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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI LE NUOVE RELAZIONI SINO-INDIANE Possibilità di intervento in materia di cooperazione tra l’Unione Europea e “l’Impero di Cindia” RELATORE: TESI DI LAUREA DI: Prof.ssa Annamaria BALDUSSI Daniela PIANO Anno Accademico 2006 -2007

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI CAGLIARI FACOLTÀ DI SCIENZE POLITICHE

CORSO DI LAUREA IN RELAZIONI INTERNAZIONALI

LE NUOVE RELAZIONI SINO-INDIANE

Possibilità di intervento in materia di cooperazione tra l’Unione Europea e “l’Impero di Cindia”

RELATORE: TESI DI LAUREA DI: Prof.ssa Annamaria BALDUSSI Daniela PIANO

Anno Accademico 2006 -2007

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Indice

Introduzione

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Capitolo I

Le somiglianze non possono essere ignorate

1. Due culture a confronto 5 2. Commerciare in Asia 8 3. Fine di un mondo dinamico 10 4. Le radici della democrazia indiana

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Capitolo II

“Asietà”

1. Il destino degli asiatici si decide in Asia 18 2. Tensioni post-coloniali

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Capitolo III

Il paese delle nevi

1. Venti di guerra 25 2. Nuovi attori nella disputa sino-indiana 26 3. La guerra fredda sino-indiana 27 4. La distensione 29 5. Ambizioni pericolose 31 6. Il dialogo strategico

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Capitolo IV

L’asse Pechino-Nuova Delhi

1. Cina, India, Russia e la collaborazione strategica 36 2. Faccia a faccia con Washington 38 3. Imperativo energetico e politica estera 43 4. Il costo ambientale dello sviluppo 47 5. SOS Terra

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Capitolo V

Cina e India all’orizzonte

1. “New world order”: Cina, India e gli altri…. 56 2. Tecnologia e innovazione: cooperare per lo sviluppo economico 62 3. Ricchezza e povertà 64 4. La questione sociale in Cina 68 5. Le macroscopiche disuguaglianze della società cinese 71 6. Luci e ombre dell’ascesa indiana 74

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7. Le donne mancanti in Cina e India 78 8. Armonia e repressione 79

Capitolo VI

Ue-Cindia: superamento di un mondo culturalmente frammentato

1. Cooperazione allo sviluppo 84 2. Programmi comunitari nel settore universitario 87 3. Partenariato Ue-Cina 88 4. L’Ue e gli studenti cinesi

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Conclusioni

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Bibliografia

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Introduzione “Cindia” è l’impero, per il momento solo virtuale, formato dall’unione di due colossi asiatici, la Cina e l’India, diventate dal 2004 le mete predilette degli investimenti delle multinazionali; il neologismo non sta però a indicare che facciano parte dello stesso blocco geopolitico. Tra i due paesi infatti esistono differenze abissali e due modelli alternativi: l’India è la più vasta democrazia esistente al mondo, un esempio di pluralismo e tolleranza unico per un paese di così vaste dimensioni. La Cina invece sprigiona un fascino irresistibile, ma di segno opposto: è il più imponente modello di stato autoritario, funzionale e modernizzatore, che ha saputo in pochi decenni traghettare dalla miseria al benessere 300 milioni di persone. Cina e India con il loro dirompente sviluppo economico e le loro ambizioni politiche promettono di stravolgere gli equilibri geopolitici in Asia e di mettere in discussione l’ordine mondiale nato con la fine della guerra fredda. Dopo decenni di difficili rapporti, le due potenze sono ora alla ricerca di un modus vivendi che permetta loro di coesistere pacificamente e di tutelare i rispettivi interessi. Entrambi i paesi sono consapevoli che il loro sviluppo dipende oggi dalla stabilità internazionale, che in Asia può essere perturbata più che in qualsiasi altro posto. Otto delle potenze nucleari si trovano in questo continente, il terrorismo a sfondo religioso è nato e continua a proliferare in Asia. Nel subcontinente indiano esiste il pericolo del fondamentalismo islamico militante, mentre la Cina segue con molta attenzione il risorgere dei nazionalismi etnici: l’imperativo categorico è quindi quello di disinnescare tutte le criticità, anche quelle apparentemente favorevoli alla propria causa. Il modo in cui Pechino e New Delhi gestiranno i loro rapporti avrà inevitabilmente un impatto decisivo sulla stabilità e la pace in Asia e nel mondo. Oggi Cina e India cooperano per trovare un’intesa a somma positiva di cui beneficeranno non solo cinesi e indiani, ma il mondo intero. Le due nazioni devono dimostrare di poter costruire alternative a certi modelli, superando le divergenze storiche e, al contrario, mettere in evidenza le differenze di “filosofia” fra Usa ed Europa, gli altri protagonisti della scena internazionale. I due giganti asiatici rappresentano da soli il 40% dell’intera popolazione mondiale e il loro tasso di crescita annuale è il più alto al mondo: secondo uno studio della Bank of Korea entro il 2020, dopo gli Usa, diventeranno la seconda e la terza economia al mondo; persino Henry Kissinger, l’ex segretario di Stato americano, ha previsto che nel XXI secolo l’Asia sarà il centro del mondo, mentre l’America e l’Europa scivoleranno in periferia. Sarà un ritorno al passato, dato che ci fu un tempo in cui la civiltà indiana brillava in tutta l’Asia e un tempo in cui insieme alla Cina realizzava il 22,6% del reddito mondiale: era il 1700. Un secolo dopo l’India finirà per seguire il suo potente vicino sulla strada del declino: nel 1980 erano due paesi completamente emarginati. Ma da allora Pechino ha dimostrato grandi capacità di ripresa e New Delhi, rimasta indietro, vuole recuperare al più presto il ritardo accumulato. Dal 2004 la Cina e l’India sono diventate ambite mete d’investimenti delle multinazionali: la Cina ha superato gli Usa come destinazione di capitali produttivi e l’India si è imposta di prepotenza come “l’altro miracolo” economico, tanto che il presidente Bush, nel suo discorso sullo Stato dell’Unione nel gennaio del 2006, ha preso atto che “in una economia mondiale dinamica, i nostri concorrenti sono Cina e India”. Il dragone e l’elefante si apprestano quindi a riconquistare il posto che appartenne loro per millenni, dato che furono le due

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civiltà più antiche, le più ricche, le più avanzate durante gran parte della storia dell’umanità. Molti sono convinti che anche l’India ridiventerà una grande potenza mondiale al punto da superare il “dragone cinese”: i giovani studenti della prestigiosa Jawaharlal Nehru University non nascondono le loro ambizioni quando affermano che “un elefante può correre molto veloce” e che l’India ritroverà presto il suo posto tra i grandi!

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Capitolo I

Le somiglianze non possono essere ignorate 1. Due culture a confronto Cina e India, queste due grandi civiltà, questi due grandi gruppi di umanità, di fatto i due più grandi e per giunta vicini, hanno avuto relazioni piuttosto deboli nel corso della loro storia; tuttavia i legami culturali, durati per il primo millennio e oltre, sono stati fondamentali nella storia dei due paesi. Il subcontinente indiano è un territorio esteso e popoloso che ha assistito al nascere e all’evolversi di numerose formazioni sociali e politiche, di innumerevoli religioni e tradizioni di pensiero, espresse in documenti scritti in molteplici lingue. Il fatto che questo luogo, comprendente la penisola del Deccan, la piana indogangetica e il territorio sovrastante, racchiuso a est dalla catena himalayana e a ovest da una fascia collinosa, sia caratterizzato da una relativa facilità di spostamento al suo interno e da una difficoltà di penetrazione via terra, ha permesso che, pur nei periodi di disgregazione politica, i mercanti e le correnti culturali e religiose potessero circolare. Questo assetto geografico spiega poi la non belligeranza con la confinante Cina e il fatto che i contatti con altri luoghi siano avvenuti prevalentemente via mare e attraverso i passi occidentali. La religione è stata senza dubbio una delle principali ragioni della vicinanza storica di Cina e India, il buddismo ha avuto un ruolo centrale nell’avviare un movimento di uomini e idee fra i due paesi, ma le interazioni sino-indiane si estesero anche a scienza, matematica, letteratura, linguistica, architettura, medicina, salute pubblica e musica. Nel 2500 a.C. erano due popoli di agricoltori, caratterizzati da una densità demografica, una organizzazione sociale e uno sviluppo tecnologico superiore a quello dei popoli nomadi. L’esistenza di queste società civilizzate si è manifestata attraverso la produzione di tradizioni culturali nel campo delle arti, della letteratura, del pensiero filosofico e religioso. Anche se dal punto di vista politico Cina e India non presentavano caratteristiche unitarie, già nel primo millennio a.C. esisteva un motivo unificatore di fondo, rappresentato dalla crescita economica che trovò espressione nell’espansione del mondo urbano e nella realizzazione di grandi opere pubbliche. Attraverso il commercio questi territori dell’Asia, lungo la via della seta che congiungeva la Cina al mondo mediterraneo, ebbero modo di conoscersi e scambiarsi idee. Alla via della seta l’India era naturalmente collegata grazie alle strade carovaniere che da Taxila giungevano a Kabul e da qui proseguivano verso le oasi dell’Asia centrale; i mercanti indiani facevano da mediatori tra Cina e Persia. Nel II secolo a.C. Zhang Qian, emissario dell’impero Han in Battriana, scoprì merce cinese dello Yunnan, articoli in cotone e in bambù, nei mercati locali portati attraverso l’India e l’Afghanistan da carovane indiane. L’intermediazione indiana nel commercio tra Cina e Asia occidentale proseguì nei secoli, anche se il tipo di merce continuava a cambiare e nell’XI secolo la porcellana aveva ormai rimpiazzato la seta. Le abitudini dei ricchi consumatori indiani, furono radicalmente cambiate da alcune innovazioni cinesi. E così, mentre la Cina rendeva più ricco il mondo materiale indiano, il buddismo entrò in Cina attraverso la rotta delle oasi, luogo di ristoro per carovane, mercanti e soldati: ci fu un afflusso ininterrotto di dotti e monaci indiani verso la Cina, ma veicolo dell’accettazione furono anche i pellegrini e gli studenti cinesi che si recavano frequentemente in India. Era il solo paese

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esterno al Celeste Impero in cui i cinesi si recassero per studiare e apprendere. Nonostante i dotti cinesi di ritorno dall’India godessero spesso del patrocinio imperiale, in Cina era molto forte la resistenza agli influssi indiani, in particolare buddisti. Dietro l’opposizione al buddismo c’è stata una forte fede nell’invulnerabilità intellettuale della Cina, in particolare la convinzione che le idee prodotte in altri paesi non potessero essere veramente importanti.1 Fu oggetto di un attacco particolarmente forte da parte di un potente capo confuciano, Fu-yi, che presentò all’imperatore Tang, nel VII secolo, una critica all’irriverenza e alla sfida all’autorità giunta dall’India: il buddismo, da quando si cominciarono a tradurre i testi indiani in cinese, “aveva operato negativamente sulla fede dei principi e la pietà filiale iniziò a degenerare. La gente prese a radersi il cranio e rifiutò di chinare il capo davanti ai principi e ai propri antenati”. Accompagnato da un processo di sincretizzazione con il confucianesimo e il taoismo, col tempo il buddismo perse forza e capacità creatrice; furono molti i cinesi che si preoccuparono della perdita della posizione centrale della Cina nell’ordine del mondo per la tendenza di alcuni buddisti a considerare l’India più centrale della stessa Cina. Pur tuttavia il buddismo lasciò un’impronta “nella religione popolare, ove si mescola a correnti religiose puramente cinesi, nelle società segrete, nelle insurrezioni contadine…”2 I cinesi annoveravano gli indiani tra i barbari del sud, non pericolosi; per gli indiani, i cinesi stavano “lassù”, ma non avevano mai conquistato l’India. Cina e India hanno avuto per secoli rapporti pacifici, perché nessuna di queste due grandi nazioni era realmente espansionista: se l’India fosse stata espansionista come l’Occidente e la Cina avesse condiviso la cosmologia nipponica, le principali guerre della storia sarebbero state combattute nell’Himalaya.3 Almeno finora, le cose sono andate così, anche se entrambi i paesi hanno i due strumenti dell’espansionismo occidentale, lo stato-nazione e potenti armamenti come la bomba atomica. Per gli indiani una guerra non poteva valere lo sforzo richiesto, dal momento che l’induismo era già il centro dell’universo religioso, la più ricca di tutte le religioni esistenti nella società umana. Nel caso sinico non valeva la pena muovere guerra ai barbari considerati troppo inferiori; era sufficiente mantenere un deterrente credibile attraverso misure militari altamente difensive. La cultura pacifista dei due popoli si è rivelata anche in un comune sentimento di tolleranza verso gli “altri”.4 La civiltà induista ha mostrato un’incredibile tolleranza verso i piccoli gruppi occidentali come gli ebrei, i cristiani e i parsi, o verso gruppi più grandi come i musulmani, facendo in modo che queste comunità non si offendessero reciprocamente e, in particolare non offendessero la religione del paese ospite. Ancora oggi l’India è il più vasto e cruciale esperimento di convivenza tra l’Islam e le altre fedi in un stato di diritto. In generale anche la civiltà sinica è stata tollerante verso piccole sacche di popolazioni non han che non costituivano una minaccia di fondo: nelle vaste distese della Cina occidentale erano considerate come “barbari” e lasciate relativamente in pace. Taoismo, confucianesimo e buddismo hanno lasciato la loro impronta sulla filosofia sinica, portando a una sofisticatissima visione del mondo, che costituisce probabilmente la ragione principale per cui la Cina è durata così a lungo. Secondo la tradizione, nello stesso periodo in cui in India compariva il grande maestro Buddha che avrebbe segnato

1 Amartya SEN, L’altra India, Mondadori editore, Milano 2007, pag 206. 2 Franco MAZZEI, Vittorio VOLPI, Asia al centro, Università Bocconi editore, Milano 2006, pag 199. 3 Johan GALTUNG, Pace con mezzi pacifici, Esperia edizioni, Milano 2000, pag 429. 4 Come afferma Amartya Sen nel suo saggio L’altra India tolleranza e quindi democrazia non hanno radici esclusive nella storia e nel pensiero occidentale.

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in maniera decisiva la civiltà indiana e non solo, in Cina svolgeva il suo magistero Confucio, secondo cui la nobiltà è funzione non della nascita ma dell’educazione e gli elementi del buon vivere sono dati da bontà, saggezza e coraggio. L’insegnamento di Confucio fu alla base di una visione del mondo che venne fatta propria in maniera definitiva dalla classe dirigente cinese solo sotto gli imperatori Han, ma che da allora era destinata a esercitare un peso decisivo nella storia ideologica e politica della Cina fino all’inizio del XX secolo.5 Il confucianesimo esortava a evitare gli estremi, a cercare un’armonia e un sentimento di solidarietà tra ordine umano e ordine naturale, per cui il mondo era vissuto come un’unica realtà organica, indivisibile. Era un codice di norme morali che miravano ad assicurare l’ordine e il buon funzionamento della società, guidando in modo gerarchico e armonioso le relazioni umane a vari livelli. Nonostante i profondi e ripetuti cambiamenti verificatisi nel corso di venticinque secoli e il tentativo di sradicamento durante i primi trent’anni di comunismo, resta alla base della cultura cinese di oggi e delle relazioni interpersonali. Il confucianesimo ha condizionato principalmente la costruzione della società cinese che si basava sul sistema feudale delle quattro caste, ciascuna con i propri diritti e doveri: gli intellettuali e i burocrati (shi), i mandarini di qualunque dinastia che governavano il Regno di Mezzo; seguivano gli agricoltori (nong), gli artigiani (gong) e i mercanti (shang). Al di fuori della Grande Muraglia c’erano gli stranieri, i barbari del nord, dell’est, del sud e quelli dell’ovest, tutti con caratteristiche poco lusinghiere. Essi scomparivano nelle nebbie della geografia, ma i cinesi sapevano dove stavano e mantenevano le distanze. La maggiore preoccupazione era il mantenimento e il rafforzamento di questo regno; se la Cina era seriamente minacciata dai barbari, i supremi mezzi di difesa dovevano essere una parte della costruzione sociale. In Cina la tendenza a considerare il proprio paese come il centro del mondo fu un elemento di particolare importanza: nonostante la sua enorme estensione territoriale e le grandissime differenze regionali, la Cina è stata da sempre uno stato centralizzato e burocratico. Questa rappresentazione ha trovato espressione nella concezione del Zhong guo, cioè nella struttura politica sotto la sovranità dell’imperatore, il “Figlio del Cielo”, garante sulla terra dell’armonia, della solidarietà tra l’ordine dell’uomo e l’ordine della natura. L’elemento essenziale della civiltà indiana era invece l’induismo, un “modo di vita” peculiare e unico al mondo, un atteggiamento sociofilosofico diffusamente venato di sacro, la cui particolare flessibilità gli ha permesso di sopravvivere a persecuzioni, invasioni e occupazioni.6 L’induismo era naturalmente incline alla tolleranza e al compromesso: il concetto dominante era l’unità dell’umanità, per cui l’universo è la propria casa, la casa di tutti. Nell’area culturale indiana la civiltà si è sviluppata attraverso un processo ininterrotto di elaborazione di un corpo di valori condivisi, che era stato influenzato solo occasionalmente dall’agire di specifici soggetti statuari. Nell’India classica e medioevale la continuità della cultura e i canoni della vita sociale prescindevano dal potere politico, a cui si chiedeva di garantire l’ordine pubblico interno e la difesa contro le minacce esterne; l’induismo tracciava una netta linea di separazione fra la morale e la religione da un lato e la politica dall’altro. La politica, relegata in una sorta di sfera inferiore, era esercitata non dai bramini, all’apice della gerarchia religioso-sociale, ma dalla seconda casta, quella dei guerrieri. Per lunghissimi tratti della sua storia, l’India è stata priva di un centro politico nazionale anche nelle fasi di unificazione imperiale. Al contrario di ciò che avvenne in Cina, nel subcontinente 5 Michelguglielmo TORRI, Storia dell’India, Laterza editore, Roma-Bari 2007, pag 51. 6 Franco MAZZEI, Vittorio VOLPI, Asia al centro, op. cit., pag 192.

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indiano non ci fu una tradizione burocratica perpetuata da un’élite di amministratori, le cui competenze si sarebbero sviluppate e arricchite col tempo. A giustificare la coesione della civiltà indiana e l’integrazione della sua cultura ha provveduto un corpo di valori accettati e condivisi, fra i quali quelli riconducibili alla religione indù rivestono un’importanza centrale.7 2. Commerciare in Asia Già duemila anni fa, prima delle grandi scoperte degli esploratori e delle aggressioni colonialistiche europee le due grandi nazioni, con i loro imperi e le loro floride progredite economie, possedevano il 59% della ricchezza mondiale, di cui il 26% la Cina e il 33% l’India.8 In quel tempo l’India era già un paese prospero e la civiltà della valle dell’Indo raggiunse il suo culmine tra il 3000 e il 1700 a.C. Gli scavi archeologici hanno rivelato nell’attuale provincia pakistana del Punjiab la presenza di una enorme città, con sistemi di drenaggio delle acque per l’irrigazione e il rifornimento domestico, molto più efficienti di quelli presenti in molte parti dell’India e del Pakistan contemporanei. Una efficiente agricoltura provvedeva a sostenere la prosperità della città e i contadini della valle producevano alimenti in surplus, in grande quantità grano, orzo, sesamo, senape e datteri. Veniva coltivato anche il cotone ed erano stati addomesticati cani, gatti, maiali, mucche ed elefanti. Questa civiltà manteneva rapporti commerciali con le altre civiltà evolute del periodo, come quelle del Golfo Persico, dell’Asia occidentale e centrale. Dopo il 1700 a.C. la civiltà della valle dell’Indo iniziò gradualmente a declinare e frammentarsi per motivi non ancora del tutto chiari. Sembra determinante però il mutamento del clima e la conseguente deviazione del corso del fiume Indo. Tuttavia altre civiltà si sono sviluppate ed evolute, in particolare quella degli Ari, popoli di lingua ariana formati da molte tribù, sofisticate società di commercianti che allevavano mucche e cavalli, usavano il ferro e il rame e producevano vasellame in ceramica. Si stabilirono nell’ampia pianura indogangetica dove si trasformarono gradualmente da pastori e allevatori seminomadi in agricoltori stanziali. Qui ha avuto inizio il sistema delle caste, struttura di base della società e della vita quotidiana degli indù sopravvissuta a innumerevoli invasioni straniere, ai tumulti interni, alla colonizzazione e a tutte le vicissitudini economiche; dopo duemila anni continua a essere di vitale importanza per comprendere la società e la vita politica dell’India. La società indiana precoloniale, era una società in continuo movimento che ha visto lo sviluppo, il declino e la ripresa di fiorenti civiltà urbane, caratterizzate dalla presenza di un consistente ed esteso tessuto di centri urbani di varia grandezza, sede di una serie complessa di attività economiche e amministrative. A livello economico avevano particolare importanza i commerci che non erano solo locali, ma di media e lunga distanza e motivati dalla necessità di procurarsi due beni strategici non disponibili nel subcontinente, i metalli preziosi e i cavalli da guerra. Dentro e fuori dall’India c’era molta attività commerciale, sulle strade, lungo i fiumi e sulle coste. Le fitte reti commerciali si estendevano da Gandhara fino al Bengala, dal Bihar del nord fino alle coste dell’India meridionale. Le fonti scritte ci presentano un’immagine dell’India assai diversa da quella, tipica “orientalistica” di un paese isolato e distante: flussi commerciali e migratori, campagne di conquista, scambi culturali con i paesi del Sud-

7 Francesco D’ORAZI FLAVONI, Storia dell’India, Marsilio editore, Venezia 2000, pag 4. 8 Angus MADDISON, “ L’Economie chinoise, une perspective historique”, Studi dell’Ocse, Parigi 1998.

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est asiatico, con la costa dell’Africa orientale, con il Medioriente e con i paesi del Mediterraneo hanno segnato la storia di questa parte di mondo, modificando la presunta immutabile società indiana. Lo sviluppo economico della Cina precede quello indiano in modo significativo. I primi oggetti in ceramica ritrovati in Cina risalgono al 9000 a.C. , mentre l’agricoltura inizia all’incirca a partire dal 7000 a.C. Il miglio veniva coltivato e conservato all’interno di magazzini scavati nel terreno e i cani e i maiali erano già stati addomesticati. La coltivazione del riso, principale componente dei raccolti della Cina moderna, ha avuto inizio nelle pianure del fiume Yangtze intorno al 6000 a.C. La prosperità dell’agricoltura e le innovazioni tecnologiche sono elementi comuni alle prime e più antiche dinastie cinesi Xia e Shang. L’economia cinese ha continuato a svilupparsi anche durante la terza dinastia Zhou e gli strumenti agricoli diventano più sofisticati, dal bronzo si passa al ferro e all’acciaio. Questa dinastia è stata caratterizzata dall’innovazione e dalla modernizzazione, ma anche da conflitti militari che hanno fatto di quel periodo un tempo di rapida ma instabile espansione. Guerre a parte, sia l’India che la Cina duemila anni fa, hanno ottenuto significativi progressi economici e, allora come oggi, hanno potuto vantare il peso di enormi masse di popolazione. Per le medie di quel periodo entrambi i paesi vanno considerati come densamente popolati. Agli inizi dell’anno 1000 d.C. l’Asia era il centro di gravità del mondo, la Cina contava quasi 60 milioni di abitanti (raggiunse i 100 milioni nel medioevo), l’India 75 milioni: l’Europa occidentale aveva una popolazione inferiore ai 25 milioni. Nell’anno 1000 la ricchezza complessiva dei due paesi sfiorava il 52% di quella mondiale e fino al Rinascimento insieme erano responsabili di circa la metà dell’attività economica di tutto il pianeta. La tesi della superiorità economica della Cina e dell’India potrebbe sembrare a prima vista in contrasto con la storiografia prevalente e difficile da accettare; prima che il processo di colonizzazione europeo sconvolgesse la stabilità dell’Estremo Oriente, i flussi commerciali intrasiatici (tra cinesi, indiani, giapponesi, siamesi e arabi) erano di gran lunga superiori ai flussi intraeuropei. Secondo le stime di Paul Bairoch, verso la metà del XVIII secolo la Cina aveva livelli di produttività superiori alla media europea, se si tiene conto delle rispettive popolazioni del tempo. Come ha sottolineato Philip S. Golup, contrariamente alle idee diffuse in Occidente nel XIX e nel XX secolo, l’Asia orientale e meridionale per molti secoli ha occupato un posto preponderante nel commercio internazionale.9 In particolare, dal ‘500 fino agli inizi dell’800, la Cina è stata la prima potenza economica del mondo per Pil, seguita dall’India e, in terza posizione, dall’Europa. Per secoli i due paesi avevano avuto con l’Occidente una bilancia dei pagamenti costantemente a proprio favore, che non era segno di povertà o di sottosviluppo. Le merci che provenivano dalla Cina, seta, porcellana e tè, erano merci di lusso, che rientravano nei consumi delle classi privilegiate europee. Nonostante una crisi commerciale di grandi proporzioni (che nel ‘700 coinvolse tutta la parte occidentale dell’Oceano Indiano e che non mancò di influire negativamente sulle stesse fortune economiche della Compagnia inglese delle Indie Orientali) e nonostante le distruzioni legate alla guerra nell’alta vallata gangetica, nel XVIII secolo l’economia indiana attraversò una fase di crescita. Ancora nella seconda metà del ‘700 i tessuti di cotone o di cotone misto a seta prodotti in India erano concorrenziali sul mercato mondiale: il settore agricolo continuò a crescere sotto la spinta della domanda internazionale di prodotti quali tessuti e seta grezza, quest’ultima prodotta in Bengala. Dall’inizio del ‘700 in poi questo flusso commerciale si era

9 Franco MAZZEI, Vittorio VOLPI, Asia al centro, op. cit. , pag.17.

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moltiplicato a opera dei mercanti inglesi della Compagnia delle Indie Orientali. L’Europa non fu in grado di produrre nulla che avesse un mercato in Asia: viceversa c’era una richiesta continua e crescente di beni lavorati e semilavorati prodotti in Asia. Si trattava di beni la cui produzione comportava l’utilizzo di capitale finanziario, un’organizzazione del lavoro di tipo industriale e, nel caso delle porcellane cinesi, ingenti quantità di capitale fisso. Accanto alla superiorità nel settore economico gli asiatici, in particolare gli indiani disponevano di un sofisticato sistema finanziario. I potenti mercanti si specializzarono nel settore finanziario, concedevano prestiti, davano lettere di cambio, che potevano essere scambiate con metallo prezioso in zone geograficamente lontane, assicuravano le navi e i loro carichi. 3. Fine di un mondo dinamico Tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, la sfera espansiva delle nazioni europee si allargò agli estremi limiti dell’Asia e dell’Africa. Agli iniziali protagonisti dell’espansione occidentale, Inghilterra, Russia e Francia, si aggiunsero gli Stati Uniti, l’Italia, la Germania e il Belgio, mentre il Portogallo ampliava quelli che erano stati gli ultimi resti in Africa del suo impero del ‘400 e ‘500. Anche il Giappone, negli ultimi quarant’anni dell’800, realizzata velocemente la modernizzazione della propria economia e delle proprie istituzioni, diede inizio a un’aggressiva politica di espansione coloniale nei confronti della Corea e della Cina. Il nuovo rapporto di forza tra stati occidentali, che erano tali da far ritenere ormai imminente la rapida conquista di tutto l’Oriente da parte dell’Occidente, trovò espressione nel mutato atteggiamento degli europei nei confronti degli altri popoli, in particolare asiatici e nella persistenza dell’ideologia eurocentrica. Sufficienza, disprezzo e poi anche razzismo dominavano l’atteggiamento occidentale nei confronti di qualsiasi altra “civiltà” o cultura orientale. Dall’inizio dell’800 l’Oriente venne categorizzato non solo come diverso, ma anche come “barbaro” e “irrimediabilmente inferiore”; in particolare gli indiani venivano considerati irrazionali, prigionieri della tradizione, incapaci di ogni dinamismo, “dissimulatori, traditori, bugiardi”, “predisposti a esagerazioni eccessive per qualsiasi cosa li riguardi”, “codardi e senza cuore” e “in senso fisico, disgustosamente sporchi nelle loro persone e nelle loro case”.10 Anche la Cina, la cui civiltà era stata dai pensatori illuministi rispettata ed esplicitamente ammirata, veniva ora considerata come “inferiore”. In realtà il pensiero orientalista nacque per controllare politicamente e per sfruttare economicamente il mondo non occidentale e giustificarne intellettualmente questo stato di cose.

Nella seconda metà del ‘700, la rivoluzione industriale in Inghilterra si verificò in un momento in cui le economie asiatiche entrarono in una fase di rallentamento ciclico. Adam Smith ha riconosciuto che nel 1776 la Cina era un paese “ben più ricco di tutti i paesi d’Europa”, ma il suo sviluppo economico sembrava essere rimasto fermo ai tempi di Marco Polo: era anche impressionato dalla grande ricchezza dell’India e, contemporaneamente, dai bassi salari della sua forza lavoro. La ricchezza accumulata dalla Cina era però un patrimonio relativamente immobilizzato, a differenza del flusso di ricchezza mobile e dinamica che il commercio in Occidente portava nelle mani di una borghesia imprenditoriale.11 Smith è stato il primo a riconoscere che nel XVIII secolo il potere economico si stava allontanando dalla Cina e dall’India. Nonostante la Cina

10 Michelguglielmo TORRI, Storia dell’India, op. cit., pag 384. 11 Enrica COLLOTTI PISCHEL, La Cina La politica estera di un paese sovrano, Franco Angeli Editore, Milano 2002, pag 9.

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potesse contare su tutti quegli ingredienti che fecero la fortuna dell’Europa, il mercato, la tecnologia, un’agricoltura avanzata e i diritti di proprietà,12 alla fine del XIX secolo dovette cedere il passo al capitalismo europeo, con la sua attitudine alla crescita e al progresso tecnologico: ma furono senza dubbio le istituzioni, retaggio dell’illuminismo, a fare la differenza. L’Europa riuscì a creare una rete di istituzioni autonome, autorevoli, non dipendenti dallo stato e tuttavia pubbliche, che agirono in qualità di mediatori e di regolatori nelle relazioni tra stato e individuo. Invece i meccanismi dello stato cinese, la politica fiscale, il monopolio del potere burocratico, la mancanza di una rivoluzione industriale che permettesse l’innovazione tecnica delle scoperte, avevano stroncato e continuavano a frustrare la Cina. Ma nell’800 furono anche i mercanti inglesi e il contrabbando dell’oppio a dare inizio alla distruzione della grande ricchezza cinese; allo stesso modo è stato il regime coloniale e l’estensione dell’egemonia inglese a tutto il subcontinente indiano a “legalizzare” l’attività predatoria in India. Tuttavia il capovolgimento dei rapporti commerciali fra India ed Europa non fu legato alla superiorità delle merci europee su quelle asiatiche, bensì alla conquista militare del Bengala e all’uso della violenza. Esistono molti resoconti che mettono in relazione il declino dell’India con il suo sfruttamento da parte degli occidentali e in particolare della Gran Bretagna. Come la Cina anche l’India fu costretta ad aprirsi completamente al traffico commerciale. La Compagnia britannica delle India Orientali, che arrivò a governare l’India dai suoi uffici nella City di Londra, ottenne i diritti di esclusiva per l’importazione in Gran Bretagna di prodotti indiani. Fondata nel 1600 nei suoi primi 150 anni di vita la Compagnia operò essenzialmente come importante presenza commerciale lungo le coste dell’India, ma poi finì con l’immischiarsi pesantemente nella politica locale e si trovò a compiere i suoi primi passi verso l’occupazione dell’intero subcontinente. Il governo di sua Maestà e i direttori della Compagnia erano tutt’altro che entusiasti delle iniziative dei funzionari in India: l’occupazione accidentale e non pianificata dei territori non rappresentava un buon affare, perché costava tanto da mettere in crisi i bilanci stessi. Con il riconosciuto dominio inglese (Trattato di Parigi 1763), l’India subì un urto vigoroso: l’antico equilibrio rurale, basato su una miriade di villaggi autonomi venne minacciato e sconvolto, l’artigianato locale cadde in rovina, venne meno l’economia monetaria in ampie zone, ci fu il declino economico di un numero considerevole di città (anche se quest’ultimo processo fu in parte controbilanciato dalla crescita dei tre centri di irradiazione del nuovo potere coloniale, Calcutta, Bombay e Madras). Il paese era stato trasformato dai capitalisti inglesi in un mercato per le loro merci, fornitore di iuta e cotone destinate alle industrie inglesi del Lancashire. La Compagnia inoltre obbligò l’India a far parte di un particolare scambio commerciale in base al quale oppio, cotone e argento venivano esportati verso la Cina in cambio di tè e seta, poi venduti in Gran Bretagna. Per quanto il passaggio in Cina finesse per essere solo una tappa nel trasferimento della ricchezza indiana dal subcontinente all’Inghilterra, oltre agli inglesi ad arricchirsi furono anche certi gruppi di mercanti indiani che operavano da Bombay e da Calcutta. La partecipazione ai traffici internazionali con la Cina svolse un ruolo importante nelle fortune di quei gruppi mercantili indigeni che operavano sulla rotta India-Cina.13

12 Will HUTTON, Il drago dai piedi d’argilla La Cina e l’Occidente nel XXI secolo, Fazi editore, Roma 2007, pag 48. 13 Michelguglielmo TORRI, Storia dell’India, op.cit., pag 407.

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Gli inglesi saccheggiarono, sfruttarono e impoverirono l’India, distruggendo il suo potenziale economico a beneficio delle loro manifatture. La quota di produzione industriale dell’India rispetto al resto del mondo scese dal 25% nel 1750 ad appena il 2% nel 1900. “Non può esservi dubbio che la sofferenza inflitta dagli inglesi agli indostani è di una specie essenzialmente diversa e infinitamente più intensa di tutto quanto gli indostani avessero sofferto prima… tutte le guerre civili, le invasioni, le rivoluzioni, le conquiste, le carestie, per quanto stranamente complessa, rapida e distruttiva possa apparire la loro successiva azione nell’Indostan, non andò al di sotto della sua superficie. L’Inghilterra ha ridotto in frantumi l’intiera struttura della società indiana, senza che alcun sintomo di ricostruzione finora compaia. Questa perdita del suo vecchio mondo senza ottenere un mondo nuovo, conferisce un carattere particolarmente malinconico alla presente sofferenza dell’indù, e separa l’Indostan, dominato dall’Inghilterra, da tutte le sue antiche tradizioni e dall’intiera sua storia passata”: veniva così riassunta in termini di straordinaria eloquenza da Marx, in una serie di articoli del 1853 pubblicati sul Daily Tribune di New York, l’azione distruttiva esercitata sulla società indiana dal dominio britannico…..Come avvenne, Marx “presagì” l’azione “rigeneratrice” del dominio britannico nel senso che lo sfruttamento capitalistico era destinato, trasformando la società delle colonie, a suscitarvi forze sociali che avrebbero alla fine spezzato il giogo straniero.14 Per quanto riguarda la Cina, l’unica merce che gli inglesi riuscissero a collocare sul mercato cinese era quella (illegale) rappresentata dall’oppio, prodotto in India. Anche in Cina il rovesciamento dei flussi commerciali fu portato a termine con la forza, in seguito alle cosiddette guerre dell’oppio: l’onda d’urto dell’espansionismo coloniale europeo, verso la metà del XIX secolo, colpì in pieno la Cina. Agli inizi del secolo l’Impero del Centro, che si estendeva dall’Himalaya al Pacifico e dalla Siberia ai confini indiani, conobbe il peso dell’imperialismo. Tra il 1838 e il 1842, durante gli anni relativi alla guerra dell’oppio condotta dalla Gran Bretagna contro la Cina,15 la potenza asiatica venne sbaragliata e le fu imposto un trattato, che ebbe conseguenze macroscopiche nella distruzione della sua sovranità e soprattutto nella depradazione della sua ricchezza. Oltre alla marginale decurtazione territoriale di quella che divenne la colonia inglese di Hong Kong, che continuava a consentire il passaggio dell’oppio indiano, l’umiliante Trattato di Nanchino impose alla Cina il pagamento di un’indennità pari al valore dell’oppio distrutto e dei costi militari, sostenuti per una guerra che le veniva imposta e consentì agli inglesi di commerciare senza oneri nei cinque principali scali del paese. Seguirono non meno di ventisei altri trattati, che aprirono di fatto agli stranieri l’intera costa cinese e il sistema navigabile interno alle condizioni che questi dettavano. Indebolita dalle sommosse interne e dalle grandi rivolte, la Cina non era in condizioni di resistere: consegnò alla Russia una larga porzione di territori e fu preda delle ambizione del Giappone che le inflisse una sconfitta nella guerra sino-giapponese. Come conseguenza fu costretta a riconoscere la Corea e a cedere al Giappone alcuni territori, compresa l’isola di Taiwan. Gli stranieri, allettati dalla possibilità di spartirsi una “fetta cinese” arrivarono in gran numero. Questa zuffa per accaparrarsi le concessioni fu accompagnata dal rapido sviluppo degli investimenti stranieri nel paese verso zone in precedenza viste come chiuse e sfavorevoli. La Francia si prese una larga fetta della banca russo-cinese, che aveva finanziato la ferrovia della Cina orientale, il Belgio giocò un ruolo importante nel finanziamento della ferrovia Pechino-Hankou. Questi progetti ferroviari favorirono un’espansione degli investimenti

14 Quarant’anni di rivoluzione socialista 1917-1957, RINASCITA, Roma, novembre 1957, pag 163. 15 Come risposta all’iniziativa di Lin Zexu di sequestrare e poi bruciare le casse di oppio a bordo delle navi britanniche, al limite delle acque territoriali.

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interni che durò per decenni, passando attraverso la rivolta dei boxer, la rivoluzione del 1911, la prima guerra mondiale e le turbolenze e le agitazioni operaie degli anni ’20. La reazione cinese alla sfida occidentale fu quella di un paese ferito, fiero della propria civiltà di fronte all’aggressione dei “diavoli bianchi”, che reagì con un’ondata di xenofobia; la vasta e sanguinosa rivolta nel 1901, che procurò circa duecento vittime tra gli occidentali, fu repressa da un esercito in larga parte straniero, composto da una coalizione di otto stati, che pretesero poi di mantenere guarnigioni sul territorio infliggendo al paese un’ ulteriore umiliazione. Dopo la caduta imperiale, nel 1911, i russi fecero valere i rapporti da loro stabiliti con la classe dirigente mongola e proclamarono l’indipendenza della Mongolia esterna; gli inglesi, i cui ufficiali dall’India avevano compiuto una serie di spedizioni verso il Tibet, assunsero una posizione egemonica sull’altipiano e si servirono della locale classe dirigente monastica e aristocratica per accreditare l’esistenza di un regime indipendente di fatto in Tibet e dare a esso una personalità internazionale. L’attacco alla sovranità sui territori di frontiera si estese allo Xinjang; i dirigenti locali, con diverse e antiche radici di potere tra la popolazione turca e musulmana della regione, si proclamarono in vario modo indipendenti e in alcune fasi furono appoggiati dai sovietici. Di fronte a questo stato di assoggettamento e di umiliazione della sua identità, la risposta della Cina assunse un netto carattere rivoluzionario con forti caratteristiche nazionali. Nella Cina devastata non vi era uno stato da legittimare, ma solo da rifiutare: il problema era quello di elaborare le basi e le forme di una “Nuova Cina”, Xinhua. Furono i giovani intellettuali a captare l’eco della rivoluzione russa: molti di loro furono ispirati dall’analisi di Lenin sul fenomeno mondiale dell’imperialismo e al tempo stesso dalla rottura del fronte comune delle potenze che la rivoluzione russa aveva provocato. Essi potevano identificare, condannare e cercare di sconfiggere il sistema che aveva impoverito, umiliato, diviso e asservito la Cina. Il messaggio proveniente dalla Russia rivoluzionaria apparve prima di tutto come una strada per il recupero della sovranità cinese: si aggiunsero poi gli ideali di uguaglianza e il principio della lotta di classe propri del pensiero marxista, accolti e praticati da almeno una parte del movimento degli intellettuali rivoluzionali. La vittoria della Rivoluzione d’Ottobre, la creazione di uno stato sovietico in cui la libera scelta e l’eguaglianza delle nazioni si erano fatti realtà, il ripudio della politica imperialista di sopraffazione e di rapina verso i paesi più deboli e arretrati, il suo aiuto a quei paesi sulla base del rispetto dei loro diritti sovrani e della parità, segnarono uno storico salto qualitativo nello sviluppo della questione nazionale e coloniale verso la sua soluzione. La catena mondiale dell’imperialismo era ormai stata spezzata proprio nell’anello che legava l’Asia all’Europa e che diventava ora un ponte tra l’avanguardia della classe operaia europea e il proletariato dei paesi asiatici in lotta per liberarsi dal giogo del colonialismo e della dipendenza. Il movimento nazionale dei paesi oppressi, che, nella sua aspirazione a raggiungere l’indipendenza nella forma di uno stato moderno non aveva avuto altro modello a cui guardare se non le istituzioni dello stesso occidente capitalista che lo soggiogava, acquistava ora un modello vero da cui trarre esempio, coraggio, fiducia e destinato ad attrarre nella lotta anticolonialista le più larghe masse popolari. L’effetto elettrizzante sovietico si fece immediatamente sentire in quei paesi sul terreno ideologico e il marxismo raddoppiò di colpo la propria eco e il proprio prestigio. Lenin seguì con grande attenzione gli sviluppi della rivoluzione democratico-borghese in Cina e sottolineò gli importanti fermenti progressivi del pensiero del suo iniziatore Sun Yat-sen: “La democrazia borghese rivoluzionaria rappresentata da Sun Yat-sen

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cerca giustamente la via per un rinnovamento della Cina nello sviluppo di una maggiore attività indipendente, di una maggiore decisione e audacia da parte delle masse rurali nelle riforme politiche e agrarie” e concludeva che quando il proletariato cinese si fosse organizzato in una forza politica autonoma, esso “pur criticando le utopie piccolo-borghesi e le idee reazionarie del programma politico e agrario di Sun Yat-sen, ne sceglierà certamente con cura e ne conserverà e svilupperà il nucleo rivoluzionario democratico”.16 Quando nel 1921 un gruppo di giovani intellettuali formò il partito comunista, l’obiettivo principale che perseguivano era quello di riportare la Cina alla pienezza dei suoi diritti, alla sovranità e all’unità,17 raggiunta dopo anni di repressioni interne18 e resistenze agli stranieri19 con la Lunga Marcia di Mao Zedong. 4. Le radici della democrazia in India Anche in India il primo nucleo comunista nacque fra i giovani intellettuali piccolo-borghesi che durante la guerra avevano partecipato al movimento gandhista della non “cooperazione” e che dal fallimento di esso erano stati indotti a cercare, nello studio dell’esperienza russa, un’altra via per il riscatto del loro popolo. Il risveglio della coscienza nazionale si era sviluppato in opposizione al dominio straniero moralmente iniquo, politicamente inaccettabile ed economicamente distruttivo, causa della decadenza e dell’impoverimento del paese. Fu portato avanti da una classe media sostanzialmente omogenea dal punto di vista religioso, demograficamente consistente, economicamente prospera e con un livello d’istruzione relativamente alto. Le radici storiche della democrazia in India risalgono al periodo coloniale e fondamentale è stato il ruolo svolto dai colonizzatori inglesi nel favorire lo sviluppo di un sistema di tipo liberal-democratico, seppur all’interno di un sistema politico che rimase fondamentalmente autoritario. Fu a partire dagli anni settanta dell’800 che gli inglesi si resero conto che la posizione egemonica dell’impero britannico nel mondo era minacciata, sia sul piano politico che economico. Se si voleva far fronte con successo alla crisi che si andava profilando, bisognava far ricorso a una serie di strategie: l’unico modo per imporre nuove imposte senza provocare insurrezioni era quello di delegare questo compito agli stessi indiani, o quantomeno solo ad alcuni. Fu decisa così la creazione di organi municipali e distrettuali, governati ciascuno da un consiglio formato da indiani e delimitato sulla base del censo. Fu grazie a questo sistema di autogoverno che i politici indiani di nuova formazione familiarizzarono con i meccanismi politici di tipo liberal-democratico, che diventarono sempre più familiari nel panorama socio-politico dell’India coloniale. Assorbendo dai conquistatori ciò che le era utile, l’India riuscì prima con il movimento nazionalista di massa e poi a causa del declino del potere economico della Gran Bretagna, a costringere gli inglesi al ritiro definitivo nel 1947. Nel corso del conflitto mondiale il Partito del Congresso, guidato dal ’41 da Jawaharlal Nehru, promosse un movimento di resistenza non violenta alla guerra, strappando agli inglesi la promessa di concedere all’India lo status di dominion, che equivaleva a un’indipendenza di fatto.20 Ma fu Gandhi il Padre della Patria: addestrato alla lotta per i diritti civili era convinto che i conflitti si dovessero risolvere facendo leva sui valori comuni con l’avversario,

16 Quarant’anni di rivoluzione socialista, 1917-1957, RINASCITA, Roma, novembre 1957, pag 166. 17 Enrica COLLOTTI PISCHEL, La Cina la politica estera di un paese sovrano, op, cit, , pag 28. 18 Operate da Chiang Kai-shek. 19 Ai giapponesi. 20 A. GIARDINA, G.SABBATUCCI, V.VIDOTTO,,Manuale di storia, L’età contemporanea, Laterza editori, Roma-Bari 2000, pag.727.

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rispettandolo e amandolo. Scioperi fiscali, disobbedienza civile, marce pacifiche, boicottaggio delle importazioni made in England, digiuni a oltranza, furono tutte forme di lotta che spiazzarono e frastornarono gli inglesi, in crisi per le campagne di non cooperazione di massa. Le risposte repressive dei dominatori coloniali contribuirono alla coalizione nell’opinione pubblica e al trionfo della “non violenza”. Gli inglesi saggiamente, a differenza della maggior parte delle altre potenze coloniali europee, decisero di abbandonare i loro possedimenti indiani senza impegnarsi in inutili e sanguinose azioni di retroguardia.

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Capitolo II

“Asietà”

In un’affermazione antecedente la visita a Pechino, nel giugno del 2003 del primo ministro indiano Vajpayee, l’ambasciatore cinese in India Hua Junduo individuò tre periodi di “picco” nelle relazioni indo-cinesi: il primo corrispondente a due millenni addietro, quando il buddismo univa Cina e India nella primissima fase di contatto storico fra le due antiche civiltà; il secondo rappresentato dalla reciproca simpatia e sostegno alle rispettive lotte per l’indipendenza nazionale e di liberazione in età moderna. Il terzo negli anni ‘50 coincide con il “rapporto di buon vicinato” fra i due nuovi stati nazione, congiuntamente avviato sulla base dei cinque principi della coesistenza pacifica.21 L’India e la Cina, con le loro popolazioni numerose e ricche di risorse, per tutta l’epoca antica e moderna hanno costituito i due pilastri dell’economia mondiale, baluardi del progresso e della ricchezza. L’ascesa dell’Europa, del Nord America e del Giappone ha rappresentato un intermezzo del grandioso incedere nella storia di questi due paesi, che sembrano destinati a riprendersi quel posto che tradizionalmente spetta loro nel cuore dell’economia globale. La storia, secondo i calcoli di Angus Maddison, un autorevole storico britannico, è dalla parte dei due paesi asiatici e la loro crescita attuale non rappresenta altro che il ristabilimento dello status quo precedente. Per queste due antiche civiltà ci sono poche prove storiche di interazione politica; sono numerosissimi i dati che attestano i continui commerci oltre confine e gli scambi di idee nel corso dei secoli, ma ciò è avvenuto a dispetto della cooperazione e del confronto politico. Così il buddismo è penetrato e si è diffuso, dalle pianure del Nord dell’India verso l’interno del Tibet e della Cina, non attraverso la forza delle armi, ma grazie ai viaggi dei missionari armati solo di ciotole bhikshu. Ugualmente, quel tratto di territorio della famosa via della seta, che dall’odierno Pakistan si estendeva alle pianure del nord dell’India, è rimasto economicamente operativo durante tutti gli sconvolgimenti politici avvenuti in Cina e India, fino all’arrivo dei mercanti europei, che hanno cercato di assumerne il controllo e sfruttato alternative vie marittime. Si nascondono diverse ragioni dietro questa esperienza storica: innanzitutto Cina e India erano originariamente società autosufficienti, preoccupate soltanto delle proprie dinamiche interne e la loro esistenza non dipendeva dal commercio esterno. Anche la morfologia del territorio -in particolare la barriera naturale himalayana- ha ostacolato grandi movimenti di massa, circoscrivendo l’interazione a pochi mercanti, avventurieri ed esploratori. Infine l’enorme distanza tra gli epicentri delle due civiltà, quello cinese adagiato a est della Grande Muraglia e quello indiano originariamente al centro della pianura indo-gangetica, non garantirono alcuna interazione diretta tra i due popoli. Paradossalmente è stata l’esperienza coloniale e lo sfruttamento delle rotte marittime da parte delle potenze europee a fornire, per la prima volta, Cina e India di una storia politica comune. Anche se l’esperienza coloniale per i due paesi è stata molto diversa, entrambi sono stati sfruttati e soggiogati in eguale misura. Inoltre a causa della globalizzazione del commercio e della guerra dell’oppio durante il XVIII e XIX secolo, per la prima volta nella loro storia, le due civiltà si sono trovate l’una contro l’altra: gli

21 S. KUMAR, India’s International Relations, Maxford Books, New Delhi 2006, pag 178.

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inglesi vendevano l’oppio indiano alla Cina per pagare il tè, di cui c’era grande richiesta in Inghilterra. Sotto questo modello occidentale di globalizzazione, India e Cina sono state inevitabilmente costrette a competere tra loro. Durante la seconda guerra mondiale sono state poi obbligate, su richiesta delle potenze occidentali, a cooperare reciprocamente per prevenire l’espansione giapponese nei loro tradizionali territori coloniali: confronto e cooperazione non furono mai una loro iniziativa! Quando il 15 agosto del 1947 l’India raggiunse l’indipendenza dopo un lungo movimento di liberazione non violento e la Cina comunista emerse il primo ottobre 1949, in seguito a un intenso e violento sconvolgimento politico interno e una guerra civile, c’erano grandi aspettative che le due antiche civiltà forgiassero una formidabile partnership nel mondo post-coloniale. La fratellanza antimperialista fu un episodio di breve durata: ci fu una breve luna di miele dal ’49 al ’54, periodo durante il quale i due vicini stabilirono relazioni diplomatiche, si scambiarono visite ad alto livello, condivisero cordiali intese, ma l’idillio non durò a lungo. Sul finire degli anni ’50 sono emerse serie difficoltà in particolare riguardo un confine non demarcato e dal 1962 i due paesi erano in guerra. 1. Il destino degli asiatici si decide in Asia La seconda guerra mondiale portò a piena maturazione gli elementi qualitativamente nuovi, introdotti dalla Rivoluzione d’Ottobre, nella questione coloniale, trasformando i paesi oppressi nel punto di maggiore debolezza del sistema imperialista. Per i comunisti la lotta di liberazione anti-imperialistica era un aspetto centrale della loro aspirazione alla rivoluzione mondiale: Lenin affermava che la via per conquistare le metropoli dell’occidente passava per le metropoli dell’Asia, conferendo così al continente asiatico una priorità nella lotta contro l’imperialismo.22 La facilità con cui l’invasione giapponese dilagò in Indocina, Indonesia, Birmania, Filippine fino alle porte dell’India senza che le potenze colonialiste potessero opporsi, distrusse nella coscienza dei popoli il mito dell’invincibilità dell’Occidente. La resistenza dell’Unione Sovietica all’aggressore nazista, la sua vittoria sulla Germania e il fulmineo annientamento delle forze nipponiche in Manciuria, dimostrò come quel paese avesse ora le forze per sconfiggere l’imperialismo più agguerrito e spietato. Quanto all’India, dove nel movimento di liberazione l’egemonia era mantenuta dalla borghesia nazionale (Lenin aveva già sottolineato il ruolo della borghesia nazional-rivoluzionaria nella lotta contro l’imperialismo e fu in questo senso che egli interpretò l’azione di Gandhi in India), gli imperialisti conclusero che conveniva loro concedere un’intesa e che il paese avrebbe potuto essere tenuto in una reale condizione di dipendenza economica e politica: era arrivata a un punto tale di ebollizione nazionale, “una nave in fiamme in mezzo all’oceano, con la stiva carica di munizioni” come l’aveva definita lord Ismay,23 capo di stato maggiore inglese, che l’Inghilterra, per mantenere lo status quo, avrebbe avuto bisogno di una forza di occupazione di 500mila uomini, di cui in quel momento non disponeva. Il governo laburista inglese non vide altra alternativa che trasferire il potere al Congresso nazionale, il partito di Gandhi e Nehru che formò il governo.

22 Dietmar ROTHERMUND, Delhi, 15 agosto 1947 La fine del colonialismo, il Mulino,Bologna 2000, pag 171. 23 Ivi pag 173.

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La costituzione della Repubblica popolare cinese, il primo ottobre del 1949, costituiva un evento storico, destinato a influire su tutto il corso della politica mondiale, accelerando e consolidando, in particolare il moto di liberazione che agitava irrefrenabile, dopo la seconda guerra mondiale, il continente asiatico: anche l’Indonesia, dopo India, Pakistan, Birmania e Ceylon, conquistava alla fine dell’anno l’indipendenza. In Cina furono le armate comuniste che sbarrarono la strada e fecero rotolare nella polvere l’ambizione dell’imperialismo americano di dominare alcuni paesi dell’Asia. Mai nell’epoca moderna i popoli asiatici hanno lottato con tanto slancio e con tanta unità contro l’oppressione straniera. I nuovi stati dell’Asia meridionale, nati da una profonda pressione anticolonialista delle grandi masse popolari, del proletariato e dei comunisti, si proponevano Cina e India come modello da seguire per il consolidamento della propria indipendenza e il riconoscimento internazionale. Lo schieramento anticolonialista assunse un’ampiezza e un’organicità quali non si erano mai avute, in occasione della conferenza di Bandung, città indonesiana nella parte occidentale dell’isola di Giava. Promossa tra il 18 e il 24 aprile 1955 dall’India, dall’Indonesia, dalla Birmania, dal Pakistan e da Ceylon e con la partecipazione della Cina, aveva lo scopo di allargare il principio della coesistenza a ventinove paesi dell’Asia, del Medio Oriente e dell’Africa; era un summit di paesi che avevano sofferto il colonialismo e l’imperialismo occidentale, in cui il grande assente era l’Occidente. “Per gli asiatici questo significa che finalmente il destino dell’Asia si decide in Asia, non a Ginevra, né a Parigi, né a Londra, né a Washington. L’Asia è libera. Questo forse è l’evento storico del secolo..” così commentava il vertice un quotidiano americano. In quell’occasione l’espressione “Terzo Mondo”, oggi banalmente sinonimo di sottosviluppo, assumeva il fascino di un nuovo schieramento politico, che non stava né con gli Stati Uniti, né con l’Unione Sovietica, ma cercava di divincolarsi dalla logica degli schieramenti. Nel corso della conferenza di Bandung, a cui parteciparono 29 stati24 e che intendeva rendere pubblica l’amicizia sino-indiana nel più ampio contesto di solidarietà fra gli stati afro-asiatici di nuova indipendenza, riemerse l’antico sentimento anticinese dell’opinione pubblica indiana. Non era un fatto scontato che la Cina si liberasse dall’influenza sovietica, nella cui sfera si era aggregato il paese più popoloso della terra: la rivoluzione maoista era stata una vittoria per l’Urss! Anche molti vicini della Cina erano a favore dell’Occidente e guardavano con profondo sospetto a una “guida comunista” cinese. Bandung rappresentava per la Cina la prima occasione importante per rientrare nel grande giro della politica internazionale dopo l’isolamento inflittole dagli Stati Uniti; dal 1950 era priva di relazioni diplomatiche con i paesi occidentali che riconoscevano Taiwan e doveva accontentarsi dei rapporti con l’Urss e i suoi satelliti. Per Nehru la conferenza rappresentò una piattaforma di grande visibilità e prestigio da cui enunciare le sue teorie di non allineamento, ma desideroso di risolvere i problemi in pieno accordo con la Repubblica popolare cinese, mitigò tutte le paure e convinse molti tra i non allineati delle credenziali della Cina per poter far parte della nuova comunità di nazioni. Fu a Bandung che Nehru enunciò i cinque principi della pace, i Pancha Shila -dal nome dei cinque precetti morali del buddismo- che avrebbero dovuto essere posti alla base dei rapporti fra le nazioni non allineate e che riguardavano il mutuo rispetto dell’integrità e della sovranità territoriale di ogni stato, il rifiuto dell’aggressione, la mutua non ingerenza negli affari interni, lo sviluppo di rapporti basati sulla parità e su reciproci 24 A. GIARDINA, G. SABBATUCCI, V. VIDOTTO, Manuale di storia L’età contemporanea, Laterza editori, Roma-Bari 2000, pag. 738.

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vantaggi e la coesistenza pacifica. Nella medesima occasione, Nehru ribadì il principio, di chiara derivazione gandhiana, che le eventuali dispute fra le nazioni non allineate, avrebbero dovuto essere risolte pacificamente, attraverso trattative senza precondizioni. Accanto ai principi base della politica estera nehruviana ( non allineamento, anticolonialismo, antirazzismo, pacifici negoziati senza precondizioni) ce n’era un altro, comune al nazionalismo indù, secondo cui la nazione indiana, lungi dall’essere una creazione recente, esisteva da tempo immemorabile. I confini dell’India esistevano oggettivamente ed erano il risultato di un processo di cristallizzazione storica, verificatosi nel corso dei millenni. Occorreva quindi accertare, in base alla documentazione storica, dove questi confini si trovassero, per poi rivendicarli. La messa in opera di questa convinzione è stata la causa per cui i rapporti fra i due giganti asiatici passarono dall’amicizia allo scontro armato. 2.Tensioni post-coloniali La contesa di frontiera sino-indiana è stata una della fasi più drammatiche delle relazioni internazionali a metà del XX secolo: le due nazioni più popolate del mondo, le nuove grandi repubbliche dell’Asia, che sembravano avviate su un cammino di cooperazione amichevole, nonostante i loro sistemi di governo fossero agli antipodi, litigarono per zone di territorio desolato, impraticabile e inutile e finirono col combattere una guerra di frontiera breve e violenta. La questione sul confine tra Cina e India, lasciata in sospeso dalla storia, ha avuto una tale importanza nella regione asiatica che ha dato origine a una serie di ricadute nelle relazioni sino-indiane. Il confine sino-indiano non è mai stato formalmente delimitato, tuttavia esisteva una tradizionale linea consuetudinaria che era divisa in tre settori: il settore orientale e centrale che correvano lungo la catena himalayana e quello occidentale lungo il Karakorum. Le principali divergenze tra Cina e India riguardavano i settori orientale e occidentale. Per l’India la cosiddetta linea McMahon rappresentava il confine per il settore orientale, mentre in quello occidentale il territorio reclamato dall’India includeva l’Aksai Chin, il cui nome significa deserto di pietre bianche. Questo altipiano alto e desolato, a circa 5200 metri sul livello del mare, dove non cresce nulla e non vive nessuno, si estende tra le torreggianti catene del Karakorum e del Kunlun. Sebbene desolata e inaccessibile, per la mancanza di foraggio o riparo e per i suoi micidiali venti, questa regione ha avuto per l’uomo la sua importanza. In mezzo all’altipiano si snodava un’antica strada commerciale percorsa durante la breve estate - quando, verso mezzogiorno, il ghiaccio si scioglie per poche ore, alimentando torrenti che procurano l’acqua alle bestie - da carovane di buoi carichi di seta, giada, canapa, sale o lana, che andavano dall’attuale Xinjiang fino al Tibet, da sempre sotto l’amministrazione della Cina; nel settore centrale il territorio conteso apparteneva tutto alla Cina. L’eredità coloniale è stata la principale responsabile della disputa di confine sino-indiana. L’incontro di Simla del 1913-4, a cui presero parte rappresentanti dell’India britannica, del Tibet e della Repubblica cinese, si tradusse in un accordo in cui i riferimenti ai confini naturali come limite tra l’India britannica e il Tibet erano abbastanza vaghi. Dai documenti della conferenza risultava che stimati funzionari dell’India britannica avessero agito a danno della Cina, violando consapevolmente le istruzioni ricevute, trasformando l’incontro in un vero pasticcio diplomatico. La conferenza non diede luogo ad alcun accordo in cui il governo della Cina figurasse come una delle parti. La Cina, che negava al Tibet il riconoscimento di stato sovrano e l’autorità di fare dei trattati che a esso si accompagna, dichiarò formalmente,

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enfaticamente e ripetutamente che non avrebbe riconosciuto alcun accordo bilaterale tra il Tibet e la Gran Bretagna. In realtà c’era stato un accordo di questo tipo, come prodotto segreto della conferenza di Simla; nel febbraio e nel marzo del 1914 a Delhi, inglesi e tibetani discutevano sulla linea di confine Tibet-Assam, giungendo a un accordo su un tracciato: la linea McMahon. I cinesi non furono invitati a partecipare alle discussioni, né informati e nei vent’ anni che seguirono la conferenza, gli inglesi non fecero alcun tentativo di rendere frontiera effettiva la linea della mappa di McMahon. Questa linea fu tracciata su una mappa, le cui copie furono conservate sia a Lhasa che dagli inglesi e accettata dal Tibet in uno scambio di lettere tra sir Henry McMahon e il plenipotenziario tibetano. Il percorso della “linea rossa” seguiva, per quasi tutta la lunghezza, il margine del vasto altipiano tibetano nel punto in cui cede bruscamente il passo alla zona accidentata, scoscesa e frastagliata che scende verso la valle del Brahmaputra. La linea divenne anche una frontiera etnica per i tibetani che non avevano occupato le inospitali valli umide al di sotto del loro altipiano. Con questo tracciato gli inglesi cercarono di portare sotto la loro sovranità una zona che, per gran parte della sua estensione, era una terra tribale di nessuno. I tibetani consideravano la frontiera McMahon come parte di un accordo in base al quale avrebbero dovuto essere ricompensati per la cessione di territori agli inglesi, ottenendo una frontiera soddisfacente e un più alto livello di indipendenza dalla Cina. Da allora i governanti britannici dell’India tentarono di far accettare la tesi dell’indipendenza di fatto del Tibet a livello internazionale, ma non vi riuscirono: nessun trattato internazionale è mai intervenuto a sancirne l’indipendenza dallo Stato di Centro. Nessun governo cinese ha mai rinunciato al proprio potere sull’altopiano: il regime del Guomindang, dopo il 1927 non volle mai venir meno al principio per cui il Tibet era un territorio sotto sovranità cinese; uno dei primi problemi che la neonata Repubblica popolare si era posta a proposito dell’unità nazionale, è stato quello delle regioni esterne, già in vario modo sottratte alla sovranità cinese. Appena un anno dopo la rivoluzione comunista, risolto e archiviato il problema della Mongolia (accordo tra Urss e regime di Guomindang ), la Repubblica popolare e il Partito comunista cinese affrontarono quasi immediatamente quello del Tibet.25

25 Enrica COLLOTTI PISCHEL, La Cina La politica estera di un paese tornato sovrano, op. cit., pag.36

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Capitolo III

Il paese delle nevi Con 3,8 milioni di chilometri quadrati di superficie, il Tibet occupa un terzo della Repubblica popolare, ma i suoi 6 milioni di abitanti sono appena lo 0,5% dei cinesi. Questa immensa regione di montagne e altipiani ha sempre suscitato gli appetiti dei suoi vicini, indiani e cinesi, per la posizione strategica, perché controlla riserve d’acqua vitali per tutto il continente (lo Yangtze, il Fiume Giallo, il Mekong, l’Indo, il Brahmaputra nascono qui) e per la presenza di giacimenti di minerali preziosi, dall’oro all’uranio. Nel corso della sua storia il Tibet ha visto alternarsi periodi di indipendenza a temporanee occupazioni, e a conflitti con musulmani e cinesi. Il paese fu del tutto indipendente dal 1911, anno della fine dell’impero cinese, fino a due anni dopo la vittoria comunista del 1949. Prima dell’invasione cinese il Tibet era un paese a stretto regime teocratico e le gerarchie religiose governavano ogni aspetto della vita sociale e privata. Al di fuori dei grandiosi conventi buddisti la vita era poca cosa per i contadini e gli allevatori di yak. Nei conventi di Lhasa viceversa l’austerità era una scelta rigorosa, o almeno così appariva a chi ne avesse notizia dall’esterno. Nel clima rarefatto dei 3-4000 metri di altitudine, questa situazione si era conservata per secoli, in una solitudine e un’autonomia che l’India aveva, seppure indirettamente, tutelato, rendendo difficile o comunque non agevole l’accesso al Tibet di chiunque gli fosse estraneo. I cinesi ne consideravano invece solo la particolare condizione strategica di testa di ponte per possibili attacchi stranieri alle sottostanti, seppur lontane pianure della Cina. Nei primi anni del ‘900 l’ultima dinastia dei Qing, già agonizzante per le umiliazioni subite dalle potenze imperialiste, temeva una penetrazione inglese dal continente indiano attraverso il Tibet. La presenza di una popolazione locale di etnia sinica, indusse i cinesi a occupare Lhasa, per liberarla dall’invasore occidentale. Da allora i termini della questione tibetana non sono mai cambiati: sotto qualsiasi regime, la Cina continua a considerare il Tibet un cuscinetto strategico per proteggersi a ovest e inventa ogni sorta di legittimità, dalla lotta antimperialista all’unità sino-tibetana, che gli storici revisionisti del regime fanno risalire ai tempi di Marco Polo.26 Nell’immediato periodo post-coloniale nelle relazioni sino-indiane, c’erano state evidenti e importanti differenze ideologiche. Subito dopo il successo della rivoluzione comunista di Mao, l’India è stato uno tra i primi paesi a riconoscere la Repubblica popolare cinese: New Delhi inviò Sardar K. M. Pannikkar, uno dei più abili diplomatici, in qualità di ambasciatore a Pechino, a dimostrazione di come l’India fosse ben disposta nei confronti della Cina comunista. Nehru nutriva una forte simpatia per le aspirazione della nazione cinese e sia pure con gradi di intensità diversi la sua fede nel socialismo e l’impegno per le riforme sarebbero rimasti intatti negli anni; era stato in contatto con i nazionalisti cinesi durante gli anni del movimento di liberazione indiano e, come momento di particolare entusiasmo, si ricorda una sua visita in Cina (1954) che sembrava averlo convinto della necessità di spingere per la riforma in senso collettivista della proprietà agricola e per la trasformazione del Congresso in vero partito socialista.27 Nei suoi primi discorsi di politica estera, dopo che l’India aveva ottenuto

26 FedericoRAMPINI, L’ombra di Mao, Mondadori editore, Milano 2007, pag 50. 27 Francesco D’ORAZI FLAVONI, Storia dell’India,op. cit. , pag 49.

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l’indipendenza, aveva fatto riferimento all’Asia come a una zona di pace; il conflitto era iniziato soltanto con l’intrusione dell’imperialismo. Con l’emancipazione dell’Asia la pace sarebbe stata restaurata. In questo spirito ottimista e antimperialista aveva salutato con entusiasmo la vittoria di Mao, col quale sperava di stabilire rapporti di pace e armonia. Diversamente da parte di Mao non si evincevano dimostrazioni altrettanto lusinghiere; Pechino inizialmente considerò il governo indiano come un “governo fantoccio” dell’imperialismo e un ostacolo ai movimenti di liberazione nazionale.28 Solo quando l’India dichiarò la sua neutralità nella guerra di Corea e sostenne a gran voce un seggio per la Cina alle Nazioni Unite, a dispetto della strenua opposizione degli Stati Uniti, Pechino cambiò parere e accettò le credenziali anti-imperialiste dell’India. “Hindi, Chini bhai bhai” (Indiani e Cinesi sono fratelli), famosa frase dell’epoca, riassume la crescente solidarietà venutasi a creare, nei primi anni ‘50 tra i due paesi asiatici di nuova indipendenza. Durante questo periodo, caratterizzato da un clima di euforia e cordialità, le rivendicazioni territoriali furono in gran parte accantonate per ben più preoccupanti problematiche regionali e internazionali relative alla loro sicurezza. La Cina riconobbe l’India come leader nel movimento del non allineamento, a patto che New Delhi sostenesse la posizione di Pechino su Taiwan e si impegnasse per far entrare la Cina nella famiglia dei paesi afro-asiatici. Tuttavia nei cinque decenni successivi è stato il conflitto geopolitico a dominare le relazioni bilaterali tra i due emergenti giganti asiatici. Nel 1950, l’Esercito di Liberazione Popolare cinese, marciò verso Lhasa e pose il Tibet sotto il controllo della Cina. Questa acquisizione “di fatto” divenne “di diritto” quando il giovane Dalai Lama, l’autorità tibetana riconosciuta, accettò il diciassettesimo punto dell’accordo del maggio 1951 con la Cina, che effettivamente invalidava ogni richiesta tibetana di indipendenza. Per la Cina l’annessione del Tibet è stata la fase finale dell’unificazione della Cina delle cinque etnie; per l’India la frontiera himalayana in generale e l’altopiano tibetano in particolare - che aveva rappresentato una zona cuscinetto di vitale importanza tra i due paesi asiatici sin dai tempi dell’impero britannico - si dissolse nel giro di una notte. Nehru che non aveva capito in anticipo le mosse di Pechino in Tibet, in breve tempo incluse Nepal, Bhutan e Sikkim nel perimetro di difesa indiano ed estese l’amministrazione a Tawang, un villaggio monastico dietro la Linea McMahon; cercò poi di persuadere la Cina a mantenere una relazione di basso profilo con il Tibet, che avrebbe dovuto garantire ampia sovranità e autonomia a Lhasa. L’opera di convincimento e i negoziati fallirono. L’occupazione cinese del Tibet era ormai un fatto compiuto e in mancanza dei mezzi necessari per sfidare questa realtà, Nehru riconobbe il Tibet come una regione autonoma della Cina con un accordo nel 1954 che spianò la strada per migliori relazioni tra i due paesi. Nella prefazione l’accordo elencava i famosi “cinque principi della coesistenza pacifica”, che diventarono lo slogan delle aspirazioni morali e della politica estera indiana dell’epoca. Ciò segnò e simbolizzò in particolare l’avvio di un periodo di amicizia dimostrativa tra India e Cina. In India la politica di Nehru verso la Cina continuò a incontrare opposizioni e critiche, ma solo in forma sotterranea. Per il nazionalismo indiano la visione delle due nuove grandi repubbliche asiatiche in marcia amichevole verso un futuro migliore, aveva un richiamo potente e il panch sheel era percepito non solo come la guida delle relazioni dell’India con la Cina, ma come un faro per tutte le nazioni.

28 Waheguru Pal Singh SIDHU, Jing-Dong YUAN, China and India Cooperation or Conflict?, Lynne Rienner Publishers, 2003, pag.11.

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Accantonata la questione del Tibet, New Delhi sperò di sfruttare l’entente cordiale generatasi per raggiungere un accordo con la Cina comunista riguardo la Linea McMahon, in modo che le divergenze sulla questione non compromettessero le loro relazioni. Il tentativo di scongiurare la prospettiva di uno scontro tra India e Cina è stato sostenuto dal comandante dell’esercito indiano, il Generale K.S. Thimayya, che rivelò la consapevolezza di Nehru della minaccia cinese, dell’impossibilità di intervenire militarmente e della risoluzione diplomatica. India e Cina iniziarono i colloqui sul confine già nel 1954, ma fallirono. In coincidenza del deteriorarsi delle relazioni sino-indiane, la ribellione tibetana contro la Cina esplose alla fine del marzo del 1959. 1. Venti di guerra La notizia della rivolta delle tribù tibetane e la fuga del loro capo spirituale, sollevò il sospetto e il risentimento degli indiani per la presenza cinese sull’altopiano. Nehru si trovava ancora una volta prigioniero di un dilemma: le forti pressioni dell’opinione pubblica richiedevano qualche parola di simpatia e appoggio ai ribelli tibetani, mentre considerazioni di correttezza diplomatica suggerivano di mantenere il silenzio su un argomento che l’India aveva riconosciuto di pertinenza cinese. Fallita la rivolta il Dalai Lama, travestito da soldato, scappò da Lhasa e, sicuro dell’asilo politico garantito da Nehru, raggiunse l’India per formare un governo in esilio nella città di confine Dharamsala, nell’India del nord. La Cina aveva accusato India e Usa di aver sostenuto la ribellione; senza l’assistenza e l’invio di armi da parte della Cia, riferiva Pechino, sarebbe stato praticamente impossibile per il Dalai Lama sfuggire all’esercito di liberazione popolare. La ribellione tibetana e l’ondata di rifugiati in India portò a ulteriori tensioni tra i due paesi: “Agli occhi dei cinesi, le ribellioni tibetane, l’asilo politico concesso al Dalai Lama e la calorosa accoglienza dello stesso Nehru, in quel momento costituivano un atteggiamento sconveniente, se non provocatorio”.29 La visita di Nehru a Mussoorie, la stazione climatica collinare dove si era stabilito il primo quartier generale tibetano, mal si accordava al modo con il quale un governo avrebbe dovuto ricevere il capo di una rivolta in atto in uno stato vicino e amico.30 Ciò rimise in discussione lo status del Tibet, l’adesione dell’India all’accordo del 1954, il tutto esacerbando le divergenze che erano emerse durante i negoziati sul confine, alla fine degli anni ’50. Venne messa in luce la questione dei confini storici del Ladakh nella regione del Kashmir indiano, della frontiera Nefa, l’odierno stato dell’Arunachal Pradesh, del nord dell’Assam e dell’est del Myanmar. La Cina aveva già occupato la pianura dell’Aksai Chin e costruito una strada che l’attraversava per collegare la regione tibetana con quella dello Xinjiang; nel 1959 l’India lanciò l’operazione Onkar, un piano per stabilire basi militari lungo la linea McMahon e, in alcuni casi, dietro di essa. Nell’ultimo disperato tentativo di riportare i colloqui sul confine nella giusta strada, Nehru e Zhou si incontrarono a New Dehli dal 19 al 25 aprile del 1960. Tuttavia la situazione di stallo continuava inesorabilmente, nessuna delle parti era disposta a retrocedere dalle proprie posizioni. Con le forze indiane che avanzavano verso nord e le unità dell’esercito di liberazione popolare che rispondevano colpo su colpo, le piccole scaramucce si evolsero in un confronto militare aperto.

29 Waheguru Pal Singh SIDHU, Jing-dong YUAN, China and India Cooperation or Conflict?, op. cit., pag.14. 30 Neville MAXWELL, L’India e la Cina: storia di un conflitto, Mazzotta, Milano 1973, pag 285.

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La guerra scoppiò il 20 ottobre del 1962, quando le truppe cinesi “sfrattarono” con la forza quelle indiane dalla base di Dhola, nella parte orientale dietro la linea McMahon. Nel corso del mese successivo le truppe cinesi ebbero la meglio sulle impreparate forze indiane, in tutti i settori lungo la linea di confine; nel teatro delle operazioni di guerra nel Ladakh, l’India riuscì a mala pena a prevenire una completa disfatta mentre da metà novembre, l’esercito cinese, era già in possesso di tutti territori. Nella frontiera nord-est l’esercito indiano se la passava piuttosto male: di fronte all’assalto vigoroso dei cinesi, il tentativo di difesa indiano collassò, il morale delle truppe era terra e il comando dell’esercito screditato. Poi, quasi inspiegabilmente, il 21 novembre 1962 il governo cinese annunciò una ritirata fino a quelle zone in cui riteneva dovessero trovarsi i confini territoriali. La spiegazione dell’armistizio e del ritiro unilaterale veniva cercata in fattori estranei al contesto sino-indiano. C’era chi prospettava l’ipotesi che esso era stato provocato da un ultimatum russo, o che i cinesi avessero rinunciato all’invasione per timore di un intervento a favore dell’India da parte degli americani, che ora avevano le mani libere dal confronto cubano. Altri erano pronti ad accettare la versione propagandata dall’India, che cioè i cinesi si erano visti costretti prima a fermarsi e poi a retrocedere, perché avevano troppo allungato le proprie linee di comunicazione e si trovavano così vulnerabili a un contrattacco indiano: in effetti il ritiro cinese, come andava dicendo un parlamentare indiano, era “sostanzialmente ispirato dalla paura”. Col tempo si giunse quasi a convincersi, come disse Nehru, che i cinesi si erano dati alla fuga per non dover fare i conti “con l’inaspettata collera del popolo indiano quando viene provocato”. Il governo indiano obiettò con veemenza, ma c’era veramente poco che potesse fare: anche se la guerra non aveva cambiato lo status quo del confine, l’India ne era uscita sconfitta e costretta ad accettare sia le perdite territoriali che la generale umiliazione nazionale: il primo ministro Nehru non si sarebbe mai ripreso da questo trauma. Nel dicembre dello stesso anno il primo ministro di Ceylon, Srimavo Bandaranaike, convocò a Colombo una conferenza delle nazioni afroasiatiche, per riportare Cina e India, a cui le nuove nazioni indipendenti guardavano come modello, al tavolo dei negoziati. L’incontro produsse una serie di proposte più o meno accettabili per l’India; la Cina insistette perché l’India ritirasse le sue truppe per 20 chilometri dalle aree dei confini disputati in entrambi i settori, occidentale e orientale. Pechino respinse le proposte come base per i negoziati e a causa di ciò Cina e India rompevano le loro relazioni; sarebbero passati ancora altri due decenni prima che riprendessero i negoziati sul confine. Anche se la guerra sino-indiana era stata principalmente un affare bilaterale, che Pechino considera come una breve guerra di confine e New Dehli una umiliazione nazionale, è oggi ormai chiaro che il confronto non è rimasto circoscritto a questi due attori; anche Stati Uniti e Unione Sovietica sono stati coinvolti durante diversi momenti della guerra, il loro coinvolgimento (o l’assenza di esso) ha avuto un impatto diretto sulla durata e l’esito del conflitto.31 2. Nuovi attori nella disputa sino-indiana Anche se la politica ufficiale sovietica sulla disputa di confine sino-indiana era neutrale, nella pratica Mosca è stata fortemente critica nei confronti del modo in cui Pechino trattò la crisi. In seguito agli scontri del 1959, l’Unione Sovietica denunciò l’approccio

31 Waheguru Pal Singh SIDHU, Jing-dong YUAN, China and India Cooperation or Conflict?, op. cit., pag.16.

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cinese come “espressione di un meschino atteggiamento nazionalista” e ripiegò a favore dell’India, sostenendo l’impossibilità di un attacco militare contro la Cina, da parte di un paese così debole militarmente ed economicamente come l’India. Nikita Khrushchev arrivò al punto di accusare Mao di fomentare problemi con l’India per “una fantasia malata”32 di voler trascinare l’Urss nel conflitto. Mosca aveva ignorato le proteste della Cina e rifornì l’India di aerei da trasporto da usare nella regione del Ladakh. L’atteggiamento sovietico non rifletteva necessariamente una politica a favore dell’India, ma era il risultato diretto dello scontro ideologico-politico tra Mosca e Pechino alla fine degli anni ’50: ciò divenne evidente con l’inizio della crisi missilistica cubana, quando Mosca attenuò la sua invettiva anti-Pechino e, al contrario, diede la colpa alla “famosa linea McMahon” imposta ai due paesi. Gli Stati Uniti, sotto la nuova amministrazione Kennedy, avevano sviluppato stretti legami con l’India, nel corso della guerra, Washington fece un accordo formale con New Delhi per fornire supporti allo scontro bellico: una squadriglia di C-130 da trasporto faceva da quindici a diciassette voli al giorno tra India centrale e Leh, per portare al fronte gli approvvigionamenti. Nehru chiese a Stati Uniti e Gran Bretagna l’aiuto dei bombardieri per impedire l’avanzata delle truppe cinesi e da altri ufficiali dell’esercito era richiesta a gran voce l’invio della Settima Flotta nella Baia del Bengala, come dimostrazione dell’appoggio statunitense per intimidire la Cina; nessuna delle richieste fu però accolta. Fu così che, nei primi anni ’60, una breve guerra tra i due giganti asiatici ebbe la capacità di evolversi in un confronto maggiore che avrebbe anche impegnato le due superpotenze. Il coinvolgimento di Usa e Urss significò per Pechino prendere una decisione alla svelta: i politici cinesi decisero che l’operazione in Tibet sarebbe stata un’azione punitiva e la portarono a termine prima dell’inverno. Questa tattica funzionò grazie alle pronte e risolute risposte degli americani e degli inglesi alle incombenti richieste di aiuto di Nehru e al successo dell’avanzata cinese. Le forze armate indiane dimostrarono, invece, di essere assolutamente incapaci di difendere l’integrità territoriale dell’India: era ormai svanita quella sensazione di ottimismo che aveva caratterizzato la politica estera tra il 1947 e il 1962. Stati Uniti e Gran Bretagna che si erano mostrati favorevoli all’India e l’Unione Sovietica, che aveva abbandonato la sua professata neutralità e le critiche alle azioni cinesi, erano in realtà incapaci o, forse restii, a impegnarsi militarmente contro la Cina. Uno degli insegnamenti che l’India trasse dalla guerra del 1962 è stato il bisogno di creare una propria capacità convenzionale, per neutralizzare la minaccia cinese. Quando appena due anni dopo la guerra, il 16 ottobre del 1964, la Cina testò con successo la sua prima bomba nucleare, anche l’India sentì fortemente l’esigenza di rafforzare le proprie potenzialità con una risposta nucleare. 3. La “guerra fredda” sino-indiana Dal 1962 al 1976 le relazioni sino-indiane hanno avuto tutte le caratteristiche tipiche di “una guerra fredda”. Subito dopo la guerra di confine del ’62 le due parti si rafforzarono militarmente: ci fu uno spiegamento di oltre 400mila truppe lungo tutto il desolato terreno montagnoso e un miglioramento delle posizioni logistiche con la costruzione di strade e campi di aviazione. L’animosità sino-indiana si evolse presto in un antagonismo che dipendeva dalle forze politiche internazionali protagoniste della guerra

32 Ibidem

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fredda, con l’India e l’Unione Sovietica da una parte, la Cina e il Pakistan ( e più tardi gli Stati Uniti ) dall’altra. In questi anni tre avvenimenti internazionali in particolare determinarono il corso delle relazioni sino-indiane, tenendo conto che le relazioni tra Pechino e New Delhi non possono essere esaminate esclusivamente in un contesto bilaterale. Determinante è stata innanzitutto la rottura tra l’Unione Sovietica e la Cina, che ha avuto origine da divergenze ideologiche, deterioratesi rapidamente in uno stato di animosità tra le alleanze comuniste di un tempo. Mosca accusò Pechino di un radicalismo irresponsabile che avrebbe potuto portare a uno scontro militare tra socialisti e capitalisti, mentre Pechino accusò Mosca di tradire i principi della rivoluzione alla ricerca di una coesistenza pacifica con l’America capitalista. L’Urss sospese immediatamente i suoi progetti di assistenza in Cina e richiese il pagamento dei debiti, proprio nel momento in cui la Cina entrava in un periodo di recessione economica, resa ancor peggiore da tre anni di disastri naturali. La disputa esplose alla fine degli anni’60 e culminò in una guerra “calda” 33 nel 1969; sulle sponde del fiume Ussuri si ebbe il primo conflitto armato tra due stati dotati di potenziale nucleare. Successivamente seguì la guerra fredda e i due paesi normalizzarono le loro relazioni non prima della metà degli anni ’80. La rottura sino-sovietica coincideva non solo con l’evolversi della partnership indo-sovietica, che prese corpo col Trattato d’Amicizia firmato nel 1971, ma anche con il crescente riavvicinamento di Cina e Stati Uniti, che portò alla famosa visita segreta del consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Nixon, Henry Kissinger, a Pechino nel 1971. Infine, le relazioni sino-pakistane che sino al 1960 non erano state rilevanti, iniziarono a svilupparsi rapidamente in un’asse strategica anti-indiana, proprio nel momento in cui i rapporti di Delhi con Pechino e Islamabad si deterioravano. Le origini dell’entente cordiale tra Cina e Pakistan risalgono al 1961, quando il Pakistan sostenne, con l’Unione Sovietica, l’ingresso della Cina all’Onu: fece poi seguito l’accordo sul confine sino-pakistano del 3 marzo 1963, secondo il quale il confine naturale delle due nazioni non sarebbe stato formalmente delimitato o demarcato. Quest’accordo bilaterale prese la forma di un’alleanza anti-indiana; di conseguenza, durante la guerra indo-pakistana del 1965, la Cina si schierò col Pakistan. Pechino accusò l’India di costruire strutture militari in Tibet e lanciò a New Delhi un ultimatum per smantellarle, minacciando anche di intervenire se fosse stato attaccato il Pakistan dell’est (odierno Bangladesh). Dopo la guerra e per i due decenni successivi, la Cina divenne il primo fornitore di armi del Pakistan. La cooperazione sino pakistana a livello diplomatico e militare, fu evidente anche durante il nuovo conflitto del 1971, che portò alla nascita del Bangladesh. Alla nascita di un movimento indiano di guerriglia nell’est del Pakistan, Zhou Enlai rassicurò il dittatore pakistano, il generale Yahya Khan, che “se le mire espansionistiche indiane avessero aggredito il Pakistan, il governo e il popolo cinese avrebbero come sempre fermamente supportato il governo e il popolo pakistano, in modo tale da salvaguardare la sovranità dello stato e l’indipendenza nazionale”. Questa dichiarazione e la notizia della visita segreta di Kissinger a Pechino, furono il fattore scatenante che indusse l’India a firmare il Trattato d’Amicizia indo-sovietico il 9 agosto 1971.34 Anche il ministro degli esteri pakistano si recò a Pechino

33 Ivi pag 18. 34 Al suo ritorno da Pechino, Kissinger disse all’ambasciatore indiano a Washington che se India e Pakistan fossero entrate in guerra e la Cina fosse stata coinvolta sostenendo il Pakistan, gli Usa non sarebbero stati in grado di aiutare l’India contro la Cina.

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per procurarsi sostegno militare, ma nessuna esplicita dichiarazione comune di un aiuto militare da parte cinese, era stata firmata: Pechino fu più che disposta a sostenere Islamabad diplomaticamente. Non appena la Cina divenne uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, nel novembre 1971, una delle prime delibere di Pechino, a seguito dell’intervento militare indiano nell’est del Pakistan, fu la condanna dell’India, la richiesta per il cessate il fuoco e la ritirata delle forze armate: l’Unione Sovietica oppose per ben due volte il veto alla risoluzione cinese. La notizia che una flotta recante bandiera cinese avrebbe cercato di aiutare l’esercito pakistano, bloccato in Bangladesh, si rivelò infondata; venne confermata invece che una task force navale statunitense stava navigando verso il Golfo del Bengala, cosa che fu vista come una minaccia diretta dall’India. Nella scia dell’emergente riavvicinamento sino-americano e dell’inclinazione di Washington verso il Pakistan, New Delhi era preoccupata che l’alleanza tra Cina e Usa stesse pianificando di aprire un terzo fronte: ma la Cina, per tutta la durata della guerra, non fece alcuna mossa militare. Diversi strateghi hanno ampiamente messo in luce il sostegno militare cinese al Pakistan, ma a detta di molti si è trattato di un supporto non impegnativo. Anche se da molte dichiarazioni si potrebbe desumere che la Cina corse in aiuto del Pakistan, non fece mai alcuna promessa esplicita: non vi è alcuna prova evidente che la Cina si sia mai imbarcata in una più ampia mobilitazione militare. Gli approvvigionamenti di armi rifornirono il Pakistan solo di un deterrente ragionevole, contro la più ben vasta superiorità e tecnologia militare dell’India; non garantirono affatto la capacità di operazioni militari contro l’India. 4. La distensione Già dal 1969 il primo ministro indiano Indira Gandhi era disposta a migliorare le relazioni, ma Pechino rifiutò. L’ambasciatore cinese fece poi sapere che Pechino voleva migliorare le relazioni ed era pronta a tenere colloqui sulla questione dei confini. Il primo ministro indiano, Morarji Desai, in occasione della sua visita a Washington nel ’78, manifestò la volontà dell’India a riconoscere anche in futuro l’attuale frontiera come il confine indo-cinese, non pretendendo la restituzione del territorio conquistato dalla Cina tra il 1957 e il 1962. In un certo modo il governo indiano voleva prendere le distanze dall’Unione Sovietica, alla ricerca di un miglioramento delle relazioni con la Cina. La leadership cinese succeduta a Mao nutriva simili speranze; Pechino riconobbe che l’amicizia indo-sovietica era strettamente legata alla rivalità indo-cinese e, pertanto, il miglioramento delle relazioni sino-indiane sarebbe stato utile a distanziare l’India dall’Unione Sovietica. Contemporaneamente la sconfitta militare degli Stati Uniti in Vietnam e la conseguente riduzione della presenza statunitense nell’Asia del sud, creò un vuoto di potere. Stabilizzando le sue relazioni con l’India, Pechino sperava di rendere vani i tentativi sovietici di accerchiare la Cina. Nel giugno del 1980 il leader cinese Deng Xiaoping, in un’intervista rilasciata a un giornale indiano, suggerì che una risoluzione sulle questioni di confine potesse basarsi su un mutuo riconoscimento dello status quo: l’India avrebbe dovuto accettare il controllo cinese dell’Aksai Chin, in cambio la Cina avrebbe riconosciuto il controllo indiano sui territori disputati nel settore orientale. Per la prima volta la Cina superò la sua originaria posizione sul Kashmir, dichiarando che si trattava di un affare bilaterale tra India e Pakistan. Furono lenti i passi che India e Cina compirono per ridurre le tensioni, ma i due paesi iniziarono a esplorare ogni possibilità per una risoluzione delle loro dispute territoriali. I

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colloqui sul confine hanno avuto inizio nel 1981 e furono seguiti da diversi incontri che spianarono la strada per futuri accordi. Da allora il processo di normalizzazione sino-indiano si è evoluto lentamente attraverso tre distinte attività di rafforzamento, che continuano tuttora: incontri tra i capi di stato e di governo; regolari scambi di visite tra personalità civili e militari; un graduale processo per istituzionalizzare una serie di misure di costruzione di reciproca fiducia. A detta di molti questo processo di normalizzazione ha prodotto risultati significativi come la ripresa e la regolarizzazione degli scambi di visite ad alto livello tra leader di governo e militari cinesi e indiani, per facilitare il dialogo e la consultazione bilaterale, regionale e internazionale. Sono aumentati contatti e cooperazioni in diverse aree, come il commercio, l’istruzione e gli scambi culturali. Inoltre sono stati fatti seri sforzi per superare le difficoltà sui negoziati di confine. Tuttavia la strada della distensione non è sempre stata priva di ostacoli, ci sono stati diversi incidenti che hanno rallentato l’intero processo di normalizzazione. Quando New Delhi accordò la condizione di stato all’Arunachal Pradesh, nel dicembre del 1986, che la Cina considerò come un tentativo di imposizione della controversa linea Mc Mahon, ci furono forti proteste e Pechino denunciò l’India di aver “seriamente violato” l’integrità e la sovranità territoriale della Cina; allo stesso modo gli sconfinamenti cinesi nel Ladakh occidentale, allarmarono il governo indiano. Successivamente la guerra punitiva della Cina contro il Vietnam, durante la visita del ministro degli esteri indiano Vajpayee (1979) e il test nucleare cinese durante la visita del maggio 1992 del presidente indiano Venkataraman, non sono stati d’aiuto al nascente processo di normalizzazione. Infine il programma nucleare e missilistico della Cina, così come il rifornimento di armi nucleari e tecnologia missilistica al Pakistan, ha rappresentato un’altra fonte di frizione. Nel corso del 1988 e oltre le relazioni fra i due paesi erano, in un certo qual modo, ancora tese, ma, non appena il clima internazionale iniziò a cambiare, le prospettive per una distensione sino-indiana migliorarono. Nel momento in cui le riforme di Gorbaciov resero più tenui le tensioni tra Pechino e Mosca, le relazioni sino-indiane cessarono di essere una carta da giocare nel poker della potenza comunista. Nonostante la reiterazione del riconoscimento da parte dell’India della sovranità cinese sul Tibet e la dichiarata politica indiana di non ingerenza, il Tibet è rimasto una questione piuttosto rilevante nelle relazioni bilaterali; la Cina è preoccupata che il sentimento nazionalista a Lhasa possa esser di sostegno all’India e portare un indesiderato aumento della tensione internazionale: sono stati motivo di particolare preoccupazione i legami tra gli estremisti di destra indù e i gruppi indipendenti tibetani. A ogni modo India e Cina sembrano aver riconosciuto la futilità degli scontri e si muovono velocemente per la ricostruzione di un rapporto di reciproca fiducia. La visita del primo ministro Rajiv Gandhi a Pechino nel dicembre del 1988 ha segnato un momento fondamentale nelle relazioni sino-indiane. In quel momento l’India accettò la proposta della Cina di ampliare e migliorare le relazioni bilaterali; in cambio la Cina accettò la composizione della disputa e la creazione di un gruppo di lavoro congiunto, guidato dai vice ministri degli esteri. E’ stato anche messo a punto un significativo programma che comprendeva collegamenti diretti per le linee aeree commerciali e le telecomunicazioni, cooperazione in campo scientifico e tecnologico e scambi culturali bilaterali. Anche la visita del premier cinese Li Peng in India, nel dicembre 1991 e più tardi quella del presidente indiano a Pechino, nel maggio del ’92, sono state significative per la riconciliazione. Un ulteriore passo avanti si è avuto nel settembre del 1993 quando il primo ministro Rao partecipò a un summit a Pechino, ospite del premier Li. In quell’occasione i due leader firmarono l’Accordo per il Mantenimento della Pace e della Tranquillità. Un altro momento clou dei crescenti legami è stato raggiunto nel novembre

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1996, quando Jiang Zenim visitò ufficialmente l’India: nonostante la firma dell’Accordo sulla Costruzione di Misure di Confidenza, non venne redatto alcun trattato formale per risolvere la disputa di confine. Le questioni del Tibet e del Sikkim non furono discusse, le proteste dei rifugiati tibetani a Delhi vennero ignorate e la Cina, ancora una volta, non sollevò la questione del Kashmir. L’evidenza della crescente distensione sino-indiana era visibile in quasi ogni aspetto delle loro relazioni bilaterali e nei primi anni ’90 sono aumentate opportunità di studio e di ricerca per gli studenti cinesi e indiani. Significativamente in questo periodo Cina e India hanno esplorato la cooperazione in campo spaziale e nucleare: i due paesi hanno firmato un memorandum di intesa sulla cooperazione bilaterale in materia di scienza, tecnologia e spazio nel 1989. Probabilmente il più grande vantaggio per ambedue è avvenuto nell’area del commercio, cresciuto vertiginosamente, passando da 117,4 milioni di dollari nel 1987, a 700 milioni di dollari tra il 1993-4; a partire dal 1998 è arrivato a un miliardo e 922 milioni di dollari. Anche se le tensioni politiche è probabile che rimangano dominanti, la competizione economica è destinata a diventare più accanita. Un altro indicatore del miglioramento delle relazioni sino-indiane è stato il mutamento nella posizione di Pechino, riguardo il Kashmir; tale atteggiamento della Cina, che ora ha riconosciuto tacitamente la preminenza dell’India nel sud dell’Asia, è stata anche evidente nel caso dell’intervento dell’India nello Sri Lanka nel 1987 e nello scontro con il Nepal nel 1988. Nello scontro tra l’India e lo Sri Lanka, Pechino inizialmente sostenne Colombo, ma poi ha adottato una posizione neutrale; similmente in Nepal, quando Kathmandu acquistò armi dalla Cina nel 1988 e l’India impose il blocco economico, Pechino non condannò pubblicamente le azioni dell’India. Dal 1997 la Cina ha essenzialmente acconsentito al ruolo dominante di New Delhi nell’Asia del sud, ma i test nucleari35 indiani nel deserto Pokhran nel maggio 1998, minacciarono di cambiare tutta la situazione. Nel 1998, in occasione dei test nucleari, le relazioni sino-indiane hanno toccato uno dei punti più bassi dopo la guerra del 1962. New Delhi motivò gli esperimenti con la necessità di tutelarsi dalla minaccia cinese e da quella pakistana: Pechino rispose agendo nelle sedi internazionali nel tentativo di isolare diplomaticamente l’India. L’anno successivo, durante la crisi di Kargil che portò India e Pakistan sull’orlo di una guerra, la Cina nonostante le pressioni di Islamabad, mantenne un atteggiamento di neutralità che favorì il disinnescarsi della crisi. 5. Ambizioni pericolose La scelta indiana di costruire armi è stata inserita nel programma sull’energia nucleare, iniziato nei primi anni ’50. La costruzione di reattori nucleari procurò all’India la possibilità di trovarsi armata in caso di necessità. Questa politica, conosciuta come la politica della “scelta armata” e nella quale l’India si riservava il diritto di mantenere la potenzialità di costruire armi nucleari ma di non usarle, è durata per i successivi trent’anni. Nehru, si era fermamente opposto alla costruzione di armi nucleari; nell’ottobre del 1961, quando le relazioni sino indiane si erano incrinate, il primo ministro confessò che “ la bomba nucleare cinese non ci indurrà a gettarci nella mischia nucleare. L’idea di usare queste bombe appare orribile a me così come alla stragrande maggioranza di noi”.

35 Questi test sono stati chiamati collettivamente “Pokhran II” per distinguerli dal primo teste nucleare, condotto a Pokhran nel 1974.

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Appena dopo la traumatica guerra sino-indiana, dichiarava ancora in una conferenza stampa: “ Noi non abbiamo intenzione di creare bombe anche se nel nucleare siamo più avanti della Cina”. Pochi mesi dopo la morte di Nehru e in coincidenza con il primo test nucleare cinese, tuttavia un certo numero di dichiarazioni ufficiali e non, rivelò un intenso dibattito, all’interno e fuori del governo, circa la scelta armata. Le opinioni oscillavano considerevolmente; alcuni chiedevano che l’India si costruisse un proprio deterrente, mentre altri insistevano perché non passasse al nucleare, qualunque fosse stata la provocazione. Nel giro di un anno dai test cinesi, sotto il nuovo governo Shastri, ci fu un percepibile cambiamento nella politica nucleare indiana. Dapprima il nuovo ministro adottò l’imperativo di Nehru di non produrre bombe nucleari: “ non posso dir nulla riguardo al futuro, ma la nostra politica attuale non è quella di creare la bomba atomica, ma di produrre energia nucleare per scopi costruttivi” ribadì. A seguito dell’attacco pakistano all’India, nel settembre 1965, questa politica apparve modificata ulteriormente. Shastri disse che l’India avrebbe riconsiderato la sua politica, se la Cina avesse continuato ad accumulare riserve nucleari. Dopo il primo test di Pokhran, il nuovo ministro Indira Gandhi36 sostenne che l’esplosione del 18 maggio, designata dal governo con la sigla Pne, aveva avuto non finalità belliche, ma scientifiche e pacifiche: rassicurò la comunità internazionale che, in ogni caso, l’India non aveva in programma la costruzione di un armamento atomico, pur avendo le capacità per farlo. Era comunque chiaro che con quell’esperimento l’India intendeva affermasi di fronte alla Cina e al Pakistan. New Delhi considerava significativamente il suo potenziale missilistico e nucleare come un simbolo di prestigio internazionale; i leader politici del Bjp lo utilizzarono per aumentare il potere in politica interna.37 Fino ai nuovi test nucleari indiani del 1998, le priorità politiche di Pechino erano rivolte ai più grandi paesi industrializzati; l’India non rappresentava un obiettivo prominente, per i politici cinesi era un paese sconvolto da problemi interni ed esterni e non fu mai considerato come un vero antagonista. I test del maggio1998 furono una sentinella d’allarme per la Cina, perché cambiarono questa percezione.38 Secondo alcuni studiosi cinesi le ambizioni regionali ed extraterritoriali dell’India andavano ora riflettendosi nel suo programma nucleare e nel cambiamento della sua strategia militare. Con il crollo dell’Unione Sovietica e l’ascesa degli Usa, l’India capì che senza la bomba la sua capacità di condurre una politica estera autonoma e la sua sicurezza sarebbero state seriamente compromesse.39 Il governo cinese, profondamente turbato dall’episodio, espresse la sua condanna. L’animosità che tra i due paesi appariva incolmabile dopo i test nucleari, venne repentinamente superata, spianando la strada a una graduale ripresa dei rapporti bilaterali ufficiali. Il 2000 ha segnato il cinquantesimo anniversario delle relazioni diplomatiche sino-indiane. Nonostante la situazione si sia complicata con la presenza degli Stati Uniti in Asia centrale, dopo i fatti dell’11 settembre, per New Delhi e Pechino continuano a svilupparsi relazioni normali e a partire dal 2002 i due paesi hanno aggiunto un dialogo sul contenimento del terrorismo alla loro crescente lista di discussioni bilaterali. 36 Che già nel 1966 aveva denunciato il Trattato di non proliferazione nucleare che imponeva, a suo parere, regole rigide “ai poveri”, mentre “i ricchi” facevano tutto fuorchè ridurre i loro arsenali. 37 Waheguru Pal Singh SIDHU, Jing-dong YUAN, China and India Cooperation or Conflict?, op. cit., pag.29. 38Ivi,pag.58. 39 Voleva acquisire lo status di grande potenza.

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6. Il dialogo strategico Cina –India Un quotidiano indiano ha dato grande rilievo alla seconda riunione del “Dialogo sino-indiano”, avvenuta a Nuova Delhi nel gennaio del 2005, mettendo in evidenza che è servita a facilitare il passaggio da rapporti di rivalità a relazioni di cooperazione tra i due paesi asiatici. La controversia sul confine tra le due nazioni è stato uno degli argomenti dell’incontro e in quell’occasione si sono registrati progressi con la firma di un accordo sui parametri politici e sui principi guida per la soluzione del problema. Cooperazione strategica, pace e prosperità, relazioni commerciali sono stati gli altri temi. In linea con il nuovo corso, il ministro indiano per il Petrolio, volato a Pechino per una visita di pochi giorni, ha commentato: “Noi guardiamo alla Cina non come competitore strategico, ma come partner strategico; è chiaro che ogni reiterazione del “great game” tra India e Cina rappresenta un pericolo per la pace”. Il 2005 ha segnato il cinquantacinquesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra India e Cina e nell’occasione sono state organizzate una serie di attività commemorative. Per rafforzare i tradizionali legami culturali le due parti hanno concluso un accordo per la costruzione di un tempio buddista in stile indiano a Luoyang, nella provincia cinese dell’Henan. Nel 2006, dichiarato anno ufficiale dell’amicizia tra i due paesi, è stato siglato l’accordo che riguarda la storica intesa sul passo Nathula, a 4500 metri sull’Himalaya e a metà strada tra la capitale del Tibet (Lhasa) e Calcutta, unico collegamento naturale via terra fra la Cina e l’India, chiuso dal 1962. Si tratta di uno dei passi di montagna che per secoli videro transitare le carovane lungo la via della seta, la pista dei mercanti che dalla Cina raggiungevano il Medio oriente e la Roma imperiale, percorsa poi da Marco Polo per giungere nell’impero di Kublai Khan. La riapertura del passo è il primo tassello di progetti grandiosi; in questa occasione i due paesi hanno indicato le linee future delle loro relazioni e in un comunicato stampa si legge che Cina e India sono legati da “un’amichevole vicinanza, non rivalità”. Al di là di diplomatici sorrisi e strette di mano la costruzione di una grande rete ferroviaria che colleghi Cina e Tibet e che arrivi fino a Delhi e Calcutta, la cooperazione nel settore energetico e strategico, la lotta al terrorismo e il contrasto all’unilateralismo americano, sono segnali che i due paesi stanno lasciandosi alle spalle mezzo secolo di contrasti. La distensione nei rapporti sino-indiani porta a interrogarsi su quale sia il futuro delle relazioni tra Cina e India. Un’attenta analisi delle esigenze, degli interessi e degli obiettivi dei due paesi, sembra avallare l’idea che la “entente cordiale” sino-indiana sia destinata a svilupparsi. I due paesi, per lo meno nel medio periodo, potrebbero trarne notevoli benefici, sia sul piano economico, nel settore energetico come in quello politico, dove entrambi nutrono forti aspirazioni.

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Capitolo IV

L’asse Pechino-Nuova Delhi La visita a Nuova Delhi nel 2003 del primo ministro cinese Wen Jiabao, ha inaugurato una svolta nelle relazioni sino-indiane: nei quattro giorni di visita del capo dell’esecutivo cinese, che con un eccezionale senso della storia spiegava che “durante gli ultimi 2200 anni, o forse sarebbe più giusto dire durante il 99,9% di questo tempo, abbiamo stabilito delle relazioni di amicizia fra i nostri due paesi”, si sono registrati passi avanti sulla via della pacificazione tra i due giganti asiatici. In primo luogo è stata concordata una sorta di “road map” per porre fine alle dispute confinarie su oltre 3600 chilometri in comune, con Pechino disposta a riconoscere l’annessione indiana del Sikkim in cambio del riconoscimento indiano della sovranità cinese in Tibet. La Cina ha accettato che l’ex regno buddista, diventato provincia indiana nel 1975, faccia parte della federazione indiana; a sua volta l’India ha riconosciuto la sovranità della Cina in Tibet, nonostante il Dalai Lama e circa 150mila buddisti continuino a vivere in quel territorio. Nell’aprile del 2005, durante la missione del primo ministro cinese a Delhi, Cina e India hanno sottoscritto importanti accordi di partnership strategica; a fine maggio il capo dell’esercito cinese ha proseguito la missione per definire “misure di confidenza” militare, che puntano a una migliore fiducia fra le parti. Ma i vertici militari indiani e cinesi hanno anche deciso manovre congiunte per scopi di antiterrorismo e di peacekeeping e per il rafforzamento della cooperazione militare fra i due giganti. Nella missione sono state poste le basi anche per un riesame dei rapporti economici e commerciali; le relazioni sino-cinesi, che secondo l’economista Amartya Sen sono iniziate con il commercio e non con il buddismo,40 sono riprese con l’economia e gli scambi commerciali. Il leader cinese ha proposto una zona di libero scambio tra i due paesi, ma Nuova Delhi ha accolto tiepidamente l’invito, per il timore di essere sommersa dai manufatti cinesi. Wen Jiabao si è in realtà spinto anche oltre: ha proposto alla controparte una vera e propria partnership economica strategica che, oltre l’abolizione delle barriere tariffarie, includesse una più stretta collaborazione in campo tecnologico, un intensificarsi degli investimenti diretti e il coordinamento delle rispettive azioni in seno al WTO. Nonostante il timore di un’invasione di prodotti cinesi l’India ha firmato 13 accordi di cooperazione nel campo della finanza, dell’agricoltura, dell’informatica, traendo importanti benefici da una simile iniziativa: l’industria del software, diventata la più sviluppata al mondo dopo le riforme di Rajiv Gandhi, ha stretto un’alleanza strategica con l’industria cinese dell’hardware, mettendo in crisi il “monopolio americano”. In questi anni l’interscambio commerciale tra Cina e India è cresciuto a un ritmo molto elevato. Secondo il Center for Monitoring Indian Economy il valore del commercio bilaterale è passato da 1,9 miliardi di dollari del 2000 a 13,6 nel 2004; entro il 2020 si prevede che tale valore raggiungerà i 30 miliardi di dollari. Dal marzo del 2004 è all’opera un’apposita commissione congiunta con lo scopo di studiare nuove e più ampie forme di cooperazione economica. Tra i vari progetti la cosiddetta “Kunming Iniziative” che risale al 1999 quando India, Cina, Bangladesh e Myanmar ipotizzarono la riapertura e l’ammodernamento della Stilwell Road, una vecchia strada che collega la regione dell’Assam con lo Yunnan cinese, passando per il

40 Amartya SEN, L’altra India,op.cit. , pag.202.

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Myanmar. La sua riapertura rappresenta uno straordinario volano per il commercio sino-indiano. India e Cina si stanno integrando economicamente tra di loro, permettendo lo sviluppo di una nuova area economica mondiale, il Far East, che in un futuro non lontanissimo potrebbe dipendere molto meno di quanto è successo negli anni recenti, dall’area del dollaro e dallo spazio economico dell’impero Usa.41 Cina e India infine stanno costruendo rapporti economici, politici e strategici anche con la Russia: su un piano bilaterale l’asse Pechino-Mosca e Delhi-Mosca e sul piano multilaterale, il 2 giugno del 2005, si è tenuto a Vladivostok, il vertice dei ministri degli esteri dei tre paesi. All’ordine del giorno la cooperazione in materia di sicurezza internazionale e regionale e la collaborazione in campo energetico (Cina e India sono fortemente legate alle risorse energetiche russe). Già ad aprile il primo ministro cinese Wen, a Delhi, aveva affermato che la cooperazione trilaterale India-Cina-Russia non era rivolta contro nessuno, né in particolare contro gli Usa. Pechino e Delhi fanno molta attenzione a non interpretare o far interpretare il loro rapporto bilaterale e quello trilaterale con Mosca come “antagonistico” verso Washington. Tuttavia è evidente che Cina e India stanno costruendo un nuovo centro di gravità economico-strategico del sistema internazionale. 1. Cina, India e Russia e la nuova collaborazione strategica I segni del declino americano e il possibile passaggio da un mondo unipolare a uno multipolare si avvertono con particolare evidenza in Asia. Cina, Russia e India cominciano a scombinare le pedine della “grande scacchiera” e appaiono sempre più come i nuovi protagonisti della politica mondiale. L’operazione messa in atto dalla triade eurasiatica prevede collaborazioni, scambi e reciproci sostegni in tutti i campi: politico, economico e militare. Pechino, Mosca e Delhi sono ormai le mete sempre più frequentate dalle leadership statuali di paesi sudamericani, africani e asiatici che cercano di sottrarsi al dominio soffocante del neocolonialismo americano. Cina e Russia appaiono vicine come mai era accaduto negli ultimi anni. Sul piano politico la dichiarazione congiunta russo-cinese sancisce il reciproco sostegno alla difesa dell’unità nazionale dei due paesi, insidiata dalla presenza di attività separatiste. La Cina condanna l’azione destabilizzante dei terroristi ceceni nella regione caucasica; la Russia è pienamente solidale con la Cina sulla questione di Taiwan e del Tibet. Anche la collaborazione economica è stata consolidata da nuovi accordi: la Cina prospetta di investire oltre confine una cifra pari a 12 miliardi di dollari e si prevede che il volume degli scambi tra i due paesi possa aumentare di ben quattro volte. E’ stato poi siglato un accordo che prevede diverse forme di collaborazione nel settore della ricerca e della sperimentazione spaziale, compresa la creazione di società miste. Ma è soprattutto nella cooperazione in campo militare che sono stati segnati notevoli passi in avanti: per Pechino la Russia rappresenta l’unica fonte di armamenti tecnologicamente avanzati e attualmente la Cina assorbe quasi la metà delle esportazioni di armi di fabbricazione russa. Per gli analisti la politica di armamenti della Cina ha come obiettivo la competizione diretta con gli Stati Uniti. Al Pentagono non sarà certamente sfuggita la valenza simbolica della decisione assunta dai ministri della difesa dei due paesi, di dar corso, nel 2005, a imponenti manovre militari congiunte.

41 Cludio LANDI, “Chindia, il futuro che ci spetta corre tra Pechino e New Delhi”, Liberazione , 8 giugno 2005.

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La visita di tre giorni in India effettuata da Vladimir Putin nel dicembre del 2004, ha rappresentato un salto di qualità nelle relazioni di carattere strategico che i due paesi intrattengono ormai da decenni e che sembrava avessero subito una battuta d’arresto nel periodo in cui al governo di Delhi c’era la destra nazionalista del Bjp. L’impressione di una fase decisiva delle relazioni indo-russe si ricava sia dai contenuti della dichiarazione congiunta siglata a Delhi, sia dai dieci accordi conclusi, che investono gli ambiti più svariati e vanno dalla ricerca spaziale all’energia, dalla navigazione ai servizi finanziari. Putin ha affermato “L’India è il nostro partner privilegiato…. Dal punto di vista della collocazione geografica l’India è sicuramente il numero uno tra gli alleati”. L’ex ministro indiano del Petrolio ha invece detto che “Nel corso dei primi cinquant’anni dell’indipendenza dell’India, la Russia ha garantito la nostra integrità territoriale; nei prossimi cinquanta questo paese ci garantirà anche la nostra sicurezza energetica”, facendo riferimento alla ricerca di petrolio e di gas che costituirebbero un potente stimolo alla cooperazione.

In termini di geopolitica la Russia riconosce la supremazia dell’India nel subcontinente indiano, mentre sul piano militare le attribuisce lo status di partner strategico privilegiato. Nel determinare i più recenti approcci della politica estera indiana, ha inciso l’evidente raffreddamento delle relazioni con gli Stati Uniti: all’inizio del nuovo millennio, l’India si apprestava a stringere una relazione da “alleato naturale” con gli Stati Uniti che, nel corso degli ultimi anni non hanno voluto onorare gli impegni presi con l’India attribuendole la preminenza nella regione dell’Asia meridionale.42 Non è quindi privo di significato che la Russia abbia assunto l’impegno di sostenere la candidatura dell’India al seggio, con diritto di veto, nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu; in cambio ha ottenuto la garanzia che si pronunci, in tutte le sedi internazionali, a favore dell’ingresso di Mosca nell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Ma è sul piano della collaborazione militare che si sono registrate intese particolarmente rilevanti: anche con l’India, come già con la Cina, Mosca ha stabilito di procedere in tempi brevi all’effettuazione di manovre congiunte in grande stile delle forze armate dei due paesi e all’esportazione di aerei russi Mig. E’ prematuro parlare di un triangolo India-Cina-Russia, ma i tre giganti del continente asiatico sono sempre meno disposti ad accettare l’egemonia occidentale, specialmente quella Usa. Non solo le incalzanti iniziative di Cina, Russia e India, ma anche quelle di paesi come Brasile, Sudafrica, Cuba, Venezuela, Vietnam sono considerate parte integrante dei processi che possono cambiare i rapporti di forza su scala mondiale Proprio con questi propositi, per ora limitati al settore energetico, nel giugno del 2005, i tre paesi hanno concordato di formare un cartello per contrapporsi alle compagnie occidentali e americane e stabilizzare i prezzi del petrolio. Un aspetto importante della cooperazione trilaterale Russia-Cina-India si è verificato in modo evidente in occasione dell’affare “Yukos”, quando il presidente Putin ha deciso di nazionalizzare in Russia, i centri fondamentali di controllo delle fonti di energia. “La nazionalizzazione di Yukos ha contrariato gli occidentali, così che per finanziare l’acquisto di Yuganskneftegaz, il pezzo forte della compagnia, Mosca si è rivolta ai cinesi e agli indiani: entrambi affamati di energia per sostenere la crescita.43

42 Gli Stati Uniti sono tornati alle formulazioni della guerra fredda circa la priorità strategica del Pakistan. 43 Il Sole-24Ore, Milano, 23-1-2005.

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2. Faccia a faccia con Washington L’inizio del XXI secolo trova Cina e India chiuse all’interno di un complesso mondo post-post guerra fredda, la cui difficile gestione dipende non solo da Pechino e Nuova Delhi, ma anche dai loro rapporti con le altre maggiori potenze, gli Stati Uniti e la Russia.44 Dopo la lotta al terrorismo e i conseguenti difficili rapporti con il mondo arabo, la maggiore preoccupazione della politica estera Usa, sembra essere l’Asia nel suo complesso: non solo la crescita della Cina, ma l’insieme delle relazioni e degli interscambi commerciali tra questa e il Giappone, Taiwan e l’India. Uno dei peggiori incubi, tra i tanti che turbano da tempo la Casa Bianca, è il rafforzamento delle relazioni sino-indiane a scapito degli Usa. La grande incognita è capire in che modo Pechino e New Delhi useranno il loro potere. Il National Intelligence Council già nel 2004 parlava di “incertezze chiave su come Cina e India eserciteranno il loro crescente potere: se si relazioneranno cooperando oppure concorrendo con le altre potenze nel sistema internazionale”. Washington, che ha concluso con l’India nel 2006 un accordo sul nucleare, spera di trasformare New Delhi, in un contrappeso a Pechino. Il viaggio del presidente americano a Delhi in quell’occasione è stato paragonato allo storico viaggio di Nixon in Cina nel 1972, per le conseguenze che potrebbe avere sul sistema internazionale, confrontabili con quelle prodotte dalla strategia kissingeriana messa in moto con la “diplomazia del ping-pong”. Oltre a sottolineare i comuni valori democratici, la determinazione a combattere il terrorismo e l’impegno a raddoppiare gli scambi commerciali in tre anni, Bush e Singh hanno concluso importanti accordi di cooperazione in molti settori, fra cui il più significativo è quello relativo al settore atomico. L’accordo ha destato dure reazioni nei due paesi; in India si teme che esso possa determinare un abbandono della politica estera indipendente e autonoma finora gelosamente perseguita, consentendo agli Stati Uniti un’indebita ingerenza negli affari interni indiani. In particolare l’emendamento Harkin, impone la piena partecipazione dell’India agli sforzi degli Stati Uniti e internazionali di dissuadere, sanzionare e contenere l’Iran nel perseguimento del suo programma nucleare, coerentemente con le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Questo emendamento rappresenta un chiaro tentativo di condizionare l’India nei confronti di un paese con cui ha importantissimi rapporti economici. Negli ultimi anni l’evoluzione dell’India si è svolta all’insegna della continuità in politica interna e della discontinuità in politica estera, con l’obiettivo di trasformare il paese in una grande potenza, dotata di una solida base economica e militare. In politica estera c’è stato un riorientamento radicale, segnato dal riavvicinamento agli Stati Uniti, risultato non di un’azione autonoma dell’India, ma di una nuova strategia inaugurata da Washington con il preciso scopo di riportare l’India saldamente nell’orbita del potere americano. Dal canto suo l’India vuole ritrovare il suo posto tra i grandi. Per raggiungere questo obiettivo ha deciso di salire sul treno americano, più per pragmatismo che per ideologia. “Gli Stati Uniti sono la grande potenza dominante, è logico quindi sviluppare con loro delle buone relazioni”, ha confermato Navtej Singh Sarna, portavoce del ministero degli Esteri. Dall’11 settembre del 2001 New Delhi può contare su una cooperazione più stretta con gli Usa. Gli attentati di New York e Washington hanno dato nuovo slancio alle relazioni bilaterali, che erano già notevolmente migliorate dopo la fine della spartizione del mondo in due sfere

44 Wahenguru Pal Singh SIDHU, Jing-dong YUAN, China and India cooperation or conflict?, op. cit., pag 79.

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d’influenza. Il presidente Clinton aveva avviato un riavvicinamento durante un vertice del 1994, seguito l’anno dopo dalla visita a New Delhi del segretario di Stato americano alla difesa, William Perry. Nel 2000 la visita di cinque giorni di Clinton è stata un successo sul piano delle relazioni pubbliche e dopo l’11 settembre il presidente Bush ha promosso un riavvicinamento più concreto in campo militare. Gli Usa hanno tolto le sanzioni imposte dopo gli esperimenti nucleari del 1998 e le manovre militari congiunte della fanteria, della marina e dell’aeronautica sono diventate una pratica corrente. Secondo il generale Richard Mayers, capo di stato maggiore dell’esercito americano, il “livello di cooperazione militare bilaterale è senza precedenti”: il cambiamento rispetto agli anni della guerra fredda è clamoroso! Nel 2003 era ormai chiara la percezione della crescente importanza economica e geopolitica dell’India, divenuta lo “ swing state”, l’unico che avrebbe potuto alterare in maniera decisiva l’equilibrio asiatico e mondiale, spostandosi dalla parte degli Usa o da quella di Russia, Cina e Iran, che stavano cercando di costruire un polo alternativo rispetto alla superpotenza americana. Nei primi mesi del 2005 il governo americano, sempre più in difficoltà in Asia e vedendo nella Cina un nemico potenziale ancora più pericoloso dell’Iran, ha deciso di portare l’India nella sua orbita e di rovesciare la propria politica nei confronti delle ambizioni nucleari del paese asiatico. I vertici americani hanno quindi offerto all’India la possibilità di accedere alla tecnologia e al combustibile nucleare non solo americani, ma di tutti i paesi dell’NSG (Nuclear Supplier Group). Queste concessioni a Delhi rendevano di fatto irrilevante il Trattato di non proliferazione che, dalla sua attivazione nel 1970, ha regolamentato i rapporti nucleari internazionali, che l’India non ha mai firmato. Tuttavia non è affatto scontato che gli Usa abbiano effettivamente raggiunto l’obiettivo di fare dell’India un proprio alleato di riferimento a livello mondiale. “L’India sta praticando, con estrema spregiudicatezza, una politica volta a ottenere tutti i possibili vantaggi, giocando in contemporanea due partite diverse: quella diretta a stabilire un rapporto privilegiato con gli Usa e quella volta a mantenere e incrementare buoni rapporti con gli avversari attuali o potenziali degli Usa”; sembra esserne cosciente lo stesso segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che ha fatto queste dichiarazioni.45 Con la promessa di farne una grande potenza, nel 2005 gli Usa e l’India hanno concluso un accordo di “open skies” per moltiplicare i collegamenti aerei tra i due paesi; Air India ha comprato 68 Boeing per un ammontare di 11 miliardi di dollari e nello stesso anno le due nazioni hanno stabilito un partenariato strategico ufficiale. L’India che chiede di essere riconosciuta come potenza dominante nell’Asia del sud e sogna di ottenere un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu, ritiene di poter raggiungere i suoi obiettivi attraverso una relazione stretta con Washington: è consapevole di avere un’influenza sempre maggiore nella carta geopolitica del mondo e sa che Washington conta sul nuovo alleato per affrontare alcune questioni delicate. L’India ha le condizioni migliori per controllare l’Oceano Indiano, per rendere sicure le rotte seguite dalle grandi navi mercantili e per tentare di isolare l’Iran. Infine gli Usa puntano sull’India per controbilanciare l’influenza crescente della Cina in Asia; è però difficile capire se New Delhi si schiererà con gli americani in caso di crisi con i cinesi, dato che l’Impero di Mezzo è già un partner commerciale di primo piano per l’India e gli investimenti misti si moltiplicano tra i due paesi. In realtà l’India vuole molto di più: affascinata dalla rapidità del decollo economico del suo amico-nemico cinese grazie alla sua economia votata alle esportazioni, New Delhi non nasconde la volontà di utilizzare 45 Michelguglielmo TORRI, L’Asia negli anni del dragone e dell’elefante, Asia Maior, Guerrini edizioni, Milano 2007, pag. 159.

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queste nuove relazioni per ottenere vantaggi concreti e attirare i capitali che le mancano per realizzare infrastrutture. Infatti mentre nel 2005 in Cina arrivavano 72,4 miliardi di dollari di investimenti esteri diretti (Ide), l’India ne riceveva solo 6,6 miliardi. L’intensificarsi delle relazioni diplomatiche e strategiche tra India e Usa si basa oggi su una dinamica senza precedenti in campo economico. Gli Usa sono i primi partner commerciali dell’India e i primi investitori esteri in questo paese. La comunità indiana negli Stati Uniti, raddoppiata negli ultimi dieci anni fino ad arrivare a due milioni di persone, svolge un ruolo importante in quest’avvicinamento, avendo i mezzi per esercitare una certa influenza. Anche se i militari indiani hanno rifiutato per ragioni tecniche gli F-16 americani che sono stati loro proposti, anche se gli stati dell’Unione indiana diretti da comunisti e nazionalisti indù persistono in una politica antiamericana (che di recente si è tradotta nel divieto di vendere Coca Cola sul loro territorio a causa di un elevato tasso di pesticidi nelle bibite), i legami tra i due paesi sono destinati a rafforzarsi. Negli ultimi due anni gli orientamenti della politica interna ed estera della Repubblica popolare cinese si sono delineati secondo i concetti di “visione di sviluppo scientifico”, “costruzione di una società armoniosa” e “ascesa pacifica”, che hanno segnato l’affermazione di Hu Jintao ai vertici del potere. Il portavoce del Ministero degli affari esteri spiega che la Cina, prima di tutto vuole creare una situazione di stabilità che favorisca lo sviluppo. Per Pechino l’ordine garantito è preferibile al caos, ostacolo ai progetti di crescita e alle aspirazioni mondiali; lo sviluppo assicura la base del patto sociale interno che garantisce la continuità del regime; i progetti mondiali mirano a ridare al paese il posto che gli spetta sulla scena internazionale. Nell’ambito internazionale, la dirigenza cinese ha mostrato con considerevole dinamismo, impegnandosi nel persuadere i governi stranieri e l’opinione pubblica internazionale, come la sua crescita a potenza regionale e mondiale rappresenti un elemento di stabilità e di pace.46 La visione ufficiale di Pechino nel XXI secolo resta improntata al multilateralismo, di pari passo con la tendenza a eludere una discussione esplicita del suo “interesse nazionale”.47 La leadership attuale insiste sul fatto che l’interesse della Cina coincide con l’interesse generale dell’umanità ed evita di dipingere l’ascesa della propria potenza industriale come un fenomeno che possa suscitare tensioni con altre nazioni. La nuova generazione al potere ha costruito una dottrina strategica attorno ai “quattro no” enunciati dal presidente Hu Jintao: all’egemonismo, alla politica della forza, alla politica dei blocchi, alla corsa agli armamenti. Nel suo discorso dell’aprile 2004, il presidente ha messo l’accento sulla necessità di “costruire fiducia, appianare le difficoltà, sviluppare la cooperazione ed evitare conflittualità”. Già ai tempi del presidente Jiang Zemin, negli ultimi anni ’90, l’ascesa della Cina sul fronte politico diplomatico veniva definita “pacifica”, per escludere qualsiasi attrito con gli interessi nazionali altrui: la Cina di Hu Jintao continua a essere favorevole a un mondo multipolare, che tenga in equilibrio interessi e garanzie di una maggioranza dell’umanità e non una solitaria egemonia degli Stati Uniti. Consapevole delle proprie debolezze di fronte al gigante americano, Pechino sta sviluppando una diplomazia molto agile, che allaccia legami in tutte le direzioni, ricucendo al contempo le vecchie tensioni territoriali. L’adesione al multilateralismo punta a diluire la supremazia americana, ingabbiandola in una rete di istituzioni dove la Cina possa entrare in coalizione con altri

46 Laura DE GIORGI, “La Repubblica Popolare Cinese: luci e ombre dell’ascesa pacifica” in L’Asia negli anni del dragone e dell’elefante, Asia Maior, Guerini edizioni, Milano 2007, pag 66. 47 Federico RAMPINI, L’ombra di Mao, op. cit, pag.66.

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soggetti, per controbilanciare e paralizzarne l’azione. Pur privilegiando la partecipazione attiva alle organizzazioni regionali, le sue preoccupazioni per la supremazia mondiale americana, spesso l’hanno portata a stringere relazioni bilaterali, schierandosi al fianco di paesi europei come la Francia e la Germania.48 Con la pubblicazione nel dicembre 2005, di un Libro bianco intitolato “China’s Peaceful Development Road” il Consiglio degli Affari di Stato ha voluto fugare i dubbi e i timori, in Asia e Occidente, sui rischi di destabilizzazione connessi alla recente ascesa cinese e allo stesso tempo rassicurare la comunità internazionale sulla volontà della Cina di mantenere e perseguire la pace. Tale documento si configurava come una risposta alle riserve, soprattutto americane, sulla volontà e capacità cinesi di rivestire con responsabilità il ruolo di global player, a cui l’attuale crescita economica sta proiettando la Cina. Dopo il collasso dell’Urss e la fine della guerra fredda, la Cina comunista era apparsa come il nuovo nemico da contrastare, ma con l’attacco alle Twin Towers, la principale minaccia alla sicurezza statunitense era rappresentata ora dal terrorismo internazionale e dalla possibile proliferazione delle armi di distruzione di massa. In occasione degli eventi dell’11 settembre, la Repubblica popolare cinese ha dimostrato la pienezza delle sue credenziali di legittimità, schierandosi a fianco degli Stati Uniti nella lotta contro il terrorismo internazionale.49 Superata la strategia di ostilità che aveva caratterizzato la politica cinese di G.W. Bush durante i primi sei mesi del suo mandato, la Cina ha condotto la sua campagna di solidarietà agli Usa, votando la mozione che condannava gli atti terroristici come una violazione della sovranità territoriale americana, benché si fosse astenuta sulla decisione di aprire la guerra contro l’Afghanistan. La necessità di una maggiore cooperazione nella lotta al terrorismo ha spinto gli Usa a iniziare i negoziati per l’ingresso della Cina al WTO, inoltre Pechino ha preteso il sostegno statunitense nella lotta cinese contro il separatismo uiguro. Tuttavia a Washington resta un atteggiamento di ostilità e la percezione che la Cina diventerà l’avversario degli Stati Uniti nel secolo XXI, così come l’Urss lo è stata nel cinquantennio dopo il 1945. In realtà la strategia seguita negli ultimi anni da Washington nei confronti di Pechino appare simile a quella adottata nei confronti dell’Urss durante la guerra fredda: si tratta di una ferrea politica di contenimento, attraverso una rete di alleanze adatte a limitare l’espansione cinese in campo economico e politico. Un documento strategico pubblicato dal Dipartimento della difesa degli Usa ha rivelato il profondo radicamento dell’ostilità statunitense alla Cina, pericolosa sul piano economico per i bassi prezzi delle sue merci e per la fitta rete di comunità cinesi sparsa nel mondo, ma soprattutto per la minaccia strategica connessa al potenziale di armamento missilistico e nucleare. L’accresciuta potenza militare cinese, considerata a Pechino naturale conseguenza dell’espansione economica e del processo di modernizzazione, è percepita a Washington come una possibile futura minaccia all’equilibrio nell’Asia orientale e nel Pacifico. Tuttavia sembra sempre più chiara la volontà dei due paesi di estendere la collaborazione strategica per incrementare la reciproca fiducia ed evitare possibili contrasti, visti i loro diversi interessi economici e geopolitici globali.

48 Per esempio contro la Guerra in Iraq nel 2003. 49 Va notato a questo proposito che le prese di posizione cinesi si riferiscono a una lotta totale al terrorismo e non al terrorismo islamico in particolare. Per i governanti cinesi era necessario mettere sotto la tutela del consenso internazionale di lotta al terrorismo, qualsiasi intervento repressivo per combattere atti di ribellione violenta.

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La politica statunitense delineatasi negli ultimi tempi ha trovato una prima applicazione nella comune posizione sino-americana verso la Corea del Nord; il 20 ottobre 2006 il segretario di Stato americano Condoleezza Rice si è recata a Pechino, dove ha avuto dei colloqui con il presidente cinese Hu Jintao. Il motivo del viaggio diplomatico, che comprendeva una tappa anche in Corea del Sud, Giappone e Russia, va individuato nella volontà dell’amministrazione Bush di ottenere una efficace applicazione da parte di tutte le nazioni asiatiche interessate, del regime di sanzioni deciso contro la Corea del Nord, in risposta all’esperimento nucleare condotto con successo dal regime di Kim Jong II. Il vero ruolo chiave della trattativa avrebbe potuto svolgerlo solo la Cina,50 alleato di lungo corso della Corea del Nord e principale fornitore di petrolio e derrate alimentari del piccolo stato comunista. La nuclearizzazione della penisola coreana non faceva affatto piacere a Pechino: ha dichiarato che si opponeva in maniera risoluta all’azione della Corea del Nord e si è impegnata con la Rice a esercitare forti pressioni sul vicino alleato, per convincerlo a tornare al tavolo dei negoziati contro la proliferazione nucleare della regione. Per molti le scelte cinesi nei confronti della Corea del Nord e dell’Iran, sono il segno di come lo status di superpotenza, acquisito dalla Cina, porti a delle responsabilità e del suo emergere pacifico. Piuttosto che prendere il posto che fu dell’Unione Sovietica nella guerra fredda, la Cina sembra adottare un approccio più costruttivo. Pechino e Washington hanno mostrato inoltre come siano riusciti, nonostante le divergenze emerse, a trovare un compromesso di fondo. La Cina e gli Stati Uniti, rispettivamente il più grande paese in via di sviluppo e il più grande paese sviluppato del mondo, esercitano una significativa influenza sull’evoluzione dell’assetto internazionale e in quale direzione si muoveranno le loro relazioni, rimane un vivo interesse per la comunità internazionale. I loro rapporti stanno andando ben oltre il contesto bilaterale, esercitano un impatto diretto nella regione Asia-Pacifico e nello scenario internazionale e acquistano giorno dopo giorno un’importanza globale. La comunità internazionale spera che le due potenze si impegnino in una cooperazione costruttiva e che le loro relazioni siano l’inizio di una nuova crescita.51 In qualità di membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu, Cina e Stati Uniti condividono importanti responsabilità per assicurare la pace e la stabilità globali: la risoluzione di problematiche regionali e internazionali richiede il coinvolgimento e la cooperazione della Cina, degli Usa e degli altri paesi interessati. All’interno delle Nazioni Unite si sono attivati cooperando per contenere il terrorismo, la proliferazione di armi di distruzione di massa, i disastri naturali, la diffusione di malattie e di altre minacce alla sicurezza, che hanno assunto un peso enorme sulla comunità internazionale. Ma la grossa spina nella zampa del dragone cinese è oggi il Giappone. Mai nel corso degli ultimi trent’anni le relazioni sono state così difficili: il mirino è puntato sul rafforzamento dei legami militari tra Washington e Tokyo, oltre che sui problemi territoriali riguardanti le isole Senkaku, chiamate Diaoyu dai cinesi, strategicamente importanti per il controllo marittimo dello stretto di Formosa. Il Giappone sta per soppiantare l’Australia come vice-sceriffo degli Stati Uniti nella regione del Pacifico, diventando una colonna portante nell’architettura della difesa americana del XXI secolo.

50 Oltre a essersi ispirati alla Rivoluzione culturale i Khmer rossi, hanno sempre avuto l’appoggio del governo di Pechino; la complicità è continuata dopo la morte di Mao, con Deng Xiaoping e continua tuttora. 51 Foreign Affairs Journal, Chine People’s Institute of Foreign Affairs, Pechino, 14-11-2006.

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Washington sostiene la candidatura giapponese come nuovo membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La candidatura è stata immediatamente bocciata dalla Cina: “Prima di pensare a insediarsi nel Consiglio di sicurezza, il Giappone dovrebbe ottenere almeno l’appoggio della sua regione” ha commentato l’ambasciatore della Cina all’Onu. Pechino spera di vincere la partita appoggiandosi all’India, che pretende anch’essa un seggio permanente; alla Corea del Sud, che ha vivacemente protestato contro le simpatie militariste dell’ex premier Koizumi; ai paesi africani, con i quali ha legami economici assai persuasivi. 3.Imperativo energetico e politica estera I primi passi sulla strada della distensione tra Cina e India hanno avuto un seguito anche in campo energetico, per il quale la domanda è in continua crescita; la Cina prevede di superare l’America come maggiore consumatore mondiale di energia nei prossimi due o tre anni. Oggi importa il 40% del proprio fabbisogno energetico, mentre l’India il 70%, ma la richiesta energetica raddoppierà, secondo le stime, nell’arco dei prossimi due decenni. La sicurezza energetica è l’unico campo in cui la Cina persegue esplicitamente un interesse nazionale senza inserirlo in una cornice multilaterale. L’accesso al petrolio, al gas, ai metalli e ai minerali, è una priorità strategica in conseguenza della formidabile crescita economica e dell’aumento esponenziale nei consumi di risorse non rinnovabili. Dall’Asia centrale al Medioriente, dall’Africa all’America Latina, la Cina è in competizione con gli altri grandi consumatori. Nei primi anni del nuovo secolo il settore è stato dominato dalla concorrenza nell’accaparramento delle fonti energetiche e in questo campo Pechino era decisamente avanti, specie in Africa. Per Cina e India la ricerca di fonti energetiche rappresenta una priorità da perseguire in maniera del tutto indipendente dal colore politico o dall’organizzazione sociale degli stati che possono fornire tali fonti, molti dei quali fanno parte dei cosiddetti stati canaglia, inseriti nel “libro nero” di Washington. La Banca Mondiale ha parlato di “nuova via della seta” tra Asia e Africa, percorsa non solo dalla Cina ma anche dall’India. La crescita esponenziale nei rapporti economici con l’Africa, a partire dal 2000, non riguarda la sola Cina; anche l’India ha seguito lo stesso sentiero indicato da Pechino. I numeri non sono gli stessi e la penetrazione indiana nel continente africano sembra essere più lenta di quella cinese, ma ciononostante il fenomeno non è da sottovalutare. Come sottolinea un rapporto della Banca Mondiale, pubblicato nel settembre 2006, l’accelerazione del commercio e degli investimenti sud-sud è una delle caratteristiche più significative dei recenti sviluppi dell’economia globale e Cina e India ne sono protagoniste assolute: la portata e il ritmo dei loro flussi commerciali e investimenti in Africa non hanno precedenti. Le esportazioni africane verso la Cina sono cresciute del 48% annuo nel periodo 1999-2004, mentre quelle verso l’India si sono fermate a una crescita del 14%. Il primo interesse di New Delhi, come per Pechino, è assicurarsi l’approvvigionamento di fonti energetiche, necessarie a un’economia in grande crescita. L’India importa circa metà del petrolio di cui ha bisogno dall’Africa, la Oil and Natural Gas Corporation, compagnia petrolifera statale indiana, nel 2002 è entrata nel business del petrolio sudanese con la sua controllata Ongc Videsh, che opera sui mercati esteri, approfittando delle difficoltà create dai gruppi di pressione per la tutela dei diritti umani alle compagnie europee e nordamericane, presenti nel paese dagli anni ‘90. Oltre che nel Sudan, dove ormai e’ ben radicata, la compagnia è attiva anche in Libia, Costa d’Avorio ed Egitto. L’India guarda con insistenza al petrolio dell’Africa occidentale, a partire da

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quello della Nigeria, primo produttore continentale. Per riuscire a inserirsi in questo mercato già piuttosto congestionato, ha adottato una strategia simile a quella cinese, finora dimostratasi vincente, offrendo circa un miliardo di dollari ai paesi dell’Africa occidentale da utilizzare per la costruzione di infrastrutture di qualsiasi tipo, in cambio ha ottenuto diritti per esplorazioni petrolifere e forniture di greggio.52 Accanto al petrolio l’India ha altri motivi per guardare con interesse all’Africa, cerca altre materie prime, mercati su cui riversare le proprie merci, accordi strategici di lungo periodo. Più della metà delle importazioni indiane dall’Africa sono costituite da oro, quasi elusivamente fornito dal Sudafrica, carbone e acido inorganico, che il paese asiatico importa anche dal Senegal. Negli ultimi mesi i rapporti tra i due paesi vanno al di là degli accordi economici e commerciali: il ministro degli esteri di Delhi, nel meeting di Addis Abeba fra India ed Etiopia53, ha cercato appoggi e sostegni alla candidatura indiana come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite, riconoscimento politico a cui l’India tiene molto. Dei cinquantatre paesi dell’Africa, quarantasette hanno stabilito legami diplomatici con la Cina e il commercio tra i due paesi è cresciuto di 37 miliardi di dollari54 negli ultimi anni. In Africa Pechino si sta costruendo un futuro da superpotenza: la presenza cinese è soprattutto economica, ma con pesanti risvolti politici e diplomatici. La leadership cinese ha identificato i primi vent’anni del nuovo secolo come un “ zhongyao zhanlue jiyu qi” (periodo di importanti opportunità strategiche) da cogliere per realizzare i suoi fondamentali obiettivi di sviluppo, garantendosi la sicurezza dei propri rifornimenti energetici. Le relazioni cinesi con il continente nero sono sempre state di natura multidimensionale; negli anni ’60 le autorità di Pechino divennero le maggiori sostenitrici della lotta dei neonati stati africani verso le potenze coloniali europee, favorendo la diffusione degli ideali comunisti presso le giovani élite di colore.55 Gli anni ’70 sono stati improntati sulla solidarietà: la presenza cinese in Africa si identificava nella figura del tecnico venuto ad assistere il paese fratello, appena liberato dall’occupazione, per contribuire al suo sviluppo. La Cina antimperialista e valido contrappeso all’Occidente si infiltrava nei territori non allineati, favorendo la cooperazione militare e commerciale con paesi ideologicamente affini come Etiopia, Uganda, Tanzania, Zambia. Terminata la guerra fredda le relazioni sino-africane hanno perso gran parte della loro connotazione ideologica per orientarsi verso più tradizionali rapporti di mercato e valutazioni energetiche. Oggi la politica africana della Cina è perfettamente in linea con la politica estera generale cinese, guidata dai “cinque principi di coesistenza pacifica”.56 Nella sua relazione all’Assemblea generale dell’Onu nel 2005, Hu Jintao sosteneva l’importanza di attribuire un ruolo politico maggiore ai paesi in via di sviluppo, in particolare a quelli africani, dando un maggiore supporto alla modernizzazione del continente. La Cina ribadiva che la sua politica di lotta alla povertà, attraverso crediti agevolati e forniture, si sarebbe incentrata proprio sull’Africa. Per gli infaticabili politici cinesi il 2007 si è aperto con una visita lampo del ministro degli Esteri cinese Li Zhaoxing in sette paesi africani per uno “shopping energetico”. Il tour del ministro Li ha 52 Cecilia BRIGHI, Irene PANOZZO, Ilaria M.SALA, Safari cinese, ObarraO edizioni, Milano 2007, pag.86. 53 Addis Abeba è sede dell’Unione Africana. 54 Harry G. BROADMAN, Africa’s silk road:China and India’s new economic frontier, The World Bank, Washington 2007, pag.171. 55 Delle precedenti valutazioni politiche sono rimaste solo la comune convinzione di doversi opporre all’egemonia statunitense e il principio dell’esistenza di una sola Cina. 56 Harry G. BROADMAN, Africa’s silk road: China and India’s new economic frontier, op. cit, pag.171.

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riconfermato le caratteristiche di intervento cinese in Africa dove, in cambio di materie prime, ha siglato accordi per aperture di credito, cancellazione di debiti, partnership commerciali. In tutti i casi di trasferimento di prestiti, i dirigenti cinesi non hanno posto alcuna condizione: in cambio di denaro i cinesi chiedono come unica contropartita petrolio o la possibilità di investire in infrastrutture. Secondo l’agenzia governativa Xinhua sono 750mila i lavoratori cinesi impiegati in Africa. Costruiscono dighe, strade, ferrovie, aeroporti, raffinerie. Sempre più spesso la firma dei contratti, che le imprese cinesi si stanno aggiudicando per questi lavori in tanti paesi africani, è seguita dalla richiesta da parte di Pechino di decine di migliaia di visti, che servono per la manodopera. I cinesi arrivano in Africa con voli charter, vengono trasferiti dentro i cantieri e restano lì fino alla fine dei lavori. Voci sempre più insistenti, anche se mai provate, dicono che si tratti di galeotti: i cantieri dove lavorano sono spesso protetti dall’esercito, come in Sudan, dove stanno creando una diga a Merowe, sul Nilo e a nord di Khartoum. I cinesi sono propensi a gestire i loro affari pagando tangenti e facendo accordi sottobanco; molti stati sono interessati a lavorare con imprese cinesi piuttosto che occidentali, proprio per l’assoluta assenza di costrizioni. Tuttavia la politica africana della Rpc è oggetto di numerose critiche sia da parte delle organizzazioni internazionali dei diritti umani, sia di organismi come la Banca Mondiale, espresse dallo stesso direttore Paul Wolfowitz. Egli ha attaccato duramente il comportamento della Cina e delle sue banche, per il mancato rispetto dei diritti umani e la trasparenza nella gestione finanziaria e nella destinazione dei fondi verso i paesi africani. Di fatto si temeva che la campagna africana di Pechino stesse alimentando l’autoritarismo e la corruzione in molti paesi, ostacolando la democratizzazione del continente. La Cina è il primo importatore di petrolio dall’Angola, il cui governo è ritenuto tra i maggiormente corrotti; è un grande acquirente anche del petrolio del Sudan, al quale ha fornito un importante aiuto politico minacciando di esercitare il diritto di veto all’Onu, per impedire una risoluzione di condanna per il genocidio nel Darfur. Pechino ha poi venduto merci e armi al dittatore dello Zimbabwe, Robert Gabriel Mugabe, nonostante l’isolamento da parte dei governi occidentali per il mancato rispetto dei diritti umani nel suo paese. Di recente il presidente della Federazione nigeriana si è recato in visita a Pechino, dove è stato accolto con tutti gli onori: la Nigeria, uno dei più importanti produttori di petrolio e gas dell’Africa occidentale, ha concordato con la Cina nuovi trattati economici. I due presidenti hanno anche deciso di instaurare un vero e proprio dialogo strategico sui principali temi e affari geopolitica regionali e internazionali. In Kazakistan e Ecuador, paesi ricchi di risorse energetiche, naturali e minerali, la competizione tra Cina e India per aggiudicarsi i diritti per la ricerca e lo sfruttamento degli idrocarburi, si è conclusa con la sconfitta della India’s Oil and Natural Gas Corporation, che aveva dovuto cedere il passo alle società cinesi, ricche di liquidità e sovvenzioni statali. Ma alla fine del 2005 la China National Petroleum Corporation e l’Oil and Natural Gas Corporation indiana si sono messe d’accordo per investire nello sfruttamento di giacimenti petroliferi siriani, ipotizzando la creazione di una sorta di cartello di acquirenti per influire sui prezzi. Non si tratta di un’improvvisa riscoperta della politica perseguita negli anni ’50 dell’Hindi-Chini bhai-bhai, bensì di una maniera più razionale e più economica di perseguire i propri reciproci interessi.57 Il presidente Hu Jintao ha precisato poi di “incoraggiare la collaborazione fra le imprese dei due paesi, così da includere l’esplorazione e lo sfruttamento comune delle risorse energetiche in paesi

57 Michelguglielmo TORRI, L’Asia negli anni del dragone e dell’elefante, op. cit, pag.15.

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terzi”. Il comunicato insiste anche sulla necessità “ di prevedere la collaborazione nel campo dell’energia nucleare, nel rispetto degli impegni internazionali di ciascuno”. Nella competizione per l’accaparramento delle fonti energetiche si è inserito un concorrente ancora più pericoloso, gli Stati Uniti ed è possibile che si aprano tensioni assai più forti di quelle tra India e Cina. Infatti la domanda cinese e quella indiana sottraggono fonti energetiche dal pool che, in caso contrario, alimenterebbe l’Occidente, in particolare gli Usa che rimangono il principale consumatore e importatore di energia a livello mondiale; come il caso del petrolio venezuelano stornato dai mercati americani e inviato in Cina e India. Ma l’ossessione di Washington è soprattutto quella di limitare i rapporti che legano i due paesi asiatici alla Siria e l’Iran, gli avversari mediorientali dell’egemonia Usa. L’aggravarsi della crisi in Iran e la necessità di isolare e indebolire il regime di Teheran, ha spinto Washington a esercitare pressioni più massicce nei confronti di New Delhi: così uno degli obiettivi della politica americana in Asia è quello di impedire la realizzazione del gigantesco oleodotto che dovrebbe portare il petrolio iraniano dall’India attraverso il Pakistan, per poi estendersi fino alla Cina centrale. Di contro l’amministrazione Bush ha offerto all’India l’accesso alla tecnologia nucleare e all’uranio, sia americani che del Nuclear Supplier Group.58 L’India dispone oggi di un’industria bellica nucleare, possiede un congruo numero di armi atomiche e non è un paese firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare:59 per l’amministrazione americana equivale a riconoscere la sostanziale irrilevanza di tale trattato. La stampa ufficiale cinese invece ha attaccato duramente l’accordo nucleare tra Usa e India, che veniva riconosciuta ufficialmente come sesta potenza nucleare e, come tale, in grado di poter ricevere aiuti sul piano del nucleare civile, nonostante non fosse firmataria del Trattato di non proliferazione. La politica Usa nei confronti del nucleare civile indiano ha il significato di un riconoscimento mondiale per la potenza rivale ed è perciò che “la Cina ha bisogno di una grande strategia per trattare con l’India come con una potenza nascente”, ha commentato il presidente Hu sul Quotidiano del Popolo. Pechino ha preso atto dell’accordo indo-americano, ma al tempo stesso cerca di impedire che Nuova Delhi diventi un interlocutore privilegiato di Washington. Le crescenti relazioni fra Cina e Africa interessano sempre di più specialisti e policymaker occidentali e non solo: secondo Greg Mills, uno studioso sudafricano, sarebbe altamente auspicabile una cooperazione a tre fra Cina, Africa e Stati Uniti. Una win-win cooperation che consenta una stretta collaborazione sino-americana sul fronte africano, permetterebbe all’Africa di diventare una regione dinamica. Allo stesso modo il ritrovato interesse sino-indiano nel commercio e negli investimenti in Africa rappresenta una significativa opportunità di crescita e integrazione del continente sub-sahariano nell’economia globale: l’accelerazione del commercio e degli investimenti sud sud, è un’importantissima prerogativa dei recenti sviluppi nell’economia globale.60

58 Paradossalmente si tratta di quel gruppo di paesi proprietari di tecnologie e combustibile nucleari, creato da Nixon dopo l’esplosione della prima atomica indiana nel 1974, per boicottare le ambizioni nucleari di New Delhi. 59 Una posizione che condivide con solo altri tre paesi al mondo: Corea del Nord, Pakistan e Israele. 60 Harry G. BROADMAN, Africa’s silk road: China and India’s new economic frontier, op. cit., pag.289.

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4. Il costo ambientale dello sviluppo L’incremento del prezzo del petrolio, che ha raggiunto la quota di 100 e più dollari a barile, potrebbe aiutare la Cina a diversificare le sue fonti energetiche e a risolvere i suoi problemi ambientali. Anche l’India, riducendo la dipendenza dal petrolio, darebbe un suo contributo alla lotta contro il surriscaldamento globale. L'istituto ambientale Worldwatch Institute ha calcolato che se la Cina e l'India dovessero arrivare allo stesso consumo di petrolio pro capite che c'è oggi in Giappone, questi due Paesi da soli consumerebbero più petrolio di quanto il mondo ne produca attualmente; se i consumi cinesi e indiani della biosfera dovessero raggiungere il livello pro capite dei consumi europei, le risorse naturali del pianeta basterebbero appena per loro. Ciò che colpisce è che il nostro pianeta è già entrato oggi in una situazione di emergenza per l'impatto di questi due paesi, molto tempo prima che la loro crescita economica sia arrivata a livelli paragonabili ai nostri. In realtà cinesi e indiani consumano ancora poca energia e poche risorse rispetto a noi. È la loro massa a rendere già insostenibile un processo di sviluppo che, per molti versi, è appena iniziato e deve ancora dispiegare tutti i suoi effetti. Questo mostra un'ipocrisia etica e politica che gli asiatici percepiscono immediatamente di fronte alle grida di panico o alle prediche degli occidentali. Nei comportamenti individuali i cittadini cinesi e indiani sono, infatti, rimasti finora assai "più verdi" dell'occidentale medio. Nonostante il rapido aggravarsi della situazione, non bisogna perdere di vista che l’India intera con un miliardo e cento milioni di abitanti tuttora inquina assai meno dell’Unione europea, che ha poco più di un terzo della sua popolazione. Nell’affrontare la sfida dell’ambiente l’India ha per fortuna una risorsa culturale preziosa dentro il suo stesso sistema di valori: il rispetto della natura insegnato dalla tradizione induista, rimane impresso nella fisionomia del paese. Le aspirazioni di Cina e India a un benessere simile al nostro sono legittime. Il fatto che questo benessere non sia replicabile su scala planetaria senza andare incontro a una catastrofe ambientale, non sta spingendo noi europei - ancora meno gli americani - a drastiche rinunce né a coraggiose riforme del modello di sviluppo. Il resto del mondo è turbato dall’ascesa della Cina e dell’India per ragioni economiche; ma è anche preoccupato, forse persino di più, delle conseguenze ambientali. Nella primavera del 2006 una densa nuvola grigio-nera ha aleggiato sulla Cina del nord prima di raggiungere Seul, la capitale della Corea del Sud. Da qui la nuvola, formata da fuliggine e sostanze chimiche velenose, si è diretta attraverso il Pacifico sulla costa ovest degli Usa. Gli scienziati dissero che si trattava della nuvola più “sporca” che avessero mai visto al di fuori di un’area urbana. La Cina è povera di petrolio ma ricca di carbone: ne brucia in quantità superiore agli Usa, all’Unione europea e al Giappone messi insieme. In Cina, dove l’inquinamento legato al carbone è responsabile di almeno 400mila morti premature ogni anno, non passa giorno che non si apra una nuova centrale elettrica a carbone; nonostante le dichiarate intenzioni di Pechino di adottare una tecnologia che consenta una combustione pulita del carbone, la maggior parte delle centrali, usa i vecchi metodi più inquinanti. “Questa è una grande sfida che dovranno affrontare” ha detto David Moskovitz, consulente per l’energia e consigliere del governo cinese. “Quanto possono continuare nella loro rapida crescita senza portare l’ambiente al collasso?”61

61 SMITH David, Il dragone e l’elefante, Il Sole24Ore, Milano 2007, pag267.

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Il surriscaldamento climatico avrà effetti più pesanti nel subcontinente asiatico che in ogni altra parte del pianeta. Lo scioglimento dei ghiacciai nell’Himalaya sta sconvolgendo il flusso del Gange; il ritmo dei monsoni, delle piene dei grandi fiumi indiani si sta sregolando rapidamente. La mancanza di acqua apre scenari inquietanti per gli approvvigionamenti alimentari. Nei mostruosi ingorghi del traffico a Mumbai e New Delhi la fitta nebbia dello smog eguaglia i livelli tossici delle megalopoli cinesi. L’India con 300 milioni di tonnellate di emissioni carboniche nell’atmosfera si appresta a superare l’inquinamento del Giappone ed è il paese del mondo dove l’inquinamento dei gas da effetto serra, sta crescendo più velocemente: dal 1990 al 2004 è aumentato dell’88%, perfino più che in Cina.62 Il prodigioso boom della Cina, suscitato a suo tempo dal pragmatico nuovo corso di Deng Xiaoping, continua senza soste: fra l’impetuoso capitalismo privato nell’economia e la perdurante dittatura di partito nella politica, ha toccato un record storico, raggiungendo l’11’5 per cento del prodotto interno lordo. Ma quest’impresa, come ha dovuto ammettere Hu Jintao davanti al XVII Congresso, ha comportato “costi umani e ambientali troppo alti”. Secondo un rapporto della Banca Mondiale divulgato dal Financial Times, fra le venti città più inquinate su scala planetaria, sedici appartengono alla Cina, oggi fonte di massima emissione dei “gas serra”. Chongqing, con i suoi 30 milioni di abitanti, è una megalopoli mostruosa, un paese da inferno dantesco, in cui spesso il giorno non si distingue dalla notte tanto il cielo e il Fiume Azzurro sono neri di inquinamento. A pochi mesi dall’inizio dei Giochi olimpici l’emergenza più grave della capitale è lo smog, che uccide secondo la Banca mondiale, 750mila cinesi ogni anno. La motorizzazione di massa procede inesorabile: la Pechino delle biciclette di vent’anni fa ha lasciato il posto a una megalopoli continuamente intasata dal traffico, nonostante i massicci investimenti per adeguare la rete stradale. Su un reticolato autostradale di dodici corsie, procedono a passo d’uomo milioni di autovetture che rischiano di distruggere il poco ossigeno ancora disponibile. Il governo affronta il problema con la riduzione forzata del traffico automobilistico, lo sgombero di tutte le vecchie abitazioni del centro storico e la sostituzione delle caldaie a carbone con nuove condutture di gas naturale. Anche l’antica acciaieria Shougang, costruita nel 1912 a soli diciassette chilometri in linea d’aria da Piazza Tian’An Men, ha ricevuto un ordine di “sfratto”; l’altoforno siderurgico troverà una sistemazione molto più lontano, su un’isola artificiale costruita al largo delle coste Hebei, nella Cina settentrionale; anche una quarantina tra impianti industriali e centrali termoelettriche sono stati sloggiati verso regioni lontane. Per quanto il regime usi il pugno duro per ridurre i gas da effetto serra (che a Pechino dovrebbero ridursi di circa 20.000 tonnellate), la logica dello sviluppo è implacabile e anche il novanta per cento delle acque sotterranee urbane risulta contaminato. Nel 2005 una gigantesca chiazza tossica di benzene sul fiume Songhua ha contaminato per settimane l’acqua dei rubinetti di Harbin, la città di 5 milioni di abitanti nel Nord del paese; subito dopo l’inquinamento si è esteso alla Russia, dove il fiume prosegue il suo corso. Pare che il maestoso Yangtze abbia perduto quasi un terzo della sua portata sotto il warming acceso dall’esorbitante combustione carbonifera: la Cina sta per raggiungere gli Usa come quantità di emissioni carboniche diffuse nell’atmosfera e i danni dello smog hanno superato i livelli di guardia. Astrofisici e studiosi dell’ambiente hanno misurato, raccogliendo dati in 500 stazioni meteorologiche sparse nel paese, il fenomeno dell’”oscuramento” del cielo cinese. Negli ultimi cinquant’anni, mentre le

62 Federico RAMPINI, La speranza indiana, Mondadori editore, Milano 2007 pag.20.

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emissioni carboniche si decuplicavano, la quantità di luce solare che arriva al suolo si è abbassata di 3,7 watt per metro quadrato ogni decennio e, visto dalle zone più industrializzate della Cina, il sole è una lampadina sempre più fioca e lontana. L’impiego massiccio di carbone, associato al boom dei consumi di prodotti difficilmente riciclabili, sta alla base del disastro ambientale, visibile nelle maggiori città cinesi. Alla periferia di Shanghai si sono accumulate 100mila tonnellate di computer e frigoriferi, condizionatori d’aria e telefonini, rifiuti del nuovo benessere cinese. Negli ultimi anni Pechino è stata flagellata da undici uragani di sabbia, conseguenza della progressiva desertificazione che ha diradato i boschi e le naturali barriere contro i venti del deserto. Nel centro della Cina, le valli del Fiume Azzurro sono ormai avvolte da un silenzio spettrale: gli uccelli, le scimmie e tutti gli altri animali che popolavano quest’angolo di natura ancora selvaggia, sono scomparsi. Insieme a loro negli ultimi otto anni sono state “spostate” 2 milioni di persone, per far posto alla più immane opera di ingegneria realizzata dall’uomo, la diga delle Tre Gole, perennemente avvolta da una nebbia fittissima. Con le sue 24 turbine produce energia idroelettrica equivalente a quella di dieci centrali nucleari. Tralicci e cavi invadono la montagna, si allungano in pianura, proseguono fino al delta dello Yangtze per illuminare Shanghai e i suoi cantieri edili, sempre attivi anche di notte. La modernizzazione ha inghiottito città e villaggi, siti archeologici e templi, pagode e tombe delle antiche dinastie imperiali. Dal 2006 il premier Wen Jiabao e il suo vice Zen Pelyan sono a capo di una commissione per la riduzione dei consumi energetici e dell’inquinamento, che ha lo scopo di perseguire gli obiettivi fissati dal governo cinese nel piano quinquennale 2006-2010. Per evitare i deludenti risultati dello scorso anno, anche il Sepa (State Environmental Protection Administration), l’organo preposto alla supervisione degli equilibri ambientali, ha creato un provvedimento secondo il quale tutte le industrie coinvolte con l’inquinamento e la salvaguardia ambientale, dovranno rendere note le informazioni sul livello di degrado e contaminazione. I dipartimenti ambientali dovranno rendere pubbliche 17 categorie di informazioni sull’argomento, includendo leggi, regolamenti, linee politiche e standard di prevenzione ambientale. Sono incluse anche tutte quelle compagnie che non sono ancora in linea con gli standard ecologici internazionali. Il Sepa tende inoltre a precisare la necessità di un coinvolgimento totale del popolo cinese, chiamato a partecipare attivamente alla salvaguardia dell’ambiente. Quando si tratta di problemi ambientali, di solito qualunque cosa faccia la Cina, l’India può farla peggio, o almeno altrettanto male. Uno dei peggiori disastri ambientali del mondo ha avuto luogo a Bhopal, nel Madhya Pradesh, nel 1984, quando il mortale gas di isocianato di metile fuoriuscì dall’impianto di pesticidi della Union Carbide, nel cuore della città. Morirono 15mila persone, altre 550mila rimasero ferite, molte delle quali con danni permanenti agli occhi. Due decenni dopo il disastro, il sito della fabbrica e le sue vicinanze sono ancora contaminati di rifiuti tossici e le discussioni fra i politici locali ostacolano il lavoro di bonifica. Ogni volta che le piogge dei monsoni cadono sulla fabbrica, le sostanze chimiche cancerogene vengono dilavate nei pozzi dell’acqua potabile, causando la malattia e la morte dei poveri che vivono vicino all’impianto: come una Chernobyl della chimica, Bhopal sta ancora mietendo le sue vittime, quasi si trattasse di un promemoria dei limiti della nuova prosperità indiana. Nel 2006 Greenpeace ha denunciato la presenza di “migliaia di Bhopal” in tutta l’India, identificando un certo numero di “aree tossiche”, tra cui Eloor nel Kerala, Kodaikanal nel Tamil Nadu e Patancheru nell’Andhra Pradesh. Come risposta diretta a Bhopal, nel

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1986 è stata approvata la legge per la protezione per l’ambiente che ha istituito il Ministero dell’Ambiente e delle Foreste; ma, così come per tante altre cose, in India le leggi sono una cosa e la loro applicazione un’altra! Anche in India i villaggi scompaiono: dall’indipendenza a oggi, le grandi dighe hanno costretto più di 35 milioni di persone ad abbandonare le proprie case. Il Wild Life Institute di Dehradun ha messo in guardia contro la perdita di un vasto bacino di biodiversità, fauna e rare piante medicinali.63 Con la crescita economica più rapida, l’aumento dell’uso dell’auto e l’inquinamento industriale senza controllo, i problemi ambientali sono andati peggiorando: è questo uno dei settori dove la famosa burocrazia dell’India non ha alcun effetto. Nonostante siano stati adottati duri standard nei confronti delle emissioni dei veicoli commerciali e delle auto, i livelli di particolato emessi dai motori diesel, nella città di Delhi sono risultati dieci volte il limite di legge e il lavoro per rimpiazzare vecchi veicoli inquinanti con nuovi e più puliti è molto arduo da portare a compimento. Prove raccolte dall’ Energy Information Administration americana dicono che le più grandi città indiane sono tra le più inquinate al mondo, in particolare Delhi, Mumbai, Calcutta e Chennay, con una qualità dell’aria urbana tra le peggiori in assoluto. Dei 3 milioni di persone che ogni anno muoiono prematuramente in tutto il mondo a causa dell’inquinamento atmosferico, l’India ne conta più di ogni altro paese. Al pari della Cina, ha un problema dovuto alle emissioni delle centrali elettriche alimentate a carbone e dalla sua combustione diretta. Tra il 50 e il 60% dei bisogni energetici del paese vengono ancora soddisfatti usando carbone e lignite: certo, i problemi ambientali dell’ India non sono così acuti come quelli della Cina ma sono altrettanto reali. Molte multinazionali sono andate a produrre in Asia per profittare di normative meno severe. Una parte dell’ industria occidentale, oltre a quella locale, si è adoperata per trasformare l’India in una delle discariche del pianeta. Greenpeace ha di recente pubblicato uno studio illuminante sull’accumulazione di rifiuti elettronici: i consumi di apparecchi elettrici ed elettronici continuano a salire dovunque e ogni anno il mondo genera dai venti ai cinquanta milioni di tonnellate di “immondizia elettronica”.64 I ricercatori hanno indagato in un sito dove si depositano queste montagne di rifiuti, alla periferia di New Delhi. Sui campioni di terra, polveri e acqua prelevati sono state riscontrate altissime percentuali di piombo, cadmio e altri minerali tossici alla salute, come il mercurio, il cromo e il cobalto. Dalle batterie alle stampanti, dai tubi catodici per tv ai telefonini, tutti i gadget della nostra vita quotidiana intasano le discariche indiane dove vengono bruciati o trattati con acidi, diffondendo i loro veleni nelle terre agricole, nell’acqua dei fiumi, nell’aria delle città. 5. Sos Terra Il Worldwatch Institute nel suo Rapporto sullo stato del mondo del 2006, offre una visione piuttosto ottimistica citando esempi in cui Cina e India stanno facendo passi importanti per accelerare lo sviluppo di un’offerta di energia alternativa che include l’energia eolica, i biocarburanti e la raccolta dell’acqua piovana; cita la Cina quale leader mondiale nella installazione di lampadine a basso consumo. I due paesi asiatici costituiscono una minaccia ambientale globale, ma contemporaneamente offrono anche un’opportunità; il rapporto mette anche in evidenza che un numero crescente di 63 Arundhati ROY, La strana storia dell’assalto al Parlamento indiano, Ugo Guanda editore, Parma 2007, pag 64. 64 Federico Rampini,La speranza indiana, op. cit., pag.19.

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opinion leader in Cina e India, oggi riconoscono che un modello ad alta intensità di risorse per la crescita economica, non può funzionare nel XXI secolo. L’industria solare della Cina, leader mondiale nel settore, fornisce acqua calda a 35 milioni di edifici e l’uso pionieristico del sistema di raccolta delle acque piovane, porta acqua pulita in decine di migliaia di case. Cina e India hanno la possibilità non solo di superare le potenze industriali di oggi, ma entro un decennio saranno in grado di diventare i leader mondiali nell’energia e nell’agricoltura sostenibili. Tuttavia sia India che Cina al momento respingono le misure proposte per ridurre le emissioni di gas serra, ma entrambi i paesi sanno che le pressioni internazionali si faranno sempre più incalzanti. Il sistema più facile per diversificare le fonti energetiche e ridurre la dipendenza dal petrolio, è quello di ricorrere massicciamente al carbone. Il carbone produce già il 70% dell’energia cinese e il 56% di quella indiana, ma il suo utilizzo farebbe aumentare l’inquinamento con il rischio di proteste interne, nonché di nuove pressioni internazionali. Per questo motivo i due paesi hanno deciso di aumentare gli investimenti nelle fonti alternative: gas naturale liquefatto, che richiede nuovi porti e gasdotti; fonti rinnovabili come l’eolico e il solare (l’India è già il più grande produttore mondiale di energia eolica), ma soprattutto nucleare. Né in Cina né in India sono state sollevate serie obiezioni contro questo tipo di energia: l’Agenzia internazionale per l’energia prevede una crescita del 6,5% nella produzione di energia nucleare in Cina nel corso dei prossimi vent’anni. In India è previsto invece un aumento dell’83% dell’utilizzo di energia nucleare. L’aumento del prezzo del petrolio, a cui la Cina ha contribuito, sarà determinante per gli investimenti sul nucleare: si prospettano occasioni allettanti per le aziende europee, americane e giapponesi che dominano la tecnologia dell’energia nucleare. Non mancheranno peraltro grossi sforzi del governo cinese per rendere più competitive le aziende cinesi in questo settore. Già da diverso tempo la Cina sta studiando l’amplificatore di energia per ridurre la vita delle scorie nucleari: entro il 2020 i cinesi prevedono 30 nuove centrali nucleari, ma guardando complessivamente le loro necessità energetiche in crescita spaventosa, questi impianti forniranno appena il 3% del fabbisogno, che invece cercheranno di soddisfare facendo ricorso a svariate risorse. Sono consapevoli che il carbone è un male da cui devono guarire e sono interessati a una varietà di alternative, consci intanto che l’idroelettrico su cui si sono impegnati finora è al limite delle possibilità. I cinesi hanno formato due comitati di lavoro dedicati alle fonti rinnovabili e al nucleare: puntano al solare nelle diverse tecnologie, termodinamico compreso e al vento, mentre le biomasse per loro sono ancora fuori portata. Negli impianti fotovoltaici sono già in grado di produrre a costi competitivi e altrettanto accade per le turbine eoliche. In realtà hanno potenziato le strutture di ricerca come nemmeno immaginiamo: in Cina ci sono sedi nuovissime di istituti universitari e centri di ricerca uguali a quelli che si possono trovare negli Usa. Cina e India hanno preso parte alla XIII Conferenza sui cambiamenti climatici organizzata a Bali dalle Nazioni Unite, che si è conclusa il 15 dicembre 2007. L’accordo finale, firmato dai paesi partecipanti, traccia una road-map per giungere entro il 2009 a un nuovo trattato in materia di emissioni inquinanti, in sostituzione del protocollo di Kyoto, che scadrà nel 2012. I lavori sono stati dominati dallo scontro tra l’Unione europea e i Paesi in via di sviluppo da una parte e gli Usa dall’altra. I primi hanno insistito perché nel documento finale si facesse un esplicito riferimento all’obbligo per i paesi industrializzati di procedere a tagli alle emissioni di anidride carbonica tra il 25 e il 40%, entro il 2020. Washington ha opposto una strenua resistenza, rischiando di far naufragare i lavori, ma alla fine è stato raggiunto un compromesso per la riduzione dei gas inquinanti: a ogni paese sarà però richiesto in futuro di fissare dei target volontari

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per il taglio delle emissioni, nel rispetto delle loro capacità individuali. Cina e India hanno chiesto tetti vincolanti alle emissioni: Pechino non intende negoziare che tali vincoli siano obbligatori solo per i paesi sviluppati, costretti a sopportare il peso maggiore nella lotta al riscaldamento globale, dato il loro contributo all’emissione di anidride carbonica nell’ambiente. Secondo i dirigenti cinesi abbandonare il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”, già previsto dal protocollo di Kyoto, significherebbe arrestare la crescita economica dei Pvs. La posizione di Delhi coincide con quella cinese, ma i rappresentanti indiani hanno dovuto giocare una sottile partita diplomatica per non indispettire troppo gli americani.65 La posizione indo-cinese è sostenuta dall’Asean, che ha riconosciuto nel riscaldamento globale una seria minaccia per i Pvs: Singapore rischierebbe di scomparire, a causa dell’innalzamento del livello dei mari. I paesi dell’Asean hanno mostrato grande interesse sul tema della conservazione del patrimonio forestale, in quanto sono le foreste umide di paesi come Indonesia, Malaysia e Myanmar ad assorbire una buona fetta dell’anidride carbonica, liberata naturalmente e artificialmente nell’ambiente.

65 L’India è infatti ancora impegnata con gli Usa nella delicata trattativa di cooperazione sul nucleare civile: per mitigare le sue posizioni Delhi ha accettato l’invito americano a partecipare a un prossimo meeting sui cambiamenti climatici, a cui dovrebbero partecipare i 17 paesi più inquinanti del mondo.

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Capitolo V

Cina e India all’orizzonte Nei primi giorni di gennaio del 2008 il primo ministro indiano Manmahan Singh si è recato a Pechino per una missione dedicata ai rapporti economici e le relazioni bilaterali. Nella visita, la prima del suo mandato in terra cinese, è stato accompagnato da numerosi rappresentanti del capitalismo indiano dell’industria manifatturiera e dell’information tecnology, espressione dei risultati raggiunti dall’interscambio tra i due giganti asiatici, che a novembre aveva raggiunto e superato i 34 miliardi di dollari, con un incremento del 53% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Tuttavia ciò non significa che non ci siano problemi trai due paesi. Negli ultimi due anni si sono registrati incontri, vertici, accordi, ma anche alcune incomprensioni. Un deficit di fiducia continua a persistere anche in tempi di summit e di auspicata cooperazione: in primo luogo persistono le controversie di frontiera, nonostante i colloqui bilaterali per la ricerca di una soluzione negoziata continuino da anni. Questi problemi, figli del colonialismo occidentale, si sono poi sommati alla crisi del Kashmir: una porzione del territorio contestato da Delhi e Islamabad è infatti sotto il controllo politico e militare di Pechino, in base a un accordo tra Cina e Pakistan. Cinesi e indiani rimangono quindi sostanzialmente fermi a quanto definito, durante la missione di Wen Jiabao a Delhi, quando è stata siglata una dichiarazione comune, nella quale si parlava esplicitamente di regione autonoma del Tibet della Repubblica popolare e di stato del Sikkim dell’Unione indiana. Gli altri problemi di frontiera, riguardanti una parte dell’Arunachal Pradesh (a nord-est dell’India) rivendicata da Pechino e dell’Aksai Chin, reclamato dall’India, rimangono sul tappeto, in attesa di una soluzione. Al di là delle delicate questioni di confine e l’indubbio miglioramento del clima e delle relazioni economiche e politiche, tra i due giganti rimane un forte sentimento di rivalità strategica. Pechino sembra impegnata a capire se nel prossimo futuro si troverà dinanzi a un partner o a un rivale strategico e la risoluzione delle controversie territoriali con il proprio vicino può rappresentare il banco di prova per sciogliere i suoi dubbi. L’India teme quella che alcuni analisti di Delhi definiscono la strategia di accerchiamento cinese, la strategia della “cintura di perle”, che i cinesi portano avanti per cercare di controllare le arterie vitali del rifornimento di energia e materie prime. La costruzione di basi, porti, centri economici nell’Oceano indiano (considerato da Delhi come il suo naturale spazio di influenza geopolitica), in Birmania, Sri Lanka, Maldive e Pakistan rafforzano questi timori. Dal Golfo del Bengala al Golfo Persico, Pechino sta infatti cercando di assicurarsi un maggior controllo sulle rotte del petrolio mediorientale in transito verso lo stretto di Malacca. New Delhi non si fida e moltiplica le manovre navali con le forze americane o in collaborazione con il Giappone, che sta dando vita a una concezione più offensiva del suo esercito. L’India vuole mostrare i muscoli e questo ruolo di contenimento nei confronti della Cina (voluto da Bush) è accettato dalla stragrande maggioranza delle élite apertamente filoamericane. In compenso una parte degli ambienti economici appare più reticente: “Non è l’India contro la Cina che vedremo, ma una Cina insieme all’India, per una cooperazione più stretta in Asia”, ha dichiarato il direttore di Tata Sons, uno dei più grandi gruppi industriali indiani. La missione del primo ministro indiano a Pechino si inserisce in questa strategia politica panasiatica e di cooperazione bilaterale; nessuno dei due vuole creare relazioni sino-indiano contro gli Stati Uniti, né i dirigenti cinesi, consapevoli che dagli americani

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dipendono economicamente, né gli indiani che hanno dichiarato:”L’Asia è troppo importante per essere diretta da una sola potenza. Né la Cina, né l’India, né il Giappone possono pensare di dirigere la regione da soli o in alleanza con una potenza esterna”. Nell’ambito degli accordi di “confidenza militare” alla fine del 2007, Cina e India hanno condotto, per la prima volta, esercitazioni antiterrorismo congiunte; allo stesso tempo si è recato a Pechino il nuovo premier giapponese Fukuda. Questa doppia accelerazione diplomatica segna il punto di partenza di un nuovo corso per gli equilibri della regione asiatica: le tre capitali, pur segnate da vecchie ferite e da rivalità nuove alimentate dal ruolo di traino che le economie di Cina e India hanno assunto, provano a compiere uno scatto verso relazioni di stabile e buon vicinato, necessarie visto che coinvolgono quasi 2 miliardi e 700 milioni di persone, oltre il 40% della popolazione sul globo.66 Le questioni sul tavolo della diplomazia sono parecchie: dispute di confine, esasperazioni nazionalistiche, mancate riparazioni storiche non sono mai stati archiviati in modo definitivo. Resta anche il nodo del seggio nel Consiglio di sicurezza Onu, che Pechino può sciogliere decidendo di sostenere Delhi o Tokyo: oggi sta prendendo consistenza l’idea di un orizzonte di dialogo che sappia frenare le spregiudicatezze e che sia in grado di consolidare la prospettiva di un assetto competitivo e multipolare nel continente con il via libera di Washington, ma al riparo da eccessivi condizionamenti e suggestioni americani. L’Asia prepara una svolta difficile da immaginare senza ricadute oltre i suoi territori. Pechino ha conquistato una posizione centrale in questo scacchiere in movimento: la crescita record e il fascino che essa esercita sui mercati confinanti più poveri sono un volano straordinario. La Repubblica popolare cinese ha saputo costruirsi una posizione politica molto forte, che le ha consentito di rientrare da protagonista nei giochi diplomatici che contano, di trattare sullo stesso piano con il Giappone, tradizionale pilastro dell’area, di riannodare il discorso con Mosca e di congelare le incomprensioni con il giovane colosso indiano. Con questi paesi ha impostato un rilancio strategico su più fronti, a cominciare da quello dell’import-export, che raddoppierà da 20 a 40 miliardi di dollari entro il 2010. Pechino e New Delhi lavorano, ancora fra mille diffidenze alla normalizzazione dei loro rapporti bilaterali: le esercitazioni militari compiute a dicembre sono state di modeste dimensioni e non hanno coinvolto più di un centinaio di militari per parte. Hanno però avuto un significativo peso politico. Pechino e Delhi hanno scelto di andare avanti insieme perché vi sono almeno due terreni che le leadership del dragone e dell’elefante hanno interesse a condividere: il primo è quello degli approvvigionamenti energetici, il secondo è quello della sicurezza interna. “Lo sviluppo della partnership strategica bilaterale passa dalla lotta comune alle tre forze del diavolo, ovvero il terrorismo, il separatismo e l’estremismo” ha detto con enfasi il generale cinese che ha coordinato le truppe alle esercitazioni militari nello Yunnan. La Cina è impegnata a combattere il separatismo uiguro che, dal settembre del 2001 ha strumentalmente associato alla lotta contro il terrorismo mondiale; anche nell’Aksai Chin, situato tra lo Xinjiang e il Kashmir abitano popolazioni di origine uigura. La sua sistemazione territoriale potrebbe rientrare in un più ampio accordo tra Cina e India per stabilizzare una delle aree più calde del mondo, situata laddove i confini di questi due paesi si congiungono con quello del Pakistan settentrionale. Allo stesso modo il governo indiano potrebbe ottenere l’aiuto del regime cinese per pacificare i suoi stati nord-orientali, abitati in prevalenza da comunità tribali e di origine

66 Fabio CAVALERA, “Cina-India, giochi di guerra”, Corriere della Sera, 22 dicembre 2007.

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mongola e sconvolti da decenni dalle azioni di diversi gruppi separatisti, che trovano rifugio nel margine settentrionale dell’Arunachal Pradesh. Le manovre congiunte, svoltesi nel mese di gennaio sono in verità una medicina potente per tenere a riposo gli antichi risentimenti: l’“operazione mano nella mano” ha rappresentato una spinta per continuare la collaborazione fra due potenze che, nel 2006, hanno visto aumentare i loro scambi commerciali del 33% e che nel 2007 hanno compiuto un balzo ancora più poderoso. I due governi stanno percorrendo una strada a più tappe verso la “riconciliazione”, contrassegnate dallo scambio di visite sempre più frequenti. Il viaggio di Singh è stato preceduto dalla visita in terra cinese di Sonia Gandhi e di suo figlio Rahul. Nel suo discorso, tenuto presso la Tsinghua University, la presidente dell’Indian National Congress, ha parlato del dialogo e dell’incontro fra le due civiltà più antiche e più importanti dell’Asia; ha ribadito la cooperazione sino-indiana nei secoli e la partnership odierna in settori chiave quali le biotecnologie, l’energia, l’ambiente e le acque. Sonia Gandhi si è incontrata con i vertici del regime di Pechino e insieme hanno concordato di allargare la cooperazione in materia di scambi economici e culturali, in particolare la formazione reciproca di personale amministrativo, intellettuale, professionale, indiano in Cina e cinese in India. Questo tipo di cooperazione risulterà sicuramente importante per la pace e lo sviluppo del continente asiatico: la conoscenza reciproca di classi dirigenti e amministrative non può che favorire la collaborazione in tutti i campi e i settori. Nella strada per la collaborazione un altro ostacolo tra i due paesi è rappresentato dalle relazioni tese tra India e Pakistan e dalla continuazione del rapporto privilegiato tra Cina e Pakistan. Tanto più che i negoziati avviati nel 2004 su un territorio diviso in due, con a nord l’Azad Kashmir, il Kashmir libero controllato dal Pakistan e a sud il Jammu, il Kashmir sotto il controllo indiano, segnano il passo. Più volte l’amministrazione Bush ha inviato ufficiali di alto rango in India e Pakistan, per tentare di smorzare la tensione tra i due rivali nucleari, cercando di soddisfare la richiesta di partenariato strategico indiano, senza scontentare il loro alleato pakistano. Per New Delhi il conflitto era dovuto interamente “alla malignità” del Pakistan, pronto invece a porre fine alle operazioni dei militanti musulmani kashmiri, che in realtà respingevano tanto la politica indiana quanto quella dei gruppi islamisti. New Delhi ha sempre considerato la relazione sino-pakistana, in particolare l’assistenza nucleare e missilistica di Pechino a Islamabad, come una parte della strategia cinese di contenimento dell’India nel subcontinente. La Cina ha respinto queste insinuazioni sostenendo che il miglioramento dei loro rapporti non prevede una regressione delle relazioni sino-pakistane. Durante i test nucleari del maggio 1998 e la crisi del Kargil,67 Pechino cercò di mediare la situazione, ma incontrò serie opposizioni indiane; New Delhi considerava Pechino più come una parte del problema che come una soluzione. In questo contesto la Cina ritiene la sua collaborazione con il Pakistan un nodo critico; da un lato il sostegno a Islamabad continua a essere un elemento chiave della politica cinese nell’Asia del Sud, dall’altro Pechino non vuole che le sue relazioni con il Pakistan compromettano il processo di normalizzazione intrapreso con New Delhi. Molti analisti ritengono che il supporto di Pechino a Musharraf non sia solo legato al desiderio di mantenere la stabilità contro l’emergente fondamentalismo islamico, ma soprattutto all’interesse della Cina a porre Islamabad sotto la sua influenza, in un periodo in cui gli Usa sono riusciti a intromettersi e imporre le loro basi in Pakistan. L’India continua a considerare il governo di Musharraf direttamente responsabile di non 67 Risolto per l’intervento del presidente Clinton, che persuase il primo ministro pakistano Nawaz Shari a ritirare le forze armate.

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aver fatto abbastanza per combattere i gruppi estremisti islamici, operanti al di fuori del Pakistan e fautori degli atti terroristici in India, che nel 2006 hanno causato a Bombay duecento morti. Diverse volte l’India ha minacciato di prendere provvedimenti militari: anche se, il conflitto indo-pakistano in Kashmir sembra continuare, una guerra tra India e Pakistan rimane solo una remota possibilità. I due popoli sperano di trovare un aggiustamento ragionevole alla questione del Kashmir, accettabile per entrambe le parti, costruendo relazioni stabili e amichevoli tra di loro, cosicché questa terra possa diventare di nuovo un “paradiso terrestre”.68 C’è infatti un mutuo interesse nel controllare la portata del conflitto:69 è nell’interesse di tutti -Pechino, Islamabad, New Dehli- lavorare per la creazione di un regime strategico più idoneo; purtroppo al momento non c’è un forum per discutere queste problematiche tra Cina, India e Pakistan e la possibilità che possa iniziare un dialogo del genere appare remota.70 1. “New world order”: la Cina, l’India e gli altri… Oggi le relazioni internazionali sono profondamente cambiate: pace e sviluppo sono la scommessa dei nostri tempi; il multipolarismo e la globalizzazione stanno accelerando sempre più; i paesi stanno diventando interdipendenti e interagiscono in maniera più stretta l’uno con l’altro. Ma le crescenti instabilità e incertezze mettono la comunità internazionale di fronte a nuove sfide e minacce, che rischiano di compromettere l’ordine stabilito.71 Dalla fine degli anni ’90, e soprattutto dopo gli eventi dell’11 settembre del 2001, l’idea che la politica mondiale fosse unipolare ha dominato il dibattito. Gli attacchi sferrati agli Usa hanno irrobustito la loro posizione di prominenza, inoltre la lotta al terrorismo internazionale ha accentuato l’inclinazione degli Stati Uniti verso l’unilateralismo, mentre amplificava il divario in termini di capacità militari con il resto del mondo.72 Il panorama geostrategico decisamente sfavorevole per Pechino, generatosi con la guerra contro il governo talebano di Kabul, è sostanzialmente migliorato con la guerra contro Saddam Hussein: oggi è possibile parlare di una ritrovata “centralità regionale della Cina” e di una “nuova diplomazia di Pechino”. Molti hanno anche ipotizzato l’affermazione nell’Asia orientale di un nuovo sistema internazionale di tipo gerarchico con al vertice la Cina.73 Il nuovo ordine ipotizzato per l’Estremo Oriente all’alba del nuovo millennio, non è altro che la variante moderna del tradizionale ordine sino-centrico, che ha caratterizzato i rapporti internazionale in quella regione, per lunghi secoli fino all’intrusione del colonialismo europeo. La nuova diplomazia della Cina mira innanzitutto a garantirsi la sicurezza e ad affermarsi come grande potenza, ma senza provocare Washington, né allarmare i paesi vicini. Da Pechino partono fili sempre più importanti per la politica e l’economia globale: un filo consistente lega la Cina alla Russia di Putin, fornitore importante di energia, materie prime, armamenti avanzati e territori vergini. Un altro filo si sta rafforzando con l’Africa, l’altro grande scrigno

68 Cheng RUISHENG, “On the peaceful resolution of the Kashmir problem”, Foreign Affairs Journal, Chinese People’s Institute of Foreign Affairs, Pechino 9-12-2005. 69 Waheguru Pal Singh SIDHU, Jing-dong YUAN, China and India, cooperation or conflict?,op. cit., pag.67. 70 Ivi, pag.68. 71 N. 81, Foreign Affairs Journal , Chinese People’s Institute of Foreign Affairs, Pechino 14-11-2006. 72 Barry BUZAN, Il gioco delle potenze, Università Bocconi editore, Milano 2006, pag.53. 73 Franco MAZZEI, Vittorio VOLPI, Asia al centro, op. cit,, pag.298.

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planetario di risorse energetiche, naturali e minerarie. Ci sono poi i link con le altre potenze asiatiche: l’Asia sudorientale, storicamente molto vicina agli interessi geopolitica della Cina fin dal tempo del Celeste Impero; l’Asia nordorientale, con Corea del Sud e Giappone; l’Asia centrale e le ex repubbliche sovietiche; infine l’altro gigante, l’India. La Cina sta costruendo un vero impero, adatto alla politica del XXI secolo: con Africa, Asean e India, Pechino sta bene attenta a mantenere una bilancia commerciale in passivo, chiaro segno sia della nascita di un nuovo centro economico mondiale che di una strategia geopolitica; sta insomma costruendo una grande tela di ragno con al centro l’Impero di Mezzo. La Cina sta facendo ciò che l’amministrazione Bush non è riuscita a fare, costruire un sistema di relazioni “quasi imperiali” 74 con i vari attori politici ed economici, che potrebbe prefigurare un nuovo equilibrio internazionale. Dopo la guerra contro il regime talebano, Pechino si era sentita più vulnerabile, accerchiata dalla massiccia presenza militare degli Stati Uniti in Asia centrale, zona privilegiata della sfera d’influenza cinese; in quest’ottica risultava marginalizzato anche il Gruppo di Shanghai, fiore all’occhiello della diplomazia cinese post-bipolare. Particolarmente sgradita appariva anche la stretta relazione che, in occasione della guerra contro il regime di Kabul, Washington era riuscita a stringere con il Pakistan, tradizionalmente amico della Rpc. E’ stato un duro colpo constatare poi che l’intervento americano in Afghanistan fosse stato appoggiato anche dalla Russia, con cui Pechino aveva previsto alleanze strategiche. Successivamente questa situazione si è evoluta favorevolmente per Pechino in seguito alla guerra contro l’Iraq. Pur essendo contraria alla guerra preventiva contro il regime di Saddam Hussein, la Cina si è limitata a svolgere un’opposizione inattiva,75 senza compromettere la relazione con Washington e continuando così a godere della gratitudine americana. In questo modo inoltre Pechino è diventata la voce di quei governi e popoli dell’Asia orientale che si oppongono all’uso della forza senza l’avallo delle Nazioni Unite. Strizzando l’occhio a Washington ha rassicurato i paesi vicini, evitando un loro eventuale blocco contro la temuta minaccia cinese e smorzando la crescente influenza militare americana nella regione. L’accorta dirigenza cinese ha inteso contrapporre all’immagine degli Stati Uniti presentati come potenza guerrafondaia, quella della Cina come un paese amante della pace.76 Molteplici sono le ragioni per cui i paesi vicini guardano alla Cina con un atteggiamento positivo, in particolare per la crescente importanza che la diplomazia di Pechino attribuisce al multilateralismo rispetto alla strategia bilaterale: oggi il clima della Rpc tende essenzialmente alla distensione, la Cina è parte integrante dell’economia della regione, membro di tutte le maggiori organizzazioni regionali e del WTO e soprattutto sta guadagnando fiducia nello svolgere ruoli di leadership. A fine 2004 il disastro umanitario causato dallo tsunami ha rappresentato un’altra opportunità preziosa per rafforzare l’immagine della Cina quale potenza amica in Asia orientale: in quella circostanza la Cina offrì consistenti aiuti economici a Giakarta. Le relazioni con il Sud-est asiatico apparivano positive e furono firmati numerosi accordi di natura commerciale in occasione degli scambi di visita fra i leader cinesi e quelli dei paesi Asean. La volontà cinese di dare un forte contributo allo sviluppo regionale si è concretizzato con il primo versamento cinese al Fondo per la cooperazione regionale e la riduzione della povertà della Banca asiatica per lo sviluppo. La Cina è stata poi

74 Claudio LANDI, “L’Impero di Mezzo tra Africa, Asean e Chindia”, in Lettera 22, novembre 2006. 75 Diversamente da Francia, Germania e Russia che adottarono una coalizione ostile nell’ambito di una strategia di controbilanciamento nei confronti dell’unilateralismo americano. 76 Franco MAZZEI, Vittorio VOLPI, Asia al centro, op. cit., pag.302.

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accolta come paese osservatore al summit della South Asian Association for Regional Cooperation (Saarc), invitata dai paesi più piccoli dell’organizzazione, come elemento di riequilibrio rispetto all’India: il Sud-est asiatico rimaneva, infatti, un’area di potenziale competizione tra i due paesi. Accordando all’Indonesia lo status di partner strategico, privilegio di cui beneficiavano sino al 2005 solo gli Stati Uniti, l’Urss e l’India, Pechino domina di nuovo la scena nel sud-est asiatico. Il 14 dicembre dello stesso anno si è svolto a Kuala Lumpur, il primo vertice dell’Est asiatico, l’East Asia summit. L’idea di un raggruppamento forte di paesi asiatici che aumentasse il peso specifico dell’Asia nell’arena internazionale, è nata con Mahatir Mohammad, l’ex leader della Malysia. Benché l’Asean, nata nel ’67 in chiave soprattutto anticomunista, fosse già da tempo diventata un motore importante di aggregazione regionale, Mahatir si rese conto che l’organismo aveva le caratteristiche per diventare un soggetto più ampio. Agli inizi degli ’90 propose un apparato difensivo allargato a paesi come la Cina e che si opponesse allo strapotere americano e all’Europa, ma il piano fallì. L’idea venne riproposta qualche anno dopo in una forma più attuabile, quando i sei paesi dell’Asean, Filippine, Indonesia, Malaysia, Singapore, Thailandia e Brunei, si accordarono con Sud Corea, Giappone e Cina che insieme diedero vita all’Asean + 3. L’attuazione avverrà però solo nel 2004, quando l’idea di una comunità dell’Asia orientale prese nuovamente corpo nelle parole del successore di Mahatir, Abdullah Badawi. La proposta venne subito raccolta dal premier cinese Wen Jiabao e il vertice fissato per la fine del 2005. Le ambizioni dichiarate alla vigilia del nuovo forum intercontinentale, sono state improntate all’insegna della prudenza, anche se i paesi riuniti rappresentavano metà della popolazione della terra e un quinto del valore del commercio mondiale. L’incontro ha visto riuniti gli attuali stati membri dell’Asean (Brunei, Cambogia, Filippine, Laos, Indonesia, Malaysia, Myanmar, Singapore, Thailandia e Vietnam) più quelli dell’Asean +3 Cina, Giappone e Corea del Sud. Sono stati invitati anche India, Australia e Nuova Zelanda, tre stati situati alla periferia, ma direttamente interessati. Le candidature di Australia e Nuova Zelanda erano la chiave per evitare che l’Eas venisse subito bollata come una fortezza asiatica, chiusa verso l’Occidente: la loro presenza sarebbe stata in grado di bilanciare la pesantissima assenza degli Stati Uniti. In qualità di osservatore ha partecipato ai lavori dell’Eas anche la Russia. Le reazioni del grande escluso non tardarono a farsi sentire: l’Washington Post propose l’evento in maniera asettica, intitolandolo “Asian leaders hold summit without U.S. presence”; mentre il New York Times con “As an Asian century is planned, U.S. power stays in the shadows” ne dava notizia con più enfasi. Nel nuovo soggetto internazionale si intrecciano interessi comuni e divergenze, resi ancora più complessi dal coinvolgimento dei grandi protagonisti asiatici, Cina, Corea del Nord, Giappone e India. Il Sud-est asiatico ha preso atto del nuovo ruolo di una Cina che intende imporre un riequilibrio di fronte alla potenza americana. “L’emergere della Cina è nell’interesse di tutti, se non sarà pacifico, sarà contrassegnato da caos e violenza” ha affermato l’influente patriarca di Singapore, Lee Kuan Yew. Per i paesi vicini è importante puntare sull’alleanza regionale per farsi ascoltare da un interlocutore potente e necessario: i leader dell’Asean sono ben consapevoli dell’importanza economica della Cina, i paesi poveri come la Cambogia, il Laos e la Birmania dipendono sempre di più dall’aiuto cinese, ma ciò comporta una contropartita strategica. La Thailandia evita qualsiasi contenzioso con la Cina, il Vietnam deve accontentarsi di una marcatura stretta e Pechino rimane il principale punto d’appoggio all’estero per una giunta birmana isolata sulla scena internazionale. Dal 2004 la Cina continua a tessere la

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sua tela finanziando numerosi progetti di infrastrutture nella regione del Mekong, come la costruzione di strade, ponti e l’innalzamento di dighe. Laddove il grande fiume segna la frontiera tra Birmania e Laos, i cinesi hanno fatto saltare scogli e blocchi di roccia per facilitare il commercio fluviale; a valle non hanno potuto fare altrettanto, a causa dell’opposizione dei pescatori thailandesi. Questo rafforzamento dei rapporti clientelari nella valle del Mekong si inserisce nel nuovo orientamento dello sviluppo cinese verso l’ovest, la parte più sfavorita della regione. Gli investimenti cinesi in tutto il Sud-est asiatico aumentano a un ritmo esponenziale: in Vietnam e in Indonesia i loro prodotti di consumo inondano il mercato, i prezzi dei loro prodotti tessili, in buona parte importati di contrabbando, sfidano qualsiasi concorrenza e mettono in discussione la sopravvivenza delle fabbriche locali. Cina e Cambogia stanno consolidando e rafforzando notevolmente i loro legami economici. La Cambodian Investment Bank ha autorizzato investimenti cinesi allo sviluppo di progetti per un ammontare di 925 milioni di dollari, che vanno dal settore idroelettrico allo sfruttamento delle potenziali risorse energetiche cambogiane. In Thailandia, paese chiave per la sua collocazione nella regione Asean, corteggiato anche dall’India e dove la ricca e intraprendente comunità affaristica cinese è fortemente radicata, Pechino ha notevoli chance di cooperazione. E’ il bisogno insaziabile di materie prime che spinge la Cina a penetrare nel Sud-est asiatico. Un rapporto dell’Environmental Investigation Agency, Ong con sede a Londra, ha affermato che 2,3 milioni di metri cubi di legname sono stati inviati dalla Papuasia indonesiana verso il porto cinese di Zhangjiagang, in prossimità di Shanghai,77 la stessa sorte è toccata alle foreste del nord della Birmania. In alcuni paesi rimane il timore per una inaccettabile posizione egemonica della Cina, solo parzialmente equilibrata da Giappone e Corea del Nord: ma, all’interno dell’Eas è l’India il vero contrappeso alla Cina. L’altro gigante asiatico vuole mantenere buoni rapporti con la Cina e il premier indiano Manmohan Singh, durante la sua visita in occasione del summit a Kuala Lumpur, ha detto ai giornalisti: “C’è l’errata convinzione che l’India e la Cina siano in competizione e ciò non è vero”. Se a questa sintonia si aggiunge la ritrovata armonia di entrambi con la Russia, potrebbe veramente emergere una grande intesa centroasiatica a scapito dell’influenza Usa. Alla conclusione dell’Eas è stato raggiunto un accordo per ripetere il summit con cadenza annuale. Anche nel secondo vertice, tenutosi nel 2007 a Cebu, nelle Filippine, gli Usa non sono stati invitati: è evidente come, al momento, la Cina preferisca l’Eas senza americani e non è detto che potenze importanti come l’India siano favorevoli a un loro ingresso a breve termine. In una dichiarazione ufficiale l’East Asia summit è stato definito “un forum per grandi problematiche strategiche, politiche ed economiche di comune interesse, con lo scopo di promuovere pace, stabilità e prosperità economica in Asia orientale”: le intenzioni sembrano buone e se seguiranno i fatti, come dice il New York Times, “il XXI secolo potrebbe diventare asiatico”. Oggi la vera scommessa è se l’East Asian summit si trasformerà effettivamente in una East Asian community, con una politica estera comune, una moneta unica,78 aree di libero scambio e istituzioni multilaterali in grado di affrontare i problemi della sicurezza e dello sviluppo. Dopo l’implosione dell’Urss e soprattutto dopo l’11settembre è profondamente mutato anche il panorama geostrategico dell’India, che si è confermata la maggiore potenza dell’Asia meridionale. Lasciate le posizioni da paese non allineato, l’India ha ceduto alle lusinghe degli Stati Uniti, ma allo stesso tempo ha iniziato a corteggiare Pechino

77 Jean-Claude POMONTI,”In Asia si ridistribuiscono tutte le carte”, Le Monde Diplomatique, dicembre 2005. 78 Molti hanno prefigurato l’asio come moneta unica.

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per non trovarsi stretta tra l’incudine della minaccia pakistana e il martello del gigante asiatico, le cui mire strategiche crescono di giorno in giorno, sempre più i rotta di collisione con quelle di Washington. Numerosi sono gli interessi che accomunano India e Cina, in primis il desiderio di abbreviare i tempi della transizione del sistema internazionale al multipolarismo e di bilanciare la politica di Washington in relazione alla guerra al terrorismo che ha irrigidito e complicato gli equilibri anche in Asia. Data la sua tradizione politico-culturale, la visione geostrategica del mondo per l’India è fondamentalmente ancora più multipolare che per la Cina. Nonostante gli accordi con Bush siano molto importanti, l’India non sembra intenzionata a limitare la propria libertà di movimento e di impegno con tutti. Nell’elaborazione della politica estera, è molto sentito l’interesse nazionale: il crescente fabbisogno energetico dovuto all’impetuosa crescita economica, spinge il governo di New Delhi a mantenere buoni rapporti con le nazioni del Medioriente, in particolare con l’Iran. Oggi l’India guarda soprattutto a Oriente, fonte di crescita economica e fattore di stabilità e sicurezza. Nel 1991 l’India ha lanciato la Look East Policy, che si è concretizzata in una lunga serie di iniziative, come il partenariato con l’Asean e l’adesione al Forum dell’organizzazione che si occupa di questioni concernenti la sicurezza. L’India ha poi fornito il suo appoggio a forme di cooperazione economica transregionale, la BIMST-EC, tra Bangladesh, India, Myamar, Sri Lanka e Thailandia, cui si sono aggiunti il Nepal e il Bhutan. Ha preso parte anche all’iniziativa Kunming, lanciata dalla provincia cinese dello Yunnan per la creazione di sinergie economiche, che riguarda il Bangladesh, la Cina, l’India e il Myanmar. Già nel ’75 era stata creata l’Associazione per la cooperazione regionale dell’Asia del sud (SAAR), adottata dai capi di stato o di governo del subcontinente. La politica “guardare avanti, guardare a est”, espressione preferita dai mass-media indiani, ha portato anche a rafforzare i rapporti economici con il Giappone e con le Tigri asiatiche, ad approfondire la cooperazione militare con Vietnam e Thailandia, ma anche con paesi a maggioranza musulmana come la Malaysia e l’Indonesia. La Cina è fortemente interessata per ragioni economiche, energetiche e strategiche alla regione ex sovietica dell’Asia centrale, una terra, fino al 1991, “incognita” che in genere non rientrava negli itinerari dei viaggiatori occidentali tranne che per le visite a mete turistiche come Buhara o Sarmarcanda.79 Qui il nuovo “Grande Gioco” ha raggiunto il suo culmine: la domanda di idrocarburi non spiega da solo la battaglia tra le grandi potenze che intendono impossessarsi dei giacimenti delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale e del Caucaso, sfuggite al dominio di Mosca con il crollo dell’Urss nel 1991. L’oro nero e l’oro grigio sono lo strumento di una lotta d’influenza in vista del controllo del centro del continente eurasiatico; gli oleodotti sono le lunghe corde che consentono alle grandi potenze di ancorare al proprio sistema geostrategico, i nuovi otto stati indipendenti della regione. Nel XIX secolo il “Grande Gioco” si riferiva alla lotta d’influenza tra grandi potenze, in molti aspetti simile a quella odierna: all’epoca la posta in gioco erano le cosiddette Indie, il gioiello della corona britannica ambito dalla Russia imperiale. La lotta, che si protrasse per un secolo, si concluse nel 1907, quando Londra e San Pietroburgo trovarono un accordo per la suddivisione delle loro zone d’influenza, con la creazione di uno stato tampone tra di loro, l’Afghanistan. Oggi, sebbene siano cambiati i metodi e le idee che guidano le grandi potenze e i protagonisti non siano gli stessi, l’obiettivo ultimo permane: colonizzare l’Asia centrale per neutralizzarsi a vicenda. Approfittando

79 K.E MEYER, La polvere dell’Impero, Corbaccio editore, Milano 2000, pag.253.

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della guerra contro il terrorismo in Afghanistan, dopo gli attentati dell’11 settembre, i militari americani si sono insidiati nei territori dell’ex Urss, promettendo di andarsene appena sarebbe stata sradicata la “cancrena” islamica. “Bush si è servito di questo impegno militare massiccio nell’Asia centrale, per suggellare la vittoria della guerra fredda contro la Russia, arginare l’influenza cinese e mantenere il nodo scorsoio intorno all’Iran”;80 Washington inoltre si è dimostrata strenua sostenitrice delle rivoluzioni colorate in Georgia, Ucraina e Kirghizistan. Sconvolti da questi rovesciamenti di potere in serie, alcuni autocrati della regione, hanno voltato le spalle agli Usa riavvicinandosi alla Russia o alla Cina. Negli ultimi anni il gioco si è complicato, per l’intromissione di Pechino negli affari dell’Asia centrale e per l’accelerazione dei progetti europei di captazione del gas caspico. L’Unione europea non vuole essere protagonista del grande gioco, ma è motivata dal suo bisogno di trovare materie energetiche supplementari. Gli Stati Uniti hanno continuato a portare avanti il progetto per la costruzione del Tapi, il famoso gasdotto strategico Tukmenistan-Afghanistan-Pakistan-India, di grande utilità per isolare l’Iran e indebolire la Russia nell’Asia centrale; in questo modo intendono anche integrare l’Afghanistan tra i paesi vicini e allo stesso tempo fornirgli risorse per riscaldare le sue popolazioni e rilanciare la sua economia, come pegno della stabilità ritrovata. In questo senso, nel 2005, il dipartimento di stato americano ha riorganizzato la sua divisione Asia del sud fondendola con la divisione Asia centrale, per agevolare le relazioni a tutti i livelli, in quest’area designata come “grande Asia centrale”. Chi si sente lontana dall’Asia centrale è New Delhi che esita a diventare parte integrante del Tapi, perché più attratta dall’Ipi, il progetto di gasdotto Iran-Pakistan-India, proposto da Teheran sebbene l’Iran-Libya Sanctions Act,81 vieti a New Delhi di fare il passo. L’Iran è il grande perdente del nuovo grande gioco, non solo gli oleodotti aggirano il suo territorio, ma nessuno può investire in Iran. Il riavvicinamento con l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, rappresenta un salvagente per la politica iraniana nell’Asia centrale, grazie alla quale Teheran può intrecciare legami con l’Asia, in particolare con la Cina e rafforzarsi nel suo braccio di ferro con gli Stati Uniti. La Cina persegue tre obiettivi in questo grande gioco: la sua sicurezza, in particolare nella provincia turcofona dello Xinjiang che fiancheggia l’Asia centrale e da cui provengono i movimenti indipendentisti degli uiguri; la cooperazione con i vicini, per impedire che un’altra grande potenza diventi troppo forte in questo spazio; infine l’approvvigionamento energetico. L’acquisto dei diritti petroliferi di Pechino in Asia centrale, da alcuni anni ha fatto correre molto inchiostro! Questa frenesia di acquisti non risponde soltanto all’esigenza energetica, ma traduce la visione geopolitica della Cina. Investire nell’Asia centrale significa anche, per i cinesi, la possibilità di inserirsi negli affari della regione e contribuire alla sua sicurezza. Pechino si impegna nell’ambito della SCO,82 sui temi prediletti come la lotta al terrorismo o la cooperazione economica ed energetica.83 L’organizzazione forma un blocco in grado di creare una forte solidarietà in caso di destabilizzazione della regione o di accresciuta influenza degli Usa, che potrebbero minacciare i poteri costituiti delle nuove repubbliche. L’ondata di rivoluzioni colorate nello spazio ex sovietico, a partire dal 2003 ha portato 80 Lutz KLEVEMAN, “Oil and the New Great Game”, The Nation, New York 16 febbraio 2004. 81 Si tratta di una sanzione attraverso cui Washington punisce ogni impresa che investa nel petrolio o nel gas di questi paesi. 82Nata nel 1996 con la denominazione di Gruppo di Shanghai, comprende 6 stati membri, Cina, Kazakistan, Kirghizistan, Uzbekistan, Russia, Tagikistan e quattro osservatori: India, Iran, Mongolia, Pakistan. 83 Claudio LANDI, Buongiorno Asia I nuovi giganti e la crisi dell’unilateralismo americano, Vallecchi editore, Firenze 2004, pag 276.

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l’organizzazione a prendere una posizione più netta contro Washington; per questo motivo, nel luglio 2005, i suoi membri sostenevano Tashkent nella sua esigenza di chiudere la base militare aerea americana di Karshi-Khanabad, aperta nel quadro dell’operazione in Afghanistan. Nel frattempo, in questo grande gioco, regna la corruzione: la manna del petrolio e del gas, ricchezze nazionali, sfugge in gran parte al controllo democratico degli abitanti di questi paesi. La diplomazia multilaterale di Pechino si è rivelata estremamente abile nel guadagnare fiducia nella regione asiatica: la Cina cerca di affermarsi come leader asiatico nel mondo e la maggior parte dei paesi guarda ormai a essa come a un buon vicino, un partner costruttivo, un interlocutore attento e una potenza regionale che non fa paura, che vuole progredire rapidamente ma senza caos. Nella sua marcia di avvicinamento e integrazione non si è fermata alla SCO, ma ha messo in piedi altre organizzazione di cooperazione regionale come la Carec (Central Asian regional economic cooperation): ne fanno parte, insieme alla Cina, Afghanistan, Azerbaigian, Kazakistan, Kirghisia, Mongolia, Tagikistan, Uzbekistan. La strategia della cooperazione con i paesi centroasiatici si coniuga con la strategia di sviluppo dei territori della Cina occidentale. Gli investimenti diretti cinesi nella regione hanno superato i 7 miliardi di dollari nell’ultimo anno e i progetti futuri, come le linee ferroviarie di collegamento con la Kirghisia e l’Uzbekistan fanno sentire la Cina sempre più vicina alle repubbliche ex sovietiche. L’ India partecipa, anche se con ritardo rispetto a Cina, Russia e Stati Uniti, alla competizione per assicurarsi le fonti energetiche dell’Asia centrale. Anche se svantaggiata geograficamente, perché non confina direttamente con gli stati della regione, per l’India è di vitale importanza l’accesso a queste fonti. Il premier ha spesso ricordato il fatto che la Cina fosse più avanti dell’India nella pianificazione degli approvvigionamenti energetici. New Delhi siede in qualità di osservatore agli incontri della SCO, che assume sempre maggior peso nella cooperazione commerciale: per questo motivo l’India ha deciso di partecipare ai grandiosi progetti di oleodotti per il trasporto di gas e petrolio dall’Iran e dal Turkmenistan, attraverso Afghanistan e Pakistan. 2. Tecnologia e innovazione: cooperare per lo sviluppo economico Cooperazione è stata la parola d’ordine del Forum Boao asiatico, svoltosi nel 2007 nella provincia di Hainan in Cina, che ha visto avvicendarsi le teorie e le critiche di esperti economisti cinesi e rappresentanti indiani. L’alleanza economica tra Cina e India è complicata da una convergenza di interessi su mercati comuni, ma entrambi i paesi possono ancora trovare settori nei quali cooperare e opportunità di sviluppo reciproco.84 Gli investimenti di capitale cinese in India ammontano a 300 milioni di dollari e gli ostacoli alla cooperazione, secondo Alan Rosling direttore esecutivo della Tata Sons, sono riconducibili alla chiusura del governo indiano verso la Cina di settori chiave come le telecomunicazioni e la produzione di automobili e prodotti metallurgici, che hanno messo in crisi l’esportazione indiana. Lin Yinfu, un rinomato economista della Beijing University’s China Center for Economic Research, sembra essere anch’egli dell’idea che sia necessario eliminare gli ostacoli alla cooperazione tra i due paesi asiatici, a fronte del fatto che la Cina può continuare a crescere del 9-10% annuo e l’India del 7-8%.85 Il disgelo tra l’economia indiana e quella cinese è cominciato nel novembre 2006,

84 Xinhua, Asianews, 24 aprile 2007. 85 Ibidem.

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quando è stato firmato un accordo per la cooperazione in settori come educazione, cultura, turismo, ricerca spaziale, agricoltura e prevenzione all’inquinamento. A un anno dal Forum Boao la sensazione è che ci siano grandi aspettative per un ulteriore sviluppo e integrazione del mercato cinese e indiano. Appena si attraversa il confine di LoWu, entrando nella Repubblica popolare cinese, si scorgono i segnali di quella grande potenza economica mondiale, che è diventata oggi la Cina: a parte i traffici illegali (di cd e dvd contraffatti) c’è un commercio estremamente dinamico tutt’intorno. Basta fare qualche passo in più per trovarsi di fronte al panorama luccicante di Shenzhen, con i suoi grattacieli e le sue strade piene di automobili, come se fosse Hong Kong: a dimostrazione che la Cina sta camminando speditamente verso un brillante futuro. Poco più di venticinque anni fa questa città non esisteva, era un villaggio contornato da risaie fino a quando un editto, del neo insediato Deng Xiaoping, la trasformò nella prima zona economica speciale della Cina, una calamita potente per gli investimenti delle multinazionali e l’industrializzazione.Secondo una visione ottimistica la Cina sarebbe ben posizionata per sfruttare ulteriormente i propri successi. Nell’economia globale si è verificato uno “spostamento sismico”, all’interno del quale la Cina sta recitando la parte del leone nella produzione manifatturiera mondiale e l’India sta velocemente conquistando il monopolio dei servizi. Lo scambio strategico di competenze e risorse complementari potrebbe creare posizioni inattaccabili per le alleanze tra Cina e India in molti mercati globali, che includono vari settori della produzione, dei servizi informatici, del comparto tessile, dell’industria farmaceutica. Il tema più caldo che caratterizza attualmente il settore hi-tech è la preminenza di Cina e India, il nuovo centro tecnologico non sarà più il mondo occidentale. Oggi Cina e India sfornano i migliori laureati in scienze informatiche e in ingegneria elettronica; l’accademia scientifica più selettiva non è una delle superfacoltà statunitensi, ma l’Indian Institute of Science (Iis) di Bangalore: gli studenti indiani, motivo d’orgoglio nazionale, non solo possono reggere il confronto con i migliori fra i loro rivali europei, ma anche batterli sonoramente. I Tata furono tra i pionieri dello sviluppo degli studi superiori e di quelli tecnici. In seguito lo stesso Nehru contribuì col programma di espansione degli Istituti indiani di tecnologia, che furono lanciati per sua iniziativa e hanno avuto un’importanza cruciale per l’odierna fioritura della tecnologia dell’informazione e di campi affini in India. Secondo un’analisi americana nel 2003 in Cina sono stati rilasciati circa 13mila dottorati in scienze e ingegneria, contro i 18mila rilasciati ogni anno negli Usa; aumenta sempre di più l’attrattiva per la Cina come centro di ricerca e sviluppo. I centri di ricerca sono cresciuti, passando da meno di cinquanta nel ’97 a più di seicento nel 2004, molti dei quali finanziati da aziende informatiche globali. Aumentando il numero di scienziati e ingegneri, paesi popolosi e a basso reddito come la Cina e l’India possono competere con gli Stati Uniti in settori tecnicamente avanzati: lungi dall’essere semplicemente una fonte di manodopera a basso costo, entrambi i paesi saranno presto in grado di competere con successo per il business globale, minacciando di porre fine al tradizionale andamento nord-sud del commercio internazionale, in cui i paesi avanzati dominano l’alta tecnologia, mentre i paesi in via di sviluppo si specializzano in produzioni meno qualificate. Ancora più cruciale per il loro sempre maggiore predominio è la rapida crescita di mercati nazionali di tecnologia e beni di consumo. Tra non molto, i due paesi avranno una capacità di spesa pari a quella degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale.

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Attualmente India e Cina stanno migliorando sensibilmente nell’innovazione tecnologica: mentre le imprese hi-tech occidentali continuano ad affidare l’assemblaggio dei propri prodotti ai due paesi asiatici, le aziende locali cinesi e indiane creano proprietà intellettuale e innovazioni che, tra breve, costituiranno una sfida diretta a quelle stesse imprese occidentali. Si tratta di sviluppi che cambiano le regole del gioco per gli attori globali dell’industria informatica. L’IBM ha ceduto la produzione dei pc all’azienda cinese Lenovo e ha dichiarato di volersi espandere fortemente in India.86 Tutte le grandi società di outsourcing informatico e quasi tutte le maggiori aziende di software e di hardware hanno aperto unità operative in India. La Apple, che ha esternalizzato la produzione in Cina, attinge gran parte dell’innovazione tecnologica dall’India; la texana Dell si rivolge sempre più frequentemente a imprese indiane e cinesi per sviluppare prodotti innovativi. In India l’interesse per l’IT è sfociata in una vera e propria mania: per milioni di indiani delle generazioni più giovani, l’informatica è l’ossessione nazionale del paese e ogni stato vuole presentarsi come sede ottimale per gli investimenti informatici.87 Il paese è diventato il massimo oggetto del desiderio di Bill Gates che, nel 2005 ha annunciato un nuovo investimento da 1,7 miliardi di dollari e deciso di creare qui il suo “centro di innovazione mondiale” con l’assunzione di ben 3000 ingegneri e ricercatori indiani. Anche Craig Barrett, capo della Intel californiana, ha investito un miliardo di dollari e il gigante statunitense dei microchip Amd ha annunciato una nuova fabbrica da tre miliardi, tutti sintomi che il baricentro dell’industria hi-tech, scivola dalla West Coast americana verso l’Asia. L’immagine dell’India come culla dell’informatica è rafforzata dall’ottima performance delle maggiori aziende locali, come Wipro Technologies, Infosys Technologies e Tata Consultancy Services (TCS). Nel 2003-2004 l’export di servizi informatici ha costituito il 49% dell’export totale di servizi dell’India. 3. Ricchezza e povertà

L’apertura ai capitali cinesi ha permesso all’India di migliorare il settore delle infrastrutture dei trasporti, vero tallone d’Achille dell’economia indiana e di lanciare la sfida alla Cina: nel duello economico tra i due giganti asiatici, Bombay ha eguagliato Shanghai. Il premio Nobel per l’economia 1998, l’indiano Amartya Sen, ha ammesso che “molti paesi, compresi l’India, hanno molto da imparare dall’apertura mentale con cui la Cina si è trasformata da prigioniera dei dogmi e degli intralci burocratici, in un’economia pragmatica che continua da anni ad avere l’espansione maggiore del mondo”. La lezione secondo cui con il commercio globale si può aumentare il reddito interno e diminuire la povertà, era già emersa dai successi di altre economie dell’Asia orientale. Sarebbe troppo semplicistico affermare che per raggiungere una crescita economica rapida e ridurre velocemente la povertà, in India basterebbe puntare sul mercato globale e il commercio internazionale! Anche in Cina la smisurata crescita economica non è sufficiente a garantire l’eliminazione della povertà, sempre più diffusa oggi. Per combattere le macroscopiche disuguaglianze che caratterizzano la nostra società, insiste Sen, non occorre combattere la globalizzazione, che di per sé è un fenomeno positivo (in antitesi a separazione e autarchia), ma procedere a una più equa distribuzione dei suoi frutti.

86 James M. POPKIN, Parta IYENGAR, Made by Cindia , Sperling & Kupfer, Milano 2007, pag 4. 87 Ivi, pag.73.

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La condizione preliminare perché i poveri possano partecipare alla distribuzione dei frutti dell’economia di mercato, è l’espansione dei loro diritti. Sono molti oggi gli economisti che sostengono che tra diritti e sviluppo non sussista alcun conflitto:88 da un lato le libertà (intese anche come comprensive dei diritti a prestazioni sociali) e la democrazia (intesa non come forma di governo, ma come insieme di valori), sono insieme elementi costitutivi dello sviluppo, in quanto rappresentano dei fini in sé, dei bisogni fondamentali. Dall’altro lato le libertà sono i mezzi per conseguire la crescita economica e per incrementare ulteriori diritti. “Ogni tipo di libertà contribuisce ad aumentarne altre, libertà diverse si sostengono vicendevolmente”.89 Non può esserci sviluppo economico senza democrazia, tuona l’economista indiano: la Cina è sì diventata una superpotenza che incute rispetto al mondo intero ma, anche se funzionale e moderno, è pur sempre uno stato autoritario. Dietro il boom di Pechino, affiora un gigante vulnerabile i cui limiti in questioni di libertà politica, di democrazia e diritti civili sono noti e chiari. Inoltre la smisurata crescita economica non è sufficiente a garantire l’eliminazione delle macroscopiche disuguaglianza che caratterizzano l’odierna società cinese. L’India rimane un paese dagli immensi dislivelli socioeconomici: è vero che i nuovi centri della tecnologia aiutano il progresso del paese, ma nemmeno cento Bangalore possono eliminare da sole la tenace povertà e le radicatissime disuguaglianze dell’India.90 Tuttavia rispetto alla Cina l’India può impedire più facilmente l’abuso dei poteri di coercizione e correggere più rapidamente gli errori politici. L’India è la più vasta democrazia esistente al mondo, esempio di pluralismo e tolleranza, modello da esportare nei paesi emergenti. Ha un sistema politico-istituzionale capace di tenere assieme una miriade di gruppi etnici con differenze di lingue e di religione: con queste peculiarità, sostiene Sen, l’India può diventare una delle nuove superpotenze del pianeta.91 Per valutare una società, ciò che importa non è solo il prodotto interno lordo, ma la reale possibilità degli individui di perseguire scopi e beni che hanno buone ragioni di ritenere importanti per le loro vite. “I diritti politici e civili conferiscono al popolo l’autorità necessaria per richiamare l’attenzione sui propri bisogni generali e per esigere un adeguato cambiamento da parte dello Stato”.92 La partecipazione sociale rappresenta un valore intrinseco per la vita e il benessere dell’uomo: la democrazia allunga la vita e combatte meglio la fame. Nel 1979 quando con le riforme economiche, in Cina è stata abolita l’assicurazione sanitaria garantita e gratuita, l’opinione pubblica non ha potuto opporsi. Ciò non è avvenuto in India, che negli anni successivi ha quasi colmato il gap in termini di speranza di vita che la separavano dal vicino asiatico. Emblematico il caso dello stato indiano del Kerala, (primo stato del modo dove un partito comunista andò al governo vincendo delle elezioni libere, pluraliste e democratiche) dove la necessità di un’istruzione per tutti, di un’assistenza sanitaria di base, di un’equità elementare tra i sessi e della riforma agraria, è stata al centro di un’efficacia azione politica.93 Sul finire degli anni ’40, quando la Cina ha fatto la rivoluzione e l’India è diventata indipendente, in entrambi i paesi l’aspettativa di vita era inferiore ai 40 anni. Ma nella Cina post-rivoluzionaria, una politica egalitaria e un impegno costante dello Stato per

88 Si tratta delle tesi dei teorici degli Asian Values. 89 Amartya SEN, Globalizzazione e libertà, Mondadori, Milano 2002, pag.135. 90 Ivi pag238. 91 Amartya SEN, L’altra India,op. cit., pag.238. 92Amartya SEN, La democrazia degli altri, Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori editore, Milano 2004, pag.55. 93 Ancora oggi continua a essere governato dai comunisti.

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migliorare sanità ed educazione, l’hanno portata a un livello irraggiungibile dal governo indiano, più moderato. La Cina ha anche dovuto superare diverse crisi negli anni successivi, come la carestia dovuta alla politica del Grande balzo in avanti che ha fatto 30 milioni di vittime; ma il suo sistema sanitario, anche se poco efficiente, era esteso a tutti e, quando nel 1979, sono state introdotte le riforme economiche, l’aspettativa di vita dei cinesi era di circa 68 anni, ben 14 in più rispetto agli indiani.94 Dopo le riforme l’economia cinese ha fatto balzi in avanti ed è cresciuta molto più velocemente di quella indiana, i cui risultati sono rimasti modesti. Ciò nonostante, negli ultimi 25 anni, è stata l’aspettativa media di vita in India ad aumentare tre volte più rapidamente che in Cina: per i cinesi è ora di 71 anni, rispetto ai 64 dell’India, il cui svantaggio è stato dimezzato. In Cina di pari passo al cambiamento politico, iniziato nel 1979, si è attenuato l’impegno sociale nei confronti della sanità pubblica: in un ventennio si è passati dallo statalismo egualitario, alla scomparsa di ogni Welfare State. L’economia di mercato, di cui c’era un gran bisogno per lo sviluppo industriale e agricolo, ha avuto improvvisamente mano libera per tagliare i servizi previdenziali che la società dava ai singoli. Ha portato in particolare all’abbandono della sanità universale e gratuita fornita dallo Stato, ma anche dalle comuni e dalle cooperative. Ai tempi di Mao Zedong nelle campagne giravano i mitici “medici scalzi”, che dovevano portare le cure elementari alla popolazione più povera. Anche se la propaganda maoista li esaltava, la loro competenza era modesta e i metodi arcaici, ma riuscivano tuttavia a far scendere i livelli di mortalità. Dopo il ’79 è diventato necessario comprare di tasca propria assicurazioni contro le malattie dato che, solo per un’esigua minoranza, ci pensava il datore di lavoro: in campo sanitario, la quota che ogni cinese deve pagare è passata dal 28% nel 1978 al 60% oggi.95 Amartya Sen fa notare come l’andamento retrogrado della copertura sanitaria abbia incontrato poca resistenza da parte della popolazione: cosa ben diversa sarebbe avvenuta con una democrazia multipartitica, in una qualunque parte del mondo. La democrazia contribuisce direttamente alla sanità, portando all’attenzione del pubblico i fallimenti sociali: la relativa immunità di cui godono i servizi sanitari cinesi, si può collegare all’assenza di un sistema multipartitico. Nel caso dell’epidemia della Sars si persero sei mesi, perché il riflesso autoritario del regime censurò le notizie sulla malattia. In questi casi, conclude l’economista indiano, l’assenza di trasparenza e di controllo da parte dell’opinione pubblica, diventa un prezzo molto alto da pagare. Anche l’India ha un duplice sistema sanitario, uno ottimo per i ricchi e uno scadentissimo per i poveri: questa situazione è tuttavia oggetto di continue critiche da parte dei media indiani che non subiscono però la censura, come quelli cinesi. Il pensiero unico obbliga i giornalisti a eseguire gli ordini diretti dal Partito comunista: un “decalogo della propaganda”96 obbliga a scrivere bene in grande che la Cina viaggia verso la Luna, ma nemmeno una riga sulle proteste nelle campagne. E’ doveroso gonfiare i titoli sull’economia che marcia a pieno regime, ma bisogna chiudere un occhio, o entrambi, sui disastri naturali, sulla Diga delle Tre Gole che distrugge l’eco-sistema e che obbliga alla deportazione milioni di contadini. Si pubblica solo ciò che il governo giudica utile alla Cina e chi non ci sta paga a caro prezzo, come i trentatré reporter in prigione per aver infranto la censura.

94 Amartya SEN, L’altra India, op. cit., pag.222. 95 Federico RAMPINI, L’Impero di Cindia, Arnoldo Mondadori , Milano 2006, pag.201. 96 Fabio CAVALERA, “Cina, l’editto sulla stampa”, Corriere della Sera, ottobre 2007.

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Le dure critiche e le approfondite inchieste giornalistiche sulla carenza del sistema sanitario, testimoniano il dinamismo e l’energia del paese e sono l’espressione del multipartitismo e della democrazia in India. Ma nonostante i canali politici messi a disposizione dal sistema democratico indiano, la debolezza della voce di protesta è risultata insufficiente al progresso delle opportunità sociali. Solo oggi si comincia a utilizzare più di prima la possibilità di mobilitare l’opinione pubblica sui problemi della disuguaglianza sociale, della povertà, dei diritti umani, della salvaguardia dell’ambiente, del lavoro. E’ necessario chiedere con insistenza quelle cose che Nehru sperava arrivassero in India automaticamente con l’indipendenza. Non basta continuare a tenere elezioni regolari, salvaguardare i diritti civili e garantire libertà di stampa: non è sufficiente eliminare le carestie o ridurre il divario di longevità come è avvenuto in Cina. Solo un uso della partecipazione democratica più vigoroso, e dotato di migliore voce, “può dare all’India -conclude Amartya Sen- molto di più di quanto essa abbia già ottenuto.” Oggi il progetto di globalizzazione delle multinazionali ha aumentato ancor più di prima la distanza fra chi prende le decisioni e chi ne deve subire le conseguenze. Gli strumenti internazionali del commercio e della finanza dominano un meccanismo complesso di leggi e accordi multilaterali in grado di creare un sistema di appropriazione che fa impallidire il colonialismo.97 Le gigantesche aziende multinazionali assumono il controllo delle infrastrutture più basilari e delle risorse naturali dei paesi: dei minerali, dell’acqua, dell’elettricità. L’Organizzazione Mondiale per il Commercio, la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e altri istituti finanziari dettano la politica economica e legislativa in Asia, Africa e America Latina. In nome del progresso e dello sviluppo in India sono stati violati i termini di diversi accordi internazionali, come la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, il Patto internazionale sui diritti civili e politici,e la Convenzione dell’organizzazione internazionale del lavoro. Per i poveri, gli analfabeti, i profughi e gli espropriati in nome di progetti di sviluppo, la giustizia sociale è fuori portata. In India la loro voce è raccolta dai movimenti di resistenza, che combattono gli espropri e le violazioni dei diritti fondamentali perpetrati dall’attuale modello di sviluppo. Secondo la scrittrice no-global Arundhati Roy, poveri non vuol però dire per forza essere deboli: molti di quelli che stanno nei campi, sulle montagne, nelle vallate fluviali, nelle strade di città e nei campus universitari e che fino ad ora hanno preso parte a movimenti di protesta non violenta, impegnati in battaglie isolate su singoli problemi, hanno capito che un tipo di politica interessata a casi specifici, ormai non basta più. Il fatto che si sentano impotenti e messi all’angolo non è un motivo sufficiente per abbandonare la strategia della resistenza non violenta: chi fra loro dice di volersi riappropriare della democrazia, dovrà agire in modo altrettanto egualitario e democratico.98 Arundhati Roy ricorda la Marcia del Sale che non fu solo un gesto simbolico, ma un colpo inflitto all’economia su cui si reggeva l’impero britannico: con un semplice gesto di sfida migliaia di indiani andarono fino al mare per procurarsi il sale, infrangendo la legge della tassa sul sale. Anche se il movimento non violento ha conseguito alcune vittorie importanti, bisogna continuare la resistenza, affinché non si atrofizzi fino a diventare un teatrino politico buonista e privo di efficacia. Continuare il dialogo, farsi sentire è l’unico modo di rendere autentica la democrazia, portando avanti un processo di continua messa in discussione delle istituzioni, fatto di provocazioni e incessante dialogo pubblico tra cittadino e stato. 97 Arundhati ROY, La strana storia dell’assalto al Parlamento indiano, op. cit. , pag.96. 98 Ivi, pag.60.

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4. La questione sociale in Cina A causa dell’anidride carbonica si teme che enormi masse di profughi “ambientali” possano far insorgere nuove condizioni di grave instabilità sociale. Nei venticinque anni trascorsi da quando Deng Xiaoping lanciò le riforme di mercato, la popolazione cinese è cresciuta di 320 milioni di abitanti. Per effetto dell’esodo di massa dalle campagne, tutto l’aumento demografico si è riversato sulle città ed è come se le metropoli cinesi avessero dovuto sopportare l’arrivo dell’intera popolazione degli Usa più quella dell’Italia! Si tratta di un esodo biblico, che non ha precedenti nella storia umana e non c’è alcun segnale che questa trasmigrazione di contadini verso le zone industrializzate stia rallentando. Il governo di Pechino e tutti gli esperti concordano nel prevedere che altri 300 milioni di persone si riverseranno dalle zone rurali alle metropoli, nel prossimo ventennio. Pechino, Shanghai, Canton si avviano tutte a raggiungere e superare la soglia dei 20 milioni di abitanti, un livello oltre il quale molti urbanisti ritengono sia impossibile governare una città. Superato un certo grado di concentrazione, tutto il sistema dei servizi rischia il collasso: dalle reti elettriche all’approvvigionamento idrico, dalle fognature allo smaltimento dei rifiuti, dal traffico alla criminalità, dalle scuole agli ospedali. In Cina l’unico campo sfuggito alla trasformazione capitalistica è quello dell’agricoltura, dove la manodopera non ha subito processi di mercantilizzazione: la terra continua a essere proprietà collettiva e i contadini sono proprietari dei diritti d’uso e possono de facto affittare le loro terre. L’ambizione conservatrice dell’autorità pubblica in campo agricolo è tipicamente politica, perché permette di risolvere il problema alimentare di una popolazione che rischierebbe di invadere le città, se le fossero tolti i mezzi di produzione nonché il proprio tessuto sociale. Le autorità non si propongono di opporsi alle migrazioni, ma di regolarle e di permettere a ogni momento un rientro nel proprio paese, nel caso di ribaltamento congiunturale per evitare un’urbanizzazione brutale. Lo spazio agricolo rimane, per la maggior parte dei migranti, un luogo di rientro e il tessuto sociale serve a strutturare gli spostamenti, poiché gran parte dei “mingong” sono presentati ai datori di lavoro, da amici o da membri della famiglia. Poco più della metà di questi contadini-lavoratori viene assunta nelle manifatture e nell’edilizia, mentre il resto si concentra nella ristorazione, nel ramo alberghiero, nel commercio, nella vigilanza o in attività indipendenti come il recupero dei rifiuti: la pulizia delle grandi città cinesi si deve agli straccivendoli che girano senza sosta nei lunghi viali in cerca di rifiuti che rivendono, a prezzo modico, a società di recupero. Per poter beneficiare del sistema pubblico (scuole, strutture sanitarie, sussidi di disoccupazione, ecc.) è necessario il certificato di residenza, il famoso hukou creato negli anni ‘50 per evitare l'esodo rurale. Ma non sempre questi operai-contadini riescono a ottenerlo, anche se sono proprio i mingong “la base della competitività e della macchina produttiva cinese”, come fa notare Geneviève Domenach-Chich, che dirige a Pechino il programma dell'Unesco in favore della popolazione migrante.99 Nel corso degli anni si è verificato un profondo cambiamento nel modo in cui le autorità pubbliche considerano queste migrazioni. Gli anni ’80 e l’inizio del decennio seguente sono stati contrassegnati dal disprezzo quasi totale per la questione sociale dei mingong, per la certezza che tali migrazioni non sarebbero state né massicce né definitive. Gli

99 Citato in “Les migrations internes en Chine”, Le Monde Diplomatique, 27 giugno 2005.

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sviluppi recenti e le scelte politiche cinesi, in particolare l’adesione al WTO, hanno acutizzato la questione del lavoro rurale. La stagnazione dell’agricoltura e l’importanza dell’edilizia nello sviluppo, hanno conferito a queste migrazioni un’importanza strategica, tanto che il potere centrale ha elaborato una nuova politica sociale. Ricercatori e funzionari chiedono il miglioramento del livello di vita dei mingong, l’assicurazione di un alloggio nelle città dalle quali la speculazione immobiliare li esclude, la garanzia di una sanità pubblica a fronte di una popolazione priva di tutela sociale e la certezza di un’educazione ai loro figli che, in gran parte, non hanno accesso al sistema educativo urbano. E’ così sorta una corrente di “capitalismo sociale” che riunisce sociologi, giornalisti, deputati, funzionari o semplici membri del Pcc, che concordano nel ritenere il capitalismo un elemento positivo solo se accompagnato da adeguate politiche sociali: primo fra tutte un meccanismo di ripartizione delle ricchezze. Difendono inoltre l’idea di “un livellamento delle classi medie” della società cinese, unico baluardo contro una guerra tra ricchi e poveri e ritengono che una parte dei migranti dovrebbe accedere a questo nuovo ceto medio. Questa corrente si oppone, solo talvolta duramente, ai “liberisti”, poco propensi a prestar ascolto alla questione sociale e convinti che solo un governo forte sia in grado di imporre il mercato. Alcuni tra questi “social-capitalisti” hanno un’idea molto nazionale del capitalismo e sognano multinazionali pubbliche in grado di regnare sul mondo. Quindi la questione del lavoro in Cina si iscrive oggi in un movimento complesso di opinioni diverse all’interno di un’élite limitata, che comprende non solo i responsabili del Partito comunista e gli alti funzionari, ma anche i responsabili dei movimenti di massa e l’intelligentia. L’adozione di politiche sociali a favore dei migranti appare inoltre problematica non solo per ragioni legate alle disponibilità finanziarie, ma anche per l’impatto di queste “concessioni” sulla persistenza del miracolo cinese; molti dirigenti si interrogano se l’aumento del costo del lavoro e dei vantaggi sociali, possa mettere a rischio la competitività dell’economia100 e ritardare lo sviluppo di una parte del paese, l’ovest, tenendolo ancora isolato. L’aumento dei salari e dei vantaggi sociali, in particolare a Shanghai e nel Fujian, dove i datori di lavoro non sembrano lamentarsi della penuria di manodopera, spingono molti migranti a lasciare il Guangdong per risalire verso il nord. In Cina la percentuale della disoccupazione è molto bassa, il 4,1% tra la popolazione urbana alla fine del 2006, ma questo dato è poco affidabile perché la definizione di disoccupazione adottata dalle autorità è assai restrittiva: non include i migranti senza lavoro, gli operai licenziati (xiagang zhigong), che mantengono ancora un legame salariale con l’azienda,101 i disoccupati che stanno per perdere i loro diritti e i giovani senza lavoro privi di qualunque indennizzo. Se si aggiungono poi molti ex impiegati pubblici rimasti disoccupati che trovano lavoro solo come ausiliari della polizia stradale, come guardiani o giardinieri,.102 la disoccupazione sale all’8,4%. Attualmente non esiste in Cina un gruppo sociale coeso di disoccupati, ma differenti categorie di persone senza lavoro che non condividono le stesse rivendicazioni e che possono risultare socialmente destabilizzanti. Le ultime valutazioni in materia fanno emergere una situazione molto tesa. Dopo il XVI Congresso del Partito comunista cinese la provincia del Liaonyng e la sua capitale Shenyang sono state definite “zona di sviluppo prioritario”: questa parte dell’ex

100 International Herald Tribune, 8 aprile 2006. 101 Riferimento alle Soes che dominavano il settore industriale, non erano molto efficienti ma garantivano occupazione e welfare. 102 Martine BULARD, “La Cina dai due voti”, Le Monde Diplomatique, Gennaio 2006..

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Manciuria, a solo un’ora di aereo da Pechino, è sprofondata nella miseria, come è successo ad altre regioni industriali alla fine degli anni ’90. Delle acciaierie, degli altiforni, delle cementerie che davano lavoro a migliaia di operai, non è rimasto più nulla. Il piano di “razionalizzazione della siderurgia” ha spazzato via interi quartieri prima occupati dalle baracche degli operai: lungo i viali di molte città, un tempo brulicanti di attività industriali, si vedono fabbriche ristrutturate o nuove, grandi autosaloni di macchine straniere, vetrine luccicanti di tutte quelle attività commerciali che hanno beneficiato della cosiddetta “politica di apertura”. Il lavoro collettivo e l’orgoglio operaio rimangono ormai solo un ricordo, da quando i nuovi proprietari delle imprese hanno smantellato le fabbriche. Le prime vittime sono state i lavoratori più anziani, che hanno più difficoltà ad adattarsi e ad accettare un nuovo lavoro, che ritengono poco qualificato e pagato meno di 300 yuan al mese. Come tutte le mattine, negli angoli delle strade delle città-cantiere invase dalle gru, sono decine gli uomini e le donne accovacciati sui talloni, con un cartello a tracolla sul quale sono descritte le proprie competenze: edilizia, elettricità, verniciatura, lavori domestici…Si tratta di un mercato del lavoro a cielo aperto, dove privati e imprenditori vengono ad affittare, per pochi yuan, un lavoratore alla giornata, alla settima e, solo raramente, al mese. A

Shenyang gli edifici spuntano come funghi, nella più completa anarchia, con facciate dorate e tetti a pagoda; lo stesso Mao Zedong, in mezzo alla piazza Zhongshan, è mobilitato per la lunga marcia della commercializzazione, con il braccio teso non più verso un futuro radioso, ma verso i cartelloni pubblicitari di alcune grandi marche straniere che lo circondano. Nel 2006 il governo di Pechino avrebbe dovuto fornire 25 milioni di posti di lavoro agli abitanti delle città, di cui 9 milioni ai nuovi arrivati sul mercato del lavoro, 3 milioni ai migranti e 13 milioni ai lavoratori che avevano perso il lavoro a causa, soprattutto, della ristrutturazione del settore pubblico. In realtà ne sono stati creati soltanto 11 milioni e anche nel 2007, secondo il rapporto governativo, a fronte di 24 milioni di nuovi entrati, i posti di lavoro contrattuali, che danno diritto alla sicurezza sociale, sono stati solo 12 milioni. Il pericolo della disoccupazione urbana non colpisce solo la generazione dei lavoratori abituati alla “ciotola di riso in ferro”, ma anche i giovani operai meglio preparati e più idonei al mercato. Da un’inchiesta fatta nel 2005 in quattro città -Dalian, Tianjin, Changsha e Liuzhu- si evince che la disoccupazione giovanile (15-29 anni) raggiungeva il 9% contro il 6,1% dell’insieme della popolazione urbana. Gran parte dei lavori giovanili non ha protezione sociale, né stabilità; i giovani lavorano molte ore e per salari bassi. Aumenta così il lavoro informale: si tratta essenzialmente di persone non qualificate che escono dal sistema scolastico con un livello equivalente alla maturità, che non “fanno concorrenza” ai migranti accettando lavori “umili” e che non possiedono la formazione richiesta per lavorare nei nuovi settori. Della lunga schiera di giovani in attesa di lavoro si incaricano “i comitati di residenti” e “gli uffici di strada” (il livello inferiore dell’amministrazione). Essi occupano posti più o meno provvisori nel settore non commerciale come vigilanti e manutentori, o posti di basso livello nelle nuove attività commerciali che si sviluppano nei quartieri, come alberghi, grandi ristoranti e negozi. Godono di una certa disponibilità di posti nelle funzioni subalterne, ma sono meglio remunerati e hanno un’immagine migliore di quella affidata ai migranti. Essi costituiscono a poco a poco una specie di “proletariato” assistito, intermedio tra la classe media e i migranti; si rifiutano di occupare posti declassati, vivono a spese dei genitori che, se ne hanno la possibilità, li mandano all’estero, per ottenere il diploma in una scuola di commercio di secondo livello o in una scuola

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alberghiera.103 Ma la disoccupazione colpisce anche i diplomati dell’insegnamento superiore. Oggi l’economia cinese stenta ad assorbire questi giovani disoccupati, la metà dei 9 milioni di “arrivati” sul mercato del lavoro nel 2006 e che puntano su un lavoro nei nuovi settori: si ritiene che già il 60% dei diplomati del 2006 non abbia trovato lavoro durante quell’anno! Occorre tuttavia rilevare un paradosso: da un lato le grandi aziende cinesi si lamentano di non disporre di una manodopera (hi-tech), dall’altro i giovani diplomati vivono situazioni drammatiche. Di fronte alla gravità della situazione l’Assemblea nazionale ha affrontato la questione di una legge sulla promozione del lavoro che favorisca il coordinamento tra città e campagne, la formazione professionale e l’aiuto ai giovani diplomati nel loro primo impiego. L’attuazione di questi obiettivi dipenderà dai provvedimenti concreti che saranno adottati dalle autorità nazionali e locali: in realtà il mondo del lavoro cinese è poco “conosciuto”, le inchieste sono rare e frammentate, le statistiche ufficiali raramente attendibili. Anche la diversità delle forme di fruizione della manodopera si iscrive in una logica di economia politica, in cui la stabilità resta l’obiettivo essenziale. 5. Le macroscopiche disuguaglianze della società cinese Mentre tutti sono affascinati dalla mirabolante crescita della Cina, che viaggia da dieci anni a tassi di crescita del prodotto interno lordo attorno all’8%, non si possono trascurare i segnali di insofferenza che giungono dal paese “reale”, quello a cui questo fiume di soldi non arriva a bagnare le tasche. Alla crescita del Pil si contrappone una diminuzione vertiginosa dei servizi medici di base e della spesa nella scolarizzazione, specie nelle zone rurali che costituiscono la vera ossatura della Cina. Il gap tra le metropoli in espansione e le aree rurali depresse si allarga sempre di più. Balza agli occhi la sproporzione tra Shanghai, che supera i 15mila dollari di reddito pro capite e la provincia contadina dello Guizbou, nell’ovest del paese, inabissata nella povertà. Il reddito sale man mano che ci si avvicina alla costa, ma anche nelle ricche province e città affacciate sul mare, permangono straordinarie disuguaglianze fra gli operai immigranti e la classe media benestante. Otto delle trentuno province della Cina, il 40% circa della popolazione hanno contato quasi per i tre quarti sulla crescita nazionale del 2000. Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale dell’ONU, classifica la Cina a un livello di disuguaglianza sociale superiore sia a quello degli Stati Uniti che a quello della Gran Bretagna. Nelle zone rurali sta crescendo un malcontento senza precedenti, che si traduce in una prima forma di conflittualità sociale: secondo diverse analisi, queste proteste potrebbero sfociare in un fenomeno più generale che rallenterebbe la corsa della velocissima locomotiva cinese con scompensi anche nell’economia globale. Il numero delle contestazioni che reclamano giustizia sociale -in buana parte per gli insufficienti indennizzi alla cessione obbligatoria di terreni- sta conoscendo una crescita preoccupante. Le ingiustizie sono così tante che i lavoratori si oppongono sempre di più. Anche il ministro della Sicurezza pubblica, Zhou Yongkang, lo ha riconosciuto, rendendo pubblico il numero delle manifestazioni di protesta che si sono verificate nel paese: le fonti ufficiali cinesi parlano di una partecipazione a manifestazioni di protesta passata da 740mila persone nel 1994, a tre milioni e 700mila nel 2004. Lo stesso vale per gli scioperi, passati dai 1909 del ’94 ai 22600 del 2003; il numero dei partecipanti è

103 La Francia figura tra le destinazioni preferite.

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passato da 67704 a circa ottocentomila. Naturalmente anche le cifre più generose non rappresentano che una proporzione minima della popolazione, ma considerato il rischio che si corre a manifestare il proprio dissenso, il fatto che quasi 4 milioni di persone abbiano aderito a forme di protesta e che un milione sia sceso in sciopero, è indice dell’aumento inarrestabile del malessere. Secondo il ministro per il Lavoro e la Sicurezza, in assenza di rimedi efficaci a un tale aumento del gap tra i redditi, è prevedibile che a partire dal 2010 il sistema diventi instabile. Nel suo ufficio del ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale a Pechino, il direttore generale Pi Dehai conferma le difficoltà del compito: “Per mettere a punto un sistema pubblico di protezione sociale siamo dovuti partire da zero”. Secondo lui oggi la maggior parte dei lavoratori dipendenti urbani è coperta da una assicurazione sanitaria; una indennità di base è garantita alle persone che hanno già lavorato; le pensioni sono progressivamente pagate dallo stato (per un terzo del loro ammontare) e da un sistema privato di fondi pensione; è stato poi adottato un reddito minimo (dibao, fra i 100 e gli 800 yuan) a seconda delle diverse regioni. Ma il sistema è ancora poco sviluppato o non applicato, mentre le ristrutturazioni proseguono a un ritmo forsennato. Di conseguenza le disuguaglianze sono sempre più evidenti. Anche il misurato Study Times, giornale della scuola del Partito comunista, si è sbilanciato: “siamo in una situazione estremamente allarmante e la soglia critica potrebbe essere superata nei prossimi cinque anni”. Secondo il ministero del Lavoro e della previdenza sociale il 20% dei cinesi più ricchi ha il 55% delle ricchezze del paese, mentre il 20% più povero si spartisce il 4,7%. Il coefficiente stabilito dal Programma delle Nazioni unite per lo sviluppo (Undp) per misurare le disuguaglianze (con una scala di valori che va da 0 a 100) collocava la Cina al 44,7 nel 2004104, meno del Brasile (59,1), del Cile (57,1) o della Nigeria (50,6), ma a un livello comunque molto elevato e soprattutto in costante aumento rispetto al passato: era ventottesimo nel 1981! In alto alla piramide sociale si trovano i cinesi tornati dall'estero, ma anche gli ex quadri del partito riconvertiti nel business, gli stessi che, secondo l'espressione del sociologo Lu Xueyi,105 formavano già lo “strato sociale supremo” di una Cina che si pretendeva all’epoca senza classi. Di fatto una nuova stratificazione del paese si è andata creando intorno a diverse linee di divisione. La prima contrappone la popolazione urbana a quella rurale, che gode di un reddito molto basso: in media i consumi di un abitante delle campagne sono inferiori a un terzo dei consumi di un abitante delle aree urbane. Le campagne, trascurate dalle politiche di governo che per lungo tempo hanno favorito lo sviluppo urbano, soffrono inoltre di un eccesso di popolazione e usano tecniche agricole ancora generalmente arretrate. La seconda divisione separa le regioni costiere sviluppate dalla Cina interna, a lungo trascurata, dove lo sviluppo delle zone più avanzate del paese appare decisamente lontano. Nel 2000 i consumi di un abitante della Cina occidentale erano mediamente il 51% rispetto al 60% di quelli di un abitante delle aree centrali: i contadini delle regioni occidentali si collocano nel punto più basso della scala sociale. Vivono in estrema povertà e sono la maggior parte dei 150 milioni di persone censite dalle statistiche ufficiali.

104 National Bureau of statistic of China (Nbs), stats.gov.cn/English. 105 Lu XUEYI, La mobilité sociale dans la Chine contemporaine Ed. Shehui kexue wenxian chubanshe, Pechino, 2004..

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Nel 2003 la nuova leadership del governo ha mostrato più attenzione al problema: il premier Wen Jiabao ha svolto per conto del governo una relazione nella quale sottolineava, con una chiarezza che ha sorpreso molti osservatori, il crescente divario tra i redditi rurali e quelli urbani e preannunciava interventi a sostegno dello sviluppo delle zone rurali.106 Nel programma ha previsto la riduzione del 30% delle tasse pagate dai contadini e nell'ottobre 2005 ha annunciato un aumento del reddito minimo, la soppressione dell'imposta sulla produzione agricola107 e un programma in favore dell'istruzione e della salute. Tuttavia queste misure rimangono insufficienti o sono semplicemente ignorate dai potentati locali. Le altre linee di divisione si trovano all'interno delle stesse città fra i lavoratori con una specializzazione riconosciuta e gli altri; tra chi ha il lavoro e chi non ce lo ha, compresi i giovani specializzati che per la prima volta sono interessati dalla disoccupazione. I più poveri rimangono i mingong, gli operai-contadini migranti dal loro paese, privi di qualunque diritto. Come già detto rappresentano il 79,8% dei lavoratori occupati nell'edilizia urbana, il 68,2% della manodopera della produzione elettronica, il 58% della ristorazione e così via. Per evitare le discriminazioni sociali e il proliferare di bidonville in città tentacolari, nel 2004 sono stati adottati dal governo centrale dei provvedimenti, ma a livello locale le autorità ostacolano in tutte le maniere questi cambiamenti; si tratta di un errore sia politico che economico, dato che per “costruire una società armoniosa” secondo lo slogan del potere, è fondamentale sviluppare il mercato interno e proteggere i lavoratori. Paul Wolfowitz presidente della Banca mondiale e certamente non un sostenitore entusiasta del regime cinese, ha ricordato che tra il 1978 e il 2003 il reddito di 280 milioni di cinesi ha superato la soglia di povertà.108 In campagna i genitori vivono con l'idea che il loro figlio, se potrà andare a scuola, vivrà meglio di loro. In città per la prima volta i giovani diplomati con un po' di esperienza guadagnano più della generazione dei loro padri. Questa speranza permette ai cinesi di sopportare l'insopportabile. Ma tutti si rendono conto che la Cina sta affrontando una nuova fase molto delicata, che potrebbe portarla verso un capitalismo selvaggio! Nell’ ottobre 2005, durante il plenum del Comitato centrale del Pcc, Hu Jintao ha annunciato un piano quinquennale di lotta contro le disuguaglianze. Nella sinistra intellettuale del paese la questione è oggetto di grande discussione, anche se l'argomento non sembra interessare il grande pubblico. A lungo fiducioso nella vivacità culturale del suo paese, lo scrittore Xu Xing noto per la sua schiettezza, è oggi molto preoccupato e lancia un allarme contro questo “capitalismo senza limiti che sacrifica molta gente e che comporta la distruzione violenta delle culture regionali o locali”. Non risparmia neppure gli intellettuali, “diventati i cani da guardia del grande mercato globalizzato” e pronti ad accettare il giogo dell'autoritarismo. Altri intellettuali, disorientati di fronte al progresso dell'occidentalizzazione, si rifugiano nelle ideologie del passato, in particolare in Confucio, i cui scritti stanno tornando di grande attualità. Nel frattempo una nuova scuola di sociologia cerca di coniugare sviluppo economico e progresso sociale. Per Dai Zian-Zhong, vicedirettore dell'Istituto di sociologia dell'Accademia di scienze sociali di Pechino, sempre in prima linea nella lotta per la

106 Maria WEBER, “Cina: le sfide alla sostenibilità della cresita ”, Atlante, ISPI-Relazioni Internazionali. 107 La stessa pagata per millenni. 108 Discorso sul sito della Banca mondiale ( www.worldbank.org).

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libertà di pensiero, non è l'apertura al mercato occidentale che pone problemi, ma il modo in cui è condotta questa apertura e l'accettazione della legge del più forte. “Gli operai obbligati a uno scontro frontale con il padrone non hanno alcuna forza negoziale. Ma non possono neppure organizzarsi e il sindacato è sempre dalla parte della direzione”. In realtà per quello che riguarda la previdenza sociale, le condizioni di lavoro, la giornata lavorativa di otto ore o la limitazione delle ore di straordinario le leggi esistono, ma non sono applicate. Per molti gli ostacoli sono prima di tutto politici e istituzionali, poiché il potere vieta qualunque dibattito pubblico su questi argomenti. Ma i blocchi sono anche sociologici. Per l'élite del Pcc, in parte formata all'estero e sempre pronta ad assumere toni patriottici che a volte degenerano nel nazionalismo, il riferimento culturale rimane quello delle università occidentali: di certo non il massimo per quanto riguarda la creatività in campo sociale. Ma nel corso dei secoli la Cina, come ricorda Dai Jian-Zhong, è sempre riuscita a trasformare i contributi esteri per creare una cultura originale. Come altri Dai Jian-Zhong sogna di conciliare giustizia sociale, soddisfazione individuale - una nozione apparsa di recente in Cina - e benessere della società attraverso una via cinese di sviluppo.

6. Luci e ombre dell’ascesa indiana

Gli economisti indiani esultano sulle pagine della stampa proprietà delle multinazionali, informando che il Pil indiano ha un tasso di crescita fenomenale, senza precedenti. Nonostante gli innegabili successi, il cammino indiano verso lo sviluppo è appena iniziato: oggi l’India è diventata una grande potenza, ma ancora molto povera! Il peso che oggi l’India ha nell’economia mondiale. Nonostante i tassi di crescita relativamente alti degli ultimi anni, non è proporzionato né al suo passato, né al suo spessore geopolitica. Secondo ad alcuni specialisti il ritardo nel suo sviluppo sarebbe da attribuire alla sua tradizione, alla organizzazione sociale delle caste che produce rigidità nel mercato del lavoro, frena la mobilità sociale e valorizza il lavoro manuale. Altri continuano a far ricadere sul colonialismo europeo la responsabilità del ritardo indiano. Ma una grande responsabilità spetta anche alle scelte politiche fatte dai leader indiani dopo l’indipendenza. Sono proprio state le riforme liberiste di Rao e del primo ministro Singh, esperto economista formatosi a Cambridge, a dare al processo di sviluppo indiano una scossa paragonabile a quella dell’apertura economica, lanciata nel 1978 da Deng Xiaoping in Cina. Con queste riforme lo Stato da protettore e interventista si è trasformato in regolatore di un’economia di mercato federale, alla ricerca di una possibile good governance. Ma la privatizzazione e la deregolamentazione, la riduzione delle spese pubbliche e il massiccio intervento delle multinazionali in terra indiana, che hanno permesso l’accelerazione del decollo economico, hanno comportato come effetto collaterale il parziale disimpegno dalle campagne. Il capitalismo indiano si sta adattando molto bene alle regole imposte dalla globalizzazione: la concorrenza straniera è stata un forte stimolo per la crescita, il commercio con l’estero in un decennio è raddoppiato, le esportazioni sono aumentate e l’atteggiamento nei confronti degli Ide è passato dal sospetto all’attenzione. Da uno studio del National Council Applied Economic Resaerch di Nuova Delhi è emerso che uno dei principali motori dell’economia indiana, è la forte propensione al consumo di una classe media in aumento. Secondo la ricerca questa classe media indiana, formata da persone con un reddito compreso tra i 4000 e i 21000 dollari l’anno, ha raggiunto i 56 milioni di unità. Supportata da un’enorme fiducia nell’andamento

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economico del paese, sta dando un forte impulso all’economia nazionale grazie a una propensione ai consumi estremamente accentuata. Il 60% delle ottocentomila auto vendute in India nel 2004 sarebbe stato acquistato da membri della classe media e si stima che nel 2007 si venderà un altro milione di nuove auto. Le vendite di televisori e frigoriferi aumenteranno invece dell’11% ogni anno fino al 2010. Dal 2002 la spesa per le vacanze degli indiani è inoltre aumentata del 30% , ma il settore dove si è registrato un autentico boom è quello della telefonia mobile, comparto nel quale l’India è il mercato che cresce più rapidamente. Accanto a questa classe media, continua il NCAER, esistono 220 milioni di “aspiranti”, che guadagnano tra i 2000 e i 4000 dollari l’anno e che possono già permettersi beni di consumo come una motocicletta, un televisore o un frigorifero. In India i negozi sono pieni di generi di consumo, i granai statali stracolmi di cereali per l’alimentazione. In tutte le città dell’India ci sono ovunque, nei negozi, ristoranti, nelle stazioni ferroviarie, negli aeroporti, nelle palestre e negli ospedali, schermi televisivi dai quali si vede che le promesse elettorali sono già state adempiute. “L’India risplende e vive bene” dice lo slogan, basta alzare lo sguardo oltre lo squallore, le baracche, i disperati vestiti di stracci per le strade e ci si trova davanti a un simpatico televisore che ci porta in un mondo diverso, meraviglioso, come quello dei canti e dei balli di Bollywood, dove tutti sono felici e vivono bene. Ma al di fuori dei riflettori ci sono agricoltori sommersi dai debiti che si suicidano a centinaia. Da tutto il paese giungono notizie di persone ridotte alla fame o malnutrite; eppure il governo ha lasciato che andassero a male 63 milioni di tonnellate di cereali depositati nei propri granai.109 Dodici milioni di tonnellate sono state esportate e vendute a prezzi ribassati, che il governo indiano non è stato però disposto a concedere ai poveri del suo paese. Secondo la maggiore esperta di economia agraria indiana, Utsa Patnaik, la sovrabbondanza di scorte alimentari è il sintomo di una radicale diminuzione della capacità di spesa delle masse povere, in particolare quelle contadine, legata in particolare al virtuale blocco del tasso di crescita dei posti di lavoro nel settore rurale. Dopo anni di forte progresso economico, l’India continua ad avere in assoluto il più vasto numero di persone denutrite al mondo. Anche l’incidenza della malnutrizione infantile è tra le più alte, più elevata di quella della maggior parte dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Più di un quinto dei poveri del mondo, cioè di coloro che vivono con meno di un dollaro al giorno, per stessa ammissione del governo, è indiano e il 75% di loro vive nelle aree rurali. L’autore del Rapporto speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo, Jean Ziegler, dopo aver compiuto una missione in India fra l’agosto e il settembre 2005, ha scritto che “sebbene la fame sia stata superata, milioni di indiani, specialmente donne e bambini e persone appartenenti alle caste inferiori e alle tribù, soffrono ancora di denutrizione cronica e di gravi carenze di micronutrienti. Le morti per fame non sono state completamente sradicate e neppure la discriminazione contro le donne e le caste inferiori. La corruzione, l’impunità e un ampio spettro di violazioni dei diritti umani che includono i lavori forzati, la riduzione in schiavitù e la deportazione (che impediscono l’accesso della gente alle risorse produttive) rimangono ostacoli molto seri sulla strada della realizzazione del diritto al cibo.”110 Con il miglioramento dell’economia è nata una nuova classe media di 300 milioni di persone, ma il divario tra la popolazione urbana e la popolazione rurale si è acuito, 109 ROY Arundhati, La strana storia dell’assalto al Parlamento indiano,op. cit., pag.48. 110David SMITH, Il dragone e l’elefante,op. cit., pag.202.

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aumentando le tensioni politiche. Mentre la crescita è rimasta confinata ad una ristretta cerchia di industrie, nelle campagne dove risiedono i tre quarti della popolazione, le condizioni di vita non sono migliorate in modo significativo. Anche in India, ma in misura minore rispetto alla Cina, le disuguaglianze sociali e regionali tendono a crescere in conseguenza della risposta alla sfida della globalizzazione. I principali flussi commerciali riguardano essenzialmente la costa orientale, i cui spazi agricoli sono modernizzati; gli spazi interni invece sono caratterizzati da sottoindustrializzazione, agricoltura secca, campagne piane a sviluppo limitato con risicoltura dominante. Alle attive coste del sud-est e del sud-ovest si contrappongono le frontiere terrestri chiuse e poco dinamiche del nord, dove non mancano conflitti frontalieri.Tra il 2000 e il 2001 il Punjab ha avuto il reddito pro capite più alto dell’India, oggi superato da quattro stati, Karnataka, Kerala, Tamil Nadu e il vicino Haryana. La crisi economica sta portando lo stato e le finanze pubbliche locali in una vera trappola del debito: crescita minore significa meno stanziamenti per lo sviluppo, in particolare per l’educazione. La crisi dell’agricoltura e l’arretratezza del sistema educativo, stanno alla base di questa crisi. Il Punjab, che fino a poco tempo fa era il granaio del subcontinente, lo stato per eccellenza della Rivoluzione Verde,111 ma l’agricoltura oggi è il settore a più basso tasso di crescita dell’intera economia indiana. Inoltre l’assenza di efficaci politiche di apertura del sistema educativo punjabo, spinge giovani e ragazzi a trovare fortuna in altri stati del paese. Nonostante le università indiane sfornino un numero di cervelli molto elevato, i vari governi che si sono succeduti non hanno investito sufficientemente nel campo delle risorse umane. A questo riguardo Amartya Sen ha sottolineato che “a cinquant’anni dall’indipendenza metà della popolazione adulta del paese è ancora analfabeta…Su questo fronte l’India di oggi è a mille miglia di distanza dai traguardi raggiunti da paesi come la Corea del Sud, Taiwan, la Cina, la Thailandia. L’India non ha avuto difficoltà a innalzare il tasso di crescita economica eliminando vincoli e restrizioni e sfruttando le opportunità offerte dal commercio. Gran parte della società indiana tuttavia, rimane esclusa dal benessere economico”. Certo i successi democratici non possono né ridurre, né cancellare la contraddizione rappresentata dal permanere di una povertà tanto grave e diffusa, che fa dell’India l’oggetto di imbarazzanti raffronti con altri paesi asiatici. Il numero dei poveri rimane altissimo e la loro condizione esistenziale sembra peggiorare con il passare del tempo. In India la democrazia ha sì tutelato i diritti degli individui e le libertà, ma non è riuscita a creare una società più giusta e uguale socialmente ed economicamente. Oggi in India la politica può apparire corrotta,112 violenta113, incline alle imposizioni arbitrarie e alla forzatura delle regole del gioco: ma nonostante tutto questo, appare salda e al riparo dai rischi nel suo ruolo di principio regolatore della vita pubblica. Le miserie dell’esperienza quotidiana non riescono a scalfire la validità dei principi democratici, né a mettere in discussione l’accettazione del sistema da parte della gente.114 Nelle elezioni generali del 2004 la popolazione rurale, quella che porta i segni della denutrizione e della malnutrizione, si fece sentire assumendosi la responsabilità di mandare a casa il governo riformista di coalizione guidato da Atal Behari Vajpayee: l’azione del governo Vajpayee veniva interpretata come favorevole nei confronti della 111La rivoluzione agricola indiana che aveva garantito forniture agricole a volontà per l’intero paese. 112 Un giornale occidentale, nel mese di agosto 2007, intitolava un suo articolo: “Voti comprati alle elezioni” Indagata Sonia Ghandi .L’articolo fa riferimento alle accuse mosse al presidente del Congresso e al primo ministro Singh, relative alla compravendita di voti durante la campagna per le ultime elezioni presidenziali in India. 113 Negli ultimi dieci anni le persone uccise dalla polizia e dalle forze di sicurezza ammonta a migliaia di individui. 114 Francesco D’ORAZI FLAVONI, Storia dell’India, op. cit., pag 352.

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classe media, in rapida ascesa, ma estranea alle esigenze dei poveri delle aree rurali. Questo giudizio rifletteva un sentimento crescente secondo il quale lo sviluppo economico, nonostante i suoi benefici, non era sostenibile: intanto gli aspetti negativi del boom economico indiano diventano sempre più evidenti. Non vi è alcun dubbio sul fatto che in India le riforme neoliberiste dell’estate 1991 abbiano avviato un processo di crescita straordinariamente rapido, il secondo al mondo dopo quello della Cina. Malgrado il boom, secondo una stima dell’industriale Ratan Tata, il settantenne a capo di un’impresa considerata come una delle più etiche e illuminate dell’India,115 400 milioni di indiani fra una popolazione di un miliardo e cento milioni di abitanti, sono tuttora sotto la soglia della povertà. Il governo di Manmohan Singh deve oggi affrontare il deficit del bilancio federale, il debito estero, l’insufficienza delle infrastrutture di trasporto e idriche, la siccità e la “guerra dell’acqua” nella zona di Bangalore, le alluvioni stagionali nelle aree della piogge monsoniche, la penuria dell’energia elettrica. La superpopolata e composita federazione indiana, è inoltre un mosaico vulnerabile a causa della molteplicità di linguaggi, etnie, sette differenti all’interno delle maggiori fedi religiose, con frequenti tensioni dall’ Assam al Bihar e al Manipur. Nelle cospicue minoranze, che prese nel loro insieme formano la maggioranza della popolazione, continuano a essere discriminati i musulmani, i fuori casta e le donne. Da quando il partito del Congresso ha vinto nuovamente le elezioni l’attenzione si è focalizzata sull’India dallo sviluppo ineuguale, che si contrappone allo slogan “shining India”, India scintillante, con cui l’ex partito di governo, l’ultranazionalista Bjp, aveva ritentato la conferma in campagna elettorale. La maggioranza attuale invece, che si regge sull’appoggio di forti partiti regionali di sinistra, ha puntato sui derelitti e sulle campagne. Un discorso del premier M. Singh che ha partecipato, il 27 e il 28 dicembre 2006, a un importante convegno dedicato alle discriminazioni di cui soffrono le due minoranze indiane, i fuoricasta e i musulmani, è l’esempio più evidente di questa attenzione verso il basso. I dalit, nome che gli intoccabili hanno scelto e ormai politicamente corretto, rappresentano una minoranza variamente stimata fra i 160 e i 180 milioni di persone; i musulmani indiani sono invece 140 milioni di persone. Per la prima volta, nella storia del paese, il primo ministro ha ammesso che i fuoricasta, che appartengono al gradino più basso della gerarchia sociale e religiosa, vivono in uno stato simile all’aparthaid: “L’unico parallelo alla pratica dell’intoccabilità è stata l’aparthaid in Sudafrica; l’intoccabilità non è solo una discriminazione sociale, ma una macchia per l’umanità.” Nel 2001 i dalit, diventati negli anni una vera e propria forza politica, tentarono di far approvare alla Conferenza internazionale delle Nazioni Unite, una risoluzione sui diritti umani, sostenendo appunto che l’intoccabilità era una forma di oppressione razziale. I delegati indiani, espressione dell’allora governo di coalizione dominato dal Bjp il partito della destra indù, riuscirono a bloccare la mozione di condanna, argomentando la diversità del caso sudafricano. In India la costituzione non stabilisce, ma al contrario condanna, qualsiasi forma di discriminazione. In realtà l’anno dopo l’ONU accolse la posizione dei dalit e M. Singh (oggi capo del governo ed espressione di una coalizione di centro-sinistra) ha finito per far propria la tesi dei dalit. L’ammissione pubblica del primo ministro ha messo in luce, senza nasconderla dietro la Costituzione egalitaria del paese, l’enorme disuguaglianza che, sin dalla nascita, costringe i dalit a essere considerati cittadini di serie B; allo stesso tempo il governo indiano si è impegnato a

115 Federico RAMPINI, La speranza indiana, Mondadori editore, Milano, 2007, pag.125.

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fare “tutti i passi necessari per aiutare l’acquisizione di potere da parte dei dalit a livello educativo,sociale, economico”. Meno rilievo ha dato invece alle discriminazioni contro i musulmani, ammettendo però l’estrema povertà in cui vivono e facendo riferimento al rapporto della Commissione Sachar, che nel marzo del 2005 aveva avuto mandato di svolgere un’inchiesta sulla situazione dei musulmani indiani. Le conclusioni della Commissione sono talmente imbarazzanti che il governo ha esitato per lungo tempo prima di renderle pubbliche: si capisce anche il perché oggi il Congresso stia scommettendo su politiche sociali e aggiustamenti economici che possano garantire una ricaduta della crescita, che viaggia ai tassi dell’8% annuo, anche per i meno fortunati. Del resto “…una democrazia genuina non può essere legiferata, predicata o intellettualizzata; deve essere praticata.” conclude il più recente studio di India Focus, rapporto dedicato alla salute della democrazia indiana, diretto da un intraprendente giornalista indiano, in piena sintonia con M. Singh e Sonia Gandhi, vera artefice del rilancio del partito del Congresso. 7. Le donne “mancanti” in Cina e India Il primo a lanciare l’allarme nel 1990 è stato l’indiano Amartya Sen, premio Nobel per l’economia nel 1998. Oggi nel mondo mancano più di 100 milioni di donne; la discriminazione femminile nelle cure mediche e nell’alimentazione impone in tutto il mondo un prezzo molto alto alla sopravvivenza delle donne. Cina e India, che da sole rappresentano più di un terzo della popolazione mondiale, sono accomunate dall’enormità di questo fenomeno116. In questi paesi nascono meno donne di quanto non accadrebbe in condizioni normali e ne muoiono più del dovuto, con un conseguente aumento in percentuale degli uomini. Si calcola che a partire dal 2010 un milione di cinesi non potrà realizzare il desiderio di sposarsi, per mancanza di donne; in India, specialmente nello stato settentrionale del Pendjab, gli uomini vanno a cercare una sposa in altri stati del paese, come il Rajasthan o l’Orissa, perché mancano le donne da sposare. In India le donne, contrariamente a quella che è la distribuzione statistica normale nel resto del mondo, sono meno della metà della popolazione. Le donne indiane, in una società in cui predomina la preferenza dei neonati maschi, sin dalla nascita sono oggetto di discriminazione: con la possibilità di determinare il sesso del feto grazie alla tecniche moderne, molte vengono eliminate prima di nascere attraverso aborti selettivi, illegali ma praticati specie tra la classe media che ha la possibilità di pagare gli esami clinici. Ma in India esiste una campagna contro gli aborti selettivi che prendono di mira i feti di sesso femminile. Di recente la Commissione nazionale per le donne ha comprato un’intera pagina di pubblicità sul quotidiano The Hindu, dove viene mostrata l’immagine di un feto nel ventre materno con su scritto: “Vostra figlia potrebbe diventare ingegnere, pilota, avvocato, primo ministro….. Non uccidetela”. In Cina, dove fino a trent’anni fa si sosteneva con fervore l’eguaglianza dei sessi, oggi la politica di controllo delle nascite voluta dal governo117, ha fatto registrare una diminuzione dei figli, da cinque negli anni ’70 a meno di due nel 2000: se si desidera a tutti i costi un figlio maschio ( affinché non si estingua la tradizione della famiglia e degli avi), la scelta è una sola, impedire per quanto è possibile la nascita di una figlia.

116 Che colpisce anche Pakistan Bangladesh, Taiwan, Corea del Sud e Indonesia. 117 Ma anche in India negli anni ’60 il governo raccomanda il modello della famiglia ristretta.

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Secondo la religione induista spetta al figlio maschio incaricarsi dei riti funebri al momento del decesso dei genitori, altrimenti condannati a vagare in eterno. In India come in Cina una figlia è di passaggio nella casa paterna, dopo il matrimonio se ne andrà e si dedicherà al marito; nelle campagne cinesi è un dato di fatto che bisogna “allevare un figlio per preparare la vecchiaia”. Allevare una figlia è come “coltivare un campo di un altro”; per gli indiani equivale ad “annaffiare il giardino del vicino”. I due paesi asiatici figurano tra quelli al mondo in cui la speranza di vita femminile post-natale è inferiore a quella degli uomini, mentre le leggi naturali avvantaggiano le donne. E’ ampiamente documentato che a parità di cure mediche e alimentazione, normalmente le donne hanno, in tutti i gruppi di età, tassi di mortalità inferiori a quelli degli uomini.118 In India trascurare le figlie, alimentarle, curarle e vaccinarle solo dopo i figli maschi, sono pratiche frequenti e spesso fatali. Durante la loro esistenza le donne ricevono meno istruzione, la possibilità delle ragazze di accedere a servizi più avanzati come gli studi superiori o un addestramento specializzato può essere ancora molto inferiore a quella dei ragazzi; le giovani indiane sono più sfruttate, spesso alla mercè del marito o assassinate dalla famiglia, perché prive di una dote sufficiente.119 Nonostante la “morte per dote” susciti scandalo, nell’India di oggi polizia e magistratura non riescono a reprimere e sanzionare questi delitti; la legislazione a tutela dei diritti delle donne è nel complesso articolata e progressista. Da un punto di vista giuridico, la situazione femminile in India non è peggiore che in Italia o in Usa. Il numero di donne indiane politicamente potenti e impegnate nel governo, è certamente superiore a quello delle donne italiane o europee: il politico più potente è Sonia Gandhi, presidente del partito del Congresso, che sostiene il primo ministro Manmohan Singh. Alcuni stati dell’Unione Indiana, che hanno la dimensione territoriale e la consistenza demografica di uno stato europeo, sono governati da capi di governo donne: altre donne rivestono ruoli chiave in una serie di partiti che sono distribuiti lungo tutto l’arco politico. Tuttavia perché le donne indiane possano ottenere successo in politica, condizione necessaria è l’appartenenza a famiglie potenti, cioè di essere o di essere state le mogli, le figlie o le parenti di personaggi illustri. Per un rapido superamento della discriminazione femminile esistente, bisogna fare i conti con “l’India profonda dei villaggi”, dove persiste ancora l’ignoranza e la cattiva volontà di magistratura e polizia (in questo settore le donne sono pochissime) di applicare le leggi che già esistono. L’ineguaglianza, come la povertà, chiama in causa la legittimità dello stato, riproponendo i dubbi sull’adeguatezza del metodo democratico alle esigenze del paese. 8. Armonia e repressione Il rapporto presentato al XVI Congresso, tenutosi a Pechino nel giugno del 2002, dal segretario generale uscente, Jiang Zemin, ha offerto vari spunti di riflessione sul tema dello sviluppo e delle riforme economiche-sociali, nonché sulla riforma del sistema politico-istituzionale. Era allora emerso come nel corso dei 13 anni trascorsi, il cammino fosse stato tortuoso e segnato da un notevole travaglio politico, da problemi e da difficoltà nel conseguimento degli obiettivi e da eventi internazionali imprevisti. In particolare, venivano sottolineati la lenta crescita dei redditi dei contadini e di alcune fasce di residenti urbani, l'aumento dei senza lavoro, la precarietà dell'ordine pubblico in

118 Amartya SEN, L’altra India,op. cit., pag.267. 119 L’Unicef ha stimato che ogni anno ne vengano assassinate 5000 tra le mura domestiche.

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certe aree. Al centro del lavoro futuro venivano posti, in continuità con la strategia generale degli anni Novanta, lo sviluppo economico (indicato come problema fondamentale), la stabilità, le riforme e l'apertura verso l'esterno, la costruzione di una civiltà sia materiale che spirituale in cui si combinassero ruolo e funzione della legge e della virtù, il rafforzamento e lo sviluppo della cultura nazionale e l’assorbimento di risultati conseguiti da altre culture. Gli emendamenti allo Statuto del "Programma generale" chiarivano altresì come uno degli obiettivi principali da conseguire in futuro fosse portare il Prodotto interno lordo al livello dei paesi a moderato sviluppo e di realizzare una modernizzazione sostanziale in occasione del centenario della Rpc nel 2049. Veniva inoltre riaffermato il principio secondo cui il socialismo in Cina è destinato a perdurare a lungo, uno dei requisiti indispensabili al fine del successo del programma di riforme e sviluppo. Il Rapporto sullo Sviluppo Mondiale della World Bank spiega perché anche le ineguaglianze e non solo la povertà, dovrebbero essere ritenute motivo di preoccupazione: l’XI piano quinquennale cinese ha affronta il problema di petto. Il governo da molti anni parla di una società più armoniosa, e il piano descrive gli ambiziosi programmi messi a punto per arrivare a ottenere ciò. A marzo di ogni anno si riunisce a Pechino il National People’s Congresso, l’Assemblea del Popolo, durante il quale i 2.937 delegati di ogni provincia cinese approvano sia le leggi che le misure proposte dal governo. Nella IV sessione della 10° Assemblea Nazionale del Popolo terminata il 14 marzo 2006, è stato approvato l’XI Piano Quinquennale (2006-2010) per apportare cambiamenti nella strategia di crescita cinese nei prossimi cinque anni. Punti cardine della politica nazionale cinese sono il risparmio delle risorse, la protezione dell’ambiente, l’approvazione di un sistema economico e sociale sviluppato in modo sostenibile, basato sull’utilizzo efficiente delle risorse ma rispettoso dell’ambiente. In modo ancora più forte rispetto al passato, nelle linee dell’XI Piano Quinquennale di Sviluppo si è posta l’attenzione sui problemi delle campagne e delle popolazioni rurali. L’agricoltura e metodi innovativi di produzione sono prioritari nell’agenda delle azioni del Governo, così come l’educazione, la cultura e la salute delle popolazioni delle campagne. La Cina è consapevole che ciò che separa i paesi meno sviluppati da quelli più sviluppati non è soltanto un gap di risorse, ma un gap di conoscenze. Un anno dopo quei problemi restano tuttora prioritari. In occasione dell’apertura del XVII Congresso del Partito comunista cinese il segretario generale, Hu Jintao, ha detto: “La nostra crescita economica si è realizzata a costi umani e ambientali eccessivamente elevati. E’ necessaria una correzione”. Il congresso si è concluso con la presentazione dei nove dirigenti che dovranno correggere, nei prossimi cinque anni, la rotta dello sviluppo orientandolo con “una visione scientifica”: meno costi ambientali e sociali, migliore ridistribuzione della ricchezza, investimenti nelle tecnologie, innovazione industriale. Questa dichiarazione ha fatto ben sperare quella parte del mondo libero che si batte per i diritti umani e contro la corruzione che dilaga all’interno del Partito; tuttavia si prevedono pochi cambiamenti sostanziali e lo stesso Hu Jintao si è affrettato a precisare che qualunque cambiamento all’interno del Politburo non cambierà la politica delle “porte aperte” agli investimenti e agli affari con gli imprenditori internazionali. Anzi ha anche promesso una maggiore “integrazione nella globalizzazione mondiale”: si tratta di un programma ambizioso e importante che cerca di conciliare l’equità con il benessere, ma che continua a porre il partito unico al centro del sistema istituzionale.

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La complessa e delicata questione della corruzione e del consolidamento del potere di Hu Jintao sulla cosiddetta cricca di Shanghai è stata discussa con sufficiente ampiezza nella decima e ultima parte del rapporto “Rafforzare e migliorare l'edificazione del partito”. La prevenzione della lotta contro la corruzione sono indicati come “un grande obiettivo politico”: solo se si sarà capaci di portare a compimento in modo positivo tale obiettivo - ha affermato il presidente - sarà possibile preservare solidi legami tra partito e popolo, evitando il pericolo che “il partito possa perdere la propria posizione dominante o avviarsi eventualmente verso l'autodistruzione”. Secondo il premio Nobel per l’economia Joseph E. Stiglitz queste presunte politiche pro-crescita, non solo non riusciranno a garantire la crescita, ma minacceranno nella sua totalità la visione del futuro della Cina. L’unico modo per evitare che ciò accada “ è discutere apertamente le politiche economiche allo scopo di metterne in evidenza gli errori e dare l’opportunità di soluzioni creative alle molte sfide alle quali oggi la Cina deve far fronte.”120 Le economie di mercato, continua l’economista, non si regolano da sole, specie se si vuole essere sicuri che i loro benefici siano condivisi da più gente possibile.

120 J.E. STIGLITZ, “ L’economia di mercato e la road map cinese” ( www.projectsyndicate.org ).

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Capitolo VI

Ue e Cindia: superamento di un mondo culturalmente frammentato

La cooperazione dell’Unione Europea con i paesi che non ne fanno parte si è sempre indirizzata verso le regioni più prossime, verso i paesi dell’Europa centro-orientale prima dell’allargamento e l’area del Mediterraneo. Inoltre una lunga tradizione di dialogo e di accordi commerciali è stata mantenuta, a partire dagli anni ’70, con i paesi dell’Africa, Carabi e Pacifico che hanno in comune l’eredità post-coloniale, che li lega all’Europa e una condizione persistente di sottosviluppo. I processi di assistenza inter-governativa volti a promuovere lo sviluppo economico e sociale dei paesi arretrati costituiscono un fenomeno relativamente recente.121 Gli anni novanta hanno segnato la crisi dell’aiuto pubblico allo sviluppo e nel contempo, l’avvio di enormi sforzi in sede internazionale. C’è un declino generalizzato dei trasferimenti dai paesi più industrializzati a causa dell’ enorme senso di sfiducia nella loro efficacia, tuttavia alcuni stati del Nord Europa, pur adottando severe politiche di bilancio, confermano la tendenza a una partecipazione attiva nelle politiche di sviluppo. L’interesse dell’Unione si è progressivamente esteso ad aree e paesi più lontani come India e Cina, che stanno acquistando una posizione di rilievo sia per il crescente peso nell’economia globale, sia per la posizione strategica che occupano nel continente asiatico. Ma la cronica incapacità dell’Unione Europea di vincere le resistenze dei suoi stati membri e sviluppare una propria politica estera, rappresenta un chiaro limite per la sua definitiva consacrazione al ruolo di attore globale. Questo vale particolarmente per lo spazio geopolitico che va dall’Ocaeno Indiano al Pacifico occidentale. All’interno dell’Unione Europea la politica estera è ancora dominio riservato dei singoli stati membri, che agiscono nel palcoscenico internazionale spesso in contrasto tra loro. Nell’area dell’Asia-Pacifico il loro impegno politico tende il più delle volte a confondersi con l’interesse economico nazionale. Nel suo recente tour in Cina e India il premier britannico Gordon Brown ha vestito più i panni del capo delegazione di una schiera di imprenditori, che quello dello statista. A Pechino ha caldeggiato un incremento degli investimenti cinesi in Gran Bretagna, auspicando che entro il 2010 l’interscambio commerciale tra i due paesi raggiunga i 60 miliardi di dollari. Sul piano strettamente politico i colloqui sono stai deludenti, al punto da far nutrire sospetti sulla reale volontà di perseguire risultati di questo tipo. In India Brown ha appoggiato la candidatura di Delhi per un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’Onu e ha inoltre chiesto al suo interlocutore indiano di accrescere la cooperazione nella guerra al terrorismo, prospettando l’ingresso dell’India nel Financial Action Task Force,122 che monitora i movimenti finanziari mondiali legati alle attività terroristiche. Indipendentemente dall’Unione Europea anche altri capi di governo si sono recati in visita a Pechino e New Delhi: la visita del presidente francese Nicholas Sarkozy si è svolta all’insegna della collaborazione economica, per lo più in materia di armamenti. La cooperazione con l’India nel settore della difesa, si è 121 Le idee della cooperazione allo sviluppo sono fiorite dal ‘700. 122La Cina ne fa parte dal giugno scorso.

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fortemente rafforzata negli ultimi anni: ne sono esempio le esercitazioni congiunte svolte dalle rispettive Marine militari nel Mar Rosso lo scorso settembre. In particolare Sarkozy ha firmato con Singh un accordo di cooperazione sul nucleare civile, benedicendo il negoziato tra India e Stati Uniti: la fiorente industria nucleare francese ha interesse che l’accordo sia ratificato, incoraggiando così la crescita di un mercato settoriale in India. Angela Merkel invece, durante una visita di stato in Cina la scorsa estate, non ha esitato ad affrontare temi che avrebbero potuto incrinare le relazioni economiche tra i due paesi. Il cancelliere tedesco ha rivolto alle autorità cinesi un esplicito richiamo al rispetto dei diritti umani, che insieme all’incontro avuto in Germania con il Dalai Lama, ha concorso al raffreddamento dei rapporti diplomatici tra i due paesi. Da quel momento in poi la Cina ha boicottato gli incontri ad alto livello con le autorità tedesche. 1. Cooperazione allo sviluppo

Le prime relazioni diplomatiche Ue-India risalgono agli inizi del 1960; l’obiettivo centrale di tutti i progetti è stato l’impegno della Comunità Europea alla riduzione della povertà per migliorare la qualità di vita dei più poveri e svantaggiati. Dalla metà degli anni ’90 sono stati identificati i settori prioritari di intervento, come l’istruzione e l’assistenza sanitaria primarie. Questo approccio settoriale è stato poi completato con un progetto per lo sviluppo rurale, l’irrigazione, la silvicoltura, il risanamento ambientale e la spartizione delle acque. L’istruzione è una priorità per la cooperazione e l’impegno comunitario è quello di sostenere i programmi del governo indiano, in particolare quelli che permettono di ridurre la disparità tra i sessi, i gruppi e le religioni. Il “District Primary Education Programme”, con una sovvenzione di 150 milioni di euro, focalizza le fasce più povere e svantaggiate e pone particolare attenzione all’istruzione delle bambine. Sulla scia del successo del DPEP, è sorta una nuova iniziativa, un programma di riforma denominato “Sarva Shiksha Abhiyan”, che permetterà, entro il 2010, di completare la scuola elementare a tutti i bambini di otto anni e mira a colmare il divario di scolarizzazione tra bambine e bambini indiani. Inoltre con il programma “Istruzione di garanzia Scheme” verranno fornite le strutture scolastiche in certe aree tribali (Madhya Pradesh); in queste zone la cooperazione tra le autorità del governo e le comunità locali, coinvolgerà 1,2 milioni di bambini e 2800 insegnanti. Per il periodo 1998-2004 l’Ue ha impegnato 240 milioni di euro nel Programma Nazionale Family Welfare, che si propone di riformare il sistema sanitario indiano, concentrandosi sui servizi di assistenza sanitaria primaria in particolare quelli delle tribù nelle zone rurali. Nel programma è compreso il finanziamento di un progetto in materia di prevenzione, cura e sostegno ai malati di Aids e a chi fa uso di droga. Sono previsti programmi di formazione per medici professionisti e avvocati, nonché supporto legale alle persone malate contro la loro discriminazione; previsto anche il contributo per la riabilitazione e il reinserimento sociale dei tossicodipendenti. Un altro esempio di successo della collaborazione Ue-India riguarda il restauro della copertura verde della più antica catena montuosa indiana, Historical Hills, che funge da barriera naturale tra il deserto di Thar e le fertili pianure orientali del Rajasthan. Durante nove anni, in ben 38mila ettari di terreni comuni, sono stati nuovamente piantati alberi e ogni sorta di cespugli, impedendo la desertificazione, migliorando le condizioni di vita di circa 825.000 persone e sollevando lo status sociale delle donne locali, impegnate in produzione agricola e marketing di orticoltura.

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La prima cooperazione a livello politico è datata 1994 e riguarda l’Accordo di Cooperazione bilaterale, che va al di là del commercio e della cooperazione economica. La comunicazione della Commissione “Ue-India Enhanced partenariato” del giugno 1996 è stato un balzo in avanti e ha contribuito a mettere la Commissione sul sedile di guida delle relazioni Ue-India. Successivamente durante il primo vertice con l’Unione Europea, svoltosi a Lisbona nel giugno del 2000, si è concretizzata la volontà di rilanciare la cooperazione tra le due entità. L’accordo firmato il 23 novembre 2001, con il secondo vertice Ue-India svoltosi a Nuova Delhi, ha lo scopo di facilitare le relazioni sull’attività di ricerca e sviluppo nei settori scientifici e tecnologici di comune interesse per i due paesi. Esso consentirà la partecipazione di scienziati indiani nelle attività di ricerca in tutta l’Unione Europea e, reciprocamente darà accesso agli scienziati europei, in simili programmi indiani. Nel programma sono coinvolti istituti di ricerca, imprese, università e sono previsti scambi e condivisione di apparecchiature, materiali, informazioni e dati. Nel giugno del 2004 un partenariato strategico ha definito cinque settori di collaborazione: la cooperazione internazionale, con un accento particolare alla prevenzione dei conflitti, alla lotta al terrorismo, alla non proliferazione nucleare, alla democrazia e ai diritti umani; il rafforzamento del partenariato economico attraverso iniziative settoriali e politiche di regolazione comune; una cooperazione in materia di sviluppo destinata ad aiutare l’India a raggiungere gli “Obiettivi del Millennio” di lotta contro la povertà; l’intensificazione degli scambi intellettuali e culturali e l’istituzionalizzazione delle relazioni tra India e Ue. Sul piano economico l’Unione Europea è stata ormai superata dall’Asia, nel 2004 l’Asean totalizzava il 20% degli scambi del paese, contro il 19% dell’Unione: l’India rappresenta ormai l’1,7% delle importazioni e delle esportazioni europee, costituendone solo il dodicesimo partner. Ancora di natura politica è il dialogo promosso da Asia-Europe Meeting (ASEM), un forum interregionale al quale partecipano ventisei partner europei e numerosi paesi asiatici a cui, in occasione dell’ultimo incontro tenutosi nel settembre del 2006 in Finlandia, si sono aggiunti India e Pakistan. Ma è sicuramente la SAARC l’organizzazione più rappresentativa della cooperazione con l’Asia del sud a cui l’Ue è stata recentemente ammessa con lo status di osservatore (insieme a Usa, Cina e Giappone): oltre ai tradizionali settori in cui la SAARC è chiamata a operare, la cooperazione sembra orientarsi verso ambiti prevalentemente tecnici. Ma le questioni politiche legate alla stabilità dell’area, soprattutto Kashmir e Sri Lanka, condizionano l’effettiva capacità di cooperare efficacemente. Un timido passo nella direzione di una più incisiva cooperazione su questioni politicamente “sensibili” riguarda la proposta di creare un Consiglio sulle Minoranze, contenuta in una recente risoluzione dei ministri della SAARC: a partire da questa risoluzione numerose ONG asiatiche insieme all’EURAC hanno preso spunto nel proporre la creazione di un meccanismo stabile per la protezione delle minoranze anche indiane, facendo esplicito riferimento all’esperienza europea in questo delicato settore della cooperazione transnazionale. Ma è sul piano diplomatico strategico che le relazioni sembrano più difficili. La diplomazia europea mostra maggiore interesse verso Pechino: paradossalmente l’Unione Europea, che attribuisce grande importanza alla democrazia, concentra la sua attenzione su un paese a regime totalitario, decisamente meno onorevole dell’India, considerata la più grande democrazia del mondo. Al tempo stesso l’India si rivela ostile

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a molte delle iniziative europee; il colosso indiano primo in informatica e nelle biotecnologie (da cui l’Europa avrebbe molto da imparare), ma con condizioni di sottosviluppo che interessano circa un quarto della popolazione, non vuole sentire i discorsi europei sulla solidarietà e sull’aiuto umanitario, che spesso nascondono una vena di superiorità e paternalismo eurocentrico, troppo fastidiosi agli occhi di un partner indiano che si pone su un piano di parità con la controparte europea. Esiste una sorta di schizofrenia tra la nuova economia indiana e l’India “dei poveri”: in Europa la cooperazione allo sviluppo con il subcontinente indiano viaggia così su un binario separato dai programmi di assistenza tecnica, ma l’Ue e gli stati membri sono in India il maggiore donatore. L’India ha un atteggiamento critico verso molte delle iniziative europee, come la creazione della Corte penale internazionale e la Convenzione di Ottawa sull’interdizione delle mine antiuomo. Senza contare poi la diffidenza di Nuova Delhi nei confronti dell’ “ingerenza” europea nella politica indiana, che si tratti del rispetto dei diritti umani in Kashmir o del lavoro minorile. In realtà le élite indiane, forti della recente potenza acquisita, non nascondono più il loro disprezzo per un’Europa ritenuta alle prese con gravi difficoltà economiche: il Vecchio continente è considerato in crisi, con uno stato assistenziale superato e avviato sulla strada del declino. L’India nazionalista si prende la sua rivincita nei confronti dei molti secoli di colonialismo e neocolonialismo. In realtà gli europei chiedono che l’India e l’Ue condividano una visione del mondo fondata sul multilateralismo123. A queste richieste hanno fatto seguito le dichiarazioni comuni del Summit di Helsinki dell’ottobre 2006; proprio nella Dichiarazione Congiunta, il cui testo insiste su una comune visione di un mondo “multipolare”, dove iniziative multilaterali e regionali rivestono la massima importanza, si legge l’ambizione europea a diventare un interlocutore alternativo agli Usa e l’aspirazione a riposizionare l’Europa nel quadro politico del sub-continente indiano. Ma il discorso indiano sulla necessità di un mondo multipolare è ingannevole; New Delhi ha ereditato dal suo impegno terzomondista con il movimento dei non allineati un discorso antimperialista, diretto soprattutto contro l’egemonia americana. Questa eredità presenta evidenti affinità elettive con il progetto multilaterale europeo di promuovere un sistema di norme internazionali. Ma in pratica gli indiani fanno prova di un pragmatismo che a partire dagli anni ’90 ha assunto un carattere di realpolitik.124 Per i dirigenti indiani gli Usa assicurano una leadership stabile, mentre l’Unione Europea è ancora alla ricerca di una sua identità e non è ancora un attore internazionale di primo piano. L’estrema valorizzazione della potenza costituisce un fattore essenziale per spiegare la scarsa considerazione dell’India nei confronti dell’Unione Europea. Mentre Nehru credeva nei valori, gli strateghi dei think tank indiani considerano che “fare dell’India la più grande democrazia del mondo” non avrebbe dato al paese gli stessi risultati ottenuti con i test nucleari del 1998. Il partenariato strategico concluso nel 2004 tra l’India e l’Unione è saltato a causa della preferenza per un accordo di cooperazione strategico militare concluso con gli americani nel giugno 2005. Per far uscire le relazioni indo-europee dalla situazione in cui si trovano, l’Ue deve prima di tutto darsi gli strumenti per esistere sul piano internazionale, ma si tratta di un punto tutt’altro che semplice dopo il rifiuto di una costituzione che avrebbe avuto il

123 Commissione Europea, “An Eu-India strategic partnership” , Commission staff working document, , Bruxelles 16 giuno 2004. 124 Christophe JAFFRELOT, “L’India nella sfera d’influenza Usa”, Le Monde Diplomatique, giugno 2007.

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vantaggio di darle un ministro degli Esteri. L’Ue, se il suo processo di integrazione europeo non è completamente bloccato, ha a disposizione un’iniziativa di peso che potrebbe cambiare la situazione. Sostenere l’entrata dell’India nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in qualità di nuova grande potenza emergente. Tale iniziativa riporterebbe New Delhi nell’ambito del multilateralismo. In questo modo si assisterebbe a un riequilibrio perfettamente naturale della diplomazia europea. 2. Programmi comunitari nel settore universitario La Commissione Europea ha recentemente approvato due programmi relativi al settore dell’istruzione universitaria con l’india e con la Cina. Il programma con l’India, denominato European Union Studies Programme, intende promuovere e rafforzare i legami dell’India con l’Unione Europea, attraverso una maggiore diffusione della conoscenza delle sue strutture e delle tematiche europee di maggior rilievo. Tale obiettivo è stato perseguito attraverso la creazione, in quattro Istituti di Istruzione superiore indiani preventivamente selezionati, di altrettanti Centri di Studi sull’Unione Europea, European Union Studies Centres. I temi fondamentali oggetto di insegnamento e approfondimento all’interno di tali Centri riguardano l’assetto istituzionale dell’Ue, l’integrazione economica e l’unione monetaria, la politica commerciale, le regole per la competitività, la politica sociale e la sicurezza. Le principali aree disciplinari coinvolte sono pertanto Economia, Storia, Giurisprudenza, Scienze Politiche. Gli obiettivi generali di diffusione degli studi e delle informazioni riguardanti l’Unione Europea, la sua storia e le sue istituzioni sono stati raggiunti attraverso la creazione, lo sviluppo e le attività dei CEUS nelle quattro Istituzioni indiane; la formazione di personale accademico specializzato in Studi europei e relazioni Ue-India; la creazione di Centri di Documentazione europea nelle università oggetto dell’intervento, allo scopo di consentire la massima diffusioni delle informazioni riguardanti l’Ue a tutte le componenti della società civile. All’interno dei CEUS sono stati organizzati una serie di attività di formazione e di ricerca, seminari, conferenze e workshop: nel quadro del programma sono state inoltre erogate borse di studio destinate al personale accademico e allo staff dei CEUS. Una delle attività di maggior rilievo è stata una serie di seminari tematici annuali nelle aree disciplinari prescelte, condotti da docenti ed esperti provenienti da Istituzioni dell’Unione Europea. Circa 80 “visiting professors/experts” si sono recati in India nel quadro di queste attività seminariali. Lingua ufficiale del programma: rigorosamente l’inglese. Nel 2007, in occasione dell’Anno dell’Italia in India, è stato lanciato il Progetto India di Ateneo che punta al rafforzamento delle relazioni accademiche, ma anche al trasferimento tecnologico e alla creazione di network di attori a livello territoriale. L’India, insieme alla Cina, costituisce un territorio di grande interesse anche per il sistema mondiale dell’Istruzione Superiore. Se il 2006 è stato l’anno della Cina, il 2007 è stato l’anno dell’India: proprio il subcontinente indiano rappresenta, secondo le stime di autorevoli economisti ed esperti di geopolitica, una delle aree geografiche che avrà trend di crescita economica molto elevati, superiori ai valori medi di molti paesi in via di sviluppo. Tra le linee direttrici del progetto un posto di rilievo occupa il trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie, il coinvolgimento di atenei indiani e centri di ricerca, strutture di vera eccellenza e, sin dalla fase ideativa, di istituzioni

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nazionali e locali. La dimensione ottimale di cooperazione prevede la stipula di accordi di cooperazione scientifica con le più importanti Università indiane, soprattutto nell’ambito scientifico e tecnico, ma anche in quello umanistico; la creazione di flussi di studenti in entrata e in uscita per lauree specialistiche e master, la partecipazione di studenti indiani a scuole e corsi di dottorato di ricerca e post-dottorato principalmente negli ambiti della componentistica, motoristica, agro-alimentare, ITC, Scienze della vita, genomica e biotecnologie, economia e management. 3. Partenariato Ue-Cina Il maggio 2008 segnerà il trentatreesimo anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Cina e l’Europa: negli anni trascorsi le relazioni, superando varie difficoltà, hanno mantenuto nel complesso un trend di sviluppo positivo e pragmatico. In particolare recentemente, in mezzo ai cambiamenti della configurazione strategica globale e della situazione internazionale, le relazioni sino-europee sono diventate più strette e hanno compiuto passi da gigante attraverso una “partnership strategica completa”.125 Il premier cinese Wen Jiabao, durante la sua visita in Europa nel maggio 2004, ha dato una delucidazione circa la connotazione della partnership strategica: “ Comprensiva significa una cooperazione bilaterale in tutte la direzioni, in tutte le aree e a tutti i livelli; strategica significa una cooperazione bilaterale a lungo termine, stabile e complessiva, al di là delle differenze delle ideologie e del sistemi sociali; partnership significa una win-win cooperation sulla base del mutuo rispetto e della fiducia reciproca”. Oggi la relazioni sino-europee attraversano il periodo migliore della loro storia; l’evoluzione della partnership strategica sta costantemente traendo grossi benefici, approfittando di un nuovo vigoroso slancio alla collaborazione. Le relazioni bilaterali stanno entrando in un nuovo periodo, ricco di grandiose opportunità di sviluppo.126I frequenti scambi di visite hanno creato condizioni favorevoli per relazioni di amicizia e di cooperazione: la scadenza annuale del summit sino-europeo è diventato un importante canale per accrescere il dialogo e la consultazione bilaterale e per trovare una coordinazione strategica. Le due parti hanno anche condotto frequenti scambi tra i dipartimenti governativi, tra membri del parlamento e tra le organizzazioni non governative. I membri della Commissione Europea visitano quasi una volta al mese la Cina, il Parlamento europeo e i parlamenti degli stati membri hanno aumentato le loro interazioni con il Congresso del Popolo127. La Cina ha tenuto con successo i suoi primi “Anno della Cultura” e “Festival della Cultura” in Francia e Irlanda, ha fondato un forum bilaterale con la Germania e uno con il Regno Unito. Tutti questi eventi hanno aumentato la confidenza e la comprensione reciproca, ridotto le differenze, approfondito l’amicizia e la cooperazione tra l’Ue e la Cina. Sempre più frequente e distinto proviene da Pechino uno specifico invito all’Europa a rafforzare e ad approfondire i rapporti politici, economici e soprattutto culturali. La motivazione che spinge la Cina verso l’Europa è la realizzazione di un ambizioso progetto paneurasiatico, sintetizzato nello slogan “due nuovi attori-due antiche civiltà”: l’Unione Europea e la Nuova Cina128, due attori internazionali nuovi in quanto rigenerati, che possono svolgere un ruolo fondamentale nello scacchiere internazionale.

125Linchu ZHANG, Yixiang ZHUANG, “Sino-EU relations in retrospect and prospect”, Foreign Affairs Journal, Chinese People’s Institute of Foreign Affairs, Pechino 9-12 2005. 126 Ibidem. 127 Ibidem. 128 Franco MAZZEI, Vittorio VOLPI, Asia al centro, op. cit., pag.319.

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La realizzazione di questa prospettiva potrebbe fornire il paradigma per una gestione collaborativi della diversità culturale che rappresenta la sfida cruciale del mondo, economicamente globalizzato ma culturalmente frammentato, del XXI secolo. La Commissione Europea ha stabilito un ambizioso programma di lavoro per le relazioni Ue-Cina, in risposta al riaffermarsi della Cina come potenza economica. Gli aspetti prioritari di tale iniziativa sono il sostegno alla transizione della Cina verso una società più aperta e pluralistica, lo sviluppo sostenibile, compresa la cooperazione per le questioni energetiche, i cambiamenti climatici e lo sviluppo internazionale; il commercio e le relazioni economiche, il rafforzamento della cooperazione bilaterale anche in campo scientifico e tecnologico, la migrazione; la promozione della sicurezza internazionale nell’Asia orientale e nel resto del mondo e una cooperazione più vasta in materia di non proliferazione129. L’attenzione per la Cina da parte degli europei assume un carattere paradossale: l’Unione attribuisce grande importanza alla democrazia, ma allo stesso tempo concentra la sua attenzione sulla Cina il cui stato di servizio, da questo punto di vista, è decisamente meno onorevole dell’India. Ma l’Europa ha tutto l’interesse, dal punto di vista politico ed economico, a sostenere la Cina affinché porti a termine con successo la sua trasformazione in un paese prospero, stabile e aperto, nel rispetto dello stato di diritto e dei principi del libero mercato. Il partenariato strategico che le unisce dal 2003, motiva l’Unione Europea e la Cina ad affrontare insieme le principali sfide geopolitiche attuali, promuovendo lo sviluppo sostenibile, la pace e la prosperità con vantaggi reciproci. Il partenariato e la concorrenza economica devono procedere di pari passo ed è per questo che è stata definita una vasta strategia, per impostare le relazioni tra Ue e Cina in materia di commercio e investimenti, che rispecchia la metamorfosi radicale degli scambi tra i due paesi e la necessità di far fronte al peso enorme assunto dalla Cina nel sistema commerciale mondiale. In questi anni diversi paesi dell’Unione Europea, di piccole o medie dimensioni, sono stati oggetto delle attenzioni geopolitiche dell’Impero di mezzo. La Slovenia, il Portogallo, l’Ungheria hanno intrapreso progressivamente relazioni strette con la Repubblica popolare cinese. Pechino ha approfittato della questione di Macao, l’ex colonia portoghese ritornata assieme all’inglese Hong Kong alla Cina, per costruire con Lisbona un rapporto politico e strategico molto stretto: tutte le ex colonie portoghesi, agli occhi di Pechino sono molto interessanti. A settembre del 2007 il presidente dell’Ungheria, nazione strategica per la sua posizione nell’Europa centro orientale, è stato ricevuto con tutti gli onori dai massimi esponenti del governo, segno di un interesse significativo da parte della Cina. A ottobre Pechino ha siglato accordi per la fornitura di tecnologie con l’Olanda: sempre più spesso predilige i rapporti bilaterali con i singoli paesi europei, piuttosto che con l’Unione, perché più convenienti. “Lo sviluppo economico della Cina sarà un buon modello per l’Unione Europea, l’esperienza europea in governo e cultura sarà un buon modello per la Cina” scrive il Quotidiano del Popolo. Secondo Pechino l’Unione Europea dovrebbe vedere l’ascesa della Cina come un’opportunità, chiarire i propri interessi e riformare le proprie politiche. Mentre gli Usa puntano a esportare la democrazia, per l’Ue è importante la stabilità come fattore di precondizione per la democrazia e il progresso. Gli Stati Uniti sperano che la Cina partecipi a un ordine internazionale, dominato da Washington; al contrario, l’Unione Europea spera che la Cina diventi un partner costruttivo nel promuovere relazioni globali in un ordine internazionale multilaterale. Con questi

129 Commissione Europea, Bruxelles 2006.

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presupposti potrebbe esserci una migliore cooperazione economica e una maggiore collaborazione in Africa e Medioriente. 4. L’Ue e gli studenti cinesi

Quando fai progetti per un anno, pianta del granturco Quando fai progetti per un decennio, pianta degli alberi Quando fai progetti per la vita, educa e istruisci le persone Guan Zhong

Queste parole scritte più di 2600 anni fa hanno valore anche ai giorni nostri. L’educazione superiore è stata fondamentale per le persone nei tempi antichi, così come lo è oggi: è di vitale importanza per lo sviluppo degli esseri umani come per le società moderne, rafforza le strutture sociali, culturali ed economiche, promuove la convivenza e i valori etici. Con questo slogan si è aperta a Pechino, il 20 ottobre 2007, la “European Higher Education Fair”, una fiera dello studente che ha visto la partecipazione di venticinque stati membri dell’Unione Europea: Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria. Durante i due giorni dell’esposizione la delegazione della Commissione Europea e i rappresentanti nazionali degli stati membri hanno presentato ai visitatori, i programmi sull’istruzione in Europa e i rispettivi sistemi educativi. L’Unione Europea, che ha sempre messo in luce l’importanza dell’istruzione, si è impegnata per fare dell’Europa l’economia più competitiva e preparata del mondo. Riguardo l’istruzione superiore l’Unione Europea ha contribuito allo sviluppo di un’istruzione di qualità e ha incoraggiato la cooperazione sia tra i 27 stati membri che con i paesi terzi. In questo contesto la European Higher Education Fair è stata un’importante pietra miliare e un passo concreto per la comprensione interculturale: con lo scopo di avvicinare le istituzioni dell’educazione superiore europee e asiatiche, di creare nuove partnership e di consolidare relazioni già esistenti, ha voluto dimostrare agli studenti cinesi la ricchezza del panorama europeo, aiutandoli nella selezione di uno o più stati membri quale scelta per intraprendere gli studi all’estero, incoraggiandoli a beneficiare degli eccellenti programmi di istruzione e ricerca. Anche la stampa cinese ha dato risalto all’evento: in un articolo il China Daily riportava: “L’Unione europea supera gli Stati Uniti come destinazione degli studenti cinesi. Lo scorso anno 120mila giovani cinesi, un numero da vero record, hanno studiato in paesi dell’Unione Europea: sono sempre di più quelli che studiano nelle università europee, piuttosto che in qualsiasi altra parte nel mondo”.130 Ha reso noti questi dati Jan Figel, responsabile della Commissione Europea Education, Training and Youth, che è stato in Cina per firmare delle dichiarazioni congiunte con il governo di Pechino. Quando si parla di educazione, specialmente di istruzione superiore, il più delle volte si pensa agli Usa, ma attualmente, le università dell’Ue sono nel complesso le più attraenti perché offrono una diversità di culture e di metodi di insegnamento. Delle 500 università più prestigiose al mondo, la metà si trova nei ventisette stati dell’Unione

130 Shanshan WANG, “More students choose EU over US”, CHINA DAILY, Pechino, 24 ottobre 2007.

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Europea. Studiare in Europa non significa soltanto ottenere una laurea riconosciuta a livello internazionale e accrescere le proprie prospettive di carriera, ma dà agli studenti l’occasione di affrontare la sfida della diversità culturale, incontrare nuovi amici e migliorare le proprie capacità linguistiche. Per questo motivo la Commissione Europea ha varato il programma di cooperazione e mobilità Erasmus Mundus e a partire dal 2009, verranno erogati circa 230 milioni di euro per gli scambi studenteschi. Già a partire dal 2000 la Commissione Europea aveva approvato un programma relativo al settore dell’istruzione universitaria con la Cina: l’EU-China Scholarship Programme ha previsto la concessione di circa 2000 borse di studio a studenti, ricercatori e docenti di nazionalità cinese per la frequenza di corsi post lauream e per lo svolgimento di attività di ricerca presso università e centri di ricerca dei paesi dell’Unione Europea. I settori disciplinari prioritari sono stati Scienze naturali e tecnologie, Gestione aziendale e Giurisprudenza, Scienze sociali e umanistiche e Studi europei. In Cina, all’interno del programma, sono stati organizzati seminari e lezioni tenuti da scienziati e docenti europei, con l’obiettivo di fornire un panorama delle istituzioni di formazione e di ricerca europee, di contribuire allo sviluppo delle risorse umane in Cina e di rafforzare i contatti e i collegamenti tra istituzioni europee e cinesi.

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Conclusioni Nel giro di pochi decenni al centro del mondo ci saranno non più la costa occidentale degli Stati uniti e l’Europa, ma la Cina, l’India e tutta l’area che si affaccia sul Pacifico. L’impetuoso sviluppo economico, partito dalla Cina negli anni ’80, ha coinvolto molti paesi asiatici, fino ad arrivare all’India, dove le riforme economiche le hanno permesso di liberare tutte le sue energie e di imporsi come la “patria dei servizi”; la diffusa conoscenza della lingua inglese e un buon livello di istruzione tecnico-scientifica, hanno spinto molte aziende americane e inglesi a delocalizzare nel territorio indiano, alcuni servizi fondamentali. In una visione di medio termine però gli obiettivi del dragone e dell’elefante sembrano essere uguali: stessi bisogni energetici, stesse necessità di innovazione tecnologica, stessi obbiettivi di crescita economica. Che quest’area sia destinata a diventare il nuovo centro del pianeta -si calcola contribuirà al 42% del Pil mondiale- è testimoniato, secondo autorevoli studiosi del fenomeno, dal fatto che negli ultimi due anni “il dipartimento di Stato americano ha spostato definitivamente centinaia di diplomatici, ridimensionando gli organi delle sue ambasciate europee, per rafforzare quelle asiatiche.” Cindia è diventata l’acquirente del 66% del petrolio del Golfo Persico ed entro il 2010 ne comprerà il 75%: questa vera e propria sete di petrolio dei due giganti asiatici, ha contribuito a spingere il prezzo dell’oro nero oltre i 100 dollari al barile. Un ulteriore riprova dell’importanza sempre crescente di Cina e India è la presenza nell’area Asia-Pacifico dei nuovi “Paperoni”: secondo una classifica dei super ricchi stilata da Merril Lynch-Cap Gemini, americani ed europei sono ancora piazzati nelle posizioni di testa, ma tra i primi 10 troviamo già un indiano e un settantenne di Hong-Kong. La cooperazione sino-indiana è sicuramente un fatto importante anzi, probabilmente, è uno dei processi geopolitici più importanti del “Secolo dell’Asia”; ma questa recente cooperazione non può far dimenticare l’antica diffidenza e l’attuale rivalità per il controllo delle risorse e per le fonti energetiche. Sul tappeto rimane questo problema: se i persistenti dubbi indiani verso la Cina siano solamente frutto della rivalità oggettiva fra i due giganti asiatici, o invece siano il sintomo di una collocazione geopolitica di Delhi al fianco di Washington, nella grande partita per il potere asiatico. Le due potenze emergenti potrebbero trovarsi coinvolte in una competizione aperta per l’egemonia regionale, tanto più che il destino di una nuova comunità degli stati dell’Asia è materia ancora tutta da definire. Secondo un altro possibile scenario c’è chi pensa che nel tempo la collaborazione sino-indiana potrebbe trasformarsi in una costruzione capace di una politica comune, che vedrebbe Cina e India darsi la mano per promuovere un mondo multipolare e un ordine internazionale politico ed economico più equo, inclusa una riforma del Consiglio di sicurezza e del WTO; le loro politiche congiunte potrebbero incidere significativamente sul commercio globale, l’ambiente e i diritti umani, il terrorismo e la sicurezza. Ma una entente sino-indiana ostile agli Stati Uniti potrebbe avere serie conseguenze e minacciare gli interessi strategici americani, soprattutto per la presenza militare americana nella regione dell’Asia centrale e del Golfo Persico. Ma sono molti gli osservatori che sostengono che, anche in futuro, continuerà a valere la logica di schieramento, con gli Usa o contro gli Usa, con la Cina o contro la Cina. Lo scenario più auspicabile vedrebbe Cina e India alla ricerca di soluzioni per le loro questioni irrisolte, compresa l’esplorazione di aree di potenziale cooperazione. A questo proposito fondamentale sarebbe il ruolo dell’Europa, come nuovo protagonista dello scenario internazionale, capace di unire un mondo sempre più frammentato.

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