona di fiori promessa e ogni tanto mi reco a veder-mi morto e sepolto là. Qualche curioso mi segue da lontano; poi, al ritorno,s’accompagna con me, sorride, e – considerando la mia condizione – midomanda:

– Ma voi, insomma, si può sapere chi siete?Mi stringo nelle spalle, socchiudo gli occhi e gli rispondo:– Eh, caro mio... Io sono il fu Mattia Pascal.

Da: Luigi Pirandello Il fu Mattia Pascal, in Tutti i romanzi, a cura di C. Alvaro, Mondadori,Milano, 1957

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Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Civiltà delle macchine (Quaderno primo, capitoli I e II)

Capitolo IStudio la gente nelle sue più ordinarie occupazioni, se mi riesca di sco-

prire negli altri quello che manca a me per ogni cosa ch’io faccia: la certezzache capiscano ciò che fanno.

In prima, sì, mi sembra che molti l’abbiano, dal modo come tra loro siguardano e si salutano, correndo di qua, di là, dietro alle loro faccende o ailoro capricci. Ma poi, se mi fermo a guardarli un po’ addentro negli occhicon questi miei occhi intenti e silenziosi, ecco che subito s’aombrano. Talunianzi si smarriscono in una perplessità così inquieta, che se per poco io segui-tassi a scrutarli, m’ingiurierebbero o m’aggredirebbero.

No, via, tranquilli. Mi basta questo: sapere, signori, che non è chiaro nécerto neanche a voi neppur quel poco che vi viene a mano a mano determi-nato dalle consuetissime condizioni in cui vivete. C’è un oltre in tutto. Voinon volete o non sapete vederlo. Ma appena appena quest’oltre baleni negliocchi d’un ozioso come me, che si metta a osservarvi, ecco, vi smarrite, viturbate o irritate.

Conosco anch’io il congegno esterno, vorrei dir meccanico della vita chefragorosamente e vertiginosamente ci affaccenda senza requie. Oggi, così ecosì; questo e quest’altro da fare; correre qua, con l’orologio alla mano, peressere in tempo là. – No, caro, grazie: non posso! – Ah sì, davvero? Beato te!Debbo scappare... – Alle undici, la colazione. – Il giornale, la borsa, l’ufficio,la scuola... – Bel tempo, peccato! Ma gli affari... – Chi passa? Ah, un carrofunebre... Un saluto, di corsa, a chi se n’è andato. – La bottega, la fabbrica, iltribunale...

Nessuno ha tempo o modo d’arrestarsi un momento a considerare, sequel che vede fare agli altri, quel che lui stesso fa, sia veramente ciò che sopratutto gli convenga, ciò che gli possa dare quella certezza vera, nella qualesolamente potrebbe trovar riposo. Il riposo che ci è dato dopo tanto fragoree tanta vertigine è gravato da tale stanchezza, intronato da tanto stordimen-to, che non ci è più possibile raccoglierci un minuto a pensare. Con unamano ci teniamo la testa, con l’altra facciamo un gesto da ubriachi.

– Svaghiamoci!Sì. Più faticosi e complicati del lavoro troviamo gli svaghi che ci si

offrono; sicché dal riposo non otteniamo altro che un accrescimento distanchezza.

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Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Guardo per via le donne, come vestono, come camminano, i cappelliche portano in capo; gli uomini, le arie che hanno o che si dànno; ne ascoltoi discorsi, i propositi; e in certi momenti mi sembra così impossibile crederealla realtà di quanto vedo e sento, che non potendo d’altra parte credere chetutti facciano per ischerzo, mi domando se veramente tutto questo fragoro-so e vertiginoso meccanismo della vita, che di giorno in giorno sempre più sicòmplica e s’accèlera, non abbia ridotto l’umanità in tale stato di follìa, chepresto proromperà frenetica a sconvolgere e a distruggere tutto. Sarebbe for-se, in fin de’ conti, tanto di guadagnato. Non per altro, badiamo: per fareuna volta tanto punto e daccapo.

Qua da noi non siamo ancora arrivati ad assistere allo spettacolo, chedicono frequente in America, di uomini che a mezzo d’una qualche faccen-da, fra il tumulto della vita, traboccano giù, fulminati. Ma forse, Dio ajutando,ci arriveremo presto. So che tante cose si preparano. Ah, si lavora! Eio –modestamente – sono uno degli impiegati a questi lavori per lo svago.

Sono operatore. Ma veramente, essere operatore, nel mondo in cui vivoe di cui vivo, non vuol mica dire operare.

Io non opero nulla.Ecco qua. Colloco sul treppiedi a gambe rientranti la mia macchinetta.

Uno o due apparatori, secondo le mie indicazioni, tracciano sul tappeto o sula piattaforma con una lunga pertica e un lapis turchino i limiti entro i qualigli attori debbono muoversi per tenere in fuoco la scena.

Questo si chiama segnare il campo.Lo segnano gli altri; non io: io non faccio altro che prestare i miei occhi

alla macchinetta perché possa indicare fin dove arriva a prendere.Apparecchiata la scena, il direttore vi dispone gli attori e suggerisce loro

l’azione da svolgere.Io domando al direttore:– Quanti metri?Il direttore, secondo la lunghezza della scena, mi dice approssimativa-

mente il numero dei metri di pellicola che abbisognano, poi grida agli attori:– Attenti, si gira!E io mi metto a girar la manovella.Potrei farmi l’illusione che, girando la manovella, faccia muover io que-

gli attori, press’a poco come un sonatore d’organetto fa la sonata girando ilmanubrio. Ma non mi faccio né questa né altra illusione, e séguito a girare

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Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio operatore

finché la scena non è compiuta; poi guardo nella macchinetta e annunzio aldirettore:

– Diciotto metri, – oppure: – trentacinque.E tutto è qui.Un signore, venuto a curiosare, una volta mi domandò:– Scusi, non si è trovato ancor modo di far girare la macchinetta da sé?Vedo ancora la faccia di questo signore: gracile, pallida, con radi capelli

biondi; occhi cilestri, arguti; barbetta a punta, gialliccia, sotto la quale sinascondeva un sorrisetto, che voleva parer timido e cortese, ma era malizio-so. Perché con quella domanda voleva dirmi:

“Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira lamanovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste essersoppresso, sostituito da un qualche meccanismo?”.

Sorrisi e risposi:– Forse col tempo, signore. A dir vero, la qualità precipua che si richiede

in uno che faccia la mia professione è l’ impassibilità di fronte all’azione chesi svolge davanti alla macchina. Un meccanismo, per questo riguardo, sareb-be senza dubbio più adatto e da preferire a un uomo. Ma la difficoltà piùgrave, per ora, è questa: trovare un meccanismo, che possa regolare il movi-mento secondo l’azione, che si svolge davanti alla macchina. Giacché io, carosignore, non giro sempre allo stesso modo la manovella, ma ora più prestoora più piano, secondo il bisogno. Non dubito però, che col tempo –sissignore – si arriverà a sopprimermi. La macchinetta – anche questa mac-chinetta, come tante altre macchinette – girerà da sé. Ma che cosa poi faràl’uomo quando tutte le macchinette gireranno da sé, questo, caro signore,resta ancora da vedere.

Capitolo II

Soddisfo, scrivendo, a un bisogno di sfogo, prepotente. Scarico la miaprofessionale impassibilità e mi vendico, anche; e con me vendico tanti, con-dannati come me a non esser altro, che una mano che gira una manovella.

Questo doveva avvenire, e questo è finalmente avvenuto!L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, butta-

ti via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenutosaggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divini-tà ed è diventato servo e schiavo di esse.

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Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio operatore

Viva la Macchina che meccanizza la vita!Vi resta ancora, o signori, un po’ d’anima, un po’ di cuore e di mente?

Date, date qua alle macchine voraci, che aspettano! Vedrete e sentirete, cheprodotto di deliziose stupidità ne sapranno cavare.

Per la loro fame, nella fretta incalzante di saziarle, che pasto potete estrarreda voi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto?

È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studiospesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti esono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.

La macchina è fatta per agire, per muoversi, ha bisogno di ingojarsi lanostra anima, di divorar la nostra vita. E come volete che ce le ridiano, l’ani-ma e la vita, in produzione centuplicata e continua, le macchine? Ecco qua:in pezzetti e bocconcini, tutti d’uno stampo, stupidi e precisi, da farne, ametterli sù, uno su l’altro, una piramide che potrebbe arrivare alle stelle. Mache stelle, no, signori! Non ci credete. Neppure all’altezza d’un palo telegra-fico. Un soffio li abbatte e li ròtola giù, e tal altro ingombro, non più dentroma fuori, ce ne fa, che – Dio, vedete quante scatole, scatolette, scatolone,scatoline? – non sappiamo più dove mettere i piedi, come muovere un pas-so. Ecco le produzioni dell’anima nostra, le scatolette della nostra vita!

Che volete farci? Io sono qua. Servo la mia macchinetta, in quanto lagiro perché possa mangiare. Ma l’anima, a me, non mi serve. Mi serve lamano; cioè serve alla macchina. L’anima in pasto, in pasto la vita, dovetedargliela voi signori, alla macchinetta ch’io giro. Mi divertirò a vedere, sepermettete, il prodotto che ne verrà fuori. Un bel prodotto e un bel diverti-mento, ve lo dico io.

Già i miei occhi, e anche le mie orecchie, per la lunga abitudine, comin-ciano a vedere e a sentir tutto sotto la specie di questa rapida tremulaticchettante riproduzione meccanica.

Non dico di no: l’apparenza è lieve e vivace. Si va, si vola. E il vento dellacorsa dà un’ansia vigile ilare acuta, e si porta via tutti i pensieri. Avanti! Avantiperché non s’abbia tempo né modo d’avvertire il peso della tristezza, l’avvili-mento della vergogna, che restano dentro, in fondo. Fuori, è un balenìocontinuo, uno sbarbàglio incessante: tutto guizza e scompare.

Che cos’è? Niente, è passato! Era forse una cosa triste; ma niente, ora èpassata.

C’è una molestia, però, che non passa. La sentite? Un calabrone che

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Quaderni di Serafino Gubbio operatore

ronza sempre, cupo, fosco, brusco, sotto sotto, sempre. Che è? Il ronzìo deipali telegrafici? lo striscìo continuo della carrucola lungo il filo dei tram elet-trici? il fremito incalzante di tante macchine, vicine, lontane? quello delmotore dell’automobile? quello dell’apparecchio cinematografico?

Il bàttito del cuore non s’avverte, non s’avverte il pulsar delle arterie.Guaj, se s’avvertisse! Ma questo ronzìo, questo ticchettìo perpetuo, sì, e diceche non è naturale tutta questa furia turbinosa, tutto questo guizzare e scom-parire d’immagini; ma che c’è sotto un meccanismo, il quale pare lo insegua,stridendo precipitosamente.

Si spezzerà?Ah, non bisogna fissarci l’udito. Darebbe una smania di punto in punto

crescente, un’esasperazione a lungo insopportabile; farebbe impazzire.In nulla, più in nulla, in mezzo a questo tramenìo vertiginoso, che inve-

ste e travolge, bisognerebbe fissarsi. Cogliere, attimo per attimo, questo ra-pido passaggio d’aspetti e di casi, e via, fino al punto che il ronzìo per ciascu-no di noi non cesserà.

Da: Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, in Tutti i romanzi, a cura diC.Alvaro, Mondadori, Milano, 1957

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Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

Uno, nessuno e centomila

Mia moglie e il mio naso (Libro I, capitolo I)

– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indu-giare davanti allo specchio.

– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice.Premendo, avverto un certo dolorino.

Mia moglie sorrise e disse:– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:– Mi pende? a me? Il naso?E mia moglie, placidamente:– Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non

proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti dellamia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che disolito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciaguradi sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le propriefattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzìcome un immeritato castigo.

Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza eaggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende,me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così...

– Che altro?Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti

circonflessi, ̂ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente del-l’altra; e altri difetti...

– Ancora?Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte,

no!), la destra, un pochino più arcuata dell’altra: verso il ginocchio, unpochino.

Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. Esolo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che neprovai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a nonaffliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo unbell’uomo.

Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che comediritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo “grazie” e, sicuro di

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Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna impor-tanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tan-t’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quellesopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettaredi prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.

– Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire idifetti del marito.

Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempiero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca chevedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano den-tro e bucheravano giù per torto e sù per traverso lo spirito, come una tana ditalpa; senza che di fuori ne paresse nulla.

– Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sì, anche per

l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefa-no Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale,per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non erariuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questosì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un fi-gliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppure questoaveva potuto ottenere da me.

Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui miopadre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci cammi-navo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi semprepiù da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavoassai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sasso-lino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagnainsormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.

Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pienodi mondi, o di sassolini; che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelliche m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero insostanza più di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tuttibraveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovatoun carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lotiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie néparaocchi; vedevo certamente più di loro; ma andare, non sapevo dove andare.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subi-to, nella riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure ilmio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m’appartenevano: il naso,le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.

Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi inbreve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo nesarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (comedirò) il rimedio che doveva guarirmene.

Da: Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1960

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Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

E il vostro naso? (Libro I, capitolo II)

Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta,dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.

– Mi guardi il naso? – domandai tutt’a un tratto quel giorno stesso a unamico che mi s’era accostato per parlarmi di non so che affare che forse glistava a cuore.

– No, perché? – mi disse quello.E io, sorridendo nervosamente:– Mi pende verso destra, non vedi?E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come se quel difetto

del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell’uni-verso.

L’amico mi guardò in prima un po’ stordito; poi, certo sospettando cheavessi così all’improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il discorso del mionaso perché non stimavo degno né d’attenzione né di risposta l’affare di cuimi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappaiper un braccio, e:

– No, sai, – gli dissi, – sono disposto a trattare con te codest’affare. Main questo momento tu devi scusarmi.

– Pensi al tuo naso?– Non m’ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n’ha fatto

accorgere, questa mattina, mai moglie.– Ah, davvero? – mi domandò allora l’amico; e gli occhi gli risero d’una

incredulità ch’era anche derisione.Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto

d’avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo sen’era accorto? E chi sa quant’altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendo-lo, credevo d’essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr’ero inveceper tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m’era avvenutodi parlare, senz’alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Cajo e quantevolte perciò non avevo fatto ridere di me e pensare:

“Ma guarda un po’ questo pover’uomo che parla dei difetti del nasoaltrui!”.

Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, eraovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fattorisaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgia-

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

mo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radicenel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.

Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora,dentro di me, m’ero figurato d’essere.

Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome quel mio amicoseguitava a starmi davanti con quell’aria d’incredulità derisoria, per vendicar-mi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d’aver nel mento una fossettache glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una più rilevata di qua,una più scempia di là.

– Io? Ma che! – esclamò l’amico. – Ci ho la fossetta, lo so, ma non cometu dici.

– Entriamo là da quel barbiere, e vedrai, – gli proposi subito.Quando l’amico, entrato dal barbiere, s’accorse con maraviglia del difet-

to e riconobbe ch’era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in fin deiconti, era una piccolezza.

Eh sì, senza dubbio, una piccolezza; vidi però, seguendolo da lontano,che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una secondavolta, più là, davanti a un’altra; e più là ancora e più a lungo, una terza volta,allo specchio d’uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appenarincasato, sarà corso all’armadio per far con più agio a quell’altro specchio lanuova conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che,per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasseuna larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico(come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualchealtro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suoamico, il quale, a sua volta... – ma sì! ma sì! – potrei giurare che per parecchigiorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta miaimmaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passareda una vetrina di bottega all’altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsinella faccia chi uno zigomo e chi la coda d’un occhio, chi un lobo d’orec-chio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un certo talemi s’accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qualvolta si metteva a parlare, contraeva inavvertitamente la pàlpebra dell’oc-chio sinistro.

– Sì, caro, – gli dissi a precipizio. – E io, vedi? il naso mi pende versodestra; ma lo so da me; non c’è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia?

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Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una più sporgente dell’altra;e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gam-be? qua, questa qua, ti pare che sia come quest’altra? no, eh? Ma lo so da mee non c’è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.

Lo piantai lì, e via. Fatti pochi passi, mi sentii richiamare.– Ps!Placido placido, col dito, colui m’attirava a sé per domandarmi:– Scusa, dopo di te, tua madre non partorì altri figliuoli?– No: né prima né dopo, – gli risposi. – Figlio unico. Perché?– Perché, – mi disse, – se tua madre avesse partorito un’altra volta, avrebbe

avuto di certo un altro maschio.– Ah sì? Come lo sai?– Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un nato i capelli

terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costì, saràmaschio il nato appresso.

Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto frigido gli do-mandai:

– Ah, ci ho un... com’hai detto?E lui:– Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.– Oh, ma quest’è niente! – esclamai. – Me lo posso tagliare.Negò prima col dito, poi disse:– Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere.E questa volta mi piantò lui.

Da: Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1960

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88Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

Bel modo d’esser soli! (Libro I, capitolo III)

Desiderai da quel giorno ardentissimamente d’esser solo, almeno perun’ora. Ma veramente, più che desiderio, era bisogno: bisogno acuto urgentesmanioso, che la presenza o la vicinanza di mia moglie esasperavano fino allarabbia.

– Hai sentito, Gengè, che ha detto jeri Michelina? Quantorzo ha daparlarti d’urgenza.

– Guarda, Gengè, se a tenermi così la veste mi pajono le gambe.– S’è fermata la pèndola, Gengè.– Gengè, e la cagnolina non la porti più fuori? Poi ti sporca i tappeti e la

sgridi. Ma dovrà pure, povera bestiolina... dico... non pretenderai che... Nonesce da jersera.

– Non temi, Gengè, che Anna Rosa possa esser malata? Non si fa piùvedere da tre giorni, e l’ultima volta le faceva male la gola.

– È venuto il signor Firbo, Gengè. Dice che ritornerà più tardi. Nonpotresti vederlo fuori? Dio, che nojoso!

Oppure la sentivo cantare:

E se mi dici di no,caro il mio bene, doman non verrò;doman non verrò...doman non verrò...

Ma perché non vi chiudevate in camera, magari con due turaccioli negliorecchi?

Signori, vuol dire che non capite come volevo esser solo.Chiudermi potevo soltanto nel mio scrittojo, ma anche lì senza poterci

mettere il paletto, per non far nascere tristi sospetti in mia moglie ch’era, nondirò trista, ma sospettosissima. E se, aprendo l’uscio all’improvviso, m’aves-se scoperto?

No. E poi, sarebbe stato inutile. Nel mio scrittojo non c’erano specchi.Io avevo bisogno d’uno specchio. D’altra parte, il solo pensiero che miamoglie era in casa bastava a tenermi presente a me stesso, e proprio questo ionon volevo.

Per voi, esser soli, che vuol dire?Restare in compagnia di voi stessi, senza alcun estraneo attorno.Ah sì, v’assicuro ch’è un bel modo, codesto, d’esser soli. Vi s’apre nella

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

memoria una cara finestretta, da cui s’affaccia sorridente, tra un vaso di garo-fani e un altro di gelsomini, la Titti che lavora all’uncinetto una fascia rossadi lana, oh Dio, come quella che ha al collo quel vecchio insopportabilesignor Giacomino, a cui ancora non avete fatto il biglietto di raccomanda-zione per il presidente della Congregazione di carità, vostro buon amico, maseccantissimo anche lui, specie se si mette a parlare delle marachelle del suosegretario particolare, il quale jeri... no, quando fu? l’altro jeri che pioveva epareva un lago la piazza con tutto quel brillìo di stille a un allegro sprazzo disole, e nella corsa, Dio che guazzabuglio di cose, la vasca, quel chiosco dagiornali, il tram che infilava lo scambio e strideva spietatamente alla girata,quel cane che scappava: basta, vi ficcaste in una sala di bigliardo, dove c’eralui, il segretario del presidente della Congregazione di carità; e che risatine sifaceva sotto i baffoni peposi per la vostra disdetta allorché vi siete messo agiocare con l’amico Carlino detto Quintadecima. E poi? Che avvenne poi,uscendo dalla sala del bigliardo? Sotto un languido fanale, nella via umidadeserta, un povero ubriaco malinconico tentava di cantare una vecchia can-zonetta di Napoli, che tant’anni fa, quasi tutte le sere udivate cantare in quelborgo montano tra i castagni, ov’eravate andato a villeggiare per star vicino aquella cara Mimì, che poi sposò il vecchio commendator Della Venera, emorì un anno dopo. Oh, cara Mimì! Eccola, eccola a un’altra finestra che vis’apre nella memoria...

Sì, sì, cari miei, v’assicuro che è un bel modo d’esser soli, codesto!

Da: Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, Milano, Mondadori, 1960

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

Fuga da se stesso (Libro I, capitolo IV)

Com’io volevo esser solo

Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo.Tutt’al contra-rio di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.

Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?Forse perché non riflettete bene.Poteva già essere in me la pazzia, non nego; ma vi prego di credere che

l’unico modo d’esser soli veramente è questo che vi dico io.La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, e soltanto possi-

bile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi igno-rino, che del tutto voi ignoriate, così che la vostra volontà e il vostro senti-mento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogniaffermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera soli-tudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, edove dunque l’estraneo siete voi.

Così volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io giàconoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che giàsentivo oscuramente di non poter più levarmi di torno e ch’ero io stesso:l’estraneo inseparabile da me.

Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno, o il bisogno che sentivodi restar solo con esso, di mettermelo davanti per conoscerlo bene e conver-sare un po’ con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgo-mento.

Se per gli altri non ero quel che finora avevo creduto d’essere per me, chiero io?

Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, sepiccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza dellamia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quellala mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dallemie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare.

Ma ora pensavo:“E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guar-

dano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. Ehanno un pajo d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Cherelazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possonovedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri lemie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fosseromolto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere”.

Così, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia: che non potevo,vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi comegli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere comequello d’un altro! Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva comeun arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a mestesso fittizio o rifatto.

Io non potevo vedermi vivere.Potei averne la prova nell’impressione dalla quale fui per così dire assaltato,

allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefa-no Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio pervia, di cui non m’ero prima accorto. Non poté durare più d’un attimo quel-l’impressione, ché subito seguì quel tale arresto e finì la spontaneità e comin-ciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’unestraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo esser moltopallido. Firbo mi domandò:

– Che hai?– Niente, – dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento ch’era insie-

me ribrezzo, pensavo:“Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono pro-

prio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per glialtri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io qualemi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho ricono-sciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in unattimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamentegli altri, e io no”.

E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inse-guendolo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fer-mare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi cono-scevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che glialtri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così comegli altri lo vedevano e conoscevano.

Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Uno, nessuno centomila

tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dram-ma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non soloper gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda,brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era unoanch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e melo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimentoe ogni volontà.

Quando così il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredi-bili pazzie.

Da: Luigi Pirandello, Uno, nessuno e centomila, in Tutti i romanzi, a cura di C.Alvaro,Mondadori, Milano, 1957

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Lumie di Sicilia (commedia in un atto)

Personaggi

Micuccio Bonavino, sonatore di bandaMarta Marnis, madre diSina Marnis, cantanteFerdinando, cameriereDorina, camerieraInvitatiAltri camerieri

OggiIn una città dell’Italia settentrionale

La scena rappresenta una camera di passaggio, con scarsa mobilia: un tavolino,alcune sedie. L’angolo a sinistra (dell’attore) è nascosto da una cortina. Uscilaterali, a destra e a sinistra. In fondo, l’uscio comune, a vetri, aperto, dà in unastanza al bujo, attraverso la quale si scorge una bussola che immette in unsalone splendidamente illuminato. S’intravede in questo salone, attraverso ivetri della bussola, una sontuosa mensa apparecchiata;È notte. La camera, al bujo. Qualcuno ronfa dietro la cortina.Poco dopo levata la tela, Ferdinando entra per l’uscio a destra con un lume inmano. È in maniche di camicia, ma non ha che da indossare la marsina peressere pronto a servire in tavola. Lo segue Micuccio Bonavino, campagnuoloall’aspetto, col bavero del pastrano ruvido rialzato fin su gli orecchi, stivalonifino al ginocchio, un sudicio sacchetto in una mano, nell’altra una vecchiavaligetta e l’astuccio d’uno strumento musicale, che egli quasi non può più reg-gere, dal freddo e dalla stanchezza. Appena la camera si rischiara, cessa il ronfodietro la cortina, donde Dorina domanda:

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Dorina Chi è?

Ferdinando (posando il lume sul tavolino). Ehi, Dorina, su! Vedi che c’è qui il signorBonvicino.

Micuccio (scotendo la testa per far saltare dalla punta del naso una gocciolina, corregge)Bonavino, veramente.

Ferdinando Bonavino, Bonavino.

Dorina (dalla cortina, in uno sbadiglio). E chi è?

Ferdinando Parente della signora.A Micuccio:Come sarebbe di lei la signora, scusi? cugina forse?

Micuccio (imbarazzato, esitante). Ecco, veramente no: non c’è parentela. Sono... sonoMicuccio Bonavino; lei lo sa.

Dorina (incuriosita, sebbene ancor mezzo assonnata, uscendo fuori della cortina). Pa-rente della signora?

Ferdinando (stizzito). Ma che! No. Lasciami sentire.A Micuccio:Compaesano? Perché mi avete allora domandato se c’era “zia” Marta?A Dorina:Capisci? Ho creduto parente, nipote. – Io non posso ricevervi, caro mio.

Micuccio Non potete ricevermi? Se vengo apposta dal paese!

Ferdinando Apposta, perché?

Micuccio Per trovarla!

Ferdinando Ma non si viene a trovare a quest’ora. Non c’è!

Micuccio Se il treno arriva adesso, che posso farci io? Potevo dire al treno: camminapiù presto?Congiunge le mani ed esclama sorridendo, come per persuadere a una certaindulgenza:Treno è! Arriva quando deve arrivare. – Sono in viaggio da due giorni...

Dorina (squadrandolo). E vi si vede, oh!

Micuccio Sì, eh? molto? Come sono?

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95Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Dorina Brutto, caro. Non v’offendete.

Ferdinando Io non posso ricevervi. Ritornate domattina e la troverete. Adesso la signoraè a teatro.

Micuccio Ma che tornare! Dove volete che vada io adesso, di notte, forestiere? Se nonc’è, l’aspetto. Oh bella! Non posso aspettarla qua?

Ferdinando Vi dico che, senza permesso...

Micuccio Ma che permesso! Voi non mi conoscete...

Ferdinando Appunto perché non vi conosco. Non voglio mica prendermi una sgridataper voi!

Micuccio (sorridendo con aria di sufficienza gli fa cenno di no, col dito). State tranquillo.

Dorina (a Ferdinando). Ma sì, avrà proprio testa da badare a lui, questa sera, la signora!A Micuccio:Vedete, caro?Gli indica il salone in fondo, illuminato.Ci sarà una gran festa!

Micuccio Ah sì? Che festa?

Dorina La serata...sbadigliad’onore.

Ferdinando E finiremo, se Dio vuole, all’alba!

Micuccio Va bene, tanto meglio! Sono sicuro che appena Teresina mi vede...

Ferdinando (a Dorina). Capisci? La chiama così lui, Teresina, senz’altro. Mi ha doman-dato se stava qui “Teresina la cantante”.

Micuccio E che è? Non è cantante? Se si chiama così... Volete insegnarmelo a me, lei?

Dorina Ma dunque la conoscete proprio bene?

Micuccio Bene? Cresciuti insieme, da piccoli, io e lei!

Ferdinando Che facciamo?

Dorina E lascialo aspettare!

Micuccio (risentito) Ma sicuro che aspetto... Che vuol dire? Mica sono venuto per...

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96Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Ferdinando Sedete pur là. Io me ne lavo le mani. Devo apparecchiare.S’avvia al salone in fondo.

Micuccio È bella, questa! Come se io fossi... Forse perché mi vede così, per tutto ilfumo e il vento della ferrovia... Se lo dicessi a Teresina, quando ritorna dalteatro...Ha come un dubbio, e si guarda intorno.Questa casa, scusate, di chi è?

Dorina (osservandolo e pigliandoselo a godere). Nostra, finché ci stiamo.

Micuccio E dunque!Allunga di nuovo lo sguardo fino al salone.È grande la casa?

Dorina Così così.

Micuccio Quello è un salone?

Dorina Per il ricevimento. Questa notte ci si cena.

Micuccio Ah! E che tavolata! che luminaria!

Dorina Bello, eh?

Micuccio (si stropiccia le mani, contentone). Dunque è vero!

Dorina Che cosa?

Micuccio Eh... si vede... stanno bene...

Dorina Ma sapete chi è Sina Marnis?

Micuccio Sina? Ah già! ora si chiama così. Me l’ha scritto zia Marta. – Teresina... sicu-ro... Tere-sina: Sina...

Dorina Ma aspettate... ora che ci penso... voi...Chiama Ferdinando dal salone:Ps! Vieni, Ferdinando... Sai chi è? Quello a cui scrive sempre, lei, la madre...

Micuccio Sa scrivere appena, poverina...

Dorina Sì, sì, Bonavino. Ma... Domenico! Voi vi chiamate Domenico?

Micuccio Domenico o Micuccio, è la stessa cosa. Noi diciamo Micuccio.

Dorina Che siete stato malato, è vero? ultimamente...

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97Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Micuccio Terribile, sì. Per morire. Morto! Con le candele accese.

Dorina Che la signora Marta vi mandò un vaglia? Eh, mi ricordo... Siamo andateinsieme alla Posta.

Micuccio Un vaglia, sì. E sono anche venuto per questo. L’ho qua, il denaro.

Dorina Glielo riportare?

Micuccio (si turba). Denari, niente! Denari, non se ne deve neanche parlare! Ma, dico,staranno ancora molto a venire?

Dorina (guarda l’orologio). Eh, ci vorrà ancora... Questa sera poi, figuriamoci!

Ferdinando (ripassando, dal salone all’uscio laterale a sinistra, con stoviglie, gridando) Bene!Bravo! Bis! bis! bis!

Micuccio (sorridendo) Gran voce, eh?

Ferdinando (riavviandosi) Eh sì... anche la voce...

Micuccio (si stropiccia di nuovo le mani). Me ne posso vantare! Opera mia!

Dorina La voce?

Micuccio Gliel’ho scoperta io!

Dorina Ah sì?A Ferdinando:Senti, Ferdinando? Glel’ha scoperta lui – la voce.

Micuccio Sono musicante, io.

Ferdinando Ah! musicante? Bravo! E che sonate? La tromba?

Micuccio (nega prima col dito, seriamente: poi dice) No. Che tromba! L’ottavino. Sonodella banda, io. La banda comunale del mio paese.

Dorina Che si chiama... aspettate: me lo ricordo...

Micuccio Palma Montechiaro, come volete che si chiami?

Dorina Ah già, Palma – sì.

Ferdinando E dunque la voce gliel’avete scoperta voi?

Dorina Su, su, diteci come avete fatto, figliuolo! Sta’ a sentire, Ferdinando.

Micuccio (alzando le spalle) Come ho fatto! Cantava...

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98Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Dorina E voi subito, musicante... eh?

Micuccio No! subito, no; anzi...

Ferdinando Vi c’è voluto del tempo?

Micuccio Lei cantava sempre... anche per dispetto...

Dorina Ah sì?

Ferdinando Perché?, per dispetto?

Micuccio Per non pensare a tante cose...

Ferdinando Che cose?

Micuccio Dispiaceri, contrarietà, poveretta; eh sì, allora! Le era morto il padre. Io,sì, le ajutavo, lei e la madre, zia Marta. Mia madre però non voleva... e...insomma...

Dorina Le volevate bene, dunque?

Micuccio Io? a Teresina? Mi fate ridere! Mia madre pretendeva che la abbandonassiperché lei, poverina, non aveva nulla, orfana di padre... mentre io, bene omale, il posticino ce l’avevo, bella banda...

Ferdinando Ma... niente, niente, allora, fidanzati?

Micuccio Non volevano i miei parenti, allora! E apposta cantava per dispetto Teresina...

Dorina Ah! guarda, guarda... E allora voi?

Micuccio Il cielo! Proprio posso dirlo: ispirazione del cielo! Nessuno ci aveva maibadato; neanche io. Tutt’a un tratto... una mattina...

Ferdinando Quando si dice la fortuna!

Micuccio Non me lo scordo più! Era una mattina d’aprile. Lei cantava alla finestra, suitetti... Stava in soffitta, allora

Ferdinando Capisci?

Dorina E zitto!

Micuccio Che male c’è? Di quest’erba si fa il fascio...

Dorina Ma si sa! Dunque? Cantava?

Micuccio Centomila volte l’avevo sentita, cantata da lei, quell’arietta nostra paesana...

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99Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Dorina Arietta?

Micuccio Sì: una musica! Non ci avevo mai fatto caso. Ma quella mattina... Un ange-lo, ecco, un angelo mi parve che cantasse! Zitto zitto, senza prevenire né leiné la madre, verso sera condussi su nella soffitta il maestro della banda, che èmio amico... – Uh, amicone, per questo: Saro Malaviti... tanto buono,poveretto... – La sente... – lui è bravo, un maestro bravo... che lì a Palma loconoscono tutti... – dice: “Ma questa è una voce di Dio!” Figuratevi cheallegrezza! Presi a nolo un pianoforte, che per arrivare lassù, in soffitta...basta! Comprai le carte da musica, e subito il maestro cominciò a darle lezio-ne... ma così... contentandosi di qualche regaluccio che potevo fargli di tantoin tanto... Che ero io? Quel che sono adesso: un poveraccio... Il pianofortecostava, le carte costavano... e poi Teresina doveva nutrirsi bene...

Ferdinando Eh, si sa!

Dorina Per aver forza di cantare...

Micuccio Carne, ogni giorno! Me ne posso vantare

Ferdinando Perbacco!

Dorina E così?

Micuccio Cominciò a imparare. E si vide fin d’allora... Stava lassù, in cielo si puòdire... e si sentiva per tutto il paese, la gran voce... La gente... così, sotto, nellastrada, a sentire... Ardeva... ardeva proprio... e quando finiva di cantare, m’af-ferrava per le braccia... cosìafferra Ferdinandoe mi scrollava... pareva una matta... Perché lei già lo sapeva; vedeva che cosasarebbe diventata... Il maestro poi ce lo diceva. E lei non sapeva come dimo-strarmi la sua gratitudine. Zia Marta, invece, poveretta...

Dorina Non voleva?

Micuccio Non che non volesse; non ci credeva, ecco. Ne aveva viste tante, poveravecchia, in vita sua, che non avrebbe voluto neppure che a Teresina passasseper il capo di sollevarsi dallo stato, a cui essa da tanto tempo s’era rassegnata.Aveva paura, ecco. E poi sapeva quel che costava a me... e che i miei parenti...Ma io la ruppi con tutti, con mio padre, con mia madre, quando venne aPalma un certo maestro di fuori... che teneva concerti... uno... adesso nonricordo più come si chiama, ma nominato assai... basta! Quando questo

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

maestro sentì Teresina e disse che sarebbe stato un peccato, un vero peccatonon farle proseguire gli studii in una città, in un gran Conservatorio... iopresi fuoco: la ruppi con tutti; vendetti il podere che m’aveva lasciato, mo-rendo, un mio zio sacerdote, e mandai Teresina a Napoli, al Conservatorio.

Ferdinando Voi?

Micuccio Io, io.

Dorina (a Ferdinando) A sue spese, capisci?

Micuccio Quattr’anni la mantenni a gli studii. Quattro. – Non l’ho più riveduta, daallora.

Dorina Mai?

Micuccio Mai. Perché... perché poi si mise a cantare nei teatri, capite? di qua, di là...Preso il volo, da Napoli a Roma, da Roma a Milano... poi in Ispagna... poiin Russia... poi qua di nuovo.

Ferdinando Furori!

Micuccio Eh, lo so! Ce li ho tutti lì, nella valigia, i giornali... E qui poi ci ho anche lelettere...cava dalla tasca in petto della giacca un mazzetto di letteresue e della madre... Ecco qua: queste sono parole sue, quando mi mandò ildenaro, che stavo per morire: “Caro Micuccio, non ho tempo di scriverti. Ticonfermo quanto ti dice la mamma. Cùrati, riméttiti presto e voglimi bene.Teresina”.

Ferdinando E... vi mandò assai?

Dorina Mille lire, no?

Micuccio Mille, già.

Ferdinando E il vostro podere, scusate, quello che vendeste, quanto valeva?

Micuccio Ma che poteva valere? Poco... Un pezzettino di terra...

Ferdinando (ammiccando a Dorina). Ah...

Micuccio Ma l’ho qua, io, il danaro. Non voglio niente, io. Quel poco che ho fatto,l’ho fatto per lei. Eravamo rimasti d’accordo d’aspettare due, tre anni, perchélei si facesse strada... Zia Marta me l’ha sempre ripetuto nelle sue lettere.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Dico la verità, ecco: questo danaro non me l’aspettavo. Ma se Teresina mel’ha mandato, è segno che ne ha d’avanzo, perché la strada se l’è fatta...

Ferdinando Eh, altro! E che strada, caro voi!

Micuccio E dunque è tempo –

Dorina – di sposare?

Micuccio Io sono qua.

Ferdinando Siete venuto per sposare Sina Marnis?

Dorina Sta’ zitto! Se c’è la promessa! Non capisci niente. Sicuro! Per sposare...

Micuccio Io non dico niente: dico: sono qua. Ho piantato tutto e tutti, lì al paese: lafamiglia, la banda, ogni cosa. Ho litigato coi miei parenti per via di questemille lire che arrivarono senza ch’io lo sapessi, quand’ero più morto che vivo.Ho dovuto strapparle di mano a mia madre, che se le voleva tenere. Ah,nossignori, denari, niente! Micuccio Bonavino, denari, niente! Dovunquesia, anche in capo al mondo, io, per me, non posso perire. L’arte, ce l’ho. Ciho là l’ottavino, e...

Dorina Ah sì? Avete portato con voi l’ottavino?

Micuccio E come no! Facciamo una cosa sola, io e lui!

Ferdinando Lei canta, e lui suona. Capisci?

Micuccio Non potrei sonare in orchestra, forse?

Ferdinando Ma sicuro! Perché no?

Dorina E... sonerete bene, m’immagino!

Micuccio Così così... Suono da dieci anni...

Ferdinando Se ci faceste sentire qualche cosa?Va a prendere l’astuccio dello strumento.

Dorina Sì, sì, bravo! bravo! Fateci sentire qualche cosa!

Micuccio Ma no! Che volete sentire? a quest’ora?

Dorina Qualche cosina, via! Siate buono!

Ferdinando Un pezzettino...

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102Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Micuccio Ma no! Ma che!

Ferdinando Non vi fate pregare!Apre l’astuccio; ne cava lo strumento.Ecco qua!

Dorina Su, via! Per sentire...

Micuccio Ma non è possibile... così... io solo...

Dorina Non importa! Su! Provatevi!

Ferdinando Altrimenti, ohé, suono io!

Micuccio Per me, se volete... Vi suono l’arietta che cantava Teresina, in soffitta, quelgiorno?

Ferdinando e Dorina. Sì! si! Bravo! quella!Micuccio siede e si mette a sonare con grande serietà. Ferdinando e Dorinafanno sforzi per non ridere. Sopravvengono ad ascoltare l’altro cameriere inmarsina, il cuoco, il guattero, a cui i due primi fan cenni di star serii e zitti, asentire. La sonata di Micuccio è interrotta a un tratto da un forte squillo delcampanello.

Ferdinando Oh! Ecco la signora

Dorina (all’altro cameriere). Su, su, andate voi ad aprire!Al cuoco e al guattero:E voi, subito, sbrigatevi! Ha detto che vuole andare a tavola appena rientra.Via l’altro cameriere e il cuoco e il guattero

Ferdinando La mia marsina... Dove l’ho messa?

Dorina Di là!Indica dietro la tenda, e s’avvia di corsa. Micuccio si alza, con lo strumento inmano, smarrito. Ferdinando va a prendere la marsina, se la reca in dosso, difuria; poi, vedendo che Micuccio sta per andare anche lui dietro a Dorina, loarresta sgarbatamente.

Ferdinando Voi rimanete qua! Devo prima avvertire la signora.Ferdinando, via. Micuccio resta avvilito, confuso, oppresso da un angoscioso pre-sentimento.

Marta La voce di zia Marta (dall’interno). Di là, Dorina! In sala! in sala!

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103Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Ferdinando, Dorina, l’altro cameriere, rientrano dall’uscio a destra e attraver-sano la scena, diretti al salone in fondo, reggendo magnifiche ceste di fiori, coro-ne ecc. Micuccio sporge il capo a guardare nel salone, e vi intravede tanti signoriin marsina che parlano tra loro confusamente. Dorina rientra in gran fretta inscena, diretta all’uscio a destra.

Micuccio (toccandole il braccio) Chi sono?

Dorina (senza fermarsi) Gli invitati!Via. Micuccio guarda di nuovo. La vista gli si annebbia. È tanto lo stupore,tanta la commozione, che non s’accorge egli stesso che gli occhi gli si sono riempitidi lagrime. Li chiude, e si restringe in sé, quasi per resistere all’ansietà e allostrazio che gli cagiona una squillante risata: Sina Marnis ride così, di là. Dorinarientra con altre due ceste di fiori.

Dorina (senza fermarsi, diretta al salone) O che piangete?

Micuccio Io? No... Tutta quella gente...Entra dall’uscio a destra zia Marta col cappello in capo, oppressa, povera vec-chia, da una ricca, splendida mantiglia di velluto. Appena vede Micuccio dàun grido subito represso.

Marta Come! Micuccio... tu qua?

Micuccio (scoprendo il volto e restando, quasi impaurito, a contemplarla) Zia Marta...Oh Dio... voi, così?

Marta Che... che mi vedi?

Micuccio Col cappello? voi?

Marta Ah, già...Tentenna il capo e alza una mano. Poi, sconvolta:Ma come mai? Senza avvertire! Che è stato?

Micuccio Sono... sono venuto...

Marta Giusto questa sera! Oh Dio, Dio... Aspetta... Come si fa? Come si fa? Vediquanta gente, figliuolo mio? È la festa di Teresina...

Micuccio Lo so.

Marta La sua serata, capisci? Aspetta – aspetta un po’ qua...

Micuccio Se voi... se voi credete che me ne debba andare...

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Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Marta No: aspetta un po’, ti dico.S’avvia per il salone.

Micuccio Io però non saprei... in questo paese...Zia Marta si volta, gli fa cenno con la mano guantata d’attendere, ed entra nelsalone, ove si fa a un tratto un gran silenzio. Si odono chiare, distinte, questeparole di Sina Marnis: “Un momento, signori!”. Di nuovo Micuccio si nascondela faccia tra le mani. Ma Sina non viene. Torna invece poco dopo zia Marta,senza cappello, senza guanti, senza mantiglia, meno imbarazzata.

Marta Eccomi qua... eccomi qua...

Micuccio E... e Teresina?

Marta L’ho avvisata... gliel’ho detto... Ora, appena... appena può, un momentino...sì farà vedere... Noi, intanto, ce ne staremo un po’ qua, eh?... sei contento?

Micuccio Per me...

Marta Io starò con te.

Micuccio Ma no... se... se volete ... se dovete andare di là anche voi...

Marta No no... Adesso di là si cena, capisci? Ammiratori... l’impresario... La carrie-ra, capisci? Ce ne staremo qua noi due. Dorina ci apparecchierà subito subitoquesto tavolino... e... e ceneremo insieme, io e tu, qui, eh? Che ne dici? Noidue soli. Ci ricorderemo de’ bei tempi...Rientra Dorina dall’uscio a sinistra, con una tovaglia e l’occorrente per apparec-chiare.Su, su, Dorina...Qua, lesta... Per me e per questo mio caro figliuolo. Caro ilmio Micuccio! Non mi par vero di trovarmi con te.

Dorina Ecco. Intanto, seggano.

Marta (sedendo) Sì sì... Qua, così, appartati... noi due soli... Lì, capirai... tanti si-gnori... Lei, poverina, non può farne a meno... La carriera... come si fa? Lihai veduti i giornali? Cose grandi, figlio mio! Cose grandi... E io, sai? sonocome sopra mare... Non mi par vero che me ne possa star sola con te, qua,stasera.Si stropiccia le mani e sorride, guardandolo con occhi inteneriti.

Micuccio (cupo, con voce angosciata) E... verrà, vi ha detto? Dico... dico per... per veder-la, almeno...

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Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Marta Ma certo che verrà! Appena avrà un momentino di largo, non te l’ho detto?Ma anche per lei, figùrati che piacere sarebbe starsene qua con noi... con te,dopo tanto tempo... Quanti anni sono? Tanti, tanti... Ah, figlio mio, mipare jeri e mi pare un’eternità... Quante e quante cose ho visto... cose che...che non mi pajono vere. Non l’avrei creduto, se qualcuno me l’avesse detto,quando stavamo là, a Palma, che tu venivi su in soffitta... coi nidi dellerondinelle nella travatura del tetto, ti ricordi? che ci svolavano per casa... infaccia, tante volte... e i miei bei vasi di basilico alla finestra... E donna Annuzza,donna Annuzza? la vicinella nostra? che ne è?

Micuccio Eh...Fa con due dita il segno della benedizione, per significare: Morta!

Marta Morta? Eh, me l’immaginavo... Vecchierella fin d’allora... più di me... Pove-ra donn’Annuzza... col suo spicchietto d’aglio... ti ricordi? veniva con questascusa... uno spicchietto d’aglio in prèstito, giusto quando stavamo a mandargiù un boccone... e... Poveretta! E chi sa quanti altri morti, eh? a Palma...Ma! almeno, morti, riposano là, nel nostro camposanto, coi loro parenti...Mentre io... chi sa dove lascerò io queste mie ossa... Basta... su, su... non cipensiamo!Viene Dorina col primo servito e s’accosta a Micuccio perché si serva.Oh, brava Dorina...Micuccio guarda Dorina, poi zia Marta, confuso, impacciato; alza le mani perservirsi, vede che sono sudice dal viaggio e le riabbassa più che mai confuso.Qua, qua, Dorina! Faccio io... Lo servo io...Eseguisce.Così... va bene, eh?

Micuccio Sì, sì... grazie...

Marta (che si è servita). Ecco qua...

Micuccio (strizzando un occhio e facendo con una mano un gesto espressivo su la guancia)Uhm... Roba... roba buona...

Marta La serata d’onore, capisci? Su, mangiamo! Ma prima...Si fa il segno della croce.Qua posso farmela, davanti a te...Micuccio si fa anche lui il segno della croce.Bravo, figliuolo! Anche tu... Bravo il mio Micuccio, sempre lo stesso,

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Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

poverino! Credi che... quando mi tocca di mangiare lì... senza potermi fare lacroce... mi pare che, quel che mangio, non mi possa andar giù... Mangia,mangia!

Micuccio Ah, ho una fame, io! Non ... non mangio da due giorni, sapete!

Marta Come! Non hai mangiato in viaggio?

Micuccio M’ero portato da mangiare... Ce l’ho lì, nella valigia. ma...

Marta Ma?

Micuccio Ve lo debbo dire? Mi... mi sono vergognato, zia Marta. Mi... mi parevapoco... e che tutti me lo dovessero guardare...

Marta Oh, che sciocco! E sei rimasto digiuno? Su, su... mangia, povero Micucciomio... Sicuro che devi aver fame! Due giorni... E bevi... su, bevi...Gli versa da bere.

Micuccio Grazie... Ora bevo...Di tratto in tratto, ogni qual volta i due camerieri, entrando nella sala in fondocoi serviti o uscendone, schiudono la bussola, viene di là come un’ondata diparole confuse e scoppii di risa. Micuccio alza il capo dal piatto, turbato, e guar-da gli occhi dolenti e affettuosi di zia Marta, quasi per leggervi una spiegazione.Ridono...

Marta Già..., bevi, bevi... Ah, il buon vino nostro, Micuccio! Quanto lo desidero,sapessi! quello di Michelà che stava sotto di noi... Che ne è, di Michelà? chene è?

Micuccio Michelà? Sta bene, sta bene...

Marta E sua figlia Luzza?

Micuccio Ha sposato... Ha già due figliuoli...

Marta Sì? davvero? Veniva su a trovarci, ti ricordi? sempre allegra! Oh la Luzza...guarda... guarda... ha spostato... Chi ha sposato?

Micuccio Totò Licasi, quello del dazio, sapete?

Marta Ah sì? Buono... E donna Mariangela, dunque, nonna? già nonna? – Beata lei!Due figliuoli, hai detto?

Micuccio Due, già...

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Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Si turba, a un’altra ondata di rumori dal salone.

Marta Non bevi?

Micuccio Sì... ora...

Marta Non ci badare! Si sa, ridono: sono in tanti! Caro mio, è la vita, che vuoi? lacarriera. C’è l’impresario...Dorina si ripresenta con un nuovo servito.Ecco, Dorina... Qua, Micuccio, il piatto... Anche questo ti piacerà.Facendogli la porzione:Dimmi tu...

Micuccio Fate voi, fate voi!

Marta (facendogli la porzione) Ecco, così.Si serve anche lei. Dorina, via.

Micuccio Come avete imparato bene voi! Mi fate restare proprio a bocca aperta!

Marta Per forza, figlio mio!

Micuccio Quando v’ho vista con quella mantiglia di velluto... col cappello in capo...

Marta Per forza! Non mi ci far pensare!

Micuccio Lo so...eh! dovete fare la vostra comparsa! Ma se vi vedessero, se vi vedesserovestita così a Palma, zia Marta!

Marta (nascondendosi la faccia con le mani) Oh Dio mio, non mi ci far pensare, tidico! Ci credi che... se ci penso... mi prende una vergogna! Mi guardo; dico:“Io così?” e mi pare che sia per finta... come di carnevale... Ma come si fa? Perforza!

Micuccio Ma, dunque... dunque..., dico, proprio... già arrivata? Si vede! Grandezze!La... la pagano bene, eh?

Marta Ah, sì... bene...

Micuccio Quanto per sera?

Marta Secondo. Secondo le... le stagioni... i... i teatri, capisci? Ma, sai, figlio mio?costa, eh, costa, costa pur tanto questa vita... Non c’è denari che bastino!Tanto, tanto costa, se sapessi! Se... se ne vanno come vengono... Abiti, gioje...spese d’ogni genere...

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Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

S’interrompe a un forte strepito di voci nel salone in fondo.

Voci Dove? dove? Lo vogliamo sapere! Dove?Voce di SinaUn momento! Vi dico un momento!

Marta Eccola! È lei... Viene...

Sina tutta frusciante di seta, parata splendidamente di gemme, nudo il seno, nudele spalle, le braccia, si presenta frettolosa e pare che la cameretta d’un trattos’illumini violentemente.Micuccio (che aveva steso la mano al bicchiere, resta col volto in fiamme, gliocchi sbarrati, la bocca aperta, abbarbagliato e istupidito, a mirare, come in-nanzi a un’apparizione di sogno; balbetta) Teresina...

Sina Micuccio? Dove sei? Ah, eccolo qua... Come va? come va? Stai bene, ora?Bravo, bravo... Sei stato malato, eh? Senti, ci rivedremo tra poco... Tanto,qua hai con te la mamma... Siamo intesi, eh? Tra poco...Scappa via di nuovo. Micuccio rimane trasecolato, mentre nel salone scoppianoaltre grida alla ricomparsa di Sina.

Marta (dopo una lunga pausa, domanda timorosa, per rompere l’attonimento in cuiegli è caduto) Non mangi più?Micuccio la guarda sbalordito, senza comprendere.Mangia...Gl’indica il piatto.Micuccio (si porta due dita al colletto affumicato e spiegazzato e se lo tira, pro-vandosi a trarre un lungo sospiro) Mangiare?Agita più volte le dita presso il mento, come se salutasse, per significare: non miva più, non posso. Sta ancora un pezzo silenzioso, avvilito, assorto nella visioneor ora avuta, poi mormora:Come s’è fatta... Non... non mi è parsa vera... Tutta... tutta... così...Accenna, senza sdegno ma con stupore, alla nudità di Sina.Un sogno... La voce... gli occhi... Non è... non è più lei... Teresina...Accorgendosi che zia Marta scuote mestamente il capo e che ha sospeso anche leidi mangiare, come aspettando:Che! ... neanche... neanche a pensarci più... Tutto finito... chi sa da quanto!... E io, sciocco... io, stupido... Me lo avevano detto al paese... e io... mi sonorotte le ossa a... a venire... Trentasei ore di ferrovia... per... per fare... Per

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questo, il cameriere e quella là... Dorina... che risate! Io, con...Accosta più volte tra loro gl’indici delle due mani e sorride malinconicamente,scotendo il capo.Ma me lo potevo figurare? Ero venuto per... perché lei, Teresina, me... me loaveva promesso... Ma forse... eh sì! come avrebbe potuto lei stessa allorasupporre che un giorno sarebbe divenuta così? Mentre io... là... sono rima-sto... col mio ottavino... nella piazza del paese... lei... lei tanta via... Ma che!Neanche a pensarci più...Si volta, brusco, a guardare zia Marta.Se ho fatto qualche cosa per lei, nessuno qua ora, zia Marta, deve sospettareche io, con questa mia venuta, voglia accampare...Si turba sempre più, si leva in piedi.Anzi, aspettate!Si caccia una mano nella tasca in petto della giacca e ne trae il portafogli.Ero venuto anche per questo: per restituirvi questo denaro che mi avete man-dato. Vuol essere pagamento? restituzione? Che c’entrava! Vedo che Teresinaè divenuta una... una regina! Vedo che... niente! neanche a pensarci più! Maquesto denaro, no! non mi meritavo questo da lei... Che c’entra! È finita, enon se ne parla più...: ma denari, niente! denari, a me, niente! Mi dispiacesolo che non sono tutti...

Marta (tremante, afflitta, con le lagrime agli occhi) Che dici, che dici, figliuolo mio?

Micuccio (facendole segno di star zitta) Non li ho spesi io: li hanno spesi i miei parenti,durante la malattia, senza ch’io lo sapessi. Ma vanno per quei pochiquattrinucci che spesi io allora per lei... vi ricordate? Non è niente... Non cipensiamo più. Qua c’è il resto. E io me ne vado.

Marta Ma come! Così subito? Aspetta almeno che lo dica a Teresina. Non hai sen-tito che voleva rivederti? Vado ad avvertirla...

Micuccio (trattenendola a sedere) No, è inutile. Sentite!Giunge dal salone il suono del pianoforte e un coro salace e sguajato d’operettaintonato, tra le risa, da tutti i commensali.Lasciatela star lì... Lì sta bene, al suo posto... Io, poveretto... L’ho veduta;m’è bastato... O piuttosto... andate pure voi di là... Sentite come si ride? Ionon voglio, non voglio che si rida di me... Me ne vado...

Marta (interpretando nel peggior senso quella risoluzione improvvisa di Micuccio, cioè

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Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

come un atto di sdegno, un moto di gelosia, dice tra le lagrime) Ma io... io nonposso più farle la guardia, figliuolo mio...

Micuccio (leggendole a un tratto negli occhi il sospetto ch’egli non ha ancora avuto, legrida, rabbujandosi in volto) Perché?

Marta (si smarrisce, si nasconde la faccia tra le mani, ma non riesce a frenar l’impetodelle lagrime irrompenti; e dice soffocata dai singhiozzi) Sì, sì vattene, figliomio, vattene... Non è più per te, hai ragione... Se mi aveste dato ascolto...

Micuccio (prorompendo, chino su lei, e strappandole a forza una mano dal volto) Dun-que... Ah, lei dunque, lei... lei non è più degna di me?Il coro e il suono del pianoforte séguitano nel salone.

Marta (accenna, angosciata, piangente, di sì, di sì col capo, poi alza le mani giunte inpreghiera, con atto così supplice e accorato che l’ira di Micuccio cade subito) Percarità, per carità, per pietà di me, Micuccio mio!

Micuccio Basta, basta... Me ne vado lo stesso...Anzi, anzi... tanto più, ora...Rientra a questo punto dal salone Sina. Subito Micuccio lascia zia Marta e sivolta a lei; la afferra per un braccio e se la tira davanti.Ah, per questo, dunque... tutta... tutta così?Accenna con schifo alla nudità.Petto... braccia... spalle...

Marta (di nuovo, supplice, con terrore) Per pietà, Micuccio!

Micuccio No. State tranquilla. Non le faccio niente. Me ne vado. Che sciocco, ziaMarta! non lo avevo capito... – Non piangete, non piangete – Tanto, che fa?Fortuna, anzi! Fortuna...Così dicendo, riprende la valigetta e il sacchetto e s’avvia per uscire; ma gli vienein mente che lì, dentro il sacchetto, ci sono le belle lumie, ch’egli aveva portatoa Teresina dal paese.Oh, me ne scordavo: guardate, zia Marta... Guardate qua...Scioglie la bocca al sacchetto e, facendo riparo d’un braccio, versa su la tavola ifreschi frutti fragranti.

Sina (facendo per accorrere) Oh! Le lumie! le lumie!

Micuccio (subito fermandola) Tu non le toccare! Tu non devi neanche guardarle dalontano!Ne prende una e la avvicina al naso di zia Marta.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Lumie di Sicilia

Sentite, sentite l’odore del nostro paese... – e se mi mettessi a tirarle a una auna su le teste di quei galantuomini là?

Marta No, per carità!

Micuccio Non temete. Sono per voi sola, badate, zia Marta! Le avevo portate per lei...Indica Sina.E dire che ci ho anche pagato il dazio...Vede sulla tavola il danaro, tratto poc’anzi dal portafogli; lo afferra e lo caccianel petto di Sina, che rompe in pianto.Per te, c’è questo, ora! Qua! qua! ecco! così! E basta! – Non piangere! –Addio, zia Marta! – Buona fortuna!Si mette in tasca il sacchetto vuoto, prende la valigia, l’astuccio dello strumento,e va via.

Da: Luigi Pirandello, Teatro , Roma, Newton– Compton, 1995

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Il dovere del medico (un atto)

Personaggi

Tommaso CorsiAnna, sua moglieLa signora Reis, madre di AnnaIl dottor Tito LecciL’avvocato Franco CimettaRosa, camerieraUn QuesturinoUn Infermiere (che non parla)In una città dell’Italia meridionaleTempo presenteUna stanza di passaggio in casa Corsi, con armadii, un lavabo, un’ottomana,una grande antica poltrona, una gruccia con abiti appesi, seggiole ecc. ecc. –Una finestra guarnita con tende a sinistra (dello spettatore). Due usci: uno, infondo, che dà nella camera da letto; l’altro, a destra; entrambi con tende.Al levarsi della tela sono in iscena la signora Reis e il Questurino: questi, sedutopresso l’uscio a destra, di guardia, in atteggiamento di stanchezza e di noja;quella, in piedi, presso l’ottomana, cupa arcigna impaziente: è vestita di nero,con la cuffia vedovile sui capelli lanosi; gli occhi, sotto le folte ciglie aggrottate, lelampeggiano d’odio e di diffidenza nel volto pallido e aspro, contratto e macera-to dall’angoscia e dai dolori. È lì, evidentemente, in attesa; e due o tre volteguata il Questurino di guardia, come se volesse domandargli qualche cosa, ma sitrattiene.

Signora Reis (alla fine risolvendosi, con durezza) Farete qua la guardia ancora per moltotempo?Questurino. No, signora. Forse finiremo oggi.

Signora Reis Ah, oggi? Finalmente! Ve lo porterete via?Questurino. Non lo so di certo. Mi pare d’aver sentito dire così.Entra dall’uscio di fondo Rosa, che subito cautamente lo richiude, e dice allasignora Reis:

Rosa Ecco, viene subito.Indica l’uscio da cui è entrata e va via per l’uscio a destra. Pausa d’attesa,piuttosto lunga. Alla fine, l’uscio in fondo si riapre, e appare Anna, che subitocon la stessa cautela lo richiude. Ha circa trent’anni; disfatta nella disperazioned’un cordoglio atroce, spettinata, con gli occhi quasi bruciati dal pianto e dalle

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113Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

veglie. Accorre alla madre, con le braccia aperte; si abbandona su lei, soffocandoi singhiozzi irrompenti.

Anna Mamma, mamma mia! mamma mia!Si domina, si stacca dalla madre e si volge al Questurino:Non potrebbe, scusi, ritirarsi un momento? stare anche dietro l’uscio dall’al-tra parte?Questurino. Veramente, l’ordine che ho io è di crescere, non di scemare lasorveglianza.

Anna Ma se non può neanche muoversi da sé sul letto!Questurino (perplesso) Capisco, ma...Risolvendosi:Per un momentino, sissignora.

Anna Grazie. Prenda pure di là codesta seggiola.Il Questurino s’inchina e si ritira dietro l’uscio a destra, con la sedia.

Anna (rivolgendosi alla madre e riabbracciandola) Ah, mamma! Ti sono tanto rico-noscente che tu sii ritornata! No, non ti rimprovero d’avermi lasciata sola.

Signora Reis Non volesti seguirmi; volesti rimanere qua, ad assistere a queste belle scene;per ridurti in codesto stato!

Anna Ma come avrei potuto lasciarlo, mamma; che dici? Ti ringrazio d’aver porta-to via con te i ragazzi. Come stanno? Didì? Federico?

Signora Reis Stanno bene.

Anna Anche Didì?

Signora Reis Tutti e due. Ma verrai via presto anche tu, a quanto pare. M’hanno detto chese lo porteranno via oggi.

Anna (stupita, costernatissima) Oggi? Chi te l’ha detto?

Signora Reis La guardia.

Anna Oggi? Ma non è possibile! T’ha detto così?Corre all’uscio a destra e chiama il Questurino:Senta, venga qua.E subito, al Questurino che rientra impacciato:Ma come, oggi? Ve lo porterete via oggi?Questurino

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Sicuro non lo so, signora. Mi pare d’avere inteso così.

Anna Ma se è ancora a letto! La ferita non è ancora rimarginata. Il medico non lopermetterà. È ancora sotto la responsabilità del medico. Jersera appunto hadetto che oggi per la prima volta vedrà se potrà farlo alzare per qualche mi-nuto.

Signora Reis Se già può alzarsi!

Anna Ma che! Non si regge in piedi! Neanche a sedere sul letto, se non è tenuto.Ritorna presso l’uscio, a destra, e chiama:Rosa!

Rosa! Alla madre e al Questurino:Sarebbe un’infamia!E subito a Rosa, che si presenta all’uscio a destra:Manda subito Enrico a casa del dottore a dirgli che venga qua; subito, senzaperder tempo.Rosa. Ho capito. Sissignora.Via.

Anna Proprio in questo momento, che comincia a riaversi appena! Dopo averfatto tanto per salvarlo!

Questurino Io sto qua agli ordini, signora. Posso per un momento ritirarmi.

Anna Ma sì, stia sicuro: non può muoversi.Il Questurino torna a ritirarsi.

Anna (aprendo le braccia e levando il volto, disperatamente) Anche questo! dopotanto strazio, quest’altro strazio!

Signora Reis Non ha voluto morire! Assassino.

Anna Ah, mamma, tu l’odii: tu non gli perdoni.

Signora Reis (con aspra foga) L’odio, sì, l’odio per tutto quello che t’ha fatto patire, perl’ignominia che ha gettato su te, sui figli, su tutta la mia casa! E ancora non èfinita! Poteva almeno morire!

Anna Sarebbe stato meglio, certo, anche per lui, che fosse morto sul colpo. Macredi, mamma, ch’egli volle morire!

Signora Reis Io vedo questo: che il Neri, sì, lo seppe uccidere; e lui è ancora vivo là.

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115Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Anna Si tirò al cuore.

Signora Reis Alla testa doveva tirarsi, alla testa!

Anna E tre, quattro volte s’è strappate le fasce dal petto. Hanno voluto salvarlo imedici, per forza. Quel che hanno fatto, notte e giorno qua, attorno a lui!Ma credi, credi che ha fatto anche lui di tutto per morire.

Signora Reis Sfido! Sa quello che lo aspetta!

Anna No, mamma. Per punirsi. Tu non sai vedere altro che il fatto.

Signora Reis Non è più, forse, un assassino, perché ha voluto morire? Non ha ucciso ilNeri? Non ti tradiva con la moglie del Neri?

Anna Sì, sì.

Signora Reis Dici ch’io vedo soltanto i fatti!

Anna Ma ci sono pure tante cose che tu non puoi sapere e che io so.

Signora Reis Ecco che parli come lui! Dio, mi par di sentirlo! I fatti che non sonofatti: sacchi vuoti che non si reggono... Così, così t’ha sempre ingannata,accecata...

Anna Ma no, mamma.

Signora Reis Sì, sì, accecata, accecata.

Anna Era una furia di vivere, la sua, senza riflettere.

Signora Reis Senza scrupoli!

Anna Sì, come vuoi. Mi sono fermata tante volte per giudicare tra me e me qual-che sua azione; ma non dava tempo al giudizio, come non dava peso ai suoiatti. Inutile richiamarlo indietro a considerare il mal fatto. Una scrollata dispalle, un sorriso, e via. Bisognava che andasse avanti, comunque, senza in-dugiarsi a riflettere tra il bene e il male.

Signora Reis Ah, lo sai dire!

Anna Ma in questa sua furia continua, vedi, nessun vizio gli s’era mai attaccato:restava schietto; e sempre lieto; con tutti alla mano. A trent’otto anni, unfanciullo, capace di mettersi a giocare sul serio con Didì e Federico, fino adarrabbiarsi; e dopo dieci anni, ancora con me... ancora... No, no... Forsequalche torto passeggero, qualche inganno... Ma che mentisse con me, no: la

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116Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

menzogna, no: non poteva mentire con quelle labbra, con quegli occhi, conquel sorriso che rallegrava tutti i giorni la casa. Angelica Neri? Ma vuoi sulserio che mi abbassi fino a credere che Tommaso, tra me e lei... Guarda, nonera per lui nemmeno un capriccio; niente; la prova soltanto d’una debolezzanella quale forse nessun uomo sa o può guardarsi dal cadere. E non potevafarsi scrupolo neppure dell’amicizia col marito, che sapeva bene che razza didonna fosse sua moglie e lo strazio che faceva del suo onore, con tutti, aper-tamente. Ma se qua, ti dico qua, in casa nostra, sotto gli occhi di lui, sotto imiei stessi occhi, cercava di sedurre Tommaso, con quei lezi da scimmiamalata: qua, qua. Me ne sono accorta io, e lui no? Ne abbiamo tanto risoinsieme, io e Tommaso! Sì, sì: ne ridevamo! ne ridevamo!Scoppia, irrefrenabilmente, in una convulsione di riso e pianto insieme.

Signora Reis Figliuola mia, figliuola mia! Tu impazzisci!

Anna Mi fai impazzire tu! I fatti... i fatti... I fatti sono questi, che lui sapeva, e nonsolo di Tommaso, ma di tutti; e non se n’era mai curato. All’ultimo havoluto far questa tragedia , mentre doveva uccidere soltanto la moglie, comeuna cagna arrabbiata, e non l’avrebbe pagata niente! I fatti... Ma allora posso-no anche dire che Tommaso portava la rivoltella per il Neri? Mentre l’hasempre portata per i suoi lavori d’appalto in campagna.Entrano a questo punto il dottore Tito Lecci e l’avvocato Franco Cimetta: ilprimo, alto, rigido, con forti lenti da miope; il secondo, più vecchio, con un’argu-ta barbetta quasi bianca e capelli lunghi ancor neri, volti all’indietro.

Anna Ah, ecco il dottore! C’è anche lei, avvocato?

Lecci Questa chiamata improvvisa... Che c’è di nuovo?

Anna (indicando la madre a Cimetta) La mamma.Poi, volgendosi al Lecci:Ah, dottore, mi vogliono fare impazzire. Se lo vogliono portar via oggi!

Lecci Ma no, chi l’ha detto?

Anna La guardia, là. Glielo domandai. Ha detto così.

Lecci Oh, l’impediremo, stia tranquilla: l’impediremo. Andrò io, ora stesso, dalCommissario. Verrai anche tu, Cimetta?

Anna Sì, sì, vada, vada anche lei, avvocato!

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117Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Cimetta Per me, pronto: ora stesso. È qua a due passi.

Lecci Non se ne dia pensiero. Senza il mio consenso, non possono portarlo via.Eh, non ci mancherebbe altro, in questo momento.A Cimetta:Abbiamo operato un miracolo, amico mio, un vero miracolo.

Anna Lo vedi, mamma, se è vero? Più che su lui, contro di lui.Lecci (senza dare importanza alla cosa) Già, sì. Qualche resistenza. Forse neldelirio. La resistenza vera, caro mio, l’ho trovata in un cumulo di complica-zioni, una più grave dell’altra e inopinate, che costringevano a ripari improv-visi e spesso opposti tra loro, e tutti d’un tale rischio che, credi pure, avrebbe-ro scoraggiato e fatto indietreggiare chiunque altro al mio posto. Se per unmomento mi fossi lasciato vincere dalla minima esitazione, da una perplessi-tà, addio! Posso dire di non aver mai avuto dall’esercizio della mia professio-ne una soddisfazione uguale a questa.

Cimetta (ad Anna) Io le chiedo scusa, signora, se non sono venuto prima a condolermicon lei. Ma creda che sono rimasto atterrato da questo scoppio inatteso cheha costernato tutta la città. Finora qua c’è stato bisogno del medico. Ora che,purtroppo, ci sarà bisogno anche di me, sono venuto, non chiamato, perchéconosco la fiducia che Tommaso ha sempre avuto in quel poco che valgo.

Lecci Ho pregato io il nostro caro amico di venire oggi con me, perché sarà benecominciare intanto a preparare il convalescente alla dura necessità a cui deveandare incontro.

Anna Sarà orribile, dottore: pare non ne abbia sospetto, almeno finora. È come unbambino. Si commuove, piange, ride di nulla. E proprio questa mattina midiceva che, appena rimesso, vuol andare in campagna, in villeggiatura, per unmese.

Signora Reis Eh sì, proprio in villeggiatura!

Cimetta Povero Tommaso!

Lecci Aspettiamo ancora qualche giorno. Intanto, gli faremo vedere l’avvocato.Non è possibile che il pensiero della responsabilità non gli s’affacci.

Anna E lei crede, avvocato, che sarà grave?

Cimetta (chiudendo gli occhi, aprendo le braccia) Signora mia...

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118Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Anna si copre il volto con le mani.

Lecci Su, su, non è tempo adesso di costernarci di questo! Per ora è tranquillo.Non ha notato nulla di nuovo da jersera?

Anna No, nulla.

Lecci bene. Vada allora di là e si faccia ajutare dall’infermiere a vestirlo e a levarlodal letto; pian piano, eh? e veda un po’ se, sorretto, potrà provarsi a muoverequalche passo. Noi intanto, io e l’avvocato, passeremo dal Commissario.Saremo di ritorno tra pochi minuti. Su, su, coraggio, signora Anna. Ne haavuto tanto!

Anna (col volto tra le mani) Non ne ho più! non ne ho più!

Cimetta E bisogna averne!

Lecci La prego, signora.

Anna (dominandosi) Eccomi.Si prova a sorridere.Va bene così? Dunque, a rivederla, avvocato.Gli stringe la mano; poi, al dottore:A rivederla. Tu, mamma?

Signora Reis (fosca, veemente) Io vado via, vado via!

Anna Eh, lo so...

Signora Reis Addio.

Anna I bambini. Salutameli.Anna, via, per l’uscio in fondo.

Cimetta Povera signora, non si riconosce più!Signora Resi (investendolo) Ma lo facciano andar via subito! dentro, subito,quest’assassino! per pietà, per pietà della mia povera figliuola!

Lecci Sarà questione d’un giorno, signora mia: se non oggi, domani!A Cimetta:È stata una concessione straordinaria, lasciarlo qua, alle nostre cure fino adora: guardato, va bene, ma anche con tutta la larghezza e la considerazionepossibile; se pensiamo alla qualità dell’ucciso!

Cimetta È incredibile! Pare un sogno, un incubo. Per quella donna là! Un uomo

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

come quello, brutto, sbricio, apatico; che si trascinava svogliato nella vita;che si sapeva da tanti anni ingannato spudoratamente dalla moglie, e non sene curava; che pareva penasse e faticasse a guardare e tirar fuori quella suavocetta molle, miagolante – sissignori – tutt’a un tratto, si sente muovere ilsangue, e per chi? per questo povero Tommaso.Alla signora Reis:Ma dica un po’: Tommaso, come, perché gli era amico?

Signora Reis Per via del giudice che fu trasferito, il giudice... come si chiamava? Làrcan,mi pare.

Cimetta Ah, sì, il sostituto procuratore Làrcan.

Signora Reis Abitava qui, nel quartierino accanto. Quando fu trasferito, scrisse al Neri,che venne a prenderne il posto, una lettera di presentazione a mio genero:così si conobbero.

Cimetta Mi pare che il Neri tenne anche a battesimo un figlio di Tommaso.Signor Reis. Sì, l’ultimo: quello che morì.

Cimetta (a Lecci) Capisci? Anche jettatore. Si può esser certi che, seccato com’erasempre, sarà stata magari un regalo per lui, la morte. E intanto qua adessotutta una famiglia nel baratro.Anna rientra frettolosamente dall’uscio in fondo.

Anna Dica, dottore: si potrebbe farlo uscire un po’ dalla stanza? Lo chiede.

Lecci Se può; ma senza il minimo sforzo... veda lei... Con una sedia sotto mano,per il caso che gli mancassero le gambe, mi raccomando.Alla signora Reis:Viene via anche lei, signora?

Signora Reis Sì, eccomi. passo avanti. Addio, Anna.Via per l’uscio a destra.

Lecci (dando il passo) Andiamo, avvocato. Passa, senza cerimonie.

Cimetta A rivederla, signora.

Anna A rivederla.Al Lecci:Per carità, dottore, dica alla guardia di non farsi vedere.

Lecci Non dubiti. Quantunque, forse...

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120Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Anna No! la guardia, no!

Lecci E allora, si provi lei; nessuno potrebbe meglio di lei.

Cimetta Eh già!

Lecci Cogliendo la prima occasione.

Anna E come? E come?

Lecci Basta. Noi torneremo subito. A rivederla.Via, col Cimetta. Anna prepara il seggiolone per il convalescente e rientra perl’uscio in fondo, lasciandolo aperto e con la tenda tirata. Poco dopo, sorretto daAnna e dall’infermiere, viene in iscena Tommaso Corsi. È alto di statura ed’aspetto bellissimo. Ha il volto pallido come di cera, e un po’ scavato, ma gliocchi gli ridono, quasi infantilmente. Stenta a respirare; lo stento del respiro èperò sulle labbra bianche un sorriso dolce e mesto. Tiene la giacca sulle spalle,colle maniche penzoloni. Dall’apertura della camicia s’intravede il petto fascia-to. Anna e l’infermiere lo conducono a sedere sul seggiolone ed egli vi s’abbando-na con un sospiro di sollievo.

Tommaso Ah, com’è bello qua. Ma guarda quante cose che mi pajono nuove. Il lavabo,già. E il mio armadio. E questo è il mio seggiolone dei giornali.Riguarda attorno i mobili.Stavano qua, zitti.Indica l’armadio.Ma quello, se lo apri, strilla.Alla moglie:Aprilo, aprilo: fammi sentire.Ha come una trafittura:Ahi!

Anna Che è stato?

Tommaso Niente. Mi sono mosso male. È passato. Aspetta. M’appoggio. M’appoggioalla spalliera.

Anna Sarà meglio, dietro le spalle, un cuscino.

Tommaso No. Cioè, forse sì.L’infermiere corre a prendere di là un cuscino.

Anna (gridandogli dietro) E prendete anche una coperta!

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Tommaso Quella verde che è sul letto.

Anna (facendosi all’uscio di fondo) Codesta del letto, sì.L’infermiere rientra col cuscino e la coperta verde. Anna aggiusta sulla spallieradel seggiolone il cuscino, mentre l’infermiere stende sulle gambe del convale-scente la coperta.

Tommaso (carezzando con le mani la coperta) Questa, questa. Se sapessi quanto le vo-glio bene. I sogni che m’ha fatto fare. Quando su questo verde mi rividi lamano. Poi la levai. Era anche più bianca. Mi tremava tutta. Ah, mi sentivocome in un vuoto. In un vuoto però tranquillo, soave, come di sogno. E mipareva tutto lontano. Lontano, lontano. E questa peluria verde qua mi pare-va la campagna. I fili d’erba d’un prato infinito. E ci vivevo in mezzo, beato,vaneggiato in una delizia che non ti so dire. Tutto nuovo. La vita ricomincia-va adesso. Forse era rimasta sospesa anche per gli altri. Ma no: ecco: sentivopassare una vettura. No, ecco – mi dicevo – fuori, per le vie, la vita in tuttoquesto tempo ha seguitato ad andare. Questo mi contrariava. E allora mirimettevo a guardare questa coperta: qua la vita, sì, ricominciava veramente,con tutti questi fili d’erba. E anche così per me ricominciava. Ah, se potessirespirare un po’ d’aria fresca!Si volta a guardare la moglie.Tu piangi?

Anna (voltando il capo per non farsi scorgere) No, non ci badare.

Tommaso (all’infermiere, quasi in un sorriso) Piange.Pausa.Per piacere, andate un momento di là.L’infermiere se ne va per l’uscio in fondo.

Tommaso Anna.E come Anna si rivolge sollecita e si china a guardarlo con gli occhi lacrimosi:Perché?Pausa. Poi, esitante:Ancora... ancora dunque non mi perdoni?Le prende una mano e se la posa sugli occhi. Anna stringe le labbra tremanti,mentre nuove lagrime le sgorgano dagli occhi, e non trova la voce per risponder-gli. Egli allora si leva dagli occhi la mano di lei, e le domanda:No?

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Anna (angosciata, timidamente) Io, sì... io, sì...

Tommaso E allora?Prendendole il volto tra le mani e accostandolo al suo con tenerezza infinita:Lo comprendi, lo senti che è vero, se ti dico che mai, mai nel mio cuore, nelmio pensiero, mai sei venuta meno, tu santa mia, amore, amore mio.

Anna (staccandosi lievemente, perché egli possa riprendere una posizione più comoda,e carezzandogli con una mano i capelli) Sì, sì, zitto. Così ti affanni troppo.

Tommaso È stata un’infamia.

Anna Zitto, per carità: non ci pensare.

Tommaso No, è bene che te lo dica.

Anna Non voglio sentir nulla, no; non mi dir nulla. Io so. So tutto.

Tommaso Per togliere ogni nube tra noi.

Anna Ma non ce n’è.

Tommaso Un’infamia, sorprendermi in quel momento vergognoso, di stupido ozio.

Anna Basta, basta, per carità, Tommaso.

Tommaso Tu lo comprendi, se è vero che m’hai perdonato.

Anna Sì, sì, basta.

Tommaso Stupido fallo, che quel disgraziato ha voluto rendere enorme, tentando d’uc-cidermi, due volte.

Anna Lui? ah sì?

Tommaso Due volte. Mi venne sopra, con l’arma in pugno, e mi tirò, per uccidermi.Mi vidi costretto, costretto a difendermi. Per forza. Non potevo – tu locomprendi – lasciarmi uccidere per quella lì. Non potevo, per voi. E glielodissi. Ma era come impazzito; addosso a me. E io non riuscivo a balzare inpiedi, a levarmi da quel letto lì, per... per vergogna. Mi sparò un primocolpo, che infranse il vetro del quadro al capezzale. Mi volto e gli grido:“Che fai?” quasi ridendo; tanto mi pareva impossibile ch’egli non compren-desse ch’era un’infamia, una pazzia uccidermi a quel modo, in quel momen-to, uccidere me che non volevo esser lì: c’ero per caso, chiamato da quella,con una scusa.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Anna Vedi come ti agiti? Basta, Tommaso, per carità. Ti fai male.

Tommaso Avevo tutta la mia vita fuori di lì: te, i miei figli da difendere, i miei affari.Mi sibila in faccia un secondo colpo. Ah sì? Eh via, disgraziato! Ma nonricordo d’aver tirato su lui. Cadde con un tonfo a sedere sul pavimento. Poisi ripiegò bocconi. M’accorsi allora d’aver l’arma ancora calda e fumante inpungo. Sentii salirmi dal petto... non so, una cosa torbida, atroce. Guardai ilcadavere per terra; la finestra donde quella s’era buttata; udii i clamori dellavia sottostante, e... e con quell’arma stessa....S’abbandona, spossato, sulla spalliera.

Anna Vedi, vedi che male ti fai, Tommaso? Oh Dio!

Tommaso Non è niente. Un po’ di stanchezza.

Anna Vuoi tornare a letto?

Tommaso No, sto bene qui. È passato. Sono forte abbastanza. Ora bisogna che mirimetta subito. Volevo soltanto dirti come... com’è stato... e che per forzaio...

Anna Zitto, zitto, non ricominciare. Queste cose tu...S’interrompe vedendo entrare il dottor Lecci e l’avvocato Cimetta.Ah, ecco il dottore che ritorna. Queste cose tu le dirai... le dirai ai giudici, evedrai che...Tommaso, a queste ultime parole di Anna che sta china su di lui, si rizza d’im-provviso su un gomito e guarda il Lecci e il Cimetta che si fanno avanti.

Tommaso Ma io... Eh già... il processo...Illividisce; ricade sulla spalliera, annichilito.

Lecci (accostandosi) Su, su, formalità, formalità!

Tommaso (quasi tra sé, guardando il soffitto) E quale altra punizione maggiore di quellache m’ero data io con le mie mani?

Cimetta (istintivamente, con un sospiro) Eh, caro, non basta.

Tommaso (scorgendolo e provandosi a replicare) Non basta? E allora...Ma subito si riaccascia.Eh già, sì... Ci credi? Mi pareva che tutto fosse finito.Buttando le braccia al collo di Anna, disperatamente:Anna, Anna, sono perduto! sono perduto!

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Lecci Ma no! ma no! ma perché? chi l’ha detto?

Tommaso Perduto. Il processo. Ora m’arrestano. E come non ci ho pensato? Ma sì! Esarà tanto più grave – di’, di’, Cimetta – in quanto ho ucciso, non un poverodisgraziato qualunque, ma un sostituto procuratore del re, è vero?

Cimetta Fosse almeno possibile dimostrare che si era accorto dei precedenti torti dellamoglie!

Anna Ma c’è la testimonianza di tanti, avvocato!

Cimetta Eh, ma non la sua! E un morto, purtroppo, non si può chiamare a giuraresulla sua parola d’onore. Se lo mangiano i vermi, signora mia, l’onore deimorti. Che valore può avere l’induzione contro la prova di fatto? L’avrà sa-puto; ma il fatto dimostra il contrario: che egli non ha voluto l’oltraggio e s’èribellato. Tu dici: – Ma potevo io lasciarmi uccidere da lui? – No. Ma sevolevi rispettato codesto diritto, di non aver tolta la vita, non dovevi fartitrovare con sua moglie. Così facendo, – bada, io vedo adesso le ragioni del-l’accusa – tu stesso hai derogato al tuo diritto, ti sei esposto al rischio, e nondovevi perciò reagire. Capisci? Due colpe.

Tommaso (cercando d’interrompere) Ma io...

Cimetta Lasciami dire. Della prima, dell’adulterio, dovevi lasciarti punire da lui, dalmarito offeso; e tu invece l’hai ucciso.

Tommaso Per forza! Istintivamente! Per non farmi uccidere!

Cimetta Ma subito dopo hai tentato d’ucciderti con le tue mani!

Tommaso E non deve bastare?

Cimetta Non può bastare. È anzi a tuo danno!

Tommaso Ah sì? Per giunta?

Cimetta Tentando d’ucciderti, hai riconosciuto implicitamente la tua colpa.

Tommaso Sì. E mi sono punito.

Cimetta No, caro. Hai tentato di sottrarti alla punizione.

Tommaso Togliendomi la vita. Che avrei potuto fare di più?

Cimetta Già; ma avresti dovuto morire! Non essendo morto...

Tommaso Ah, il mio torto allora è questo?

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125Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

Scostando con un braccio la moglie per porsi di fronte il dottor Lecci:Ma io sarei morto, se lui non avesse voluto salvarmi.

Lecci (stupito, nel vedersi così tirato in ballo) Come? Io?

Tommaso Voi, voi! Io non volevo le vostre cure! Voi avete voluto prestarmele per forza;ridarmi la vita: voi! E perché me l’avete ridata, se ora...

Lecci Piano, con calma. Vi fate male agitandovi così.

Tommaso Grazie, dottore. Vedo che vi preme sul serio la mia guarigione! Ascolta,Cimetta: voglio ragionare. Calmo, per non far dispiacere al dottore. Mi eroucciso. Viene lui. Mi salva. Con qual diritto, gli domando io ora?

Lecci (torbido in volto, pur cercando di sorridere) Dopo tutto, scusate, è un belmodo codesto di ringraziarmi.

Tommaso E di che, ringraziarvi? Non avete inteso ciò che ha detto l’avvocato?

Lecci Avrei dovuto lasciarvi morire?

Tommaso Appunto, morire, se non avevate il diritto di disporre della vita ch’io m’erotolta e che voi mi ridavate.

Lecci E come, disporne? Non si può mica passare sopra la legge!

Tommaso Io n’ero uscito dalla legge, dandomi una punizione più grave di quella che lastessa legge può dare! Non c’è più pena di morte; ed io sarei morto, senza divoi.

Lecci Ma io avevo il dovere della mia professione, caro Corsi: tentare in tutti imodi di salvarvi.

Tommaso Per ridarmi in mano alla giustizia e farmi condannare? E con qual diritto – iovi domando appunto questo – con qual diritto voi esercitate su un uomoche ha voluto morire il vostro dovere di medico, se non avete in cambiodalla società il diritto che quest’uomo possa vivere la vita che voi gli ridate?

Cimetta Ma scusa, e del male che hai fatto?

Tommaso Mi sono lavato, col mio sangue! Non basta? Avevo ucciso, m’ero ucciso. Luinon m’ha lasciato morire. Mi sono ribellato alle sue cure. Tre volte mi sonostrappate le fasce. Ora sono qua: rinato, per opera sua: un altro. Come voleteche resti sospeso a un momento di quell’altra mia vita che per me non esistepiù? Il rimorso di quel momento io me lo sono levato; in un’ora scontai la

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126Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Il dovere del medico

mia colpa, in un’ora che poteva essere lunga quanto l’eternità! Ora non hopiù nulla da scontare, io! Debbo rimettermi a vivere per la mia famiglia, alavorare per i miei figliuoli! Come volete che stia in un reclusorio a scontareun delitto che pensai di commettere, che non avrei mai commesso se non vifossi stato trascinato; mentre a freddo, ora, coloro che approfitteranno dellavostra scienza, del vostro dovere di tenermi in vita solo per farmi condanna-re, commetteranno il delitto di farmi abbrutire in un ozio infame, e i mieifigliuoli, i miei figliuoli innocenti, nella miseria, nell’ignominia? Con qualdiritto?Si rizza sul busto, sospinto da una rabbia che il sentimento della propria impo-tenza rende furibonda: caccia un urlo e s’afferra con le dita artigliate il viso e selo straccia; poi si riversa bocconi sul braccio della poltrona, convulso; tenta discoppiare in singhiozzi ma non può. Nella vanità di questo sforzo tremendo,rimane un pezzo stordito, come in un vuoto strano, in un attonimentospaventevole, tra lo stupore e il raccapriccio muto degli altri. Sul volto cadaveri-co s’allungano rosse le tracce dello strappo recente delle dita.

Anna (spaventata, accorre; gli solleva prima il capo: poi, ajutata dal Cimetta, si provaa rialzarlo; ma ritrae subito le mani con un grido di ribrezzo e di terrore: lacamicia sul petto è rossa del sangue della ferita) Dottore! Dottore!

Cimetta Gli s’è riaperta la ferita!

Lecci (sbarrando gli occhi e impallidendo, allibito) La ferita?Istintivamente s’appressa alla poltrona; ma è arrestato subito dal Corsi con unsuono rauco, di minaccia. Allora, come basito, lasciandosi cadere le braccia:No, no, Ha ragione. Hanno sentito? Io non posso. Non debbo.

Da: Luigi Pirandello, Teatro, Roma, Newton– Compton, 1995

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127Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

L’altro figlio

Personaggi

MaragraziaNinfarosaRocco TrupìaUn giovane Medicoaco SpinaTino LigreciLe comari del vicinatoLa GialluzzaLa Z’a MarassuntaLa ’gnà Tuzza La DiaLa MarineseIn Sicilia, nei primi anni del 1900.Le ultime casupole del villaggio di Fàrnia in Sicilia, alla svoltata d’una lugubrestradetta che si perde nei campi. Le casupole cretose, tutte a terreno, staccatel’una dall’altra, con l’orto dietro, pigliano luce dalle vecchie porte stinte eimporrite, con un logoro scalino d’invito davanti a ciascuna. A sinistra, dirim-petto, fa corpo soltanto la casa di Ninfarosa, un poco meno vecchia e misera dellealtre.Al levarsi della tela, La Gialluzza, donnetta magra, sui trent’anni, coi capelligià biondi, ora stopposi, a crocchia; La Z’a Marassunta, vecchia sulla sessantinavestita d’un abito da lutto, scolorito, di tela bambagina, e col fazzoletto nero incapo, annodato sotto il mento; La ’gnà Tuzza La Dia, sui quaranta, sempre congli occhi a terra e la voce a lamento, La Marinese, rossa di pelo e sgargiante,seggono tutt’e quattro davanti alle porte delle loro casupole, e chi rattoppa pan-ni, chi sceglie legumi, chi fa la calza, e insomma, tutte occupate in qualchelavoro, conversano tra loro. Jaco Spina, vecchio contadino con la berretta nera acalza in capo e in maniche di camicia, steso a pancia all’aria, appoggiata la testasu una bardella d’asino, se ne sta ad ascoltare in fondo alla viuzza, fumando lapipa. Qualche ragazzo, nero, cotto dal sole, ruzza qua e là.

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128Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

La Gialluzza E alla calata del sole, quest’altra partenza!

La ’Gnà Tuzza (con voce a lamento) Con la buona ventura, poverelli!

La Marinese Dicono che ne partiranno più di venti!Verrà a questo punto di tra le casupole a destra Tino Ligreci, giovane contadinoche ha finito da poco di fare il soldato: aria spavalda, calzoni a campana eberretto a barca sulle ventitré.

Tino (rivolgendosi alla Z’a Marassunta) Buona sera, Z’a Marassì. Mi sa dire se ildottore è passato di qua? So che doveva andare da Rocco Trupìa, alla casadella Colonna.

Z’a Marassunta No, figlio; di qua non è passato. Io, almeno, non l’ho visto passare.

La Marinese E neppure nojaltre. Ma perché, chi sta male?

Tino Nessuno, per grazia di Dio. Gli volevo raccomandare mia madre.Esita un poco, guardando le vicine, e poi dice afflitto:E anche a voi, di darle un occhio, ogni tanto: resta sola, meschinella.Sarà intanto venuta, da dietro la casa di Ninfarosa, Maragrazia. Ha più disettanta anni; il viso, come un fitto reticcio di rughe; gli occhi dalle palpebrerovesciate, insanguati dal continuo piangere. I pochi capelli, aridi, spartiti sulcapo, le pendono in due nodicini sugli orecchi. Pare un mucchio di cenci unti egrevi, sempre gli stessi, d’estate e d’inverno, strappati e sbrindellati; senza piùcolore e impregnati di tutto il sudicio delle strade. Ai piedi, logore scarpaccesformate e calze turchine, di cotone grosso.

La Marinese (a Tino) Voi dunque partite?

Tino Stasera, con la carovana. Ma non per San Paolo, come gli altri. Vado a Rosa-rio di Santa Fè, io.Maragrazia (alle sue spalle) Parti anche tu?

Tino parto, sì, parto per non vedervi più e non sentirvi più piangere, vecchiacciastolida!Maragrazia (guardandolo fisso negli occhi) Per Rosario, hai detto, per Rosariodi Santa Fè?

Tino Per Rosario, per Rosario. Perché mi guardate così? Vorreste cavarmi gliocchi?

Maragrazia No, bello, te l’invidio! perché tu, allora, li vedrai...

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129Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Ha un urto di pianto, muto; le trema il mento.Figliucci miei! Sono là tutti e due. Di’ loro come m’hai lasciata; che non mitroveranno più, se tardano ancora a ritornare.

Tino Ma sì, contateci! Appena sbarcato. Laggiù si fa presto: chiama e rispondi!Lasciatemi andare adesso a cercare il dottore.

Maragrazia (trattenendolo con un braccio) Aspetta. Se ti dò una letterina per loro, la por-terai?

Tino Datemela!

Maragrazia Non l’ho ancora. Me la faccio scrivere subito subito da Ninfarosa, e te laporterò a casa, eh?

Tino Sta bene, portatemela. E intanto, buon giorno a tutte. E se non dovessimorivederci più,si commuove:Z’a Marassù, mi benedica!

Z’a Marassunta (alzandosi e facendogli il segno di croce sul capo) Tutto buono e benedetto,figlio! E per mare e per terra il Signore t’accompagni!

Tino (alle altre, col sorriso di chi non vuol parere commosso) E saluto anche vojaltre,allora!Porgerà la mano a tutt’e tre.

La ’Gnà Tuzza Buon viaggio, Tinù!

La Marinese E buona fortuna! E ricordatevi di noi!

La Gialluzza E ritornate presto e in salute e con un sacco tanto così di denari!

Tino Grazie, grazie. Salute e prosperità a chi resta!Via, per la sinistra.

Z’a Marassunta E lascia la mamma, appena tornato da soldato!

La ’Gnà Tuzza La raccomanda agli altri!

Maragrazia (dopo averlo seguito con gli occhi, voltandosi alle vicine) C’è Ninfarosa?

La Gialluzza C’è. Bussate.La voce di Ninfarosa (dall’interno) Chi mi vuole?

Maragrazia Io, Maragrazia.

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130Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

La voce di NinfarosaEccomi, vengo.Maragrazia si calerà pian piano a sedere sullo scalino davanti alla porta diNinfarosa e, lì seduta, ascoltando la conversazione delle vicine, tentennerà ilcapo e piangerà.

La Gialluzza Anche Saro Scoma m’hanno detto che parte, e lascia la moglie con tre crea-ture!

La ’Gnà Tuzza (con la solita voce a lamento) E una quarta per via!

La Marinese (non potendone più) Gesù, con codesta voce! Che urto di nervi, comare mia!Date proprio allo stomaco! Tre e una quattro; se le hanno fatte, è segno checi hanno provato il loro gusto e il loro piacere; e ora, pazienza; lo piangano!Jaco Spina (rizzandosi sulla vita e posandosi le grosse mani raccolte sul petto)S’io fossi re,e sputerà,s’io fossi re, nemmeno una lettera – ma no! che dico una lettera? – nemmenoun semplice saluto farei più arrivare a Fàrnia da laggiù!

La Gialluzza Bravo zi’ Jaco Spina; e come farebbero qua le povere mamme, le spose,senza notizie e senz’ajuto?Jaco Spina Sì! Ne mandano assai!E sputerà di nuovo.Le madri a far le serve, e le spose vanno a male! Su certe case le corna le vedocrescere fino ai sette cieli! Vorrei sapere perché il male che trovano laggiù nonlo dicono nelle loro lettere. Solo il bene dicono. E ogni lettera che arriva èqua per questi ragazzacci ignoranti come la chioccia: – pìo, pìo, pìo – se lichiama e porta via tutti quanti! Non c’è più braccia a Fàrnia né per zapparené per mietere né per potare. Vecchi, femmine e bambini. E ho la terra, e mela vedo patire.Mostrerà le braccia.Con un pajo solo, che posso fare? E ne partono ancora, ne partono! Pioggiain faccia e vento alle spalle, dico io: si rompano il collo, maledetti!A questo punto verrà fuori Ninfarosa. Bruna e colorita, dagli occhi neri e sfavil-lanti, dalle labbra accese, da tutto il corpo svelto e solido, spirerà un’allegrafierezza. Sul petto colmo un gran fazzoletto di cotone rosso a lune gialle; agliorecchi due grossi cerchi d’oro.

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131Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Ninfarosa Che c’è predica oggi? Ah, voi zio Jaco Spina? È meglio, zio Jaco, se restiamoa Fàrnia noi soli! Solità, santità. La zapperemo noi donne la terra!Jaco Spina. Voi donne per una cosa sola siete buone.

Ninfarosa Per che cosa, zio Jaco? Dite forte.

Jaco Spina Piangere, e un’altra cosa.

Ninfarosa E dunque per due! Allegramente! Io non piango però, vedete?

Jaco Spina Eh, lo so, figlia! Neppure quando ti morì il primo marito!

Ninfarosa Già, ma se morivo prima io, zio Jaco, non avrebbe ripreso moglie, lui? Dun-que!Indicando Maragrazia:Vedete chi piange qua per tutti?

Jaco Spina Questo dipende perché la vecchia ha acqua da buttare e la butta anche dagliocchi.Così dicendo, si alzerà, raccoglierà la bardella e se ne andrà di tra una casupolae l’altra.

Maragrazia Due figli ho perduti, belli come il sole, e volete che non pianga?

Ninfarosa Belli davvero, oh! E da piangerli! Nuotano nell’abbondanza laggiù, e vi la-sciano morire qua, mendica!

Maragrazia (alzando le spalle) Figli; come possono capirla la pena della mamma?

Ninfarosa E io non so poi, che tante lagrime e tanta pena, quando voi stessa, a quel chedicono, li faceste scappar via per disperati.

Maragrazia (dandosi un pugno sul petto e sorgendo in piedi, trasecolata) Io? Io? E chi hapotuto dirlo?

Ninfarosa Chi sia, l’ha detto.

Maragrazia Infamità! Io? I figli miei? Io che...

Z’a Marassunta E lasciatela perdere!

La Marinese Non vedete che scherza?

Ninfarosa Scherzo, scherzo, calmatevi; e ditemi che volevate da me; avete bussato.

Maragrazia Ah, sì: la solita carità; se vuoi farmela.

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132Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Ninfarosa Ancora una lettera?

Maragrazia Se vuoi! La porto a Tino Ligreci che parte stasera per Rosario di Santa Fè.

Ninfarosa Ah, parte anche Tino? Buon viaggio anche a lui allora! – Presto però, miraccomando: sto cucendo; mi manca il filo per la macchina e debbo andare acomprarlo.

Maragrazia Sì, senti: dovresti scrivere del casalino, come ti dissi l’altra volta.

Ninfarosa Di quei quattro muretti là, di creta e canna?

Maragrazia Sì; ci ho ripensato tutta stanotte. Senti: – “Cari figli! Voi ve li ricordate certoquesti quattro muretti ancora in piedi. Bene. La vostra mamma è disposta afarvene donazione in vita, se voi ritornate presto presto a lei”.

Ninfarosa Uh, voleranno certo, figuriamoci; se è vero che sono già ricchi! Ma la pauramia è che, col vento della corsa, lo faranno crollare, il casalino, prima diprenderne possesso. Capite?

Maragrazia Eh, figlia: vale più una pietruzza in patria, che tutto un regno fuorivia! Scri-vi, scrivi.E le porgerà il foglietto da lettere, da un soldo, con la busta dentro, che si saràtratto intanto dal seno.

Ninfarosa Date qua. Rimanete a sedere lìindicherà lo scalinoper piacere: entrando, mi sporchereste tutta la stanza.Entrerà, col foglietto in mano, nella stanza.

Maragrazia (rimettendosi a sedere) Sì, hai ragione; rimango qua. Tu hai la casa pulita, tu.Io vado per le campagne. Mi cercherete un giorno, e mi troverete, là in quelcasalino, mangiata dai topi.La voce di Ninfarosa (dall’interno) Ho già scritto del casalino. Che altrovolete che aggiunga?

Maragrazia Ecco, sì, questo: “Cari figli! La vostra povera mamma, ora che l’inverno èalle porte, trema di freddo. Vogliate farle la carità di mandarle, non dicomolto, una carta da dieci lire, per comperarsi...”.

Ninfarosa (venendo fuori, già con lo scialle addosso, nell’atto di rimettere dentro la bustail foglietto ripiegato) Già scritto! Già scritto! Ecco qua! Tenete!Le porgerà la busta.

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133Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Maragrazia (stupita e afflitta da quella furia) Ma come? Già scritto?

Ninfarosa Tutto; anche per le dieci lire; state tranquilla! Lasciatemi andare.Via, per la sinistra, tra la prima e la seconda casupola.

Maragrazia (c.s.) Ma come ha fatto a scrivere così subito, senza neanche sapere che cosa civoglia comprare con le dieci lire?

La Marinese Eh, la veste! Gliel’avrete fatto scrivere una ventina di volte!

Maragrazia resterà, non persuasa e perplessa, con la busta in mano. Intanto, dal fondo dellastradetta che si perde nei campi, sopravverrà il giovane Medico.

Il Medico (rivolgendosi alla Gialluzza) Scusate, mi sapreste indicare dov’è la Casa dellaColonna d’un certo Rocco Trupìa?

La Gialluzza E come, signor dottore; viene di lassù e non l’ha veduta?

La Marinese È qua all’uscita del paese. Non può sbagliare: c’è un pezzo di colonna anticaallo spigolo d’un muro;Il Medico. Io non ho visto nessuna colonna.

Z’a Marassunta Ma perché il muro, sissignore, a fianco dello stradone è riparato dai fichid’India; e dallo stradone, chi non la sa, non la vede.

Il Medico Ah, io indietro adesso, a rimangiarmi tutta quella polvere, non torno disicuro. Fatemi il piacere, qualcuna di voi mandate uno dei vostri ragazzi adavvertire questo Rocco Trupìa che il medico ha da parlargli.

Z’a Marassunta Per sua zia, forse? Ah poveretta! Sta peggio?

Il Medico Né meglio, né peggio. Bisogna che la costringa, se occorre con la forza, afarsi portare in città all’ospedale. In casa non si può curare. Io le ho già scrittol’istanza per il sindaco.

La Gialluzza (a uno dei ragazzi) Via, via tu, Calicchio; sì, alla Casa della Colonna, sai?Chiama e fai venire qua lo zio Rocco Trupìa. Che il medico ha da parlargli;dirai così.Il ragazzo farà cenno di sì col capo e andrà via di corsa per la stradetta in fondo.

Il Medico Grazie. Lo manderete allora a casa mia. Io vado.Darà per svoltare la casa di Ninfarosa.

Maragrazia Scusi, signor dottore, mi vuol fare la carità di rileggermi questa letterina?

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134Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Z’a Marassunta (subito, per cercare d’impedire che il Dottore legga la lettera, a Maragrazia)Ma no! Lasciate andare, ché il signor dottore ha fretta!

La Marinese (c.s. al Dottore) Non le dia retta, signor dottore!

Il Medico Nient’affatto! Perché no?A Maragrazia:Date qua.Prenderà la busta, ne trarrà fuori il foglietto; farà per leggerlo; poi guarderà lavecchia come se questa avesse voluto fargli una burla e, mentre le quattro vicineridono, le domanderà:Ma che è?

Maragrazia Non si legge bene?

Il Medico Che volete che si legga? Non c’è scritto nulla!

Maragrazia (sbalordita e indignata) Nulla? Come, nulla?

Il Medico Quattro sgorbii, tirati giù con la penna a zig– zag. Guardate!

Maragrazia Ah, lo volevo dire io! Non ci ha scritto nulla! Oh, infamaccia! E perchéingannarmi così?

Il Medico (alle Vicine che ridono, indignato) Ma chi è stato? E che c’è da ridere tanto?

Z’a Marassunta Perché alla fine l’ha scoperto!

La ’Gnà Tuzza Ce n’è voluto!

La Marinese Ninfarosa, la sarta, la burla ogni volta così!

La Gialluzza Per levarsela d’attorno.

Maragrazia Ah, per questo, allora, signor dottore, i figli miei non mi rispondono! Nonha scritto mai nulla, neanche nelle altre lettere! Per questo! Non sanno nulla,né del mio stato, né che sto morendo per la pena di non vederli! E io liincolpavo, mentre era qua, quest’infamaccia, che si è sempre burlata di me!Si metterà a piangere.

Z’a Marassunta Ma non per cattiveria, creda, signor dottore!

Il Medico (a Maragrazia) Sù, sù: non vi disperate così, adesso! Venite più tardi a casamia, che ve la scriverò io la lettera per i vostri figli. Andate, andate!La spingerà amorevolmente ad andare.

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135Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Maragrazia (sempre piangendo e avviandosi dietro la casa di Ninfarosa) Oh Dio! Come sipuò fare un simile tradimento a una povera madre? Oh, che cosa! Che cosa!Via.Ritornerà a questo punto, dalla parte donde prima era uscita. Ninfarosa: ve-dendo andar via pian piano la vecchia, e le Vicine seguirla con gli occhi, trapentite e mortificate, domanderà:

Ninfarosa Se n’è forse accorta?

Il Medico Ah, giusto voi!

Ninfarosa Buon giorno, signor Dottore!

Il Medico Ma che buon giorno! Come non vi vergognate di farvi beffe così d’unapovera madre?

Ninfarosa No, prima di rimproverarmi, mi lasci dire!

Il Medico Ma che volete dire?

Ninfarosa Che è matta, signor dottore: non stia ad affliggersene così!

Il Medico E che gusto ci potete provare a ingannare una matta?

Ninfarosa Ma no, signore: nessun gusto; proprio come si fa coi bambini, per conten-tarli! La pazzia, signor dottore, le è entrata nel capo, dopo la partenza di queidue figli per l’America. Non vuole ammettere che essi si siano scordati di lei,com’è la verità; e da anni s’ostina a mandar loro lettere e lettere. Io fingo discrivergliele: così, due sgorbii sulla carta; quelli che partono, fingono di pren-dersele per recapitarle; e lei, poveraccia, s’illude. Ah, signor dottore, se doves-simo far come lei, sa che ci sarebbe qua? tutto un mare di pianto; e noi,dentro, affogate. Guardi, anch’io che le parlo: quel bel saltamartino di miomarito, ma sa che coraggio ha avuto? di mandarmi un ritratto di lui e dellasua bella di laggiù, con le teste così, accoste accoste, e le mani afferrate –permette? mi dia la mano... – così! E ridono, ridono in faccia a chi li guarda:dunque, a me; se me l’hanno mandata! Ma io, la mia – guardi – mano disarta, bianca: tante fossette, quante sono le dita! E piglio il mondo com’è!

La Gialluzza Te beata, Ninfarò!

Ninfarosa Beata? È una virtù che potete avere anche voi. Chi l’ha, gli va tutto bene.

Z’a Marassunta Eh, tu sei vispa!

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136Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Ninfarosa E voi siete tardive! Ma dite pure di me: tanto, lo sapete, m’entra da unorecchio e m’esce dall’altro.

Il Medico Avrete da vivere, voi. Mentre quella poveretta, invece...

Ninfarosa Ma che! Quella? Avrebbe da vivere anche lei, ih! bella seduta e servita inbocca. Se volesse. Non vuole. Lo domandi qua a tutte quante.Le vicine. Sì, sì! È vero!

Ninfarosa In casa del figlio!

Il Medico Ma come! Ha un altro figlio?

La Marinese Sissignore, quel Rocco Trupìa appunto, con cui lei vuol parlare.

Il Medico Ah, sì? È allora sorella di quell’altra matta che non vuol farsi portare all’ospe-dale?

La Gialluzza No, cognata, signor dottore.

Ninfarosa Ma guaj a chi glielo dice! Non vuol sentirne parlare; né del figlio, né deiparenti del figlio dal lato paterno.

Il Medico L’avrà forse trattata male, questo figlio!

Ninfarosa Non credo. Ma eccolo qua Rocco Trupìa: può domandarlo a lui.Difatti Rocco Trupìa sarà apparso dal fondo della stradetta, col ragazzo che èandato a chiamarlo, e verrà avanti col passo pesante dei contadini, curvo sullegambe larghe, ad arco, e una mano alla schiena. È rosso di pelo, pallido, e colviso sparso di lentiggini. Gli occhi cavi gli guizzano a tratti di torvi sguardisfuggenti. S’appresserà al Medico, spingendosi un po’ indietro sulla fronte laberretta nera, a calza, in segno di saluto.

Rocco Bacio le mani a vossignoria. Che comandi ha da darmi?

Il Medico Vi volevo dire di vostra zia.

Rocco Di portarla all’ospedale? Vossignoria non ci pensi e la lasci morire quieta nelsuo letto.

Il Medico Al solito, come a tutti, vi sembra un disonore condurla a guarire al-l’ospedale.

Rocco (agitando le mani congiunte) Ma che guarire, padrone mio! I poveri all’ospe-dale non guariscono. E morrebbe disperata, senza più il conforto della sua

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137Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

roba attorno. Né lei ci andrebbe, né io ce la porterei, neppure se mi desserocent’onze. M’ha fatto da madre, quella zia, si figuri!

Il Medico A proposito di vostra madre...

Rocco (troncando fosco) Signor dottore, ha da darmi altri comandi? Sono pronto aservirla. Ma se vossignoria mi vuol parlare di mia madre, le chiedo licenza:me ne torno al lavoro.Farà per avviarsi.

Il Medico (trattenendolo) Aspettate! So che non manca per voi!

Rocco (di scatto) Vuol venire a casa mia, qua, a due passi? Casa da poverelli; ma se fail medico, chi sa quant’altre ne avrà vedute. Le vorrei mostrare il letto prontosempre per quella... buona vecchia; è mia madre; non posso chiamarla altri-menti! Può domandare a queste buone vicine se non è vero che, sempre, amia moglie e ai miei figli, ho comandato di rispettare quella vecchia come laMadonna sull’altare.accennerà, così dicendo, il segno della Croce, e aggiungerà piano:che neanche son degno di nominarla. Vorrei sapere che cosa le ho fatto, aquesta madre, perché debba svergognarmi così davanti a tutto il paese! Sonocresciuto, fin dalla nascita, coi parenti di mio padre; perché lei nemmeno ilprimo colostro per sfogo del suo petto mi volle dare; eppure, sempre comemamma l’ho considerata; e quando dico mamma, io, per mesi strappa improvvisamente dal capo la berretta e s’inginocchiaecco come intendo, signor dottore! perché per me la mamma è santa!Si rialza.Appena quei suoi figliacci partirono per l’America, corsi subito da lei perportarmela a casa, dove sarebbe stata la padrona mia e di tutti. Nossignori.Deve far la mendica per il paese, deve dar questo spettacolo alla gente e que-st’onta a me! Signor dottore, le giuro che se qualcuno di quei suoi figliaccitorna a Fàrnia, io l’ammazzo per quent’onta e per tutto il veleno che daquattordici anni sto ingozzando per loro, lo ammazzo, com’è vero che stoparlando con lei in presenza di queste buone donne e di questi innocenti!Alterato in viso e con gli occhi iniettati di sangue, si forbirà la bocca schiumosacol braccio.

Il Medico Eh, ma ecco perché vostra madre non vuol venirsene a stare con voi! percodesto odio che avete verso i vostri fratelli!

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Rocco Odio? io? Ora sì, odio, ma quand’erano qua, prima dei miei stessi figli mistavano nel cuore e li rispettavo come fratelli maggiori; mentre loro, al con-trario, due Caini per me. Non lavoravano, e lavoravo io per tutti; venivano adirmi che non avevano da cucinare la sera; che la mamma se ne sarebbe anda-ta a letto digiuna, e io davo; s’ubriacavano, scialacquavano con le donnacce, eio davo; quando partirono per l’America, mi svenai per loro: glielo possonodire tutti in paese.Le vicine – È vero! è vero, poveretto! – Il pane di bocca si levò per darlo aloro!

Il Medico E allora perché?

Rocco (con un ghigno) Perché? Perché mia madre dice che non sono suo figlio!

Il Medico (stupito) Come, non siete suo figlio?

Rocco Signor dottore, se lo faccia spiegare dalle donne qua. Io non ho tempo daperdere: gli uomini mi aspettano di là con le mule cariche di concime. Deb-bo lavorare e – guardi – mi sono tutto rimescolato. Bacio le mani.E se n’andrà, come era venuto, curvo, con le gambe ad arco, e una mano allaschiena, per la stradetta in fondo.

Ninfarosa Ha ragione, pover’uomo! Brutto, sempre ingrugnato, pare dagli occhi chedebba avere tanto cattivo dentro, e non è vero!

La ’gna Tuzza Lavoratore, poi!

La Marinese Ah, per questo: lavoro, moglie e figliuoli; non conosce altro. E non apre maibocca con nessuno.

La Gialluzza Ha in affitto, là alla Casa della Colonna, una bella chiusa che gli rende bene.

Z’a Marassunta Potrebbe stare davvero come una regina quella vecchia matta! Ma eccola quache torna piangendo.

Maragrazia ricomparirà da dietro la casa di Ninfarosa, con un altro foglietto da lettere inmano.

Maragrazia Ho comperato la carta per la lettera, se vossignoria me la vuol fare.

Il Medico Sì, ve la farò; ma ho parlato intanto con vostro figlio. Dite un po’: perchém’avete nascosto che ne avevate qua un altro?

Maragrazia (con terrore) No, no, per carità, non me ne parli! non me ne parli; sudofreddo, signor dottore, se lei mi parla di questo figlio! Non me ne parli!

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139Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

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Luigi Pirandello L’altro figlio

Il Medico Ma perché? Che v’ha fatto? Dite sù!

Maragrazia Niente, m’ha fatto. Niente, signor dottore; ah, questo debbo dirlo, in co-scienza: mai niente!

Ninfarosa (che sarà andata a prendere una seggiola, porgendola al medico) Ecco, intanto,segga, signor dottore; sarà stanco, di stare in piedi.

Il Medico (sedendo) Ha, sì, grazie: sono stanco davvero.A MaragraziaDunque? Se non v’ha fatto niente...

Maragrazia Tremo tutta, mi vede? Non posso proprio parlarne: perché quello, signordottore, non è figlio mio!

Il Medico Ma come non è? che dite? Siete stolida o matta davvero? Non l’avete fattovoi?

Maragrazia Sissignore, io. E sono stolida, forse. Matta, no. Dio volesse! non penerei piùtanto. Ma certe cose vossignoria non può saperle, perché ancora è ragazzo. Ioho i capelli bianchi; sto a penare da tanto tempo, io; e ne ho viste! Cose hoviste, che lei non si può neanche immaginare!

Il Medico Che avete visto, insomma? parlate.

Maragrazia Lei avrà letto forse nei libri, che tanti e tant’anni fa, città e campagne siribellarono a ogni legge degli uomini e di Dio!

Il Medico Volete dire al tempo della rivoluzione?

Maragrazia Allora, sissignore. Furono aperte, signorino mio, tutte le carceri di tutti ipaesi. E si figuri che ira di Dio si scatenò da per tutto! I peggiori ladri, ipeggiori assassini; bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di ca-tena! Tra gli altri, uno: un certo Cola Camizzi. Il più feroce di tutti. Capobrigante. Ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come fos-sero mosche; per provare la polvere – diceva – per vedere se la carabina eraparata bene. Costui si buttò in campagna, dalle nostre parti. Passò per Fàrnia.S’era già formata una banda di contadini; ma non era contento; ne volevaaltri; e uccideva tutti quelli che non volevano seguirlo. Io era maritata dapochi anni e avevo già quei due figliuoli che ora sono laggiù in America,sangue mio! Stavamo nelle terre del Pozzetto, che mio marito, sant’anima,teneva a mezzadria. Cola Camizzi passò di là e si trascinò via anche lui, mio

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Luigi Pirandello L’altro figlio

marito, a viva forza. Due giorni dopo, me lo vidi ritornare come un morto;non pareva più lui; non poteva parlare; con gli occhi pieni di quello che avevaveduto; e si nascondeva le mani, poveretto, per il ribrezzo di ciò che era statocostretto a fare. Ah, signorino mio, mi si voltò il cuore in petto, come me lovidi davanti così! – “Mino mio, che hai fatto?” gli gridai, (sant’anima!) –Non poteva parlare. – “Te ne sei scappato? E se ora ti riafferrano? T’ammaz-zeranno!” – Il cuore, il cuore mi parlava. Ma egli – zitto – seduto vicino alfuoco; sempre con le mani nascoste, così, sotto la giacca; gli occhi che guar-davano e non vedevano; disse soltanto: – “Meglio morto!”. – Non dissealtro. Stette tre giorni nascosto; al quarto uscì. Eravamo poverelli; bisognavache lavorasse. Uscì per lavorare. Venne la sera. Non tornò. Aspettai, aspettai.Ah Diò! Ma già lo sapevo: me l’ero immaginato! Pure pensavo: – “Chi sa,forse non l’hanno ammazzato; forse se lo sono soltanto ripreso!” – Venni asapere, dopo sei giorni, che Cola Camizzi si trovava con la sua banda nelfondo di Montelusa, ch’era dei Padri Liguorini, scappati via. Ci andai, comeuna pazza. C’erano, dal Pozzetto, più di sei miglia di strada. Era una giornatadi vento, signorino mio, come non ne ho più viste in vita mia. Si vede ilvento? Eppure quel giorno si vedeva! Pareva che tutte le anime degli assassi-nati gridassero vendetta agli uomini e a Dio. Mi misi in quel vento, tuttastrappata com’ero, ed esso mi portò: gridavo più di lui! Volai. Ci avrò messoappena un’ora ad arrivare al convento, che stava lassù, lassù, tra tante pioppenere. C’era, allato al convento, un gran cortile, murato. Vi s’entrava per unaporticina piccola piccola, mezzo nascosta – ricordo ancora – da un ceppo dicapperi radicato sì, nel muro. Presi una pietra, per bussare più forte. Bussai,bussai; non mi volevano aprire. Ma tanto bussai, che finalmente mi apriro-no. Ah, che vidi! In mano... in mano... quegli assassini...Come soffocata dall’orrore, le mancherà la voce per proseguire; leverà una manoe l’agiterà come se volesse lanciare una cosa.

Il Medico (allibito) Ebbene?

Maragrazia Giocavano... là, in quel cortile... alle bocce... ma con teste d’uomini... nere,piene di terra... le tenevano acciuffate per i capelli... e, una, quella di miomarito, la teneva lui, Cola Camizzi, e me la mostrò.Getta un formidabile grido, e si nasconde la faccia.Ne tremarono tutti, quegli assassini; tanto che, come Cola Camizzi mi misele mani alla gola per farmi tacere, uno di loro gli saltò addosso, furioso, eallora, quattro, cinque, dieci, prendendo ardire da quello, gli s’avventarono

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

addosso, se lo presero in mezzo, come tanti cani. Erano sazii; stanchi ancheloro della tirannia feroce di quel mostro; ed ebbi la soddisfazione di vederloscannato lì, sotto i miei occhi, dai suoi stessi compagni!Le vicine (a una voce, tutte) Bene! Bene! Scannato!– Assassino!– Laccio di forca!– La vendetta di Dio!

Il Medico (dopo una pausa) Ma questo vostro figlio?

Maragrazia Aspetti. Quello che prima si ribellò; quello che prese le mie difese, si chia-mava Marco Trupìa.

Il Medico Ah! Dunque, questo Rocco...

Maragrazia Suo figlio. Ma pensi, signor dottore, se io potevo esser la moglie di quell’uo-mo, dopo quanto avevo visto! Mi prese per forza; mi tenne legata tre mesi,imbavagliata, perché gridavo; appena mi s’accostava, lo mordevo. Dopo tremesi, la giustizia venne a scovarlo, e lo richiuse in galera, dove morì pocodopo. Ma mi lasciò madre. Le giuro che mi sarei strappata le viscere per nonmettere al mondo questo figlio! Sentivo che non me lo sarei potuto vederetra le braccia. Al solo pensiero che avrei dovuto attaccarmelo al petto, grida-vo come una pazza. Fui per morire. Mia madre, sant’anima, non me lo feceneanche vedere: lo portarono via dai parenti di lui, che lo allevarono. Ora,non le pare, signor dottore, ch’io possa dire davvero che non è figlio mio?

Il Medico Già; ma che colpa ne ha lui?

Maragrazia Nessuna! E quando mai, difatti, le mie labbra hanno detto male di lui? Mai,signor dottore! Anzi... Ma che posso farci, se appena lo vedo, anche da lon-tano, sono tutt’un tremito? È tal quale suo padre, finanche nella voce! Nonsono io: il sangue si ribella!Gli mostra timidamente il foglietto.Se vossignoria mi volesse far la carità che m’ha promessa...

Il Medico (alzandosi) Ah, sì. Venite, venite, con me, a casa mia.

Z’a Marassunta Giovasse, poveretta!

Maragrazia (subito, aggressiva) Gioverà, gioverà! Perché per causa suaindica Ninfarosai figliolini miei non sono ancora ritornati!

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142Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’altro figlio

Il Medico Sù, sù, andiamo!

Maragrazia (subito) Eccomi, sissignore! Una bella lettera, lunga, lunga...E mettendosi a seguire il medico, con le mani giunte, come pregando:“Cari figli: La mammuccia vostra...”.Tela.

Da: Luigi Pirandello, Teatro, Roma, Newton– Compton, 1995

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

L’uomo dal fiore in bocca

Persone del dialogo

L’uomo dal fiore in boccaUn pacifico avventore

N. B. – Verso la fine, ai luoghi indicati, sporgerà due volte il capo dal cantoneun’ombra di donna, vestita di nero, con un vecchio cappellino dalle piume pian-genti.Si vedranno in fondo gli alberi d’un viale, con le lampade elettriche che traspa-riranno di tra le foglie. Ai due lati, le ultime case d’una via che immette in quelviale. Nelle case a sinistra sarà un misero Caffè notturno con tavolini e seggiolesul marciapiede. Davanti alle case di destra, un lampione acceso. Allo spigolodell’ultima casa a sinistra, che farà cantone sul viale, un fanale anch’esso acceso.Sarà passata da poco la mezzanotte. S’udrà da lontano, a intervalli, il suonotitillante d’un mandolino.Al levarsi della tela, l’Uomo dal fiore in bocca, seduto a uno dei tavolini,osserverà a lungo in silenzio l’Avventore pacifico che, al tavolino accanto,succhierà con un cannuccio di paglia uno sciroppo di menta.

L’uomo dal fiore Ah, lo volevo dire! Lei dunque un uomo pacifico è... Ha perduto il treno?

L’avventore Per un minuto, sa? Arrivo alla stazione, e me lo vedo scappare davanti.

L’uomo dal fiore Poteva corrergli dietro!

L’avventore Già. È da ridere, lo so. Bastava, santo Dio, che non avessi tutti quegli impic-ci di pacchi, pacchetti, pacchettini... Più carico d’un somaro! Ma le donne –commissioni... commissioni... – non la finiscono più. Tre minuti, creda,appena sceso di vettura, per dispormi i nodini di tutti quei pacchetti alle dita;due pacchetti per ogni dito.

L’uomo dal fiore Doveva esser bello! Sa che avrei fatto io? Li avrei lasciati nella vettura.

L’avventore E mia moglie? Ah sì! E le mie figliuole? E tutte le loro amiche?

L’uomo dal fiore Strillare! Mi ci sarei spassato un mondo.

L’avventore Perché lei forse non sa che cosa diventano le donne in villeggiatura!

L’uomo dal fiore Ma sì che lo so. Appunto perché lo so.PausaDicono tutte che non avranno bisogno di niente.

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144Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

L’avventore Questo soltanto? Capaci anche di sostenere che ci vanno per risparmiare.Poi, appena arrivano in un paesello qua dei dintorni, più brutto è, più miseroe lercio, e più imbizzarriscono a pararlo con tutte le loro galanterie più visto-se! Eh, le donne, caro signore! Ma del resto è la loro professione... – Se tufacessi una capatina in città, caro! Avrei proprio bisogno di questo...diquest’altro...e potresti anche, se non ti secca (caro, il “se non ti “secca ) ... epoi, giacché ci sei, passando di là... – Ma come vuoi, cara mia, che in tre oreti sbrighi tutte codeste faccende? – “Uh, ma che dici? Prendendo una vettu-ra”– Il guajo è che, dovendo trattenermi tre ore sole, sono venuto senza lechiavi di casa.

L’uomo dal fiore Oh bella! E perciò?

L’avventore Ho lasciato tutto quel monte di pacchi e pacchetti in deposito alla stazione;me ne sono andato a cenare in trattoria; poi, per farmi svaporar la stizza, ateatro. Si crepava dal caldo. All’uscita, dico, che faccio? Sono già le dodici;alle quattro prendo il primo treno; per tre orette di sonno, non vale la spesa.E me ne sono venuto qua. Questo caffè non chiude, è vero?

L’uomo dal fiore Non chiude, nossignore.PausaE cosi, ha lasciato tutti quei pacchetti in deposito alla stazione?

L’avventore Perché me lo domanda? Non vi stanno forse sicuri? Erano tutti ben legati...

L’uomo dal fiore No, no, non dico!PausaEh, ben legati, me l’immagino: con quell’arte speciale che mettono i giovanidi negozio nell’involtare la roba venduta...PausaChe mani! Un bel foglio grande di carta doppia, rossa, levigata... ch’è per sestessa un piacere vederla... cosi liscia, che uno ci metterebbe la faccia persentirne la fresca carezza... La stendono sul banco e poi con garbo disinvoltovi collocano su, in mezzo, la stoffa lieve, ben piegata. Levano prima da sotto,col dorso della mano, un lembo; poi, da sopra, vi abbassano l’altro e ci fannoanche, con svelta grazia, una rimboccaturina, come un di più per amore del-l’arte; poi ripiegano da un lato e dall’altro a triangolo e cacciano sotto le duepunte; allungano una mano alla scatola dello spago; tirano per farne scorrerequanto basta a legare l’involto, e legano cosi rapidamente, che lei non ha

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

neanche il tempo d’ammirar la loro bravura, che già si vede presentare ilpacco col cappio pronto a introdurvi il dito.

L’avventore Eh, si vede che lei ha prestato molta attenzione ai giovani di negozio.

L’uomo dal fiore Io? Caro signore, giornate intere ci passo. Sono capace di stare anche un’orafermo a guardare dentro una bottega attraverso la vetrina. Mi ci dimentico.Mi sembra d’essere, vorrei essere veramente quella stoffa là di seta... quelbordatino... quel nastro rosso o celeste che le giovani di merceria, dopo aver-lo misurato sul metro, ha visto come fanno? se lo raccolgono a numero ottointorno al pollice e al mignolo della mano sinistra, prima d’incartarlo.PausaGuardo il cliente o la cliente che escono dalla bottega con l’involto appeso aldito o in mano o sotto il braccio... Li seguo con gli occhi, finché non liperdo di vista... immaginando... – uh, quante cose immagino! Lei non puòfarsene un’idea.Pausa – Poi, cupo, come a se stesso:Ma mi serve. Mi serve questo.

L’avventore Le serve? Scusi... che cosa?

L’uomo dal fiore Attaccarmi cosi – dico con l’immaginazione – alla vita. Come un rampican-te attorno alle sbarre d’una cancellata.PausaAh, non lasciarla mai posare un momento l’immaginazione: – aderire, aderi-re con essa, continuamente, alla vita degli altri... – ma non della gente checonosco. No, no. A quella non potrei! Ne provo un fastidio, se sapesse, unanausea. Alla vita degli estranei, intorno ai quali la mia immaginazione puòlavorare liberamente, ma non a capriccio, anzi tenendo conto delle minimeapparenze scoperte in questo e in quello. E sapesse quanto e come lavora!fino a quanto riesco ad addentrarmi! Vedo la casa di questo e di quello; civivo; mi ci sento proprio, fino ad avvertire... sa quel particolare alito checova in ogni casa? nella sua, nella mia. – Ma nella nostra, noi, non l’avvertia-mo più, perché è l’alito stesso della nostra vita, mi spiego? Eh, vedo che leidice di sì...

L’avventore Sì, perché... dico, deve essere un bel piacere codesto che lei prova, immagi-nando tante cose...

L’uomo dal fiore (con fastidio, dopo averci pensato un po’). Piacere? Io?

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

L’avventore Già... mi figuro...

L’uomo dal fiore Mi dica un po’. È stato mai a consulto da qualche medico bravo?

L’avventore Io no, perché ? Non sono mica malato!

L’uomo dal fiore Non s’allarmi! Glielo domando per sapere se ha mai veduto in casa di questimedici bravi la sala dove i clienti stanno ad aspettare il loro turno per esserevisitati.

L’avventore Ah, sì. Mi toccò una volta d’accompagnare una mia figliuola che soffriva dinervi.

L’uomo dal fiore Bene. Non voglio sapere. Dico, quelle sale...PausaCi ha fatto attenzione? Divano di stoffa scura, di foggia antica... quelle seg-giole imbottite, spesso scompagne... quelle poltroncine... È roba compratadi combinazione, roba di rivendita, messa lì per i clienti; non appartienemica alla casa. Il signor dottore ha per sé, per le amiche della sua signora, unben altro salotto, ricco, bello. Chi sa come striderebbe qualche seggiola, qual-che poltroncina di quel salotto portata qua nella sala dei clienti a cui bastaquesto arredo cosi, alla buona, decente, sobrio. Vorrei sapere se lei, quandoandò con la sua figliuola, guardò attentamente la poltrona o la seggiola su cuistette seduto, aspettando.

L’avventore Io no, veramente...

L’uomo dal fiore Eh già; perché non era malato..PausaMa neanche i malati spesso ci badano, compresi come sono del loro male.PausaEppure, quante volte certuni stanno li intenti a guardarsi il dito che fa segnivani sul bracciuolo lustro di quella poltrona su cui stan seduti! Pensano e nonvedono.PausaMa che effetto fa, quando poi si esce dalla visita, riattraversando la sala, ilrivedere la seggiola su cui poc’anzi, in attesa della sentenza sul nostro maleancora ignoto, stavamo seduti! Ritrovarla occupata da un altro cliente, an-ch’esso col suo male segreto; o là, vuota, impassibile, in attesa che un altroqualsiasi venga a occuparla.Pausa

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

Ma che dicevamo? Ah, già... I1 piacere dell’immaginazione. – Chi sa perché,ho pensato subito a una seggiola di queste sale di medici, dove i clienti stan-no in attesa del consulto!

L’avventore Già... veramente...

L’uomo dal fiore Non vede la relazione? Neanche io.PausaMa è che certi richiami d’immagini, tra loro lontane, sono cosi particolari aciascuno di noi; e determinati da ragioni ed esperienze cosi singolari, chel’uno non intenderebbe più l’altro se, parlando, non ci vietassimo di farneuso. Niente di più illogico, spesso, di queste analogie.PausaMa la relazione, forse, può esser questa, guardi: – Avrebbero piacere quelleseggiole d’immaginare chi sia il cliente che viene a sedere su loro in attesa delconsulto? che male covi dentro? dove andrà, che farà dopo la visita? – Nes-sun piacere. E cosi io: nessuno! Vengono tanti clienti, ed esse sono là, povereseggiole, per essere occupate. Ebbene, è anche un’occupazione simile la mia.Ora mi occupa questo, ora quello. In questo momento mi sta occupandolei, e creda che non provo nessun piacere del treno che ha perduto, dellafamiglia che lo aspetta in villeggiatura, di tutti i fastidi che posso supporre inlei.

L’avventore Uh, tanti, sa!

L’uomo dal fiore Ringrazii Dio, se sono fastidi soltanto.PausaC’è chi ha di peggio, caro signore.PausaIo le dico che ho bisogno d’attaccarmi con l’immaginazione alla vita altrui,ma cosi, senza piacere, senza punto interessarmene, anzi... anzi... per sentirneil fastidio, per giudicarla sciocca e vana, la vita, cosicché veramente non deb-ba importare a nessuno di finirla.Con cupa rabbia:E questo è da dimostrare bene, sa? con prove ed esempi continui, a noi stessi,implacabilmente. Perché, caro signore, non sappiamo da che cosa sia fatto,ma c’è, c’è, ce lo sentiamo tutti qua, come un’angoscia nella gola, il gustodella vita, che non si soddisfa mai, che non si può mai soddisfare, perché lavita, nell’atto stesso che la viviamo, è cosi sempre ingorda di se stessa, che

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Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

non si lascia assaporare. I1 sapore è nel passato, che ci rimane vivo dentro. I1gusto della vita ci viene di là, dai ricordi che ci tengono legati. Ma legati a checosa? A questa sciocchezza qua... a queste noje... a tante stupide illusioni...insulse occupazioni... Sì, sì. Questa che ora qua è una sciocchezza... questache ora qua è una noja... e arrivo finanche a dire, questa che ora è per noi unasventura, una vera sventura... sissignori, a distanza di quattro, cinque, diecianni, chi sa che sapore acquisterà... che gusto, queste lagrime... E la vita,perdio, al solo pensiero di perderla... specialmente quando si sa che è que-stione di giorni. .A questo punto dal cantone a destra sporgerà il capo a spiare la donna vestita dinero.Ecco... vede là? dico là, a quel cantone... vede quell’ombra di donna? – Ecco,s’è nascosta!

L’avventore Come ? Chi. . . chi era ?...

L’uomo dal fiore Non l’ha vista? S’è nascosta.

L’avventore Una donna?

L’uomo dal fiore Mia moglie, già.

L’avventore Ah! la sua signora ?L’uomo dal fiore (dopo una pausa). Mi sorveglia da lontano. E mi verrebbe,creda, d’andarla a prendere a calci. Ma sarebbe inutile. È come una di quellecagne sperdute, ostinate, che più lei le prende a calci, e più le si attaccano allecalcagna.PausaCiò che quella donna sta soffrendo per me, lei non se lo può immaginare.Non mangia, non dorme più. Mi viene appresso, giorno e notte, così, adistanza. E si curasse almeno di spolverarsi quella ciabatta che tiene in capo,gli abiti. – Non pare più una donna, ma uno strofinaccio. Le si sono impol-verati per sempre anche i capelli, qua sulle tempie; e ha appena trentaquattroanni.PausaMi fa una stizza, che lei non può credere. Le salto addosso, certe volte, legrido in faccia: – Stupida! – scrollandola. Si piglia tutto. Resta li a guardarmicon certi occhi... con certi occhi che, le giuro, mi fan venire qua alle dita unaselvaggia voglia di strozzarla. Niente. Aspetta che mi allontani per rimettersia seguirmi a distanza.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

Di nuovo a questo punto, la donna sporgerà il capo.Ecco, guardi... sporge di nuovo il capo dal cantone.

L’avventore Povera signora!

L’uomo dal fiore Ma che povera signora! Vorrebbe, capisce? ch’io me ne stessi a casa, quieto,tranquillo, a coccolarmi in mezzo a tutte le sue più amorose e sviscerate cure;a godere dell’ordine perfetto di tutte le stanze, della lindura di tutti i mobili,di quel silenzio di specchio che c’era prima in casa mia, misurato dal tic– tacdella pendola del salotto da pranzo. – Questo vorrebbe! Io domando ora alei, per farle intendere l’assurdità... ma no, che dico l’assurdità! la màcabraferocia di questa pretesa, le domando se crede possibile che le case d’Avezzano,le case di Messina, sapendo del terremoto che di lì a poco le avrebbe scon-quassate, avrebbero potuto starsene tranquille sotto la luna, ordinate in filalungo le strade e le piazze, obbedienti al piano regolatore della commissioneedilizia municipale. Case, perdio, di pietra e travi, se ne sarebbero scappate!Immagini i cittadini di Avezzano, i cittadini di Messina, spogliarsi placidiplacidi per mettersi a letto, ripiegare gli abiti, mettere le scarpe fuori del-l’uscio, e cacciandosi sotto le coperte godere del candor fresco delle lenzuoladi bucato, con la coscienza che fra poche ore sarebbero morti. – Le sembrapossibile?

L’avventore Ma forse la sua signora...

L’uomo dal fiore Mi lasci dire ! Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insettistrani, schifosi, che qualcuno inopinatamente ci scopre addosso... Lei passaper via; un altro passante, all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due ditaprotese le dice: “Scusi, permette? lei, egregio signore, ci ha la morte addosso”.E con quelle due dita protese, la piglia e butta via... Sarebbe magnifica! Ma lamorte non è come uno di questi insetti schifosi. Tanti che passeggiano disin-volti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quie-ti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro. Ora io,Si alzerà.caro signore, ecco... venga qua...Lo farà alzare e lo condurrà sotto il lampione acceso.qua sotto questo lampione... venga... le faccio vedere una cosa... Guardi,qua, sotto questo baffo... qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come sichiama questo? Ah, un nome dolcissimo... più dolce d’una caramella: –Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma... La mor-

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

te, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: –“Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!”PausaOra mi dica lei, se con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casatranquillo e quieto, come quella disgraziata vorrebbe.PausaLe grido: – Ah sì, e vuoi che ti baci? – “Sì, baciami!” – Ma sa che ha fatto?Con uno spillo, l’altra settimana, s’è fatto uno sgraffio qua, sul labbro, e poim’ha preso la testa e mi voleva baciare... baciare in bocca... Perché dice chevuol morire con me.PausaÈ pazza...Poi con ira:A casa io non ci sto. Ho bisogno di starmene dietro le vetrine delle botteghe,io, ad ammirare la bravura dei giovani di negozio. Perché, lei capisce, se mi sifa un momento di vuoto dentro... lei lo capisce, posso anche ammazzarecome niente tutta la vita in uno che non conosco... cavare la rivoltella eammazzare uno che come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno...Riderà.No no, non tema, caro signore: io scherzo!PausaMe ne vado.PausaAmmazzerei me, se mai...PausaMa ci sono, di questi giorni, certe buone albicocche... Come le mangia lei?con tutta la buccia, è vero? Si spaccano a metà; si premono con due dita, perlungo... come due labbra succhiose... Ah, che delizia!Riderà. – PausaMi ossequi la sua egregia signora e anche le sue figliuole in villeggiatura.PausaMe le immagino vestite di bianco e celeste, in un bel prato verde in ombra...PausaE mi faccia un piacere, domattina, quando arriverà. Mi figuro che il paesellodisterà un poco dalla stazione. – All’alba, lei può fare la strada a piedi. – I1primo cespuglietto d’erba su la proda. Ne conti i fili per me. Quanti filisaranno, tanti giorni ancora io vivrò.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello L’uomo dal fiore in bocca

PausaMa lo scelga bello grosso, mi raccomando.Riderà. Poi:Buona notte, caro signore.E s’avvierà, canticchiando a bocca chiusa il motivetto del mandolino lontano,verso il cantone di destra; ma a un, certo punto, pensando che la moglie sta li adaspettarlo, volterà e scantonerà dall’altra parte, seguito con gli occhi dal pacificoavventore quasi basito.

Da: Luigi Pirandello, Teatro , Roma, Newton– Compton, 1995

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore

Sei personaggi in cerca di autore

I “personaggi” si presentano al capocomico

Chi voglia tentare una traduzione scenica di questa commedia bisogna che s’ado-peri con ogni mezzo a ottenere tutto l’effetto che questi Sei Personaggi non siconfondano con gli Attori della Compagnia. La disposizione degli uni e deglialtri, indicata nelle didascalie, allorché quelli saliranno sul palcoscenico, gioveràsenza dubbio; come una diversa colorazione luminosa per mezzo di appositiriflettori. Ma il mezzo più efficace e idoneo, che qui si suggerisce, sarà l’uso dispeciali maschere per i Personaggi: maschere espressamente costruite d’una ma-teria che per il sudore non s’afflosci e non pertanto sia lieve agli Attori che do-vranno portarle: lavorate e tagliate in modo che lascino liberi gli occhi, le naricie la bocca. S’interpreterà così anche il senso profondo della commedia. I Perso-naggi non dovranno infatti apparire come fantasmi, ma come realtà create,costruzioni della fantasia immutabili: e dunque più reali e consistenti dellavolubile naturalità degli Attori. Le maschere ajuteranno a dare l’impressionedella figura costruita per arte e fissata ciascuna immutabilmente nell’espressio-ne del proprio sentimento fondamentale, che è il rimorso per il Padre, la ven-detta per la Figliastra, lo sdegno per il Figlio, il dolore per la Madre con fisselagrime di cera nel livido delle occhiaje e lungo le gote, come si vedono nelleimmagini scolpite e dipinte della Mater dolorosa nelle chiese. E sia anche ilvestiario di stoffa e foggia speciale, senza stravaganza, con pieghe rigide e volu-me quasi statuario, e insomma di maniera che non dia l’idea che sia fatto d’unastoffa che si possa comperare in una qualsiasi bottega della città e tagliato ecucito in una qualsiasi sartoria.Il Padre sarà sulla cinquantina: stempiato, ma non calvo, fulvo di pelo, conbaffetti folti quasi acchiocciolati attorno alla bocca ancor fresca, aperta spesso aun sorriso incerto e vano. Pallido, segnatamente nell’ampia fronte; occhi azzurriovati, lucidissimi e arguti; vestirà calzoni chiari e giacca scura: a volte sarà mel-lifluo, a volte avrà scatti aspri e duri.La Madre sarà come atterrita e schiacciata da un peso intollerabile di vergognae d’avvilimento. Velata da un fitto crespo vedovile, vestirà umilmente di nero,e quando solleverà il velo, mostrerà un viso non patito, ma come di cera, e terràsempre gli occhi bassi.La Figliastra, di diciotto anni, sarà spavalda, quasi impudente. Bellissima, ve-stirà a lutto anche lei, ma con vistosa eleganza. Mostrerà dispetto per l’ariatimida, afflitta e quasi smarrita del fratellino, squallido Giovinetto di quattor-dici anni, vestito anch’esso di nero; e una vivace tenerezza, invece, per la sorel-

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore

lina, Bambina di circa quattro anni, vestita di bianco con una fascia di setanera alla vita.Il Figlio, di ventidue anni, alto, quasi irrigidito in un contenuto sdegno per ilPadre e in un’accigliata indifferenza per la Madre, porterà un soprabito viola euna lunga fascia verde girata attorno al collo.

L’uscere (col berretto in mano). Scusi, signor Commendatore.

Il capocomico (di scatto, sgarbato). Che altro c’è?

L’uscere (timidamente). Ci sono qua certi signori, che chiedono di lei.Il Capocomico e gli Attori si volteranno stupiti a guardare dal palcoscenico giùnella sala.

Il capocomico (di nuovo sulle furie). Ma io qua lavoro! E sapete bene che durante la provanon deve passar nessuno!Rivolgendosi in fondo:Chi sono lor signori? Che cosa vogliono?

Il padre (facendosi avanti, seguito dagli altri, fino a una delle due scalette). Siamo quain cerca d’un autore.

Il capocomico (fra stordito e irato). D’un autore? Che autore?

Il padre D’uno qualunque, signore.

Il capocomico Ma qui non c’è nessun autore, perché non abbiamo in prova nessuna com-media nuova.

La figliastra (con gaja vivacità, salendo di furia la scaletta). Tanto meglio, tanto meglio,allora, signore! Potremmo esser noi la loro commedia nuova.Qualcuno degli attori(fra i vivaci commenti e le risate degli altri). Oh, senti, senti!

Il padre (seguendo sul palcoscenico la Figliastra). Già, ma se non c’è l’autore!Al Capocomico:Tranne che non voglia esser lei...La Madre, con la Bambina per mano, e il Giovinetto saliranno i primi scalinidella scaletta e resteranno lì in attesa. Il Figlio resterà sotto, scontroso.

Il capocomico Lor signori vogliono scherzare?

Il padre No, che dice mai, signore! Le portiamo al contrario un dramma doloroso.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore

La figliastra E potremmo essere la sua fortuna!

Il capocomico Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da perderecoi pazzi!

Il padre (ferito e mellifluo). Oh, signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assur-dità, le quali sfacciatamente non han neppure bisogno di parer verosimili;perché sono vere.

Il capocomico Ma che diavolo dice?

Il padre Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare ilcontrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi per-metta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione delloro mestiere.Gli attori si agiteranno, sdegnati.

Il capocomico (alzandosi e squadrandolo). Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro?

Il padre Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco...Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati?

Il capocomico (subito, facendosi voce dello sdegno crescente dei suoi Attori). Ma io la prego dicredere che la professione del comico, caro signore, è una nobilissima profes-sione! Se oggi come oggi i signori commediografi nuovi ci dànno da rappre-sentare stolide commedie e fantocci invece di uomini, sappia che è nostrovanto aver dato vita – qua, su queste tavole – a opere immortali!Gli Attori, soddisfatti, approveranno e applaudiranno il loro Capocomico.

Il padre (interrompendo e incalzando con foga). Ecco! benissimo! a essere vivi, più vividi quelli che respirano e vestono panni! Meno reali, forse; ma più veri! Sia-mo dello stessissimo parere!Gli Attori si guardano tra loro, sbalorditi.

Il direttore Ma come! Se prima diceva...

Il padre No, scusi, per lei dicevo, signore, che ci ha gridato di non aver tempo daperdere coi pazzi, mentre nessuno meglio di lei può sapere che la natura siserve da strumento della fantasia umana per proseguire, più alta, la sua operadi creazione.

Il capocomico Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo?

Il padre Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore

forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche perso-naggi!

Il capocomico (con finto ironico stupore). E lei, con codesti signori attorno, è nato perso-naggio?

Il padre Appunto, signore. E vivi, come ci vede.Il Capocomico e gli Attori scoppieranno a ridere, come per una burla.

Il padre (ferito). Mi dispiace che ridano così, perché portiamo in noi, ripeto, un dram-ma doloroso, come lor signori possono argomentare da questa donna velatadi nero.Così dicendo porgerà la mano alla Madre per ajutarla a salire gli ultimi scalinie, seguitando a tenerla per mano, la condurrà con una certa tragica solennitàdall’altra parte del palcoscenico, che s’illuminerà subito di una fantastica luce.La Bambina e il Giovinetto seguiranno la Madre; poi il Figlio, che si terràdiscosto, in fondo; poi la Figliastra, che s’apparterà anche lei sul davanti, appog-giata all’arcoscenico. Gli Attori, prima stupefatti, poi ammirati di questa evolu-zione, scoppieranno in applausi come per uno spettacolo che sia stato loro offerto.

Il capocomico (prima sbalordito, poi sdegnato). Ma via! Facciano silenzio!Poi, rivolgendosi ai Personaggi:E loro si levino! Sgombrino di qua!Al Direttore di scena:Perdio, faccia sgombrare!Il direttore di scena(facendosi avanti, ma poi fermandosi, come trattenuto da uno strano sgomen-to). Via! Via!

Il padre (al Capocomico). Ma no, veda, noi...

Il capocomico (gridando). Insomma, noi qua dobbiamo lavorare!

Il primo attore Non è lecito farsi beffe così...

Il padre (risoluto, facendosi avanti). Io mi faccio maraviglia della loro incredulità! Nonsono forse abituati lor signori a vedere balzar vivi quassù, uno di fronte all’al-tro, i personaggi creati da un autore? Forse perché non c’è làindicherà la buca del Suggeritoreun copione che ci contenga?

La figliastra (facendosi avanti al Capocomico, sorridente, lusingatrice). Creda che siamoveramente sei personaggi, signore, interessantissimi! Quantunque, sperduti.

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello Sei personaggi in cerca d’autore

Il padre (scartandola). Sì, sperduti, va bene!Al Capocomico subitoNel senso, veda, che l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poténaturalmente, metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore,perché chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può ridersi anche dellamorte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della crea-zione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisognodi straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi eradon Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventu-ra di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire,far vivere per l’eternità!

Il capocomico Tutto questo va benissimo! Ma che cosa vogliono loro qua?

Il padre Vogliamo vivere, signore!

Da: Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, in Maschere nude, vol. I, Mondadori,Milano, 1958

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello La patente

La patente

Personaggi

Rosario ChiàrchiaroRosinella, sua figliaIl giudice istruttoreD’AndreaTre altri GiudiciMarranca, usciereStanza del giudice istruttore D’Andrea. Grande scaffale che prende quasi tuttala parete di fondo, pieno di scatole verdi a casellario, che si suppongono zepped’incartamenti. Scrivania, sovraccarica di fascicoli, a destra, in fondo; e, accan-to, addossato alla parete di destra, un altro palchetto. Un seggiolone di cuojo peril Giudice, davanti la scrivania. Altre seggiole antiche. Lo stanzone è squallido.La comune è nella parete di destra. A sinistra, un’ampia finestra, alta, convetrata antica, scompartita. Davanti alla finestra, come un quadricello alto,che regge una grande gabbia. Lateralmente a sinistra, un usciolino nascosto.Il giudice D’Andrea entra per la comune col cappello in capo e il soprabito. Recain mano una gabbiola poco più grossa d’un pugno. Va davanti alla gabbia gran-de sul quadricello, ne apre lo sportello, poi apre lo sportellino della gabbiola e fapassare da questa nella gabbia grande un cardellino.

D’Andrea Via, dentro! – E su, pigrone! – Oh! finalmente... – Zitto adesso, al solito, elasciami amministrare la giustizia a questi poveri piccoli uomini feroci.Si leva il soprabito e lo appende insieme col cappello all’attaccapanni. Siede allascrivania; prende il fascicolo del processo che deve istruire, lo scuote in aria conimpazienza, sbuffa:Benedett’uomo!Resta un po’ assorto a pensare, poi suona il campanello e dalla comune si presen-ta l’usciere Marranca.

Marranca Comandi, signor cavaliere!

D’Andrea Ecco, Marranca: andate al vicolo del Forno, qua vicino; a casa del Chiàrchiaro.

Marranca (con un balzo indietro, facendo le corna) Per amor di Dio, non lo nomini,signor cavaliere!

D’Andrea (irritatissimo, dando un pugno sulla scrivania) Basta, perdio! Vi proibisco dimanifestare così, davanti a me, la vostra bestialità, a danno d’un pover’uo-mo. E sia detto una volta per sempre.

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158Op. Grande biblioteca della letteratura italiana

ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello La patente

Marranca Mi scusi, signor cavaliere. L’ho detto anche per il suo bene!

D’Andrea Ah, seguitate?

Marranca Non parlo più. Che vuole che vada a fare in casa di... di questo... di questogalantuomo?

D’Andrea Gli direte che il giudice istruttore ha da parlargli, e lo introdurrete subito dame.

Marranca Subito, va bene, signor cavaliere. Ha altri comandi?

D’Andrea Nient’altro. Andate.Marranca esce, tenendo la porta per dar passo ai tre Giudici colleghi, che entra-no con le toghe e i tocchi in capo e scambiano i saluti col D’Andrea; poi vannotutti e tre a guardare il cardellino nella gabbia.

Primo giudice Che dice eh, questo signor cardellino?

Secondo giudice Ma sai che sei davvero curioso con codesto cardellino che ti porti appresso?

Terzo giudice Tutto il paese ti chiama: il Giudice Cardello.

Primo giudice Dov’è, dov’è la gabbiolina con cui te lo porti?

Secondo giudice (prendendola dalla scrivania a cui s’è accostato) Eccola qua! Signori miei, guar-date: cose da bambini! Un uomo serio...

D’Andrea Ah, io, cose da bambini, per codesta gabbiola? E voi, allora, parati così?

Terzo giudice Ohé, ohé, rispettiamo la toga!

D’Andrea Ma andate là, non scherziamo! siamo in camera caritatis. Ragazzo, giocavocoi miei compagni “al tribunale”. Uno faceva da imputato; uno, da presiden-te; poi, altri da giudici, da avvocati... Ci avrete giocato anche voi. Vi assicuro,ch’eravamo più serii allora!

Primo giudice Eh, altro!

Secondo giudice Finiva sempre a legnate!

Terzo giudice (mostrando una vecchia cicatrice alla fronte) Ecco qua: cicatrice d’una pietratache mi tirò un avvocato difensore mentre fungevo da regio procuratore!

D’Andrea Tutto il bello era nella toga con cui ci paravamo. Nella toga era la grandezza,e dentro di essa noi eravamo bambini. Ora è al contrario: noi, grandi, e latoga, il giuoco di quand’eravamo bambini. Ci vuole un gran coraggio a pren-

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello La patente

derla sul serio! Ecco qua, signori, miei,prende dalla scrivania il fascicolo del processo Chiàrchiaroio debbo istruire questo processo. Niente di più iniquo di questo processo.Iniquo, perché include la più spietata ingiustizia contro alla quale un po-ver’uomo tenta disperatamente di ribellarsi, senza nessuna probabilità di scam-po. C’è una vittima qua, che non può prendersela con nessuno! Ha voluto,in questo processo, prendersela con due, coi primi due che gli sono capitatisottomano, e – sissignori – la giustizia deve dargli torto, torto, torto, senzaremissione, ribadendo così, ferocemente, l’iniquità di cui questo pover’uo-mo è vittima.

Primo giudice Ma che processo è?

D’Andrea Quello intentato da Rosario Chiàrchiaro.Subito, al nome, i tre Giudici, come già Marranca, danno un balzo indietro,facendo scongiuri, atti di spavento, e gridando:Tutti e trePer la Madonna Santissima! – Tocca ferro! – Ti vuoi star zitto?

D’Andrea Ecco, vedete? E dovreste proprio voi rendere giustizia a questo pover’uomo!

Primo giudice Ma che giustizia! È un pazzo!

D’Andrea Un disgraziato!

Secondo giudice Sarà magari un disgraziato! ma scusa, è pure un pazzo! Ha sporto querela perdiffamazione, contro il figlio del sindaco, nientemeno, e anche –

D’Andrea – contro l’assessore Fazio –

Terzo giudice – per diffamazione? –

Primo giudice – già, capisci? perché, dice, li sorprese nell’atto che facevano gli scongiuri alsuo passaggio.

Secondo giudice Ma che diffamazione se in tutto il paese, da almeno due anni, è diffusissimala sua fama di jettatore?

D’Andrea E innumerevoli testimoni possono venire in tribunale a giurare che in tantee tante occasioni ha dato segno di conoscere questa sua fama, ribellandosicon proteste violente!

Primo giudice Ah, vedi? Lo dici tu stesso!

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Luigi Pirandello La patente

Secondo giudice Come condannare, in coscienza, il figliuolo del sindaco e l’assessore Fazioquali diffamatori per aver fatto, vedendolo passare, il gesto che da temposogliono fare apertamente tutti?

D’Andrea E primi fra tutti vojaltri?Tutti e treMa certo! – È terribile, sai? – Dio ne liberi e scampi!

D’Andrea E poi vi fate meraviglia, amici miei, ch’io mi porti qua il cardellino... Eppu-re, me lo porto – voi lo sapete – perché sono rimasto solo da un anno. Era dimia madre quel cardellino; e per me è il ricordo vivo di lei: non me ne sostaccare. Gli parlo, imitando, così, col fischio, il suo verso, e lui mi risponde.Io non so che gli dico; ma lui, se mi risponde, è segno che coglie qualchesenso nei suoni che gli faccio. Tale e quale come noi, amici miei, quandocrediamo che la natura ci parli con la poesia dei suoi fiori, o con le stelle delcielo, mentre la natura forse non sa neppure che noi esistiamo.

Primo giudice Séguita, séguita, mio caro, con codesta filosofia, e vedrai come finirai con-tento!Si sente picchiare alla comune, e, poco dopo, Marranca sporge il capo.

Marranca Permesso?

D’Andrea Avanti, Marranca.

Marranca Lui in casa non c’era, signor cavaliere. Ho lasciato detto a una delle figliuoleche, appena arriva, lo mandino qua. È venuta intanto con me la minore dellefigliuole: Rosinella. Se Vossignoria vuol riceverla...

D’Andrea Ma no: io voglio parlare con lui!

Marranca Dice che vuol rivolgerle non so che preghiera, signor cavaliere. È tutta im-paurita.

Primo giudice Noi ce n’andiamo. A rivederci, D’Andrea!Scambio di saluti: e i tre Giudici vanno via.

D’Andrea Fate passare.

Marranca Subito, signor cavaliere.Via, anche lui. Rosinella, sui sedici anni, poveramente vestita, ma con unacerta decenza, sporge il capo dalla comune, mostrando appena il volto dalloscialle nero di lana.

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Rosinella Permesso?

D’Andrea Avanti, avanti.

Rosinella Serva di Vossignoria. Ah, Gesù mio, signor giudice. Vossignoria ha fattochiamare mio padre? Che cosa è stato, signor giudice? Perché? Non abbiamopiù sangue nelle vene, dallo spavento!

D’Andrea Calmatevi! Di che vi spaventate?

Rosinella È che noi, Eccellenza, non abbiamo avuto mai da fare con la giustizia!

D’Andrea Vi fa tanto terrore, la giustizia?

Rosinella Sissignore. Le dico, non abbiamo più sangue nelle vene! La mala gente, Ec-cellenza, ha da fare con la giustizia. Noi siamo quattro poveri disgraziati. E seanche la giustizia ora si mette contro di noi...

D’Andrea Ma no. Chi ve l’ha detto? State tranquilla. La giustizia non si mette controdi voi.

Rosinella E perché allora Vossignoria ha fatto chiamare mio padre?

D’Andrea Perché vostro padre vuol mettersi lui contro la giustizia.

Rosinella Mio padre? Che dice!

D’Andrea Non vi spaventate. Vedete che sorrido... Ma come? Non sapete che vostropadre s’è querelato contro il figlio del sindaco e l’assessore Fazio?

Rosinella Mio padre? Nossignore! Non ne sappiamo nulla! Mio padre s’è querelato?

D’Andrea Ecco qua gli atti!

Rosinella Dio mio! Dio mio! Non gli dia retta, signor giudice! È come impazzito miopadre: da più d’un mese! Non lavora più da un anno, capisce? perché l’hannocacciato via, l’hanno gettato in mezzo a una strada; fustigato da tutti, sfuggi-to da tutto il paese come un appestato! Ah, s’è querelato? Contro il figlio delsindaco s’è querelato? È pazzo! È pazzo! Questa guerra infame che gli fannotutti, con questa fama che gli hanno fatto, l’ha levato di cervello! Per carità,signor giudice: gliela faccia ritirare codesta querela! gliela faccia ritirare!

D’Andrea Ma sì, carina! Voglio proprio questo. E l’ho fatto chiamare per questo. Spe-ro che ci riuscirò. Ma voi sapete: è molto più facile fare il male che il bene.

Rosinella Come, Eccellenza! Per Vossignoria?

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Luigi Pirandello La patente

D’Andrea Anche per me. Perché il male, carina, si può fare a tutti e da tutti; il bene,solo a coloro che ne hanno bisogno.

Rosinella E lei crede che mio padre non ne abbia bisogno?

D’Andrea Lo credo, lo credo. Ma è che questo bisogno d’aver fatto il bene, figliuola,rende spesso così nemici gli animi di coloro che si vorrebbero beneficare, cheil beneficio diventa difficilissimo. Capite?

Rosinella Nossignore, non capisco. Ma faccia di tutto Vossignoria! Per nojaltri non c’èpiù bene, non c’è più pace, in questo paese.

D’Andrea E non potreste andar via da questo paese?

Rosinella Dove? Ah, Vossignoria non lo sa com’è! Ce la portiamo appresso la fama,dovunque andiamo. Non si leva più, neppure col coltello. Ah se vedesse miopadre, come s’è ridotto! S’è fatto crescere la barba, una barbaccia, che pare ungufo... e s’è tagliato e cucito da sé un certo abito, Eccellenza, che quando se lometterà, farà spaventare la gente, fuggire i cani finanche!

D’Andrea E perché?

Rosinella Se lo sa lui perché! È come impazzito, le dico! Gliela faccia, gliela facciaritirare la querela, per carità!Si sente di nuovo picchiare alla comune.

D’Andrea Chi è? Avanti.

Marranca (tutto tremante) Eccolo, signor cavaliere! Che... che debbo fare?

Rosinella Mio padre?Balza in piedi.Dio! Dio! Non mi faccia trovare qua, Eccellenza, per carità!

D’Andrea Perché? Che cos’è? Vi mangia, se vi trova qua?

Rosinella Nossignore. Ma non vuole che usciamo di casa. Dove mi nascondo?

D’Andrea Ecco. Non temete.Apre l’usciolino nascosto nella parete di sinistra.Andate via di qua; poi girate per il corridojo e troverete l’uscita.

Rosinella Sissignore, grazie. Mi raccomando a Vossignoria! Serva sua.Via ranca ranca per l’usciolino a sinistra. D’Andrea lo richiude.

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D’Andrea Introducetelo.

Marranca (tenendo aperto quanto più può la comune per tenersi discosto) Avanti, avanti...introducetevi...E come Chiàrchiaro entra, va via di furia. Rosario Chiàrchiaro s’è combinatauna faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S’è lasciato crescere su lecave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata; s’è insellato sul naso un pajodi grossi occhiali cerchiati d’osso che gli dànno l’aspetto d’un barbagianni; ha poiindossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene unacanna d’India in mano col manico di corno. Entra a passo di marcia funebre,battendo a terra la canna a ogni passo, e si porta davanti al giudice.

D’Andrea (con uno scatto violento d’irritazione, buttando via le carte del processo) Mafatemi il piacere! Che storie son queste! Vergognatevi!

Chiàrchairo (senza scomporsi minimamente allo scatto del giudice, digrigna i denti gialli edice sottovoce) Lei dunque non ci crede?

D’Andrea V’ho detto di farmi il piacere! Non facciamo scherzi, via, caro Chiàrchiaro!– Sedete, sedete qua!Gli s’accosta e fa per posargli una mano sulla spalla.

Chiàrchairo (subito, tirandosi indietro e fremendo) Non mi s’accosti! Se ne guardi bene!Vuol perdere la vista degli occhi?

D’Andrea (lo guarda freddamente, poi dice) Seguitate... Quando sarete comodo... – Viho mandato a chiamare per il vostro bene. Là c’è una sedia: sedete.

Chiàrchairo (prende la seggiola, siede, guarda il giudice, poi si mette a far rotolare con lemani su le gambe la canna d’India come un matterello e tentenna a lungo ilcapo. Alla fine mastica) Per il mio bene... Per il mio bene, lei dice... Ha ilcoraggio di dire per il mio bene! E lei si figura di fare il mio bene, signorgiudice, dicendo che non crede alla jettatura?

D’Andrea (sedendo anche lui) Volete che vi dica che ci credo? Vi dirò che ci credo! Vabene?

Chiàrchairo (recisamente, col tono di chi non ammette scherzi) Nossignore! Lei ci ha dacredere sul serio, sul se– ri– o! Non solo, ma deve dimostrarlo istruendo ilprocesso.

D’Andrea Ah, vedete: questo sarà un po’ difficile.

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Chiàrchairo (alzandosi e facendo per avviarsi) E allora me ne vado.

D’Andrea Eh, via! Sedete! V’ho detto di non fare storie!

Chiàrchairo Io, storie? Non mi cimenti; o ne farà una tale esperienza... – Si tocchi, sitocchi!

D’Andrea Ma io non mi tocco niente.

Chiàrchairo Si tocchi, le dico! Sono terribile, sa?

D’Andrea (severo) Basta, Chiàrchiaro! Non mi seccate. Sedete e vediamo d’intenderci.Vi ho fatto chiamare per dimostrarvi che la via che avete preso non è propria-mente quella che possa condurvi a buon porto.

Chiàrchairo Signor giudice, io sono con le spalle al muro dentro un vicolo cieco. Di cheporto, di che via mi parla?

D’Andrea Di questa per cui vi vedo incamminato e di quella là della querela che avetesporto. Già l’una e l’altra, scusate, sono tra loro così.Infronta gl’indici delle due mani per significare che le due vie gli sembrano incontrasto.

Chiàrchairo Nossignore. Pare a lei, signor giudice.

D’Andrea Come no? Là nel processo, accusate come diffamatori due, perché vi credo-no jettatore; e ora qua vi presentate a me, parato così, in veste di jettatore, epretendete anzi ch’io creda alla vostra jettatura.

Chiàrchairo Sissignore. Perfettamente.

D’Andrea E non pare anche a voi che ci sia contraddizione?

Chiàrchairo Mi pare, signor giudice, un’altra cosa. Che lei non capisce niente!D’Andrea|par Dite, dite, caro Chiàrchiaro! Forse è una sacrosanta verità, que-sta che mi dite. Ma abbiate la bontà di spiegarmi perché non capisco niente.

Chiàrchairo La servo subito. Non solo le farò vedere che lei non capisce niente; ma anchetoccare con mano che lei è un mio nemico.

D’Andrea Io?

Chiàrchairo Lei, lei, sissignore. Mi dica un po’: sa o non sa che il figlio del sindaco hachiesto il patrocinio dell’avvocato Lorecchio?

D’Andrea Lo so.

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Chiàrchairo E lo sa che io – io, Rosario Chiàrchiaro – io stesso sono andato dall’avvocatoLorecchio a dargli sottomano tutte le prove del fatto: cioè, che non solo iomi ero accorto da più di un anno che tutti, vedendomi passare, facevano lecorna e altri scongiuri più o meno puliti; ma anche le prove, signor giudice,prove documentate, testimonianze irrepetibili, sa? ir-re-pe-ti-bi-li di tutti ifatti spaventosi, su cui è edificata incrollabilmente, in-crol-la-bilmente, lamia fama di jettatore?

D’Andrea Voi? Come? Voi siete andato a dar le prove all’avvocato avversario?

Chiàrchairo A Lorecchio. Sissignore.

D’Andrea (più imbalordito che mai) Eh... Vi confesso che capisco anche meno diprima.

Chiàrchairo Meno? Lei non capisce niente!

D’Andrea Scusate... Siete andato a portare codeste prove contro di voi stesso all’avvo-cato avversario; perché? Per rendere più sicura l’assoluzione di quei due? Eperché allora vi siete querelato?

Chiàrchairo Ma in questa domanda appunto è la prova, signor giudice, che lei non capi-sce niente! Io mi sono querelato perché voglio il riconoscimento ufficialedella mia potenza. Non capisce ancora? Voglio che sia ufficialmente ricono-sciuta questa mia potenza terribile, che è ormai l’unico mio capitale, signorgiudice!

D’Andrea (facendo per abbracciarlo, commosso) Ah, povero Chiàrchiaro, poveroChiàrchiaro mio, ora capisco! Bel capitale, povero Chiàrchiaro! E che te nefai?

Chiàrchairo Che me ne faccio? Come, che me ne faccio? Lei, caro signore, per esercitarecodesta professione di giudice – anche così male come la esercita – mi dicaun po’, non ha dovuto prendere la laurea?

D’Andrea Eh sì, la laurea...

Chiàrchairo E dunque! Voglio anch’io la mia patente. La patente di jettatore. Con tantodi bollo. Bollo legale. Jettatore patentato dal regio tribunale.

D’Andrea E poi? Che te ne farai?

Chiàrchairo Che me ne farò? Ma dunque è proprio deficiente lei? Me lo metterò cometitolo nei biglietti da visita! Ah, le par poco? La patente! La patente! Sarà la

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Luigi Pirandello La patente

mia professione! Io sono stato assassinato, signor giudice! Sono un poveropadre di famiglia. Lavoravo onestamente. M’hanno cacciato via e buttato inmezzo a una strada, perché jettatore! In mezzo a una strada, con la moglieparalitica, da tre anni in un fondo di letto! e con due ragazze, che se lei levede, signor giudice, le strappano il cuore dalla pena che le fanno: bellinetutte e due; ma nessuno vorrà più saperne, perché figlie mie, capisce? E lo sadi che campiamo adesso tutt’e quattro? Del pane che si leva di bocca il miofigliuolo, che ha pure la sua famiglia, tre bambini! E le pare che possa fareancora a lungo, povero figlio mio, questo sacrificio per me? Signor giudice,non mi resta altro che di mettermi a fare la professione di jettatore!

D’Andrea Ma che ci guadagnerete?

Chiàrchairo Che ci guadagnerò? Ora glielo spiego. Intanto, mi vede: mi sono combinatocon questo vestito. Faccio spavento! Questa barba... questi occhiali... Appe-na lei mi fa ottenere la patente, entro in campo! Lei dice, come? Me lodomanda – ripeto – perché è mio nemico!

D’Andrea Io? Ma vi pare?

Chiàrchairo Sissignore, lei! Perché s’ostina a non credere alla mia potenza! Ma per fortunaci credono gli altri, sa? Tutti, ci credono! Questa è la mia fortuna! Ci sonotante case da giuoco nel nostro paese! Basterà che io mi presenti. Non ci saràbisogno di dir niente. Il tenutario della casa, i giocatori, mi pagheranno sot-tomano, per non avermi accanto e per farmene andar via! Mi metterò aronzare come un moscone attorno a tutte le fabbriche; andrò a impostarmiora davanti a una bottega, ora davanti a un’altra. Là c’è un giojelliere? –Davanti alla vetrina di quel giojelliere: mi pianto lì,eseguiscemi metto a squadrare la gente così,eseguiscee chi vuole che entri più a comprare in quella bottega una gioja, o a guardarea quella vetrina? Verrà fuori il padrone, e mi metterà in mano tre, cinque lire,per farmi scostare e impostare da sentinella davanti alla bottega del suo riva-le. Capisce? Sarà una specie di tassa che io d’ora in poi mi metterò a esigere!

D’Andrea La tassa dell’ignoranza!

Chiàrchairo Dell’ignoranza? Ma no, caro lei! La tassa della salute! Perché ho accumulatotanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che vera-

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ACTA G. D’Anna Thèsis Zanichelli

Luigi Pirandello La patente

mente credo, signor giudice, d’avere qua in questi occhi, la potenza di farcrollare dalle fondamenta un’intera città! – Si tocchi! Si tocchi, perdio! Nonvede? Lei è rimasto come una statua di sale!D’Andrea compreso di profonda pietà, è rimasto veramente come balordo amirarlo.Si alzi, via! Esi metta a istruire questo processo che farà epoca, in modo chei due imputati siano assolti per inesistenza di reato; questo vorrà dire per meil riconoscimento ufficiale della mia professione di jettatore!

D’Andrea (alzandosi) La patente?

Chiàrchairo (impostandosi grottescamente e battendo la canna) La patente, sissignore!Non ha finito di dire così, che la vetrata della finestra si apre pian piano, comemossa dal vento, urta contro il quadricello e la gabbia, e li fa cadere con fracasso.

D’Andrea (con un grido, accorrendo) Ah, Dio! Il cardellino! Il cardellino! Ah, Dio! Èmorto... è morto... L’unico ricordo di mia madre... Morto... morto...Alle grida, si spalanca la comune e accorrono i tre Giudici e Marranca, chesubito si trattengono allibiti alla vista di Chiàrchiaro.

Tutti Che è stato? Che è stato?

D’Andrea Il vento... la vetrata... il cardellino...

Chiàrchairo (con un grido di trionfo) Ma che vento! Che vetrata! Sono stato io! Nonvoleva crederci e glien’ho dato la prova! Io! Io! E come è morto quel cardellino,subito, agli atti di terrore degli astanti, che si scostano da luicosì, a uno a uno, morirete tutti!

Tutti (protestando, imprecando, supplicando, in coro) Per l’anima vostra! Ti caschila lingua! Dio, ajutaci! Sono un padre di famiglia!

Chiàrchairo (imperioso, protendendo una mano) E allora qua, subito – pagate la tassa! –Tutti!

I tre giudici (facendo atto di cavar danari dalla tasca) Sì, subito! Ecco qua! Purché ven’andiate! Per carità di Dio!L’avventore

Chiàrchairo (esultante, rivolgendosi al giudice D’Andrea, sempre con la mano protesa) Havisto? E non ho ancora la patente! Istruisca il processo! Sono ricco! Sonoricco!

Da: Luigi Pirandello, La patente, in Maschere nude, vol. II, Mondadori, Milano, 1958