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Articolo pubblicato su www.limesonline.com giovedi 14 maggio.Gli obiettivi della politica estera russa si spostano sempre più nella direzione del continente africano. I vantaggi economici, le difficoltà e le implicazioni di questi nuovi principi di cooperazione.

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Page 1: Limes: La Russia in Africa

Articolo pubblicato su www.limesonline.com giovedì 14 maggio 2009

LA RUSSIA IN AFRICAdi Anna Maslova

Gli obiettivi della politica estera russa si spostano sempre più nella direzione del continente africano. I vantaggi economici, le difficoltà e le implicazioni di questi nuovi principi di cooperazione.

Lo zar Alessandro III ebbe a dire che la Russia, purtroppo, non ha amici e può contare solo sul suo esercito e la marina militare.

Per ragioni obiettive, la Russia necessita di una politica estera meno di qualunque altro stato e per la maggior parte se ne occupa quando vi è costretta. Storicamente, la politica estera russa è stata quasi sempre dettata dal desiderio di allontanare una minaccia, non di acquistare qualcosa che non possediamo. Di rigore, la Russia dispone di tutto ciò per cui gli altri paesi impiegano forze e mezzi, e se qualcosa le manca, è più semplice trovarlo o crearlo nell’ambito dei propri confini piuttosto che comprarlo, sottrarlo o scambiarlo.

Nel complesso la Russia non soffre né di insufficienza, né di eccesso di popolazione (forza lavoro), ha abbastanza terre, acqua, petrolio e gas (quanto meno per le proprie necessità): è più veloce elencare quei pochi elementi della Tavola di Mendeleev le cui riserve nazionali scarseggiano, che tutti gli altri; abbiamo il nostro esercito e non necessitiamo della protezione di alcuno; disponiamo dell’esperienza per acquisire nuove conoscenze e tramutarle in moderne tecnologie, e così via.

La Russia ha (o dovrebbe avere) “politiche” relative al Caucaso, l’Asia Centrale o l’Ucraina, o anche alla Cina e agli Usa, in risposta all’attenzione che questi ci rivolgono. Ma già riguardo all’Iran, per esempio, o al Giappone la dimensione geopolitica si fa meno evidente, in primo piano s’impone il principio di analisi di ogni singola questione separatamente.

In passato la Russia più di una volta ha rifiutato proposte di acquisire possedimenti remoti (il Madagascar, la California, l’Alaska, più tardi lo Yemen ecc.). Quanto all’Africa, non ha elaborato una strategia specifica, un sistema di priorità nazionali. Probabilmente, una strategia serve a quei paesi che sono vicino o dentro l’Africa, per i quali essa è parte dello “spazio vitale”, o può apparire fonte di minaccia sistematica o di possibilità (l’Europa, gli Usa, il Brasile).

Altre sono le motivazioni della Cina: l’economia cinese conosce un bisogno estremo e poderoso di materie prime e di mercati di smercio. La Cina qui sfrutta la propria principale risorsa, quella di poter articolare in modo direttivo, a livello di nazione, l’attività economica nei vari settori: le corporazioni cinesi agiscono come le dita di una stessa mano. Di conseguenza, per esempio, 17 funzionari dell’ambasciata cinese a Luanda sono sufficienti per coordinare un fatturato già di molto superiore ai 17 miliardi di dollari l’anno.

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Una tendenza positiva per la Russia è quella della sempre maggiore unificazione interna dell’Africa. Il controllato delegare di parte dei diritti e doveri a livello regionale è preferibile all’erosione di sovranità come conseguenza dei cosiddetti “processi integrativi globali”. La maggioranza dei paesi è disposta, sull’esempio dell’Europa, a compiere una scelta in favore di spazi regionali relativamente chiusi dotati di una sovranità collettiva in vari campi (1).

L’Africa nel suo complesso può rappresentare per la Russia un territorio di “politiche settoriali”, nella sfera delle materie energetiche (innanzi tutto gas e uranio), delle finanze o del sostegno statale all’export con alto valore aggiunto.

Quanto alle finanze, la Russia è interessata alla creazione di strumenti e relazioni in accordi multilaterali che consentano di sfruttare le risorse naturali non solo al fine della vendita/consumo, ma anche per garantire liquidità (indirettamente, per creare riserve); il che dovrebbe contribuire alla stabilizzazione del sistema finanziario non solo nazionale, ma anche internazionale.

Per esempio, le riserve di gas in Russia nel 2008 erano stimate in 45 trilioni di metri cubi, il 25% di quelle mondiali. Le possibilità di incrementarle non sono affatto esaurite. Il gas (riserva di energia) potrebbe servire a garantire la valuta nazionale / il sistema finanziario, al pari dell’oro o delle pietre preziose, la cui domanda è determinata da bisogni secondari (a differenza del gas). Calcolate ai prezzi all’ingrosso dell’Europa le nostre riserve (solo di gas e solo quelle esplorate) “pesano” (non “valgono”) per circa 50 trilioni di dollari, anche se naturalmente non ci sono così tanti dollari.

Esistono negoziatori, non gestori

Si deve constatare che dal 2005, cioè da quando la Russia ha dichiarato di fatto il suo “ritorno in Africa”, degli oltre 100 progetti di investimento annunciati, ad oggi nessuno può essere considerato né riuscito, né semplicemente realizzato.

Per esempio, il gas. La Libia, l’Algeria, l’Egitto e la Nigeria sono oggetto di interesse per la Gazprom: questi quattro paesi posseggono oltre il 90% delle riserve di gas africane (l’Africa conta per l’8% delle riserve mondiali). Il vantaggio della regione nordafricana è dato dalla sua vicinanza all'Unione europea e nel settore del trasporto il partner prioritario è l’Algeria. Il sistema di gasdotti in costruzione e già esistenti nell’Europa meridionale è di grande interesse per la Gazprom che, firmando accordi di cooperazione con l’Eni e la Sonatrach, contava di ampliare i propri affari nella regione.

Fino ad oggi i successi della Gazprom nell’area sono stati in gran parte dovuti alla presenza al suo interno di negoziatori capaci. Tuttavia, dopo la riuscita dei negoziati comincia la fase successiva della realizzazione del progetto. E qui la compagnia si dimostra già meno capace. In primo luogo, la struttura ingombrante di questo gigante rallenta notevolmente il processo decisionale, mentre proprio in fase di realizzazione una

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rapida soluzione di problemi tecnici è fondamentale. Secondariamente, si avverte la mancanza di un’esperienza di espansione all’estero: non si è elaborato un sistema di “lancio” di simili progetti, non è stato approvato un algoritmo per il funzionamento delle divisioni estere della società, senza parlare poi del fatto che ancora non esiste una strategia unitaria specifica per l’attività di tali divisioni in Africa.

Al tempo stesso la Gazprom conduce una politica di export sempre più aggressiva. Quanto più vicino ai consumatori finali verranno prodotte le risorse energetiche, tanto maggiore sarà il margine per la compagnia, dato che i costi di trasporto del gas dalla Siberia o dall’Africa settentrionale divergono significativamente. Inoltre, partecipare al sistema stesso di trasporto del gas significa garantire la stabilità delle forniture e la possibilità di gestire le infrastrutture. Ma anche qui si crea inevitabilmente una contraddizione, insita nell’intenzione di una compagnia pubblica di ottenere il massimo profitto al minimo costo. E di nuovo, ciò potrebbe probabilmente funzionare se esistesse un unico sistema armonizzato di attività di società sia pubbliche che private in quella stessa Africa (come, per esempio, accade per la Cina) e se, come si è già detto, esistesse un meccanismo decisionale ben oliato all’interno della compagnia. Ma neppure questo è l’aspetto principale: la differenza tra una società pubblica e una privata (tra l’altro in Russia finora è impossibile tracciare una precisa linea di demarcazione tra l’una e l’altra) consiste proprio nel fatto che la prima può permettersi tempi di attesa di utili più lunghi e, dunque, risolvere con il sostegno dello stato questioni del tutto diverse, come quelle di una equa cooperazione, dello sviluppo di infrastrutture, della tutela ambientale dell’area ecc.

Per quanto riguarda l’energia nucleare, secondo le stime del Rosatom, nel 2020 il fabbisogno complessivo di uranio della Russia ammonterà a circa 28.600 tonnellate l’anno (2). Di esse, circa 4.000 tonnellate si prevede saranno estratte da giacimenti di paesi esteri remoti. L’Africa dispone del 20% delle riserve mondiali attestate di uranio, pari a 560.000 tonnellate. Tre paesi: la Nigeria, la Repubblica del Sudafrica e la Namibia, posseggono il 90% delle riserve africane conosciute. Consumatore di uranio in Africa è un solo paese, la Repubblica del Sudafrica, sede dell’unica centrale elettronucleare del continente, quella di Coeberg.

Il 19 gennaio 2007 è stato firmato un accordo di cooperazione nel campo dell’estrazione dell’uranio tra il Gruppo Renova e la Techsnabeksport (attiva sul mercato internazionale col marchio Tenex) (3). L’interesse della Renova è comprensibile: il gruppo di Viktor Veksel’berg da tempo voleva avviare un’attività in Africa e per ciò si è assicurato un appoggio politico ad alto livello. Non è invece chiaro quale possa essere l’interesse per la Techsnabeksport: la Renova non può vantare progetti realizzati nel continente, né in Sudafrica, né in Namibia, né nella Repubblica democratica del Congo.

Quello stesso anno la Renova ha sottoscritto un memorandum di intenti con la sudafricana Harmony Gold Mining, in prospettiva di un possibile sfruttamento congiunto di miniere di uranio e oro (4). Alla cerimonia della firma era presente il capo della Rosatom Sergej Kirienko, in quanto membro di una delegazione russa in visita nei paesi dell’Africa meridionale (5).

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Si prevedeva che il ruolo della Renova sarebbe stato quello dell’investitore e dell’intermediario, mentre tutte le attività tecnologiche sarebbero state compito della Techsnabeksport, con la quale la società di Veksel’berg aveva sottoscritto un accordo in precedenza. E’ stato sempre allora che la Renova, la Techsnabeksport e la Vneshtorgbank hanno discusso dell’eventualità di estrarre uranio in Namibia.

Nel febbraio 2007 sono state tracciate le priorità della politica energetica russa nell’Africa meridionale (con la visita di Jurij Trutnev e Sergej Kirienko in Namibia e Sudafrica). In quest’ultimo paese è stato prolungato di dieci anni il contratto della Techsnabeksport per la fornitura di uranio poco arricchito (firmato nel 2004), e la Russia ha ricevuto un invito ufficiale a partecipare alle gare d’appalto per la costruzione di 20 centrali elettronucleari nel paese entro il 2030.

Al governo della Namibia la parte russa ha proposto un’intera concezione di sviluppo del settore energetico. La visita si è svolta nell’ambito dell’attività della Renova per la realizzazione di strutture commerciali impegnate nell’estrazione di uranio nei suddetti paesi. Per ragioni che non si riesce a comprendere gli organi ufficiali russi hanno scelto proprio questa compagnia per il ruolo di tutor degli interessi nazionali in generale, sebbene fosse noto che la Renova, e Viktor Veksel’berg personalmente, godono di una reputazione ambigua in Sudafrica e, come già rilevato, non possono vantare un’esperienza di lavoro di successo nel continente.

Kirienko ha citato la possibilità di creare tramite una Joint Venture russa impianti per la lavorazione primaria dell’uranio. Inoltre Windhoek, a suo dire, avrebbe manifestato interesse alla costruzione di centrali elettronucleari (una galleggiante e una piccola terrestre). La Namibia punta a garantirsi un’indipendenza energetica dal Sudafrica e la cooperazione con la Russia nel settore dell’energia nucleare appariva in tal senso promettente. Tuttavia la realizzazione di una centrale nucleare in questo paese si è rivelata già allora una chiara utopia: nessuna delle parti interessate disponeva delle risorse necessarie, e anche in via teorica era difficile immaginare un potenziale investitore o creditore per un simile progetto.

Non sorprende quindi che, trascorsi due anni, tutti i progetti annunciati in questo campo siano rimasti senza conseguenze. Le ragioni di fondo sono sempre le stesse: presenza di negoziatori competenti in assenza di gestori competenti; mancanza di esperienza concreta di lavoro in quest’area; orientamento a profitti da percepirsi con il sostegno pubblico; mancanza di un programma chiaro di attività.

Il nazionalismo delle risorse

Perché la realizzazione di progetti in Africa per ora non ha portato a nulla? La risposta che tradizionalmente si da a tale domanda è quella della prassi viziosa e ben rodata di un impiego non finalizzato di mezzi da parte della dirigenza di società di nuova costituzione in loco, e del medesimo impiego da parte dei ministeri: commissioni intergovernative,

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delegazioni, rapporti e progetti che è semplicemente impossibile realizzare – però di ciò i funzionari ormai non devono più rendere conto, mentre ricevono premi per l’inventiva. Inoltre, naturalmente, pesa la mancanza di esperienza: le strutture oligarchiche poco trasparenti e amorfe si sono dimostrate impreparate ai principi rigidi, cinici e in definitiva coloniali di gestione degli affari nei paesi del “terzo mondo” – insomma, ai principi cui si attengono le corporazioni transnazionali, mascherandoli con cura dietro una retorica politicamente corretta. Tuttavia le organizzazioni russe, fin dall’inizio degli anni Novanta abituate a rapidi superprofitti, si sono rivelate impreparate anche all’elaborazione di nuovi principi, non scorgendo alcun senso in ciò la loro dirigenza.

In generale, molte delle speranze riposte nel grande business all’inizio degli anni Novanta si sono rivelate un’illusione. L’entusiastica accettazione del “nuovi valori occidentali”: il sedicente libero mercato, una certa democrazia e il consumismo sfrenato, nei primi tempi ha posto in secondo piano il rapido passaggio di enormi risorse nelle mani di gruppuscoli compatti di amministratori e criminali. E quando si è capito di chi si trattasse e di cosa si fosse impossessato, era troppo tardi: su questa base si era ormai fondato un sistema stabile, producendo anche qualcosa di buono.

Tornando all’Africa, si ponga così la domanda: vale in generale la pena cercare di competere nell’ambito del sistema economico esistente, di fatto fino ad ora basato sullo sfruttamento gratuito delle risorse di altri paesi, definiti “in via di sviluppo”? Fare proprio il vecchio principio dello scambio oro contro perline di vetro? Impararlo in modo esemplare e in cambio ricevere quelle letterine insensate, ma chissà perché così fatali delle agenzie di rating?

I vecchi metodi, già ampiamente applicati anche in terra russa, non funzionano con le nuove idee. Fondamento pratico delle summenzionate politiche settoriali in Africa può diventare il cosiddetto “nazionalismo delle risorse”, alternativa alle moderne relazioni di mercato internazionali, costruite in base agli interessi delle corporazioni estrattive transnazionali. Il fine della politica del nazionalismo delle risorse è innalzare i prezzi di mercato delle risorse nell’interesse dei paesi produttori.

L’idea non è nuova (6) e, a partire dagli anni Settanta, singoli stati hanno cercato di metterla in pratica, ma nel mondo bipolare di allora la scelta non era ampia: sottoporsi all’isolamento economico da parte degli Usa e dei loro alleati oppure, in cambio dell’aiuto e della collaborazione dell’Urss, accettare l’ideologia socialista, senza limitarsi agli interessi economici e nazionali.

Bene o male che sia, la crisi economica che sta attraversando adesso il mondo ha creato le premesse perché i paesi produttori di risorse si riuniscano al fine di creare relazioni economiche internazionali più giuste e, dunque, più stabili.

La Russia è interessata a che i paesi esportatori di materie prime coordinino le proprie politiche e dialoghino alla pari con le corporazioni internazionali, che queste materie prime estraggono. Per questo non solo alla Russia, ma anche ai paesi africani conviene che

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in questo continente si affaccino le nostre compagnie: per loro è meglio quando ad estrarre è uno, e a consumare è un altro.

Per di più, se un paese, nel condurre una politica di nazionalismo delle risorse, pone rigidi requisiti alle compagnie straniere, le ditte pubbliche sono avvantaggiate rispetto a quelle private. Poniamo il caso di una compagnia privata che sta costruendo in Africa un impianto di estrazione di un qualche minerale fossile e si prefigge lo scopo di rientrare delle spese in, diciamo, 3 – 5 anni sulla base del prezzo di mercato di quella risorsa; il termine massimo su cui è calcolato il progetto è di 10 anni. L’obiettivo primario sarà quello di ridurre i costi: stipendi, ammortizzatori sociali, spese per la tutela ambientale ecc. (ciò da cui, per esempio, è partita la Rusal dopo aver rilevato un impianto in Guinea: riduzione massima delle agevolazioni sociali per il personale locale). E’ proprio ciò che è inaccettabile per la parte ospite, il nazionalista delle risorse.

Una compagnia pubblica, invece, (in teoria) deve avere la possibilità di fare investimenti nella fase iniziale, aumentando in tal modo il valore della risorsa che, in ultima analisi, deve crescere di prezzo sul mercato internazionale. Lo stato ha la possibilità di allungare il tempo di remunerazione del progetto fino a 50 anni. E’ un esempio ideale di collaborazione fra due nazionalisti delle risorse: il paese in cui si estrae il minerale, e il paese che lo estrae.

E’ importante notare che questo tipo di nazionalismo può funzionare nell’ambito del sistema esistente, modificandolo gradualmente. Non è necessario nazionalizzare a tutti i costi le compagnie estrattive in tempi brevi: con la evidente preminenza dello stato sul mercato del nazionalista delle risorse, ciò di fatto avviene automaticamente. Per di più il nazionalismo delle risorse non tocca gli altri settori economici, che si sviluppano dinamicamente in un mercato libero, e non significa necessariamente un controllo statale totale.

Il nazionalismo delle risorse tradotto in pratica

Il nazionalismo delle risorse non è una teoria, il termine assembla tendenze già esistenti: dal vettore radicale di Hugo Chavez in Venezuela fino alla versione razziale, un po’ storpiata, del Black Economic Empowerment nella Repubblica del Sudafrica.

Anche la Libia ne applica ormai da tempo e in modo conseguente i principi. Qui si può fare l’esempio assai concreto del meccanismo, attivo fin dal 1974, delle aste Epsa (Exploration and Production Sharing Agreements), a tutt’oggi unica possibilità per le compagnie petrolifere estere di aggiudicarsi concessioni. Dal 1974 al 2003 in Libia si sono tenuti tre round, comprendenti ciascuno varie aste: gli Epsa-I dal 1974 al 1979, gli Epsa-II dal 1979 al 1987 e gli Epsa-III dal 1988 al 2003. Da un round all’altro le condizioni contrattuali sono cambiate, e il numero successivo alla sigla indica la variante delle clausole base di questo tipo di accordo. In seguito alla revoca nel 2005 della maggior parte delle sanzioni applicate alla Libia, si sono avute due aste Epsa-IV, in conseguenza delle quali sono stati stipulati 38 contratti (7).

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Ad ogni nuovo round i termini fondamentali degli Epsa tenevano conto di un numero sempre maggiore di proprietà dei siti oggetto dell’asta: volumi e qualità delle relative informazioni preliminari, caratteristiche naturali, geografiche, geologiche ecc. Inoltre, fino agli Epsa-IV le condizioni sono mutate nel senso della liberalizzazione: se per gli Epsa-I le quote di ripartizione del petrolio estratto tra stato e concessionari stranieri erano all’incirca di 80 a 20, con gli Epsa-IV si sono equiparate a 50 e 50. E’ vero che a nessuna delle compagnie estere è riuscito di realizzarlo: il parametro maggiore (38,9%) se lo è aggiudicato il consorzio composto dall’americana Occidental Petroleum Corp. (90%) e dalla Liwa Energy (10%) degli Emirati arabi uniti per il blocco 59 (8).

Da sempre quale alternativa ai forzati compromessi politico-economici la Libia aveva alimentato la concorrenza tra i suoi contragenti, in primo luogo americani e dell’Europa occidentale, e di recente anche asiatici. Dall’esito della prima asta post sanzioni, svoltasi nel gennaio 2005 nell’ambito degli Epsa-IV, delle 15 aree in concessione 11 sono state assegnate a compagnie americane, alle quali l’amministrazione Usa ha consentito di tornare in Libia. Tuttavia già all’asta successiva, nell’ottobre 2005, le ditte europee e asiatiche hanno ottenuto 22 delle 23 licenze, e solo una è andata alla ExxonMobil. Tra i vincitori c’è stata anche la russa Tatneft’ che si è aggiudicata la licenza per il blocco 4 dell’area 82 nella regione del bacino di Ghadames. Alla terza asta nel dicembre 2006 si è delineata la chiara supremazia delle compagnie russe, alle quali è andato il 40% delle aree in concorso: 4 su 10, di cui 3 alla Tatneft’ e 1 alla Gazprom. La ExxonMobil e la Petro-Canada hanno ottenuto un’area ciascuna, tre sono andate a società asiatiche: l’indiana Oil & Natural Gas Corporation Ltd., la Chinese Petroleum Corp. di Taiwan e la giapponese Inpex Corporation. Solo una concessione è stata assegnata a una ditta europea, la tedesca Winteshall, tra l’altro partecipata dalla Gazprom.

Nel 2008 la situazione è cambiata, e la nuova tendenza delineatasi per ora resiste: la Libia ha nuovamente potuto irrigidire le condizioni di accesso delle compagnie estere al proprio mercato petrolifero e del gas. Così, alla fine di marzo dell’anno passato il consigliere del monopolista libico National Oil Corporation (Noc), Sadiq Ismail, ha annunciato l’intenzione della compagnia di rivedere i termini degli Epsa: la proporzione delle quote di ripartizione tra stato e concessionari esteri dei giacimenti di petrolio e gas naturale dovrà essere di 72 a 28 (9).

La variante più ponderata di sviluppo secondo i principi del nazionalismo delle risorse in Africa è quella praticata dall’Angola, che oggi come oggi potrebbe diventare il paese africano più vicino alla Russia. Già da qualche anno l’Angola costituisce un modello di sviluppo intenso e bilanciato, non solo per quanto riguarda i parametri correnti (nominali), ma anche quelli fondamentali che garantiscono una competitività di lunga durata.

Per citare solo uno degli esempi di possibile cooperazione tra i due paesi, si pensi alla creazione in Angola di servizi di investimento – bancari nazionalmente orientati. La banca può diventare il centro di competenze palesi per il governo, le corporazioni pubbliche (innanzi tutto la Sonangol) e le holding private nazionali. E’ importante notare che in

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Angola la banca non avrà alcun obbligo restrittivo nei confronti delle compagnie russe, che possono o potrebbero concorrere o aspirare alle stesse risorse delle società angolane. Ciò distingue l’investitore russo dalla stragrande maggioranza di investitori finanziari (e non solo) stranieri - portoghesi, cinesi, sudafricani, britannici, statunitensi ecc. - in questo paese. L’economia russa non ha bisogno delle importazioni a buon mercato e del consumo di risorse naturali dell’Angola, per questo la Russia ha una possibilità eccezionale di sviluppare proprio qui il settore dei servizi bancari, senza perseguire obiettivi connessi.

(Traduzione di Flavia Sigona)

1. Vadim Zajcev, Evgenij Korendjasov, Andrej Maslov, Vladimir Šubin, Integrirovanie Afriki (Il processo di integrazione africano), in “Af-Ro”, N°4 (23) 2007, pp. 11 – 17.

2. Nel 2005 il fabbisogno è stato di 3.310 tonnellate. Spravo nik “Mineral’nye resursyč mira” (Le risorse minerarie mondiali. Prontuario), vol. 1, Statistika (na 1.01.2005), p. 114

3. Comunicato stampa della Techsnabeksport, 19.01.2007

4. Harmony eyes Russia gold assets, Reuters South Africa, 22.02.2007

5. “Renova” ho et zanjat’ zna imye pozicii v atpmnoj energetike (La Renova vuoleč č occupare posizioni di rilievo nell’energia atonica), AKSNews, 22.02.2007

6. Cfr., ad esempio, Pete Stark, The Winds of Change: Resource Nationalism Shifts the Balance of Power to National Oil Companies, JPT, gennaio 2007; Keith Campbell, Resources nationalism: distant thunder or looming storm?, “Mining Weekly”, 29.01.2007

7. Norton Rose, Libya oil and gas report, May 2006 (Oil)

8. Vladimir Kukuškin, Nacional’naja neftjanaja kompanija Livii (La compagnia petrolifera nazionale della Libia), in “Af-ro”, N°6 (19) 2006, pp. 30-44

9. Tansa Musa, Libya says could reach Repsol deal next week, Reuters, 27.04.2008

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