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www.bancaetruria.it I nostri autori Enrico Campana Marco Carminati Dario Di Vico Stefano Folli Andrea Gennai Aldo Grasso Eduardo Grottanelli de’ Santi Marco Hagge Luciano Hinna Luigi M. Lombardi Sartriani Andrea Martini Alberto Nocentini Elisabetta Perini Andrea Tarquini Carlotta Tedeschi di Enrico Campana Etruria OGGI Anno XXIX Luglio 2011 Numero 80 dello sport il “sesso forte” un pittore con molta “testa” di Marco Carminati parola d’ordine: convergenza di Aldo Grasso

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I nostri autori Enrico Campana Marco Carminati Dario Di Vico Stefano Folli Andrea Gennai Aldo Grasso Eduardo Grottanelli de’ Santi Marco Hagge Luciano Hinna Luigi M. Lombardi Sartriani Andrea Martini Alberto Nocentini Elisabetta Perini Andrea Tarquini Carlotta Tedeschi

di Enrico Campana

EtruriaOGGI

Anno XXIXLuglio 2011Numero 80

dello sportil “sesso forte”

un pittore con molta “testa”di Marco Carminati

parola d’ordine:convergenzadi Aldo Grasso

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sommario

riscoperte2 un pittore con molta “testa”

di Marco Carminati

nuovi media10 parola d’ordine: convergenza

di Aldo Grasso

successi femminili16 il “sesso forte” dello sport

di Enrico Campana

Europa24 la politica estera dell’Unione: prospettive?

di Stefano Folli

comunicazione30 Banca Etruria, Popolare davvero

storie di aziende32 il mondo è una grande nuvola

di Eduardo Grottanelli de’ Santi

innovazione organizzativa38 il fornitore diventa partner

di Dario Di Vico

imprese40 l’impresa tra innovazione e servizio di Luciano Hinna

incontro con il cantante46 la vita secondo Vasco

di Carlotta Tedeschi

archeologia48 la storia fatta a piedi di Marco Hagge

problemi di lingua56 linguaggio al femminile

di Elisabetta Perini

etnologia58 musica, poesia, silenzi

di Luigi M. Lombardi Sartriani

150° Unità Nazionale64 italiano sì, ma con riserva

di Alberto Nocentini

metalli preziosi70 oro, crescita senza fine?

di Andrea Gennai

critica di costume74 il paese salvato dai comici

di Andrea Martini

risparmio energetico78 la mobilità sempre più elettrica

di Andrea Tarquini

80 gli autori di questo numero

Periodico quadrimestrale di informazione diBanca EtruriaAnno XXIX n. 80Luglio 2011

COMITATO EDITORIALEPaolo Schiatti

DIRETTORE RESPONSABILEPaolo Schiatti

REDAZIONEServizio Comunicazionevia Calamandrei, 25552100 Arezzotel. 0575 3371fax 0575 [email protected] Postale n. 282 Arezzo

PROGETTO GRAFICO E REALIZZAZIONE EDITORIALEGiunti Editore S.p.A., Firenze, Milano (con la collaborazione di Mirabilianetworke mncg, Milano)

Stampato in Italia presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. Stabilimento di Prato

FOTOGRAFIE E ILLUSTRAZIONI Archivio mncg, Archivio Mirabilianetwork, Getty Images, Tips Images

Etruria Oggi lascia agli Autori la responsabilità delle opinioni espresse. La rivista pubblica solo gli articoli commissionati. L’editore si dichiara disponibile a regolare eventuali spettanze per quelle immagini di cui non sia stato possibile reperire la fonte.

I dati relativi ai destinatari della Rivista vengono utilizzati esclusivamente per l’invio della pubblicazione e non vengono ceduti a terzi per nessun motivo. Resta ferma la possibilità per l’interessato di esercitare i diritti di cui all’articolo 13 della legge 675/96.

Spedizione in abbonamento postale comma 34 art. 2 L. 549/95Registrazione tribunale di Arezzo n. 5 del 3 aprile 1982.

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Associata U.S.P.I.Unione Stampa Periodica

Associazione per lo Sviluppo delle Comunicazioni Aziendali in Italia

È una pubblicazione a Impatto Zero®. Le emissioni di CO2 generate sono state compensate contribuendo alla creazione e tutela di foreste in crescita.

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riscoperte

di Marco CarminatiCritico d’arte, responsabile delle pagine d’arte della Domenica de Il Sole 24 Ore

Il pittore milanese Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) è oggi celebre in tutto il mondo esclusivamente per un solo aspetto della sua produzione artistica: le notissime “teste composte”. Che cosa siano, più o meno tutti lo sanno: si tratta di ritratti bizzarri, generalmente presi di profilo e a tre quarti di figu-ra, che sono “composti”, per l’appunto, dall’aggregazione di elementi vegetali (piante, frutti, fiori e verdure), di animali (pesci, volatili, mammiferi) e di oggetti di varia natura (libri, armi, ecc.).I dadaisti e i surrealisti attivi ai primi del Novecento si inna-morarono pazzamente di questi quadri bizzarri. Anzi, furono loro a scoprirli e a farli conoscere al mondo. Sembra curioso

un pittore con molta “testa”

ma dopo la morte e per molti secoli la personalità di Arcim-boldo e lo stesso suo nome vennero quasi del tutto dimenti-cati, al punto che le teste “ridicole”, che si conservavano nelle collezioni degli Asburgo, vennero genericamente schedate come opere della “Scuola di Leonardo”.Dobbiamo essere molto grati ai dadaisti e ai surrealisti per aver riportato alla ribalta i ritratti dell’Arcimboldo. In quelle stravaganti composizioni essi osservavano idee di libertà e di irrealtà sorprendentemente precorritrici della loro stessa poetica. Tuttavia, lo stretto legame creatosi tra le avanguardie del Novecento e il pittore manierista ha contribuito non poco a travisarne la giusta comprensio-ne. Infatti, sino a tempi recentissimi, l’Arcimboldo è stato letto e interpretato esclusivamente come un moderno pre-cursore. In altre parole, ci si è interessati a lui (attraver-so mostre e monografie) soprattutto per mettere in risalto il legame delle “teste composte” con l’arte del Novecento, quasi fossero i punti iniziali di un filone di arte eccentrica giunta alla sua piena maturità con gli esperimenti creativi dei dadaisti e dei surrealisti.È del tutto evidente che tentare di capire le “teste” di Ar-cimboldo mettendole in relazione con l’arte moderna è semplicemente un errore. Per comprende a pieno questi singolari prodotti figurativi bisogna invece invertire la

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Giuseppe Arcimboldo, Il fuoco (1566), Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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riscoperte

Philip Haas, L’inverno (2010), fibra di vetro pigmentata e dipinta, Palazzo Reale, Milano.

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prospettiva, cioè provare a chiarire da dove siano scatu-riti questi singolari ritratti, a quali esperienze artistiche e professionali abbiano attinto, da quale tradizione e cultura provengano.

Milano capitale del lussoLa mostra sull’Arcimboldo, recentemente allestita a Milano, ha assolto a questo dovere di chiarificazione in modo dav-vero eccezionale. Curata da Sylvia Ferino Padgen, curatrice dell’arte italiana al Kunsthistorisches Museum di Vienna, la rassegna ha rappresentato da un lato un’autentica rivoluzio-ne nel modo di leggere le opere più celebri dell’Arcimboldo (ovvero le sue “teste”), e dall’altro lato ci ha fatto conoscere chi fosse realmente Giuseppe Arcimboldo e quanto ricca e versatile fosse stata la sua produzione nei più disparati campi delle arti. Terzo e non ultimo merito della rassegna milanese è stato quello di presentare un’immagine nuova della Milano cinquecentesca, di solito legata agli stereoti-pi di città ferma e depressa, tormentata dal malgoverno spagnolo, dall’insorgere delle pestilenze e dal radicalismo religioso di Carlo Borromeo. Non fu così: Milano era, nel pieno Cinquecento, una delle città più ricche ed attive d’Italia, con un settore nel quale primeggiava in assoluto: il segmento – diremmo oggi – del lusso. A Milano erano attivi e lavoravano, nelle vie del centro che ancora portano il loro nome, i migliori orefici, armaioli, spadari, speronari, intagliatori di cammei, pietre dure e cristalli di rocca che l’Europa potesse allora offrire. E a loro si univano tessitori e ricamatori di stoffe preziose di sorprendente abilità: insomma, un po’ come oggi, Mi-lano si distingueva anche nel settore della moda. Ciò che è importante sottolineare subito e che tutta quest’esube-rante produzione di lusso era destinata prevalentemente all’esportazione e, come tale, indirizzata quasi tutta a un unico e onnipotente committente: la famiglia imperiale degli Asburgo.

L’esordio artisticoÈ in questa Milano, ricca, attiva e stimolante, che sorge l’astro di Giuseppe Arcimboldo. L’ artista nacque nel ca-poluogo lombardo nel 1526 ed era figlio d’arte: anche suo padre Biagio esercitava la stessa professione e fu proba-bilmente con lui che il giovane imparò i primi rudimen-ti dell’arte e del disegno. Tuttavia, Milano poteva offrirgli ben altri stimoli. In città vivevano e lavoravano i reduci della scuola di Leonardo da Vinci, alcuni dei quali, come ad esempio Francesco Melzi, conservavano con amore e venerazione gli appunti e i disegni di Leonardo. Questi materiali contenevano molti insegnamenti e il giovane Ar-cimboldo – entrato forse in contatto con questi seguaci di Leonardo – dovette recepirne almeno due. Il primo era l’importanza di osservare la natura dal vero e di riprodurla in disegni perfetti; il secondo era l’accesa curiosità per le fisionomie buffe e deformi dei volti, su cui tanto Leonardo aveva insistito nei suoi disegni caricaturali. Natura e cari-catura saranno due ingredienti fondamentali nella costru-zione delle future “teste composte”.

Dobbiamo essere molto grati ai dadaisti e ai surrealisti per aver riportato alla ribalta i ritratti dell’Arcimboldo. In quelle stravaganti composizioni essi osservavano idee di libertà e di irrealtà sorprendentemente precorritrici della loro stessa poetica.

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riscoperte

Ma non anticipiamo. Gli esordi dell’Arcimboldo sono, per così dire, modesti e ordinari. Come molti artefici del suo tempo (a partire dallo stesso Leonardo), Arcimboldo im-para subito a essere un artista-artigiano molto versatile. Nel 1549 il suo nome compare per la prima volta accanto a quello del padre Biagio nei registri della Fabbrica del Duomo di Milano: si tratta di pagamenti a loro erogati per aver realizzato i cartoni di alcune vetrate della cattedrale, mentre più avanti Giuseppe verrà pagato anche per aver dipinto alcuni stemmi arcivescovili. Quasi contemporane-amente, il Duomo di Como chiede al giovane Arcimboldo di disegnare il cartone per un grande arazzo con la morte della Vergine e lui agisce, mentre il duomo di Monza, qual-che anno più tardi, lo paga assieme al collega Giuseppe Meda per dipingere un grande affresco con l’Albero della Vita nel transetto destro della chiesa. Con lo stesso Meda, Arcimboldo parteciperà con dei disegni anche al concorso per la realizzazione del Gonfalone di Milano, concorso che vincerà il Meda. Nonostante questo suo attivo impegno nel settore, Arcim-boldo comprende presto che l’arte non vive e prospera sola-mente all’ombra delle cattedrali. Egli va ad ammirare e stu-diare i manufatti dei grandi orefici della città (si chiamano Saracchi, Miseroni, Torturino, ecc.) e sbircia nelle botteghe dove si forgiano elmi, rotelle e armature cosi belle ed elabo-rate da apparire simili a sculture. Capisce, soprattutto, che tutte queste meraviglie sono destinate alla Spagna e all’Au-stria e che andranno ad ammantare di bellezza e di gloria la corte degli inarrivabili Asburgo.

Alla corte degli AsburgoÈ facendo queste meditazioni che, probabilmente, Arcim-boldo pianifica il suo futuro. Lasciatosi alle spalle le volte del Duomo di Milano, nel 1562 egli parte per l’Austria ap-prodando alla corte imperiale di Ferdinando I d’Asburgo. Le carte d’archivio ci dicono che egli venne ufficialmente

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assunto con l’incarico di ritrattista. Questa notizia è dav-vero singolare perché, a parte due suoi autoritratti, noi non conosciamo alcun ritratto tradizionale realizzato da Arcimboldo. Quindi, che tipo di ritrattista era il nostro pittore? E di che ritratti stiamo parlando? Da queste per-plessità è scaturita l’ipotesi – esposta per la prima volta nella mostra di Milano – che Arcimboldo abbia comincia-to a realizzare le sue “teste composte” proprio a Milano, e che poi la fama di tali “ritratti ridicoli” si fosse veloce-mente diffusa sino a raggiungere le orecchie delle figlio dell’imperatore Ferdinando I, sua Maestà Reale Massimi-liano d’Asburgo, che – a seguito di questa fama – avrebbe chiamato a sé l’artista-ritrattista milanese capace di tanta fantasia.Il resto della storia è noto. Nel 1563 Giuseppe Arcimbol-do dedicò a Massimiliano d’Asburgo la prima serie di “te-ste composte” dedicate alle Quattro Stagioni. Arcimboldo inventò quattro teste rispettivamente composte con fiori (primavera), con messi e frutti (estate), con tini e frut-ta autunnale (autunno), con agrumi e un tronco privo di fronde (inverno). Firmò e datò la serie dedicandola a Mas-similiano attraverso un poemetto fatto scrivere da Giovan-ni Battista Fonteo nel quale si spiega che queste teste altro non sarebbero che allegorie dell’abbondanza e della pro-sperità che il mondo è chiamato a vivere, in ogni stagione dell’anno, sotto il saggio governo di Massimiliano.Queste smancerie da cortigiano porteranno molti frutti. A Massimiliano d’Asburgo le quattro concettose tele piac-quero moltissimo. Le volle con sé nella Wunderkammer personale, dove conservava, assieme ai quadri, carapaci di tartarughe montati in argento, uova di struzzo e noci di cocco montate in oro, frutta fatta di marmo, lampade a forma di conchiglia e a zampa di rapace. A ciò assommava statue bucherellate ovunque per far uscire acqua zampil-lante: Massimiliano coltiva una passione quasi maniacale per le fontane.

Arcimboldo si ispirò ai materiali della scuola di Leonardo da cui trasse alcuni insegnamenti: il primo era l’importanza di osservare la natura dal vero e di riprodurla in disegni perfetti; il secondo l’accesa curiosità per le fisionomie buffe e deformi dei volti.

A sinistra sopra, Giuseppe Arcimboldo e Giuseppe Meda, Albero della vita di Cristo (1566-1559), Duomo, Monza.

A sinistra sotto, Giuseppe Arcimboldo, Progetto per costume: “Cuoco”, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Uffizi, Firenze.

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riscoperte

Opere originali e copieAppena consegnata al mecenate la prima serie delle “teste composte”, accade un fatto fondamentale: Ferdinando I muore e Massimiliano II diventa il nuovo imperatore del Sacro Romano Impero. La carriera del pittore si conso-lidò ulteriormente e infatti, nel 1566, Arcimboldo poté dedicare al nuovo e “suo” imperatore la seconda serie di “teste composte”, illustranti questa volta i Quattro Ele-menti. Anche queste tele devono essere lette e interpreta-te come “encomi figurati” al buongoverno e all’immenso potere degli Asburgo. Arcimboldo dipinse il Fuoco come una testa composta di oggetti adatti ad attizzare le fiamme (ma c’è anche l’asburgico collare del Toson d’Oro), l’Aria composta di volatili, l’Acqua di pesci e animali marini, la Terra di quadrupedi. L’esito è di nuovo un successo: come per la prima, anche questa seconda serie piacque moltis-simo a Massimiliano. L’imperatore chiese ad Arcimboldo di replicare sia la prima che la seconda serie in modo da poter inviare le “teste composte” come doni diplomatici a principi e nobili di mezza Europa. La proliferazione delle copie delle “teste composte” nascerà da quest’esigenza di-plomatica di donare oggetti pretiosi et singulari, segnando così la fortuna e la diffusione del genere.Presso la corte degli Asburgo, Arcimboldo inventò anche altre “teste composte”, come quella fatta tutta di libri per ritrarre il bibliotecario reale o quella con pesci, polli e scartoffie per immortalare un pedante giurista del seguito imperiale. Sortirono due volti celeberrimi, destinati a inse-rirsi d’autorità nel genere delle “teste ridicole” diffusosi a macchia d’olio nell’Europa del Cinquecento grazie soprat-tutto alle stampe.

Un artista ecletticoBisogna a questo punto chiarire che negli anni del sog-giorno in Austria, Arcimboldo non si occupò solamente di teste “composte” o “ridicole” che fossero. Fu anche molto impegnato, ad esempio, nell’inventare apparati decorativi effimeri, destinati alle feste di corte, disegnando abiti, co-

stumi da parata, slitte bizzarre e persino fontane. Un’altra importante attività fu quella di riprodurre dal vero gli ani-mali del serraglio imperiale, immortalandoli in bellissime tavole “scientifiche” che, spedite in Italia, vennero raccol-te e poi riprodotte a stampa da grandi scienziati e “proto-fisici” come il bolognese Ulisse Aldrovandi e il milanese Manfredo Settala.Quando Massimiliano II morì nel 1576, l’Arcimboldo tentò di rientrare a Milano per godersi la vecchiaia e i frutti del suo lavoro. Rodolfo II, il nuovo imperatore, non lo lasciò partire, trattenendolo e facendogli repli-care di nuovo le serie delle teste, chiedendogli di pro-gettare le feste di corte, mandandolo in giro per l’Au-stria come procacciatore di opere d’arte e di antichità da destinare alla Wunderkammer del castello di Praga, sua residenza prediletta.Il sodalizio durò fino al 1587. Poi, Rodolfo II concesse al “suo” pittore di rientrare a Milano. Lo nominò conte pa-latino e gli fece promettere di continuare a lavorare per lui. Il “conte” Arcimboldo onorò la promessa. Appena giunto a Milano, dipinse un ritratto di Rodolfo II nelle sembianze di Vertunno e lo spedì, riconoscente, a Praga.Gli ultimi anni, Arcimboldo li trascorse a Milano inventan-dosi nuove teste composte, come quelle dette “reversibili”, vale a dire nature morte con canestre di frutta e verdura che, girate sottosopra, diventano delle “teste composte” di vegetali. Poi, cercò di passare alla storia, raccontando a scrittori contemporanei come Giovanni Paolo Lomaz-zo, Paolo Morigia e soprattutto Giorgio Comanini le sue imprese artistiche alla corte degli Asburgo. A Giorgio Co-manini il pittore fece anche un regalo: dipinse una testa composta dove le Quattro Stagioni erano tutte presenti in uno solo quadro, un vero tour de force della fantasia! Fu l’ultima sua opera. Arcimboldo concluse la sua giornata terrena a Milano l’11 luglio 1593. Venne presto dimenti-cato, finché dadaisti e surrealisti, dopo tre secoli, non si accorsero improvvisamente di lui.

Nalla pagina seguente, Giuseppe Arcimboldo:

in alto a sinistra, Inverno (1573), Museo del Louvre, Parigi;

in alto a destra, Autunno (1573), Museo del Louvre, Parigi;

in basso a sinistra, Terra (1570), Kunsthistorisches Museum, Vienna;

in basso a destra, Acqua (1570), Kunsthistorisches Museum, Vienna.

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nuovi media

di Aldo GrassoDocente di Storia e Critica della radio e della televisione presso l’Università Cattolica di Milano, critico televisivo del Corriere della Sera

Il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento: il telefono, così come l’abbiamo conosciuto e usato per anni, non è più il telefono; i giornali non sono solo più giornali, stanno mutando pelle e conte-nuti; la tv non è più la tv; persino il computer presto non sarà più il computer.Motore di questa evoluzione è il fenomeno della conver-genza. Che cos’è? Tecnicamente, la convergenza è l’unione di più strumenti del comunicare, una fusione resa possibile dalla tecnologia digitale. Ciascun medium non è più destina-to a svolgere un singolo tipo di prestazione, ma è in grado di diffondere diversi contenuti (fotografi a, radio, conver-

convergenza parola d’ordine:

sazioni telefoniche, tv, musica). Convergenza signifi ca uti-lizzare una sola interfaccia (il computer, per esempio) per molti servizi informativi, passare cioè dalla visione di una serie tv a un’operazione bancaria, dalla lettura di un quo-tidiano alla sorveglianza di un angolo della casa. Ma con-vergenza signifi ca anche che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la comunicazione e coinvolge categorie antropologiche. Convergenza è la voce del molte-plice, dell’indiscernibile e dell’ibridato. Grazie alla facilità di spostamento, ai fl ussi migratori, alla globalizzazione, tutto il mondo converge, si mescola, tende al meticciato.Considerata l’importanza e la pervasività dei mezzi di co-municazione nella società contemporanea, e il fatto che i media non sono solo semplici protesi, ma piuttosto “ambienti” in cui siamo immersi, il mutamento in corso è totalmente culturale. Riguarda cioè la “cultura” nel sen-so più ampio e antropologico della parola: un patrimonio di conoscenze, di nuove convenzioni sociali e di inedite espressioni di civiltà.

I processi di digitalizzazioneIl mutamento nel sistema dei mezzi di comunicazione, in atto da alcuni anni, è sotto gli occhi di tutti. Sotto la potente spinta della digitalizzazione, oggi facciamo

convergenza

sazioni telefoniche, tv, musica). Convergenza signifi ca uti-lizzare una sola interfaccia (il computer, per esempio) per molti servizi informativi, passare cioè dalla visione di una serie tv a un’operazione bancaria, dalla lettura di un quo-tidiano alla sorveglianza di un angolo della casa. Ma con-vergenza signifi ca anche che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la comunicazione e coinvolge categorie antropologiche. Convergenza è la voce del molte-plice, dell’indiscernibile e dell’ibridato. Grazie alla facilità di spostamento, ai fl ussi migratori, alla globalizzazione, tutto il mondo converge, si mescola, tende al meticciato.Considerata l’importanza e la pervasività dei mezzi di co-municazione nella società contemporanea, e il fatto che i media non sono solo semplici protesi, ma piuttosto

in cui siamo immersi, il mutamento in corso è totalmente culturale. Riguarda cioè la “cultura” nel sen-so più ampio e antropologico della parola: un patrimonio di conoscenze, di nuove convenzioni sociali e di inedite

Il mutamento nel sistema dei mezzi di comunicazione, in atto da alcuni anni, è sotto gli occhi di tutti. Sotto la potente spinta della digitalizzazione, oggi facciamo

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nuovi media

con i media cose un tempo impensate: se desideriamo informarci sui fatti del giorno, un click sull’iPad o sullo smartphone ci è sufficiente per visualizzare l’ultima edi-zione del Corriere della Sera; mentre siamo in attesa in un luogo pubblico, o in viaggio, il nostro lettore musicale portatile si trasforma in un terminale per vedere un film; in una serata di “magra” programmazione televisiva tro-viamo su YouTube i frammenti di quel programma che ci ha divertito o di cui abbiamo tanto sentito parlare da amici e colleghi. Convergenza significa, in breve, proprio questo: quelli che prima si chiamavano “mezzi di comunicazione di massa” ora si sovrappongono, si mescolano, si combi-nano, si piegano con maggiore flessibilità alle nostre esigenze temporali, spaziali e d’uso. Chi possiede uno smartphone sa benissimo (non per studio ma per prati-ca quotidiana) che il “vecchio” telefonino da strumento di comunicazione personale è diventato uno strumento elettronico dove si raduna il nostro essere sociale e la nostra identità individuale e collettiva. Chi frequenta Fa-cebook conosce i pregi e i difetti delle comunità virtuali, ma il fatto più rilevante è che comincia a far parte di una “cittadinanza digitale” che va ben oltre i narcisismi rétro del socialnetworkismo (a metà tra il “saranno tutti famosi” e il “villaggio globale”). L’idea di fondo dei social network è proprio quella di addomesticare il Web e re-stringerlo ai propri bisogni.

Mezzi tradizionali e innovativiChe la tecnologia, elemento necessario al cambiamento in corso, non sia tuttavia la sola forza in grado di rivoluzio-nare comportamenti e “modi di vita” è dimostrato da due semplici considerazioni.La prima consiste nell’osservare che – accanto alla fio-ritura di tutti questi nuovi modelli di utilizzo dei media – permangono anche quelli più tradizionali, che affonda-

no le loro radici nella storia dei mezzi di comunicazione: i giornali fatti di carta si continuano a comprare come uno o due secoli fa; per vedere un film su grande schermo è necessario uscire di casa e pagare un biglietto alla cassa; all’interno delle mura domestiche la tv resta il principale passatempo, spesso nella sua versione generalista. Quelle che permangono, in fin dei conti, sono alcune esigenze di fondo che, pur mutando nelle forme e nei contenuti con cui vengono soddisfatte, caratterizzano l’uomo mediatico uscito dalla “modernità” otto e novecentesca. Per esempio, un genere come il reality da una parte soddisfa un’esigenza tradizionale di intrattenimento, dall’altra, invece, per mol-ti si manifesta come un’esperienza di vita.La seconda considerazione deriva dall’osservazione che, nella società capitalistica, anche la più geniale delle inven-zioni deve trovare un mercato per diffondersi: deve cioè intercettare o quantomeno generare dei bisogni. L’indu-stria culturale si attiva solo se le sue produzioni sono eco-nomicamente sostenibili. Invenzioni come iPod e iTunes hanno rivoluzionato l’industria della musica: le case di-scografiche non sono morte, ma hanno dovuto inventarsi nuovi scenari di business. Nelle redazioni di mezzo mon-do si fanno esperimenti di interazione tra carta e online, si cercano soluzioni per fare pagare i contenuti senza perde-re lettori. La nuova frontiera dell’editoria è sicuramente l’e-book (non si è parlato d’altro all’ultima Fiera del libro di

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Sotto la potente spinta della digitalizzazione, oggi facciamo con i media cose un tempo impensate: se desideriamo informarci sui fatti del giorno, un click sull’iPad o sullo smartphone ci è sufficiente per visualizzare l’ultima edizione di un quotidiano.

Francoforte): dal lancio di Kindle di Amazon e dalla pre-sentazione dell’iPad di Apple, tutta la filiera dell’editoria sta cercando di cambiare i propri connotati e di ridefinire il ruolo dell’autore e del lettore.

La richiesta di contenutiPer creare Hulu – che in cinese mandarino significa “scri-gno di beni preziosi”, e che è una sorta di grande con-tenitore Web di testi mediali, in particolare film e pro-dotti tv – si sono accordati concorrenti storici come Nbc Universal, Fox NewsCorp e Abc Disney, ma non è ancora chiaro se lo “scrigno” restituirà doni preziosi anche per le major. Perché un modello economico per l’over-the-top tv è tutt’altro che chiaro: in rete c’è grande fame di contenuti audiovisivi, il Web può rappresentare un’enorme archivio on demand, ma come si regge, alla fine, il sistema, visto che lo spettatore è sì disposto a consumare contenuti, ma molto meno a pagarli (dal momento che esistono anche numerose strade illegali)? E allora, l’altra grande spinta a forgiare l’ambiente della convergenza deriva dalle imprese mediali, con i loro interessi, con le loro strategie e, soprat-tutto, con la loro capacità – più o meno sviluppata – di inserirsi creativamente e tempestivamente su un terreno in costante evoluzione. A proposito di Hulu, è curioso osservare che lo “scrigno” è la tv più frequentata dai ragazzi americani. I video di Hulu si possono poi pubblicare su altri siti e social net-work come AOL, MSN, MySpace, Yahoo e Fancast.com: è come se la galassia della tv generalista esplodesse in tanti piccoli frammenti luminosi, inaugurando un nuovo tipo di socialità televisiva.Per oltre mezzo secolo, la tv ha avuto una precisa collo-cazione pubblica e ha alimentato un’esperienza tanto dif-fusa quanto condivisa per gli spettatori, riassumibile in una semplice espressione: «guardare la tv». Lo scenario attuale della convergenza tecnologica, invece, comporta

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nuovi media

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Il pubblico può conquistarsi un ruolo da protagonista nel-lo scenario della cultura convergente. Da un lato, perché i canali tv cercano sempre di più di costruire dei touchpoint, dei punti di contatto “emotivi” con lo spettatore, pensati per accrescerne il coinvolgimento, come la campagna di lancio sul Web per la seconda stagione di Romanzo cri-minale. Dall’altro, perché la tv è sempre stata oggetto di condivisione sociale, ma solo oggi diventa concretamente smontabile, “sgangherabile”, commentabile, soprattutto grazie alla rete. Il dato può stupire, ma la centralità della tv nel sistema dei media è confermato, come abbiamo visto, dalla presenza esorbitante di tv sul Web: la tv si guarda sul Web (pensiamo ai contenuti su YouTube o altri aggrega-tori audiovisivi), la tv si commenta sul Web (pensiamo ai discorsi sulla tv fra forum, blog e Facebook). Se mai lo è stato realmente, oggi lo spettatore non è più passivamente sprofondato sul divano: utilizza di continuo la tv come risorsa, sia materiale che simbolica, per orientarsi, per di-scutere, per interagire, tanto online quanto offline. Ma noi, come ci attrezziamo per affrontare un simile ri-volgimento? Consideriamo la tecnologia come un gadget prezioso di cui non si può fare a meno? La convergenza è un fenomeno che cambia le nostre abitudini di consumo o cambia anche le abitudini cognitive? La verità è che oggi, nel mondo della comunicazione, si compiono operazioni così vertiginose da essere state vagheggiate solo da qualche scrittore di fantascienza: il primo Macintosh è del 1984, la nascita ufficiale del Web risale al 1991. Nel giro di po-chi anni ciascuno di noi può connettersi con il mondo intero, consultare tutto quello che è stato caricato in rete. Convergenza significa anche che da una cultura di tipo verticale (ordinata secondo una gerarchia valoriale) siamo passati a una cultura di tipo orizzontale (ogni contenuto è immediatamente disponibile) basata più sulle associazio-ni, sui link, sui liberi collegamenti che sulla tradizionale trasmissione del sapere.

una mutazione nell’identità del telespettatore, che oggi è virtualmente chiamato a dare forma ad abitudini di vi-sione differenti.Il passaggio universale al digitale terrestre è il più consi-stente cambiamento che la tv italiana ha affrontato negli ultimi venti o trent’anni, anche soltanto per il numero di persone che coinvolge: un’intera popolazione. Ma il di-gitale terrestre, pur essendo la tecnologia di accesso-base alla tv, non è la sola piattaforma distributiva su cui le im-prese televisive possono contare. Quel che emerge è una moltiplicazione dei possibili percorsi che connettono chi produce e distribuisce i contenuti tv e chi li consuma.

Spettatori del futuroSenza troppo entrare in un discorso tecnico, sul mercato si confrontano ora non tanto i singoli canali, quanto le piattaforme di offerta, entità complesse in cui si incrocia-no tecnologia, modelli di business, modi di organizzare i contenuti televisivi. Non a caso due colossi come Apple e Google si stanno trasformando in media center, con lo sco-po ben preciso di “linkare” sempre più le loro tecnologie con i contenuti della tv. L’apparato può essere immaginato come un grande smartphone per la tv: ci sono le applica-zioni, i video, la musica e i siti Web ottimizzati per essere visualizzati al meglio sullo schermo del televisore.La cosa più curiosa è che questo grande processo tecnolo-gico in atto non espelle il pubblico, non lo relega irrime-diabilmente al ruolo di “utilizzatore finale”, anzi.

Sul mercato si confrontano non tanto i singoli canali, quanto le piattaforme di offerta, entità complesse in cui si incrociano tecnologia, modelli di business, modi di organizzare i contenuti televisivi.

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successi femminili

di Enrico CampanaGiornalista della Gazzetta dello Sport, opinionista di sport e new media

Si avvicina a grandi passi l’Olimpiade di Londra e per l’I-talia si prospetta, per la prima volta, una competizione al femminile. Le donne non hanno mai recitato il ruolo di suffragette, sono la metà virtuosa dello sport italiano, ma adesso si parla di sorpasso. A Pechino erano già il 39% nel contingente della spedizione azzurra, quota in realtà dal valore intrinseco maggiore. Vestali dell’italico sport, sono ormai considerate la quinta colonna per spirito, motiva-zioni e serietà, e il più effi cace spot per arrivare al cuo-re delle gente. Vedi la “Vale”. Quando gareggia Valentina Vezzali i giornali maggiori mandano il grande inviato al seguito, esattamente come per le coppe di calcio. Scelta giustifi cata da 3 ori olimpici, 5 mondiali, 5 europei e 11

il “sesso forte” sport

coppe del mondo con un record assoluto di 73 vittorie, Numero Uno del fi oretto da 14 anni. Valentina batte an-che Valentino (Rossi) con 9 mondiali!

Due donne da recordQuesta marchigiana di 36 anni, sposata con un calciatore, dotata di un fi sico del tutto normale, se vogliamo un po’ magra e asciutta, è nata a Jesi, nel cuore delle Marche col-linari vignaiole. Muscoli appena tracciati, per niente iper-vitaminizzata ma con una straordinaria carica esplosiva, perché negli assalti della scherma si deve usare la baio-netta. «Vale vince col cuore», dicono mettendo l’accento sul “segreto” della “piccola imperatrice”. Che ci sia un fi lo misterioso tra la città natale di Federico II, l’imperatore stupor mundi, e la leggenda della sua scherma? Vinto il ter-zo oro consecutivo nel fi oretto individuale, impresa unica nella scherma e nella storia delle Olimpiadi, al ritorno da Pechino Vale fu perentoria: «Se non mi fanno fare la por-tabandiera a Londra, smetto!»Messaggio recepito da parte del CONI: affi data nelle ulti-me tre Olimpiadi l’araldica incombenza al cestista Carlton Myers (Sydney), al ginnasta Yuri Chechi (Atene) e al ca-noista Rossi (Pechino), a Londra gli atleti sfi leranno dietro questo “quinto moschettiere” che in realtà veste la divisa

dello

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Le donne non hanno mai recitato il ruolo di suffragette, sono la metà virtuosa dello sport italiano, ma adesso si parla di sorpasso. A Pechino erano già il 39% nel contingente della spedizione azzurra.

Valentina Vezzali con le colleghe del team della scherma italiana femminile.

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successi femminili

da poliziotto, ha fi rmato un libro (A viso scoperto) e se l’è cavata benissimo anche sulla pedana Tv di Ballando con le stelle. Se fosse vissuta ai tempi di Dumas, colui che raccon-tò le gesta degli spadaccini della regina di Francia, il più grande romanzo di cappa e spada, d’Artagnan l’avrebbe

arruolata. La volontà di Valentina è proverbiale. Spiana le montagne. Fra l’ultima e la penul-

tima Olimpiade è riuscita anche a fare un fi glio, tornare in pedana e vincere l’oro al mondiale di Lipsia, il più diffi cile, a soli quattro mesi dal parto, anche se in questo ritorno-lampo il primato asso-luto è della golfi sta Diana Luna. Ecco un’altra wonderwoman degna di

cronaca tornata sui green dopo soli due mesi e mezzo dal parto! Il 28 di aprile

dell’anno scorso è nata la primogenita Elena, il 22 luglio accettava l’invito honoris causa per

giocare i due maggiori tornei, l’Evian Masters e il Women’s British Open. A proposito di primati-

limite degni della leggenda della Madonna del Parto che favorirebbe le nascite, uscita dal pennello di Piero della Francesca e custodita a Monterchi, nello sport ave-va già fatto scalpore l’impresa umana della quarantenne scozzese Catriona Matthew. Ma la sua collega azzurra, Diana Luna, ha fatto di meglio tornando dopo sole 11 settimane, una in meno. Con 3 Open è la punta del golf italiano ma anche l’icona glamour col suo incarnato bian-

«Le Olimpiadi e le medaglie per me sono come i fi gli. Al momento del parto provi dolore e pensi che sarà l’ultimo. Ma quando hai in mano la tua creatura, è così bella che pensi subito di farne un’altra»Josefa Idem, canoista.

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chissimo – anzi… “lunare”. Ha guidato la classifi ca del Ladies European Tour, il circuito professionistico, unica italiana ad aver l’onore di giocare la Solheim Cup, pre-stigiosissima sfi da fra Europa e America seguita in Tv da centinaia di milioni di persone. La sua popolarità è stata ben misurata nella votazione della Gazzetta dello Sport, nella quale ha preceduto i fratelli Molinari trionfanti nella World Cup e un Matteo Manassero in rapida ascesa. Una bellezza da cammeo più che da romana, in realtà una gio-vane lady molto pratica, tutta golf e famiglia, niente vita mondana, ambasciatrice uffi ciale per la lotta alla fame nel mondo. Ha scelto di vivere a Cannes col marito insegnan-te di golf e conte toscano. Google certifi ca ben 1.060.000 risultati per il suo sito dianaluna.it. Del resto, anche se in misura minore al calo d’interesse per l’infortunio di Va-lentino Rossi, durante i sei mesi d’assenza dell’atleta per la maternità, di golf si è parlato di meno.

Campionesse nello sport e nella vitaSempre a proposito di supermums, come gli inglesi defi -niscono le campionesse-mamme, dopo aver perso per un batter di ciglia l’oro a Pechino, Josefa Idem ha abbraccia-to Janek e Jonas, portati in Cina dalla longeva canoista per tener legata la famiglia. «Sono le mie medaglie spe-ciali e il segreto dei miei successi», ha detto parafrasando la storica frase della madre dei Gracchi. Questo insolito quadretto famigliare dello sport professionistico ha in-coraggiato la giuria del “Premio Primedonne” di Moltal-cino – uno dei più importanti dell’Italia al femminile, che spazia dallo sport alla ricerca – a preferirla rispetto a illustrissime italian-ladies. E adesso? «Le Olimpiadi e le medaglie per me sono come i fi gli. Al momento del parto provi dolore e pensi che sarà l’ultimo. Ma quando hai in mano la tua creatura, è così bella che pensi subito

di farne un’altra», confessa guardando a Londra, dove compirà 48 anni, questa tedesca d’acciaio che da 30 anni fa collezione di record. In gioventù ha gareggiato per il suo Paese, poi, convolata a nozze canoistiche con un al-lenatore italiano, si è trasferita in Romagna ricoprendo anche il ruolo di assessore comunale. Prima indiscussa icona dello sport femminile italiano, in grado di frantumare atavici pregiudizi, è stata la bologne-se Ondina Valla, medaglia d’oro negli 80 metri ostacoli alle Olimpiadi di Berlino del ‘36. Considerata la risposta femminile di un certo Jesse Owens, e ritenuta negli anni del fascismo perfetta ambasciatrice delle virtù della “raz-za” italiana «di sana e forte costituzione e tempra», vinse anche gare di salto e di lancio del peso nonostante avesse problemi alla schiena. A quel tempo però la grande popo-larità non pagava. Con grande dolore, Ondina (che in re-altà si chiamava Trebisonda) subì il furto della storica me-daglia e morì senza un gesto di pietà da parte degli ignoti ladri per i quali quel metallo era una reliquia. Un analogo destino toccò alla prima campionessa olimpica dello sci, Celina Seghi, che come Zeno Colò veniva dall’Abetone, la grande montagna Toscana, e non dalle Alpi. Ai mondiali di Cortina d’Ampezzo del 1941 conquistò l’oro nello sla-lom ma la vittoria non fu omologata. Ondina e Celina sono state per lo sport femminile un enorme e decisivo balzo in avanti per risultati, tecnica, nuove soglie fi siologiche. Erano donne assolutamente normali, senza divismi e scandali, eccezionali in gara e perfette anche nel ruolo famigliare.

Passione e genioSuccessivamente, lo sport italiano ha voluto indulgere an-che alla campionessa-diva, quella Lea Pericoli che faceva intravedere mutandine a pizzo sul Centrale di Wimbledon.

La tennista Francesca Schiavone, trionfatrice a Parigi nel 2010.

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successi femminili Nelle competizioni a squadre, alle Olimpiadi, le donne sono decisamente migliori dei colleghi. Non si contano ormai più le onorifi cenze di Cavaliere della Repubblica distribuite da Ciampi e Napolitano alle atlete vincitrici di medaglia.

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La Nazionale italiana di pallavolo con Francesca Piccinini.

Fra tante atlete bravissime, la crescita si è giovata di per-sonaggi divenuti popolarissimi: la nuotatrice Novella Cal-ligaris oggi commentatrice televisiva, la mezzofondista Paola Pigni e soprattutto Sara Simeoni. La grande saltatri-ce veronese la cui popolarità ai suoi tempi non era infe-riore alla ginnasta romena Nadia Comaneci, ci portò con i suoi salti mozzafi ato a un livello superiore. Via via sono arrivate le sciatrici della “valanga azzurra”: Claudia Gior-dani, Manuela Di Centa, le splendide fi gure di Deborah Compagnoni e della fondista d’oro Stefania Belmondo. Ma non bisogna dimenticare nell’atletica Gabriella Dorio e nel calcio Carolina Morace. E l’inglese Fiona May, laureata all’università di Leeds e sposata con un allenatore italiano, la quale, lasciata la pedana del salto in lungo, ha avuto successo anche come attrice.Scuola italiana? No, emulazione, tenacia, passione, genio individuale. Prendiamo il tennis, il cui presidente dalla

battuta facile, 20-30 anni fa, invitava i maschi latini ad andare in giro per il mondo per mettere l’anello al dito alle giocatrici straniere. Fortunatamente non è stata questa la ragione del boom del tennis femminile, seguito al calo d’interesse per la squadra di Coppa Davis dei Panatta, Ba-razzutti, Bertolucci e Zugarelli. L’Italia ha vinto per ben due volte la Federation Cup, il mondiale a squadre, col contri-buto di Silvia Farina e poi con Flavia Pennetta e Francesca Schiavone. A 29 anni la “Leonessa” tutta nervi ha conqui-stato il torneo di Parigi pur non essendo favorita, incassan-do un premio-record di oltre 1 milione in una volta sola!

Tenacia, versatilità e intelligenzaNelle competizioni a squadre, alle Olimpiadi, le donne sono decisamente migliori dei colleghi. Non si contano ormai più le onorifi cenze di Cavaliere della Repubblica distribuite da Ciampi e Napolitano alle atlete vincitrici

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di medaglia, di cui sono diventati anche tifosi. C’è na-turalmente anche la ragion di Stato: molte ragazze ve-stono la divisa di Polizia (Valentina Vezzali), Carabinieri (Granbassi), Fiamme gialle (Quintavalla) e Guardie fo-restali (Cainero). Se nelle ultime tre Olimpiadi l’unico oro italiano è stato del Settebello delle pallanotiste, le campionesse più ammirate sono Francesca Piccinini e compagne: e infatti, il volley resta lo sport preferito dalle giovani italiane grazie a una continuità di risultati inter-nazionale. Il Dream Team per eccellenza è però la pre-

miata ditta della scherma che, puntualmente, assicura il maggior contributo di medaglie. A Pechino le atlete azzurre sono salite sul podio 11 volte, ma hanno ottenuto per la prima volta l’utopica “parità dei sessi” con 4 ori su 8. E proprio in Cina l’Italia ha sco-perto di contare anche in altri sport ritenuti poco adatti: la livornese Giulia Quintavalla ha vinto l’oro nel judo, la friulana Chiara Cainero lo skeet (tiro a volo), la grosse-tana Alessandra Sensini s’è confermata l’ago (d’oro) nel pagliaio della vela, mentre nella scherma la scoperta è stata un “personaggino” quale Margherita Gambassi, ca-pace di alternare con successo fioretto e Tv cavandosela bene persino in una trasmissione impegnata come Anno Zero. Per popolarità assoluta, invece, grazie alle gesta di Pechino, la Numero Uno (a scapito di Carolin Kostner, la libellula altoatesina del pattinaggio artistico) adesso è Federica Pellegrini. Una giovane primadonna dal fisico statuario, la mestrina ha tutti gli ingredienti per vincere, scatenare entusiasmi, polemiche, fantasie, ed è ricoperta d’oro dalla pubblicità. Il primo oro nella storia del nuoto italiano, quello dei 200 stile libero, è arrivato dopo una gara deludente, una resurrezione e un record del mondo in batteria. Sullo sfondo di un mix che piace agli italiani: forza, carattere, una gran testa e un po’ di gossip…

A Pechino le atlete azzurre sono salite sul podio 11 volte, ma hanno ottenuto per la prima volta l’utopica “parità dei sessi” con 4 ori su 8.

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successi femminili

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La nuotatrice Federica Pellegrini, vincitrice di titoli olimpici, europei e mondiali.

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Europa

di Stefano FolliGiornalista e commentatore politico, editorialista de Il Sole 24 Ore

Ha detto di recente un giornalista francese, corrisponden-te da Bruxelles, che sarebbe diffi cile immaginare l’Europa di oggi con 27 monete in competizione le une con le altre. L’ euro, pur con i suoi problemi, ha dato stabilità e un certo ordine a questa parte del mondo. Ha dato un signifi cato all’espressione «Unione europea». Ebbene, sulla politica estera siamo esattamente nella situazione opposta. Il di-sordine, che ci appare anacronistico se parliamo di mo-nete, è invece la realtà quotidiana in altri campi cruciali. L’ Europa, si potrebbe dire senza esagerare troppo, dispo-ne di 27 politiche estere. Che senso ha quindi parlare di Unione al di fuori della moneta unica?

prospettive?

la politica estera dell’Unione:

La debolezza dell’Europa sul palcoscenico mondialeLa crisi del 2011 nell’Africa del Nord e in Medio Oriente, le rivolte che hanno scosso equilibri consolidati da de-cenni e rovesciato vecchi autocrati, sono state il detonato-re che ha portato alla luce questa verità. E ci sono pochi dubbi che si tratti di una verità spesso rimossa, o almeno coperta da uno spesso strato di ottimismo a buon mer-cato, o di sottile ipocrisia auto-consolatoria. La nomina, prevista dal Trattato di Lisbona, di una sorta di “ministro degli Esteri” europeo, nella persona dell’inglese Catherine Ashton, appartiene a questo genere di gesti volti a rassicu-rare l’opinione pubblica, ma poveri di un preciso conte-nuto e di un suffi ciente respiro.La Ashton non è riuscita a incidere in alcun modo nelle vi-cende nord-africane di questi mesi; forse non poteva essere diversamente, visto che le cancellerie non hanno operato alcuna autentica rinuncia ai loro poteri in politica estera. Peraltro, molti critici mettono il dito sulla sua inesperienza e mancanza di autorevolezza. Se ne avesse di più, dell’una e dell’altra, potrebbe muoversi con maggiore agio e imporre comunque qualche iniziativa agli Stati nazionali: che sareb-bero costretti, in molti casi, a far buon viso a cattivo gioco. Invece, nulla. Ed è fondato il sospetto che la Ashton sia stata scelta più per i suoi difetti che per le sue qualità.

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prospettive?

L’ euro, pur con i suoi problemi, ha dato stabilità e un certo ordine a questa parte del mondo. Ha dato un signifi cato all’espressione «Unione europea».

In Libia, per restare all’evento più rilevante, la guerra al regime di Gheddafi , sotto il mantello della risoluzione dell’Onu volta a proteggere gli insorti di Bengasi e Misu-rata dalla repressione del colonnello, è stata decisa dalla Francia, in primo luogo, sorretta dalla Gran Bretagna. La Germania, come è noto, si è detta fi n dall’inizio contraria a qualsiasi impegno bellico. L’ Italia ha oscillato a causa dei complessi interessi economici del nostro Paese nel ter-ritorio della ex colonia. Le altre capitali sono andate in ordine sparso; e soprattutto, il parziale disimpegno degli Stati Uniti di Obama dal teatro mediterraneo ha fi nito per mettere in mostra l’inadeguatezza dell’Europa.

Nuovi nazionalismiL’ argomento usato per giustifi care questa “disunione” e in particolare per spiegare il disinteresse tedesco è disarmante. La Germania, si è detto da più parti, «è lontana dal Mediterraneo e non ha interesse a essere presente in questa area». Ma chi fa queste affermazioni non si accor-ge di decretare la fi ne dell’Europa. O me-glio, condanna l’Europa a non vedere mai la luce come entità integrata, mossa da una sua logica sovranazionale. È la smentita più bruciante

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Europa

ai sogni e alle illusioni dei padri dell’ideale federalista. La Germania può sostenere di non avere interesse a quello che succede nel Mediterraneo solo in una chiave stretta-mente “nazionalista” (e forse nemmeno in quella, dal mo-mento che viviamo in un mondo globalizzato). Allo stesso modo, Italia e Francia non potrebbero disinteressarsi di quello che accade nell’Est europeo, nella grande area ex sovietica che preme ai confini dell’Unione e in molti casi ne fa già parte, a meno di non rinchiudersi in un provin-cialismo miope. Tuttavia questa è la condizione dell’Euro-pa di oggi. E se i governi sono incoerenti, le loro opinioni pubbliche non li seguono. A quanto pare, i temi legati alla crisi internazionale e al ruolo europeo non coinvolge il comune cittadino, a Roma come a Parigi e a Berlino. Ha scritto di recente un acuto commentatore francese, Marc Lazar: «Più o meno coscienti del loro attuale declino sul palcoscenico mondiale, spaventati dalla globalizzazione, disorientati dalle trasformazioni dell’economia e della so-cietà, disgustati dalla politica, molti europei cedono alle sirene populiste, di destra e di sinistra, preferiscono ripie-garsi sulle proprie faccende e si mostrano indifferenti nei riguardi del resto del mondo».

Tra isolazionismo e neutralismoQuesta è l’altra faccia del problema. Un certo tipo di isola-zionismo prende piede un po’ ovunque, mosso dall’ombra lunga delle incertezze economiche e finanziarie. Ci sono molti modi di esprimere un tale stato d’animo. In fondo l’America di oggi, schiacciata da un immane debito pub-blico e costretta a ridimensionare in parte il proprio ruo-

lo-guida nel mondo, esprime una sorta di isolazionismo “morbido” che riesce a fondersi, in una miscela impreve-dibile, con la logica del mondo globale. Nulla a che vede-re, insomma, con l’isolazionismo successivo al crollo del 1929, contro cui si batté Franklin Delano Roosevelt nello sforzo di strappare i suoi concittadini alla Grande Depres-sione (economica e psicologica). Obama è un uomo del suo tempo e si muove con prudenza. Ma in Libia, per la prima volta, la Nato ha dovuto far da sola, senza una vera e propria guida americana, come era avvenuto invece nel-la guerra del Kosovo.Quali siano stati poi i limiti di una strategia militare de-cisa e attuata senza avere alle spalle un’Europa fortemen-te integrata sul piano politico, lo hanno visto tutti. Ma nemmeno l’offensiva anti-Gheddafi di cui ha preso il co-mando il presidente francese Sarkozy, in modo alquanto impulsivo e per evidenti ragioni di politica interna, mette gli europei al riparo da una variante continentale dell’i-solazionismo. In fondo, Sarkozy ha agito come ha agito perché sente l’incalzare del Fronte Nazionale di Marine Le Pen, un raggruppamento il cui credo è riassumibile nell’espressione “la Francia ai francesi”. Il che vuol dire chiusura delle frontiere (per come è possibile nell’Euro-pa di oggi, fin quando resta in vigore l’attuale trattato di Schengen), lotta all’immigrazione clandestina, sostanziale rinuncia all’orizzonte europeo se non per tutelare i propri interessi industriali o agricoli. Come possiamo chiamare tutto questo, se non isolazionismo? Sarkozy, per impedire che un tale accumulo di frustra-zioni e risentimenti si trasformi in una valanga elettorale

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C’è un certo tipo di isolazionismo che prende piede un po’ ovunque, mosso dall’ombra lunga delle incertezze economiche e finanziarie.

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ostile, ha fatto propri alcuni dei temi lepenisti. In maniera soft, s’intende, come tenue è il populismo di Obama. Ma il senso delle cose è abbastanza chiaro: dal tentativo francese di diventare il punto di riferimento delle masse arabe in rivolta, quasi a inseguire il sogno di una nuova grandeur, fino all’interpretazione restrittiva di Schengen, se serve an-che in chiave anti-italiana. Della Germania si è detto: qui siamo già alla tentazione neutralista. Il grande Paese che nel dopoguerra è stato l’asse portante della Nato, l’archi-tetto della costruzione europea e l’artefice della moneta unica, oggi appare dubbioso e vacillante. Di fatto sballot-tato dai mutamenti d’umore dell’opinione pubblica inter-na, che guarda con sospetto a ciò che si muove oltre le frontiere. In particolare per quanto riguarda il supposto lassismo dei partner indebitati, i cosiddetti “PIIGS”.

Il cammino dell’integrazione europeaQuello che è da sottolineare è la specificità del caso te-desco. Non si tratta di un Paese messo alle corde dalla stagnazione economica, ma al contrario di un gigante che, con duro lavoro e capacità d’impresa, è davanti a tutti in Europa sulla strada della ripresa. Eppure anch’esso è per-corso da turbamenti domestici che lo conducono sulla via di un limitato ma preoccupante isolazionismo. Anche in Italia, la decisione presa, dopo un lungo travaglio, di par-tecipare alle operazioni militari della Nato è stata conte-stata da una parte non irrilevante della maggioranza e del Parlamento.Come si può pensare quindi che Stati così fragili siano in grado di concepire e realizzare una politica estera comu-

Nella pagina iniziale, scultura dedicata all’Euro, presso il Parlamento Europeo di Bruxelles.

A fianco, scultura intitolata all’Euro davanti alla Banca Centrale Europea di Francoforte.

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Europa

Esiste un interesse politico e persino spirituale ad accompagnare una parte del mondo arabo verso l’appuntamento con il XXI secolo. Ma c’è anche un interesse economico palese: quello di allargare il mercato e di creare una straordinaria domanda di beni e servizi nel bacino del Mediterraneo.

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ne, fondata su regole di coesione ben collaudate? È bene non farsi illusioni al riguardo: siamo molto lontani da un tale traguardo e proprio gli sconvolgimenti in Medio Oriente e Africa del Nord lo dimostrano. La stessa politica dell’immigrazione è lacunosa, forse perché i trattati che la definiscono sono stati concepiti prima che prendessero forma le grandi ondate migratorie dal Sud del mondo.Ovviamente noi sappiamo che non c’è alternativa all’Euro-pa. La sua debolezza si cura dando vita a un’Unione che non sia tale solo sulla carta. Il problema è capire se i falli-menti insegnano qualcosa o nulla. Sulla Libia, lo abbiamo detto, l’Europa non ha brillato. Eppure il tema del risve-glio arabo, di questa confusa ma reale domanda di liber-tà e di modernità (forse non ancora di democrazia come noi la intendiamo), dovrebbe stimolare gli europei che si considerano a ragione la culla dei diritti dell’uomo. C’è un interesse politico e persino spirituale ad accompagnare una parte del mondo arabo verso l’appuntamento con il XXI secolo. Ma c’è anche un interesse economico palese: quello di allargare il mercato e di creare una straordinaria domanda di beni e servizi nel bacino del Mediterraneo.In condizioni normali questo sarebbe sufficiente a creare gli strumenti di una politica estera comune, il cui logi-co corollario sarebbe la formazione di un “cuore politico” dell’Unione. E quindi di un vero presidente dei Ventiset-te: un presidente effettivo, dotato di concreti poteri, non una figura un po’ triste e protocollare come l’attuale signor Von Rompuy. Solo le grandi crisi producono altrettanto grandi avanzamenti. E le vicende che investono il mondo arabo rappresentano un’occasione da non perdere. Anche se purtroppo la gestione della guerra libica ha dimostrato, almeno nella sua prima fase, che i maggiori Paesi europei hanno imboccato una via diversa e probabilmente sbaglia-ta, una strada al termine della quale non ci sarà un’Europa più unità, bensì più impaurita. E chiusa in se stessa.Ci vuole in ogni caso un pizzico di ottimismo. E chi è ottimista guarda al bicchiere mezzo pieno. Sostiene che è inutile lamentarsi ogni volta che l’Europa dimostra di non essere pronta per agire con una voce univoca sul palcosce-nico mondiale. Meglio soffermarsi sugli aspetti positivi. Sia pure a piccoli passi, l’integrazione fa progressi: per-ché non è facile raccordare fra loro ventisette nazioni (e si capisce quale errore sia stato il frettoloso allargamento). L’ euro ha rappresentato una svolta storica e fin qui l’U-nione non è stata sopraffatta dalle crisi debitorie di alcuni Paesi membri. Qualcosa vorrà dire. Tutto vero. Però l’Eu-ropa di domani dovrà imparare a far sognare i suoi popoli. Dovrà essere una grande cattedrale politica e non un re-gistro contabile. Per tale obiettivo la strada da percorrere è ancora lunghissima e il conflitto nel Mediterraneo, alle porte di casa nostra, lo dimostra in modo drammatico.

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storie di aziende

una grande

nuvolail mondo è

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di Eduardo Grottanelli de’ SantiGiornalista, geografo, autore di guide turistiche

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Fino a una quindicina di anni or sono i pochi che cono-scevano il nome Aruba lo collegavano a un’isoletta dei Ca-raibi, spiagge bianche, palme e mare cristallino. Insomma, un paradiso per vacanze esclusive. Oggi, l’isola continua ad accogliere i suoi fortunati ospiti, ma il nome noto in tutto il mondo – e non solo tra gli utilizzatori di internet e dei servizi alla rete connessi – è quello di un’azienda di Bibbiena che, attualmente, si colloca fra le prime 5 socie-tà di Hosting in Europa e nella Top 10 mondiale. E che, naturalmente, è al primo posto in Italia, oltre che nella Repubblica Ceca e in quella Slovacca, per numero di siti in Hosting e per numero di domini registrati.

Una storia imprenditoriale che non nasce nella Silicon Valley ma a Soci, una frazione a due passi da Bibbiena, nota una volta per i telai, che lavoravano giorno e notte a pieno ritmo, e che ora è una culla delle tecnologie in-formatiche e della comunicazione. Come racconta Ome-ro Narducci, responsabile dell’area fi nanziaria di Aruba, «questa straordinaria avventura nasce nel 1994, quando abbiamo iniziato come piccolo provider di connettività internet. Aruba ha preso poi questo nome nel 2000, co-minciando a ospitare siti sui propri server. In seguito a una serie di acquisizioni, avvenute negli anni, il gruppo oggi conta oltre 14 marchi nel settore dell’Hosting e della gestione dei domini, ovvero degli indirizzi internet dei siti web. Aruba è una società che offre servizi di Web Hosting, e-mail e registrazione nomi a dominio, in parole povere creiamo e vendiamo siti informatici. Ma offriamo anche servizi di posta elettronica, connettività, server dedicati, posta elettronica certifi cata e fi rma digitale. Dietro ci sono decine e decine di tecnici, che hanno determinato la cre-scita del gruppo, diventato leader italiano e fatto scalare posizioni su posizioni nel ranking mondiale del settore».Le cifre parlano da sole: 1.650.000 domini registrati e mantenuti, 1.250.000 siti attivi in Hosting, 5.000.000 ca-selle e-mail, 5.000 server gestiti, oltre un milione e mezzo

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storie di aziende

Uno dei punti di forza di Aruba è sicuramente costituito dalla sua capacità di individuare per tempo nuovi servizi ad alto valore aggiunto, anticipando le tendenze del mercato, per poi presentarsi con un’offerta di servizi a costi anche sensibilmente inferiori rispetto a quelli dei concorrenti.

di clienti in Italia e nel mondo. «Quella dell’internaziona-lizzazione – spiega ancora Omero Narducci – è stata un po’ una scelta obbligata, in considerazione delle dimensio-ni raggiunte dall’azienda e dalle buone opportunità offerte dai nuovi mercati, a cominciare dai Paesi dell’Est europeo. L’ azienda vanta infatti la leadership nei mercati della Re-pubblica Ceca e Slovacca e una presenza consolidata in Polonia e Ungheria, grazie ad acquisizioni di società locali. Un ottimo posizionamento è stato inoltre raggiunto anche in Spagna, Germania e Inghilterra».Le ragioni del successo sono molteplici. Innanzitutto, es-sere stati capaci di entrare in un mercato come quello dei servizi collegati a internet nell’esatto momento in cui la rete conosceva il suo massimo boom e la richiesta di con-nettività schizzava a livelli assolutamente imprevisti. Poi un ottimo supporto tecnologico e competenze in grado di fare fronte a richieste in continua crescita. Ma forse, soprattutto, una politica commerciale fortemente aggres-siva, in grado di scompaginare le regole fino ad allora dominanti e di offrire prodotti e servizi a costi partico-larmente convenienti, contribuendo così a creare nuove esigenze e bisogni che venivano poi puntualmente soddi-sfatti. Senza poi trascurare un uso attento della comuni-cazione, attraverso un utilizzo capillare del web marketing ma facendo anche ricorso a fortunate campagne promo-zionali e televisive. In ogni caso, uno di punti di forza di Aruba è sicuramen-te costituito dalla sua capacità di individuare per tem-po nuovi servizi ad alto valore aggiunto, anticipando le tendenze del mercato, per poi presentarsi con un’offerta di servizi a costi anche sensibilmente inferiori rispetto a quelli dei concorrenti. Un esempio in questo senso è stato, per esempio, l’azione svolta nei confronti della posta elet-tronica certificata, il sistema attraverso il quale è possibile inviare e-mail con valore legale equiparato a una racco-mandata con ricevuta di ritorno. Questo sistema presenta delle forti similitudini con il servizio di posta elettronica “tradizionale”, cui però sono state aggiunte delle caratteri-stiche tali da fornire agli utenti la certezza, a valore legale, dell’invio e della consegna (o meno) dei messaggi e-mail al

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storie di aziende

Riguardo alle prospettive future non sembra esserci dubbi: la parola d’ordine con cui tutti dovremo abituarci a convivere è Cloud Computing. «Anni fa internet veniva spesso rappresentata come una nuvola (cloud): una sorta di gigantesco etere nel cielo, ben al di là della casa o ufficio...».

destinatario. «La firma digitale – dice ancora Omero Nar-ducci – rappresenta un’importante pietra miliare non solo nell’e-government ma anche nel settore privato e dei profes-sionisti. Dal 2007, anno della sua istituzione, si è assistito a una rapida evoluzione di questo settore, e subito abbiamo cercato di essere all’avanguardia per supportare al meglio i nostri clienti nello svolgimento delle nuove procedure te-lematiche. Con il sistema di Posta Certificata è garantita la certezza del contenuto: i protocolli di sicurezza utilizzati fanno sì che non siano possibili modifiche al contenuto del messaggio e agli eventuali allegati. L’ esperienza acquisita negli anni ci ha consentito di mettere in campo da subito un’offerta qualificata, a un prezzo sicuramente molto inte-ressante, e i risultati sono stati molto positivi».In un territorio il cui tessuto produttivo si incentra soprat-tutto su piccole e medie aziende, Aruba rappresenta una realtà occupazionale di tutto rispetto: oltre 400 addetti, con importanti opportunità di impiego soprattutto per quanto riguarda i giovani con specializzazioni nel settore informatico. Il cuore di questa ramificata rete di connessio-ni, estesa su mezza Europa, è rappresentato dalla webfarm di via Ramelli, ad Arezzo, alle spalle della vecchia sede del-la UnoAerre. Ma a seguito di un investimento di oltre 10 milioni di euro, è prevista per l’estate del 2011 l’apertura

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di una nuova farm in via Gobetti, sempre ad Arezzo. In uno spazio su due piani di complessivi 4.000 mq, costruito secondo standard di eccezionale livello e dotato delle più moderne tecnologie, saranno ospitati fino a 40.000 server, oltre agli uffici commerciali e tecnici. La farm di Arezzo è connessa a internet con un collegamento da 50 Gigabit al secondo, attraverso tre principali carrier nazionali. Aruba ha anche altri datacenter a Bologna e Milano che hanno però funzioni specifiche, rispettivamente di recupero dei dati e di supporto, e una ulteriore webfarm nella Repubbli-ca Ceca, che però serve principalmente l’Europa Orientale.Riguardo alle prospettive future non sembra esserci dub-bi: la parola d’ordine con cui tutti dovremo abituarci a convivere è Cloud Computing. «Anni fa – racconta Omero Narducci – internet veniva spesso rappresentata come una nuvola (cloud): una sorta di gigantesco etere nel cielo, ben al di là della casa o ufficio. Si tratta di una metafora deci-samente efficace: al giorno d’oggi i dati e i programmi non devono necessariamente risiedere nel proprio PC; possono infatti essere “ospitati” (o memorizzati) su internet o, come si suol dire, in the cloud. Tutto questo significa semplice-mente gestire esternamente (online) le applicazioni e le attività, invece che all’interno delle proprie quattro mura.

I vantaggi non sono pochi. In altre parole, un Hosting servi-ce provider gestisce tutta l’architettura informatica in sosti-tuzione del privato o dell’azienda che deve solo accedere ai suoi documenti e programmi via internet. Se non se la sen-te di investire ingenti capitali in tecnologia, i servizi in Ho-sting consentono di beneficiare di servizi IT normalmente riservati solo alle grandi aziende ma a costi decisamente in-feriori. Ci sono già versioni cloud (o in Hosting) dei più dif-fusi programmi, quali CRM per la gestione delle relazioni con i clienti, Exchange per la posta elettronica, SharePoint per il portale aziendale e così via. Indipendentemente dalla scelta sarà possibile beneficiare di un abbassamento dei co-sti, avendo sempre le versioni più aggiornate dei program-mi, senza bisogno di supporto IT per l’aggiornamento. La sicurezza dei dati diventa un problema traferito all’Hosting provider, mentre l’accesso ai servizi potrà essere effettuato in ogni momento e in ogni luogo: lavori sui tuoi documen-ti via web, da casa o in qualsiasi altro luogo». A sentire Aruba c’è davvero da credere che i dati potranno anche essere tra le nuvole, ma le soluzioni in Hosting conti-nueranno a tenere i piedi ben piantati per terra. Nella ferti-le (di idee) e feconda (di risorse) terra toscana, a Bibbiena, provincia d’Arezzo.

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innovazione organizzativa

di Dario Di VicoGiornalista inviato del Corriere della Sera

partneril fornitore

diventa

La formula del capitalismo delle reti sta incontrando un certo successo tra gli economisti e più in generale tra gli addetti ai lavori. Molto si deve al fatto che anche lessical-mente la nuova formula segnala con nettezza la necessità di evoluzione di un sistema che non può più essere ana-lizzato/ancorato alle vecchie categorie del Novecento. Il manifatturiero italiano ha retto all’urto della Grande Crisi, non abbiamo avuto né la deindustrializzazione che tanto si temeva e nemmeno quel rattrappimento che pure in molti davano per scontato. Ma è evidente che sia la re-cessione sia il nuovo protagonismo dei Paesi emergenti ci chiedono discontinuità, ovvero la capacità di tener fermo

l’insediamento tradizionale e di supportarlo però con una robusta dose di innovazione. Diamo per scontato che il tratto caratteristico e principale dell’innovazione riguardi il rapporto con le tecnologie e in questo campo ci soc-corrono (fortunatamente) degli esempi virtuosi. La nostra meccanica strumentale riesce non solo a restare competiti-va ma ha fatto della capacità di incrociare tecnologie e cul-ture diverse tra loro un suo inequivocabile punto di forza. E con questa consapevolezza può addirittura proiettarsi alla conquista del mercato cinese. Ma anche in campo chi-mico è avvenuto qualcosa di significativo. Lasciatici alle spalle gli anni della nostalgia per la grande chimica di base siamo riusciti a spostarci più a valle e a dar vita a un’indu-stria chimica specializzata, capace di detenere leadership tecnologiche globali seppur di nicchia.

La cultura della reteAccanto però ai salti tecnologici sia di processo sia di prodotto un ruolo importante lo ricopre l’innovazione organizzativa. Se si vuole affrontare in maniera moderna il futuro dell’industria della fornitura e della subfornitu-ra, larghissimamente presente in Italia, bisogna tirare in ballo una logica, per l’appunto, da capitalismo delle reti ed esaltare la capacità di creare valore anche nelle fasi

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il fornitore

della lavorazione a monte. La fornitura deve sicuramente evolvere verso una partnership con l’azienda committen-te e questo è possibile nel momento in cui si parteci-pa alla fase di progettazione e si investe sulla qualità. L’industria del mobile e della luce in Italia già lo fanno, il fornitore si siede al tavolo della progettazione insieme al top designer ed è stimolato a dare il meglio di sé. La cura della filiera è quindi il primo ingrediente di un moderno capitalismo delle reti che inserisce il momento della pro-duzione o dell’assemblaggio nella grande fabbrica in un continuum di elaborazione progettuale.Ma è oltre i cancelli degli stabilimenti che la cultura delle reti è ancora largamente deficitaria in Italia. Siamo dal pun-to di vista logistico quasi analfabeti e non ci rendiamo conto che, per esempio, dietro gli straordinari successi dell’indu-stria tedesca c’è un apparato logistico di prima qualità ed efficienza. Purtroppo in questi anni abbiamo avuto l’inse-

diamento sul nostro mercato di molti operatori stranieri del settore che però non si sono curati di far crescere il territorio e oggi ci ritroviamo in condizione di subordinazione. Una nuova cultura delle reti ci spinge, infine, a un check up delle nostre strutture di distribuzione. Legati storicamente a una cultura fordista ci siamo occupati molto del prodotto ma pochissimo della sua commercializzazione e del suo arrivo in tempi certi negli scaffali giusti. Questa sottovalutazione è ancora presente oggi in molti discorsi che si sentono fare a proposito del made in Italy: pochi si pongono il problema dei binari commerciali lungo i quali le nostre produzioni possano davvero entrare sui mercati giudicati più promet-tenti, Cina e India su tutti. Sono queste le reti che decide-ranno del futuro del nostro capitalismo. L’ esperimento (pri-vato) di Eataly nel campo del food va sicuramente in questa direzione ma una rondine notoriamente e pur volendolo non riesce a far Primavera.

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imprese

di Luciano HinnaDocente di Economia delle aziende all’Università Tor Vergata di Roma

La responsabilità sociale delle imprese, RSI o CSR come viene definita a livello internazionale, dagli anni novan-ta del secolo scorso a oggi ha subito varie interpretazioni e chiavi di lettura. Nel passato, il creare non solo valore economico per gli azionisti, ma anche valore sociale per la società civile, è servito a gestire il consenso e a incremen-tare il valore di attività intangibile: la reputazione di cui si gode sul mercato. In periodo di contingenza economica positiva, infatti, molte aziende si sono avvicinate con slan-cio alla CSR a volte per imitazione e per moda più che per convinzione profonda. La recente crisi economico-finanziaria ha impattato pe-

l’impresatra innovazione

e servizio

santemente e ha evidenziato il fallimento economico e morale di molte aziende, non lasciando più margini per mode e imitazioni. Si è realizzata, senza volerlo, una se-lezione darwiniana: le aziende orientate alla CSR senza convinzione sono scomparse dall’elenco di quelle che si distinguevano per essere socialmente responsabili, mentre quelle convinte da sempre hanno proseguito sulla strada intrapresa.

Nuove forme dell’etica d’impresaIn momenti di crisi era logico che questo accadesse: la CSR si colloca nello spazio etico dei comportamenti d’impresa, nello spazio del non richiesto per norma. La grave congiuntura economica ha messo le aziende in se-rie difficoltà: alcune sono fallite e altre, pur di rimanere sul mercato, hanno infranto la barriera giuridica e hanno rischiato non il “peccato” della sfera etica, ma il reato della sfera giuridica – lavoro nero, evasione fiscale, smal-timento irregolare dei rifiuti nocivi, scarsi controlli di qualità ecc. Ora è chiaro che, se non si riesce a rispettare le leggi, non si può pretendere, da parte di quelle stesse imprese borderline, il rispetto dello spazio etico. L’ etica, si sa, viene sempre e solo dopo l’equilibrio economico e l’ottemperanza delle norme: essa sta all’economia come

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Nel passato, il creare non solo valore economico per gli azionisti, ma anche quello sociale per la società è servito a gestire il consenso e a incrementare il valore di attività intangibile: la reputazione di cui si gode sul mercato.

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imprese

la schiuma sta alla birra, se non c’è birra non ci può es-sere schiuma. Se si fa fatica a raggiungere l’equilibrio economico diventa difficile perseguire obiettivi etici, so-prattutto se si tiene conto che l’etica è una moneta che paga nel medio e lungo periodo, mentre nel breve costa in termini di scelte, di impegno e di comportamenti.La domanda che vale la pena di porsi a questo punto è se, in situazioni di crisi economica come quella attuale, c’è ancora spazio per la responsabilità sociale di impresa. La risposta è positiva come dimostra la realtà, anche se con declinazioni diverse dal passato. I più recenti orientamen-ti, infatti, sembrano dimostrare che un orientamento alla CSR paga anche nel breve, a condizione che venga letta come occasione per innovazione di prodotto e di servizio. Questo non è vero per tutte le imprese, poiché è neces-sario che si realizzi la combinazione di due elementi: un orientamento spinto all’innovazione e un’interiorizzazio-ne dei valori della CSR. Un solo elemento, da solo, non è sufficiente.

La qualità del servizioPensare la CSR come occasione per innovare un prodot-to o un servizio rappresenta l’evoluzione logica della sta-keholder engagement, l’ultima frontiera della CSR, quella che ha consentito alle aziende di consultare i propri sta-keholder su come doveva comportarsi l’impresa; oggi ci si confronta con loro su come deve essere un nuovo pro-dotto o un novo servizio. Gli stakeholder guardano con sempre maggiore attenzione alla qualità dell’impresa e dei suoi prodotti, e leggono la CSR come una delle dimensio-ni della qualità.

Il prodotto incorpora valori Un tempo si distingueva l’impresa che era responsabile du-rante tutto il processo di creazione della ricchezza da quel-la che lo era solo nel momento della sua distribuzione; oggi si può andare oltre i “valori astratti” e si può condividere l’idea di un prodotto e/o di un servizio nuovo socialmente responsabile che interiorizza valori. È sufficiente ricordare la proposta di fondi di investimento etici da parte delle banche di tutto il mondo per cogliere la valenza e la portata di tale atteggiamento. Ormai la cultura dei consumatori e

degli stakeholder è cresciuta in questi ultimi dieci quindici anni, grazie proprio agli interventi delle imprese social-mente responsabili. Essi sono in grado di percepire una diversa qualità di un prodotto intravedendo anche i valo-ri etici e sociali che il prodotto stesso, e non solo l’azien-da, diffonde. Questo è un approccio molto più realistico e pragmatico, che riveste una grande potenzialità. Passare dalla responsabilità sociale dell’azienda alla responsabilità sociale del prodotto è solo apparentemente scontato. Oggi il consumatore, quando compra un prodotto, vota e acquista anche i valori dell’azienda che sta dietro. Ciò significa che una qualsiasi impresa, anche senza volerlo, è comunque un’“agenzia” che intermedia valori, come la chiesa, il partito, l’associazione culturale o il circolo spor-tivo. Questo aspetto è la base del “marketing virale” che contagia, positivamente in questo caso, molto più velo-cemente di un’influenza, e incide sui comportamenti di interi segmenti di mercato. I quali, per la differente sen-sibilità accumulata in questi anni, sfuggono alle vecchie logiche del marketing ma non a quelle delle imprese più avanzate, che hanno interiorizzato la CSR nelle proprie strategie aziendali.Il fatto che l’azienda sia un agente che intermedia anche

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Pensare la CSR come occasione per innovare un prodotto o un servizio rappresenta l’evoluzione logica della stakeholder engagement.

“valori etici” non è una novità: ne sono esempio la Oli-vetti negli anni ‘50, già in pieno isolamento culturale, e il recente funerale del giovane manager del famiglia Ferrero di Alba; le aziende del settore non profi t lo fanno da sempre. Oggi si sta assistendo a un ritorno alle origini: non va di-menticato che un tempo, almeno in Europa, la respon-sabilità sociale era sul prodotto, solo dopo è migrata sui comportamenti dell’impresa, oggi si trasferisce di nuovo sul prodotto e offre spazi notevoli in un momento di crisi economica strisciante. Ripensare un prodotto in chiave di pari opportunità, come ha fatto la Body Shop alla fi ne degli anni novanta, o ripro-gettare un’auto pensando ai consumi e alle emissioni di CO2 come ha fatto la Fiat o l’Audi, signifi ca trasformare “nemici critici”, le donne nel primo caso e gli ambientali-sti nel secondo, in “alleati strategici”. L’ esempio del settore automobilistico è sotto gli occhi di tutti: la sensibilità degli ambientalisti ha consentito l’introduzione di leggi e agevo-lazioni con il risultato di accorciare la vita media del par-co macchine in circolazione e incrementare le vendite e i conti economici delle imprese che producono questi “nuo-vi prodotti sostenibili” che fanno sentire tutti un po’ più

Da sempre Banca Etruria opera nei territori e nel mercato con una cultura responsabile del fare impresa. Nel 2011 viene pubblicata

la tredicesima edizione del Bilancio Sociale, che riporta e documenta

il valore aggiunto creato e distribuito dalla Banca, rendicontando le

attività che esprimono la natura dell’Istituto, tipica del credito

popolare e cooperativo.

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il valore aggiunto creato e distribuito dalla Banca, rendicontando le

attività che esprimono la natura dell’Istituto, tipica del credito

popolare e cooperativo.

Sociale, che riporta e documenta il valore aggiunto creato e distribuito

dalla Banca, rendicontando le attività che esprimono la natura

dell’Istituto, tipica del credito popolare e cooperativo.

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imprese

buoni e responsabili, sia chi li compra sia chi li produce.Anche osservando attentamente la pubblicità televisiva non è difficile vedere prodotti “rigenerati” in chiave di CSR: una nota marca di yogurt ha pubblicizzato recente-mente una confezione senza involucro di carta che con-sente di risparmiare centinaia di tonnellate di carta all’an-no. In realtà quell’azienda, oltre che risparmiare alberi con il consenso degli ambientalisti, diminuisce i propri costi; si differenzia dai suoi competitors; comunica l’immagine di impresa responsabile; e infine rende la vita più facile a chi fa la raccolta differenziata. I prodotti incartati di eti-ca e responsabilità sociale, anche in un’economia in crisi, crescono a due cifre percentuali all’anno, e il processo è appena iniziato.

Competitività, cultura, sostenibilità La cosa interessante è che l’innovazione è contagiosa e dal prodotto si passa facilmente alle funzioni aziendali. Anche qui gli esempi non mancano: in periodi di crisi economica, quando le imprese sono costrette a fare ri-corso alla cassa integrazione o ai contratti di solidarietà e magari chiedere ai lavoratori di rinunciare ai premi di produzione, diventa difficile giustificare gli “investimen-

Per innovare un prodotto o una funzione serve ibridare tecniche e pensiero laterale, il tutto condito con una conoscenza profonda delle politiche degli strumenti di CSR.

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ti” in sponsorizzazioni culturali. «Con la cultura non si mangia», ha affermato un noto personaggio politico qual-che tempo fa, ma con la cultura si inventano strumenti nuovi per mangiare. Ebbene, interpretando la CSR, al-cune aziende hanno innovato: hanno fatto migrare le sponsorizzazioni culturali da strumenti di marketing a strumenti di gestione delle risorse umane; hanno lancia-to campagne di marketing sociale contribuendo, con la vendita dei loro prodotti, a raccogliere fondi per la cultu-ra; hanno promosso iniziative di co-marketing. Soprat-tutto hanno messo a disposizione del loro personale, in un’ottica di personal care, nuove iniziative culturali con grandi ricadute sul benessere organizzativo interno, sul clima aziendale, sul senso di appartenenza, riducendo nel contempo la confl ittualità interna. Il risultato è sta-to sbalorditivo: si è venduto di più un prodotto vecchio rigenerato in chiave CSR a clienti vecchi; si sono ottenu-te nuove quote di mercato vendendo lo stesso prodotto a clienti nuovi; si è risparmiato sulle sponsorizzazioni con ricadute di immagine sulla collettività di gran lunga superiori a quelle che si ottenevano prima, quando l’a-zienda si proponeva sul mercato culturale come semplice sponsor passivo invece che attore innovativo. Innovare con la CSR il prodotto o le funzioni è quindi una grande opportunità. Chi è partito prima con la CSR può contabilizzarsi certamente un vantaggio competitivo, ma è un’opportunità anche per quelle aziende che sono rimaste fredde alla CSR perché non ne vedevano ritorni economici immediati e che possono oggi spendersi in un tentativo di recupero: si prospetta loro la possibilità di gestire il consenso e fare affari. Il tutto in un momento di forte crisi economica. Ciò che serve è la sensibilità, che si fonda su una cultura nuova di impresa che, come tale,

non si può acquistare sul mercato, ma si apprende, si as-simila e si interiorizza con il tempo; per questo le imprese storiche della CSR sono avvantaggiate. Ciascun manager, sia esso del marketing, della logistica, delle risorse umane o della sicurezza, una volta presa confi denza con le leve della CSR può ripensare la propria strategia di offerta in maniera innovativa e originale, praticamente senza costi aggiuntivi.

Verso una società dell’ascoltoPer innovare un prodotto o una funzione serve ibridare tecniche e pensiero laterale, il tutto condito con una co-noscenza profonda delle politiche degli strumenti di CSR. Non è un caso che alcune delle associazioni imprendito-riali più attente stanno organizzando incontri e laboratori per aziende della stessa fi liera produttiva per offrire loro un’opzione tecnica utile per superare la crisi, senza perde-re però l’occasione per intermediare i valori della sosteni-bilità e della socialità.In conclusione: passare dalla responsabilità sociale dell’impresa alla responsabilità sociale di prodotto o sevizio signifi ca per l’azienda innovare avendo cura di ascoltare e interpretare ciò che gli stakeholder richiedono e da questo atteggiamento ne possono trarre vantaggio tutti: i clienti che vedono soddisfatta una loro domanda latente, frutto di una crescente presa di coscienza dei va-lori sociali dell’impresa; gli imprenditori e le imprese che possono contabilizzare risultati a breve e uscire prima degli altri dal tunnel della crisi; e, infi ne, l’intera società civile che recupera un rapporto con il modello capitali-stico entrato in crisi dopo tanti fallimenti morali ed eco-nomici, senza riuscire ancora a proporre nuovi modelli o alternative possibili.

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incontro con il cantante

Decisamente controcorrente, si definisce «l’unica rockstar italiana». La sua “rivoluzione” iniziata a metà degli anni Ottanta, continua ancora oggi che è diventato un mito, l’eroe autentico capace di guadagnarsi la complicità di una folla di fan ai suoi concerti. Il suo linguaggio è il rock e la band il mezzo di espressione. I suoi testi sono polemici, provocatori e ironici. Le 145 canzoni che ha scritto per sé e pubblicato fino ad oggi lo raccontano meglio di tutto, perché nelle sue canzoni mette sempre le sue emozioni, le sue esperienze. Anche in questa intervista Vasco “si racconta” e riesce a creare un senso di identificazione in chi lo ascolta.

la vitasecondoVasco

Può essere un cattivo maestro chi ti dice: «la vita è dura ma la vita è tua»? Oppure: «Devi affrontare la vita com’è nella realtà perché la vita è sempre un rischio»? Decisamente no, forse un tempo era un cattivo maestro, ma oggi Vasco Ros-si, monumento roccioso del rock italiano, è un uomo che si presenta senza trucchi, via il berretto calato sugli occhi e sulla pelata che adesso è portata con spavalderia, che vive gran parte dell’anno a Los Angeles (perché lì confessa che si prende una vacanza da Vasco Rossi), che diventa uno come tanti… Oggi Blasco, che nella vita non si è fatto mancare niente, confessa che con gli anni si cambia e perché no, si diventa anche saggi. «Sembrava la fine del mondo e sono qua meravigliato anch’io – dice Vasco Rossi e ride con quegli occhi chiari sempre un po’ infantili e fintamente smarriti – io ne ho viste di tutti i colori, sembrava che dovesse succedere chissà cosa, e invece eccomi qua» e dice questo mentre tormenta una sigaretta che quasi non fuma e giocherella con le parole della sua Eh già, sono ancora qua e non c’è niente che non va...

di Carlotta TedeschiCaporedattore presso la redazione Cultura e spettacoli del GR Rai

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Vasco Rossi, è “ancora qua” ma tutto è cominciato con Vita spericolata…«Quella canzone è stato proprio l’inno della mia vita – ri-sponde con la zeta dolce della sua Zocca – pensavo di aver finito dopo averla scritta, per me era il massimo, e since-ramente credevo di aver esaurito i miei impegni, diciamo impegni, perché non riuscivo più a buttar giù nulla. Poi un giorno di botto mi sono venute altre canzoni… Però c’è da dire che molti artisti scrivono un sacco di belle canzoni per tutta la vita, ma non hanno magari la fortuna di scrivere “la canzone della loro vita”. Vita spericolata, e già, andavo veloce in auto».

Adesso la macchina la bruciamo ma solo per ragioni di copertina o è un particolare ritratto di artista?«L’ artista è sempre in fuga dai posti di blocco del conservato-rismo, dell’omologazione, dai poteri che lo vogliono far star zitto, che non vogliono che dica quello che dice, e l’artista deve fuggire da queste forze che lo vogliono controllare, limitare, bloccare. E così mi fermo, brucio la macchina e brucio le tracce, perché potrei essere inseguito, scoperto, e così posso continuare a fuggire e tornare in clandestinità, unica situazione nella quale, se l’artista vuole essere libero, bisogna che viva. Perchè in clandestinità riesce ad essere sincero, onesto, indipendente».

Ma l’artista ha un compito da assolvere?«L’ artista è chiaramente quello che racconta la realtà, ma senza strumentalizzarla, quindi se si vuole conoscere la realtà si ascolta l’artista e si può vedere come va il mondo. E io non ho fatto altro, da sempre, raccontare quello che ci circondava e ci circonda oggi».

Vasco Rossi racconta senza retorica e ha, a suo modo, una forma di saggezza: negli ultimi dieci anni dice di essere maturato molto, ha divorato libri (tra cui la Recherche di Proust), si è innamorato della filosofia, tanto da scrivere il Manifesto futurista dell’uomo nuovo, severa riflessione sulla fede di un ateo.

Allora Vasco, cosa conta veramente nella nostra esistenza?«Bisogna darsi un codice, un sistema di valori della vita, perché io sono responsabile di quello che faccio, la vita la rispetto, fino a che lei rispetta me. Ecco, il rispetto per se stessi è fondamentale… e poi il coraggio, ogni tanto ci vuole un po’ di coraggio, perché con il coraggio puoi anche vivere appeso a un aquilone; un po’ di coraggio, perché ci siamo dimenticati che vivere non è facile».

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archeologia

di Marco HaggeGiornalista Rai, coordinatore della trasmissione Bell’Italia

la storia piedifatta a

Come tutto ciò che non si conosce abbastanza, la civiltà degli Etruschi è stata per secoli oggetto di una curiosità pari all’approssimazione dei dati disponibili, tale da la-sciare ampi spazi alla fantasia. Conseguenza, questa, del-la vera e propria damnatio memoriae con la quale, dopo averla conquistata e assimilata, Roma ridusse l’Etruria a un oggetto dai contorni indefi niti, buono tutt’al più come territorio di caccia per qualche erudito dai gusti originali: l’imperatore Claudio, studioso di antichità, veniva consi-derato una personalità bizzarra per questa sua passione non meno che per la sua indole aliena dalle follie tipiche dei suoi parenti.

Nuove metodologie d’indagineIl primo motivo per cui gli Etruschi ci appaiono così lon-tani ed enigmatici è ovviamente la loro lingua, della quale, come è noto, siamo in grado di pronunciare molte parole e perfi no intere frasi, ma senza capirne il senso, in attesa che una “stele di Rosetta” in versione greco- (o latino-) etrusca non ci userà la cortesia di ripetere il miracolo avvenuto due secoli fa per i geroglifi ci egizi. Il secondo motivo è costituito dai materiali edili usati: in massima parte fi ttili e lignei, ideali quindi per scomparire senza lasciare traccia. A parlare sono stati quindi i manufatti riemersi dalle tom-be: preziosi ma inevitabilmente parziali. Sarebbe come se la nostra conoscenza della civiltà egizia fosse basata solo sui corredi funebri, senza avere a disposizione né i grandi complessi templari, né le piramidi, né la possibilità di in-tendere i geroglifi ci.Tuttavia, oggi le nuove metodologie della ricerca storica hanno arricchito enormemente le fonti documentarie re-lative agli Etruschi. Una delle più recenti riguarda le vie di comunicazione: un reticolo che sta emergendo lenta-mente, confi gurandosi come un sistema effi cientissimo che connetteva aree lontane, alcune delle quali conside-rate fi no a non troppo tempo fa completamente estranee a quella civiltà.

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In fondo, l’estensione archeologica del trekking non è che una forma più profonda di viaggio: non solo nello spazio, ma anche nel tempo.

La Via Cava di Fratenuti, scavata nel tufo, a Pitigliano (Grosseto).

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archeologia

C’è da dire che anche in questo caso la romanizzazione si è fatta sentire: la rete viaria che l’Impero ha lasciato in eredità è talmente ampia e imponente da avere oscurato quella preesistente, che seguiva una logica territoriale irri-mediabilmente superata col passare dei secoli. In compen-so, si può dire però che l’oggetto della ricerca è, in qualche modo, davanti a tutti. Anzi, a portata di piede. Tanto che l’archeologia può prendere la forma di un particolarissimo trekking, il quale a sua volta può trasformarsi in uno stru-mento di studio archeologico. Può sembrare una trovata pubblicitaria o, al massimo, uno dei tanti buoni propositi che durano lo spazio di una stagione; ma in effetti la cosa è molto più solida di quanto si potrebbe credere a uno sguardo superficiale.

Lo snodo della civiltà mediterraneaIl portabandiera di questa proposta è Gianfranco Bracci: un esperto di trekking, fiorentino, che ha cominciato la sua carriera una trentina di anni fa ritrovando gli antichi sentieri montani della Toscana nell’ambito di quella che è poi diventata la GEA (Grande Escursione Appenninica). In fondo, l’estensione archeologica del trekking non è che una forma più profonda di viaggio: non solo nello spazio, ma anche nel tempo. Un sentiero, infatti, è una forma di antropizzazione che risponde a una logica precisa: quan-

do nasce, quando viene utilizzato e anche quando viene abbandonato, fino a diventare irriconoscibile. In questo modo è nato il progetto relativo a una direttrice fonda-mentale della civiltà etrusca, che è stata chiamata con una denominazione suggestiva la Via del Ferro. Un percorso di importanza vitale per l’Italia preromana, nascosto a pochi metri dalla superstrada Firenze-Pisa-Livorno e dall’auto-strada del Sole.L’ itinerario trekking è però solo la parte conclusiva di un lungo lavoro affrontato dagli studiosi. Sono loro i ti-tolari della metodologia scientifica che si intreccia con la conoscenza territoriale di una guida professionista. Grazie a questa collaborazione, ad esempio, il professor Michelangelo Zecchini è riuscito a individuare il tratto della strada etrusca che correva da Pisa fino a Capannori, lungo le pendici del monte Serra. Tutto nasce infatti incro-ciando, in materia interdisciplinare, i dati delle ricerche più recenti, in campo archeologico e antropologico, colle-gate con settori specialistici quali la paleotecnologia e, in generale, la storia della cultura materiale. Studi che, “con-taminandosi” a vicenda, stanno letteralmente riscrivendo interi capitoli dell’antichissima storia europea. Quanto alla Via del Ferro, il punto di partenza è uno snodo basilare della civiltà mediterranea: la scoperta del materiale che ha dato l’impulso alla siderurgia, e quindi

La Via del Ferro, di origine etrusca, ora recuperata come percorso di trekking o bike.

Nella pagina successiva,le Grotte di Populonia, presso il Golfo di Baratti, scavate nel tufo.

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La Via del Ferro, un percorso di importanza vitale per l’Italia preromana, nascosto a pochi metri dalla superstrada Firenze-Pisa-Livorno e dall’autostrada del Sole.

all’età detta del Ferro. I giacimenti più ricchi, in area me-diterranea, erano quelli dell’isola d’Elba, sfruttati a parti-re all’incirca dal 1000 a.C. Il grosso problema riguardava il trasporto verso oriente: le tecniche di navigazione non consentivano di affrontare il Mar Tirreno, troppo insidioso per le fragili imbarcazioni di tremila anni fa. Lo dimostra-no i relitti di cui sono disseminati i nostri fondali, che ogni tanto, grazie a qualche sub particolarmente fortunato, ci restituiscono tesori di altissima qualità, come i Bronzi di Riace o (per rimanere in area toscana) l’anfora di Baratti.Per un armatore, perdere la nave è sempre un gran dispia-cere: ma se l’equipaggio si poteva sostituire senza troppi problemi, il carico finito in fondo al mare non lo avrebbe riportato in superficie neanche Poseidone. Tuttavia, un mare molto più affidabile c’era, dall’altra parte dell’Italia: l’Adriatico. Mare interno, molto meno rischioso, facile da navigare sottocosta e anche ricco di isole, preziose come scali e punti di rifugio in caso di emergenza. Nasce così uno stupefacente sistema infrastrutturale che permetteva di trasportare il ferro nel Delta del Po, dove veniva imbar-cato verso il Mediterraneo orientale. È quella che, nel progetto di Bracci, viene definita appunto la Via del Ferro, anche se ovviamente serviva al trasporto di ogni tipo di merce. Una vera e propria “Due Mari” che, partendo dalla foce dell’Arno, arrivava a quella del Po.

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archeologia

Le suggestive rovine del sito archeologico di Baratti (Grosseto).

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Una strada lunga centinaia di chilometri, che è possibi-le recuperare a partire dai pochi tratti scampati all’ab-bandono.

Il viaggio delle merci fra terra e acquaMa come viaggiava il ferro elbano? Il minerale estratto nel-le miniere dell’isola veniva stoccato a Baratti: l’area indu-striale di Populonia, una delle città più ricche dell’Etruria, si trovava sulla spiaggia. Oggi è diffi cile rendersi conto della quantità di lavoro che vi si svolgeva: il mare ha man-giato gran parte dell’arenile, su cui rimangono i resti di po-chissimi forni, gelosamente protetti dalla Soprintendenza Archeologica. Qui il metallo veniva separato dal minera-le. Le scorie di lavorazione (ancora oggi visibili, qua e là, sull’arenile) si sono accumulate attraverso i secoli. Dopo la prima guerra mondiale si decise di prelevarle per ricavarne notevoli quantità di metallo che l’antica siderurgia non era in grado di separare dal minerale. Fu in questa occasione che venne scoperta la necropoli: le tombe a tholos, alcune davvero monumentali, erano sommerse dalle scorie. Fu l’inizio delle campagne di scavo che hanno portato al ri-trovamento di larga parte dell’area urbana di Populonia, in vetta al promontorio da cui si domina un tratto di costa vastissimo, con una vista spettacolare sull’Elba.Da Baratti, i semilavorati viaggiavano in direzione nord, via mare, alla volta della Bocca d’Arno (che una volta era molto più spostata verso Pisa). Per proseguire verso l’inter-no c’erano due opzioni: la navigazione fl uviale, risalendo il corso dell’Arno, o la strada che correva pochi chilometri a nord del fi ume, lungo le pendici del monte Serra fi no a Capannori. Per i carichi ingombranti, la navigazione fl u-viale era di gran lunga preferibile: l’Arno era molto più ric-co di acque rispetto a oggi, senza contare che il padule di Fucecchio, che si estendeva fi no a Montecatini, permette-va di raggiungere per via acquatica anche la Valdinievole.Ma il centro commerciale più importante si trovava all’at-tuale periferia di Prato, alle pendici della Calvana, dove oggi è stato costruito l’interporto di Gonfi enti. Il termine è una corruzione della parola latina confl uentes: qui si in-contravano due fi umi, all’epoca evidentemente navigabili, che ne facevano una località strategica. Durante gli sterri per la costruzione dell’interporto attuale sono venuti alla luce i resti di quello etrusco. Paradosso tutto italiano, gli scavi non sono accessibili, e probabilmente si rischia di dover rinunciare a conoscere quello che doveva essere un centro di importanza nevralgica. Uno dei motivi per cui si sa così poco dell’urbanistica etrusca, infatti, è la stratifi ca-zione romana-medievale-moderna che ha incapsulato gli antichissimi centri storici (un caso clamoroso è quello di Perugia: sotto il Duomo è venuta alla luce, ben conservata, una vera e propria città parallela). Forse Gonfi enti, abban-donata in epoca romana, avrebbe da dirci in merito molto più di quanto si possa pensare. E infatti testimonianze

Uno dei motivi per cui si sa così poco dell’urbanistica etruscaè la stratifi cazione romana-medievale-moderna che ha incapsulato gli antichissimi centri storici.

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archeologia

Ritrovamenti archeologici provenienti dagli scavi di Marzabotto (Bologna).

Nei laboratori del CNR si sta mettendo a punto un sistema di aerofotogrammetria laser per “radiografare” il territorio e ritrovare i tratti lastricati.

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etrusche sono venute alla luce in parecchie località vicine, da Artimino a Sesto, da Pizzidimonte (a due passi dalla città etrusca sul Bisenzio dove è stato rinvenuto il bron-zetto dell’Offerente oggi al British Museum di Londra) alle Croci di Calenzano.Tratti dell’antica strada commerciale si ritrovano ben con-servati nei boschi della Calvana e della Futa. Sono lastri-cati, larghi abbastanza da permettere lo scambio di due carri e procedono verso l’Appennino, con un percorso di crinale sostanzialmente parallelo all’autostrada del Sole che si intravede sulla destra, forte dei viadotti e delle gal-lerie che le permettono di avanzare trionfalmente dove gli antichi erano obbligati a rispettare la geografia e le curve altimetriche.

Sorprendenti scoperte sull’AppenninoL’ elemento che più salta agli occhi, in questo percorso che riemerge dalla profondità dei secoli, è il suo anda-mento simmetrico rispetto al crinale dell’Appennino. Sul lato emiliano, a Gonfienti corrisponde un altro importante snodo, cioè Marzabotto. Anche qui, gli scavi più recen-ti (condotti in maniera molto riservata, per evitare una pubblicità che potrebbe richiamare i malintenzionati) stanno rivelando un’importante struttura urbana, esat-tamente come a Gonfienti. Il corrispondente speculare di Capannori, in Emilia, è invece l’antica Fèlsina, cioè Bologna. Alla periferia della città sono venuti alla luce i resti di un enorme piazzale, organizzato per lo stoccaggio delle merci, dove la nostra Via del Ferro si incontrava con la cosiddetta «Proto-Via Emilia», cioè il percorso che sa-rebbe poi stato organizzato dai Romani nella via consolare che da Rimini viaggia verso Piacenza.Oggi Bologna è una città “asciutta”: il suo fiume, l’Aposa, è stato interrato nel Medioevo, quando il Comune cercava terreni fabbricabili per far fronte alle richieste abitative de-gli studenti e degli accademici che orbitavano sulla cele-bre università; ma, a quel tempo, il capoluogo dell’Emilia-Romagna, come parecchie altre città padane, possedeva uno scalo portuale nei pressi dell’attuale Salara (l’antico e

prezioso deposito del sale). Ovviamente la strada terrestre in uso nell’antichità pre romana è più difficile da ritrovare, in una pianura così densamente antropizzata e coltivata; tuttavia il modo, come vedremo, c’è.Ma intanto, seguendo Bracci, il suo collaboratore Marco Parlanti e Claudio Calastri, che oltre a essere un cammina-tore è prima di tutto un esperto archeologo in forza all’U-niversità di Bologna, siamo arrivati alla meta: la città in posizione speculare rispetto a Bocca d’Arno, cioè Spina. Siamo nel Delta del Po, vicinissimi a Comacchio. Un’area modellata dal Grande Fiume e dai suoi patteggiamenti con le maree dell’Adriatico. Anche Spina, come Marzabotto e Fèlsina, era una città etrusca: qui il ferro poteva imbarcar-si sulle più tranquille acque adriatiche e viaggiare verso i mercati orientali. E proprio in prossimità dell’area arche-ologica di Spina le tradizionali foto aeree hanno rivelato il tratto terminale di una strada che potrebbe essere proprio la Via del Ferro. Per avere conferma, basterebbe un buon saggio di scavo.Il quadro viario che emerge è tale, se non da riscrivere, al-meno da aggiungere elementi interessanti alla storia etru-sca. Certo, i tratti ritrovati vanno integrati con quelli rima-sti sottoterra, e non si può pretendere di buttare sottosopra tutta la valle dell’Arno e mezza pianura padana. Però nei laboratori del CNR si sta mettendo a punto un sistema di aerofotogrammetria laser per “radiografare” il territorio e ritrovare i tratti lastricati. Se non tutta la strada originale, il progetto permetterà almeno di ricostruire quella virtuale; e il trekking della Via del Ferro, che impiega 20 giorni per coprire la distanza da Baratti a Spina, potrà permettersi in futuro una precisione maggiore rispetto a quella attuale, che in alcuni tratti è forzatamente ipotetica. Ma anche per chi non è molto addentro alle questioni dell’etruscologia, rimane comunque la sorpresa e lo stu-pore per una Italia “parallela” rimasta sconosciuta per tan-ti secoli, e che torna a parlare grazie alle nuove metodo-logie scientifiche, come la Roma antica nel Rinascimento, e che promette un’avventura straordinaria nei luoghi più vissuti e più urbanizzati della vecchia Europa.

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problemi di lingua

di Elisabetta PeriniStudiosa di Dialettologia italiana

Sembrerebbe una questione molto semplice: perché se la carica di ministro, deputato, sindaco, segretario (di stato, di partito ecc.) è rivestita da una donna, non la possiamo chiamare, tutti, ministra, deputata, sindaca e segretaria? “Suona male”, dicono in tanti (donne comprese): in realtà ciò che suona male non è la lingua, ma l’idea che alcune parole, da sempre maschili e da sempre luogo di potere dei maschi, possano accreditarsi anche come luogo del “femminile”, come rappresentazione morfologica della presenza delle donne nei cosiddetti ruoli di potere.Per essere più chiari: la grammatica della lingua italiana prevede la possibilità di nominare le persone a seconda del

linguaggioal femminile

genere (partendo proprio da uomo/donna): infatti i nomi di professione declinati al femminile esistono da sempre, per quegli ambiti dove alle donne è stato “permesso” en-trare a pieno merito: il maestro/la maestra, il cameriere/la cameriera, il fi oraio/la fi oraia, l’operaio/l’operaia. Se questi nomi “suonano bene” e sono accettati da tutti, perché non dovrebbero farlo sindaco/sindaca? Non si infrange nessuna regola della fonologia (sindaca è uguale a monaca) come non esiste nessuna regola grammaticale che possa respin-gere un termine come avvocata, dal momento che la stessa grammatica accoglie tranquillamente la parola scienziata: entrambe le voci derivano dal modello del participio pas-sato che possiede, per natura, le connotazioni di genere e di numero.

Raccomandazioni disatteseSono passati più di vent’anni da quando, nel 1987, Alma Sabatini scrisse per la Presidenza del Consiglio e la Com-missione nazionale per la parità tra uomo e donna le Racco-mandazioni per un uso non sessista della lingua italiana e dove si dava una regola per i nomi di professione femminili:- evitare il maschile per posizioni di prestigio, quando esi-

ste il femminile, anche se esso indica mansioni inferiori (la segretaria, la governante);

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ha aggiunto anche un’annotazione fondamentale: non si deve impiegare la forma maschile quando si fa riferimento a una donna. In Germania, dopo la sua elezione, Angela Merkel fece introdurre il termine Bundeskanzlerin (femminile di Bun-deskanzler, sul modello già esistente nella lingua tedesca, Kellner/Kellnerin, cameriere/cameriera), nonostante nella Costituzione tedesca si parli solo di Bundeskanzler, al ma-schile. La Gesellschaft für deutsche Sprache nel 2005 l’ha eletta “parola dell’anno” e il Duden (il più prestigioso dizionario della lingua tedesca) l’ha accolta già nel 2004.Se c’è stata una presa di posizione così decisa in altri paesi, questa dovrebbe essere ancora più necessaria in Italia. Visto che nel nostro paese, per dare visibilità alle donne, dobbia-mo affi darci alle quote rosa (in tutta Europa si chiamano quote di genere e in Italia “rosa”: questo la dice lunga…) è venuto il momento di dare una “norma” anche all’uso sessista del linguaggio e a dare peso, visibilità e dignità alle raccoman-dazioni di Alma Sabatini, che hanno più di vent’anni, ma sono sempre attuali e scarsamente applicate.La ministra Gelmini è sbalordita, la presidente Marcegaglia è sicura, l’avvocata Bongiorno è impegnata, la sindaca Ier-volino è preoccupata, la segretaria Camusso è agguerrita, la magistrata Bocassini è determinata. Una donna, una profes-sione, un aggettivo declinato al femminile. La grammatica della lingua italiana è rispettata. La dignità delle donne pure. Semplice, no?

- evitare il maschile per cariche che hanno forma femminile (la senatrice, la scrittrice, la ricercatrice);

- evitare di usare al maschile i nomi che sono di genere sia maschile che femminile (la presidente, la parlamentare);

- evitare le forme in –essa se esiste, o si può formare, la forma in –a (ministra, sindaca e cariche militari: capitana, marescialla);

- i maschili in –sore possono avere il femminile in –sora (assessora, difensora);

- usare l’articolo femminile per i termini invariabili in –a, –e e i composti con capo- (la poeta, la vigile, la capo-stazione);

Non si tratta di stravolgere la lingua italiana, ma di mettere in pratica le regole che la grammatica della lingua italiana ci ha insegnato per la formazione del femminile:- i nomi che terminano in –o hanno il femminile in –a:

l’operaio/l’operaia, il maestro/la maestra quindi il depu-tato/la deputata, il magistrato/la magistrata, il ministro/la ministra;

- i nomi che terminano in –tore hanno il femminile in –trice: il pittore/la pittrice, il direttore/la direttrice quindi il senatore/la senatrice;

- i nomi che terminano in –e valgono sia per il maschile che per il femminile. È l’articolo che determina il genere: il cantante/la cantante, il preside/la preside quindi il presidente/la presidente, il giudice/la giudice, il vigile/la vigile.

Esempi esteriSembra tutto logico, ma invece è diventato evidente che non ci si può affi dare solo alle Raccomandazioni né al poli-tically correct: c’è bisogno di un cambiamento nel modo di leggere la realtà ed è là dove i media potrebbero svolgere un ruolo di primissimo piano Sarebbe auspicabile che anche dalle istituzioni italiane pre-poste allo studio della lingua italiana arrivasse una presa di posizione netta e decisa, come è successo in Spagna, dove la Real Academia Española nel 2005 non solo ha accolto a pieno titolo le forme femminili abogada, arquitecta ecc., ma

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etnologia

di Luigi M. Lombardi SatrianiGià professore ordinario di Etnologia presso l’Università La Sapienza di Roma.

Accingendosi a comporre la “tela di Penelope” dell’anali-si mitica, Claude Lévi-Strauss organizza Il crudo e il cotto come se fosse una partitura musicale. L’opera, com’è noto, porta la dedica: Alla musica. Dopo le due righe del penta-gramma troviamo: A la musique Choeur pour voix de Fem-mes / avec Solo (pour inaugurer la maison d’un ami). /Parole di Edmond Rostand. Musica di Emmanuel Chabrier.A l’Ouverture seguono una prima parte dedicata a «Tema e variazioni», una seconda parte che comprende una «So-nata delle buone maniere» e una «Sinfonia breve»; altre parti che comprendono, fra le altre, una «Aria in rondò», un «Doppio canone rovesciato», una «Toccata e fuga».

musica,poesia,

silenziL’ultima parte, la quinta, è denominata: «Sinfonia rustica in tre tempi»; i primi due sono un «Divertimento su un tema popolare» e un «Concerto d’uccelli».

L’opera musicale e il mitoPreliminarmente l’etnologo si sofferma sulla forte analogia della musica e della mitologia. «Quando […] suggeriva-mo che l’analisi dei miti era paragonabile a quella di una grande partitura, ci limitavamo a trarre la conseguenza lo-gica dalla scoperta wagneriana che la struttura dei miti si svela per mezzo di una partitura. Tuttavia, questo omag-gio preliminare conferma l’esistenza del problema più di quanto lo risolva. Secondo noi, la vera risposta risiede nel carattere comune del mito e dell’opera musicale»: esse-re «entrambe macchine per sopprimere il tempo». Esse, infatti, «costituiscono dei linguaggi che trascendono, cia-scuno a modo suo, il piano del linguaggio articolato, pur richiedendo, come questo linguaggio e contrariamente alla pittura, una dimensione temporale per manifestarsi. Ma questa relazione al tempo rileva una natura abbastanza singolare: tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita. Esse sono entrambe macchine per soppri-

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musica,

Vassily Kandinsky, Composition VII (1913),Museo dell’Hermitage, San Pietroburgo.Il titolo dell’opera si riferisce al mondo della musica tanto amata dall’artista convinto che le varie arti dovessero fondersi insieme.

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etnologia

mere il tempo. […] Traspare già come la musica somigli al mito, che supera anch’esso l’antinomia fra un tempo storico e compiuto e una struttura permanente». L’ etnologo rivendica anche una forte analogia della mitolo-gia e delle maschere. Certamente dobbiamo allo studioso francese una nuova maniera di guardare i miti, di analiz-zarli, di tentare di comprenderli. Può essere rilevato nel suo discorso anche il pericolo di una ipostatizzazione del mito.«Noi non pretendiamo quindi di mostrare come gli uomi-ni pensino nei miti, ma viceversa come i miti si pensino negli uomini e a loro insaputa.E forse, come pure abbiamo suggerito, conviene spingersi ancora più lontano, facendo astrazione da ogni soggetto per considerare che, in un certo modo, i miti si pensano fra di essi. Infatti, si tratta qui di portare alla luce non tanto ciò che c’è nei miti (senza essere, del resto, nella coscienza degli uomini), quanto il sistema degli assiomi e dei postu-lati che definiscono il miglior codice possibile, capace di dare una significazione comune a elaborazioni inconsce, che ineriscono a spiriti, società e culture scelti fra quelli maggiormente lontani l’una dall’altra». Con la tendenza a “spingere più lontano” problemi che egli stesso ha sollevato, Lévi-Strauss rileva: «Come l’opera musicale, il mito si sviluppa a partire da un doppio con-tinuo: uno esterno, la cui materia è costituita in un caso da circostanze storiche o ritenute tali che formano una

serie teoricamente illimitata da cui ogni società estrae per elaborare i propri miti, un numero ristretto di eventi perti-nenti; e nell’altro caso, dalla serie egualmente illimitata dei suoni fisicamente realizzabili, in cui ogni sistema musicale preleva la propria scala. Il secondo continuo è di ordine interno. Esso ha la propria sede nel tempo psicofisiologico dell’uditore, i cui fattori sono molto complessi: periodici-tà delle onde cerebrali e dei ritmi organici, capacità della memoria e potere d’attenzione». È ancora Lévi-Strauss a sottolineare: «Ma che la musica sia un linguaggio atto a elaborare messaggi, i quali sono com-presi, almeno in parte, dall’immensa maggioranza, mentre solo un’infima minoranza è in grado di emetterli, e che fra tutti i linguaggi questo solo riunisca i caratteri contrad-ditori d’essere ad un tempo intelligibile e intraducibile, fa del creatore di musica un essere simile agli dei, e della musica stessa il supremo mistero delle scienze dell’uomo, quello nel quale esse inciampano, e che custodisce la chia-ve del loro progresso.

Linguaggi, invenzioni, attitudiniSi avrebbe infatti torto a invocare la poesia per affermare che essa solleva un problema dello stesso ordine. Non tutti sono poeti, ma la poesia utilizza come veicolo un bene co-mune, che è il linguaggio articolato. Essa si accontenta di promulgare per il suo impiego certe costruzioni partico-

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lari. Viceversa, la musica si serve di un veicolo che gli ap-partiene in proprio, e che, fuori di essa, non è suscettibile di nessun uso generale. In linea di diritto se non di fatto, ogni uomo convenientemente educato potrebbe scrivere poesie, buone o cattive; mentre l’invenzione musicale pre-suppone attitudini speciali, che sarebbe impossibile far emergere qualora non siano presenti». Non invocheremo, quindi, la poesia per tentare improbabili analogie con la musica, anche per non essere smentiti dalle stesse parole lévi-straussiane. Riteniamo ugualmente, però, di evocare la poesia per altre più profonde ragioni. Concludendo l’Ouverture, l’etnologo francese, con la cifra ironica che gli è propria sottolinea: «Quando considero questo testo greve e farraginoso, mi viene spontaneo du-bitare che il pubblico ne ricavi l’impressione d’ascoltare un’opera musicale, come vorrebbero fargli credere l’ordi-namento e il titolo dei capitoli. Le pagine che seguono sembrano piuttosto evocare quei commenti scritti sulla musica a forza di parafrasi involute e di astrazioni sviate,

come se la musica potesse essere ciò di cui si parla, lad-dove il suo privilegio consiste nel saper dire quello che non può essere detto in nessun altro modo. Qua e là, la musica è perciò assente. Dopo avere fatto questa consta-tazione disillusa, mi sia per lo meno consentito, a tito-lo di consolazione, accarezzare la speranza che il lettore, superati i limiti dell’irritazione e della noia, possa essere trasportato (in virtù del movimento che lo allontanerà dal libro) verso la musica che è nei miti, quale l’ha preservata il loro testo integrale; e cioè, oltre che con la sua armonia e il suo ritmo, con quella segreta significazione che ho laboriosamente tentato di conquistare, non senza privar-la di una potenza e di una maestosità riconoscibili dalla commozione che essa infligge a chi la sorprende nel suo primo stato: annidata in fondo a una selva di immagini e di segni e ancora pregna dei sortilegi grazie ai quali può commuovere: giacché così non la si comprende».È un brano su cui occorre riflettere. Il mito ha un suo ritmo, una sua musicalità. A essa bisogna avvicinarsi con cautela, pena l’assoluta incomprensione.

Parole e silenziAlta celebrazione della parola, della sua musicalità, del suo attingere per vie per lo più sotterranee, e non tutte sondabili, il piano della poesia. Viene in mente un Elogio della parola, della sua seduttività celebrato secoli fa da un

Vassily Kandinsky, Giallo, rosso e blu (1925),Centro Pompidou, Parigi. L’armonia dei colori corrisponde a quella dei suoni musicali.

Tutto avviene come se la musica e la mitologia non avessero bisogno del tempo se non per infliggergli una smentita.

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etnologia

sofista della Magna Grecia che esalta Elena perché si è fatta sedurre, appunto, dalla parola di Paride. Molto tempo è passato da quella di Gorgia da Lentini, ma non è un caso che tra l’arcaico sofista e il contemporaneo etnologo vi si-ano significative convergenze.La cultura folklorica ha inteso il potere profetico della po-esia, la sua impunibilità da parte dei detentori del potere.Secondo una parabola siciliana, «Una volta Gesù Cristo con i dodici Apostoli trovandosi in campagna verso l’im-brunire vide una casetta e un contadino che stava cuo-cendo la minestra. Si diressero in quella direzione e Gesù Cristo disse:- Ci potreste sistemare per questa notte? - Perché no? – rispose il contadino –. Paglia ce n’è a suf-

ficienza e potrete sdraiarvici sopra; ma il problema è il mangiare, perché non ho altro che queste quattro fave nel pentolino, questo mezzo pane e questo mezzo quarto di vino.

- Non dubitare – gli disse Gesù Cristo – , ché il cibo non solo sarà sufficiente, ma addirittura ce ne sarà di avanzo. E detto fatto lo benedice e diviene subito così abbondante da buttarne.

Il contadino vedendo questo gran miracolo disse a Gesù Cristo:- Siete voi, forse, il figlio di Dio di cui tutti tanto parlano

per i gran miracoli che va facendo? E se così è sia benedetta la vostra venuta in questa casa, perché voi solo, o Signore, potete raddrizzare questa bar-ca. Io possiedo questa casetta, questi quattro filari di vi-gna, questo orticello che vedete e questo fazzoletto di terra e con tutto ciò non sono padrone di niente. In quel castel-lo lì di fronte abita un Cavaliere che mi porta con le spalle al muro: io semino e il seminato se lo mangiano i suoi pol-li e le sue vacche; io zappo la vigna e l’uva se la mangiano i suoi garzoni; io lavoro nell’orto e i suoi mulattieri me lo

riducono come una palma di una mano e tutto ciò perché vorrebbe che gli vendessi questo poderetto. Non essendo-ci riuscito quell’anima dannata incominciò a insidiare mia moglie… La femmina è canna! si sa; si lasciò convincere dalle sue parole ed ecco che un giorno mi pianta e se ne va a stare con lui. Che debbo fare? Se ricorro, i giudici sono dalla sua parte, se mi lamento i suoi campieri mi riducono come un Ecce Homo. Cornuto e bastonato, come dice il proverbio. Ora io vorrei, Maestro, che, senza mio perico-lo, potessi svergognarlo di fronte a tutti e raccontare a tutti le cose infami che va facendo.- Per fare questo, dice il Signore, dovresti essere poeta,

perché in questo mondo solo il poeta può dire la verità senza paura di nessuno; vieni qui, figlio mio, inginoc-chiati ché ti voglio dare il dono della poesia. Gesù Cri-sto lo fa inginocchiare, lo bacia in bocca e gli dice: Va’, ora sei poeta e puoi dire la verità di fronte a tutti, anche davanti agli stessi regnanti.

Da allora in poi il contadino incominciò a fare poesie ter-ribili contro il Cavaliere; il Cavaliere si rodeva tutto ma non aveva cosa farci perché il poeta quando dice la verità non ha paura di nessuno e dovette restituirgli la moglie e domandargli perdono». (S. Amabile Guastella, Le parità e

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le storie morali dei nostri villani, Ragusa, 1884; nuova ed. dal titolo Le parità morali, con intr. di I. Calvino, Milano, Rizzoli, 1977; su questa e altre parabole mi sono soffer-mato in L.M. Lombardi Satriani, Il silenzio, la memoria, lo sguardo, Palermo, Sellerio, 1979).La dimensione poetica viene percepita, cioè, quale unico spazio consentito per la testimonianza in termini di verità. La verità delle classi subalterne – che è la verità del do-minio, del desiderio, della tensione alla liberazione – non può affiorare allo scoperto in sé, non può costituirsi come linguaggio esplicito dell’eversione, né può affiorare impu-nemente nei tribunali, ma va ricercata nel non detto, nell’al-lusività, nella parola camuffata, nella metafora, nel silenzio.Il silenzio non è, non può essere assoluto. E, soprattutto, vi sono vari tipi di silenzi. È significativo come la cultu-ra folklorica, apparentemente così rumorosa, si costrui-sca attorno al Silenzio, personificazione di una negativi-tà (l’assenza del parlare, che comunque è avvertito come pericoloso per i poveri: a bocca chiusa non trasuni muschi, ribadisce un proverbio calabrese) e come sia essa stessa, e in maniera decisiva, silenzio. Un silenzio da interpretare, certo, ma, intanto realtà culturale alla quale accostarsi con discrezione, con timore e tremore, direi con suggestione

kierkegaardiana anche a costo di fare attribuire erronea-mente a tale discorso delle valenze mistiche.

Spirito e religioneSe spostiamo la nostra attenzione su un altro piano, po-tremo ricordare come il silenzio si accompagni alle teofa-nie in diverse tradizioni religiose, quali ad esempio quella cristiana e quella buddhista, pur con notevoli differenzia-zioni. (Sul tema del silenzio sacro e su quello correlativo della sospensione della vita cosmica, vedi A.M. Di Nola, Antropologia religiosa, Firenze, Vallecchi, 1974, in partico-lare il capitolo Sospensione della vita cosmica, pp. 173-199). All’apparizione del divino è omogenea la dimensione del silenzio, che sembra essere il riflesso speculare, mondano, della verità in sé, la «voce di silenzio» (gõl demanãh); il silenzio è voce di Dio. Silenzio sacro e silenzio folklorico si situano, nell’universo della chiacchiera, quale momen-to fondante di una verità cifrata, segno di un continente sommerso, tratto di un linguaggio dimenticato.Silenzio, dunque, come linguaggio da intendere, nell’in-scindibilità del processo di rilevazione-interpretazione, in un tentativo, consapevole della sua parzialità, di ridare voce a chi storicamente ne è stato espropriato, ai “muti della storia”.Anche la riflessione contemporanea si è impegnata a indi-viduare una tipologia di silenzi. Si pensi agli studi antro-pologici di Keith Basso, Zhan e Jamin, rispettivamente sul silenzio rituale degli Apache occidentali, su quello iniziati-co dei Bambara del Mali e su quello istituzionalizzato nelle associazioni segrete presenti in molte società del mondo; miei e di Geraci, rispettivamente sul silenzio folklorico e su quello nella poesia popolare siciliana. Non è un para-dosso, dunque, che i silenzi siano, nelle nostre culture, così particolarmente eloquenti.

Paul Klee, Ritmico, rigoroso e libero (1930).

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150˚ Unità nazionale

di Alberto NocentiniDocente di Glottologia all’Università di Firenze

Il 21 febbraio scorso una nutrita rappresentanza di studio-si, scrittori e cultori della lingua italiana è stata ricevuta nel palazzo del Quirinale dal Presidente Giorgio Napolita-no per celebrare solennemente l’anniversario della nostra Unità politica secondo la prospettiva della lingua nazio-nale, celebrazione che portava un titolo emblematico: La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale. Sotto l’abile e disinvolta regia di Giuliano Amato si sono avvi-cendati in brevi, misurati interventi i soliti noti, che hanno fatto risentire, come in un revival di Sanremo, i cari vecchi dischi del loro repertorio. Tullio De Mauro ha sciorinato le statistiche sulla competen-

italiano sì, ma con riserva

za e l’uso della lingua e del dialetto dall’Unità a oggi: all’in-domani dell’unificazione la lingua nazionale era conosciuta sì e no dal 10% della popolazione, che era per lo più dialet-tofona, mentre allo stato attuale l’uso prevalente, e quindi non esclusivo, del dialetto è circoscritto a meno del 30% dei parlanti. Luca Serianni ha fornito dati incoraggianti sulla diffusione dell’italiano all’estero, che guida il ploto-ne degli inseguitori dopo la pattuglia in fuga delle lingue europee di colonizzazione (inglese, francese, spagnolo, te-desco) e sulla fortuna di alcuni italianismi, come pizza, che hanno raggiunto i paesi più remoti (su mafia, altra nostra bandiera, è stato mantenuto un omertoso silenzio). Um-berto Eco ha delineato, più per giocosa simulazione che per intima convinzione, qualche scenario inquietante sul futuro della nostra lingua, insidiata da un lato dall’insor-gere del separatismo dialettofono e dall’altro dall’affermarsi delle brachilogie balbettanti dei messaggini telefonici.

La televisione crea il linguaggioLa sequenza degli interventi è stata opportunamente in-terrotta per allietare la vista e l’udito degli astanti (i vecchi professori non sono, di solito, un bel vedere né un bell’u-dire) con un documentario confezionato da Giovanni Mi-noli sull’italiano in TV e con una serie di brani dei nostri

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Non è mai troppo tardi e Lascia o raddoppia? hanno assolto un compito formativo paragonabile se non superiore, per effetti immediati sul piano della quantità, ai Promessi Sposi e a Cuore, costringendoci ad accostare Alberto Manzi ad Alessandro Manzoni e Mike Bongiorno a Edmondo De Amicis.

Alberto Manzi in Non è mai troppo tardi.

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150˚ Unità nazionale

letterati più insigni fra Ottocento e Novecento, declamati da famosi attori di cinema e di teatro. Il messaggio più per-suasivo e carico d’informazione dell’intera mattinata è stato il documentario, che con prepotente oggettività ha mostrato come la televisione sia stata lo strumento più efficace per il processo d’integrazione linguistica del Bel Paese: in partico-lare, se è lecito fare confronti irriverenti, trasmissioni come Non è mai troppo tardi e Lascia o raddoppia? hanno assolto un compito formativo paragonabile se non superiore, per effetti immediati sul piano della quantità, ai Promessi Sposi e a Cuore, costringendoci ad accostare Alberto Manzi ad Ales-sandro Manzoni e Mike Bongiorno a Edmondo De Amicis.Questa in sintesi la cronaca dell’evento, che si iscrive nel quadro delle celebrazioni per i 150 anni di Unità nazio-nale con l’intento di risvegliare un orgoglio che risulta ti-mido e di suscitare un entusiasmo che ha manifestazioni tiepide. Già, perché man mano che l’anniversario trascor-re, appare sempre più chiaro che gli Italiani non sono così convinti e partecipi di queste celebrazioni unitarie nono-stante il grande sventolio di tricolori e le esecuzioni a raffi-ca dell’Inno di Mameli. Non vorrei essere frainteso: non si tratta di essere disfattisti o autolesionisti, ma di compren-dere chi siamo noi Italiani attraverso la nostra storia. Dico subito che ha torto chi sostiene che gli Italiani siano insen-

sibili o indifferenti nei confronti dell’identità nazionale; il fatto è che questa, nella maggior parte dei casi, viene dopo un’altra identità, un’altra appartenenza, che hanno moti-vazioni storiche ben più profonde di quelle rappresentate dall’epopea risorgimentale; epopea che oltretutto è stata messa in soffitta dalle istituzioni, snobbata dai professori di storia e rispolverata per l’occasione come la camicia ros-sa del bisnonno garibaldino.

L’eredità localisticaL’ elemento di continuità che ha caratterizzato gli abitanti della Penisola dalla caduta dell’Impero Romano alla costi-tuzione del Regno d’Italia è, detto in due parole, l’identità municipale. Il radicamento nel municipio o castello o corte o parrocchia ha permesso a un “volgo disperso” di mante-nere la propria identità attraverso secoli di invasioni deva-statrici, di dominazioni aliene, di spostamenti arbitrari di confini: una cerchia di mura, la riva di un fiume, il passo impervio in una catena di monti hanno rappresentato un orizzonte certo e definito entro cui fissare i confini della propria esistenza in continuità con quella dei padri e dei nipoti. Rispetto a questi ambiti facili da riconoscere e da dominare nozioni come quelle di stato o di nazione sono risultate astratte, vaghe fino a suscitare indifferenza: «Viva

Nelle due foto, uomini e donne che imparano a leggere e scrivere con il supporto di programmi televisivi educativi promossi dal governo.

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L’ adozione di una lingua nazionale non poteva essere immediata in una popolazione costituita per tre quarti da cittadini analfabeti e residenti stanziali nelle campagne, ma è stata un graduale e faticoso processo di diffusione favorito dalla scolarizzazione.

la Francia, viva la Spagna, purché se magna». Nessuna meraviglia dunque, se, dopo circa quindici secoli di vicen-de simili, si scopre che l’Italia nata dal Risorgimento non è una “nazione forte” e che il sentimento di italianità dei suoi cittadini, uniti a loro insaputa e in molti casi a loro malgrado, non è profondo.La lingua ha seguito le stesse vicende. Il quadro dell’Italia linguistica delineato da Dante nel De vulgari eloquentia è quello di tanti volgari municipali nati dalle ceneri del la-tino, nessuno dei quali ha la supremazia e il potere unifi-cante che il latino ha avuto. Ma la storia cambia, secondo tempi e percorsi non programmati e previsti, ma cambia. L’ utopia di un “volgare illustre”, espressa da Dante, si rea-lizza due secoli dopo la sua morte e in gran parte per me-rito suo, quando l’élite culturale italiana decide di adottare il fiorentino come lingua letteraria. E quando, tre secoli più tardi, prenderà corpo l’utopia dell’Unità nazionale, c’è già pronta a disposizione una lingua che i futuri cittadini italiani potranno condividere.

Permanenze dialettaliL’ adozione di una lingua nazionale non poteva essere im-mediata in una popolazione costituita per tre quarti da cit-tadini analfabeti e residenti stanziali nelle campagne, ma è

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150˚ Unità nazionale

Meglio di qualsiasi disquisizione scientifi ca o di qualsiasi polemica dietrologica queste quartine calabresi del 1830 illustrano il contrasto fra il dialetto e la lingua uffi ciale, letteraria, standardizzata:

Il contrasto lingua-dialetto

Mali di tia non dissia mia dassami stari:non mi stari a frusciarich’ jja accunto.Eu sempre l’accettaica sii megghi di mia;non tanta protarianu mi sbrigogni.Di tia n’ du fazzu stimamandu li mia cotrarid’Italia p’impararilu linguaggiu.Non mi negai pe goffalinguazza scancaratasquajata, scafozzatae puru prja.Dissi ch’eu su la razzae tu si lo sotizzaca tu si lo pastizzued eu cipuja.Dissi ca cui s’arrambulasempre intra grassezzadisia per vurdizzaerbe scunduti. Tu sai di cui parrava: la grassa era di tiae sulu era di mialu scundimentuSai picchi piaccia a tutti?si siccano di tia e cui si vota a miapigghia rispiru.Tu scardi l’eleganza,ti voi mettiri l’ali;eu parru naturalie da nu gustu.

Male di te non dissia me lasciami stare:non starmi ad annoiareche stia in sussiego.Io sempre l’ho acettatoche sei meglio di me;non tanta superbianon mi umilii.Di te io faccio stimamando i miei ragazziper imparar d’Italiail linguaggio.Non mi negai per goffalinguaccia sgangheratasguaiata, acciabattatae anche peggio.Dissi che son la rapae tu sei la salsiccia,che tu sei il pasticcio,io la cipolla.Dissi che chi si rotolasempre dentro la grasciadesidera per leccorniaerbe selvatiche.Tu sai di che parlavo:la grascia era la tuae solo era la miala selvatichezza.Sai perché piaccio a tutti?si saziano di tee chi si affi da a meprende respiro.Tu cerchi l’eleganza,tu vuoi metterti l’ali;io parlo naturalee do piacere. Una madre di famiglia

analfabeta aiutata dal fi glio a fare i compiti.

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stata un graduale e faticoso processo di diffusione favorito dalla scolarizzazione e dall’emigrazione interna, a sua volta causata dalla conversione all’economia industriale. E questo processo è necessariamente avvenuto a scapito dei dialetti senza però decretarne automaticamente l’estinzione come in una lotta per la sopravvivenza. Il prezzo pagato è stato il compromesso, che si è realizzato attraverso il bilinguismo e l’interferenza. Il bilinguismo perfetto, in cui il parlante con-serva intatta la parlata locale per gli usi domestici e acquisi-sce in modo compiuto la lingua nazionale per tutte le altre necessità comunicative, è fenomeno raro, quasi utopistico. Il caso più comune è l’interferenza, cioè l’adattamento della lingua nazionale alla propria parlata locale. Il compromesso ha consentito di conciliare l’identità mu-nicipale con quella nazionale, frammentando l’italiano in tante varietà compatibili fra loro e ogni parlante si sente legato alla propria varietà da un duplice vincolo di lealtà, quello municipale e quello nazionale. Si sbaglia, perciò, chi sostiene che gli Italiani, per usare un’espressione forte, non amano o non sono orgogliosi della propria lingua na-zionale: il fatto è che la lingua nazionale non è la stessa per tutti o lo è solo in modo astratto e virtuale. Per averne la conferma è suffi ciente che ognuno interroghi se stesso con obbiettiva sincerità. Se ripenso alla mia adolescenza, che rappresenta il momento in cui la competenza linguistica si fi ssa in maniera defi nita e irreversibile, l’italiano, ben distinto dal dialetto locale, era e non poteva essere altro che quello che si parlava nel mio quartiere, nella mia città e rispetto ad esso l’italiano parlato nelle altre località era una deviazione più o meno aberrante secondo la distanza e la differenza.Dunque, fatta eccezione per le comunità alloglotte che sen-tono forte il legame con un’etnia diversa da quella statale, come gli alto atesini della provincia di Bolzano, la lealtà (più che l’amore) alla lingua nazionale è di fatto rispettata dai cittadini italiani. Lealtà rispettata anche dal leghista più infatuato del proprio lumbard, il quale ha ben presenti due fatti: che il suo lumbard, varcata la soglia domestica, non sarebbe compreso e sarebbe addirittura sbeffeggiato e che non potrebbe essere utilizzato per un’infi nità di atti da cui dipende la sua sopravvivenza a cominciare da una chiamata al 118. Un’ipotetica domanda rivolta al Signor Rossi a proposito della conoscenza e dell’apprezzamento dell’italiano avreb-be una risposta positiva, ma una successiva domanda su quale italiano, avrebbe una risposta ambigua, dettata da quell’individualismo che è pregio e difetto, risorsa e osta-colo, ricchezza e miseria della nostra nazione: il mio.

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metalli preziosi

di Andrea GennaiGiornalista de Il Sole 24 Ore

Uno dei metodi per studiare l’andamento del prezzo dell’oro, e per cercare di prevederlo, è quello dell’anali-si tecnica. Questo approccio si basa essenzialmente sul-lo studio dei grafi ci dei prezzi e ignora quelle che sono le variabili fondamentali che interessano il metallo giallo (domanda e offerta, gli stock, nuovi giacimenti, etc.). Dato che negli ultimi anni la domanda di oro a fi ni fi nanziari ha accresciuto sempre di più il proprio peso, il vantaggio dell’analisi tecnica è quello di spiegare dei movimenti che altrimenti resterebbero senza risposta solo sulla base di semplici valutazioni fondamentali.

oro, crescita

senza fi ne?

La teoria di DowL’ approccio base dell’analisi tecnica rimanda alla teo-ria di Dow, ideata tra la fi ne dell’Ottocento e gli inizi del Novecento dal giornalista che darà poi il nome al più famoso indice borsistico mondiale. Questa teoria, ancora oggi molto utilizzata, è tanto semplice quanto effi cace. Individua la tendenza rialzista o ribassista di un qualsiasi prodotto fi nanziario sulla base di un prin-cipio elementare: massimi e minimi crescenti indicano un trend al rialzo, al contrario massimi e minimi de-crescenti fotografano un trend ribassista. L’ applicazio-ne nella realtà dei fatti non è così immediata, ma una semplice occhiata a un grafi co dell’oro mette subito in luce che da circa un decennio il metallo giallo ha un gra-fi co che mostra in maniera quasi continuativa massimi e minimi crescenti. Si tratta quindi di un mercato che è inserito saldamente all’interno di una tendenza rialzista. Quando è iniziato questo movimento? La data di inizio è abbastanza precisa e risale al marzo del 2003 con lo sfondamento dei 330 dollari per oncia. Questo segna-le ha posto fi ne a una fase discendente che durava da circa 20 anni. A partire dal 2003 e per i successivi otto anni l’oro ha mantenuto praticamente inalterata questa struttura rialzista arrivando oltre i 1.500 dollari: un cas-

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crescita

settista che avesse seguito questa regola avrebbe portato a casa oggi un guadagno potenziale teorico del 400% (senza ovviamente contare la svalutazione del dollaro, moneta nella quale sono espressi i valori dell’oro). Il ri-alzo in realtà ha avuto solo uno stop, sempre secondo la teoria di Dow: perché tra il 2008 e il 2009 l’oro è sceso da 900 a poco sotto 700 dollari, creando una struttura di massimi e minimi decrescenti (di breve durata) che deve essere però inquadrata in tutto e per tutto come movimento discendente. Il recupero poi vero e proprio del trend rialzista si è avuto nell’autunno del 2009 con il superamento della barriera psicologica dei 1.000 dol-lari. L’ attesa ora degli investitori è capire quando si fer-merà il rialzo dell’oro: per chi segue questo approccio bisognerà attendere la formazione di massimi e minimi discendenti e visto che il metallo giallo ha appena tocca-to nuovi massimi storici servirà un po’ di tempo prima che questa dinamica si realizzi. Per dare un’indicazio-ne di massima possiamo ritenere che discese per alcu-ne settimane sotto i 1.300 punti potrebbero innestare un movimento discendente, ovviamente la cui durata è assolutamente indeterminabile. Nessuna analisi tecnica può prevedere i punti esatti di massimo o minimo, ma solo individuare delle tendenze.

Il rapporto dollaro-oroMa perché l’oro è salito così tanto negli ultimi anni? La risposta a questa domanda tira in ballo una serie di spie-gazioni. Sicuramente c’è una componente di tipo fonda-mentale legata alla maggiore domanda di prodotti di ore-fi ceria o alla necessità di detenere metallo giallo in chiave fi nanziaria o difensiva. Il fattore domanda da solo non può però spiegare un rialzo del 400% in otto anni: c’è sicuramente anche una componente tecnica che tira in ballo gli altri mercati fi nanziari. Un asset, come ad esem-pio una commodity o un bond governativo, non si muove solo per spinte autonome ma resta infl uenzato anche dai comportamenti degli altri mercati. L’ analisi intermarket studia proprio gli intrecci e i comportamenti causa-effet-to che si determinano tra tutte le asset class. Un fattore di propulsione per l’oro è stato sicuramente la debolezza del dollaro. Tradizionalmente le materie prime hanno un andamento inverso rispetto al dollaro, valuta nella quale sono quotate. Negli ultimi 10 anni il dollaro ha registrato, pur tra alti e bassi, un progressivo deprezzamento (il dol-lar index, che sintetizza il valore del dollaro rispetto alle principali valute, è sceso da 120 a poco più di 70 punti) e l’oro tra tutte le commodity è quella che storicamente ha la più elevata correlazione inversa con il biglietto verde.

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metalli preziosi

Il dollaro si svaluta e si deprezza e quindi compro oro per mettermi al riparo dall’attacco dell’infl azione verso i miei asset. Negli ultimi anni questa correlazione oro-dol-laro ha perso una certa puntualità, ma se analizziamo le dinamiche in un’ottica di lungo termine anche questa leg-ge può considerarsi valida. Secondo alcuni analisti poi la forza dell’oro può essere spiegata anche con il fatto che il metallo giallo è diventato una sorta di termometro dell’u-more degli investitori: un termometro che negli ultimi due anni ha una dinamica molto precisa. Salgono l’azionario e l’oro (insieme alle altre materie prime) e si deprezza il dol-laro. Il metallo giallo ha una stretta correlazione poi con il prezzo del petrolio: i rialzi del greggio infatti spingono in alto il rischio di infl azione e questo alimenta gli acquisti di oro come valore che mette al riparo dalle fi ammate dei prezzi. Addirittura l’oro ha anche una sorta di dinamica anticipatrice delle quotazioni di tutte le altre commodity. Nell’ultimo decennio (ad esempio è accaduto sia nel 2006 che nel 2008) l’oro ha anticipato i picchi di prezzo rag-giunti dalle altre materie prime. Così è avvenuto quando i prezzi hanno cominciato a risalire dopo la crisi fi nanzia-ria legata al crack di Lehman Brother’s. Anche in questo caso il minimo dell’oro nell’autunno del 2008, poco sotto i 700 dollari, ha anticipato la svolta rialzista che nei mesi

successivi avrebbe interessato tutte le altre commodity. In-somma, i mercati vanno letti in sinergia integrando i se-gnali che provengono dall’equity, dai bond e dalle materie prime. All’interno delle commodity, poi, come abbiamo appena visto, l’oro ha una sua specifi cità.

Elliott e FibonacciRiprendendo il tema delle applicazioni dell’analisi tecnica, oltre a quella di Dow, ci sono altre teorie che nel corso dei decenni si sono affermate. Tra queste una che va molto in voga negli ultimi decenni è la teoria di Elliott, ideata ne-gli anni Trenta del secolo scorso da un ingegnere statuni-tense. La teoria, che parte dall’approccio di Dow, sostiene che gli indici, le materie prime o le valute si muovono a onde: movimenti a zig zag, sia al rialzo che al ribasso. In estrema sintesi, le onde rialziste sono 5 e quelle ribassiste sono 3. All’interno delle due tipologie di onde si svilup-pano delle sottoonde, ma qui la faccenda diventa troppo complessa. Quello che interessa a noi è capire che anche in un mercato come quello dell’oro ci saranno operatori che decidono di acquistare o vendere il metallo giallo sulla base di questo metodo. La cosa interessante e curiosa allo stesso tempo è che Elliott nel defi nire l’estensione delle onde si rifece ai rapporti numerici di Leonardo Fibonacci,

Grafi co 1 - Le due proiezioni di Fibonacci che hanno stoppato la tendenza in corso

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Nell’ultimo decennio (ad esempio è accaduto sia nel 2006 che nel 2008) l’oro ha anticipato i picchi di prezzo raggiunti dalle altre materie prime.

il matematico pisano vissuto a cavallo del 1200, ideatore della cosiddetta sezione aurea. In pratica, una particolare sequenza di numeri ha sempre un rapporto di 0,618 e questo rapporto si ritrova anche in natura. Così, pensava Elliott, anche i movimenti degli indici o delle materie pri-me si muoveranno all’interno di un’estensione più o meno predefi nita. Bene, se applichiamo oggi questo metodo alle quotazioni dell’oro vediamo dei risultati sorprendenti. In particolare, se proiettiamo in avanti i numeri di Fibonacci, a partire dall’importante movimento discendente che l’oro ha avuto tra il 2008 e il 2009, otteniamo due potenziali obiettivi di prezzo: 1.230 e 1.575 dollari. Il primo obiet-tivo ha ostacolato la risalita tra il 2009 e il 2010. Il secon-do obiettivo è stato recentemente centrato e da quel mo-mento è partita la correzione. Chi segue le teorie di Elliott aspetterà il superamento di 1.575 per rientrare sull’oro. Al contrario un ritorno sotto i livelli di 1.230 dollari potreb-be rappresentare un motivo di deciso indebolimento per il metallo prezioso: come possiamo vedere questa soglia non è distante dai 1.300 dollari indicati come possibile avvio della debolezza per l’oro secondo la teoria di Dow. Esiste poi un terzo e ultimo obiettivo dei numeri di Fibonacci, secondo il metodo di Elliott: quello di 2.100 dollari. Che sia questo il target fi nale del metallo giallo?

Grafi co 2 - Quotazioni dell’oro dal 2009 a oggi

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criticadi costume

di Andrea MartiniDocente di Storia e critica del cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena, sede di Arezzo

Non è rassicurante il quadro di un Paese in cui è un sem-plice film comico, senza pretese, ad avere la capacità di disegnare, con semplicità, un completo scenario sociale della nazione, individuando con lucidità tensioni, conflitti, emergenze. Con maggiore nitidezza di altre forme della cultura e della stessa politica. Forse non è la prima volta che ciò accade in Italia ma è la prima che l’impresa riesce a un film basso e volontariamente volgare. Che bella giornata, la recente pellicola di tutti i record, ha così ribadito che il comico, rivoltando il mondo, ne fa sortire l’anima e che lo schermo può ancora essere la sua leva. Infatti cinema e comicità costituiscono per assioma un bi-nomio inscindibile. L’ilarità della sala, pubblica, contagiosa,

dai comiciil paese salvato

esaltata dalla visione gomito a gomito, ha avuto un’inne-gabile rilievo nell’affermazione dello spettacolo cinemato-grafico. Ovunque. Nell’epoca muta sembrò che le pellicole comiche sancissero la globalità di quel nuovo linguaggio ben più dei drammi o delle ricostruzioni storiche a cui, con maggior facilità, venivano attribuiti titoli di nobiltà. Non a caso Charlot fu il primo prodotto diffuso ai quattro angoli del mondo, ancor prima della Coca Cola o di qualsiasi altro marchio destinato al successo planetario.Con l’avvento della parola, poi, ogni cultura ha modellato la propria comicità sulla base della tradizione e il cinema italiano ha innestato con naturalezza nello spettacolo ci-nematografico tutti i filoni legati alle forme di un nobile passato (a cominciare dalla commedia dell’arte) e quelli connessi alla pratica del palcoscenico popolare (a comincia-re dall’avanspettacolo). Non a caso, dalla brillante satira di Petrolini alla dolente follia di Totò, dalla verve di Macario alla iniziale mimica surreale di Sordi, una interminabile teoria di successi comici ha attraversato il nostro cinema. In ogni occasione agli italiani è piaciuto ridere; di se stessi e dell’altro, in una equilibrata, rassicurante alternanza. An-che nelle stagioni di maggior fulgore della settima arte, gli incassi più ragguardevoli sono sempre andati alle pellicole comiche, a prodotti bassi che assicuravano in partenza una

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il paese salvato

La farsa, con una certa propensione per la declinazione grottesca del quotidiano, è l’archetipo del comico nazionale, ma la parodia è stata l’ordito su cui si sono tessute tutte le trame possibili.

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critica di costume

lettura scanzonata del reale e ai loro spettatori quel piace-re il cui meccanismo Freud ha individuato nel risparmio energetico.La farsa, con una certa propensione per la declinazione grot-tesca del quotidiano, è l’archetipo del comico nazionale, ma la parodia è stata l’ordito su cui si sono tessute tutte le trame possibili. L’ arte della parodia affonda le radici nella volgarità e chi la pratica si affida alla trivialità per costruire arabeschi, suggerire doppi sensi e oscene allusioni: se si mostra perizia in questo esercizio si è in grado di generare correnti di empatia in pubblici diversi per latitudine, censo e cultura. Lo sanno le generazioni di attori che si affacciano alle mille piccole ribalte reali e televisive che pullulano nel nostro Paese.Ed è proprio a un ritorno improvviso alla farsa e all’idea primigenia della parodia che si deve il repentino successo del nuovo filone comico. Un’affermazione dalle propor-zioni imprevedibili, sufficienti per stracciare inossidabili record e per riportare nella vecchia sala cinematografica nuclei familiari da tempo assenti.

All’inizio fu la tvUn parvenu del cinema, beniamino del pubblico televisivo più giovane, che alla parodia musicale ha saputo imporre ritmi propri e un lessico incidentalmente scurrile, è entra-to di prepotenza nel paesaggio brullo del cinema italiano. Checco Zalone (che già nel nome d’arte, “che cozzalone”, ovvero che tamarro, riassume autoironicamente la voglia di affermazione sociale di uno del tanti anonimi laureati, come lui, in giurisprudenza della provincia del nostro Sud), alla sua seconda prova, ha fatto varcare la soglia della sala a un numero di spettatori superiore a La vita è bella che, per nobiltà di soggetto e ordine di grandezza

dell’interprete-regista, sembrava avere il diritto di occu-pare ad aeternum lo scranno dell’opera italiana più vista. Oltretutto i cinquanta milioni di euro, appena superati dal film, è una cifra che evoca inattuali sonorità papero-nesche per un’industria da sempre in crisi come quella cinematografica, specie se si tiene conto dell’investimento iniziale assai ridotto. Ma gli spettatori non hanno premiato solo Che bella giornata: con le loro scelte, indirizzate più dal passa parola che da abili strategie di mercato, hanno fatto del “nuovo cinema co-mico” una realtà repentina quanto ancora insondata. Capace comunque di sbarrare la strada alla forza di penetrazione del cinema Usa e al tempo stesso di punire quei film, come i cosiddetti cinepanettoni o le comicommedie dei fratelli Vanzina fino a ieri gratificati più per abitudine che per scel-ta, dalla granitica fedeltà dei loro fan.Il primo segnale è arrivato dall’uragano di Benvenuti al Sud che ha raggiunto inopinatamente la barra dei trenta milioni di euro raccolti equamente in tutta la penisola. L’impiegato postale brianzolo Claudio Bisio (qui finalmen-te a proprio agio sul grande schermo, tanto da cancellare l’ormai fossilizzata immagine televisiva), costretto suo malgrado a scoprire in un assolato, vitale paesino del Salento una seconda patria, ben più accogliente dell’o-riginale terra brumosa e gretta, disegna un carattere già conosciuto nel nostro cinema. Tuttavia la sceneggiatura ha il pregio di giocare in modo attuale e scaltro con ste-reotipi culturali profondamente radicati, e solo recente-mente riaffiorati nel sentimento popolare dopo decenni di sonno indotto. È vero, il film di Luca Maniero conserva una bonomia di fondo che gli deriva dal peccato originale: essere il remake

Una scena del film Benvenuti al Sud (2010).

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del francese Giù al nord che pochissimo tempo fa ebbe un consenso larghissimo in patria. Ma ha la necessaria sfrontatezza per prendere di mira i vizi delle due culture (Nord e Sud) facendosi beffa del politicamente corretto e, contro ogni superficiale apparenza, della filosofia della ricomposizione del conflitto a ogni costo. Gli spettatori hanno percepito, pur tra i necessari cliché, la freschezza di una vicenda che sovrasta la realtà senza necessariamente imitarla o peggio rifletterla attraverso il preteso specchio dello schermo.Si potrebbe dire che l’assenza di ipocrisia di Benvenuti al sud abbia aperto le porte al risveglio dello spettatore cosciente; finalmente pronto a cogliere sensibilità discordanti rispet-to alla piatta mediocrità del recente passato, nel modo in cui argomenti quotidiani, dolorosi e conflittuali vengono presentati dal nuovo cinema comico. Infatti di lì a poco abbiamo assistito alla relativa affermazione di opere come Immaturi, Femmine contro maschi, Nessuno mi può giudicare, C’è chi dice no, e, in altra chiave, Qualunquemente, decisi a riportare ostilità e confronti, familiari ed etnici, generazio-nali e sociali, nel perimetro della città di provincia o del quartiere della metropoli dove il cinema classico italiano li aveva sempre proposti.

Ritorno al passatoEd è il principio di realtà nella descrizione del Paese vero, per quanto distorta nelle forme della comicità, che ha ricon-dotto in sala gli spettatori. Improvvisamente le avventure esotiche delle vacanze ai Caraibi, in India, al Cairo, a Rio, dove era stato inopinatamente portato il carro dei comici, sono apparse lontane e incongrue. I loro consumati cano-vacci hanno cessato all’istante di funzionare perché le pre-occupazioni edonistiche e vaudevillesche messe in scena da questi film si sono mostrare da un momento all’altro, fruste, figlie di un’affabulazione inadatta a un Paese che vive giorno per giorno sulla pelle drammatiche trasformazioni sociali, spesso dolorose, senza nemmeno l’antidoto di un’identità nazionale realmente riconosciuta. Persino due opere come Manuale d’amore 2 e Amici miei come tutto ebbe inizio sono state, tra la sorpresa di tutti, abbandonate a un infausto destino. O più semplicemente sconfitte dall’eco lontana di una battaglia in cui un disarma-to Davide aveva appena abbattuto il Golia dell’assuefazione. Il comico pugliese Checco Zalone, il parodista capace di far

ridere vaste platee televisive irridendo a testi melodici con il semplice collante dell’universale ossessione per il sesso; il multiforme cabarettista, anche se con le carte in regola per imporsi come una delle ultime maschere; ebbene, lo stesso giullare ha saputo incidere profondamente nel corpo del cinema italiano.Dentro una struttura ben orchestrata, costruita sulla fal-sariga del ciclo della Pantera Rosa di cui riprende la figura del poliziotto pasticcione involontariamente persecutore di un infastidito e sfortunato superiore, Zalone, insieme allo sceneggiatore regista Gennaro Nunziante, è riuscito a dare vita a un personaggio in cui il corpo e la parola del comico duettano come nella migliore tradizione. Metà Jerry Lewis e metà Peter Sellers, la volenterosa guardia giurata è il perno di una narrazione ridotta all’osso in cui però fa figura di sé il repertorio completo, o quasi, dei vizi e delle vergogne nazionali (dal familismo alla raccomandazione, dal nepo-tismo alla collusione) presentati come li sente il Paese, e quindi senza l’auspicabile indignazione. Ma riducendo i difetti nazionali a standard, Che bella giornata ottiene nello spettatore uno sdegno riflesso, nascosto nel divertimento contagioso che tutto travolge. Ancora più fuori dell’ordi-nario è la rappresentazione del rapporto con l’altro: una scena necessariamente centrale nella descrizione di un Paese come il nostro che vive il difficile problema dell’in-tegrazione di ampie masse migratorie e che il cinema ha fin qui quasi sempre rappresentato in termini drammatici. Zalone, facendo interagire gli stereotipi del caso (giovani arabi che voglio far saltare la Madonnina) con gli antiste-reotipi (la ragazza che fa fallire l’attentato), annienta ogni vera dinamica conflittuale. Sicché i nonsense, i lazzi, i giochi di parole incentrati sul sospetto e sulla paura del diverso diventano armi dell’ironia volutamente spuntate non dal buonismo, un atteggiamento incompatibile con l’aggressi-vità naturale, diremmo in questo caso infantile, del comico, ma dalla necessaria ricomposizione carnevalesca del quadro; assolutamente consona al costante atteggiamento di Zalo-ne pronto ad assorbire tutto bulimicamente per rovesciarlo nella dimensione dello sberleffo.Il numero di spettatori e il successo imprevisto ottenuto da Che bella giornata hanno indotto alcuni a relegare il film al rango di stravaganza. Sarebbe l’errore più grave. Doma-ni potrebbe non bastare nemmeno più un piccolo film a spiegare ai propri connazionali l’istante vissuto dal Paese.

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risparmio energetico

di Andrea TarquiniCorrispondente da Berlino de La Repubblica

Un milione di auto elettriche private in circolazione di qui al 2020, colonnine per il rifornimento a catena nelle grandi città e sulle autostrade, agevolazioni a chi acquista un’auto elettrica e a chi nella nuova casa di proprietà o in affi tto attiva una presa di corrente per le vetture senza emissioni. E insieme, impegno a marce forzate dei big global player dell’auto made in Germany, insomma l’auto di qualità per defi nizione sia a livello premium che nella produzione di massa, per recuperare il terreno perduto a fronte di Usa, Francia e Cina e restare primi nel mondo delle quattro ruo-te, per qualità, modernità tecnologica e offerta attraente per il mercato globale. Ecco il mix strategico per il sistema

la mobilità sempre

più elettricaPaese con cui la Germania liberalconservatrice e multikulti della cancelliera Angela Merkel si lancia nel dopo-petrolio. Obiettivi molteplici, ma ritenuti ambiziosamente possibili e conciliabili: ridurre le emissioni, garantire la mobilità a tutti come dato costitutivo della libertà, vincere ancora come e più di sempre sui global markets. E c’è da scommettere che i tedeschi ancora una volta, come ogni volta quando voglio-no vincere la pace e non una guerra, ce la faranno. Vediamo allora i grandi punti del loro piano.

Addio al nuclearePrimo, la mobilità elettrica incoraggiata e garantita. Sarà non a caso Berlino, la vivace capitale, la piccola Londra mit-teleuropea, a fare da esempio. Di qui al 2020, il governo della città-Stato (la capitale è un Bundesland come gli altri 15 della Repubblica federale) vuole essere all’avanguardia dell’energia pulita. È decisa ad avere almeno centomila auto elettriche private in circolazione. Alle spalle, la giunta di governo del sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit ha il potere federale, anche se ‘Angie’ Merkel è democristiana: nei grandi momenti strategici il consenso è bipartisan. E ap-punto il governo federale di centrodestra appoggia i piani del progressista Wowereit con la Agentur füer Elektromo-bilitaet, l’autorità federale per l’elettromobilità. Investimenti

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solo nella capitale per ottanta milioni di euro in pochi anni. Colonnine di rifornimento ovunque, le fornirà Vattenfall, cioè il colosso svedese dell’energia che dà luce a Berlino. Nel regno delle tre corone Vattenfall si affi da ancora all’ato-mo ma nella Germania dell’addio dolce al nucleare produ-ce sempre più con eolico e fotovoltaico. Mulini e pannelli solari nel piatto e boscoso Brandeburgo (l’antica Prussia, il Bundesland che circonda Berlino) alimenteranno appunto le colonnine di rifornimento.Secondo, gli incentivi a ricerca e sviluppo e all’acquisto di elettroauto. Sgravi e aiuti pubblici sono in programma sia per chi acquista auto elettriche o si dota di presa da rifornimento a casa, sia per le aziende che più investo-no. A cominciare dalla capitale “povera ma bella”, che così vuol ridurre il suo alto numero di disoccupati. A Berlino si concentrano già oggi ricerca e produzione per i motori elettrici o l’indotto del settore. A Tempelhof, l’ex aeroporto del ponte aereo alleato che nel 1948-49 salvò la città dal blocco di Stalin, sorgeranno centri studi e scuole guida per imparare a guidare e usare le auto elettriche.

Auto sempre più ibrideTerzo ma non ultimo, le scelte della grande industria. Bmw, Mercedes, Volkswagen, si sono destate da anni di sonno.

Vogliono colmare in corsa il gap rispetto a giapponesi, fran-cesi e americani. Stringono accordi strategici con i grandi produttori cinesi di batterie, accelerano la produzione e il collaudo di auto elettriche. Daimler, cioè Mercedes, già consegna le ‘classe A’ senza emissioni ad autorità pubbliche. Bmw ha creato un suo marchio, ‘Bmw-i’, per lo sviluppo e la produzione di auto elettriche premium, con l’obiettivo di produrre e vendere con profi tto in tutto il mondo vetture di lusso, senza emissioni ma che offrano lo stesso ‘piacere di guidare’ (è lo slogan della casa) di quelle a combustione interna, e fa girare per tutto il paese Mini elettriche con-segnate per collaudi nel traffi co a una clientela-collaudo selezionata ma vasta. Volkswagen si lancia nella scommes-sa con tutta la sua forza di gigante. E persino Porsche, di fatto controllata da Volkswagen, mostra la via della svolta: l’ultima variante della poderosa supersportiva quattro porte Panamera è un diesel ibrido, in grado di raggiungere dal sud tedesco i luoghi di vacanza in Italia quasi solo col mo-tore elettrico, ma promettendo punte di 250 orari. Germa-nia, anno 2011: mentre, venendo incontro alle paure degli elettori, la cancelliera spegne una centrale dopo l’altra, nel Paese dell’auto il dopo-motore a scoppio è già cominciato. Per restare i primi, i più competitivi, the best and the brightest anche nel mondo ‘verde’ di domani.

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gli autori di questo numero

ENRICO CAMPANA è stato inviato e capo responsabile dei servizi olimpici per la Gazzetta dello Sport. Ha diretto Superbasket e fondato American Superba-sket. Da tempo si dedica prevalentemente all’attività di comunicazione, con un ruolo di opinionista sopratutto nel capo dei nuovi media.

MARCO CARMINATI è responsabile delle pagine di arte della Domenica de Il Sole 24 Ore e autore di monografie su Piero della Francesca e sulla Gioconda di Leonardo. Ha recentemente curato la pubblicazione di Abecedario Pittorico che raccoglie le ultime lezioni radiofoniche tenute da Federico Zeri.

Dario Di Vico è editorialista e inviato del Corriere della Sera di cui è stato per cinque anni Vice Direttore. Laureato in Sociologia, ha pubblicato Profondo Italia (2004) e Piccoli, la pancia del Paese (2010). Ha ricevuto il Premiolino e di recente il Premio Mario Talamona per la divulgazione economica.

STEFANO FOLLI è giornalista e ha compiuto i primi passi nella Voce Repub-blicana, di cui in seguito ha assunto la direzione. Nel 1989 è passato al quoti-diano romano Il Tempo come caposervizio politico e, nel 1991, al Corriere del-la Sera di cui, dal 2003 al 2004, è stato direttore. Attualmente è editorialista per Il Sole 24 Ore.

aNDrEa GENNai è giornalista dal 1999 del Gruppo Il Sole 24 Ore (prima all’agenzia Radiocor poi al dorso regionale Centro Nord); appassionato e cultore di analisi tecnica, dal 2004 cura su questo argomento una rubrica su Plus Sole 24 Ore. Tiene l’autorevole blog Meteo Borsa.

ALDO GRASSO è professore di Storia della Radio e della Televisione all’U-niversità Cattolica di Milano ed è editorialista e critico televisivo del Corriere della Sera. Ha condotto la serie radiofonica di A video spento (1989-93), inau-gurando la critica televisiva alla radio. Dal 1993 al 1994 è stato direttore della programmazione radiofonica della Rai. Autore di numerosi saggi dedicati alla televisione ha pubblicato tra gli altri: Linea allo studio, Le televisioni in Europa, Storia della televisione italiana, Enciclopedia Garzanti della Televisione, Il Bel paese della tv, Buona maestra.

EDuarDo GrottaNElli DE’ SaNti è giornalista, geografo, direttore edito-riale della rivista svizzera Ticino Welcome. È autore di numerose guide turistiche per il Touring Club Italiano.

MARCO HAGGE è giornalista RAI, coordinatore della trasmissione TGR Bell’I-talia, dedicata ai beni culturali. Ha pubblicato Vera Narratio - La storiografia del genere letterario, Il Sogno e la scrittura e Pane e TG.

LUCIANO HINNA è docente di Economia delle Aziende all’Università degli Studi di Roma Tor Vergata. Ha maturato esperienze nella consulenza azienda-le nel settore pubblico e del non-profit ed è membro del Comitato Scientifico della Fondazione CSR del Ministero del Welfare. In materia di Corporate So-cial Responsibility ha pubblicato numerosi contributi, tra cui Come gestire la responsabilità sociale dell’impresa.

luiGi M. loMbarDi SartriaNi è stato professore ordinario di Etnologia nell’Università «La Sapienza» di Roma e Presidente dell’Asssociazione Italiana per le Scienze Etno-antropologiche (AISEA). Attualmente dirige Voci-Semestrale di Scienze Umane, rivista da lui rifondata nel 2004 ed è autore di numerosi

aNDrEa MartiNi è docente di Storia e critico del cinema presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena sede di Arezzo e critico cinema-tografico per i quotidiani La Nazione, Il Resto del Carlino e Il Giorno. Ha colla-borato con la Biennale di Venezia ed è stato Delegato Generale della Settimana Internazionale della Critica della Mostra d’Arte cinematografica di Venezia dal 1997 al 2005. Ha diretto documentari cinematografici per il network franco-tedesco Arte.

ALBERTO NOCENTINI insegna Glottologia all’Università di Firenze ed è responsabile del settore dizionari per la Casa editrice Le Monnier. È Direttore dell’Archivio Glottologico Italiano e redattore dell’Atlas Linguarum Europeae.Fra le sue pubblicazioni più recenti L’Europa linguistica: profilo storico e tipologico e L’Etimologico. Vocabolario della lingua italiana (2010). È cultore di tradizioni popolari e direttore artistico del Gruppo Folkloristico di Lucignano.

EliSabEtta PEriNi è laureata in Dialettologia Italiana presso l’Università degli Studi di Firenze. Sempre nel campo della dialettologia, della fonetica e della lessicografia ha lavorato come ricercatrice all’Università di Salisburgo, par-tecipando alla realizzazione dell’Atlante linguistico del ladino dolomitico e dei dialetti limitrofi. Per Giunti Editore ha pubblicato la Grammatica italiana per tutti e il Dizionario dei Sinonimi e dei Contrari.

ANDREA TARQUINI è corrispondente di Repubblica per la Germania e l’Eu-ropa Centrale. È stato inviato speciale nell’Est Europa a fine anni ’80; oggi col-labora anche con la rivista italiana di geopolitica Limes.

carlotta tEDESchi è capo-redattore presso la redazione Cultura e Spet-tacoli del GR Rai, dove lavora dal 1986 e conduce oggi il GR1; fra i suoi appun-tamenti fissi spiccano quelli con il Festival di Sanremo e con Miss Italia.

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sentimenti

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