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Libertá di Parola 2/2011 —— IL TEMA DIPENDENZE INVIATI NEL MONDO IL PROGETTO APPROFONDIMENTO Diversamente giovane a pag. 18 Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire) L' EDITORIALE “La legge E’ uguale per tutti?” di Pino Roveredo continua a pagina 14 a pagina 16 a pagina 14 a pagina 8 a pagina 2 PANKAKULTURA Dopo mesi d’incontri, scritture, incroci e parole, il 26 giugno, alle ore 20.30, con un proget- to curato dall’associazione I Ragazzi della Panchina, sarà rappresentata la commedia “La legge è uguale per tutti?”. Con l’esperienza decennale di chi è convinto che la cul- tura offre sempre la vitalità di un benessere, la commedia verrà interpretata da un grup- po di detenuti all’interno del carcere di Pordenone, e of- ferta alla cittadinanza grazie a una ripresa diretta, nell’ex convento di piazza della Mot- ta. Una commedia “La legge è uguale per tutti?”, che, sen- za il dito puntato del morali- sta e l’alibi che protegge una colpa, vuole raccontare le cronache che girano sopra i corridoi dei Tribunali, dove si scontrano e aggrovigliano le storie della vita, e sopra, pe- stano i passi certi dei Giudi- canti, striscia la paura rigida dei Giudicati, e scivolano le scarpe lucide degli avvoca- ti… Dentro quelle correnti d’a- ria, scorre la voce imponente del Dio delle Giustizie, sotto, l’innocenza eterna di Abele, la colpa infinita di Caino, le lingue a striscio dei Giuda, le mani pulite dei Pilato, e le abitudini delinquenziali dei Barabba da quattro soldi. Ecco in anteprima, un breve stralcio dell’opera… Giudice: Sono vent’anni che dibatto dibattimenti, proces- so processati, imputo impu- tati, sono vent’anni che infilo i colpevoli nell’abito stretto e costretto della condanna, e assolvo innocenti e insuffi- cienti col potere largo della libertà… Imputato: Sono vent’anni che frequento le aule del Giudizio, vent’anni che raccolgo impu- tazioni, sospetti, arringhe e difese, e mescolando il tutto, sono poi costretto a trascinar- mi dietro il peso del verdetto che ho dovuto togliere alla mia libertà… P. Ministero: Sono vent’anni che inseguo i delinquenti, in- crimino i criminali, incastro gli imputati, e come un bisogno fisico che mi gira nell’animo, prima vesto i sospettati con la certezza della colpa, e poi misuro le condanne sopra le vite dei condannati… Giudice: Sono vent’anni che esamino le prove, vivisezio- no i fatti, sommo gli articoli di Legge, e con le chiavi di chi ha il potere di aprire e chiu- dere le Sentenze, stravolgo e ribalto le vite che devono sottostare alla mia coscienza. Sono vent’anni che davanti agli specchi della mia intimi- tà, mi chiedo, ripeto e distur- bo con i soliti dubbi del… Ho fatto bene, ho fatto male, ma soprattutto, ho fatto Giustizia?... Imputato: Sono vent’anni che i giudici giudicanti scrivono i Fine lavoro, ma non fine vita. Arrivato il tempo della pensione per molti, salute permettendo, arriva quello di godere del tempo libero mai avuto prima. Balli, gite, divertimento, cura del proprio corpo e delle proprie amicizie: ma anche tanto volontariato a favore della comunità, aiuto da dare a figli e nipoti. Per chi poi a casa propria comincia ad avere paura di stare da solo l’alternativa alla Casa di riposo c’è. Tanti modi di essere anziano. a pagina 9 Lavori sporchi, ma qualcuno li deve pur fare Alcol, quando il piacere diventa problema Incredibile India, terra di contraddizioni a pagina 13 Se i detenuti diventano attori Il 23 giugno va in scena la prima Allevi, il filosofo del pianoforte NON SOLO SPORT Un caffè con l’esploratore dei ghiacci

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Libertò di Parola il trimestrele di informazione de I Ragazzi della Panchina di Pordenone

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Page 1: LDP 02/2011

Libertá di ParolaN°2/2011 ——

IL TEMA

DIPENDENZE

INVIATI NEL MONDO

IL PrOgETTO

APPrOFONDIMENTO

Diversamente giovane

a pag. 18

Disapprovo quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo. (Voltaire)

L' EDITOrIALE

“La legge E’ uguale per tutti?”di Pino roveredo

continua a pagina 14

a pagina 16

a pagina 14

a pagina 8

a pagina 2

PANKAKULTUrA

Dopo mesi d’incontri, scritture, incroci e parole, il 26 giugno, alle ore 20.30, con un proget-to curato dall’associazione I Ragazzi della Panchina, sarà rappresentata la commedia “La legge è uguale per tutti?”.Con l’esperienza decennale di chi è convinto che la cul-tura offre sempre la vitalità di un benessere, la commedia verrà interpretata da un grup-po di detenuti all’interno del carcere di Pordenone, e of-ferta alla cittadinanza grazie a una ripresa diretta, nell’ex convento di piazza della Mot-ta. Una commedia “La legge è uguale per tutti?”, che, sen-za il dito puntato del morali-sta e l’alibi che protegge una colpa, vuole raccontare le cronache che girano sopra i corridoi dei Tribunali, dove si scontrano e aggrovigliano le storie della vita, e sopra, pe-stano i passi certi dei Giudi-canti, striscia la paura rigida dei Giudicati, e scivolano le scarpe lucide degli avvoca-ti… Dentro quelle correnti d’a-ria, scorre la voce imponente del Dio delle Giustizie, sotto, l’innocenza eterna di Abele, la colpa infinita di Caino, le lingue a striscio dei Giuda, le mani pulite dei Pilato, e le abitudini delinquenziali dei Barabba da quattro soldi. Ecco in anteprima, un breve stralcio dell’opera…

Giudice: Sono vent’anni che dibatto dibattimenti, proces-so processati, imputo impu-tati, sono vent’anni che infilo i colpevoli nell’abito stretto e costretto della condanna, e assolvo innocenti e insuffi-cienti col potere largo della libertà… Imputato: Sono vent’anni che frequento le aule del Giudizio, vent’anni che raccolgo impu-tazioni, sospetti, arringhe e difese, e mescolando il tutto, sono poi costretto a trascinar-mi dietro il peso del verdetto che ho dovuto togliere alla mia libertà… P. Ministero: Sono vent’anni che inseguo i delinquenti, in-crimino i criminali, incastro gli imputati, e come un bisogno fisico che mi gira nell’animo,

prima vesto i sospettati con la certezza della colpa, e poi misuro le condanne sopra le vite dei condannati… Giudice: Sono vent’anni che esamino le prove, vivisezio-no i fatti, sommo gli articoli di Legge, e con le chiavi di chi ha il potere di aprire e chiu-dere le Sentenze, stravolgo e ribalto le vite che devono sottostare alla mia coscienza. Sono vent’anni che davanti agli specchi della mia intimi-tà, mi chiedo, ripeto e distur-bo con i soliti dubbi del… Ho fatto bene, ho fatto male, ma soprattutto, ho fatto Giustizia?... Imputato: Sono vent’anni che i giudici giudicanti scrivono i

Fine lavoro, ma non fine vita. Arrivato il tempo della pensione per molti, salute permettendo, arriva quello di godere del tempo libero mai avuto prima. Balli, gite, divertimento, cura del proprio corpo e delle proprie amicizie: ma anche tanto volontariato a favore della comunità, aiuto da dare a figli e nipoti. Per chi poi a casa propria comincia ad avere paura di stare da solo l’alternativa alla Casa di riposo c’è. Tanti modi di essere anziano. a pagina 9

Lavori sporchi, ma qualcuno li deve pur fare

Alcol, quando il piacere diventa problema

Incredibile India, terra di contraddizioni a pagina 13

Se i detenuti diventano attori Il 23 giugno va in scena la prima

Allevi, il filosofo del pianoforte

NON SOLO SPOrT

Un caffè con l’esploratore dei ghiacci

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“Mi chiamo Giovanni e sba-vo la ghisa per quattro dena-ri e un pezzo di pane” diceva una canzone degli anni ‘60. Erano i tempi che succedeva-no alla rivoluzione industriale del Dopoguerra, rivoluzio-ne che meccanizzò il lavoro con presse taglia mani, fumi brucia polmoni e nefandez-ze varie, in cui la malattia professionale era accettata con rassegnazione. Ai tempi di quelle condizioni, dicevo, citare lo sbavatore di ghisa significava scomodare ciò oltre il quale l’immaginazio-ne non sapeva andare, per dare l’idea della drammati-cità in cui le nostre più bas-se classi operaie versavano. Ebbene oggi, ai tempi della rivoluzione mediatica in cui si creano e si distruggono for-tune senza muoversi da una sedia, lo sbavatore di ghisa esiste ancora. Con la sua tuta che sta in piedi da sola, tra-sformata in uno scafandro appiccicoso di sudore e pol-vere. Come allora il lavoro consiste nello smerigliare la bava dai vari pezzi con il di-sco abrasivo di una flex che gira a migliaia di giri al min. Che va tenuta saldamente in mano dal mattino alla sera, e che fa pagare cara ogni piccola distrazione, possibile sopratutto alla fine della gior-nata quando i muscoli e la testa non hanno più niente da dare. I pezzi di ghisa da sbavare possono essere di varie forme e dimensioni, a volte anche mastodontiche,

tipo quelli usati nella cantie-ristica navale, ad esempio. Dalla smerigliatura si sprigio-nano fumi dannosi che no-nostante i potenti aspiratori di oggi, se non si è ulteriormen-te protetti provocano pro-blemi ai polmoni, difficili da trattare anche farmacologi-camente. Le scintille non per-dono occasione per piantarsi negli occhi, pur con i caschi a visiera chiusa di adesso, non si sa come ma entrano lo stesso. La pelle assorbe la polvere che poi con il sudo-re si trasforma in una specie di ruggine rossastra che si toglie solo strofinando vigo-rosamente con la candeggi-na o con il limone. Questo in superficie però, perché il cor-po continua ad espellerne da ogni poro della pelle. A letto sul cuscino si lascia un alone giallo e sulle lenzuola come sul materasso si forma un sudario ocra che come su tutti gli altri vestiti: non si toglie con niente. Lo sbava-tore con la sua fatica boia (alla fine della giornata sono svariate le tonnellate di ghi-sa che ha maneggiato) che in breve tempo si trasforma in una specie di Incredibile Hulk, solo giallo e non verde, ha un corredo tutto suo per i giorni lavorativi, onde evi-tare di rovinare i vestiti buo-ni. “Cerchi lavoro, che tipo?” “Mi va bene qualsiasi”. Piano col dire qualsiasi. Io quando sbavavo ghisa ho visto che tra il dire e il fare di chi cerca lavoro ci passa il mare.

TrA FUMI E SCINTILLELa fatica boia, le polveri che impre-gnano pelle e polmoni, il sudore che inzuppa i vestiti. Lo sporco la-voro degli sbavatori di ghisadi guerrino Faggiani

Sono un ragazzo che come tanti collabora con l’associa-zione i Ragazzi della Panchi-na. Il tema di questo nume-ro del giornale è il lavoro, quello dove ci si sporca le mani. Diciamo che ciò che io faccio tutti i giorni per vi-vere è azzeccato per questo tema. Io faccio lo spazzino o, come tanti ancora dicono per dare un certo rilievo a questo lavoro, l'operatore ecologi-co. Meglio ancora, come mi ricordo lo sentivo chiama-re da bambino, lo “scovasin del comun”. A dire il vero non sono neanche un dipen-dente comunale (magari lo fossi!), ma appartengo ad una cooperativa sociale che prende in subappalto questi lavori. Il lavoro però sempre quello è. Inizio ogni giorno, dal lunedì al sabato, alle sei di mattina, alcune volte an-che alle cinque. Ciò dipende dal tipo di servizio che devo

svolgere. Con qualsiasi tem-po. Si parte dietro il camion a svuotare cassonetti oppure a fare raccolta differenziata porta a porta. Dal secco alla plastica, dalla carta all’umido e via dicendo. Il vecchio ter-mine dello “spazzino”, come lo si intendeva un tempo, oggi sta andando in disuso. Gli spazzini, infatti, quelli che si vedevano una volta stan-do per strada erano uomini vestiti con le loro tute rinfran-genti e con queste enormi scope di saggina intrecciata: oggi non esistono neanche più. Dove lavoro io, una volta ogni fine anno arrivava per l’augurio di Natale il vescovo che oltre a fare gli auguri a noi benediva pure le scope. Adesso grazie alla tecnologia le scope non le abbiamo più. Ci sono le spazzatrice e gli operatori che una volta ma-neggiavano la scopa ades-so per pulire meglio hanno

Faccio lo spazzino e ne vado fieroLe spazzatrici hanno soppiantato le scope, ma ancora oggi dove non arrivano le macchine è l'uo-mo a metterci le manidi Sponzer

CAM CAMINÌ SPAZZACAMIN

Sei anni fa, a 34 anni, ho intrapreso la professione di spazzacamino, per caso. Un giorno un amico me lo ha suggerito per scherzo e per provocazione. La sera ero già su internet a cercare le nor-mative in materia, le attrezza-ture, informazioni in genere. Il giorno dopo ho cominciato a telefonare per iscrivermi ad un corso: l'ho sul momento considerato un “investimento a fondo perduto”. Corso dopo

Meno romantica che nel film Mary Poppins, è una professione in cui servono fisico e conoscenza della leggetestimonianza raccolta da Chiara Zorzi

corso, ho cominciato a fare questo mestiere “in piccolo” e come secondo lavoro: per due anni sono andato in giro con la macchina, l’aspirapol-vere, poche aste e una sca-la. Un po’ alla volta, grazie al passaparola, mi sono trovato sempre più “dentro il giro” fino a sceglierlo come unico lavo-ro. Mi piace, perchè è molto vario, anche se spesso l’idea delle persone è che la pulizia di un camino sia uguale a

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Già sono abituato, ormai è prassi. Mi presento all'uscio del nuovo committente e dopo solo poche battute par-te la domanda: "Maaa... lei è italiano?". "Sì signora, italianis-simo". "Ah! Allora è del Sud". "No signora, sono veneto dai tempi della Serenissima!", ri-spondo con un sorriso a den-ti stretti. "Vede sono scuro di pelle per via del mio lavoro: tenendomi sempre al caldo con la sua generosa fiamma, mi porta a spogliarmi quasi tutto l'anno e ad abbronzar-mi di conseguenza". Oggi ho un verticale (in gergo) da impermeabilizzare, ovvero trascorrerò la giornata in un corridoio largo 70-80 centi-metri con una parete di terra e una di cemento, e sarà su quest'ultima che si abbatterà la mia furia di piccolo artigia-no. In pantaloncini corti e pet-to nudo, punto le ginocchia contro il cemento bloccando tre metri quadri di guaina tagliati ad hoc, ne arrotolo una parte e con la potente fiamma di propano erogata dal cannello la incollo fon-dendola sulla parete. Aahh!

Abbronzatura perenneIn pantaloncini corti e a petto nudo a catramare coperture, al caldo di una generosa fiammadi giorgio Doardo

Una goccia fusa cade dall'al-to come Nutella bollente, mi becca un polso e non posso nemmeno cercare di toglier-la: la Nutella si spalma!! Ma io sono un duro ed in capo ad alcune ore ho rivestito 150 metri quadri di muro! Ferito, ma soddisfatto e vittorioso! Le cantine di un altro palazzo sono preservate dalle infiltra-zioni ed il merito è mio! Una giornata di lavoro che termi-na è una piena soddisfazione che fa dimenticare i 50 chili di peso di ogni rotolo o i bri-vidi di caldo in pieno agosto per l'azione della fiamma sul catrame, o la terra che ti en-tra negli slip quando operi in verticale. Il ritorno monetario, la qualità del mio operato e i complimenti dei miei clienti sono di sicuro le cose che mi lusingano e mi rendono più orgoglioso. E vi assicuro che quando vedo un piastrellista in ginocchio sul lavoro o gli operai delle fonderie uscire dal turno, capisco che non fa-rei mai e poi mai cambio con loro. Perché amo il mio lavo-ro, per duro che sia. Qualcu-no lo doveva pur fare!!!

il soffiatore. Pure i mezzi sono cambiati, non si va più con mezzi vecchi e sgangherati o addirittura, come racconta-no certi vecchi, con motocar-ri a cui dovevi stare appeso come un salame. Adesso per fortuna nostra siamo dotati di moderni camion con tanto di sensori per la sicurezza dell’o-peratore e con video camere sia dentro che fuori all’abita-colo di guida. Ai tempi che furono c’è scappato qualche morto, e a causa del buio che c'è al mattino presto sono suc-cesse anche queste disgrazie. Comunque alla fine il lavoro, lo deve sempre fare l’uomo quindi devi sempre stare lì a controllare quello che racco-gli, ci può essere di tutto nei sacchetti comprese cose peri-colose. Una volta senza saper-lo è stata raccolta una bomba della prima guerra che stava per far scoppiare il camion. Quindi devi sempre controlla-

re quello che raccogli. Dove non arrivano le macchine devi andare tu con le mani e ti capita di raccogliere di tut-to: vetri rotti, pannolini, escre-menti di vario genere tanto animali che umani, siringhe e via dicendo. Una volta un mio collega, confidandosi con me, sembrava vergognarsi di fare questo lavoro, ma io gli dissi: “A quarant’anni io sono comunque contento di fare questo lavoro, perché quan-do vado a dormire mi sento a posto con me stesso, per es-sermi guadagnato la giorna-ta così da non dover chiedere niente a nessuno”. Questo mi rende consapevole che sono anche fortunato ad avere un lavoro con i tempi di crisi di questo momento. Chiudo con il dire che questo lavoro, anni fa era un lavoro non ago-gnato, mentre oggi molti miei amici farebbero di tutto per farlo, pur di lavorare.

quella di tutti gli altri, invece in ogni casa, ogni camino ha le sue caratteristiche, quindi ti capitano pulizie che durano un’ora e altre che possono durare anche 3 o 4 ore. Lo stesso fatto di non essere mai nello stesso posto e di stare all’aria aperta mi fa apprez-zare questo lavoro. Se poi do-vesse piovere, lavoro ugual-mente, pulendo il camino dall’interno della casa.Oggi ci si sporca molto meno di una volta perché ci sono aspi-rapolvere molto potenti, ma a fine giornata, inutile negarlo, un po’ neri lo si è. Su e giù per le scale tutto il giorno, a fine giornata sei “cotto”, senza contare la pericolosità: spesso non vengono messe in atto tutte le normative di sicurez-za sulla abitazioni. Inoltre se succede qualcosa al camino dopo che io ho fatto la pulizia, per esempio prende fuoco o la canna fumaria è crepata per cui il cliente si intossica con il monossido di carbonio che fuoriesce, io sono respon-sabile penalmente: quindi bisogna prestare molta atten-

zione a quello che si fa e a come lo si fa. Diciamo che l’immagine pittoresca dello spazzacamino, cioè di colui che “dà una spazzata e via” che molti hanno non corri-sponde alla realtà. Spesso mi trovo a discutere con i clienti per la messa a norma della canna fumaria, operazione non sempre economica, ma necessaria per la sicurezza. In Friuli Venezia Giulia siamo circa una trentina di spazza-camini e i corsi per imparare a fare questo mestiere ven-gono organizzati in giro per l’Italia dalle due associazioni di categoria: personalmen-te ne ho fatto uno a Reggio Emilia e uno a Cuneo. All’ini-zio per me lo spazzacamino rappresentava un secondo lavoro, perché dalle 4 alle 13 ero impegnato con il lavoro che avevo in quel momento e, poi, dalle 13 a seguire par-tivo con la mia aspirapolvere a pulire camini. Per ben due anni ho fatto questa vita, fino a quando non ho deciso di mollare il primo lavoro e di fare esclusivamente il secon-

do: in quel momento ho de-ciso che avrei fatto solamente lo spazzacamino! Le attrez-zature per fare questo lavoro oggi sono numerose nel mer-cato e sono anche molto co-stose: telecamera, analizzato-re di combustione, macchina per la prova di tenuta e via dicendo. Alla fine però sono delle strumentazioni che ti consentono di ampliare i tipi di interventi e perciò di lavo-

rare tutto l’arco dell'anno: fino a febbraio-marzo lavori per le urgenze, mentre da aprile in poi, quando si spengono le stufe, lavori per le pulizie. Il mio lavoro si è costruito gra-zie al passaparola. Oggi a distanza di sei anni la zona che copro, territorialmente parlando, è molto ampia, an-dando da Gorizia a S. Stino di Livenza fino anche a Ci-molais.

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Decrescita Felice. Una panchina colorata è da poco disponibile per una pausa di lettura al sole. Il pallone di Luca corre tra le gambe delle mamme in visita al parco. Un soffice e caldo pa-nino integrale è stato appena sfornato dal panificio sotto casa. Decrescita è l’elogio della lentezza, della semplicità, della du-rata. Decrescita è tendere alla gioia e non al divertimento, col-laborare invece di competere. Decrescita è imparare a ricono-scere che non sempre il nuovo viene identificato con il meglio. Quando tutto cresce in economia, decrescita significa insegnare, per garantire a molti, se non proprio a tutti, che la diminuzione del consumo di merci non significa riduzione dei livelli di civiltà, ma anzi che possa diventare sostenibile da un punto di vista ecologico, sociale e civile. La decrescita diventa felice per noi quando, toccando il nostro denaro e non ancora la nostra pelle, ci offre l’opportunità concreta di riflettere sull’assurdo ritmo che ha assunto la nostra esistenza, sulla natura un po’ ambigua del nostro amore, più sbilanciato sull’ego: è una buona occasione per raddrizzare non solo il nostro costume, ma anche la qualità

Spesso ci troviamo a parlare o commentare problemi, di-savventure o sfighe assortite, nostre o altrui poco importa. Io invece vi voglio parlare di felicità. Bella parola vero? In inglese ha un suono ancora più dolce: felicity. Solo a pro-nunciarla ci si sente meglio. Ma noi quanto siamo felici? E quanto cerchiamo di esser-

FIABE DI VITA

DECrESCITA FELICESe tutto in economia cresce, diminuire il consumo di merci non significa ridurre il livello di civiltàdi Alberto Danesin

CELOX

Te la do io la felicitàIl primo passo verso il benessere è chiedersi se lo si desidera davvero

lo? Provate a immaginare un mondo in cui tutti sono felici e/o cercano di essere felici. Riuscite ad immaginare una cosa simile? Sarebbe un mon-do migliore se tutti fossimo fe-lici o pensassimo ad esserlo! Come reagite davanti a que-sti pensieri? State pensando: “Sarebbe bello ma è difficile, impossibile.” Sembra un po’

di Emanuele Celotto

Gino ormai scrive da solo, non ha più bisogno di me. È stato lui a cambiare questa rubrica, per parlare di ciò che più gli sta a cuore, che sente vicino. È un successo, per entrambi, perché ora lui cammina con le sue gambe, anzi scrive con le sue mani! Usa carta e penna e mi fa re-capitare il suo testo, rigorosa-mente in busta chiusa, presso la sede della Pankina. A proposito di gente ai mar-gini della vita… I “ragazzi” che conosco sono in qual-che modo difficili, cioè han-no nell’anima la difficoltà di vivere “normalmente”. Un po’ è colpa loro, lo sappiamo, perché non fanno niente per tentare di cambiare la loro condizione sfortunata, ma io credo che un’alta percentua-le di colpa sia di quei servizi, quelle istituzioni che in prati-ca non esistono, ci sono solo sulla carta, ma se hai biso-gno di loro difficilmente san-no rispondere. Eh già, sono ancora qua! Però che fatica vivere! A noi sem-bra sempre che tutto e tutti siano lì pronti a darci contro, mentre ti manca la terra sot-to i piedi: non c’è niente e nessuno a sostenerci nei mo-menti di massimo sconforto. Dicono: «Ti devi rendere con-to che niente viene con nien-te». E va bene, lo sappiamo. Però tutte le volte che con pa-zienza certosina e tanto tem-po sono arrivato a costruire il castello che sognavo, ecco che come dal nulla spuntano

mille problemi e tutto crolla come un bell’edificio fatto di carte, in quattro e quattr’otto. In quei momenti mi viene da piangere dal nervoso. Sem-bra che la vita si diverta con noi, ci illude per un attimo che qualcosa può davvero cambiare e invece no. Certo, non siamo nulla, noi che con fatica cerchiamo di ritagliarci un piccolo posto in mezzo a tanti problemi, in questa so-cietà avariata. Ma caspita, non è possibile che tutte le volte che cerco con le unghie e con i denti di dare una spinta agli eventi, qualcosa vada storto e spunti qualcu-no che mette i bastoni tra le ruote.Così non si va avanti, anche il più santo degli uomini perde-rebbe le staffe e la pazienza, finendo per combinarne una delle sue, dato che alla fine quello è l’unico modo per far vedere che c’è, che esiste! Su questa terra ci siamo anche noi. E saremo sempre di più, perché notiamo un chiaro aumento delle richieste di aiuto ai Servizi sociali del Co-mune di Pordenone, oppure alla Caritas, anche da fasce di popolazione che fino a ieri non ne avevano bisogno.Questo è un segnale impor-tante per la nostra città, che non va sottovalutato: è il termometro per misurare la qualità della nostra esistenza terrena.Ci sentiamo alla prossima con problemi vecchi e nuovi che assillano la nostra gente, NOI!!

COMUNQUE AI MArgINIA volte sembra che la vita si diverta con noi, ci promette castelli e poi li distrugge

di gino Dain e Elisa Cozzarini

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Fino a poco tempo fa ci si par-lava ad personam. Ora inve-ce, con i mezzi multimediali e non solo, si trasmette ciò che si vuol dire ad una persona o a un gruppo sempre utilizzando un qualche oggetto: che sia un telefonino, un computer o, in mancanza di meglio, van-no bene anche i muri. Proprio dai muri ho tratto qualche fra-se significativa per far presen-te il dato di fatto. Ma perché questo? O siamo ignoranti nel senso che non sappiamo parlare e relazionarci con gli altri o è una forma maschera-ta di vigliaccheria, in quanto la maggior parte delle scritte da me riscontrate sono per lo più negative. Beati i tempi delle lettere o delle cartoline firmate, in cui, almeno, vi era più discrezione e meno vol-garità. Non penso che questo modus operandi sia del tutto da attribuirsi ad una forma di comunicazione “telematica”, ma piuttosto che dipenda anche da una costumanza diffusa che parte non dalla base, ma da chi ci ha abi-tuati ad usare i mezzi per relazionarci con chi ci circon-da, ad esempio medici, inse-gnanti, giornalisti e soprattut-to i genitori stessi che invece di dialogare con i figli sono occupati ad usare gli ultimi ritrovati tecnologici. Questi ul-timi in poche parole rifiutano il dialogo, quindi il confronto ed in ultimo la responsabilità. Poi però finisce che si ritrova-no in casa degli sconosciuti che alla prima domanda esi-stenzialmente impegnativa non sanno come rispondere, e allora i ragazzi che fanno? Si parlano tra loro equivocan-do i vari tramiti della vita o si affidano al computer o a un telefonino, che sanno usare prima di imparare a scrivere. Come ho anticipato all’ini-zio di questo mio intervento, riporto qui di seguito a titolo di esempio qualche scritta trovata sui muri e sulle pan-chine di Pordenone: “Non far sapere al carabiniere quan-to è buono il fumo con le pere” (panchina di piazzale Ellero); “Quando il sole ti tira

per la camicia non regala-re la giornata al padrone (Prevert)” (stazione); “Negri di merda fora dai bai” (piaz-zale Costantini); “Birra, fumo e metadone pane quotidia-no di Pordenone” (panchina piazzetta del Donatore); “Vai cazzo (sottolineato)” (su una porta di una abitazione in via Fratelli Bandiera). In aggiun-ta a queste ci sono i vari “ti amo, ti mollo, sei sempre mia o tuo ecc." Comunque consi-glierei di soffermarsi, tempo permettendo, a leggere i ver-si scritti sui muri e sulle varie panchine. E poi vi è l’eterno “Gatto” (...), forse l’unica nota simpatica dei muri pordeno-nesi. Autore ignoto forse un po’ maniacale, ma ribadisco sempre simpatico. Quel bel gatto pacioso che ci ricorda i bei tempi delle vacche gras-se. La morale è che meglio gatti grassi che pantegane in giro per la città.

ZIO FrANCO

SCrIVIMELO SUL MUrOPer lo più negative, aumentano le scritte in città. Per provocazione o per vigliac-cheria, ecco come oggi si comunica

di Franco De Marchidel nostro sguardo sulla vita, sul mondo e sull’ambiente. Ciò può avvenire cominciando a rinunciare all’individualismo sfrenato e aggressivo degli ultimi decenni, per risvegliare l’etica buona e giusta come senso dell’esistere umano, per risvegliare il “noi” rispetto all’ “io”: il “noi” del piccolo volontariato, della reciproca assistenza, della familiarità del borgo e della vita di quartiere rispetto all’anonimato della grande città, della buona scelta nel consumo dei cibi, degli stili di vita durevoli. Il “noi” della realiz-zazione nella famiglia, in luogo dell’autorealizzazione dell’ “io” nel lavoro. Se l’economia stimolasse il passaggio dal concetto del lavoro come produzione a quello di lavoro come servizio, dove la produzione considera non solo beni e merci ma anche l’erogazione di tempo, cura e relazione, arriveremmo in breve a sviluppare una domanda concreta di lavori orientati al servizio per la persona, alla relazione tra le persone. Arriveremmo cioè a chiedere tempo libero invece che denaro e benefit materiali, giungeremmo ad emancipare l’uomo dai condizionamenti eco-nomici strumentali riconsegnandogli la propria dignità.

strano visto che tutti vorremmo un mondo migliore e vorrem-mo essere felici. Ma noi cosa facciamo perché il mondo sia migliore? E per essere fe-lici? Vorremmo cambiare tan-te cose “ma”. E in quel “ma” ci sono tutti gli impedimenti, paletti e preconcetti che non ci permettono cambiamenti. Manteniamo sempre gli stessi atteggiamenti e modi di pro-porci nelle relazioni, amicizie, lavoro, denaro e via discor-rendo. Ci aspettiamo che la nostra realtà e il mondo in-torno a noi cambino, ma noi restiamo sempre uguali come se la cosa non ci riguardasse minimamente. Facciamo la voce grossa quando si tratta delle nostre idee e necessità, ma quando idee e necessità sono quelle degli altri siamo vicini alla sordità completa. Possiamo sperare che i nostri rapporti personali migliorino, se continuiamo a proporci sempre allo stesso modo ver-so gli altri? A volte siamo pro-prio decisi a tentare un cam-biamento e lo facciamo: ma come? Se il nostro approccio e stato d’animo è: “Io ci pro-vo ma vedrai che non servirà, non migliorerà", o cose simili, andiamo incontro a un fal-limento sicuro perché è quel che ci aspettiamo. Quando ci avviciniamo in modo diverso e con l’animo ben disposto, ci aspettiamo un ritorno im-mediato. Subito partiamo col

dire: “Vedi io ci ho provato, ma". Ed eccoci pronti per tor-nare ai soliti schemi di pensie-ro. Non abbiamo un minimo di pazienza e non lasciamo alle cose il tempo di accade-re. Il mondo inizia a cambia-re quando il cambiamento comincia da noi, dal nostro modo di proporci, di pensare. Ma tutto questo non può ac-cadere in poche ore o pochi giorni. Credo che, in un mon-do migliore, tutti sarebbero più felici, ma tutti sarebbero più felici se pensassero a costrui-re la propria felicità invece di inseguire quella che ci viene gli altri. Ma, comunque la vediate: auguri per la vostra felicità! Anzi, prima di chiude-re aggiungo che, se fossimo felici non avremmo bisogno di annegare la nostra infeli-cità in droghe, alcol, cibi, né di stressarci col lavoro o altro. Nessuno si sentirebbe infelice perché troppo magro, grasso, alto, basso, brutto. Il denaro non sarebbe un problema quindi niente ladri, guardie, poliziotti, carabinieri, prigioni. Niente droghe, niente comu-nità terapeutiche, Sert, dottori, infermieri, psicologi, educatori e compagnia cantante. Nien-te palestre e centri fitness per-ché saremmo felici di come siamo. Bello vero?? Ma poi, che fine farebbero tutte que-ste professioni? Siamo sicuri che queste persone sarebbe-ro felicemente disoccupate?

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Devo assolutamente anda-re a Pordenone e soldi in ta-sca zero. Vado in garage, mi guardo attorno e penso: "Ci vado in bici". Arrivato a Fon-tanafredda ho già il fiatone,

IL MONDO VISTO SU DUE rUOTENon costa nulla, rispetta l’ambiente e ti fa fare movimento all’aria aper-ta. I vantaggi della biciclettadi Andrea Zanchetta

ma non è il pedalare a pe-sarmi. Uscire dall'abitacolo, protetto dai vetri, passare dal-la mia carrozza privata alla sella di una bici, mi fa sentire più vulnerabile. Da Sacile a

Pordenone in bicicletta come me, nessuno. Ad usare la due ruote siamo in pochi e tutti co-stretti dagli eventi: ricordo che io stesso fin che ho potuto sce-gliere, ho scelto sempre l'auto anche se dovevo percorre-re poche centinaia di metri. Quando suona la sirena al mattino, per raggiungere le fabbriche in periferia sulla due ruote vedo solo africani o asiatici, ma non credo che la causa dello scarso utilizzo della bici sia il freddo. Ricor-do infatti due mesi che ho trascorso a Copenaghen per lavoro: a gennaio e febbraio, non occorre dirlo, nevicava tutti i giorni, eppure, soprat-tutto i giovani praticavano molto la bicicletta. Notai che i copertoni erano in gomma piena e in una capitale di ol-tre un milione di abitanti non soffri mai di una coda per il traffico. Spingendo sui peda-li ho l’occasione di osservare molte cose, per esempio che una buona parte degli auto-mobilisti considera la strada ad uso esclusivo, non pensa che un pedone o un ciclista sia un fruitore della stessa con pari diritti. Scopro, sempre pe-dalando, che utilizziamo fossi e bordi stradali come fossero cestini per l'immondizia. Sco-pro che le eccezioni ci sono e funzionano: a Venezia, nei ca-nali, i mezzi lenti a remi han-no la precedenza sui natanti veloci a motore, purtroppo scopro anche che l' inquina-mento dell'aria è una realtà,

non occorrono centraline per la rilevazione dei Pm10, su certe strade diventa realmen-te fastidioso respirare, tanto che se non ho particolare fret-ta scelgo una strada alterna-tiva meno trafficata anche se più lunga, poi, può sembrare impossibile, ma ho scoperto che su tratti di strada inferio-ri ai 15 chilometri la bicicletta batte treno, autobus e auto. Direte: “Impossibile”, ma se pensate al treno lo aspettate in stazione almeno 10 minuti e vi lascia in un'altra stazione, dalla quale poi raggiungete a piedi la destinazione desi-derata. Stessa cosa vale per il bus, anche se le fermate sono più capillari; per l' auto - devo essere sincero - dipende da quanto ci metto a trovare par-cheggio e da quanta coda subirò, ma a volte su tratti cor-ti, bicicletta batte anche auto. Sono anni ormai che utilizzo quasi esclusivamente la bi-cicletta e ora un'auto usata potrei anche permettermela, ma scelgo di continuare cosi, anche se quando piove è una scocciatura. Sono felice di non essere soggetto agli aumenti del carburante, con-tento di non inquinare nel mio piccolo e faccio spinning tutti i giorni senza iscrivermi in pale-stra. Sono sicuro che gli operai asiatici e africani che vede-vo al mattino raggiungere la fabbrica, al primo stipendio compreranno un'auto e non perché non ne possano fare a meno.

Pordenone, ritenuta dai più una città moderna, ha inve-ce radici storiche molto an-tiche risalenti ai primi anni della Serenissima Repub-blica di Venezia, alla quale si deve la costruzione della maggior parte, se non di tut-to il centro storico. Ancor pri-ma della Serenissima, Porde-none era comunque luogo di transito per tutti i commerci da e verso il nord Europa e l’Oriente. Passeggiando per le vie del centro, possiamo osservare anche il castello di Pordenone, adibito ormai da

VIA IL CArCErE DAL CASTELLOSovraffollato com’è non fa il bene del detenuto né della cittàdi Dario Castellarin

DI-DArIO

molti anni a Casa circonda-riale. Costruito attorno al 1254 per volere dell’Imperatore, era costituito prima da un unico maniero che ospitava gli arti-glieri, poi fu aggiunto un ridot-to fortificato. Ora non voglio soffermarmi tanto sulla storia del castello di Pordenone, ma piuttosto sul fatto che questo sia una casa circondaria-le. Questo peCché non molti anni fa, circa nel 2002, sem-brava ci fosse la possibilità di costruirne una nuova nella periferia della città, costruzio-ne che a mio modo di vede-

re sarebbe opportuno fare. Sì, perché i detenuti dell’attuale castello non credo se la pas-sino molto bene dovendo tra-scorrere degli anni in un am-biente angusto come quello in cui si trovano: è quasi o del tutto privo di spazi ricreativi, dove si possano creare dei corsi a vario titolo, da quelli professionali, dove i detenuti possano imparare un mestie-re, a corsi di teatro con spazi adatti a questo scopo ed al-tro. Basti pensare che in que-sto carcere non esiste un vero e proprio campo di calcio o calcetto, una vera palestra. Quello che esiste è ricavato “disperatamente” da piccoli spazi non utilizzati come celle: ce ne sono appena due o tre. Si pensi che la zona d’aria è così piccola che se qualcuno vuole giocare a pallone in-tralcia chi magari preferisce semplicemente camminare. Le celle, anche queste per la maggior parte piccole, hanno più colonne di letti a castello che arrivano a quattro letti per colonna. Insomma i dete-nuti del carcere di Pordenone,

perennemente sovraffollato, sono privati delle strutture ri-creative più elementari, fatto che non permette a pieno la loro rieducazione e che li priva di una normale qualità della vita. Vengono solo sti-pati lì in attesa del fine pena. Ciò, in un paese civile come il nostro, non è giusto! Ma tanto la gente non vede, non sa; e allora è meglio spendere mi-lioni di euro là dove non ce n'è bisogno, costruendo nuo-ve rotonde o piazze inutili. Io non ci sto!! E allora penso, per-ché non costruire un nuovo carcere che dia i giusti spazi e la giusta dignità ai detenuti, i quali sarebbero di certo grati di ciò? Cosi facendo si potreb-be anche restituire il castello di Pordenone alla sua città, ri-strutturandolo e adibendolo a museo che racconti la grande e antica storia di Pordenone e dei paesi limitrofi (storia che ai più sembra essere scono-sciuta) con sale per mostre artistiche, convegni e via di-cendo. Pensateci bene gente, sarebbe come prendere due piccioni con una fava!!

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E’ questione di senso civicoContro chi non rispetta l’ambiente è necessario che l'autorità applichi sanzioni duredi giuseppe Micco

L'OBIETTIVO

Molte volte, girando per la cit-tà di Pordenone, mi soffermo davanti ai cassonetti della raccolta differenziata, rifiuti ri-posti a casaccio e immanca-bilmente sacchetti alla luce del sole: come a dire che il senso civico è dimenticato in pancia alla mamma e come sempre accade i colpevoli la fanno franca. Porre rimedio a tutto ciò non è semplice, ma noi proviamo a fare una ri-flessione usando la penna. Se i controlli fossero fatti in ore non convenzionali qual-che colpevole sarebbe colto con le mani nel sacco e forse qualche multa sarebbe utile per scoraggiare questo mal costume, che ormai è diffuso in qualsiasi angolo cittadino. Le strade della città sono di-venute una discarica a cielo aperto: cartacce, mozziconi di sigarette, plastica, ogni mal di dio. In tutto questo chia-mo in causa la famiglia, la scuola e in generale tutti co-loro che dovrebbero avere il compito di formare un senso civico. La propensione al vi-vere sano, pulito e nel rispetto delle persone e dell’habitat in cui viviamo lentamente si sta perdendo, rendendo più difficile il piacere per la vita stessa. Ormai nelle fami-glie si vede sempre più di rado, ad esempio, la figura dell’anziano, di colui il quale cioè dispensa utili consigli di vita, conditi da preziosa sag-gezza. Ho l’impressione che questo tipo di sapere sia in fase di estinzione, in virtù di un emancipazione priva di senso capace solo di peggio-

rare le cose. Personalmente non mi sento di appartenere a questo mondo dove se hai puoi e se non hai sei vittima del sistema. Sono convinto che non si cura il senso civico con la sanzione, ma piuttosto con una sana educazione alla vita. Tanto per non an-dare troppo lontano dal tema del rapporto tra ambiente e senso di civiltà, che dire dei bagni ovunque sporchi, bar, bagni pubblici - se ce ne fos-sero almeno - giardini pub-blici sporchi e saccheggiati. Eppure per la salvaguardia di queste “necessita” fisiolo-giche le soluzioni ci sono, e si chiamano bagni ecologi-ci da un lato e telecamere dall’altro. Problema risolto e colpevoli individuati. Chi però ha il compito di adottare queste soluzioni brancola nel buio, ma lo stipendio non lo dimentica. Meditate gente. Dulcis in fundo, per i così detti amanti degli animali, vedo spesso negli angoli cittadini i bisogni dei fedelissimi amici a quattro zampe, io mi chie-do: “Possibile mai che con tutti questi controlli, vigili urbani, ronde, poliziotti di quartie-re, non si riesce a trovare un trasgressore”? O magari sono solo io quello che vede male-ducati in giro. Forse sarebbe il caso di migliorare questi lati del nostro vivere quotidiano. Mi rivolgo soprattutto a chi ha il compito di sorvegliare per garantire la tutela dell’am-biente: sanzionate ogni tanto i trasgressori, in modo tale da scoraggiare questi atti di inci-viltà e di maleducazione.

-Buon giorno, chi elo l’ultimo par piaser?- -Son mi l’ultimo Plinio, ghe se prima la signora e la ragassa, poi mi e dopo ti- -O Silvio sotu qua anche ti, no te avevo visto- -Si son vignuo a cior le pa-stiglie pa la femena, la ga un’ongia incarnia e no la pol caminar, e lora son vignuo mi, ma ti cossa fatu qua, statu mal? Te ga na faccia..- -No no son qua a farme dar na crema pal sindaco che l’ha el fogo de S. Antonio. Ma te savessi cosa che me sé apena successo, ma robe da matti.. robe neanca da creder! Stamatina come che rivo in comun el me vien in-contro Enore el postin el me fa: “Ciapa qua, va de corsa a portarghe ste carte a la Maria Cirimpel che l’è da ieri che i le speta”. Va ben, l’è el me la-voro no!? E lora ciapo su la lambreta e vado a casa sua. Sono el campanel.. “Chi elo?” “Son mi Plinio el messo comu-nal” la vien a verser “Cosa vutu?” “Maria son vignuo par le-carte” ou, la me ga molà via un sberlon.. che me fiscia ancora le recie. Ma robe da mati.. cosa gala capio?- -Eee veistu le femene, le ga la testa sempre la e le pen-sa mal, e dopo le dise de noi omeni che ragionemo sol che co quel, lore invese...- -E peta, dopo co la ga capio miga chieder scusa! Nooo, la ga ciapà le carte, sbatuo la porta e buona notte, sensa ne buongiorno ne buona sera, figurarse un grasie. La pros-sima volta ghe dico a Enore che’l vadi lu a portarghe le carte a quela mata li, lu e quel brombol de John Waine el vigile che no pos vederlo, el se crede el sceriffo de Tuc-son, ma invese lè sol che un mona- -Si si disè tutti così, quando che no l’è però, e dopo nisun el ghe dise niente, gavè pau-ra- -Chi paura? De quel li? Ma figurete. Mi si che ghe lo di-ria in faccia quant mona che l’è, altro che. L’è perché no l’è qua sennò te faria veder mi, e volentieri anca- -Ben te son fortunà alora per-ché l’è entrà proprio in questo momento. Buon giorno sior vigile, el vardi che ghe sé Pli-nio qua che l’ha qualcosa da dirghe- -Cossa ditu?? Tasi suu!- -Buon giorno, el me dighi Pli-nio-

EL CANTON DE gUErI

DAL DOTTOr-No volevo dirghe che... che... grasie Silvio eh! No volevo dirghe... che ieri son andà a pescar sul laghet de Ama, ho ciolt su la barca de Gigi Sbicego, quel delle pompe funebri. Però el motor el me ha piantà proprio in meso al lago, e no l’ha più voluo sa-verghene de ripartir. No save-vo più cossa far, ho provà a mover el timon e ho vist che andavo avanti, e l’ora timona timona timona son rivà fin a riva. E ghe disevo appunto a Silvio qua, che Sbicego no l’ho ancora visto e che saria da vertirlo che el motor lè da portar dal meccanico, so che s’è amici e l’ora..- -Va ben ghe lo digo mi, ma chi che’l paga el conto?- -El conto?- -Si el conto si. Se i lo ha rotto lu el deve anche pagarlo lu- -No ma noo.. no l’è ver.. no l’è veramente el caso ch’el se di-sturbi, el lassi perder va che me rangio mi, grasie lo stes e buon giorno- -Buon giorno na sega, ela sua la lambreta la de fora messa de travers sul marciapie?- -Si l’è mia, ma son qua per servisio- -No me interessa niente, i la tiri via senò fasemo tut un conto col meccanico- -No no ociu ociu che vado via, ghe dirò al sindaco che’l se fai impacchi co acqua e sal che fa sempre ben. Ciao Silvio e grassie ancora satu! Però te ga visto ah?! Ociu che vado in tabacchin a cior el sal, almanco che porto quel al sindaco. Grassie anche a lu sior vigile, l’è sempre un piacere- -Ara che vegno a veder dove che te mete la lambreta. Atento eh!

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Alle 8.30 di lunedì, come al mercoledì e al venerdì, c’è l’entrata degli utenti al Servi-zio di Alcologia dell’ospeda-le civile di Pordenone, diretto dal medico Paolo Cimarosti. Io sono uno di questi e seguo con regolarità tutte le attivi-tà che vi si svolgono: attività nelle quali mi sento anche valorizzato in quanto a vol-te vengo chiamato in causa come supporter, e per me è una soddisfazione personale. La metodologia degli incontri consiste in ciò: alla presenza di un operatore viene posta una domanda al gruppo, alla quale tutti sono tenuti a rispondere e a dire la loro. Però le domande escono da noi utenti stessi. Ognuno per conto proprio ce le preparia-mo e poi le presentiamo alla discussione del gruppo. Posso-no essere di qualsiasi genere, purché inerenti sempre alla realtà dell’alcolista. Questo

avviene per un’ora, poi inter-viene un’altra persona dello staff che ci fa interagire tra di noi con vari metodi allo scopo di dare al gruppo una linea di autogestione. A seguire arriva il momento del dottore con i suoi metodi di intervento che possono andare dall’esporci i danni che provoca l’alcol allo stimolare l’ennesimo confron-to tra noi, ma con temi questa volta indirizzati da lui. Perso-nalmente trovo beneficio da questi colloqui, anche se le risposte sono sempre le stesse, fa comunque piacere parlar-ne. Il venerdì poi è un giorno particolare, in cui un’assistente sociale si propone anche pro-iettando diapositive inerenti ai danni causati dall’alcol sotto vari aspetti: famiglia, amici, la-voro. Il percorso di trattamento dell’alcologia consiste in 120 giorni di astinenza assoluta, dopo di che si rimane a far parte del club come alcoli-

DIPENDENZE

Quei 120 giorni senza toccare un goccioFondamentale nel percorso di recupero è il confronto e il dialogo nel gruppodi The Voice

Mentre tutte le altre sostanze che provocano dipendenza e problemi di salute e relazio-nali (fumo, eroina, cocaina, amfetamine, cannabinoidi e così via) sono stigmatizzate e i loro effetti sono ben chia-ri, lo stesso non succede per l’alcol che, di volta in volta, si chiama birra, vino, cognac quando viene presentato nei suoi effetti psicoattivi miglio-ri e di lubrificazione sociale; diventa alcol quando crea incidenti stradali e sofferenze nelle famiglie e nel fisico. In realtà, l’alcol e le bevande al-coliche restano un problema anche quando non siamo in

L’alcol in cifre In Europa più di un incidente su 4 è causato dall’uso di alcol alla guida, oltre un decesso su 4 tra i ragazzi e uno su 10 tra le ragazze è causato dall’alcol. L’alcol è la prima causa di morte tra i 15 e i 29 anni. Nel 2009 il 12,4% dei maschi ed il 3,1% delle femmine italiani di 11 anni e più hanno dichiarato di aver consumato, almeno una volta negli ultimi 12 mesi, 6 o più bicchieri di bevande alcoliche in una sola occasione. In Italia, dopo i 15 anni si consuma una media di 8,02 litri pro capite di alcol puro. Stando al Rapporto sui problemi alcol correlati del dicembre 2010, in regione la percentuale di consumatori di bevande alcoliche (83,8%) è superiore alla media nazionale (81,0%); mentre i decessi di pazienti ospedalizzati per patologie alcol-correlate, nel 2008, sono stati 594. Il servizio di Alcologia dell’ospedale di Pordenone segue circa 220 persone di cui ol-tre 100 stabilmente inserite nel Dispensario Alcologico. Oltre 70 sono le persone viste in consulenza nei reparti ospedalieri, 50 le relazioni su richiesta della Commissione Medica Patenti, 17 gli inserimenti nel modulo alcologico della Rsa di Sacile.

Tanti nomi, un unico effetto: fa male alla saluteBirra, vino o cognac se fa divertire. Diventa alcol quando è causa di incidenti e sofferenzadi Paolo Cimarosti, responsabile Servizio Alcologia di Pordenone

presenza di alcol-dipendenza conclamata, basti pensare ai numerosi incidenti stradali che coinvolgono i giovani al fine settimana: giovani auti-sti che non sono alcol dipen-denti, ma che hanno sempli-cemente cercato di passare una serata in allegria secon-do i dettami della nostra so-cietà. Ricordo, inoltre, che spesso il commercio tende ad enfatizzare e qualche volta anche a mistificare gli effetti positivi delle bevande alco-liche a scapito della salute pubblica e privata. Ne sono un esempio a questo propo-sito i numerosi luoghi comu-

ni sulle bevande alcoliche: riscaldano, dissetano, tirano su, tirano giù, danno forza, fanno sangue, migliorano i cibi, fanno stare bene in com-pagnia, fino al recente ruolo fondamentale del vino rosso nel prevenire l’arteriosclerosi ed altro! Intanto l’Organizza-zione mondiale della Sanità definisce puntualmente la pe-ricolosità dell’alcol ed esclude intere categorie di persone dal consumo: chi guida, chi è in gravidanza, chi ha pro-blemi psichiatrici, chi ha pro-blemi di fegato, chi è epilet-tico, chi è minore, chi svolge lavori pericolosi, chi ha già

avuto problemi di dipenden-za . Per questi motivi la defini-zione “problemi e patologie alcol-correlate” (Ppac) ben si addice agli effetti dannosi dell’alcol. Va inoltre ricordato il ruolo dell’alcol come dro-ga-ponte, sempre presente anche durante l’uso di altre sostanze quali cocaina, amfe-tamine, eroina, cannabinoidi e farmaci. Potrebbe perciò sembrare superfluo, ma è importante ribadirlo, citando i dettami dell’Oms: “Meno è meglio”. Meno si consumano bevande alcoliche, meno si andrà incontro a rischi e pro-blemi.

sta anonimo. Qui gli incontri sono a cadenza settimanale, si parla delle problematiche che ognuno di noi può vivere, non necessariamente legate all’alcol. Possono essere sul la-voro piuttosto che sulle difficol-tà della famiglia o della vita di tutti i giorni. È importante continuare ad avere rapporti tra noi alcolisti, perché avere una storia in comune ci ren-de consapevoli di quello che siamo e ci fa stare con i pie-di per terra. A mio modo di vedere, guarire dall’alcolismo è una parola grossa, perché la ricaduta è sempre allerta, siamo alla stessa stregua del-

la tossicodipendenza. Ci sono anche molti alcolisti non con-sapevoli di avere questo pro-blema. Io vedo che da noi la grande maggioranza degli utenti inizia la cura in segui-to a malanni fisici o ricoveri, a partire dai quali queste persone vengono messe dai medici davanti alla realtà: ALCOLISMO. Per quello che mi riguarda la dipendenza è superata. Ora frequentan-do il Servizio di Alcologia e i Ragazzi della Panchina cerco di uscire dal problema dell’al-col e di avviarmi di nuovo a quelle normali realtà di vita che vivono tutti gli altri.

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L'APPrOFONDIMENTO

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DIVErSAMENTE gIOVANE

Da quest’anno, per andare in pensione di anzianità, si deve toc-care quota “96”: ovvero può andarci chi ha compiuto 60 anni di età e ha 36 anni di contributi o 61 anni con 35 anni di contributi. Dal gennaio dello scorso anno, infatti, in base alla cosiddetta legge Damiano, c’è una duplice condizione minima da rispet-tare: l’età anagrafica e l’età contributiva. Da quota “95”, in un anno si è passati a quota “96”. Finita l’epoca delle pensioni co-siddette “baby”, con la riforma pensionistica che gradualmente alza l’età pensionabile, è destinata a cambiare anche la figura dell’anziano. La crisi economica, con il venir meno del potere d’acquisto del denaro e con le enormi sacche di disoccupati o cassaintegrati che si vanno creando, soprattutto tra i giovani, ci pensa a fare il resto: sempre più genitori in pensione si vedono costretti a continuare a “prendersi cura” dei figli già adulti. Per chi la pensione se la può godere in salute c’è poi spesso, accanto al piacere, sempre più il “dovere” di fare i nonni baby sitter a tempo pieno per consentire ai figli che un lavoro ancora ce l’hanno di mantenerselo. I tagli, ancora una volta finanziari, anche alle casse degli enti pubblici fanno diventare inoltre oro prezioso l’ap-porto del volontariato laddove il pubblico non ce la fa a fornire servizi: il tempo libero dell’anziano che voglia mantenersi anco-ra attivo è perciò spesso impiegato per gli altri, gratuitamente.

Prezioso diventa così il nonno vigile, il nonno che si dedica ai trasporti degli anziani o dei disabili non autosufficienti, il nonno che organizza momenti di aggregazione e svago per altri nonni. Non solo, finalmente fuori dalle logiche frenetiche del mondo lavorativo, gli over 65 di oggi rispolverano interessi ed hobby ai quali prima non avevano tempo da dedicare. Amano il ballo, le chiacchiere tra coetanei, il caffè con le amiche, ma sempre più diventano preziose risorse per una società che non solo annaspa sul fronte dei valori, ma che si trova in difficoltà anche sul piano della quotidiana sopravvivenza. L’anziano oggi rappresenta oltre il 20 per cento della popolazione: fino a qualche tempo era visto in un ottica di problematica, oggi è piuttosto una risorsa sociale. Studi e ricerche testimoniano che il contributo che gli anziani – se in salute - riescono a dare ai più giovani in termini di sostegno e attenzione, soprattutto per i nuovi nuclei familiari che si forma-no, è fondamentale per lo sviluppo sociale. Al di là della classi-ca fotografia dell’anziano assistito perché non autosufficiente, in questo numero di Ldp ci siamo perciò interrogati sull’altra parte della popolazione anziana che ci circonda. Lo abbiamo chiesto direttamente a loro, ai pensionati: cosa succede una volta che non si lavora più? Ecco come hanno risposto. (In foto gli ospiti di Casa Colvera di Pordenone)

di Milena Bidinost

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Terza Età, seconda giovinezza

Io sono andata in pensione ancora giovane, controvoglia. Avevo due bambini molto piccoli che non sapevo più dove “posteggiare” durante le ore di lavoro: il lavoro di inse-gnante, che mi piaceva e che svolgevo con passione. L’asilo nido - secondo le promesse di chi gestiva il piccolo comu-ne dove abitavo - avrebbe dovuto già esserci quando è nato il primo figlio, invece non c’è stato neanche per il secondo. Mi sono arrabattata per un po’ con l’aiuto di mia madre e poi di una vicina di casa che teneva dei bambini a pagamento, ma ad un cer-to punto, d’accordo con mio marito, ho deciso di accettare l’opportunità del baby-pen-sionamento che lo stato mi offriva e così ho chiuso col la-voro. Quello fuori casa per lo meno. Perché gestire la casa e due bambini non è proprio un dolce far niente. Svolge-vo anche qualche lavoretto extra, che mi permetteva di “arrotondare” e mi faceva sentire sempre in movimento. Cresciuti i bambini, ho ripreso l’insegnamento presso scuole private e mi sono dedicata a vari tipi di volontariato: il periodo più lungo e più inte-ressante è stato con i Ragazzi della Panchina, che mi han-no tenuta in “servizio attivo” per quasi 10 anni.Finché, all’improvviso, è suc-cesso quello che prima o poi doveva succedere: uno si sveglia un mattino e si rende conto che i figli sono cresciu-ti e si arrangiano, il marito è stato rispedito al mittente, il gruppo ce la fa benissimo con altre persone e di cose proprio necessarie, di dovere, non c’è nulla. La giornata è tutta libera, tutta mia… che respiro! Niente orari, nessuno da accontentare, il tempo è tutto assolutamente da ge-stire e godere in proprio. Fi-nalmente. Eppure… Si sente

un vuoto, una sorta di spae-samento. Bisogna ricostruire abitudini e relazioni e, cosa più difficile e più importante, guardarsi dentro. Ecco, il vero e proprio pensionamento lo considero questo.Forse mai come a questo punto si sente la necessità vi-tale di un profondo amore di sé. Senza essere amici di se stessi, le amicizie che si han-no intorno sarebbero solo un riempitivo. Che fare allora? Si può pian piano riprendere il filo interrotto di sentimenti, desideri, progetti e speranze che la cosiddetta vita attiva ci aveva fatto mettere in un cantuccio. Si può cominciare a riconoscere e dare credito a tutto il groviglio del pro-prio mondo interiore, a dare il nome a desideri amarezze e rimpianti… Fare esercizio di amore ascoltandosi, dan-do riconoscimento e spazio alla propria interiorità. Tutto di noi merita di essere ascol-tato. Allora questa desiderata e temuta età della pensione, che porta con sé un po’ di solitudine e obbliga a fare i conti con il proprio mondo interiore, e chiede la fatica del ricominciare, può diven-tare un’età d’oro. Amandosi, si può perfino realizzare qual-che progetto che era stato ri-posto nel cassetto e rischiava di non uscirne più: un libro, un blog, un forum, un corso di studi prediletti, un viaggio, i film del sabato, un circolo di lettura con le amiche… Eser-citando l’attenzione per se stessi, forse si riesce anche a darla alle altre persone e si può spandere un po’ di amo-re intorno, come un profumo discreto, che si fa presente senza rubare spazi. Questo è il mio pensionamento o per lo meno quello che cerco che sia; le mie amiche pensiona-te che hanno nipotini da ba-dare potrebbero dire qualco-sa d’altro.

Pensione, ricomincio da quidi Franca Merlo

Nella stanza di Elsa, al primo piano di Casa Colvera, le foto di fa-miglia sono perfettamente allineate sulla mensola. Sopra al letto rifatto ci sono i peluche dei suoi nipotini e dal terrazzo arriva il profumo dei fiori che lei cura con tanto amore. Insomma, dentro e fuori dalla stanza, nulla è lasciato al caso. “Ho scelto di venire a Casa Colvera tre anni fa - racconta Elsa - era un brutto periodo, ma qui sono rinata, ho ricominciato ad avere una vita sociale”.Nella struttura di via Colvera a Pordenone, assieme a Elsa, vivo-no altri undici anziani e durante il giorno possono essere accolte sei persone in più. “Il nostro è un servizio diverso da quello a cui siamo abituati, perché è una via di mezzo tra l’assistenza domici-liare e la casa di riposo. L’esperienza viene dal Nord Europa ed è stata adattata al territorio pordenonese su iniziativa del Comune, che ha pagato la ristrutturazione”, spiega Michela Carlet, della cooperativa Fai, che ha in gestione Casa Colvera.Elsa, Sergio, Roberto e gli altri hanno tutti personalità forti: han-no deciso da soli di affrontare la nuova avventura di una vita in comune, perché a casa cominciavano a incontrare le prime difficoltà. “Stare qui, dove c’è un operatore sempre a disposizio-ne, 24 ore su 24, dà sicurezza a chi comincia ad avere paura a stare solo di notte o ha bisogno di piccoli aiuti di tanto in tanto” continua Carlet.Non ci si annoia, a Casa Colvera, dove la vita è scandita da tanti appuntamenti di routine. Alle 7.20 Elsa si alza dal letto, ma scende a fare colazione solamente un’ora dopo: prima prende il suo tempo per la toilette personale e per sistemare la stanza, che deve essere sempre impeccabile, come vuole lei. L’altra Elsa, in-vece, si mette a tavola molto presto, assieme a Orazio e Roberto. “Se arrivo tardi il caffelatte non è più caldo come piace a me,

A CASA COLVErA, OSPITI DI NONNA ELSA, OrAZIO, rOBErTO …di Elisa Cozzarini

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L’esperienza che ho fatto all’interno di un’associazione di volontariato del porde-nonese, dove da volontario organizzavo e proponevo ad un gruppo di anziani pomeriggi di balli, giochi di società e momenti di appro-fondimento culturali, non solo mi ha arricchito dal punto di vista umano, ma ha creato dei forti legami con i parteci-panti stessi, occasioni tutt’ora di confronti e scambi di opi-nioni sull’essere “pensionati oggi”. Un’esperienza che mi ha permesso di meglio ca-pire la realtà di noi over 60, pensionati in salute, che se non riusciamo più a stare al passo di un mondo del lavo-ro sempre più veloce e tec-nologico, abbiamo ancora voglia ed energie per impe-gnarci in altre forme di attivi-tà, allo stesso modo utili a noi e agli altri. Innanzitutto sono stato favorevolmente colpito dall’attenzione che gli anzia-ni dedicano alla gestione del proprio bilancio economico famigliare. Sono molto infor-mati sui prezzi dei vari beni. Ci sono persone che fanno bastare, ovviamente rinun-ciando a molte cose, anche le pensioni minime. Poi la so-lidarietà, sempre disposti, sep-pur con le forze limitate, a dar una mano. Ma la cosa più importante è il dialogo, cioè la possibilità di essere ascolta-ti e di ascoltare. Le tematiche sono prevalentemente fatti o eventi famigliari, poi tutto il resto, dalla politica, alla reli-gione, alla cronaca. Durante questi pomeriggi estivi, fre-quentati prevalentemente da over 70, la settimana era sta-ta organizzata in modo tale che ogni giorno ci fosse un evento che potesse attirare attenzione. Oltre al gioco del-la tombola, quasi giornaliero, venivano dedicati intervalli per la partecipazione a tor-nei che si prefiguravano un premio al raggiungimento di obiettivi. Veniva premiato il miglior proverbio del giorno, gli indovinelli, le frasi di senso significativo costruite parten-do da un nome e così via.

Terza Età, seconda giovinezza Lo scopo era il cercare una

sana competizione legata, non ad uno sforzo fisico, ma ad uno intellettuale o di me-moria. C’erano anche i giorni dedicati ai racconti, novità, gossip. Ogni giovedì c’era il ballo, il giorno clou o quel-lo più frequentato e gradito. I partecipanti, rispetto ad una presenza media giornaliera di 30/40 persone, quel giorno generalmente raddoppiava-no, se non triplicavano. La frequenza era prevalente-mente data dalle donne: gli uomini erano sempre insuf-ficienti e per questo contesi. L’allegria non mancava e il costo era un’offerta facoltati-va volontaria per recuperare quelle spese che venivano sostenute per bibite, stuzzi-chini o quant’altro. Spesso, le donne contribuivano con dei dolciumi fatti da loro stes-se, molto graditi da tutta la platea (andavano a ruba!!). C’erano gli amanti del ballo che non si staccavano mai dalla pista, ma la maggior parte dei partecipanti cerca-va un colloquio, lo stare insie-me, più che un ballo. I nostri anziani amavamo poi molto anche le iniziative nelle quali venivano coinvolti i giovani: iI saggio musicale per giova-ni pianisti, per esempio, era sempre ben frequentato così pure i pranzi o le cene in cui venivano invitati come ani-matori o camerieri, i giovani.Nel mondo degli anziani televisione e internet sono utili, così pure l’assistente so-ciale o la compagnia della badante, ma sono sempre di complemento. Purtroppo i figli vuoi per lavoro, vuoi perché lontani, possono sem-pre meno occuparsi di loro. Il volontariato se fatto bene, ovvero senza ambizioni politi-che o di visibilità, è la strada maestra per il loro sostegno. Non sono necessari corsi, ma solo un po’ di sacrificio e tan-ta buona volontà e il saper coinvolgere gli anziani stessi, in compiti anche banali sa-pendo che queste esperienze portano solo arricchimento umano ..

Ballo, gioco e chiacchiere Il tempo libero degli anzianidi Paradis

per quello mi alzo alle 7!”, scherza Elsa. “L’orario della colazione è flessibile, mentre i pranzi e le cene si fanno assieme, proprio come succede in una qualsiasi famiglia”, racconta Lena Maman, una delle quattro operatrici socio sanitarie impiegate nella strut-tura. Qui la mattina è tutto un va e vieni, soprattutto se il tempo è bello. Spesso passano famigliari o i volontari del quartiere, a fare quattro chiacchiere, mentre c'è sempre un gruppetto che fugge al bar a bere il caffè e qualcuno si occupa di andare a prende-re il pane o il giornale. “Per le spese più grosse ci organizziamo a gruppetti e andiamo insieme al mercato o al supermercato. La gita al centro commerciale è un evento”, continua Lena. Ci sono anche diversi appuntamenti fissi nella Casa, come quello del cruciverba collettivo il giovedì, o l’angolo lettura del martedì, quando si legge il giornale tutti assieme. C’è chi dice: «I parlarà anca de noialtri prima o dopo… E Gigi Di Meo, quando vienlo a trovarne?». Ma per le “ragazze” il momento più bello e atteso del-la settimana è il beauty center. “Ci mettiamo nel bagno grande al primo piano con tutte le signore e io faccio manicure e pedi-cure”, racconta Lena, “è una gioia farsi ancora belle, a quest’età”.Con l'estate l'agenda degli ospiti di Casa Colvera si arricchi-sce sempre più: si fanno gite e uscite, spesso in rete con le case di riposo e diverse associazioni del territorio, ma ci si mette anche al lavoro per preparare meravigliose marmellate, che si vendo-no ai mercatini per raccogliere fondi per la casa. Spiega Carlet: “Con le rette manteniamo la struttura, mentre le attività di autofi-nanziamento come la vendita delle marmellate, fatte attraverso l’associazione di volontariato “Amici di Casa Colvera”, servono per gli acquisti extra, come i 14 decoder per le TV in ogni stanza e negli spazi comuni”.

A CASA COLVErA, OSPITI DI NONNA ELSA, OrAZIO, rOBErTO …

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La parola “anziano” ha un forte potere evocativo, richia-ma l’immagine del tramon-to di una giornata, del rac-colto di una semina e cosi via. La figura dell’anziano si identifica spesso con la pa-rola nonno o nonna, sono famigliari,testimoni e protago-nisti di vita passata, che ora sono diventati narratori di fia-be e aneddoti, ma pur sem-pre preziosi. I loro interlocutori preferiti sono i nipoti ma an-che gente comune, catturata dal fascino di eventi vissuti di una vita per certi versi difficile, ma più umana e meno inqui-

IL VISIONARIO: Mezza pensioneSembrava una riunione di vecchi amici. Un tempo rivali dagli scranni del Parlamento, ieri mattina tutti uniti a conte-stare il primo provvedimento del Governo di Unità Nazio-nale: l’abolizione della pen-sione per gli ex parlamentari. Onorevoli di ogni età e colore finalmente d’accordo su tutta la linea: il provvedimento è “un abominio” ed è in “palese violazione dei diritti dell’uomo”. Così in quattro e quattr’otto la piazza antistante Montecitorio si ripopola di facce conosciute. C’è Tizio che “vogliono toglier-

mi il frutto di cinque anni di lavoro”, (S)Caio che “da quando nessuno mi compra più una casa a mia insa-puta ho anch’io il mutuo da pagare” e Sempronio che “se necessario ricorreremo fino a Strasburgo”. Visto il rango dei manifestanti, la Polizia non se l’è sentita di riservare loro lo stesso trattamento pre-visto per precari, terremotati o disoccupati. E loro hanno fatto sapere che la protesta continua. Domani davanti al Senato è previsto un sit in. Su poltrone Frau.

nata. Già la loro esistenza ba-sterebbe per rendere il nostro un mondo migliore. Memore del valore del passato, mi dedico da qualche anno ad aiutare tre "nonnetti". Quella tra noi è un'amicizia nata per caso, ma con il passare del tempo sta diventando un le-game molto forte. Non passa giorno in cui non ci sentiamo, una telefonata, un saluto o un invito: praticamente hanno sostituito i miei veri famiglia-ri. Lo dico con il cuore e per questo mi premuro ad ogni loro necessità. I loro grazie sono inviti a cena e tra un di-

scorso e l’altro, una scommes-sa sul calcio e vari argomenti, trascorriamo dei bei momenti all’insegna del buon umore e della compagnia reciproca. A volte, quando salute e au-tosufficienza sono a posto, mi domando come si possa affi-dare gli anziani ad una Casa di riposo, visto poi che con un piccolo occhio di riguardo potrebbero tranquillamente vivere a casa. Troppo spesso c’è la fretta in queste soluzioni. Mi piange il cuore a veder-li nelle case di riposo, luoghi utili per alcune situazioni, ma non idonei per altre. Sen-za dimenticare che non tutti possono permetterselo: invec-chiare costa. Fate una piccola riflessione prima di privare i vostri anziani della liberta di vivere in autonomia: la Casa di riposo non li aiuta anzi, se la permanenza è condita da tristezza, la vita perde valore e la rassegnazione fa il re-sto. Troppo spesso vedo don-ne italiane e straniere che si improvvisano badanti e che accudiscono gli anziani, sa-

rebbe il caso di prepararle con dei corsi e non lasciare al caso una professione che, se fatta male, crea non pochi disagi ai poveri anziani. Non metto in discussione la buona fede che spinge queste don-ne ad accudirli, ma per uno stipendio spesso fanno cose al limite della decenza. Per cui io mi auspico un maggio-re controllo per la loro tutela pretendendo maggiore pro-fessionalità. Mi piacerebbe che il futuro fosse migliore in questa fase della vita, che ad essere ottimisti toccherà a tutti. All’invecchiamento è giusto adattarsi, ma senza condizio-nare il nostro modo di vivere in negativo: la vecchiaia non deve diventare la sofferenza della vita ma essere vera cu-stodia di virtù e saggezza. Ciò indipendentemente dal signi-ficato personale che ognuno intende dare a questo pas-saggio della propria vita: per chi ha fede è la sala d’aspet-to del Purgatorio o del Paradi-so, per chi non ce l’ha è il fine corsa della vita e nulla più.

L'ANgOLO DELLA FrANCA

Per molte persone l’età che avanza costituisce un problema se non addirittura una minaccia. E’ difficile invecchiare sereni in un mondo che non riconosce le grandi età della vita, tranne la gio-vinezza: o si resta giovani o si diventa invisibili. Eppure un tempo l’esperienza del vecchio era ritenuta esemplare, tanto che una persona ragguardevole e persino Dio veniva chiamato “signore”, da senior, comparativo di senex: più anziano. Più anziano degli altri, quindi più saggio, quindi più autorevole. Con l’età moderna la percezione della vecchiaia è cambiata, soprattutto in occiden-te. Il poeta Leopardi la valuta in base a ciò che le manca: viene meno lo scambio di “amorosi sensi” che allieta la giovinezza, cadono le illusioni sulla vita, il passato non è recuperabile e il fu-turo non consente di avere speranza. Sono molte le persone che vedono così la vecchiaia, ma è questo l’unico modo di vederla? La nostra vita si snoda attimo dopo attimo: se viviamo l’attimo per quello che è, non esistono più giovinezza e vecchiaia, esiste

la vita. Il segreto è proprio nel saper vivere il presente, senza rim-pianti per il passato o illusioni sul futuro. E’ un’arte che si impara vivendo e cioè affrontando il continuo divenire dell’esistenza, il proprio corpo che cambia, il mondo che cambia, le relazioni che cambiano. La vecchiaia come la giovinezza è un’età evolutiva, in cui la persona deve adattarsi a una nuova percezione di sé. Ma ha un vantaggio: quello di aver già interpretato alcuni o molti tasselli della propria vita. Come quando si sta componendo un puzzle: indovinati alcuni pezzi, c’è il momento in cui s’intuisce il senso globale e da quel momento il lavoro acquista una logica, ogni tassello trova il suo posto. La ricchezza dell’anziano può tro-varsi in questo sguardo di consapevolezza. Una consapevolezza che gli permette di valutare ciò che è davvero importante, di soprassedere a molte debolezze proprie ed altrui, di dare il giusto peso alle cose. Quanto bisogno c’è, ad ogni età, di un profon-do accordo con se stessi! E allora aiutiamo chi ci sta accanto a interpretare il suo momento evolutivo, ad accettarsi per quello che è, a vivere il suo presente. Non abbandoniamo nessuno alla solitudine, regaliamo un ascolto e, imparando ad ascoltare l’altro, potenzieremo la capacità di ascolto anche per noi stessi. Facciamo in modo che il vecchio torni ad essere quel “signore”, quella risorsa che era considerato un tempo e allora in questo scambio, si potrà dire chi è colui che riceve e chi colui che dà?

di Franca Merlo

ELOgIO DELLA VECCHIAIA

La terza età non sia sinonimo di triste etàServono più professionalità delle badanti e più attenzione da parte dei famigliaridi giuseppe Micco

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INVIATI NEL MONDO

Incredibile India, terra di contraddizioniOltre la musica sacra, il rumore dei clacson. Accanto alle spiagge da sogno, i rifiuti abbandonati di Marcella Bidinost

L'India è folle, affascinante, innocente, colorata, fastidiosa, confusa, sacra, tutto si muove in questo gigantesco subcon-tinente. Non era mai stata in cima alla mia lista dei luoghi da visitare, perchè per me troppo grande, calda, popo-lata, difficile da attraversare. Per non parlare delle lingue, una per ciascuno dei suoi 28 stati e 7 territori, alle quali si sommano 1.600 idiomi minori e dialetti! Ma, ogni viaggia-tore lo sa, non c'è mai una partenza che non sia frenata dalla paura del diverso. Così a febbraio ho messo piede nel secondo paese più popo-loso al mondo, con gli occhi spalancati il più possibile. Il mio viaggio è cominciato da Koch, la capitale dello stato meridionale del Kerala, che si affaccia sull'Oceano indiano. Nella “terra delle noci di coc-co” fui accolta da una folata di aria calda e umida di 33 gradi e da una forte sensazio-ne di soffocamento.

Guidare? Ma sei matto! L'In-dia è famosa per il suo “caos ordinato” e la guida non fa eccezione. Con oltre 1.210 milioni di persone (più di un sesto della popolazione mon-diale), non stupisce che le sue città siano letteralmente

intasate da gente. Taxi, risciò, auto, camion e motociclette: cercare di schivare la loro traiettoria per una profana come me, inizialmente, fu una scelta pericolosa. Qui i sema-fori sono rari e si procede a suon di spinte e di sorpassi. Se però, poi ho capito, si arriva a fidarsi degli indiani e del loro intuito, bhè, si potrebbe trovare il tutto anche diverten-te. Gli indiani sembrano ave-re paura di rimanere “tagliati fuori”. Non hanno né tempo né spazio per fare spazio per-sonale. Nel nostro immagina-rio comune questo è il paese dai molti ed incantevoli suoni, penso ai canti di natura reli-giosa e alla sua musica uni-ca e tradizionale. Al di fuori di questi, tuttavia, il resto è un rumore incessante di clacson, che può farvi impazzire.

Belle spiagge, troppi rifiu-ti. Ho trascorso i miei due mesi in India al sud, sulla co-sta occidentale: l'ho fatto con la promessa di abbondanza di palme, animali esotici, tem-pli indù e tanta sabbia bian-ca. Dietro agli slogan turistici tuttavia si nascondono anche molte spiagge senza igiene e con molti rifiuti. Colpisce vedere come la gente sca-richi regolarmente immon-

dizia dai finestrini dei mezzi senza alcuna considerazione per l'ambiente. Mi era diffici-le credere che mi trovavo in un paese che brilla a livello internazionale per la medi-cina, la farmacia, il cinema, la letteratura, il cricket, la spi-ritualità, ma che allo stesso tempo cade così in basso su una delle più importanti pro-blematiche del nostro tempo. Più a nord del Kerala, Goa ad esempio, il più piccolo e il più

verde stato dell'India, dà più l'impressione di curare l'am-biente per non perdere i turisti che non per un consapevole senso dell'ecologia. Le strade al sud sono fatte di un mix pe-ricoloso di cibo avariato, pro-dotti chimici nocivi e di escre-menti umani e animali, causa di inondazioni e di malattie.

Holi, Festa di primavera. Nel mio viaggio ho festeggiato Holi, un rito che si svolge tutti gli anni il giorno di plenilunio

tra fine febbraio e inizio mar-zo, nell'arco di una qundicina di giorni. Holi è anche la festa di Primavera, in origine rito della fertilità. E' inoltre la festa del fuoco, con i sui grandi falò propiziatori, e dei colori, con l'utilizzo di acqua e polveri co-lorate che vengono spruzzate sui volti e sui vestiti di chiun-que. La gente per strada suona tamburi, canta, danza e si arrende ad una vera e propria “lotta di colori”. Nei giorni che seguono alla festa, nel villaggio, molte persone hanno ancora in corpo l'ar-cobaleno. Ci vogliono infatti diversi lavaggi per pulire via le polveri. Holi segna la fine dell'inverno e l'inizio della pri-mavera, anche se nessuna di queste due stagioni è vera-mente presente nel sud.

Non sapevo che ... Se ci si trova in India bisogna fare attenzione ad usare solo la mano destra per mangiare o, ad esempio, per stringere la mano all'altro. La sinistra, infatti, serve per le azioni più “basse”, come la pulizia del-le scarpe o i doveri di toilette. Dico solo che la maggior parte degli indiani non usa la carta

igienica! Tra le altre curiosità, l'ultima: non ci si stupisca se si vedono gli uomini indiani concedersi con grande natu-ralezza atteggiamenti intimi. Tenersi per mano, cammina-re a braccetto, o stretti spalla a spalla, per ragazzi e adulti, in città come in villaggio qui è segno di amicizia. Non lo si giudichi soprattutto, anche se in gran parte delle culture del mondo tutto questo è consi-derato omossessuale.

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Quando mi hanno chiesto di scrivere l’articolo per Ldp la cosa mi ha subito entusia-smato, anche perché avevo voglia anch'io di dire il mio pensiero sul progetto di tea-tro in carcere promosso dai Ragazzi della Panchina al quale partecipo. Per iniziare mi presento, sono un’educa-trice professionale del Dipar-timento per le Dipendenze dell’Azienda sanitaria Ass6 in cui presto servizio, prevalen-temente al Servizio di Alcolo-gia, da circa 10 mesi. Il pani-co da foglio bianco cercherò di superarlo raccontandovi un aneddoto che mi accom-pagna da un po’ di tempo e credo che ben si allacci con l’esperienza teatrale alla Casa circondariale di Porde-none. Le porte. Non avevo mai pensato alla differenza fra le porte battenti, larga-mente diffuse nella cultura occidentale e le porte scorre-voli della cultura giapponese. Le prime si aprono invadenti, modificando violentemente equilibri e volumi, le seconde

dolci e leggere si aprono e si chiudono evitando gli osta-coli, garantendo fra gli spazi la possibilità di metamorfosi e la “libertà di circolare”. Non so se sono riuscita a rendere l’idea, ma ogni volta che ne “L’eleganza del riccio” leggo questo passaggio mi manca il fiato. Così mi trovo a lavora-re in un ambito, quello della dipendenza, ricco di signifi-cati e insidie, di pregiudizi e paure, di pensiero e azione. Un ambito che necessite-rebbe, secondo me, di tante porte scorrevoli, metafora di una relazione, nel mio caso educativa, costruita giorno per giorno, e di propulsione al cambiamento. Quando ho iniziato a partecipare al labo-ratorio di teatro per inscenare a giugno insieme ai detenuti il testo di Pino Roveredo “La legge è uguale per tutti?” non sapevo cosa aspettarmi, se non che sarei entrata così, in punta di piedi. Questa occa-sione di lavoro credo rappre-senti una buona opportunità di reciproca integrazione a

vari livelli, porte che scivo-lano dentro le mura che ci dividono. Un’integrazione fra privato sociale e istituzioni pubbliche, un’opportunità di dialogo con il territorio e di sensibilizzazione su tematiche forti. Ma soprattutto ci sono loro, i detenuti, i veri prota-gonisti, i teatranti con cui ap-prezziamo il qui ed ora. Un in-contro nello spazio della cura e riabilitazione, fra chiacchie-re e prove, emozione e razio-nalità, fra i personaggi che comunque fanno fuoriuscire una parte di noi. Sono e sa-ranno una risorsa, si mettono in gioco, daranno al territo-rio una possibilità di passare una serata diversa, di sorri-dere, di farci riflettere se la legge è davvero uguale per tutti dando voce ad un testo profondo ed originale. Grazie ai Ragazzi della Panchina e alla dottoressa Roberta Sab-bion che mi hanno proposto di partecipare al progetto, a Pino, Guerrino, al personale della Struttura, al gruppo in-tero di detenuti.

Teatro in carcere, sul palco salgono i detenutiA giugno in città la prima della comme-dia nata dal laboratorio teatrale di Rdpdi Valentina Furlanloro abbagli e i miei travagli

sulla fedina penale, e come un diario, sono costretto a vi-vere la presunzione del loro racconto… Sono vent’anni, una vita, che mi dichiaro un figlio della disgrazia, paren-te stretto della catena, e che scongiuro una scorciatoia per cambiare, una dignità per vivere, ma loro niente, loro continuano a bloccarmi ed esibirmi dentro la libidine nu-merata di una colpa! ... P. Ministero: Sono giorni, mesi, anni, minuti, ore, che sbugiar-do i figli del lamento, che smaschero delinquenti, fara-butti, filibustieri, disonesti, laz-zaroni, mascalzoni, malfattori, insomma, la spazzatura della città! ...No, niente di personale, ma solo che l’urgenza assoluta di una Giustizia per tutti, una Giustizia ad ogni costo, una Giustizia senza nessuna distin-zione, distrazione, passione o compassione, perché, da quando il mondo gira dentro l’uso della ragione… LA LEG-GE E’ UGUALE PER TUTTI! …. O no?...

segue dalla prima pagina

L' EDITOrIALE

“LA LEggE E’ UgUALE PEr TUTTI?”di Pino roveredo

“Era l’agosto del 1972 quando a Trieste entrai per la prima volta in carcere. Avevo 17 anni ed ero detenuto. Io però al carcere non devo nulla della mia salvezza, perché il

carcere italiano ancora oggi non ha gli strumenti per rie-ducare, ma serve piuttosto a garantire la sicurezza di chi sta fuori”. Così ha parlato Pino Roveredo, nel corso della se-

rata che i Ragazzi della Pan-china per la prima volta in collaborazione con Cinema-zero, a fine aprile hanno de-dicato al tema “Oltre le sbar-re. Percorsi di integrazione tra sociale e tossicodipendenza”. Ospite sul palco con la pre-sidente dell’associazione Ada Moznich, l’amico scrittore, re-gista e direttore editoriale del nostro Ldp, ha presentato in anteprima il suo “La Legge è uguale per tutti?”, opera che pone alle singole coscienze interrogativi sul senso della giustizia, della carcerazione e della libertà dell’individuo, dove Roveredo darà voce ai carcerati, ma anche ai ma-gistrati, agli avvocati e alle famiglie. La prima pordeno-nese della commedia è pre-vista per il 23 giugno all’inter-no della cinta muraria. Nella stessa sera la commedia sarà strasmessa in diretta video per il pubblico del Convento di San Francesco. Attori d’ec-cezione saranno i detenuti del castello che in questi mesi sono stati seguiti nelle prove della commedia da Rovere-

I ragazzi incontrano la città con CinemazeroAd aprile la presentazione del progetto te-atrale al numeroso pubblico pordenonesedi Milena Bidinost

do e da Guerrino Faggiani e Valentina Furlan del la-boratorio teatrale avviato a settembre dall’associazione in collaborazione con il Sert dell’Ass6 e della Casa circon-dariale. La serata organizza-ta ad aprile a Cinemazero è stata inoltre l’occasione per presentare alla cittadinanza lo speciale che Tv7, rotocalco del Tg1, nei mesi scorsi ha de-dicato ai Ragazzi della Pan-china a firma del giornalista Alessandro Gaeta. Partendo proprio da questo materiale, la Rai ha deciso di realizzare un lungometraggio, uno de-gli otto finanziati nel 2011, che racconterà la storia dell’asso-ciazione e che rappresenta una prestigiosa vetrina per questo sodalizio rispetto a tut-to il territorio nazionale. La se-rata si è quindi conclusa con la proiezione del lungome-traggio del regista padova-no Rodolfo Bisatti, ”La donna e il drago (2010)”, racconto del tempo trascorso da una donna madre compreso tra la condanna e l’entrata in carcere.

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Da circa un anno, a Pordeno-ne un’équipe interservizi, com-posta da Azienda sanitaria, Provincia, Comune e Coope-razione sociale, sta costruen-do un progetto unico nel suo genere sul tema dell’interge-nerazionalità, attraverso una sperimentazione in due quar-tieri della città (Villanova e Borgomeduna). Si tratta di un percorso ancora ai suoi albo-ri, ma la cosa interessante è la recente adesione al tavolo in questione di tutte le real-tà di socializzazione operanti nel territorio: è la prima volta che ciò avviene. “Genius loci” rappresenta un tentativo, non certo l’unico, messo in atto dalle istituzioni per affronta-re tra le diverse criticità che presenta la nostra società mo-derna ed individualista, quel-le che concernono il dialogo e il reciproco riconoscimento

Sono passati circa due anni e mezzo dal momento in cui ho lasciato l’Ecuador, il mio paese. In Italia ho avuto la possibilità di conoscere cultu-ra, persone e luoghi diversi, ma soprattutto di conoscere me stesso. La mia insaziabi-le sete di conoscenza mi ha permesso di integrarmi al gruppo intergenerazionale

Il progetto genius loci dà voce ai quartieriI primi gruppi intergenerazionali a Borgomedu-

na e Villanova. Obiettivo: individuare dal basso

risorse e criticità del territorio

di Francesco Stoppa

tra le generazioni. Il progetto punta a intervenire sul vissuto di profonda solitudine esisten-ziale che attanaglia il singo-lo e sullo strappo che viene a crearsi sul piano della tra-smissione di esperienze, ideali e valori tra vecchi e giovani. “Genius loci” prova a dare una risposta a tutto questo at-traverso un progetto che, per scelta, non muove da proto-colli standardizzati o linee gui-da stabilite a tavolino, ma na-sce dal basso attraverso una stretta interazione coi cittadini; attraverso operatori, di conse-guenza, che sono dei tecnici dell’ascolto e della complessi-tà, ovvero professionisti la cui identità non è tanto quella dello specialista, quanto quel-la, ben più ricca e complessa, dell’operatore di collegamen-to tra istituzioni, tra servizi e territorio, tra le istanze presenti

nel quartiere, tra il quartiere e la città. In “Genius loci” diven-ta metodo di lavoro l’interge-nerazionalità stessa, mentre parte di esso è la fisionomia del gruppo di lavoro, dove – per la prima volta nella storia dei servizi pordenonesi – di fatto pensano, operano, colla-borano operatori di più servizi e istituzioni. È divenuta meto-do la scelta di partire da un gruppo di persone del quar-tiere che hanno dato vita a un laboratorio finalizzato a raccogliere punti di vista per-sonali e angoli visuali inediti relativi alle risorse e criticità del proprio territorio. Una se-conda fase dell’intervento, potrà far scaturire da gruppi ristretti, ma motivati, di cittadi-ni proposte pratiche o ulteriori interrogazioni sull’esistente. Un merito che, va detto, circoscri-zioni e associazioni dei due

quartieri ci hanno già ricono-sciuto è infine quello di esserci proposti al territorio in qualità di rappresentanti di istituzioni cittadine che volevano in-nanzitutto capire, imparare, e poi eventualmente interagire nell’ottica di centrare i bisogni reali di un certo territorio.

Qui come a casa miaEcuadoregno a Pordenone da due anni, ha tro-

vato nel progetto un'occasione di integrazione

di Jairo Cazar

costituitosi a Villanova, dove vivo, nell’ambito del progetto Genius Loci. Nonostante per me sia un piccolo quartiere, ho trovato molto difficile sta-bilire relazioni che vadano al di là del “buongiorno” e del “buonasera”. Credo che questa sia una difficoltà che tutti i nuovi abitanti affron-tano, ma forse il fatto di ap-

partenere ad una minoranza etnica e di essere considerati sempre, prima che persone, degli “stranieri”, rende tutto più difficile. Da quando ho iniziato a partecipare al pro-getto Genius Loci ho scoperto, invece, che è possibile svilup-pare azioni e “abilità” per la convivenza e per rafforzare la capacità di dialogo, genera-re tra persone di diversa età e nazionalità atteggiamenti di stima reciproca e di “cura” verso il territorio, favorendo nuovi legami di identità e di appartenenza. I temi e le ini-ziative proposte dal gruppo di cittadini coinvolti nel progetto nell’arco di questi mesi, come il foglio di quartiere e il mer-catino dell’usato, invitano alla partecipazione e sono pensa-ti per promuovere i valori del rispetto, della comprensione, della collaborazione e della convivenza. La dinamica di questo progetto mi suggerisce il ricordo dei processi parteci-pativi che si stanno portando avanti da qualche anno nel mio Paese per promuovere lo sviluppo locale. In ogni quar-tiere si sono costituite, grazie all’assessorato alla Partecipa-zione cittadina, assemblee popolari (naturalmente inter-generazionali) che discutono

circa la situazione economica, politica e istituzionale locale, toccando tematiche quali l’i-struzione, l’urbanistica, la sani-tà, l’ambiente e i trasporti. Tali assemblee hanno la funzione di orientare gli investimenti delle risorse finanziarie a li-vello comunale e hanno avu-to il merito, con tutte le imper-fezioni del caso, di facilitare la convivenza e la fratellanza e di ridurre la distanza tra citta-dini e istituzioni. Vorrei poter guardare Villanova come ad un quartiere in cui le relazio-ni umane siano alla base del suo sviluppo, dove il diver-so (per età e per origini) sia percepito come opportunità di conoscenza, di scambio e di arricchimento. Dopo non molto tempo dal mio arrivo, ho scoperto che ho conosciu-to l’Italia, ma anche il Gha-na, la Bulgaria, la Nigeria, la Francia, il Senegal, l’India, la Romania, Cuba. Grazie all’in-terazione originale che il pro-getto Genius Loci ha messo in moto e ai piacevoli spazi di convivenza che costruisce il concetto del “dare e ricevere” diventa una pratica abituale, indispensabile per rilanciare concetti quali coesione socia-le, responsabilità civile e ap-partenenza territoriale.

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Giovanni Allevi da bambi-no, si avvicinò di nascosto al pianoforte. Stranamente “di nascosto”, visto che era figlio di musicisti. “Perché il piano di casa era tenuto sotto chia-ve come una reliquia, era di mio papà e ne era gelosissi-mo", racconta il musicista che abbiamo incontrato mentre a marzo si trovava al Forum di Pordenone con il suo Alien Tour, evento gestito dalla Aza-lea Promotion. Ma Giovanni scoprì il nascondiglio e a loro insaputa cominciò un viaggio solitario sui suoi tasti. “Fino a quando all’età di dieci - con-tinua il maestro - al termine di una recita a scuola con i miei genitori presenti, ho avuto la buona pensata di andare al pianoforte sul palco, e suo-nare una piccola melodia di Chopin. In questo modo ho svelato loro di avere infranto il divieto, e per anni”. Papà

PANKAKULTUrA

I SEgrETI DEL PIANISTA FILOSOFOIn occasione del concerto pordenonese l'artista si racconta a Ldpdi guerrino Faggiani

e mamma però capirono e decisero di fargli intrapren-dere il percorso accademico. Risultato? Giovanni si mette a studiare pianoforte all'’Istituto Musicale G. Spontini di Ascoli Piceno e si diploma a 21 anni con il massimo dei voti al Conservatorio F. Morlacchi di Perugia. Poi si iscrive alla Fa-coltà di Filosofia dell’Univer-sità di Macerata ed affronta lo studio della “Composizio-ne” al Conservatorio G. Ros-sini di Fermo. Nel frattempo frequenta anche il corso di “Bio-musica e Musicoterapia” del professor Mario Corradini. Nel 1998 si laurea con lode in filosofia e si trasferisce a Mila-no dove nel 2001 si diploma in “Composizione” con il mas-simo dei voti al Conservatorio G. Verdi sotto la guida del maestro Mario Garuti. “Rifarei tutto - continua Allevi - rifarei il mio studio, per vent’anni, ri-

farei i sacrifici, il mio concerto davanti a cinque persone.. Tutto”. Ora il pubblico lo se-gue e anzi, molta gente che normalmente non ascolta questo genere di musica si è avvicinata al pianoforte pro-prio grazie a lui. Perché Gio-vanni Allevi piace alla gente? “Facendo una classifica delle risposte - dice l’artista - al pri-mo posto ci metto che non lo so, cioè è un mistero. Poi forse perché non salgo mai in cat-tedra, cioè cerco di non met-termi mai nella condizione di dover insegnare qualcosa a qualcuno ma piuttosto sono grato alle persone che stanno ad ascoltarmi. O forse perché il pubblico percepisce nella mia musica il grande studio che c’è dietro, nonostante vi-

viamo in un periodo in cui spesso basta una telecame-ra per far diventare cantante qualcuno”. E poi il merito è anche di una spiccata, sve-glia e positiva personalità dico io. Per dare un’idea del-la sua agilità mentale basta pensare a “Joy”, il suo quarto album. Con composizioni ine-dite, l’ha realizzato interamen-te nella sua testa ed eseguito per la prima volta in studio di registrazione. “Così ho regi-strato Joy - annuisce Allevi - senza averlo mai suonato pri-ma, se non nella mia mente”. All’uscita sul palco del Forum, in apertura del suo concerto, il maestro è stato accolto da un lungo incessante applau-so, che testimonia la stima che il pubblico nutre per lui.

“Io, condannato a morte dalla ‘ndrangheta”Il super testimone Pino Masciari ai microfoni de Le Voci dell’inchiestadi guerrino Faggiani

Alla prima serata della 5° edizione del festival di Cine-mazero “Le voci dell’inchie-sta” era di scena l’imprendi-tore calabrese Pino Masciari, considerato il testimone più importante d’Italia. Masciari è stato condannato a morte dalla mafia in quanto grazie alle sue rivelazioni sono finiti in carcere molti esponenti del-la ‘ndrangheta calabrese, da manovali a grossi personaggi politici. Figlio di imprendito-ri edili, un giorno fu costretto ad abbandonare gli studi per guidare l’azienda di famiglia. “Giovane com’ero mi venne il sogno di diventare un grande imprenditore – ha racconta-

to Masciari - ero ambizioso, ma allora non conoscevo quel mostro che si chiama ‘ndrangheta. Nel tempo riu-scii ad aprire cantieri in tutta la Calabria e all’estero. Da me venivano dei disoccupati a chiedermi di lavorare. Poi arrivarono piccoli artigiani, imprenditori. Io davo lavoro a tutti, ma le domande au-mentavano sempre più: per la fornitura di calcestruzzo, il movimento terra l’impianti-stica e così via”. Ad un certo punto l’imprenditore si rese conto che non era più libe-ro nelle sue scelte. “Fu così che dissi basta, questa è la mia ditta e qui comando io”,

ha raccontatoi al numeroso pubblico di Cinemazero. Fu allora che gli si fecero avan-ti dei personaggi che, senza mezze misure, gli chiesero il tre per cento per continuare a lavorare. Davanti ad una richiesta così, Pino Mascia-ri rispose in modo altrettanto chiaro e netto: “Io non vi do neanche cinque lire bucate e vi denuncio pure”. E così fece, ma quando si rivolse alle Isti-tuzioni si sentì dire: “Ma cosa vuoi fare, vuoi cambiare le regole? Scherzi, qui si rischia la vita”. “Era difficile trovare un rappresentante istituziona-le integerrimo – ha spiegato Masciari-. Per dare l’idea, in

quei tempi il nostro procurato-re si mostrava in compagnia dei boss”. La ’ndrangheta al-lora cominciò ad applicare la propria legge, facendo nei cantieri dell’azienda attenta-ti di tutti i tipi. Fino a quando non decise di smettere di la-vorare. “Avevo 34 anni – ha infatti continuato a racconta-re - davo lavoro a duecen-to famiglie, ma proprio non potevo più andare avanti”. A quel punto appoggiato da inquirenti servitori dello Stato, ha iniziato a dire quello che sapeva, provocando con le sue denunce un terremoto tra amministratori e personag-gi politici di spicco. Innume-

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Commosso, quasi sotto voce: “Vorrei abbracciarvi tutti, uno per uno. Ma siccome non è possibile, lo farò con il mio pianoforte”. Giovanni Allevi t-shirt nera, jeans scuri e All Strar nere con suola e lacci bianchi, si è sistemato sul seg-giolino sotto un cono di luce bianca ed è partito. Le mani sui tasti che si specchiavano sul nero lucido del piano era-no il primo spettacolo. Le dita pestavano note che sfuggiva-no all’occhio, una tecnica di assoluto livello, che unita ad una profonda vena interpre-tativa rapiva chiunque, nien-te si muoveva, neanche gli addetti alla sicurezza. Tutti su di lui e il suo piano. Per quel che mi riguarda, mi aspetta-vo che un concerto di piano solo alla lunga risultasse stan-cante e buono solo per ap-passionati e competenti. Inve-ce si è rivelata una di quelle cose che “più ce n’è e meglio è”. È stato chiamato a tre bis e acclamato in ogni occasio-ne, prima durante e dopo il concerto. L’artefice dell’Allevi-pensiero ha lasciato dietro di sè una consolidata immagine di fenomeno, artisticamente e personalmente. A noi stessi di Ldp ha dimostrato una gran-de disponibilità nonostante i feroci tempi stretti della tap-pa in città. Grazie dunque a nome di tutti i nostri lettori, e a nome mio personale.

revoli sono stati gli attentati alla sua persona. “Si dice che quando la ’ndrangheta emet-te una condanna a morte, all’esecuzione manca solo la data – ha detto Masciari- io tuttavia rifarei tutto, perché non sopporto l’ingiustizia ed il sopruso”. Scortato dai suoi angeli custodi come lui stesso chiama gli uomini della sua nutrita scorta, ora presenzia a eventi in giro per l’Italia per raccontare la sua storia e pro-muovere il libro scritto con la moglie Marisa: “Organizzare il coraggio. La nostra vita contro la ‘ndrangheta”. In queste pa-gine i due coniugi raccontano della loro clandestinità legale.

Lech Walesa: “Vi racconto la mia rivoluzione”Dalla sua Polonia all’Europa, dalla rivol-ta dei popoli africani all’uccisione di Bin Laden. A lezione di democrazia e solida-rietà dal Premio Nobel per la pace di Fabio Passador

Ospite della rassegna “Por-denone pensa”, organizzata dal Circolo culturale Eureka e dalla provincia di Pordenone, l'ex presidente della Polonia premio Nobel per la Pace Lech Walesa è stato accolto al teatro Verdi dal pubblico delle grandi occasioni. Elettri-cista di professione, in Polonia, Walesa fondò Solidarnosc, il primo sindacato operaio indi-pendente in contrapposizione con il blocco sovietico. Pagò con il carcere la sua attività. Uscito dalle prigioni organizzò gli scioperi che misero spalle al muro il segretario del parti-to comunista polacco Wojcie-ch Jaruzelski. Nel 1983 gli fu riconosciuto il Premio Nobel per la Pace e, dopo il crollo del regime sovietico, fu no-minato presidente della Po-lonia, carica che mantenne fino al 1995. Si definisce un rivoluzionario Lech Walesa. “A differenza del Papa che non ha fatto la rivoluzione, ma ha acceso il desiderio di cambiamento nella gen-te nel suo paese”, ha detto a Pordenone. Per lui “Wojtyla ha avuto il merito di cambiare la Polonia e l’Europa nello spiri-to, le sue parole dovrebbero essere tradotte in progetti ed in programmi”. L'ex presiden-te polacco si è rivolto ai gio-vani con una piccola lezione di storia del comunismo, spie-gando che ci fu quello occi-dente, legato ai valori demo-cratici, e quello sovietico, che vietava qualsiasi tipo di orga-nizzazione indipendente e di sciopero. In Polonia il movi-mento guidato dall'allora sin-dacalista di Solidarnosc de-cise di agire con la lotta non violenta e con la preghiera, come aveva suggerito Gio-vanni Paolo II. “E' con questi valori che la Polonia ha vin-to la sua sfida – ha ricordato Walesa – . Gli stessi non sono del tutto svaniti”. Walesa ha poi parlato di immigrazione, “E’ un fenomeno – ha detto – che accomuna tutti i paesi

del vecchio continente. L'ab-battimento dei confini è stato un evento epocale, ma sono ancora presenti confini cultu-rali profondi”. “Ci sono troppe differenze sociali – ha de-nunciato - è in questo che il capitalismo ha fallito. I popoli mediterranei oggi chiedono più giustizia, più onestà dal ceto politico interno ai singoli paesi. La diffusione di internet sta risvegliando la necessi-tà di verità e sarà con que-sti sentimenti che dovremmo fare i conti”. Oggi in alterna-tiva al socialismo reale, crol-lato con il muro di Berlino, e al capitalismo, che vede con l'attuale crisi finanziaria de-cretato il suo fallimento, per Walesa la terza via è quella della partecipazione diretta dei lavoratori attraverso la

solidarietà. Lo spessore uma-no dell'ex presidente della Polonia è quindi emerso nel giudizio sull'uccisione di Bin Laden, che lui ritiene ingiu-sta perché non sottoposto alla sentenza di un tribunale e un grave colpo al terrorismo in-ternazionale. E’ stato narran-do al pubblico di Pordenone l'episodio di un fallito aggua-to nei suoi confronti, che Lech Walesa ha salutato la platea: durante una visita a Roma i suoi compagni lo invitarono per una passeggiata nottur-na, ma lui rifiutò. Più tardi il gruppo venne fermato da una banda armata che, vi-sta la sua assenza, si dileguò nel buio. Walesa non sporse mai denuncia e, ascoltando le parole del Papa, dimenticò l'accaduto.

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In bicicletta è arrivato al bar in corso dove lo aspettavo, ai ta-voli in strada vista la gradevo-le giornata. Michele Pontran-dolfo io l’ho riconosciuto subito, lui no me. Non poteva perché non mi aveva mai visto e non aveva la minima idea di chi si sarebbe trovato davanti, ve-nendo a quell’appuntamento. Mentre poggiava la bici scru-tava le facce dei clienti sparsi tra i tavoli cercando di capire chi tra quelli potevo essere io. Gli ero il primo in linea d’a-ria, ma come spesso succede, guardava ovunque tranne che davanti al naso. Intanto ne ho approfittato io per guar-darlo: fisico non possente anzi, ma armonioso e asciutto, il ritratto della salute devo dire. Poi ha incrociato il mio sorriso, ha visto sul tavolo in bella mo-stra una copia di Ldp, i miei

Alla fine è stata più una chiacchierata che una intervista, come se avesse raccontato dei suoi viaggi ad un amico inesperto. Michele Pontrandolfo, 40 anni di Pordenone, esploratore artico di lungo corso famoso per le sue imprese in solitaria del resto ne ha fatti parecchi di viaggi. E da perfetto pivello la mia prima curiosità non poteva che essere questa.

Michele, ma fa davvero tanto freddo da quelle parti?“E beh si, c’è una bella differenza rispetto al nostro clima e par-tire da qui e arrivare, ad esempio, nel Canada artico con tem-

attrezzi del lavoro pronti all’uso e ha capito. Un attimo dopo si era già seduto al tavolo. Io un caffè, lui un bicchiere d’acqua naturale, non fredda. A boc-ce ferme toccava a me tira-re il pallino ma ho faticato a partire, perché tutto mi diceva che davanti avevo una perso-na che da sempre rispettava e valorizzava il proprio corpo, figlio di una mentalità sana eletta a regola di vita. Ed io che per trovare regole sane nel mio trascorso mi devo pro-prio impegnare, mi sentivo come davanti ad una specie di super star, inarrivabile per il mio curriculum. Già questo non mi lasciava indifferente. Se poi ci mettiamo che non ho mai dimenticato il mio primo e forse unico amore letterario (unico perché poi nella vita mi sono dedicato ad altro)

Pontrandolfo l'eremita dei ghiacci

di guerrino faggiani

"Sopravvivere nel micidiale freddo artico è una questione di preparazione mentale"

NON SOLO SPOrT

perature che arrivano a 50 gradi sotto lo zero è un bel salto da sopportare” Ci si riesce ad abituare a certe temperature? Si tratta di ben 80 gradi di differenza.“Non è facile. Io prima di intraprendere le mie spedizioni mi fac-cio una ventina di giorni di ambientamento e acclimatamento al freddo in un villaggio esquimese. E poi parto, e a quel punto sopravvivere diventa una questione mentale: è fondamentale la preparazione psicologica. Il problema, infatti, non è tanto il freddo micidiale quanto il fatto che quando si è nell’oceano artico non ci sono posti dove rifugiarsi e riscaldarsi. C’è la tenda sì, ma quella ripara solo dal vento e se fuori ci sono 40 o 50 gradi sotto lo zero, li hai anche nella tenda, ne più ne meno. È il freddo continuo la cosa più difficile da sopportare”.

E come si fa a sopravvivere? “Per farlo, oltre all’esperienza che ti fa accendere i campanelli d’allarme in tempo per evitare guai, congelamenti alle estremi-tà e peggio, devi avere una convinzione che va oltre il norma-le. È l’obiettivo finale che ti poni che ti sprona a non mollare e a sopportare quello che diversamente una persona normale non riesce a fare. Ma questo vale in tutto, anche nella vita di tutti i giorni. Se non hai un obiettivo finale, non fai niente”.

Ma perchè in solitaria? Nei ghiacci da soli, anche un piccolo errore può essere fatale. Cosa ti spinge a contare solo ed esclusivamente sui tuoi mezzi? “È perché apprezzo meglio quello che vedo, appago di più il mio amore per i ghiacci, e poi è una soddisfazione personale riuscire a cavarmela da solo, mi gratifica di più. Diciamo che quello che vado a fare io è estremamente pericoloso, ne sono cosciente. Però non si deve ragionare in questo modo, perché sarebbe deleterio. Non devi pensare: "Porco can se la va mal qua mi ghe resto". Se così è, nel momento stesso in cui lo fai è meglio che te ne torni a casa”. Dunque grande preparazione psicologica oltre che atletica. Ai saluti ho chiesto a Michele se alla sua prossima spedizione por-ta anche me, che starei sempre zitto, neanche una parola. Sto aspettando la risposta. Grazie comunque e auguri a Michele Pontrandolfo.

del periodo in cui un amico di famiglia ha messo nelle mie mani da infante “Il richiamo della foresta” di Jack London, che divorai nonostante fossi ancora incerto nella lettura e al quale seguirono di get-to gli altri suoi ambientati nel grande nord… ecco, trovarmi davanti un vero fautore del ghiaccio e della tenacia, mi

entusiasmava, ma allo stesso tempo mi intimoriva. Come se i film autodidatti su quei mon-di che mi ero fatto dentro fin dall’infanzia, fossero arrivati ad una sorta di resa dei con-ti, e che davanti ad un vero esploratore dei ghiacci si scio-gliessero come neve al sole dimostrandosi solo dei ridicoli insensati voli pindarici di uno sterile ed eterno sognatore. Ri-schiavo un disastro, oltre che male nella vita reale anche nei sogni. Ero a cena o meglio al caffè con il mio possibile as-sassino. Non era cosa da poco ma grazie al cielo, lo testimo-nia il fatto che lo sto raccon-tando, in qualche modo ne sono uscito vivo.

Al caffè con l'esploratore

di guerrino Faggiani

Fisico asciutto da vero sportivo. Sembra-va uscito da un racconto di Jack London

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LDP - LIBERTÁ DI PAROLAGiornale di strada dei Ragazzi della Panchina ad uscita trimestrale o quasi

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——————————————Guerrino FaggianiRinasce nel maggio 2006 all’ospe-dale di Udine. Da lì in poi è blog-ger (www.iragazzidellapanchina.it/gueriblog ), attore, ciclista.. Come giornalista, o gli date 5000 battute oppure non si siede neanche da-vanti al computer. “Cosa? Taglia-re?!? Piuttosto non sta neanche metterlo..”

——————————————Milena BidinostIl direttore non si discute, si ama. perchè si è ripresa la vita (www.milenabidinost.blogspot.com) e oggi, come un trionfo, il direttore " vive, parla, ride, si arrabbia, com-muove, annoia, risveglia…"

——————————————Franca MerloO Francesca, non lo capiremo mai… Altra colonna portante dei RdP, ha recentemente pubblicato un libro, “Noi!! Viviamo", sulla sua esperienza nel gruppo prima come volontaria e poi come Presidente dell’Associazione. Ha un blog molto frequentato: http: //rosaspina_mia.ilcannocchiale.it

——————————————Pino Roveredo"La melodia del corvo" è il suo ulti-mo regalo letterario. Capriole in sa-lita, Caracreatura: Attenti alle rose, nei suoi romanzi più che scrivere dipinge. Con l'associazione ha da poco aviato un laboratorio di scrit-tura creativa coraggioso

——————————————Gino DainUn medico un giorno gli ha detto: se continui cosi non duri più di sei mesi. Era il 1980. Da allora per sca-ramanzia non è cambiato di una virgola. É la dimostrazione vivente che la medicina non è una scienza esatta

——————————————Elisa CozzariniÈ riuscita a far scrivere a Ginetto un articolo intero, impresa non da poco. Giornalista in bici da corsa e zainetto, è una tipa che vedresti meglio sfrecciare a NY piuttosto che nella pista ciclabile di PN. In-somma, Freelance Amstrong

——————————————Giuseppe MiccoBepi: secco come un terno, Mon-sieur Le Bepo è il lottologo della compagnia. Dategli la vostra data di nascita e ne farà una fonte di reddito. Una volta all'anno da Monsieur diventa Mister: dei leoni indomabili, i Kullander United.

——————————————Dario CastellarinÈ il re del gadget. Volete la pen-na che piange? il portachiavi che ride? Lui li ha. E dietro la scorza da duro del Roadhouse ha anche una grande sensibilità

——————————————Franco De MarchiFrate mancato, tra i fondatori de-gli RdP, poeta cambusiere per sua stessa ammissione si è lavato qual-che volta il viso con gli occhiali da sole su. Oltre agli occhiali c'è una cosa da cui è inseparabile: la... po-lemica

——————————————Alberto DanesinGentile, cortese ed educato come pochi. Inizialmente ci ha deliziato con delle marmellate biologiche, come ogni buon salutista. Ora si presenta in redazione con vassoi di paste alla crema e frittelle. Che voglia attentare alla nostra salute?

——————————————Andrea PiccoSu Fb alla voce orientamento reli-gioso ha scritto integralista juventi-no. Ora stiamo pensando di scrive-re a "chi l'ha visto?" per sapere che fine a fatto sia lui che la Juve. Ogni tanto ci arriva una mail che confer-ma la sua esistenza, come le poche vittorie della Juve.

——————————————Emanuele CelottoScrittore, nuotatore, scacchista, atto-re. Memorabili le sue performance nel ruolo del carcerato, con tanto di lancio della canotta al pubblico e pettorali in bella mostra. Per un po’ di tempo, purtroppo, si è dimentica-to di uscire dalla parte.

——————————————Chiara ZorziFinalmente una femmina tra tutti questi operatori maschi! Ci voleva! Sopranominata miss perfettina, non le scappa proprio niente. Ogni tanto ti viene da azzannarle la giugulare, ma poi ti fermi e pen-si: "Meno male che Itaca ce l'ha mandata!"

——————————————Fabio PassadorQuando si dice che nella bot-te piccola ci sta il vino buono! L'ultimo acquisto della squadra operatori ne è una conferma. In barba alla sua altezza, lo trovi ovunque: arte, sociale, impegno civile, politica ed ora è anche un Ragazzo della Panchina.

——————————————Ada MoznichPer l'Unità è una dei nuovi Mille italiani che stanno rifacendo l'Italia, impresa ben più ardua di quella garibaldina. Se quelli avevavo la camicia rossa, a lei basta un fioc-co. Non ci resta che sperare che lei e gli altri 999 non la rifacciano uguale.

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