latinoamerica - via tutti. arriva la diga. È una centrale idroelettrica ma sembra una guerra

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GARCÍA MARQUEZ: «QUANDO ANDAI DA CLINTON CON UNA LETTERA DI FIDEL CASTRO PER FERMARE IL TERRORISMO CHE VENIVA DA MIAMI» E INOLTRE : RAUL ZIBECHI SEBASTIAN LACÚNZA OSVALDO BAYER MARK WEISBROT GILBERTO LÓPEZ Y RIVAS OSCAR UGARTECHE FRIDA MODAK ALBERTO RABILOTTA SAMIR AMIN SALIM LAMRANI WAYNE SMITH ANTONELLA RITA ROSCILLI POSTE ITALIANE SPA - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE - D.L. 353/2003 [CONV. IN L. 27/02/2004 N. 46] ART. 1, COMMA 1 - DCB ROMA 4.2011 117 CUBA : UN ALTRO SFORTUNATO, PROMOSSO DISSIDENTE, MUORE IN CARCERE. E RIPARTE IL SOLITO, SQUALLIDO MERCATO USA DEI DIRITTI UMANI FREI BETTO I CINQUE, ULTIMI SOLDATI DELLA GUERRA FREDDA SE IL FONDO MONETARIO FA FALLIRE GLI STATI MA L’ITALIA NON LO SA MESSICO STORIA DELLA NARCO-GUERRA 2005-2011 n. 117 4.2011 trimestrale

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Page 1: Latinoamerica - Via tutti. Arriva la diga. È una centrale idroelettrica ma sembra una guerra

Pombo: l’ePoPea del Che in bolivia

“Ho sempre cercato di avvicinare e raccontare uomini e situazioni complesse che, magari per pregiudizio, non erano stati onestamente

spiegati alla gente. Così ho realizzato alcuni scoop giornalistici di risonanza internazionale, e sono riuscito ad entrare, qualche volta,

nel profondo di uomini e vicende. Spesso quindi i miei lavori sono stati, come ha detto il direttore del Festival di Berlino, Dieter Kosslick,

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nelle parole di Pombo e Urbano, che gli sopravvissero in Bolivia

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I documentari sulla Rivoluzione cubana,la rivista e i libri sull’America latina,

le riflessioni di un giornalista fuori dal coro ,i cd di Augusto Enriquez sull’epoca d’oro del Mambo

garCía marquez: «quando andai da Clinton Con una lettera di fidel Castro

Per fermare il terrorismo Che veniva da miami»

e inoltre:raul Zibechi

SebaStian lacúnZaoSvaldo bayer

Mark WeiSbrotGilberto lópeZ y rivaS

oScar uGartecheFrida Modak

alberto rabilottaSaMir aMin

SaliM laMraniWayne SMith

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Cuba: un altro sfortunato, Promosso dissidente, muore in CarCere.

e riParte il solito, squallido merCato usa dei diritti umani

frei bettoi Cinque, ultimi soldati

della guerra fredda

se il fondo monetario fa fallire gli stati

ma l’italia non lo sa

messiCo storia della narCo-guerra 2005-2011

n.117 4.2011

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Le foto

Michele LapiniUna speranza chiamata Ecuador

editoriaLe

Gianni Minà1/Se il Fondo monetario fa fallire gli stati ma l’italia non lo sa

2/Contro Cuba il solito, triste mercato Usa dei diritti umani

3/ Se Wikileaks smaschera la bloguera ma i nostri media non ne fanno cenno

iL mondo in cui viviamo

Raúl ZibechiLa seconda guerra fredda e il Sudamerica

Gennaro CarotenutoArgentina: come liberarsi del Fondo Monetario e vivere felici

Sebastián LacunzaCristina disinnesca l’arma della carta

Osvaldo BayerÈ morto Bussi, il sinistro

Bruno Rodríguez Se Usaid e Cia, sperperando i soldi dei contribuenti Usa, continuano a organizzare l’eversione a Cuba

Frei BettoI Cinque, ultimi soldati della Guerra fredda

Gianni MinàLa missione di Gabo per fermareil terrorismo Usa contro Cuba che cresceva a Miami

Gabriel García MarquezRelazione del premio Nobel sulla missione compiuta

Félix LópezCuba, paesaggio urbano e sfide future

Urgente24.comDilma Roussef, alla conquista del paese licenziando ministri

ANNO XXX N. 117

trimestraleottobre–dicembre 2011

LATINOAMERICAE TUTTI I SUD DEL MONDOwww.giannimina-latinoamerica.it

direttoreGianni Minà

[email protected]

Direttore ResponsabileAlessandra Riccio

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Supervisione e revisione testiRoberto Zanini

Segreteria di [email protected]

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Progetto Grafico Piergiorgio Maoloni

Impaginazione e CopertinaGiulio Fermetti

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TraduzioniAlessandra Riccio, Lydia Del Devoto,

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AmministrazioneLoredana Macchietti

[email protected]

Società Editriceg.m.e. Produzioni srl

Via A. Marsciano 7, 00135 RomaRegistrazione presso il Tribunale di Roma

n. 18142 del 6-6-1980

In vendita nelle librerie Feltrinelli e in quelle indipendenti a € 13

Chiuso in redazione il 25 gennaio 2012

StampaAtena S.t.e.p. Srl

Via di Valtellina, 47 Roma 00151

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Gli arretrati a disposizione sono elencati nel sito www.giannimina-latinoamerica.it

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degli articoli pubblicati sono riservati.Manoscritti e disegni, anche se non pubblicati,

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Pubbliche RelazioniAndrea Conforti

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Questa è una rivista associata

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Mark WeisbrotUn contrappeso agli Usa può salvare

l’Honduras e si chiama Brasile

Mariela Flores TorresMercosur e Palestina: al di là dei gesti

Gilberto López y RivasColombia, il terrorismo

di stato continua

Barbara Meo Evoli Colombia: via tutti, arriva la diga.

È una centrale elettrica ma sembra una guerra

Oscar UgartechePerù, il voltafaccia di Ollanta: eletto

con la sinistra, governa con la destra

Frida ModakGuatemala approvato, Nicaragua

bocciato: quando il voto non piace ai paesi “democratici”

Louisa ReynoldsGuatemala: perché le aree

distrutte dalla repressione militare hanno votato Pérez Molina?

Carlos Ayala RamírezEl Salvador: il Presidente Funes dopo 30 anni chiede perdono al

popolo per il massacro di El Mozote

Cubadebate.comGiamaica, il ritorno di Portia,

una donna al governo nell’isola dei narco-boss

anaLisi

Álvaro CuadraCile: così la dittatura

nei libri di scuola diventa un normale “regime militare”

Alberto RabilottaLa chimera della stabilità finanziaria

Giuseppe De MarzoContrordine compagni,

la Terra bolle e chi se ne frega

Samir AminEconomia: audacia, più audacia

documenti e testi

Eder GallegosMessico: storia della narcoguerra 2005-2011

Salim Lamrani e Wayne SmithSe un contractor della Cia potrebbe, alla fine, restituire la dovuta libertà ai cinque cubani

Alessandra RiccioPanama: Cara de piña è tornato a casa

cuLtura e cuLture

Gianni MinàL’amore critico di Tutino verso Cuba

Antonella Rita RoscilliIl centenario della nascita di Jorge Amado e i festeggiamenti in Brasile

David AngeliLe pietre che sono dio: c’è l’Inquisizione alle radici della “Rivoluzione Morales”

Olivia CasaresEcuador: a proposito di media e memoria storica

amiciLiBri

Luis SepúlvedaUltime notizie dal Sud

Alma GuillermoprietoCronache del continente che non c’è

Nicola NesoSartañani- LevantemonosMovimenti sociali e sindacali in Bolivia

Roque DaltonIl cielo per cappello - Antologia poetica

Paolo Ferrera, Ashé. Viaggio nei riti religiosi afrocubani

occidente

Jacopo RosatelliSpagna: la vendetta del Partito popolare contro Garzón

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Latinoamerica Le foto

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Ecuador non è solamente attraversato dall’equatore, ma anche da una nuova frizzante fase politica e sociale dopo un lungo periodo d’instabilità segnato da crisi e fallimenti politici. Tre mesi non sono molti per riuscire a carpire le dinamiche di un paese in fibrillazione, ma sono sufficienti per vedere che qualcosa si sta muovendo. Un qualcosa che nasce dai fallimenti delle politiche economiche ispirate e dettate da chi da anni domina l’econo-mia mondiale ma che non è capace di creare un sistema di benessere gene-rale. Tre mesi caratterizzati dai rilassati tempi latinoamericani per le strade, ma che diventano frenetici nei palazzi del governo dove è in atto quella che Correa chiama revolución ciudadana. Una nuova fase di rinnovamento che coinvolge tutti i settori nazionali, che sta contribuendo a una notevole cre-scita economica e sociale e che richiede la partecipazione di tutti per costru-ire un nuovo Ecuador.

L’instabilità politica che ha caratterizzato l’Ecuador è particolarmente evidente nei 23 cambiamenti presidenziali registrati tra il 1925 e il 1948 e successivamente nei repentini cambi di governo avvenuti anche grazie alla

crescente ingerenza degli Stati Uniti d’America nelle questioni interne del paese. Alla fine degli anni ’90, il periodo di forte crisi economica peggiorata anche a causa della crisi messicana del 1994 e corredata da una forte svalu-tazione della moneta nazionale (il sucre) aveva provocato forti tensioni socia-li sfociate nell’occupazione del palazzo del governo da parte dei movimenti sociali e indigeni che si opponevano alle riforme neo-liberali e alla dollariz-zazione dell’economia ecuadoriana. Ma le aspirazioni popolari furono tradi-te da Gustavo Noboa, personaggio molto vicino alla Casa Bianca, che con un colpo di mano decise di dollarizzare l’economia e proseguire con la linea neo-liberale dettata dalle grandi istituzioni internazionali. Le speranze nate dai movimenti popolari subirono un ulteriore duro colpo durante il governo di Lucio Gutierrez che tradì le aspirazioni del movimento indigeno e il suo stesso programma elettorale, alleandosi poi con gli ambienti conservatori e dominanti dell’Ecuador. Le aspirazioni sociali sono state più volte tradite dalle false promesse elettorali e da governi populisti che proteggevano inte-ressi economici e finanziari internazionali. Con l’elezione dell’attuale presi-

di Michele Lapini

L’

Latinoamerica Le foto

UNA SPERANZA CHIAMATA

ECUADOR

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Una speranza chiamata Ecuador

Le foto

verso una decisa opposizione del presidente Correa all’accordo di libero commercio con gli Stati Uniti d’America e all’incorporazione nel Plan Co-lombia. Questo atteggiamento ha portato a reazioni ostili da parte dell’esta-blishment americano, soprattutto dopo che nel 2009 il presidente Correa, di fronte all’illegittimità di una parte del debito estero riconosciuta da una commissione internazionale, ha dichiarato il default, rifiutandosi di pagare i relativi titoli di Stato. Il default dell’Ecuador nasce sia da motivazioni econo-miche legate al peggioramento della crisi causata dal crollo dei prezzi del petrolio e dei prodotti agricoli, sia soprattutto da una questione politica che rimanda all’illegittimità del debito estero maturato negli anni ’90. In questo periodo, molti paesi debitori furono costretti ad aderire al cosiddetto Piano Brady (dall’allora ministro del tesoro americano) in cui i titoli del debito furono usati per acquistare le imprese pubbliche da parte di un gruppo di funzionari di Stato americani e dallo stesso Brady, sotto la guida del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale. In Europa si è tornati a parlare del default ecuadoriano proprio adesso, in un periodo caratterizzato da una situazione economica insostenibile per molti paesi europei a causa dell’alto debito pubblico e delle manovre imposte dalla Banca Centrale Eu-ropea. La forte somiglianza della situazione europea attuale con quella lati-noamericana di alcuni decenni fa ha riportato alla ribalta la discussione sul rifiuto del debito fortemente voluto dal presidente Correa. La nuova fase politica che può essere racchiusa nella corrente del “socialismo del XXI se-colo” sta portando avanti notevoli cambiamenti all’interno del sistema po-

dente Rafael Correa, si è assistito ad un’inversione di rotta della politica nazionale, soprattutto per quanto riguarda le relazioni internazionali e i rapporti con i paesi dell’America Latina. La vicinanza ideologica con i governi socialisti latino-americani si è concretizzata nell’adesione da parte dell’Ecua-dor all’Alba, l’Alternativa bolivariana per le Americhe, nel 2009. Con la creazione di Alianza Pais e l’alleanza con altre realtà politiche di sinistra, Rafael Correa si è aggiudicato le elezioni del 2006 con un programma basato sulla cosiddetta

revolución ciudadana che prevede un cambiamento radicale del paese. Una delle prime azioni del nuovo governo è stata quella di convocare una con-sulta popolare per decidere sull’assemblea costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. La grande partecipazione popolare è stata uno dei primi segnali positivi del cambiamento in atto, che ha evidenziato la neces-sità di dare maggiori risposte alla popolazione ecuadoriana stanca di tante delusioni e inganni. La Costituzione di Montecristi, approvata tramite un referendum costituzionale nel 2008, rappresenta un testo fondamentale soprattutto perché lascia intravedere un superamento dell’attuale modello di sviluppo capitalista ed estrattivista, prendendo molto dalla concezione del Buen Vivir indigeno. Il preambolo racchiude l’essenza della nuova Costituzio-ne e sottolinea la necessità di costruire un Ecuador sovrano, giusto e parte integrante di un’America Latina ispirata a Simon Bolivar e all’eroe ecuado-riano Eloy Alfaro: “Noi uomini e donne, popolo sovrano dell’Ecuador, tenendo conto delle nostre radici millenarie, forgiate da uomini e donne di popoli diversi, onorando la natura, la Pacha Mama della quale siamo parte e che è vitale per la nostra esistenza, invocando il nome di Dio e riconoscendo le nostre diverse forme di religiosità e spiritua-lità, facendo appello alla sapienza di tutte le culture che ci arricchiscono come società, come eredi delle lotte sociali di liberazione contro tutte le forme di dominio e coloniali-smo, e con profondo impegno verso il presente e il futuro, decidiamo di costruire una nuova forma di convivenza dei cittadini, rispettando le diversità e in armonia con la natura, per raggiungere il buon vivere, il Sumak Kawsay: una società che rispetti, in tutti i suoi aspetti, la dignità delle persone e delle collettività; un paese democratico, impegnato nella integrazione latinoamericana, sogno di Bolívar e di Alfaro, nella pace e nella solidarietà con tutti i popoli della terra; e nell’esercizio della nostra sovranità, in Ciudad Alfaro, Montecristi, provincia di Manabi, ci diamo la presente Costituzione della Repubblica di Ecuador”.

La situazione generale dell’Ecuador che il presidente Correa ha dovuto affrontare aveva molte similitudini con la situazione argentina prima della crisi. Molta della sovranità nazionale era stata svenduta o delegata a interes-si internazionali, il potere delle multinazionali petrolifere lasciava ben poche ricchezze al paese e l’apertura dei mercati aveva provocato un crollo dell’eco-nomia nazionale, soprattutto nel settore agricolo. L’ondata di cambiamento è particolarmente evidente nelle relazioni internazionali, realizzata attra-

Michele Lapini

Nel 2006 il presidente Rafael Correa vince le elezioni e vara la sua “rivoluzione cittadina” Che ora affronta la prova del fuoco

Classe 83, inizia ad avvicinarsi alla fotografia

durante i primi anni universitari a Firenze, gra-

zie ad una macchina analogica e ai suoi coinqui-

lini. Nato in Valdarno, nel mezzo tra le città di

Arezzo, Firenze e Siena, si trasferisce per segui-

re l’università prima a Firenze e poi a Bologna,

dove tutt’ora risiede. Laureato in Cooperazio-

ne, Sviluppo e Diritti Umani cerca di affiancare

i suoi studi ed interessi alla passione per la fo-

tografia, considerandola come uno strumento

efficace per informare e creare coscienza.

Attraverso la macchina fotografica rac-

conta i movimenti contadini italiani che si

battono per un’agricoltura biologica, sana e

libera dalle logiche dei mercati, le rivendi-

cazioni degli studenti e studentesse che ne-

gli ultimi anni hanno riempito piazze, strade

ed università, le vicende umane dei migranti

che approdano a Lampedusa, la nostra porta

d’Europa, la resistenza indigena nell’amazzo-

nia ecuadoriana che si oppone all’estrazione

petrolifera e alla distruzione dell’ambiente,

non dimenticando la semplice ma stupenda

poesia della quotidianità.

Ha collaborato con alcuni festival italiani

ed internazionali come il Rototom Sunsplash,

collabora attivamente con diverse realtà so-

ciali e culturali tra Bologna e la Toscana, con

all’attivo diverse pubblicazioni su riviste e

giornali italiani, spagnoli ed inglesi.

CHI è MICHELE LAPINI

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Una speranza chiamata Ecuador

Le foto

latinoamerica • 4 • 2011 I 1110 I latinoamerica • 4 • 2011

guidato fino ad oggi le politiche ambientali internazionali, che hanno dato vita a quel Protocollo di Kyoto incapace di trasformare gli accordi scritti in realtà concreta. La novità dell’Iniziativa Yasuní-Itt è quella di riuscire a pre-venire i danni ambientali, rinunciando così all’estrazione petrolifera che comprometterebbe uno degli ultimi polmoni verdi del pianeta, nonché un serbatoio di ricchezze naturali. Se la comunità internazionale risponderà positivamente, questa iniziativa potrà rappresentare un esempio da seguire per far fronte alle devastazioni ambientali prodotte dall’attuale sistema. Oltre all’Iniziativa Yasuní-Itt, il governo di Rafael Correa dovrà impegnarsi nella salvaguardia della foresta amazzonica e nella tutela dei diritti delle popolazioni indigene, cercando di far rispettare i principi della Costituzione di Montecristi e appoggiando la resistenza e la lotta indigena contro le im-prese petrolifere.

L’attuale situazione ecuadoriana è quindi caratterizzata da una forte po-polarità del presidente Correa, che gli ultimi sondaggi danno addirittura sopra il 65% di consensi, grazie sia alla sua forte personalità che alla presen-za di un’opposizione incapace di offrire una reale alternativa al governo socialista. Ma solo se l’attuale formazione di governo riuscirà a rispettare la nuova Costituzione di Montecristi, si avrà la possibilità di costruire un siste-ma alternativo a quello estrattivista-produttivista, in grado di consolidare l’appoggio dei settori sociali e indigeni, indispensabili per la rielezione di Correa nella prossima tornata elettorale. La partita decisiva per l’Ecuador e il sogno di un’America Latina libera, giusta e sovrana si gioca tutta nei pros-simi anni quando diventerà indispensabile la difesa delle istanze che hanno generato la revolución ciudadana e il socialismo del XXI secolo, per fare in modo che questo grande patrimonio di ricchezza ambientale e umana ri-manga intatto e segni la strada giusta per un cambiamento reale.

litico e amministrativo dell’Ecuador, con la creazione di nuovi ministeri e nuove funzioni che rispondono agli obiet-tivi socio-economici del governo ecuadoriano. Concetti come sovranità nazionale, cittadinanza universale, integrazione latinoamericana e riforme sociali, sono stati l’arma vincente di Correa e di Alianza Pais, soprattutto dopo l’evidente falli-mento delle politiche neo-liberali e della dollarizzazione. L’economia ecuadoriana sta crescendo a tassi pari al 6-7% annuo grazie non solo al petrolio, che rappresenta circa il

40% delle esportazioni, ma anche grazie a un’industria nazionale in forte crescita. La redistribuzione della ricchezza rappresenta ancora una proble-matica presente nel contesto ecuadoriano, considerando l’alta percentuale della popolazione che vive in condizioni di povertà, ma l’impegno del gover-no in quest’ambito è particolarmente evidente date le numerose riforme sociali attuate. L’incorporazione del settore indigeno all’interno del sistema amministrativo e l’avvio di programmi educativi basati sui principi del buen vivir andino rappresentano un punto di unione tra la componente indigena e lo Stato ecuadoriano. Il programma sulla “Educaciòn para la Democracia y el Buen Vivir” ha come obiettivo quello di incorporare all’educazione pri-maria i principi legati alla concezione indigena per costruire una società democratica, equa, inclusiva, pacifica, tollerante, interculturale e rispettosa dell’ambiente.

Anche per ciò che riguarda le politiche ambientali, l’Ecuador è tornato al centro del dibattito internazionale soprattutto per il Parco Nazionale Yasuní, che oltre a rappresentare uno dei luoghi con la più altra concentrazione di biodiversità e dove ancora vivono popolazioni indigene in isolamento volon-tario, è minacciato dagli interessi petroliferi per la presenza dell’oro nero nel proprio sottosuolo. Il Parco Nazionale Yasuní comprende circa 6 blocchi con al suo interno 8 concessioni petrolifere. Nel 1999 una parte del Parco, pari a circa 758mila ettari, è stata dichiarata Zona Intangibile. La forte pres-sione esercitata dalle imprese petrolifere e del legname ha portato, nel 2006, il governo di Rafael Correa a convertire una proposta della società civile in un’iniziativa avanguardistica denominata Yasuní-Itt che prevede la non estra-zione del petrolio presente nel Blocco Itt (Ishpingo, Tambococha e Tiputini), pari a circa 900 milioni di barili. Per poter realizzare ciò, il governo chiede alla comunità internazionale di compensare la metà dei potenziali benefici economici attraverso l’acquisto di bond emessi dallo Stato e amministrati da un fondo fiduciario gestito dall’Undp (United nations development program-me) da destinare a progetti con finalità sociale e ambientale. La fase di reces-sione economica mondiale non sembra favorire il buon esito di tale inizia-tiva, che nonostante ciò è riuscita comunque a raggiungere un primo impor-tante obiettivo ottenendo 100 milioni di dollari lo scorso dicembre. Questa iniziativa può essere definita rivoluzionaria poiché ribalta la logica che ha

Michele Lapini

“Socialismo del XXI secolo”, l’economia cresce del 6% l’anno ma la recessione rappresenta una sfida insidiosa per Quito

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editoriaLeLatinoamerica

2 e il 3 dicembre scorso i presidenti e i premier di 33 paesi dell’America Latina e dei Caraibi [praticamente, tutte le nazioni americane tranne Stati Uniti e Canada] si sono riuniti a Caracas per dare compimento alla fondazio-ne della Celac, [Comunidad de Estados Latinoamericanos y Caribeños] un organi-smo intergovernativo che si rifà all’idea della Comunità Europea.

L’iniziativa, che ha la sua Germania e la sua Francia nel Brasile, prossima quinta potenza economica del mondo, nell’Argentina di sinistra di Cristina Kirchner e nel ricco Venezuela petrolifero di Hugo Chávez, decreta il tra-monto della vecchia Osa, l’Organizzazione degli stati americani che mezzo secolo fa Raul Roa, ministro degli esteri della Rivoluzione cubana, definiva “il ministero delle colonie yanqui” e che oggi Rafaél Correa, giovane pre-sidente dell’Ecuador, economista con un master all’Università cattolica di Lovanio in Belgio, definisce lo “strumento di Washington per perseguitare i governi progressisti del continente a sud del Texas”.

È chiaro che la crisi economica mondiale, causata dagli spregiudicati maneggi finanziari dell’economia neoliberale, ha spaventato e sollecitato un continente oggi in crescita dopo decenni di sofferenze e vessazioni di istituti come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Questi organismi hanno sempre lavorato per soddisfare solo le mire dei paesi più ricchi e potenti, tesi ad accaparrarsi le ricchezze di nazioni piene di risorse naturali ma condannate all’indigenza e alla repressione dalle logiche di pre-

Il

SE IL FONDO MONETARIO FA FALLIRE GLI STATI E L’ITALIA NON LO SA

di Gianni Minà

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Gianni Minà

Un primato rotto recentemente soltanto da nazioni latinoamericane come il Brasile di Lula o l’Argentina dei Kirchner, che hanno semplicemen-te detto, a un cero momento, “Adesso pagheremo quando potremo farlo” e, in pochi anni l’hanno fatto, avvisando poi i funzionari dell’Fmi, ancora impegnati, come Totò quando cercava di vendere la Fontana di Trevi, a pro-porre a queste nazioni presunti affari e - soprattutto - altri prestiti: “Con voi il discorso è chiuso, non vogliamo più vedervi da queste parti”.

La realtà poi è ancora più grottesca se si considera che, per esempio, come esperto di geopolitica latinoamericana, giornali progressisti come La Repubblica e l’Espresso, o come lo stesso El País in Spagna, scelgono l’ex diretto-re esecutivo della Banca mondiale, Moisés Naím, l’economista venezuelano che quando era ministro dell’industria e del commercio dell’imbarazzante governo di Carlos Andres Perez fu tra i responsabili, nel 1989, del caracazo, protesta di piazza contro le privatizzazioni selvagge repressa nel sangue con più di 500 morti. I suoi articoli, sempre avversi ai protagonisti del rina-scimento dell’attuale America latina progressista, sono capaci di sostenere che non bisogna plaudire Lula, che ha portato il Brasile a essere quello di oggi, ma semmai gli incredibili successi del povero presidente messicano Felipe Calderón, creatura politica degli Stati Uniti, che nei suoi quasi sei anni di governo e di presunta guerra ai cartelli della droga, ha già messo in fila 50mila morti [quanto il conflitto in Iraq] e l’assassinio di una trentina di giornalisti.

Credo che in questo atteggiamento sia palese un grande equivoco: quello sulla capacità del modello politico neoliberale di salvare il mondo, o anche soltanto di tirarlo fuori dall’attuale corsa verso il nulla. Anche se pervica-cemente perfino l’informazione che fu progressista cerca pateticamente di dimostrare che il mercato metterà tutto a posto.

Nel 1989 è imploso, per i suoi fallimenti, il comunismo. Adesso sta vi-vendo lo stesso destino il capitalismo. Solo che non si ha il coraggio di dirlo o non si permette di sottolinearlo, di farlo sapere e di porre riparo a questa deriva, perché sennò si perdono copie o punti di rating.

Tutto questo è pericoloso e triste, perché con questo andazzo, che si è li-mitato a proteggere banche, banchieri e nazioni potenti, non si va da nessu-na parte se non verso pericolose stagioni di scontro e di ribellione. Guardate

l’Italia: lo stesso Monti, condizionato della vecchia politica e sicuro solo dei consunti metodi del neoliberismo, non ha saputo far pagare i guasti economici a chi li aveva causa-ti o, con i suoi modi di essere [evasione fiscale, corruzione eccetera], ne era responsabile. Perché dovremmo credere che adesso possa cambiare qualcosa, non avendo avuto il coraggio di girare pagina e di battere nuove vie, più eque e più sociali, per assicurare a tutti, ma proprio tutti gli esseri umani, il diritto di vivere?

editoriaLe

Se il Fondo monetario fa fallire gli stati ma l’Italia non lo sa

stiti “inumani e impagabili”, come li definì papa Giovanni Paolo II.

Per questo è sintomatico il fatto che alla Celac abbia-no aderito anche i rappresentanti di governi conservatori e fino a ieri proni solo agli interessi degli Stati Uniti, come Juan Manuel Santos, neo presidente della Colombia, uno stato che “ospita” ben sette basi militari nordamericane, Felipe Calderón, presidente del Messico che a breve dovrà addirittura accettare che la lotta ai cartelli dei narcos venga

diretta nel suo paese dai Seals, le teste di cuoio della Marina americana, che recentemente hanno fatto fuori in modo spiccio Osama bin Laden, e il cileno Sebastian Piñera, ultraliberista, eletto addirittura presidente del nuovo organismo.

La sopravvivenza è la sopravvivenza, e il fatto che molte di queste na-zioni sudamericane stanno soffrendo un po’ meno la crisi economica in atto nel mondo perché hanno un rapporto meno dipendente con banche, assicurazioni e agenzie di rating nordamericane ha certamente avuto il suo peso nella decisione di dare vita a questo organismo. Tanto per capirci, in-fatti, a questo summit c’era anche Raúl Castro, presidente di Cuba, il paese ancora sottoposto a embargo e provocazioni varie da parte degli Stati Uniti per avere scelto, cinquant’anni fa, di governarsi con una sorta di sociali-smo caraibico e di essere quindi un cattivo esempio per tutte quelle nazioni nel continente sfruttate e depauperate per decenni dalle multinazionali del nord e che, ancora recentemente, sono state obbedienti nell’accettare il fa-moso Alca, trattato di libero commercio con gli Usa, che le fa ancora penare per restituire i debiti e recuperare uno straccio di sofferta autonomia.

Forse è per questa realtà, che smentisce molte delle certezze del mondo capitalista, del mercato, che la quasi totalità degli organi di informazione italiani hanno nascosto o addirittura ignorato, la notizia della nascita della Celac.

Come avrebbero potuto spiegare, infatti, dopo aver cantato senza ritegno le lodi dell’economia globalizzata e la favola del mercato che si autoregola, che queste realtà nascondono una cinica fregatura?

I nostri media sono arrivati al punto di sottolineare come notizia ras-sicurante quella che il Fondo monetario avrebbe intenzione di “aiutare” con un prestito la sofferente Italia di Monti. Dimenticano, però, che questo organismo, nato come la Banca mondiale a Bretton Woods [New Hampshi-re] nel 1944 per sovrintendere alla bilancia dei pagamenti fra stati dopo il fallimento del cosiddetto “Gold standard” [la convertibilità in oro di tutte le banconote circolanti, complice di un sistema che precipitò l’economia pla-netaria in due guerre mondiali] ha guadagnato una fama nefasta. La fama di aver annientato, a causa di debiti impagabili, tutte le nazioni dove, chissà perché, era stato richiesto il suo intervento.

L’equivoco è credere ancora che il mercato metterà tutto a posto è il capitalismo invece che è scoppiato, come il comunismo nell’89

L’America Latina in crescita s’inventa una nuova vita: sull’esempio dell’Ue, nasce la Celac, ma i nostri media tacciono

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fragili. Sembra infatti che a Villar, che si era avvicinato in carcere alla dissidenza, avevano fatto credere che l’eventuale appartenenza a gruppi controrivoluziona-ri gli avrebbe assicurato aiuti esterni nella sua lotta contro la condanna.

Quello che risulta insopportabile, però, è che, per esempio, il 2 novembre scorso, negli uffici del Dipartimento di stato a Washington, abbia avuto luogo, secondo quanto hanno affermato i mezzi d’informazione di Miami, una riunione tra Peter Brennan, direttore dell’ufficio che, nel ministero degli esteri Usa, si occupa di Cuba, e il presidente del Movimento Democrazia, Ramón Saúl Sánchez, erede, nelle operazioni contro l’isola, della famigerata Fondazione cubano-america-na di Miami. In questa riunione Brennan avrebbe dato il suo via libera a un’azione dimostrativa da tenersi il 9 dicembre 2011, giorno in cui una flottiglia di piccole navi avrebbe messo in piedi un’iniziativa di disturbo basata per tre ore sull’emis-sione di luci e fuochi d’artificio con slogan visibili non solo da l’Avana, ma anche da Pinar del Río e da Matanzas, con l’obiettivo [pur avendo avuto dalla Casa Bian-ca la raccomandazione di non sconfinare nelle acque territoriali cubane] di crea-re tensioni, disturbi alla navigazione aerea e inquietudine in una parte della po-polazione.

Non ha importanza che poi, date le pessime condizioni del tempo, questa buffonata non abbia avuto luogo. Quello che ci domandiamo è cosa sarebbe suc-cesso se la provocazione fosse avvenuta al contrario e fosse stata un’entità cuba-na a disturbare la sicurezza magari della Florida, o perché questi dispetti da in-fanzia capricciosa debbano tornare in auge, come ai tempi in cui gli Stati Uniti tentarono di far subire alla popolazione dell’isola la propaganda di Radio e Tele Martí, un’iniziativa costosa ma finita nel ridicolo.

Tutto questo a che cosa serve? Forse a far reputare Cuba ingombrante dalla nascente Comunità degli stati latinoamericani e dei Caraibi [Celac]? Crediamo che Hillary Clinton sappia perfettamente quanto il vecchio assetto dell’America latina sia tramontato e come il continente stia irrimediabilmente con Cuba.

Anche se la realtà politica è mutata dai tempi di Bush jr, pronto a stanziare nel 2008 150 milioni di dollari “per cambiare faccia a Cuba”, evidentemente gli Stati Uniti di Obama continuano a credere, come ho detto, in questo modo triste di fare politica e di cercare di cambiare un contesto dove falliscono da 50 anni. Non a caso, anche per questo 2012 di crisi totale il governo di Washington ha trovato oltre 20 milioni di dollari per tentare di destabilizzare la Rivoluzione. Lo

ha scritto recentemente Eva Golinger, prestigiosa giornalista e avvocato con doppia cittadinanza venezuelana e nordame-ricana, con studio a New York, citando alcune notizie dese-cretate da Wikileaks, dove viene svelato che la logica degli Stati Uniti è quella di sovvenzionare, come negli anni Cin-quanta, opposizioni di paesi governati da leader non appro-vati dalla Casa Bianca. Nel caso più recente si tratta di 5 mi-lioni di dollari a chi, in Venezuela, si oppone a Chávez e i già citati 20 milioni a chi dovrebbe creare confusione, dissenso

meccanismo è sempre lo stesso, lo ha inventato l’ex Presidente nordamericano Ronald Reagan negli anni Ottanta e, come ha spiegato il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchú, si tratta di un vero e proprio “mercato dei diritti umani”. È basato sulla costruzione mediatica di un incidente, uno scandalo, spesso falso, per gettare discredito su un obiettivo strategico per gli Stati Uniti - nel caso par-ticolare, come altre volte, la Revolución cubana - e poi tenere in piedi questa ten-sione finché è possibile o l’accusa, col tempo, non crolla per inconsistenza.

Nel 2010 la campagna dopo la morte in carcere del discusso dissidente cuba-no Osvaldo Zapata a seguito di uno sciopero della fame durò quasi sei mesi, con grande dispendio di fondi pubblici Usa, e poi, non essendo riuscita a montare il discredito internazionale sperato, finì da un giorno all’altro, senza alcuna spie-gazione.

Nel maggio 2011 fu montato, invece, il caso di Juan Wilfredo Soto, un altro presunto dissidente morto, questa volta, “per le percosse della polizia”. Ma il caso si smontò in un paio di giorni, dopo che perfino i suoi parenti più stretti testimoniarono ai media di tutto il mondo che il loro congiunto era stato ben curato ed era morto per le conseguenze di una pancreatite e di un’insufficienza renale.

Certo, è disdicevole e assolutamente inaccettabile che un cittadino di un paese decida, quale che sia il motivo della sua protesta, uno sciopero della fame e non si sia in grado di farlo desistere prima che muoia.

Ma il “nuovo” caso di questi giorni, quello della morte per polmonite di Wilman Villar, un presunto dissidente cubano della provincia di Oriente condan-nato, secondo la nota ufficiale del governo, a 4 anni per “oltraggio, attentato e resistenza”, ha tutte le caratteristiche per sembrare qualcosa di già visto e senti-to e per farci domandare perché, anche nell’epoca del Presidente Obama, il go-verno di Washington continui a tormentare Cuba e a credere di poter risolvere, con i soliti mediocri metodi, la cinquantennale sconfitta finora subita nel tenta-tivo di piegare la Rivoluzione ai propri obiettivi riguardo all’America Latina.

Non è solo importante verificare se, come pare insmentibile, Villar sia finito in carcere e poi condannato a 4 anni per aver aggredito sua moglie, provocando-le lesioni al viso [tanto che a chiamare la polizia era stata la suocera] e per avere, successivamente, resistito all’arresto aggredendo gli agenti della Pnr [Policía na-cional revolucionaria].

È triste, però, constatare che i dissidenti a Cuba, veri o falsi che siano, conti-nuano a essere, mezzo secolo dopo, ancora merce in mano a gruppi che ne fanno traffico e che, in modo macabro, cercano di sfruttare perfino il disagio dei più

CONTRO CUBA IL SOLITO, TRISTE MERCATO USA DEI DIRITTI UMANI

Il

Un altro sfortunato, promosso dissidente, muore in un carcere cubano. E si rimette in moto la squallidamacchina dello scandalo

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Gianni Minà

editoriaLe

Contro Cuba il solito, triste mercato Usa dei diritti umani

dimentica però di segnalare che da 6 anni fa il pensionato a casa sua…]. È la storia di René Gonzáles, “una spia cubana [controllava gli anticastristi a Miami] liberata dopo 13 anni di detenzione, e che dovrà rimanere in Florida per i pros-simi 3 anni in libertà condizionata. Una sentenza che ha scandalizzato Cuba perché espone Gonzáles alle ritorsioni dei nemici”.

L’Espresso in questa nota dimentica di dare alcune fondamentali indicazioni per capire non solo cosa si cela dietro alla notizia, ma anche chi ha ragione in questa diatriba, al di là del fatto che, per molti colleghi, gli Stati uniti, per prin-cipio, sono sempre nel giusto. Allora:

1] René Gonzales è uno dei cinque agenti dell’intelligence cubana che, alla fine degli anni Novanta furono infiltrati in Florida e smascherarono le centrali terroristiche che da lì preparavano e realizzavano attentati a Cuba. Nel corso degli anni le vittime sono state più di tremila, grossomodo quante quelle delle Torri gemelle.

2] I cinque fecero un buon lavoro, tanto che il governo de l’Avana si vide costretto a segnalare per via diplomatica a quello di Washington che queste centrali del terrore sul suo territorio erano pericolose anche per gli Stati Uniti, e che i faldoni con le prove raccolte erano a disposizione dell’apparato di sicu-rezza dell’allora Presidente Clinton, che inviò a Cuba tre funzionari dell’Fbi a cui fu consegnato il materiale. Ma invece di andare ad arrestare i terroristi, Wa-shington decise di arrestare chi aveva scoperto i criminali.

3] Alla fine degli anni 90 un processo farsa a Miami [che, come hanno poi affermato insigni giuristi, doveva essere annullato per legittima suspicione e ten-tativo provato di condizionare i giudici] si era chiuso con condanne a pene tombali per i cinque cubani.

4] La Corte di appello di Atlanta, che ha giurisdizione su Miami, aveva an-nullato il processo in questione, mentre Alberto Gonzales, ministro della giusti-zia del subentrato Presidente George Bush jr, faceva pressione per portare da tre a nove i giudici d’appello e rivedere la sentenza. La questione era finita inevita-bilmente alla Corte Suprema, che però si era rifiutata di intervenire, praticamen-te esautorando la corte d’appello di Atlanta.

5] I giornali e i network tv nordamericani ignorarono fino al limite del pos-sibile questa storia inquietante, poi un gruppo di intellettuali e persone di buo-na volontà, con in testa Noam Chomsky [“il più prestigioso intellettuale del

mondo”, come lo ha definito il New York Times] e, fra gli altri, l’ex ministro della giustizia Usa Ramsey Clark, il vescovo di Detroit Thomas Gumbleton e il premio Nobel per la pace Rigoberta Menchú, decise di acquistare una pagina proprio sul New York Times, pagandola 60mila dollari, per far conosce-re questa storia ripugnante ai cittadini della nazione bandie-ra della libertà di espressione del mondo occidentale.

Quando si dice democrazia e si giura di agire in difesa dei diritti umani. Ci vuole una bella faccia tosta.

o quanto meno antipatia nei confronti della Rivoluzione cu-bana .

Ma anche stavolta i soldi sembra siano stati spesi male, perché la storia di Villar si è sgonfiata dopo appena 48 ore [dal 20 al 22 gennaio 2012].

In Italia, per esempio, ha voluto crederci solo Pierluigi Battista sul Corriere della sera, dimenticandosi perfino che, nel nostro democratico paese, nel 2011 ci sono stati 65 suicidi di detenuti nelle carceri, pur non essendoci al governo la depre-

cata Rivoluzione cubana. Forse è proprio perché l’opinione pubblica italiana, più che disinteressata è stufa di tanto vuoto cabaret che, deludendo Pigi, non reagi-sce come lui vorrebbe quando si affronta il tema Cuba.

Fare il giornalista è un mestiere che richiederebbe pazienza certosina per verificare quello che si afferma. Evidentemente quando Battista afferma stron-zate tipo: “la Rivoluzione cubana ha mietuto in termini numerici più vite uma-ne del regime di Pinochet”, o è in malafede o deve fare un “inchino” a qualcuno, o non ha avuto il tempo che hanno avuto comunicatori e cineasti prestigiosi come Michael Moore [Bowling a Columbine, Fahrenheit 9/11, Sicko], Oliver Stone [Platoon, Jfk, Nato il 4 di luglio, …] vincitore di 9 premi Oscar e autore di due docu-mentari su Fidel Castro, o Steven Soderbergh [Erin Brockovich, Traffic, Ocean 11,12 e 13] e autore, tra l’altro, di due onestissimi e pregevoli film sulla vita di Ernesto Guevara, che, quando hanno affrontato il tema Cuba, lo hanno fatto, controllan-do fino all’esasperazione l’indiscutibilità della loro versione dei fatti, con una serietà sconosciuta all’ex-comunista Pigi.

D’altronde basterebbe domandare alle Agenzie dell’Onu sulla sanità, sull’educazione, sulla cultura, sull’ambiente e perfino sulla protezione civile, per sapere, al netto della propaganda di Usaid e Ned [agenzie della Cia], quale sia l’opinione che il mondo ha di Cuba, pur senza sottostimare errori e contrad-dizioni della Rivoluzione.

Insomma, il problema non è solo nei metodi scelti dai vari governi degli Stati Uniti quando hanno deciso che un paese è diventato fastidioso e non con-veniente alla propria economia o alla propria supremazia politica, il problema sta anche nell’onestà intellettuale dei media, quindi dei giornalisti.

A novembre mi è capitato di leggere su l’Espresso, nella sezione dedicata al mondo, una lunga notizia titolata “È calato il gelo tra Castro e Obama”, dove, con molta circospezione, si affrontava il problema della carcerazione a Cuba del cittadino nordamericano Alan Gross “un contractor dell’agenzia Usaid [senza spiegare cos’è l’Usaid, ndr] condannato a l’Avana a 15 anni per crimini contro lo Stato. L’accusa è di aver installato reti internet clandestine per i dissidenti del regime, mentre gli Usa sostengono [e l’Espresso sembra crederci, ndr] che l’obiettivo di Gross era quello di aiutare la comunità ebraica dell’isola” [che invece sull’ar-gomento ha preso le distanze]. L’Espresso poi spiega [si fa per dire] il secondo caso che avrebbe “gelato” le relazioni fra Barack Obama e Fidel Castro [di cui si

E René Gonzales, caro espresso, non è “una spia” ma un agente antiterrorismo che ha smascherato i “bombaroli” di Miami

Ma questa volta il presunto caso dura solo 48 ore. E in Italia ci crede soltanto il solito Pigi Battista sul corriere della Sera

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cinicamente pilotate proprio dal capitalismo Usa che mira ad atterrare l’euro.Ed è significativo, poi, rilevare che i paesi capaci in qualche modo di salvar-

si sono il Brasile avviato a essere la quinta potenza economica del mondo, l’Ar-gentina che dieci anni fa stava per fallire e si è salvata quando ha messo alla porta quelli del Fondo monetario, il Venezuela che nazionalizzando il petrolio trova le risorse per resuscitare un’umanità che prima di Chávez non era iscritta nemmeno all’anagrafe, la Bolivia e l’Ecuador che riscrivono Costituzioni dove chi offende la natura è punito come chi violenta un essere umano, e perfino Cuba che, cocciutamente fedele al socialismo, ha un Pil che cresce [+2,4%] più di quel-lo dell’Italia [+ 0,8%], ancora per poco una delle componenti del G8.

Chi ha per anni ridicolizzato Cuba, presuntuosa isola dei Carabi che voleva governarsi con la cultura e senza il culto del mercato, dovrebbe forse avere ora qualche perplessità, specie considerando che questa America Latina che opta per un’economia più sociale ed equa è stata, per sua stessa ammissione, influenzata dall’esempio di resistenza di Cuba.

Non è sorprendente che non se ne sia accorta la “bloguera antisistema” che incassa 250mila dollari di premi in due anni, solo perché i “cattivoni” del suo governo non le hanno permesso di andare personalmente a ritirarli, come vole-vano gli organizzatori di quelle kermesse.

È scandaloso davvero che non se ne siano accorti i cosiddetti operatori della comunicazione del mondo occidentale, pronti a seguire le appendici della Cia come Usaid o Ned in ogni loro campagna contro Cuba. A quesi cronisti, d’altra parte, è sfuggito anche che ad Haiti, dagli Stati uniti, sono arrivati decine di mi-gliaia di marines ma non gli aiuti umanitari promessi, mentre invece continuano a funzionare i due ospedali da campo inviati il giorno dopo del terremoto da Cuba, realtà riconosciuta pubblicamente dal Presidente di quell’isola martoriata, Michel Martelly, ma sistematicamente ignorata o elusa dai nostri media.

È “sfuggita” anche la testimonianza della Coordinatrice residente dell’Onu a l’Avana, che dirige le agenzie, i fondi e i programmi delle Nazioni unite sull’iso-la. Barbara Pesce-Monteiro, romana, ex allieva del liceo Virgilio, laureata in Scienze politiche internazionali con master in Sviluppo rurale, che ha lavorato in zone calde, prima in Colombia e poi in Guatemala, Nicaragua, Messico e An-gola, ha ricordato alcuni meriti dell’isola, come il fatto che “tutti, nessuno esclu-so hanno accesso all’educazione dalla prima infanzia e fino alle più sofisticate

specializzazioni”.Non è da poco per un paese del Centro America, che già

occupava un prestigioso 53° posto nell’Indice di sviluppo umano, quando questo si basava solo su dati economici, aver raggiunto, ora che l’Onu ha inserito in questo tipo di valuta-zione non solo l’economia ma anche la salute e l’educazione, il 17° posto mondiale, precedendo, in America latina, Cile e Argentina.

L’Onu aggiunge salute ed educazione alle sue classifiche e Cuba balza al 17° posto al mondo. Ma nessuno se ne accorge

avid Angeli, un nostro lettore che, per la sua competenza sulla storia dell’Ame-rica latina, ma anche per la sua ironia, si è guadagnato il diritto di pubblicare su questo numero della rivista un interessantissimo saggio sui 500 anni della colo-nizzazione culturale del continente [pag. 146], ci ha provocato, quando ha offerto il suo articolo, con un post scriptum molto accattivante: “Se non dovesse interes-sarvi il mio lavoro, vorrà dire che proporrò a Yoani Sánchez un articolo sul fatto che la mancanza di lacci fucsia per le scarpe e di orsetti gommosi a Cuba sia un’imperdonabile colpa della Rivoluzione”.

Il suo saggio Piedras que son dioses [Pietre che sono dèi, ndt] vale la pubblicazione per la sua profondità storica, ma anche per il merito di offrire l’occasione a que-sto giovane intellettuale di segnalare come le rituali note di malumore della bloguera cubana, incapace di leggere anche solo un dettaglio positivo nelle scelte della Revolución, rappresentino la barzelletta dell’interpretazione di un paese.

Yoani Sánchez, infatti, è molto conosciuta all’estero ma poco in patria, un po’ come succede ai “soliti” dissidenti cubani, secondo il parere dello stesso Jo-nathan Farrar, capo dell’ufficio di interessi degli Stati Uniti a l’Avana che [come ha recentemente rivelato Wikileaks, pubblicando la sua corrispondenza col Dipar-timento di Stato] non ha nessuna fiducia nell’efficacia politica della dissidenza tradizionale, pur foraggiata generosamente da decenni proprio dall’ufficio che lui ora sovrintende. Farrar è così scettico da proporre al dipartimento di Hillary Clinton di provare magari a dare ancora più sostegno alla giovane bloguera. Ve-dessi mai il cambio generazionale potesse funzionare.

Quasi tutti i media italiani, ovviamente, hanno eluso questi particolari dei temi che Wikileaks ha svelato. Penso, da vecchio cronista che in molti casi si trat-ti dell’inguaribile e patetica abitudine di non disturbare le strategie convenienti agli Stati uniti d’America e a quel mondo, il nostro, che spesso di queste imprese è costretto a essere complice, se non vassallo, come per le guerre in Medio Orien-te, irrisolte dopo più di 10 anni, o per la “storiaccia” di Gheddafi.

Insomma, l’ennesimo caso di colonizzazione politica, che fa seguito, in Su-damerica, a quella spagnola e portoghese e poi a quella più recente, dell’economia neoliberale.

La realtà è sempre più grottesca se si considera che, dopo la crisi innescata dalla criminale finanza speculativa degli Stati Uniti, a rischiare di più il baratro è l’Europa. Messa al muro, oltretutto, da meccanismi come le agenzie di rating

SE wikiLeakS SMASCHERA LA BLOGUERA MA I NOSTRI MEDIA NON NE FANNO CENNO

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editoriaLeLatinoamerica

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

a “guerra contro il terrore”, lanciata da George W. Bush in seguito agli attentati dell’11 settembre, sta per essere soppiantata dal “contenimento” della Cina, la nuova strategia delineata dal

Pentagono per accerchiare e far andare a fondo la potenza asiatica, allo sco-po di mantenere la supremazia globale. L’ultima virata dell’impero coinvol-ge in pieno il Sudamerica.

L’inversione di tendenza ha preso corpo nel mese di novembre. “Nei nostri piani e budget per il futuro, allocheremo risorse per mantenere nella regione la nostra massiccia presenza militare”, ha detto Barack Obama il 17 novembre davanti al parlamento australiano. Nel numero di novembre di Foreign Policy, il segretario di Stato Hillary Clinton ha fatto alcune precisazio-ni. “Negli ultimi dieci anni abbiamo dato risorse ingentissime all’Iraq e all’Afghanistan. Nei prossimi dieci, dobbiamo dosare con intelligenza i nostri investimenti in termini di tempo e energia, per ottenere la miglior posizione possibile che ci consenta di mantenere la nostra leadership”.

Secondo la Clinton, nel prossimo decennio gli Stati Uniti realizzeranno il più forte investimento “diplomatico, economico, strategico nella regione Asia-Pacifico”. Com’è tipico di tutte le strategie nordamericane, il settore militare e quello economico formano un’unica politica. Nell’immediato si prevede un dispiegamento di 250 marines a Darwin (Australia del nord), fino al raggiungimento di 2.500 militari. Al momento il Pentagono ha basi in Giappone, Corea del Nord, Taiwan e Guam, ma l’insediamento in Australia costituisce una tenaglia all’uscita della Cina verso l’Oceano Pacifico. Questa politica rientra nell’obiettivo non dichiarato di creare una “Nato del Pacifi-co” volta a fare pressione e accerchiare la Cina.

Il secondo passo non è militare ma economico e consiste in un accordo ambizioso di libero commercio tra vari paesi del Pacifico, denominato Tpp (1),

di Raúl ZibechiGiornalista uruguaiano, è docente presso la Multiversidad Franciscana de América Latinae consulente di vari collettivi sociali

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La seconda gueRRa fRedda e iL sudameRica

Contenere la Cina per mantenere la leadership mondiale: la svolta strategica degli Stati Uniti

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il mondo in cui viviamo

Raúl Zibechi

Sempre più numerosi sono i fallimenti: Obama ha mandato in Europa il segretario del tesoro Timothy Geithner per proporre alternative alla crisi, ma è stato totalmente ignorato; è stato umiliato dal Pakistan e poi dall’Iran, perché a quanto pare il drone “atterrato” nel paese in dicembre non ha avuto un incidente ma è stato abbattuto da un attacco informatico.

Ma la situazione più grave è quella interna. Un nordamericano su sei e un bambino su quattro ricevono i buoni pasto; il 57% dei bambini vive in famiglie povere; il 48,5 % vive in gruppi familiari assistiti dallo Stato, rispetto al 30 % nel 1983 (The Economic Collpase, 16 dicembre 2011). Colpisce molto il peggio-ramento della situazione sociale nel giro di pochi anni: dal 2007 il reddito delle famiglie è diminuito del 7%; in alcune zone della California i prezzi delle case sono diminuiti del 63 per cento, il prezzo medio di una casa a De-troit è di 6.000 dollari e il 18 % delle case in Florida sono vuote. Un bambino su cinque fa esperienze di vita sulla strada. Ogni giorno escono nuovi dati che evidenziano il degrado sociale e morale del paese. La rivista Pediatrics, dell’American Academy of Pediatrics, ha rivelato che a 23 anni un americano su tre ad un certo punto della sua vita è stato arrestato. Nel 1965 erano stati solo il 22 % di quella età (USA Today, 19 dicembre 2011). Secondo gli autori dello studio, questi dati non significano che la criminalità giovanile è au-mentata, ma che “ci sono leggi più severe” per quanto riguarda situazioni di scandalo pubblico o di consumo di sostanze vietate. Concludono afferman-do che gli arresti di giovani hanno conseguenze nefaste per la loro crescita e che favoriscono “comportamenti violenti e antisociali”. Se lo studio avesse discriminato gli arresti subiti da neri e ispanici, i risultati sarebbero stati scandalosi.

Assedio all’integrazioneIn una situazione nazionale e internazionale così grave, la virata strate-

gica può, come avverte Klare, portare il mondo ad una situazione “estrema-mente pericolosa”. Secondo Klare, e la sua opinione è condivisa da altri analisti, stiamo entrando in una nuova guerra fredda che non esclude “il dominio e la provocazione militare”, con significative ripercussioni sul con-trollo degli idrocarburi del pianeta. Se l’obiettivo degli Stati uniti nei con-fronti della Cina è di “metterne in ginocchio l’economia, con il blocco delle

vie di approvvigionamento energetico”, questa politica - che non è nuova - è di fatto un annuncio per il resto del mondo. Ricordiamo due fatti: il Sudamerica contribuisce per il 25 % al petrolio importato dagli Stati uniti e i maggiori reperimen-ti di greggio nell’ultimo decennio sono in acque brasiliane.

Al centro dell’attenzione sono le esportazioni dal Vene-zuela verso il paese asiatico. Gli investimenti cinesi in quel paese hanno raggiunto i 40 miliardi di dollari dal 2007. La Pdvsa (Petróleos de Venezuela, S.A. ) esporta 430mila barili

La seconda guerra fredda e il Sudamerica

Accordo di associazione trans-pacifico. Al momento ne fanno parte nove paesi: Australia, Brunei, Cile, Stadi Uniti, Malesia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. La Cina è stata lasciata fuori e così va in pezzi l’Asean, l’Associazione di nazioni del sudest asiatico, in cui il paese ha un ruolo ege-monico.

Secondo Michael T. Klare, il nuovo centro di gravità della politica nordamericana presuppone l’abbandono del Medio Oriente, che per mezzo secolo è stata la sua priorità, per

concentrarsi sul paese che considera il suo avversario principale. È opinione del Pentagono che il punto debole dell’economia cinese sia rappresentato dalle importazioni di petrolio che necessariamente arriva nel paese dal Mar cinese meridionale, dove Obama prevede il massimo dispiegamento di forze militari (2).

La Cina risponde continuando a puntare al dialogo, ma rafforzando le proprie strutture difensive. A differenza delle potenze occidentali, la cui ascesa è avvenuta a cavallo tra le guerre di conquista (da Spagna e Portogal-lo a Inghilterra e Stati Uniti), l’ascesa cinese si fonda sul commercio e la di-plomazia. Questa differenza è certo il suo maggiore potenziale, in quanto non è una potenza aggressiva, ma al tempo stesso la sua debolezza, perché può essere spazzata via dalla forza com’è avvenuto in Libia.

Debolezza strutturaleLa crisi degli Stati Uniti è più grave di quella che sta attraversando l’Unio-

ne europea. “Il paese, già insolvente, diventerà ingovernabile, determinando così shock geopolitici e sociali violenti e distruttivi sul fronte economico, finanziario e monetario per gli americani e per coloro che dipendono dagli Stati uniti”, assicura la Gazzetta europea di anticipazione politica (Geab n. 60, 16 dicembre 2011). Nei prossimi quattro anni, il paese che dal 1945 ha disegnato la mappa del mondo, vivrà sempre sul filo di questo pronostico, “paralisi istituzionale e smembramento del bipartitismo tradizionale”, una spirale di recessione-depressione-inflazione e “ripartizione del tessuto socio-politico”. Certo, lo scenario appare apocalittico, ma chi avrebbe mai potuto pensare che l’agenzia S&P sarebbe arrivata a declassare il rating del paese?

A livello internazionale gli Stati Uniti hanno sempre meno alleati. Imma-nuel Wallerstein ricorda che solo a novembre e nella prima metà di dicembre 2011 la Casa Bianca “ha avuto scontri con la Cina, il Pakistan, l’Arabia Sau-dita, Israele, la Germania e l’America latina” (La Jornada, 18 dicembre 2011).

1) L’ Accordo strategico transpacifico di as- sociazione economica è stato firmato nel 2005 da quattro paesi: Brunei, Cile, Nuova Zelanda e Singapore. Gli altri, compresi gli

Stati uniti, si sono aggiunti a poco a poco. 2) “Giocare con il fuoco. Obama minaccia la Cina”, Sin Permiso, 11 dicembre 2011.

con una letale crisi interna e una società con indici da sfacelo, Washington si lancia nel Pacifico. in gioco la leadership mondiale

Via dal medio oriente: gli usa varano 10 anni di grandi investimenti economici e militari (che sono la stessa cosa)per fermare Pechino

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il mondo in cui viviamo

Cinque giorni dopo il discorso di Obama dinanzi al parlamento australia-no, militari brasiliani hanno fatto trapelare alla stampa un rapporto interno del ministero della difesa sullo stato delle attrezzature delle varie armi. La stampa conservatrice ha titolato che buona parte del materiale bellico era diventato “spazzatura” e ha assicurato che delle cento navi da guerra della marina solo 53 sono in navigazione e che solo due dei suoi 24 aerei A-4 sono operativi (O Estado de São Paulo, 22 novembre 2011).

La diffusione del “rapporto segreto” è avvenuta in un momento in cui da più parti, per esempio dal ministro della difesa Celso Amorim, arrivano pressioni per accelerare il processo di modernizzazione e equipaggiamento delle forze armate, e in particolare della marina, responsabile della difesa dell’Amazzonia verde e di quella blu, con riferimento alle due principali ricchezze del paese: biodiversità e petrolio. Altro punto nevralgico è l’acqui-sto di 36 caccia dalla Francia, bloccato da più di due anni. La stampa non sottolinea però gli importanti progressi che si stanno compiendo nella pro-duzione di sottomarini, con ingenti trasferimenti di tecnologie.

Il generale di brigata (in pensione) Luiz Eduardo Rocha Paiva, membro del Centro di studi strategici dell’esercito di cui è nota la vasta esperienza militare e la formazione strategica, ha analizzato la recente svolta degli Stati Uniti, avvertendo che la “perdita di spazi” della superpotenza e dei suoi alleati ha un impatto diretto sulla regione sudamericana e sul Brasile. È il caso di fare una riflessione accurata perché riflette il punto di vista di molti dei governanti, militari e non, del paese. “I conflitti sono arrivati nel nostro ambiente. Il fallimento o il successo limitato degli Stati Uniti e dei loro alle-ati in aree lontane comporteranno pressioni per imporre condizioni che assicurino l’accesso privilegiato alle ricchezze del Sudamerica e dell’Atlanti-co Sud “ (O Estado de São Paulo, 20 dicembre 2011).

Rocha Paiva sottolinea la sempre maggiore influenza della Cina nella regione, la presenza della Russia e dell’Iran in paesi come il Venezuela, e conclude: “Gli Stati Uniti reagiranno alla penetrazione di avversari nella loro zona di influenza e questo condizionerà la leadership del Brasile nel processo di integrazione regionale e nella difesa del suo patrimonio e della sua sovranità.”. Per questo l’obiettivo è il rafforzamento del potere militare difensivo a fronte della nuova realtà.

Interessante quanto la sua visione globale è quella che fa della regione. “Non sono i vicini la ragione che spinge a raf-forzare il potere militare del paese, ma la loro ascesa come potenza economica globale, la massiccia partecipazione nel commercio mondiale e l’ingordigia per le nostre risorse e la nostra posizione geostrategica. Tutto questo ha sottratto il Brasile dalla sua posizione periferica e l’ha messo sulla stra-da della cooperazione e del conflitto”. Conclude avvertendo che al Brasile può accadere, nel XXI secolo, quanto è avvenu-

al giorno di petrolio in Cina, ma le imprese cinesi statali Cnpc e Sinopec prevedono di decuplicare il pompaggio di greggio nel paese fino a raggiungere 1,1 milioni di barili al giorno nel 2014: a tale scopo hanno ricevuto cinque aree nella fascia petrolifera dell’Orinoco, ognuna delle quali ne-cessita di investimenti per circa 20 miliardi di dollari (Reuters, 20 dicembre 2011).

La svolta di Obama quando insiste sul fatto che “gli Stati Uniti sono un paese del Pacifico” mentre sono sempre stati

un paese atlantico, implica non solo che la finalità è quella di tessere allean-ze in Asia ma anche in America latina. Il Tpp comprende il Cile e il Perù e conta di coinvolgere il Messico. In parallelo, il 5 dicembre 2011 a Mérida i quattro paesi dell’Alleanza del Pacifico (Cile, Messico, Perù e Colombia) han-no concordato di lanciare il blocco commerciale a giugno 2012, di creare un mercato integrato con i loro mercati azionari e di abolire i dazi doganali dopo il 2020.

Per Andrés Oppenheimer, “assisteremo a una divisione di fatto dell’Ame-rica latina, tra un blocco del Pacifico e un blocco dell’Atlantico (La Nación, 13 dicembre 2011). L’analisi conservatrice sottovaluta la Comunità di stati lati-noamericani e caraibici (Celac) appena creata. L’editorialista di La Nación (che scrive anche su The Miami Herald ed è analista politico della Cnn in spagnolo) sostiene infatti che al vertice presidenziale di Caracas sono stati fatti solo “discorsi poetici sull’unità regionale”, che non hanno portato ad alcuna conclusione economica.

Una delle maggiori tendenze ad affermarsi dopo la crisi del 2008, è stata quella orientata alla configurazione di blocchi regionali e commerciali, con conseguente ritorno del protezionismo. La recente decisione del Mercosur di innalzare la tariffa esterna dal 14 al 35 % rientra nell’obiettivo di proteg-gere la regione dinanzi all’esportazione dai paesi centrali dei prodotti che essi non possono consumare internamente.

Con la crisi, la domanda di Europa e Stati uniti si è ridotta, con il risulta-to che paesi emergenti come Cina e India hanno accumulato scorte di mer-ci destinate ad essere collocate sul mercato a prezzi molto bassi. Il fenomeno sta colpendo le industrie della regione, in particolare Brasile e Argentina. È fuor di dubbio che i paesi che non possiedono grandi industrie, come Para-guay e Uruguay, non traggono vantaggio da tali misure, ma possono comun-que raggiungere quote più elevate di esportazione verso i paesi più grandi della regione.

Il Brasile prende coscienzaIn Brasile si è diffusa la convinzione che il paese ha di fronte nuove minac-

ce provenienti dai paesi centrali, in particolare dagli Stati Uniti. Il fatto inte-ressante è che questa convinzione è comune a tutti gli strati della società.

Raúl ZibechiLa seconda guerra fredda e il Sudamerica

il malumore del Brasile, che dopo l’annuncio di obama fa trapelare i propri programmi di riarmo. gli usa sono di nuovo una minaccia

La scelta di obama “gli stati uniti sono un paese del Pacifico” impone alleanze tanto in asia quantoin america latina

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il mondo in cui viviamo

alla creazione del Mercosur, compresa la dittatura militare (1964-1985) che ha avuto la massima presenza al sud. Questa percezione dimostra che i cam-biamenti avvenuti nella strategia militare in Brasile negli ultimi dieci anni e soprattutto nella “Strategia nazionale di difesa”, pubblicata nel 2008, con-tano su un vasto sostegno sociale.

Il posizionamento strategico di un paese comporta tempi lunghi e ci vo-gliono decenni perché si possa mettere in atto la nuova strategia. Il Brasile intero concorda sul fatto di essere vulnerabile a potenziali minacce esterne. Forse questo sentimento ha cominciato a cambiare l’8 dicembre, quando due saldatori della squadra franco-brasiliana che lavorano nei cantieri della Dcns (Direction des Constructions Navales) di Cherbourg, con un totale di 115 apprendisti che stanno lavorando per il trasferimento delle tecnologie, han-no cominciato a saldare l’ultimo raccordo delle sezioni del primo dei quattro sottomarini Scorpene destinati al Brasile (DefesaNet, 8 dicembre 2011). D’ora in poi, saranno fabbricati nel cantiere navale della marina a Rio de Janeiro.

per gentile concessione Alai/AmLatina

to alla Cina nel XIX secolo: “Le potenze rivali possono unirsi per esercitare pressione e minacciare il paese” (3).

La maggioranza dei brasiliani condivide la percezione delle minacce che il paese si trova ad affrontare. Uno studio recente condotto dall’Istituto di ricerche economiche appli-cate (Ipea) tra circa quattromila persone dimostra che il 67 % ritiene che esista una minaccia militare straniera per le ri-sorse naturali dell’Amazzonia. Il 63 % ritiene che i giacimen-ti di idrocarburi nel mare possano subire attacchi militari

esterni (4). Ancor più interessanti sono le risposte alla domanda di quale sia il paese

che può costituire una minaccia militare per il Brasile nei prossimi vent’an-ni. Il 37 % pensa agli Stati Uniti. Molto distaccata, l’Argentina per il 15 %. Da notare che questa è stata l’ipotesi di guerra più probabile dall’indipendenza

il 37% dei brasiliani pensa che Washington sia già un pericolo. e oltre il 60% teme attacchi militari per il greggio e l’amazzonia

3) Si riferisce alle due Guerre dell’oppio, quando Gran Bretagna e Francia si sono unite contro la Cina.

4) O sistema de indicadores de percepção social. Defensa Nacional, IPEA, 15 dicembre 2011.

Raúl ZibechiLa seconda guerra fredda e il Sudamerica

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D

il mondo in cui viviamolatinoamerica

ieci anni fa, tra il 19 e il 20 dicembre 2001, l’Argentina esplodeva. Fer-nando de la Rúa, ultimo presidente di una notte neoliberale durata 46 anni, appoggiato da una maggioranza nominalmente di centro-sinistra, sparava sulla folla (i morti furono una quarantina) ma era costretto a fuggire dalla mobilitazione di un paese intero. Le banche e il Fondo Monetario Interna-zionale gli avevano imposto di violare il patto con le classi medie sul quale si basa il sistema capitalista: i bancomat non restituivano più i risparmi e all’impiegato Juan Pérez, alla commerciante María Gómez, all’avvocato Ma-rio Rodríguez era impedito di usare i propri risparmi per pagare la bolletta della luce, la spesa al supermercato, il pieno di benzina.

Il cosiddetto “corralito”, il blocco dei conti correnti bancari dei cittadini, era stato l’ultimo passo di una vera guerra economica contro l’Argentina durata quasi cinquant’anni. L’Fmi era stato il vero dominus del paese dal golpe contro Juan Domingo Perón nel 1955 fino a quel 19 dicembre 2001. Attraverso tre dittature militari, trentamila desaparecidos e governi teorica-mente democratici ma completamente sottomessi al “Washington consen-

di gennaro carotenuto Latinoamericanista, professore di Storia contemporanea all’Università di Macerata

Dal crollo alla rinascita in dieci anni, con l’integrazione latinoamericana e la redistribuzione

ArgentInAcome LiBeRaRsi deL fondo monetaRio e ViVeRe feLici

sus”, l’Argentina era passata dall’essere una delle prime dieci economie del mondo all’avere province con il 71% di denutrizione infantile, dalla piena occupazione al 42% di disoccupazione reale, da un’economia florida al de-bito pubblico pro-capite più alto al mondo. Con la parità col dollaro, e con la popolazione addormentata dalla continua orgia di televisione-spazzatura dell’era Menem (1989-1999), il paese aveva dissipato un’invidiabile base ma-nifatturiera e tecnologica. Nulla più si produceva, e si spacciava che oramai fosse conveniente importare tutto, in un paese che aveva accolto, realizzato e poi infranto il sogno di generazioni di migranti e da dove figli e nipoti di questi fuggivano.

In quei giorni, in quello che per decenni il Fmi aveva considerato come il proprio “allievo prediletto”, salvo misconoscerlo all’evidenza del falli-mento, a esplodere non fu solo il sottoproletariato del Gran Buenos Aires ridotto alla miseria più nera, ma anche le classi medie urbane. Queste, che per decenni si erano fatte impaurire da timori rivoluzionari e d’instabilità, blandire da promesse di soldi facili e convincere che il sol dell’avvenire fosse la privatizzazione totale dello Stato e della democrazia, si univano in un solo grido contro la casta politica e finanziaria responsabile del disastro: “que se vayan todos”, che vadano via tutti. Era un movimento forte quello argentino, antesignano di quelli attuali, e solo parzialmente rifluito perché soddisfatto in molte delle richieste più importanti.

I passi successivi al disastro furono decisi e in direzione ostinata e con-traria rispetto a quelli intrapresi nei 46 anni anteriori. Quegli argentini che a milioni si erano sentiti liberi di scegliere scuole e sanità private adesso erano costretti a tornare al pubblico trovandolo in macerie. Al default, che penalizzava chi speculava - anche in Italia - sulla miseria degli argentini, seguì la fine dell’irreale parità col dollaro. Le redini del paese furono pre-se dai superstiti di quella gioventù peronista degli anni ’70 che era stata sterminata dalla dittatura del 1976. Prima Néstor Kirchner e poi sua mo-glie Cristina Fernández, appoggiati in maniera crescente dagli imponenti movimenti sociali, con una politica economica prudente ma marcatamente redistributiva, hanno fatto scendere gli indici di povertà e indigenza a un quarto di quelli degli anni ‘90. Al dunque l’Argentina ha dimostrato che per-fino un’altra economia di mercato è possibile, e dal 2003 in avanti il paese

cresce con ritmi tra il 7% e il 10% l’anno.La crescita economica è stata favorita da una serie di fat-

tori propri del nostro tempo, dall’aumento dei prezzi dell’ex-port agricolo all’arrivo della Cina come partner economico. Soprattutto però i governi kirchneristi sono stati, con Brasi-le e Venezuela, i grandi motori dell’integrazione latinoame-ricana, una delle principali novità geopolitiche mondiali del decennio. Le date chiave di tale processo sono due: nel 2005 a Mar del Plata, soprattutto la sinergia Kirchner-Lula stop-

i Kirchner, appoggiati dai movimenti sociali, hanno ridotto gli indici di povertà a un quarto di quelli degli anni ‘90

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Argentina: come liberarsi del Fondo Monetario e vivere felici

pò il progetto dell’Alca di George Bush, il mercato unico continentale che voleva trasformare l’intera America latina in una fabbrica a basso costo per le multinazionali statuni-tensi, mettendo un continente intero a disposizione degli Stati Uniti per sostenere la competizione con la Cina. Nel 2006 l’Argentina e il Brasile, con l’aiuto di Hugo Chávez, chiusero i loro conti col Fmi: “Non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”, dissero mettendo fine a mezzo secolo di sovranità limitata. Per anni i media mainstream

mondiali hanno cercato di ridicolizzare il tentativo del popolo argentino di rialzare la testa, l’integrazione latinoamericana e la capacità del Sudameri-ca di affrancarsi dallo strapotere degli Stati Uniti e del Fmi. A dieci anni di distanza, tirando le somme, ci si può togliere qualche sassolino dalla scarpa su chi disinformasse su cosa. Ancora un anno fa, nel momento della mor-te di Néstor Kirchner, i grandi media internazionali - quelli autodesignati come i più autorevoli al mondo - avevano di nuovo offeso la presidente (la sua vedova, Cristina) con un maschilismo vomitevole, descrivendola come una marionetta incapace di arrivare a fine mandato. Il popolo argentino la pensava diversamente e il 23 ottobre 2011 l’ha confermata alla presidenza al primo turno con il 54% dei voti.

Cristina, e prima di lei Néstor, a una politica economica che ha permesso all’Argentina di riprendere in mano il proprio destino, affianca una politica sociale marcatamente progressista, dai processi contro i violatori di diritti umani alle nozze omosessuali. Sul terreno dei media, nella battaglia contro i monopoli dell’informazione, oggi l’Argentina è persino all’avanguardia nel mondo: non più di un terzo può essere lasciato al mercato, il resto deve ave-re finalità sociali e culturali. Perché non di solo mercato è fatta la società.

A dieci anni dal crollo l’Argentina sta vincendo la scommessa della pro-pria rinascita. I paradigmi neoliberali sono sbaragliati e dall’acqua alle po-ste alle aerolinee molti beni sono stati rinazionalizzati per il bene comune dopo essere stati privatizzati durante la notte neoliberale a beneficio di po-chi corrotti. I soldi investiti in educazione sono passati dal 2 al 6.5% del Pil e… la lista potrebbe continuare. Basta un dato per concludere: dei 200mila argentini che nei primi mesi del 2002 sbarcarono in Italia (tutti o quasi con passaporto italiano) alla ricerca di un futuro, oltre il 90% sono tornati indie-tro: “Meglio, molto meglio, là”.

il 90% dei 200mila italo-argentini fuggiti nel 2002 dal paese in pezzi sono tornati indietro: “È molto meglio là”

A

il mondo in cui viviamolatinoamerica

due messi dalla sua schiacciante rielezione alla Casa Rosada, la presi-denta Cristina Fernández de Kirchner è riuscita a far approvare dal Congres-so la legge che garantisce l’accesso egualitario alla carta per i giornali. Una norma che potrebbe essere intesa come una delle tante se non richiamasse immediatamente gli ultimi quarant’anni dell’Argentina e non si tenesse in conto chi sono i padroni dell’unica impresa locale che rifornisce il mercato della carta.

In concreto, la legge approvata dal senato giovedì scorso tocca da vicino l’impresa Papel Prensa, proprietà del grande gruppo mediatico Clarín che ne detiene la quota del 49% (e che pubblica il principale quotidiano del paese), dell’altro quotidiano (e socio) La Nación con il 22.5% e dello Stato argentino con il 28%.

Il testo passato stabilisce che l’impresa deve lavorare al 100% della sua capacità produttiva e che deve fissare un prezzo unico per tutti gli acquiren-ti, senza privilegiarne nessuno in particolare. Da quando il Clarín e La Nación acquisirono l’impresa industriale nel ’77, attraverso un procedimento oscu-ro in società con la dittatura militare, decine di quotidiani di ogni tipo e colore si sono lamentati del fatto che la fornitura di carta si sia trasformata in uno strumento di estorsione per tenere sotto controllo la linea di tutti.

La nuova legge sulla carta per i giornali stabilisce un controllo bicame-rale, con parlamentari dei diversi gruppi, e una commissione incaricata del monitoraggio con dentro rappresentanti dei giornali di tutto il paese. E sta-

di sebastián LacunzaGiornalista argentino, docente universitario in Comunicazione, corrispondente da Buenos Aires de il Manifesto

La presidente fa approvare dal congresso una legge contro il monopolio dell’impresa che fornisce la materia prima ai giornali argentini. Così il gruppo Clarín, vicino alla dittatura e oggi fortemente antigovernativo, controllando il mercato aveva in pugno tutti gli editori

cRistina disinnesca L’aRma deLLa caRta

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il mondo in cui viviamo

Cristina disinnesca l’arma della carta Sebastián Lacunza

dell’industria della comunicazione, esercitando in diversi di loro una posizione dominante e a volte monopolistica. Fino al 2008 Clarín aveva mantenuto un buon rapporto con i Kirchner e ne aveva tratto benefici, ma da allora fra loro la guerra è a morte.

Giornali così diversi fra loro come l’«izquierdista» Página 12, il centrista Perfil, il liberale Ámbito financiero o il popolare Crónica hanno denunciato per decenni i tentativi del Clarín di strangolarli attraverso il controllo delle forniture della carta. Di fatto, alcuni dei giornali locali più importanti nelle varie province del paese, che si lamentavano per le stesse ragioni, sono oggi di proprietà del mega-gruppo.

Oltre al sostegno di qualche giornale, Cristina ha avuto di nuovo anche quello di accademici e di organizzazioni sociali che da anni denunciano lo strapotere del Clarín. Invece si è tenuta a debita distanza quasi tutta l’opposi-zione politica, inclusa quella di centro-sinistra, e altri organismi che diffidano del monitoraggio statale fissato dalla legge. Non mancano, nelle retroguardie kirchneriste, alcuni fanatici che lanciano proclami in favore della censura, ignorati finora da Cristina.

Fin dai tempi della dittatura, una delle molte distorsioni provocate dalla vecchia legge è il fatto che, mentre si conferiva a Papel Prensa il monopolio nazionale della carta, si fissava un alto dazio doganale sull’importazione della materia prima. Negli ultimi anni il suo acquisto all’estero si è praticamente ridotto a zero per cui i costi addizionali per la carta si sono potuti diluire solo per i media più grandi, capaci di evitare gli intermediari e accumulare grandi stock. Le cifre attuali dicono che Papel Prensa risponde a circa il 60% delle ne-cessità della carta dei giornali (il resto per forza di cose si deve importare) e di quella porzione Clarín e Nación si prendono il 71%.

Un altro capitolo, che fa parte di una infognata indagine della giustizia fe-derale, è il modo in cui i proprietari di Clarín e La Nación riuscirono a prende-re il controllo della società ai tempi della dittatura. Papel Prensa appartene-va all’imprenditore David Gravier, che morì in un presunto incidente aereo nell’agosto ’76 e che, secondo i militari, era legato alla guerriglia dei Montone-ros, il gruppo armato della sinistra peronista. Cominciò allora una pressione sfacciata sui suoi eredi perché vendessero l’impresa. L’operazione di vendita a Clarín, La Nación e La Razón (un giornale poi assorbito da Clarín) si concluse nel

marzo ’77. Una settimana più tardi Lidia Papaleo, vedova di Gravier, fu sequestrata e sottoposta a sevizie atroci.

Anche altri familiari e manager di Papel Prensa furono sequestrati dalla dittatura. Lidia sopravvisse e nel 2010 rive-lò di aver dovuto vendere l’impresa del marito dopo essere stata minacciata. Numerosi testimonianze, fra cui quella di un alto gerarca del regime militare, hanno confermato che fu proprio il regime militare a forzare la farsa della vendita dell’impresa a Clarín, La Nación e La Razón.

bilisce anche che il governo nazionale sia l’autorità che garantisce l’applicazio-ne delle condizioni di parità.

Clarín e Nación, che dominano buona parte del mercato e costituiscono di fatto la principale opposizione al governo peronista di centro-sinistra, hanno gridato all’attentato contro la libertà d’espressione, ricevendo subito l’avallo delle imprese mediatiche padronali dell’America e del mondo. Secono loro, il governo di Cristina con questa legge vuole ridurre l’importazione della carta e quindi rendere difficile la sua fornitura a giornali «indipendenti».

Un problema nell’argomentazione di Clarín e Nación è che tutto il male che denunciano possa arrivare in futuro, nel caso non funzionasse nessuno dei con-trolli stabiliti dalla legge, essi stessi l’hanno già praticato per decenni.

D’altra parte, il governo su questa legge ha ricevuto un consenso che va oltre la sua base elettorale, esattamente la stessa cosa che accadde nel 2009 con la Legge sui media. Legge che ricevette elogi di giuristi di mezzo mondo, che fissa criteri per la rottura del regime di monopolio e colpisce, soprattut-to, il gruppo Clarín, un emporio multi-mediatico che occupa tutti i segmenti

dono insanguinato della dittatura al clarín, Papel Prensa colpiva i “nemici” tagliando le forniture di carta. non potrà più farlo

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

morto Domingo Bussi, il generale. Una delle più sinistre figure della no-stra storia. Sì, non si commette un’esagerazione se, parlando di lui, diciamo: “Il sinistro generale Bussi”. Basta scorrere la sua biografia per constatarlo. La perfidia dei suoi crimini sfiora l’inimmaginabile. Ed ecco la domanda a cui non è stata ancora data una risposta: dove aveva imparato Bussi il suo mestiere di uccidere in completa impunità? Nell’Accademia Militare, alla Scuola Superiore di Guerra o durante i suoi soggiorni in Kansas, nell’eser-cito yankee o in Vietnam durante il suo viaggio? Sia come sia, è stato un criminale di grande codardia e crudeltà. I suoi crimini provati, e per questo condannati, sono di lesa umanità. La sua impresa maggiore come criminale è quella di aver esibito il cadavere congelato di Santucho nel Museo della Repressione, nel Campo di Maggio. Aveva l’acquolina in bocca dal piacere. Aggiungiamoci gli oltre mille casi di tortura, di “sparizioni”, di omicidi. Lui stesso finiva i prigionieri politici con un solo colpo di pistola. Lo hanno di-chiarato i testimoni. Oh, generale! La degradazione. L’assoluta validità della legge del più forte.

E questo episodio così perverso, dove la viltà non ha più parole per descriverlo: quando ha ordinato di arrestare i vagabondi e i mendicanti della città di Tucumán e li ha trasportati in camion da dove sono stati get-tati nelle montagne di Catamarca, dove sono morti di fame e di freddo. Era

di osvaldo BayerSociologo argentino

È moRto Bussi, iL sinistRo

Fine di un carnefice della dittatura che arrivò perfino a essere eletto governatore di tucumán in tempo di democrazia, Un esempio di quanto sia stata deleteria la repressione del Plán Condor, la strategia per l’America latina voluta e approvata da nixon e Kissinger

È

occidentale e cristiano il genera-le. Questo è accaduto in terre di Tucumán dove, nel 1816, in quell’incredibile 9 luglio, si can-tò il nostro Inno Nazionale con quella frase così giusta: “Ecco sul trono la nobile Uguaglianza. Li-bertà, Libertà, Libertà”.

Ma, come argentini, abbia-mo sentito molta più vergogna quando il popolo di Tucumán, ormai in democrazia, ha eletto questo abominevole personag-gio come governatore. Che avrebbero pensato i congressisti

del 1816 vedendo che in quella stessa terra libertaria avevano votato il più abietto? Adesso, quelli dei quartieri alti che lo hanno votato e quelli dei quar-tieri che esigevano “più sicurezza” dovrebbero avere il coraggio civile di mar-ciare davanti alla Casa di Governo e di chiedere perdono per una simile azione che ha burlato per sempre la democrazia.

Lo stesso dovrebbero fare i deputati radicali e di altri partiti conservatori che hanno votato la legge di “Punto Final” del Presidente Alfonsín grazie alla quale ha goduto di totale libertà il branco in divisa che ha imposto la sparizio-ne come metodo.

Il “generale” Bussi. Quando ha trasferito il centro clandestino di detenzione da Famallá alla Centrale dello zucchero Nuova Baviera, allora sì che si è sentito padrone della vita e della morte. Signore e padrone della picana e del sottomari-no e di ogni tipo di tortura imparata nel General Staff College di Fort Lea-venworth, in Kansas. E’ vero, hanno seguito le orme di quel generale Julio Ar-gentino Roca che aveva ordinato di comperare 10mila fucili remington, l’inven-zione statunitense con cui avevano sterminato i pellerossa e i sioux. E così Rocas ha dimostrato che noi argentini siamo i migliori europei e americani del nord. Videla, Menéndez, Bussi... la lista è lunga. Ma finalmente molti di loro stanno in carceri comuni e iscritti per sempre nel dizionario dell’infamia.

E’ morto Bussi. Lo spettro dell’infamia. Generale della Nazione. Di che Nazione? Non quella del 25 maggio 1813 e del 9 luglio di Tucumán. No, la belva sanguinaria venuta fuori da strutture militari argentine e da entità “educatrici” nordamericane. Durante il suo funerale, gli argentini scesi in strada per gridare “dove stanno i desaparecidos”, gride-ranno “Nunca más”. Mai più un generale Bussi, il sinistro.

per gentile concessione di Pagina12

signore e padrone della picana e di ogni tipo di tortura appresa a fort Leavenworth, in Kansas

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

di Bruno RodríguezMinistro degli Esteri della Repubblica di Cuba

Il 25 ottobre, per la ventesima volta di seguito, l’Assemblea Generale dell’Onu ha condannato il blocco economico, finanziario e commerciale che gli Stati Uniti mantengono da cinquanta anni contro Cuba. I voti a favore sono stati 186, con due assenti (Libia e Svezia), tre astenuti (Isole Marshall, Micronesia e Palau) e due voti contrari: Stati Uniti e Israele. Il Ministro degli esteri di Cuba, Bruno rodríguez, prima della votazione, ha così ribattuto alle affermazioni di ronald godard, responsabile del governo degli Stati Uniti per le politiche nell’emisfero occidentale e con un lungo passato di ostilità verso la Revolución

New York,  25 ottobre 2011

ignor Presidente, voglio ringraziare per la soluzione giusta e professionale adottata per il meccanismo di voto, questa mat-tina. Il mio intervento a questo punto del dibattito è giustificato

unicamente dalle flagranti menzogne del signor Godard, presentate questa mattina. “Si può ingannare una parte della gente per tutto il tempo, ma non si può ingannare tutta la gente per tutto il tempo”.

La dichiarazione di questa mattina degli Stati Uniti è copiata da quella dell’anno scorso e del 2009. Il signor Godard è venuto qui a difendere la politica del Presidente Bush del 2005 e ha parlato consecutivamente anche per difendere la poltica del signor Obama, eccetto nel 2009. Ci si chiede: quale politica difende?

Ho qui, signor Presidente, un facsimile del Daytona Beach Mornig Journal del 16 maggio 1972, in cui si annuncia che il signor Ronald D. Godard, di-rettore dell’Ufficio di Miami, è stato riassegnato a Washington. Il signor Godard, oltre a lavorare nei Peace Corps e a compiere missioni di grande interesse, sui quali vi è molta poca informazione, in Ecuador, in Nicaragua, in Panama, in Costarica, in Cile, in Turchia e riferenti al Centroamerica, ha lavorato dal 1969 al 1972 come capo dell’Ufficio del coordinatore per gli affari cubani a Miami.

In un altro documento ufficiale desecretato si dice, al punto 6, che il Co-ordinatore dovrà assumere la stessa responsabilità per le operazioni coperte di quella che assume per le operazioni legali.

Tuttavia, sono d’accordo con lui sul fatto che il blocco sia solo un aspetto della politica nordamericana contro Cuba. Lui sa molto bene, certamente,

se usaid e cia, sPeRPeRando i soLdi dei contRiBuenti usa,continuano a oRganiZZaRe L’eVeRsione a cuBa

S

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il mondo in cui viviamo

Bruno RodríguezSe Usaid e Cia, sperperando i soldi dei contribuenti Usa, continuano a organizzare l’eversione a Cuba

Millenovecentosettantadue persone sono state condannate a morte con condanna eseguita in quel paese dal 1976, una parte delle quali per errore giudiziario. Più di 3.000 nordamericani si trovano in questo momento nelle celle della morte. Poche settimane fa, in coincidenza con il dibattito generale, il mondo è rimasto costernato per l’ingiusta esecuzione di Troy Davis.

Mente il signor Godard quando afferma che il cittadino nordamericano con-trattato dalla Usaid è stato condannato a Cuba perché aveva favorito la connes-sione a Internet della comunità ebrea. Lui sa bene, perché è uno specialista di questi temi, che il signor Gross realizzava a Cuba un’operazione coperta e che ha commesso delitti puniti anche negli Stati Uniti.

A Cuba i bambini si chiedono come sia possibile che in quel paese i terrori-sti siano liberi e gli antiterroristi stiano in carcere. I Cinque combattenti anti-terroristi cubani hanno sopportato condizioni crudeli, inumane e degradanti per l’unico delitto di aver cercato di evitare atti di terrorismo. Dovrebbero esse-re liberati tutti. A René González, quello che sta in libertà condizionata, viene impedito di riunirsi con la sua famiglia. Sarebbe un atto di giustizia, o per lo meno un atto umanitario.

Solo in un paese come gli Stati Uniti la presidente del Comitato per gli affari esteri della Camera dei rappresentanti, Ileana Ros-Lehtinen, una dama feroce, può farsi promotrice di un omaggio al terrorista internazionale Luis Posada Carriles [ha promosso una raccolta di fondi per la sua tutela legale, ndr] , responsabile dell’esplosione di un aereo civile in pieno volo, e solo qui possono essere chia-

mati terroristi e spie i bambini di un gruppo di teatro per ragazzi in tournée negli Stati Uniti*.

Signor Presidente:la battaglia politica che si è svolta oggi mette in evidenza,

come ha scritto ieri il Comandante Fidel Castro Ruz, nel suo articolo dal titolo “Il ruolo genocida della Nato”, che cito: “La necessità di porre fine non solo al blocco, ma al sistema che genera ingiustizia nel nostro pianeta, che dilapida risor-se naturali e mette in pericolo la sopravvivenza umana”.

che l’altro asse principale è quello della sovversione inter-na, lo spiegamento di agenti al servizio degli Stati Uniti nel nostro territorio e la realizzazione di operazioni coperte da parte dell’Usaid e della Cia con fondi milionari, delle quali conosciamo solo una parte. Poiché ho letto tante volte gli incisi della Convenzione di Ginevra sul genocidio, ne farò recapitare una copia al banco degli Stati Uniti.

Il governo nordamericano è responsabile di numerose esecuzioni extragiudiziarie, una parte eseguita con droni o

aerei senza pilota, in cui sono stati assassinati perfino cittadini nordamericani e minorenni; è responsabile di atti di tortura, di sequestri di persona, di 1.245 voli segreti e dell’esistenza di carceri segrete in Europa, e mantiene ancora oggi un campo di concentramento in cui si tortura, nel territorio che occupa illegalmente a Guantánamo, nel nostro paese.

Non è vero che Cuba e gli Stati Uniti siano soci commerciali. La possibilità di fare acquisti di cibo, in difficili condizioni, negli Stati Uniti, è il risultato dello sforzo di settori che si oppongono alla politica del blocco. Sono stati re-alizzati con regolamenti molto severi che non possono essere catalogati come un rapporto commerciale e ancor meno come una misura di flessibilità; non rispettano nessuna norma del sistema internazionale di commercio.

Il signor Godard ha mentito deliberatamente sulle due cifre che ha usato in questa riunione. In particolare, lui include fra le cosidette “donazioni di assistenza umanitaria a Cuba” i fondi che l’Usaid utilizza per operare contro l’ordine costituzionale nel mio paese; le rimesse che i cubani radicati negli Stati Uniti inviano ai loro familiari, nonostante i regolamenti e le restrizioni ufficiali, e le donazioni mandate con molto sforzo, data l’opposizione del go-verno degli Stati Uniti, da organizzazioni non governative, che nel 2010 sono state molto esigue.

Gli Stati Uniti potrebbero, invece di dichiarare guerre nelle quali sono stati assassinati più di un milione di civili, e invece di destabilizzare governi stranie-ri, ascoltare l’opinione del loro stesso popolo. Qui vicino, a Wall Street, invece di reprimere brutalmente, dovrebbero ascoltare ciò che dicono i cittadini che si lamentano di non avere una vera democrazia, in cui ogni cosa è determinata dal potere economico, in cui le corporations mettono il guadagno al di sopra della protezione della gente, dove l’egoismo vince sulla giustizia, dove la disu-guaglianza e l’oppressione, al di sopra dell’uguaglianza, controllano il governo. Si lamentano di aver perso la loro casa, la pensione, le polizze di previdenza sociale, mentre i ricchi continuano a ricevere profitti scandalosi. Protestano perché gli studenti sono sotto sequestro a causa dei debiti, per il fatto che i tri-bunali sono corrotti, per il fatto che vengono spesi milioni di dollari per elimi-nare i contratti di assicurazione per la salute dei lavoratori; protestano anche per il fatto che gli Stati Uniti partecipano alla tortura e all’assassinio di civili innocenti fuori dal loro territorio, e per il fatto che si perpetui il colonialismo.

il caso della deputata ileana Ros-Lehtinen, promotrice di un fondo di tutela legale per il terrorista Posada carriles

il funzionario americano definisce “assistenza umanitaria” persino i fondi Usaid, impiegati invece in “operazioni coperte”

* Il ministro allude qui alle dichiarazioni della deputata Ileana Ros-Lehtinen che ha affermato che la tournée negli Stati Uniti del gruppo di teatro infantile cubano La colmenita rappresentava un pericolo per il paese. Il direttore del gruppo, Carlos Alberto Cremata, ha avuto un familiare ucciso nell’esplosione dell’aereo delle Barbados, attentato di cui è

reo confesso il terrorista Posada Carriles, e sta portando in giro per gli Stati Uniti un testo che racconta la storia dei Cinque agenti dell’intelligence cubana condannati a pene pesantissime negli Stati Uniti per aver cercato di controllare e informare sulle attività dei gruppi controrivoluzionari attivi in Florida.

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s últimos soldados da guerra fria, un libro di Fernando Morais, edito dalla Com-pañía de las Letras (2011), avrebbe suscitato l’invidia di Ian Fleming, l’autore di 007, se non fosse morto nel 1964, soprattutto perché dimostra ancora una volta che la realtà supera la fantasia.

Supponiamo che all’angolo della tua strada ci sia un bar dove si riunisco-no individui sospettati di rapinare le case del quartiere. Come misura pre-ventiva, tu cerchi di infiltrare un detective fra di loro, al fine di proteggere la tua famiglia. La polizia, che è connivente con quei delinquenti, identifica il detective. E invece di arrestare i malviventi, mette in carcere l’infiltrato.

Proprio questo è successo con i cinque cubani infiltrati che, monitorati dai servizi di intelligence di Cuba, si erano infiltrati nei gruppi anticastristi della Florida, responsabili di 681 attentati terroristi contro Cuba che hanno causato la morte di 3.478 persone assassinate, oltre a causare danni irrepa-rabili ad altre 2.099.

Dal settembre del 1998, sono in carcere negli Stati Uniti i cubani Antonio Guerrero, Fernando González, Gerardo Hernández, Ramón Labañino, men-tre il quinto, René González, condannato a quindici anni, ha ottenuto la libertà condizionata il 7 ottobre scorso, ma siccome ha la doppia nazionalità (nordamericana e cubana) non può abbandonare il paese.

Gli altri scontano pene pesanti: Hernández ha avuto una condanna al doppio ergastolo più quindici anni di reclusione ... gli servirebbero tre vite per scontare una sentenza così assurda. Labañino è condannato all’ergasto-lo più altri 18 anni. Guerrero all’ergastolo, più dieci anni. E Fernando a 19 anni.

Loro cinque costituivano la Rete Vespa, che forniva all’Avana informazioni

di frei BettoScrittore, autore, fra gli altri, di “Diario de Fernando. En las cárceles de la dictadura militar brasi-leña”. www.freibetto.org

O

i cinque, uLtimi soLdati deLLa gueRRa fRedda

sui terroristi che in aereo, o mascherati da turisti, pianificavano attentati contro Cuba, contrabbandavano armi e facevano esplodere bombe in al-berghi dell’Avana, causando morti e feriti. Bush e Obama avrebbero dovuto ringraziare il governo cubano che aveva identificato i terroristi che, impu-nemente, usano il territorio statunitense per attaccare l’isola del socialismo del Caribe. Invece è successo esattamente il contrario, come rivela il libro ben documentato di Fernando Morais. L’Fbi ha catturato gli agenti cubani e continua a far finta di non vedere i terroristi che promuovono incursioni aeree clandestine su Cuba e addestramenti con le armi nei dintorni di Mia-mi.

In 15 capitoli, il libro di Morais racconta come i servizi di sicurezza cuba-ni preparano i loro agenti; la saga del mercenario salvadoregno che, al soldo di Miami, ha messo cinque bombe in alberghi e ristoranti dell’Avana; il ruo-lo di Gabriel García Márquez come trait d’union, nello scambio di corrispon-denza fra Fidel e Bill Clinton; la visita segreta di agenti dell’Fbi all’Avana e il volume di prove contro gli anticastristi di Miami che sono state messe a loro disposizione per ordine di Fidel.

Gli ultimi soldati della guerra fredda è il frutto di scrupolose indagini e di interviste realizzate dall’autore a Cuba, negli Stati Uniti e in Brasile. Scritto con uno stile agile, scarno di aggettivazioni e considerazioni ideologiche, il libro offre la prova del perché Cuba resiste da più di cinquant’anni come unico paese socialista dell’Occidente; la Rivoluzione e le sue conquiste so-ciali iniettano nel popolo un senso di sovranità che lo induce a preservarla come un gesto d’amore.

In un paese capitalista, a chi, grazie alla lotteria biologica, è nato in una famiglia e in una classe sociale immuni dalla miseria e dalla povertà, risulta difficile capire perché i cubani non si ribellino contro le autorità che li go-vernano. Ma quando si vive in un paese vittima di un blocco da più di mezzo secolo ad opera della più grande potenza militare, economica e ideologica della storia, dalla quale dista appena 140 chilometri, è motivo di orgoglio re-sistere durante tanto tempo e addirittura meritare l’elogio di papa Giovanni Paolo II durante la sua visita del 1998.

In più di 100 paesi - anche in Brasile - ci sono medici e maestri cubani in servizio di solidarietà in zone remote. Il numero di disertori è infimo, consi-

derata la quantità di professionisti che, terminato il contrat-to di lavoro, ritornano a Cuba. E la Rivoluzione, come succe-de adesso con il governo di Raúl Castro, si è aggiornata per non perire. Forse quel cartellone collocato nei pressi dell’ae-roporto dell’Avana e citato frequentemente da Fernando Mo-rais ci aiuterà a capire la coscienza civica di un popolo che prima ha lottato per non essere più colonia della Spagna e poi degli Stati Uniti: “Stanotte 200 milioni di bambini dormi-ranno nelle strade del mondo. Nessuno di loro è cubano”.

Dal 1998 sono in carcere, condannati da un processo farsa [anche se smentito dalla Corte di appello di Atlanta] i cubani che si erano infiltrati nei gruppi terroristi di Miami per prevenire attentati contro l’isola. La loro odissea in un libro-rivelazione

Le documentate pagine di fernando morais raccontano anche come le prove furono consegnate in visione alla fbi. che le ignorò

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Il Premio Nobel per la Letteratura sapeva che Bill Clinton, per sua stes-sa affermazione, non si addormentava mai senza leggere qualche pagina di uno dei suoi romanzi. Forte di questa simpatia, nel marzo del 1998 aveva chiesto un incontro privato con l’allora presidente degli Stati Uniti, per metterlo al corrente, al di là di ogni informazione partigiana del mondo politico o dei media, della delicata emergenza in cui viveva la Colombia, il suo paese, ormai diviso in tre parti, in tre zone d’influenza: una della guer-riglia, una del narcotraffico e una dello stesso governo di Bogotá, ormai in-capace di pacificare il paese e di fare politica se non con la repressione, affi-data ai paramilitari di Carlos Castaño e Salvatore Mancuso. Una deriva che Márquez sperava di contribuire a fermare e che invece, con l’elezione nel 2002 del presidente Alvaro Uribe, sostenuto dagli Stati Uniti, si è acuita, fino a raggiungere livelli di illegalità inauditi.

Márquez, prima di partire per Washington, fu contattato nella sua casa all’Avana da Fidel Castro che, avendo saputo del suo viaggio, lo pregava di portare a Clinton un messaggio non ufficiale contenente tra l’altro informa-zioni precise su attentati terroristici pianificati in Florida contro Cuba. Una

Nel 2005 ho collaborato all’edizione italiana del libro “Il terrorismo degli Stati uniti contro Cuba” che aveva come sottotitolo “Il caso dei Cinque, una storia inquietante censurata dai media”. Era la raccolta di una serie di saggi riuniti da Salim Lamrani, docente universitario a Parigi, che comprendeva 16 interventi di intellettuali prestigiosi fra cui Howard Zinn, Noam Chomsky, William Blum, Pie-tro Gleijeses, Ignacio Ramonet, Saul Landau, Nadine Gordimer e, fra gli altri, anche il mio. Il libro denunciava, come detto, l’odissea e le sofferenze dei cinque agenti dell’intelligence cubana infiltrati in Florida per individuare i “santuari” del terrorismo contro Cuba che, dopo aver raccolto le prove di questa struttura criminosa, erano stati arrestati e condannati in un processo farsa a Miami, a pene tombali, mentre i responsabili degli attentati, spesso coperti dalla Cia, vi-vevano liberi nella stessa Florida. Il libro messo insieme da Lamrani è esplicito nella sua accusa alla giustizia degli Stati Uniti: dare corda a gruppi terroristici, alla fine degli anni ‘9o, per qualunque motivazione strategica, si sarebbe rivela-to, infatti, un azzardo pericolosissimo, come dimostrerà poi la tragedia dell’11 settembre. La situazione era così scabrosa che Fidel Castro, sapendo che García Márquez sarebbe andato a Washington per parlare del dramma della “sua” Co-lombia, decise di chiedere al Nobel della letteratura, amico personale di Bill Clinton, di portarte una lettera privata alla Casa Bianca per sensibilizzare il Presidente degli Stati Uniti anche su questo pericolo. Ecco la cronaca dei vari momenti di questa operazione così come l’hanno raccontata i protagonisti. [G. M]

di gianni minà

Il

La missione di gaBo PeR feRmaRe iL teRRoRismo usa contRo cuBa che cResceVa a miami

nel 1988 Fidel Castro affida a gabriel garcía Márquez una lettera destinata a un grande ammiratore dello scrittore premio nobel: l’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton. ecco il racconto dell’insolito emissario

Dall’introduzione di Gianni Minà tratta dal libro Il terrorismo degli Stati uniti contro Cuba Novembre 2005

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Punto 1 (testualmente) e senza nessuna omissione: Si tratta di una questione impor-tante. Permangono piani di attività terroristiche contro Cuba che sono finan-ziati dalla Fondazione Nazionale Cubano-Americana e si servono di merce-nari centroamericani. Due nuovi tentativi di attentati dinamitardi contro i nostri centri turistici si sono già verificati, prima e dopo la visita del Papa. Nel primo caso, i responsabili sono riusciti a fuggire rientrando in Centroa-merica per via aerea senza aver raggiunto il loro scopo e dopo aver abban-donato la strumentazione tecnica e l’esplosivo, che sono stati sequestrati. Nel secondo caso, tre mercenari, di nazionalità guatemalteca, sono stati ar-restati, l’esplosivo e altri mezzi sono stati sequestrati. Per ciascuna delle quattro bombe che dovevano esplodere avrebbero ricevuto 1500 dollari.

In entrambi i casi gli attentatori sono stati assoldati ed equipaggiati da agenti della rete che fa capo alla Fondazione Nazionale Cubano-Americana. Al momento si stanno progettando e organizzando attentati contro aerei delle compagnie cubane, o di altri paesi, in arrivo o in partenza da Cuba carichi di turisti in transito in centri latinoamericani.

La procedura è simile: nascondere a bordo un ordigno di piccole dimen-sioni ma molto potente collegato a un timer che può essere programmato con un anticipo anche di 99 ore, e quindi all’arrivo scendere normalmente dall’aereo. L’esplosione si produrrebbe a terra o durante il volo successivo. Un sistema assolutamente diabolico: congegni facili da montare, componen-ti quasi impossibili da scoprire, addestramento minimo, impunità pressoché certa. Apparecchiature utilizzabili per crimini e attentati estremamente sanguinosi. Estrema pericolosità per linee aeree e strutture turistiche.

Questi metodi potrebbero cominciare a diffondersi, e dilagare, come è già accaduto in passato con i dirottamenti aerei. Altri gruppi estremisti di origine cubana con base negli Stati Uniti iniziano a muoversi in questa direzione.

Polizia e servizi di intelligence statunitensi dispongono di informazioni attendibili e sufficienti per stroncare sul nascere questa nuova forma di terrorismo, ma sarà impossibile frenarla se gli Stati Uniti non assolveranno l’elementare dovere di combatterla. La responsabilità di farlo non può esse-re lasciata solo a Cuba. Molto presto qualsiasi paese della Terra potrebbe essere vittima di questi atti.

La missione di Gabo per fermare il terrorismo Usa contro Cuba che cresceva a Miami

vecchia abitudine, colpevolmente coperta dalla CIA, che aveva causato negli anni più di 3500 vittime e che era torna-ta purtroppo di attualità. Cuba chiedeva una collaborazione fra i sistemi di intelligence dei due paesi per neutralizzare questa scabrosa strategia, pericolosa anche per la sicurezza degli Stati Uniti.

Il Gabo, che pochi anni prima era stato ospite di Clinton con lo scrittore messicano Carlos Fuentes nell’isola di Mar-tha’s Vineyard, quella volta invece non riuscì a parlare con

il presidente, anche se fu ricevuto alla Casa Bianca da alcuni suoi stretti collaboratori. Il contesto era cambiato: Clinton aveva un debito elettorale con gli anticastristi di Miami ed evidentemente non poteva più avere verso Cuba l’atteggiamento di disponibilità mostrato a Márquez nelle conversazio-ni di Martha’s Vineyard. Al ritorno il Nobel colombiano stese una relazione particolareggiata sull’incontro mancato con il presidente e sulle risposte avute dai funzionari che lo avevano ricevuto, relazione che mise a disposi-zione del governo cubano e pubblicò successivamente sul quotidiano colom-biano El Tiempo.

È la relazione che proponiamo come prologo di questo libro di denuncia, che chiarisce molte cose ed è stata letta da Fidel Castro il 20 maggio 2005 in un seminario all’Avana al quale hanno partecipato intellettuali di tutto il mondo, denominato Tribuna Antimperialista José Martí.

Fidel Castro in quel contesto ha dato conto della missione affidata al Premio Nobel per la Letteratura colombiano, dei passi tentati dal governo cubano per stabilire una collaborazione con quello nordamericano sul tema della sicurezza e della lotta al terrorismo e, ovviamente, anche delle risposte ricevute (o non ricevute) dal governo di Washington.

È il nostro modo di intendere la trasparenza dell’informazione, in un mondo della comunicazione sempre più propenso a eluderla o addirittura a essere omertoso.

POICHÉ ero venuto a conoscenza di una prossima visita negli Stati Uniti dello scrittore Gabriel García Márquez, che in quell’occasione avrebbe incon-trato William Clinton, lettore e ammiratore dei suoi libri, come tanti altri nel mondo, con il quale l’autore aveva avuto contatti in precedenza, decisi di inviare un messaggio personale al presidente degli Stati Uniti.

Il messaggio conteneva una sintesi di sette temi. In questo rapporto rife-rirò solo del primo, più direttamente legato a gravi fatti che accadono oggi: gli atti terroristici organizzati e finanziati dagli Stati Uniti contro il popolo cubano.

ma clinton, condizionato dagli aiuti elettorali avuti dalla fondazione cubano-americanadi miami, quella volta si negò a garcía marquez

iL Racconto di fideL castRo

sintesi deL messaggio affidato aLLo scRittoRe PeRché Lo tRasmettesse, confidenZiaLmente, aL PResidente cLinton

20 maggio 2005 [dall’intervento alla Tribuna Antimperialista José Martí]

di fidel castro

il mondo in cui viviamolatinoamerica

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

fine marzo 1988, quando confermai all’Università di Princeton che avrei tenuto un seminario di letteratura a partire dal 25 aprile, telefonai a Bill Ri-chardson per chiedergli di procurarmi un colloquio privato con il presidente Clinton in merito alla situazione colombiana. Richardson mi disse di richiamarlo una settimana prima della mia partenza per avere una risposta. Qualche giorno dopo mi recai all’Avana alla ricerca di alcune informazioni per un articolo sulla visita del papa, e nelle mie conversazioni con Fidel accennai alla possibilità di incontrare il presidente Clinton. Di lì nacque l’idea che Fidel gli inviasse un mes-saggio confidenziale a proposito di un pericoloso piano terroristico che Cuba aveva appena scoperto e che avrebbe potuto coinvolgere non solo i rispettivi paesi ma molti altri. Fidel stesso decise che non sarebbe stata una lettera perso-nale, per evitare a Clinton l’imbarazzo di dovergli rispondere, e preferì una sin-tesi della nostra conversazione sul complotto in corso e su altri temi di interesse comune.

Mi suggerì, inoltre, due domande non scritte che avrei potuto sottoporre al presidente qualora se ne fosse presentata l’occasione.

Quella sera mi resi conto che il mio viaggio a Washington aveva preso una piega inattesa e importante, e che non potevo continuare a considerarlo una semplice visita privata.

Così, non solo confermai a Richardson la data del mio arrivo, ma gli annunciai che portavo un messaggio urgente per il presidente Clinton. Per rispetto al riser-bo concordato, non gli dissi al telefono di chi fosse – ma dovette immaginarlo – né lasciai intuire che un ritardo nella consegna avrebbe potuto provocare enormi disgrazie e la morte di persone innocenti. La settimana a Princeton trascorse senza alcuna risposta da parte di Richardson, e questo mi fece pensare che anche la Casa Bianca stesse valutando attentamente il cambiamento nelle motivazioni della mia prima richiesta. Arrivai persino a temere che il colloquio non mi sareb-be stato concesso.

Appena giunsi a Washington, venerdì 1° maggio, un assistente di Richardson mi informò telefonicamente che il presidente non poteva ricevermi perché si sarebbe trattenuto in California fino a mercoledì 6 maggio, e io avevo program-mato di rientrare in Messico il giorno precedente quella data. Mi proponevano, in cambio, di incontrare il direttore del Consiglio di Sicurezza Nazionale, Sam

Berger, che avrebbe potuto ricevere la lettera a nome del presidente.Sospettai malignamente che fosse tutta una manovra per deviare il messaggio

nelle mani dei servizi di sicurezza.Berger aveva assistito a un colloquio che Clinton mi aveva concesso nello Studio

Ovale della Casa Bianca nel settembre del 1997, e benché i suoi rari interventi sulla situazione cubana non discordassero da quelli del presidente, non potrei affermare che li condividesse senza riserve.

Insomma, non mi sentii autorizzato ad accettare la responsabilità di questa alter-nativa, specie trattandosi di un messaggio tanto delicato, e per di più non mio. Per-sonalmente, ritenevo si dovesse consegnare solo nelle mani di Clinton.

Lì per lì, l’unica alternativa che escogitai fu di avvertire l’ufficio di Richardson che se l’impossibilità di incontrare il presidente era dovuta solo alla sua assenza, ero disposto a prolungare la mia permanenza a Washington fino al suo ritorno. Rispose-ro che glielo avrebbero fatto sapere.

Poco dopo, in albergo, trovai un messaggio telefonico dell’ambasciatore James Dobbins, direttore per gli Affari Interamericani del Consiglio di Sicurezza Nazionale nordamericano (NSC), ma decisi di fingere di non averlo ricevuto finché la mia pro-posta di attendere il ritorno del presidente non fosse stata trasmessa.

Non avevo fretta. Nell’ameno campus di Princeton avevo scritto più di venti pa-gine utili per le mie memorie, e il ritmo non era calato nell’asettica stanza dell’hotel di Washington, dove arrivai a lavorare anche dieci ore al giorno. In realtà, benché non lo confessassi nemmeno a me stesso, il vero motivo della mia reclusione era la sorveglianza del messaggio depositato nella cassetta di sicurezza.

All’aeroporto di Città del Messico avevo perduto il cappotto, preoccupato com’ero di tener d’occhio contemporaneamente il computer portatile, la borsa con le bozze e i dischetti del libro in lavorazione, nonché la lettera (di cui non esisteva copia). La sola idea di poterla perdere mi provocava un brivido di panico, non tanto per il fatto in sé, ma perché sarebbe stato davvero facile identificarne provenienza e destinazio-ne. Decisi perciò di sorvegliarla costantemente, mentre scrivevo, mentre mangiavo o ricevevo visite nella mia stanza d’albergo, la cui cassetta di sicurezza non mi ispi-rava alcuna fiducia, visto che non aveva una combinazione ma una semplice chiave che pareva rimediata nella ferramenta all’angolo. La portavo sempre nel portafoglio

e, dopo ogni inevitabile uscita, andavo a controllare che la lette-ra fosse ancora al suo posto, dentro la busta sigillata. L’avevo letta così tante volte impararla quasi a memoria, per sentirmi più sicuro nel caso avessi dovuto sostenere qualcuno degli argo-menti contenuti al momento di consegnarla.

Avevo sempre dato per scontato, inoltre, che le mie conver-sazioni telefoniche di quei giorni – e quelle dei miei interlocu-tori – fossero intercettate. Ma la certezza di svolgere una missio-ne meritoria, per il bene sia di Cuba sia degli Stati Uniti, mi mantenne sereno. L’altro problema serio che avevo era la man-

ReLaZione deL PRemio noBeL suLLa missione comPiuta

“clinton si era trattenuto in california. mi proposero un incontro con sam Berger della sicurezza nazionale. Risposi che potevo anche aspettare il Presidente”

13 maggio 1988 Copia testuale priva di omissioni

di gabriel garcía márquez

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il mondo in cui viviamo

Gabriel García Marquez

Stato. Gaviria, in ogni modo, sembrava sicuro che se il testo fosse stato consegnato a Berger sarebbe arrivato nelle mani del presidente, ed era questo che contava. Infi-ne, come avevo sperato, mi annunciò che al termine della cena mi avrebbe lasciato solo con McLarty perché mi aprissi un varco diretto al presidente.

Fu una serata piacevole e proficua, solo noi due e i Gaviria.McLarty è un uomo del Sud, come Clinton, ed entrambi hanno modi semplici e

immediati come la gente dei Caraibi. A tavola il ghiaccio fu presto rotto, soprattutto per quanto riguardava la politica statunitense nei confronti dell’America Latina, e in particolare il narcotraffico e i processi di pace. Mack era così informato da conoscere persino i dettagli più insignificanti dell’intervista che il presidente Clinton mi aveva concesso nel settembre precedente, quando era stato trattato a fondo il caso dell’ab-battimento degli aeroplani (nordamericani, N.d.R.) a Cuba, e tra l’altro si era accen-nato all’idea che il Papa, durante la sua visita nell’Isola, potesse fare da mediatore degli Stati Uniti.

Riguardo la Colombia, McLarty sostanzialmente riteneva – e su questo sembrava disposto a lavorare – che le politiche USA richiedessero un cambiamento radicale. Ci disse che il governo era pronto a prendere contatti con qualsiasi presidente eletto in modo legittimo per contribuire seriamente alla pace. E tuttavia né lui, né altri funzionari con i quali ebbi contatti in seguito aveva un’idea precisa di quali cambia-menti fossero necessari. Il dialogo fu così franco e spontaneo che, quando Gaviria e la sua famiglia ci lasciarono soli in sala da pranzo, McLarty e io sembravamo ormai due vecchi amici.

Senza esitare, gli rivelai il contenuto del messaggio destinato al suo presidente e lui non nascose il proprio allarme per il piano terroristico, pur non conoscendone i dettagli agghiaccianti. Non sapeva della mia richiesta di incontrare Clinton, ma promise di parlargli non appena fosse rientrato dalla California. Incoraggiato dalla facilità con cui si svolgeva la conversazione, gli proposi di accompagnarmi al collo-quio, e magari senza nessun altro funzionario, così che potessimo parlare aperta-mente. L’unica domanda che mi rivolse in proposito – e non ne seppi mai la ragione – fu se Richardson conosceva il contenuto del messaggio, e io risposi di no. A quel punto concluse la nostra chiacchierata con la promessa di parlarne al presidente.

Il martedì di primo mattino comunicai all’Avana, tramite il solito canale, i prin-cipali argomenti affrontati quella sera a cena, e mi posi una domanda che a quel punto mi sembrava opportuna: se il presi-dente alla fine avesse deciso di non ricevermi, affidando l’inca-rico a McLarty e a Berger, a chi dei due avrei dovuto consegnare il messaggio? La risposta parve propendere a favore del primo, avendo cura però di non contrariare Berger.

Quel giorno pranzai al Provence in compagnia della signora McLarty. Durante la cena dai Gaviria, infatti, non c’era stato modo di affrontare la nostra conversazione letteraria.

Ben presto, però, le domande che aveva preparato si esauri-rono, lasciando spazio a tutta la sua curiosità per Cuba. L’accon-

canza di qualcuno a cui poter sottoporre i miei dubbi senza violare la consegna del riserbo. Il rappresentante diplomatico di Cuba a Washington, Fernando Remírez, si mise a mia completa disposizione per mantenere aperti i canali con L’Avana. Le comu-nicazioni confidenziali da Washington, però, sono talmente lente e rischiose – in particolare per un caso delicato come quel-lo – che le nostre si svolsero solo attraverso un emissario specia-le. La risposta fu un cortese invito a fermarmi a Washington il tempo necessario a portare a termine l’incarico, proprio come avevo deciso, e la raccomandazione di stare molto attento a non

offendere Sam Berger rifiutandolo come interlocutore. Non c’era bisogno di firma per indovinare di chi fosse la chiusa divertita del messaggio: «Ci auguriamo che tu scriva molto».

Per una fortunata coincidenza, l’ex presidente colombiano César Gaviria aveva organizzato per il lunedì sera una cena privata con Thomas «Mack» McLarty, il quale aveva appena rinunciato alla carica di consigliere del presidente Clinton per l’Ame-rica Latina, ma restava pur sempre il suo più vecchio e intimo amico. Ci eravamo conosciuti l’anno prima, e fin da allora la famiglia Gaviria progettava quella serata con un duplice scopo: discutere con McLarty dell’indecifrabile situazione colombia-na ed esaudire il desiderio della moglie di chiarire con me alcuni dubbi riguardo i miei libri.

L’occasione sembrava provvidenziale. Gaviria è un caro amico, un consigliere intelligente, originale e preparato come pochi sulla realtà latinoamericana, oltre che un osservatore attento e sensibile della realtà cubana. Arrivai a casa sua un’ora prima del convenuto e, senza aver avuto il tempo di consultarmi con nessuno, mi presi la libertà di rivelargli il nocciolo della mia missione perché mi aiutasse a orientarmi.

Gaviria mi fornì la misura esatta del problema e ne mise in ordine gli elementi. Mi spiegò che le preoccupazioni dei consiglieri di Clinton erano tutto sommato normali, dati i rischi politici e di sicurezza che implica per un presidente degli Stati Uniti ricevere direttamente nelle proprie mani e tramite un canale irregolare infor-mazioni così delicate. Non ebbe bisogno di dilungarsi su questo aspetto, perché su-bito ricordai un precedente emblematico: durante la nostra cena a Martha’s Vineyard nel 1994 (all’epoca degli sbarchi massicci di cubani sulle coste della Florida, N.d.R.), il presidente mi autorizzò a parlargli di questo e di altri argomenti scottanti riguar-danti l’Isola, ma prima mi avvisò che lui non avrebbe potuto esprimere un’opinione. Non dimenticherò mai la concentrazione con la quale mi ascoltava, e gli sforzi so-vrumani che dovette fare per non replicare su certe questioni spinose.

Gaviria mi mise anche in guardia rispetto a Berger, spiegandomi che era un fun-zionario serio ed efficiente il cui peso nei rapporti con il presidente andava tenuto in seria considerazione. Osservò inoltre che il solo fatto che fosse stato incaricato di ricevermi denotava un riguardo particolare, di alto livello, nei miei confronti, dal momento che solitamente le richieste private venivano girate agli uffici periferici della Casa Bianca o trasferite a funzionari minori della CIA o del Dipartimento di

La missione di Gabo per fermare il terrorismo Usa contro Cuba che cresceva a miami

“L’incontro con mcLarty, consigliere di clinton per l’america Latina che avrebbe inoltrato la lettera se non avessi visto il presidente”

“nel 94, in una cena a martha’s Vineyard, clinton mi autorizzò a esporgli temi caldi su cuba, ma mi avvisò che non avrebbe potutoesprimere opinioni”

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parlato con preoccupazione: «Adesso che si sono messi in testa di aiutarci davvero, sono più pericolosi che mai – aveva commentato uno di loro – perché pretendono di immischiarsi dappertutto».

McLarty, abito tagliato su misura e buone maniere, entrò con la fretta di chi avesse interrotto affari di capitale importanza per occuparsi di noi. A ogni buon conto, impresse alla riunione un tono disteso, proficuo e gioviale.

Fin dalla sera della cena avevo apprezzato il suo modo di parlare guardandoti dritto negli occhi. Lo fece anche durante la riunione. Dopo un caloroso abbraccio, sedette di fronte a me, posò le mani sulle ginocchia e dette inizio alla chiacchierata con una frase di circostanza ma così ben detta che suonò vera: «Siamo a sua disposi-zione».

Volevo chiarire subito che avrei parlato a mio nome, senz’altro merito o manda-to che la mia condizione di scrittore, specie trattandosi di un caso tanto spinoso e impegnativo come Cuba. Perciò esordii con una precisazione che non mi sembrava superflua per i registratori nascosti: «Questa non è una visita ufficiale».

Tutti approvarono annuendo e quella loro inaspettata solennità mi sorprese. Raccontai in modo semplice e con uno stile colloquiale quando, come e perché aves-se avuto luogo la conversazione con Fidel Castro da cui aveva avuto origine l’idea delle note informali da consegnare al presidente Clinton. Le passai a McLarty nella busta chiusa, pregandolo di leggerle ad alta voce per poterle commentare insieme. Era la traduzione in inglese di sette argomenti numerati, racchiusi in sei pagine a spaziatura doppia: «Complotto terrorista; relativa soddisfazione per le misure annun-ciate il 20 marzo al fine di ripristinare i collegamenti aerei fra Stati Uniti e Cuba; viaggio di Richardson all’Avana nel gennaio 1998; rifiuto argomentato da parte di Cuba degli aiuti umanitari; riconoscimento del rapporto favorevole redatto dal Pen-tagono circa la situazione militare di Cuba; beneplacito per la soluzione della crisi irachena e gratitudine per i giudizi espressi da Clinton su Cuba alla presenza di Mandela e Kofi Annan».

McLarty non lesse ad alta voce per tutti, come speravo e come sicuramente avreb-be fatto se avesse già conosciuto il testo. Lo esaminò per conto suo, probabilmente con il metodo di lettura rapida reso famoso dal presidente Kennedy, e tuttavia sul suo volto si riflettevano tutte le emozioni come scintille su uno specchio d’acqua. Io

avevo letto quelle pagine talmente tante volte che quasi indovi-navo a quali passaggi del documento corrispondeva ogni suo nuovo stato d’animo.

Il primo punto, il complotto terrorista, gli strappò un grugni-to: «È terribile». Poco oltre represse una risata maliziosa ed esclamò, senza interrompere la lettura: «Abbiamo nemici comu-ni». Credo si riferisse al quarto punto, dove si descrivevano le manovre di un gruppo di senatori per evitare l’approvazione dei decreti Torres-Rangel e Dodd, e si ringraziava Clinton per i suoi sforzi tesi a salvarli.

Arrivato in fondo, passò le carte a Dobbins, e questi a Clarke,

“alla casa Bianca consegnai la lettera di fidel che venne aperta e letta da mcLarty e dagli altri diplomatici che mi avevano ricevuto”

tentai, per quanto ne fui capace, e credo che alla fine si sentisse rassicurata. Al dessert, senza che gliel’avessi chiesto, telefonò al marito e questi mi fece sapere che non aveva ancora visto il presidente, ma sperava di darmi notizie in giornata.

Neppure due ore più tardi, in effetti, un suo assistente mi informò, attraverso l’ufficio di César Gaviria, che l’incontro si sarebbe tenuto l’indomani alla Casa Bianca, con McLarty e tre alti funzionari del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Pensai che se uno di loro fosse stato Sam Berger, lo avrebbero indicato per nome, e così adesso la mia preoccupazione era che non ci fosse.

Fino a che punto la sua assenza poteva dipendere da una mia negligenza involonta-ria nel corso di una telefonata? Ormai non aveva più importanza: dato che McLarty aveva sistemato la faccenda con il presidente, questi doveva essere già al corrente del messaggio. Decisi senza pensarci un istante di non aspettare oltre: sarei andato all’appuntamento e avrei consegnato la lettera a McLarty. Ero così sicuro di me che prenotai un posto su un volo diretto a Città del Messico in partenza alle cinque e mezzo del pomeriggio seguente. E proprio in quel momento giunse dall’Avana la risposta al mio ultimo quesito, l’autorizzazione più impegnativa di tutta la mia vita: «Abbiamo fiducia nelle tue capacità».

L’appuntamento era alle 11.15 di mercoledì 6 maggio negli uffici di McLarty alla Casa Bianca. Fui ricevuto dai tre funzionari del Consiglio di Sicurezza Nazionale: Richard Clarke, direttore responsabile per gli Affari Multilaterali e consigliere del presidente per la politica internazionale, e in particolare per la lotta al terrorismo e alla droga; James Dobbins, direttore capo del NSC per gli Affari Interamericani, con rango di ambasciatore e consigliere del presidente per l’America Latina e i Carabi; e Jeff Delaurentis, direttore per gli Affari Interamericani del NSC e consigliere specia-le per Cuba. Non ci fu l’occasione per chiedere come mai non ci fosse Berger. I tre funzionari furono molto cordiali ed estremamente professionali.

Non avevo portato con me nessun appunto ma conoscevo il messaggio alla per-fezione, e poi avevo annotato nell’agenda elettronica le sole cose che temevo di di-menticare: le due domande fuori testo. Mack stava terminando una riunione in un altro ufficio. In attesa del suo arrivo, Dobbins tracciò un quadro abbastanza pessimi-sta della situazione colombiana. I dati cui facevano riferimento erano gli stessi che avevo sentito da McLarty il lunedì a cena, ma Dobbins li maneggiava con maggiore dimestichezza.

L’anno prima avevo spiegato a Clinton che la politica antidroga degli Stati Uniti costituiva uno sciagurato amplificatore della violenza che dilaniava la Colombia.

Per questo mi colpì il fatto che quegli uomini del Consiglio di Sicurezza Naziona-le – senza riferirsi alla mia frase, naturalmente – sembravano tutti d’accordo sulla necessità di cambiarla. Furono molto attenti a non dare giudizi sul governo né sui candidati alla successione, ma non c’erano dubbi che ritenessero la situazione del paese catastrofica e il suo futuro incerto. Non mi rallegrai per i propositi di rettifica, dato che diversi osservatori della politica colombiana a Washington me ne avevano

“Prima dell’incontro alla casa Biancami arriva da l’avana l’autorizzazione ad andare avanti: ‘abbiamo fiducia nelle tue capacità’”

Gabriel García MarquezLa missione di Gabo per fermare il terrorismo Usa contro Cuba che cresceva a miami

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il mondo in cui viviamo

viaggio è la certezza che nell’inconscio collettivo iniziasse a concretizzarsi l’idea della riconciliazione come qualcosa d’irreversibile.

Quando il discorso iniziò a divagare, Clarke ci richiamò all’ordine e, rivolgendo-si a me, precisò – era forse un messaggio? – che avrebbero fatto i passi necessari per un piano congiunto Cuba-Stati Uniti contro il terrorismo.

Dobbins, dopo aver scritto un lungo appunto sul suo taccuino, aggiunse che avrebbero contattato l’ambasciata americana a Cuba per far partire il progetto. Com-mentai ironicamente l’importanza che attribuiva all’Ufficio di interessi degli Stati Uniti all’Avana, e lui, divertito, mi rispose: «Non sarà un’ambasciata, ma quella laggiù è molto più grande di un’ambasciata». Ci fu una risata generale, non priva di mali-ziosa complicità. Non si discussero altri punti, in realtà non era il caso, ma spero che in seguito li abbiano analizzati tra loro.

La riunione durò in tutto cinquanta minuti. Mack ne sancì la fine con un rituale: «So che lei ha un’agenda molto fitta prima di tornare in Messico, e anche noi abbiamo molto da fare». Quindi pronunciò poche frasi asciutte che interpretai come un rico-noscimento ufficiale del modo in cui avevamo condotto l’intera faccenda. Sarebbe temerario tentarne una citazione letterale, ma il senso e il tono delle sue parole espri-mevano gratitudine per la rilevanza del messaggio, degno di tutta l’attenzione del suo governo e del quale si sarebbero occupati con urgenza. Poi, come in un lieto fine, guardandomi dritto negli occhi, mi coronò di un alloro personale: «La sua missione era effettivamente della massima importanza e lei l’ha svolta egregiamente». Né il pudore, che mi manca, né la modestia, che non ho, mi hanno permesso di abbando-nare queste parole alla gloria effimera dei microfoni nascosti nei vasi da fiori.

Lasciai la Casa Bianca convinto dell’esito positivo che lo sforzo e le incertezze di quei giorni avevano avuto. Il disappunto per non aver consegnato il messaggio diret-tamente nelle mani del presidente mi parve compensato da quello che era stato un incontro più informale e operativo, i cui buoni risultati non si sarebbero fatti atten-dere. Inoltre, conoscendo l’intesa che legava Clinton e Mack, e la forza della loro amicizia nata sui banchi della scuola elementare, ero sicuro che il documento prima o poi sarebbe arrivato nelle mani del presidente nella cornice complice di una chiac-chierata dopo cena.

Ebbi giusto il tempo di fare le valigie e correre a prendere l’aereo. Quello che mi aveva portato dal Messico quattordici giorni prima era dovuto tornare alla base per

una turbina in avaria, costringendoci ad aspettare quattro ore in aeroporto un volo disponibile. L’aereo che presi per tornare in Messico, dopo la riunione alla Casa Bianca, ritardò la partenza di un’ora e mezza a causa di un guasto al radar, che venne ripa-rato con i passeggeri a bordo. Alla fine arrivammo a destinazione con altre cinque ore di ritardo, per via di una pista fuori sevizio. Sono cinquantadue anni che viaggio in aereo, e non mi era mai accaduto nulla di simile. Del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti per un’avventura di pace che merita un posto privile-giato nelle mie memorie.

“La riunione durò in tutto 50 minuti.alla fine lo staff del Presidente mi ringraziò: “La sua missione è stata della massima importanza’”

che si misero a leggere mentre Mack tesseva le lodi di Mortimer Zuckerman, proprietario di US News & World Report, che era stato all’Avana nel febbraio di quell’anno. Fece quel commento perché il nome compariva al sesto punto del documento, ma non rispo-se alla domanda implicita in quelle righe, se cioè Zuckerman avesse informato Clinton delle due conversazioni avute con Fidel Castro, durate ben dodici ore ciascuna.

Il punto che occupò quasi per intero il tempo rimasto dopo la lettura fu quello relativo al piano terroristico, che impressionò tutti. Raccontai loro che, dopo esserne venuto a conoscenza

all’Avana, ero volato in Messico in preda al terrore che l’aereo saltasse in aria. Il momento mi parve perfetto per proporre la prima domanda personale che mi aveva suggerito Fidel: non sarebbe stato possibile che l’FBI prendesse contatti con il suo omologo ufficio cubano per intraprendere una lotta comune al terrorismo? Prima che reagissero, aggiunsi alcune frasi che erano farina del mio sacco: «Sono certo che riceverebbe una risposta pronta e positiva da parte delle autorità cubane».

Fui sorpreso dall’immediatezza e dall’energia della loro reazione. Clarke, che sembrava fra i quattro il più sensibile all’argomento, disse che l’idea era molto buo-na, ma mi avvertì che l’FBI non si occupava di faccende che potessero finire sulla stampa mentre le indagini erano in corso.

I cubani erano disposti a mantenere la segretezza sulla faccenda? Ansioso di porre la seconda domanda, risposi in modo da distendere l’atmosfera: «Non c’è nul-la che piaccia ai cubani quanto mantenere un segreto».

In mancanza di un’occasione propizia per il secondo quesito, lo trasformai in una mia affermazione: la collaborazione nel campo della sicurezza poteva favorire il ri-pristino delle autorizzazioni ai viaggi di cittadini nordamericani a Cuba. Qualcosa non funzionò nella mia trovata, perché Dobbins mi fraintese e rispose che la cosa si sarebbe risolta quando si fossero messe in atto le misure annunciate il 20 marzo di quell’anno.

Chiarito l’equivoco, spiegai a quali pressioni fossi sottoposto da nordamericani di ogni sorta che si rivolgevano a me perché li aiutassi a stabilire contatti con Cuba per motivi d’affari o di piacere. Nominai tra gli altri Donald Newhouse, editore di vari periodici e presidente dell’Associated Press (AP), il quale mi aveva offerto una favolo-sa cena nella sua casa di campagna nel New Jersey al termine del seminario a Prince-ton. Il suo sogno era di poter andare a Cuba a trattare direttamente con Fidel l’aper-tura di un ufficio permanente dell’AP all’Avana, simile a quello che ha la CNN.

Non posso affermarlo con certezza, ma dalla vivace conversazione alla Casa Bian-ca credo emergesse chiaramente che non avevano, o non conoscevano, o non vole-vano rivelare alcun proposito a breve termine di ripristinare i voli tra Stati Uniti e Cuba. Devo comunque sottolineare che non si sfiorò mai l’argomento delle riforme democratiche, delle libere elezioni o dei diritti umani, né nessun altro dei soliti ri-tornelli politici con i quali i nordamericani cercano di condizionare qualsiasi proget-to di collaborazione con Cuba. Al contrario, l’impressione più nitida che serbo di quel

“arriva il momento della “domanda personale” suggerita da fidel: “che ne direste se l’fbi collaborasse con l’intelligence cubana per fermare il terrorismo?’”

Gabriel García MarquezLa missione di Gabo per fermare il terrorismo Usa contro Cuba che cresceva a miami

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uba comincia ad essere un’altra ... Nella stessa Avana si direbbe che due capitali si contendono lo stesso spazio: una città addormentata nel tempo, alquanto sdrucita, rumorosa, che è sopravvissuta alla sovrappopolazione co-smopolita, a carenze di ogni genere e anche all’ignavia; l’altra prende vita nelle sue nuove caffetterie, ristorantini privati, palestre, affitti e annunci di ogni genere - brutti o ben presentati -, che ci informano dell’esistenza affol-lata di venditori, di dischi pirata, di falegnami, di meccanici, di muratori, sarte, barbieri e massaggiatori...

Anche i volti di questi cubani cominciano ad essere diversi. Che lo dica chi faceva finta di lavorare otto ore al giorno, in un posto improduttivo e per un salario che neanche un mago avrebbe potuto far durare fino alla fine del mese, e oggi scommette come lavoratore per conto proprio, un concetto che significa la consapevolezza del fatto che ora tutto è a suo carico e non poggia sulle spalle dello stato: il capitale, la microeconomia, le tasse, la disciplina e la legalità. Ma anche così, la gran parte dei 333mila conterranei dediti a ciascuna delle 181 attività del lavoro per conto proprio, preferiscono dare l’anima e il petto alle difficoltà e sottoporsi alla prova di poter intraprendere un cammino proprio.

Poco a poco, altre buone novità hanno fatto irruzione nel paesaggio ur-

di félix LópezGiornalista cubano, redattore del “Granma”

Un primo bilancio sulle attività “per conto proprio”, in cui ormai lavorano oltre 330mila cittadini

C

bano: non c’è dubbio che adesso, alla fine di ogni giornata scolastica, le strade sono più allegre per la presenza degli studenti del preuniversitario che sono tornati nella città. Per loro bisognerà pensare anche a migliori offerte di ricre-azione, un insegnamento che si avvicini a quello che abbiamo sempre sognato e un atteggiamento personale che li renda uomini e donne per bene. Cuba, noi che la amiamo lo sappiamo, ha urgenza di preservare tutto quello che l’ha fatta grande, che l’ha fatta crescere come nazione e perfezionare la sua economia e le forme di partecipazione, in modo che questi nostri figli vi si sentano bene e abbiano un motivo per restare qui e per crescere in quest’isola.

E anche se non hanno fatto irruzione nei mezzi di comunicazione con la stessa forza con cui lo fanno già nelle viscere della società, vi sono anche nuovi modi di pensare, di discutere e di analizzare il presente e il futuro del paese. La nostra gente parla a voce alta della sua vita quotidiana, dei cambiamenti che si stanno sperimentando, della lentezza dell’avvio di altri, dei burocrati che cominciano a sentirsi sotto scacco, dei corrotti seduti sul banco degli accusati, della necessità che il giornalismo rispecchi di più la vita e di dimostrare tutti, come direbbe un amico, che “Rivoluzione vuol dire che la gente viva, che la gente respiri, che il salario abbia valore, che il denaro contribuisca a irrobusti-re i valori spirituali, che qualità di emozioni significa qualità di vita, e che il sacrificio non è una finalità ma un mezzo”.

A questo dibattito legittimo che si è generato nel popolo, vogliono parteci-pare anche quelli che odiano e disprezzano il cammino di indipendenza che i cubani hanno scelto mezzo secolo fa. E in questo tentativo c’è di tutto: cuba-nologi, politologi, gente di buona fede e perfino terroristi ... Alcuni si augurano il fallimento di Cuba, altri si spingono a demonizzare quello che qui applau-diamo come necessario. Uno di costoro, che ha accesso ad importanti mezzi di diffusione nel mondo, ha lanciato questa “teoria” per dimostrare che ormai ab-biamo abdicato: “Il lavoro per conto proprio crea a Cuba una piccola borghesia, inverte la politica del “periodo grigio” e attenta contro l’avvertimento di Lenin che la piccola borghesia è il nemico più pericoloso del socialismo”.

Buffo che adesso i nemici della rivoluzione cubana siano più leninisti di Lenin! Sono proprio gli stessi che quel 18 dicembre 2010 stavano avendo delle convulsioni quando il Presidente Raúl Castro ha distrutto con una sola frase del suo discorso il sogno della restaurazione del capitalismo a Cuba: “La pia-

nificazione e non il libero mercato sarà il tratto distintivo dell’economia e non sarà permessa la concentrazione della proprietà” ... Coloro che puntano sulla demonizzazione, la criminalizzazione e il giudizio contro i lavoratori per con-to proprio hanno scelto una strada che, oltre ad essere me-schina, è ridicola perché non è sostenibile. Cuba conta su di loro come su uno dei motori per lo sviluppo futuro. E la sua presenza nel paesaggio urbano, senza equivoci, è arrivata per restare.

i nuovi cuentapropisti portano nuovi modi di pensare, di discutere, di analizzare il paese. obbligando i burocrati a mettersi al passo

CUBAPaesaggio uRBano e sfide futuRe

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BrASILe

il mondo in cui viviamolatinoamerica

letta per proseguire la politica del governo Lula, Dilma Roussef ha ere-ditato vari problemi dal suo predecessore e dal suo schema di impostazione del potere, ma ai protetti di Lula non è stata riservata la stessa benevolenza che Dilma aveva per l’ex presidente.

Con piglio da vera “signora di ferro”, Dilma non è stata affatto tenera con coloro che sono usciti dal seminato, e li ha messi alla porta. Ad eccezione del suo amico Fernando Pimentel, ministro dello sviluppo, sospettato di abuso d’ufficio nell’attività di consulente svolta ad interim mentre era an-cora sindaco di Belo Horizonte e stava per divenire ministro del governo Roussef, la presidente ha dato prova di grande fermezza.

Pimentel ricopre ancora la carica ma bisogna vedere che cosa accadrà dopo l’imminente rimpasto che Dilma sta per annunciare. Molti ritengono che Pimentel rimarrà al suo posto, e a quel punto bisognerà seguire con attenzione la nuova sequela di informazioni sul suo precedente ruolo di consulente molto legato alla coalizione governativa.

Quanto a Dilma, il suo nuovo modo di fare politica -molto diverso da

da urgente24.comSito di informazione di Buenos Aires

E

diLma Roussef, aLLa conquista deL PaeseLicenZiando ministRi

L’ex Presidente Luiz Inácio Lula da Silva aveva fatto della frase “mai prima nella storia di questo paese” il suo slogan. Ma durante il suo primo anno di mandato, Dilma roussef potrebbe farlo proprio: è lei la Presidente del Brasile più apprezzata dopo i primi 365 giorni, persino più del predecessore. e si è già sbarazzata di 7 ministri (sei dei quali rimossi per presunte irregolarità).

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il mondo in cui viviamo

urgente24.comDilma Roussef, alla conquista del paese licenziando ministri

invece accade con Dilma.Per il professor Ricardo Caldas dell’Unb, il Brasile è ascoltato all’estero

proprio perché mantiene il suo mercato “caldo” e perché è allettante per i paesi che si trovano in recessione. Dilma può dunque guadagnare ancora più spazio.

In mezzo a tutti i conflitti politici ed economici, Dilma è riuscita a con-cretizzare alcune delle promesse fatte in campagna elettorale, come Brasil sem Miséria (n.d.t.: Brasile senza povertà, programma di assistenza sociale); il programma di rafforzamento della rete di prevenzione, diagnosi e trat-tamento del cancro del collo dell’utero e della mammella; il programma nazionale di accesso all’istruzione tecnica e all’impiego (Pronatec); la Rede Cegonha (ndt: Rete cicogna, una strategia del ministero della sanità volta a ga-rantire alle donne il diritto alla maternità consapevole), e il Plano Brasil Maior (ndt: programma del governo federale brasiliano per aumentare la competi-tività dell’industria nazionale). Un altro elemento positivo è rappresentato dalla creazione della Comissão da Verdade (ndt: Commissione della verità, per individuare violazioni dei diritti umani) e la legge di accesso all’informazio-ne pubblica. Altre ancora, comunque, sono rimaste tra le intenzioni, come ad esempio l’approvazione del Fondo di sicurezza dei funzionari federali e la Legge generale della Coppa del mondo (proposta del ministero brasiliano della giustizia alla Fifa di una campagna per la consegna volontaria delle armi da fuoco).

Ricardo Caldas ha scritto, per il quotidiano O Globo, che il primo anno di governo di Dilma ha accumulato punti positivi in termini politici. “Dal punto di vista politico, Dilma ha vinto perché è riuscita a girare a suo favo-

re cose delicate come il cambio di ministri”, ha affermato. “Nell’immaginario collettivo, ha agito con fermezza ed ha dimostrato di essere contro la corruzione.Che questo sia il suo atteggiamento anche per il futuro, è un altro discorso”. Caldas ha tuttavia aggiunto che la vittoria politica può esse-re vanificata se ci sono problemi economici: “Per il governo di Lula, la priorità era ridurre l’inflazione al minimo possibi-le. Per quello di Dilma, la preoccupazione è semplicemente quella di tenerla entro l’obiettivo.”

quello di altri presidenti, più inclini a essere tolleranti nei confronti dei membri dell’esecutivo denunciati per avere commesso irregolarità- inizialmente ha spaventato i mem-bri della coalizione governativa, ma così facendo è riuscita a far passare, nell’immaginario collettivo, il messaggio che lei non tollera gli errori. Un po’ di meritocrazia non può certo far male al Brasile.

Il nuovo stile -più attento alle questioni tecniche che a quelle politiche- ha disorientato chi aveva Lula come rife-

rimento. Dilma è stata il contrario del suo padrino politico, utilizzando un linguaggio privo di derive populistiche ed eccessi di collera che erano percepibili in molte occasioni.

Oltre al modo meno carismatico di esprimersi -circa 200 discorsi l’anno- Dilma ha anche tardato ad acquisire una delle passioni di Lula: i viaggi. Gli stati brasiliani che ha visitato sono stati 13, con un’alta concentrazione di appuntamenti a Rio de Janeiro, San Paolo, Rio Grande do Sul e Minas. Dal suo itinerario ha escluso stati come Piauí, Tocantins e Goiás, vicino al Di-stretto federale in cui risiede.

In ambito internazionale, la sua agenda si è intensificata nella seconda metà dell’anno. Dilma ha viaggiato in 15 paesi e ha introdotto un’abitudine diversa da quella di Lula: il piacere di fare turismo, di conoscere musei, pa-lazzi, gallerie e ristoranti.

Per il 2012 l’agenda prevede riunioni multilaterali, con gruppi come il G-20 in Messico, il Bbrics in India e il Mercosur in Argentina. Gli incontri bilaterali comprenderanno una riunione con il presidente Barack Obama per ricambiare la visita da lui fatta nel 2011 alla presidente Roussef, e pro-babilmente una visita a Cuba.

Appassionata di numeri, la presidente economista ha scoperto che i nu-meri non l’hanno aiutata molto in due indicatori di efficienza del paese: la crescita e l’inflazione.

Il caos fiscale del 2010 (c’erano da finanziare le elezioni che lei ha vinto) le ha impedito di tagliare spese per 50.000 milioni di R$, pari a 26.832,6 mi-lioni di US$, riducendo il tasso di crescita, il che ha dato conseguentemente origine a una forte contrazione della domanda e a un aumento dell’infla-zione.

Sbarcando in terra straniera, e con in tasca il trionfo per aver mante-nuto una crescita positiva in Brasile, Dilma ha cominciato ad essere una voce autorevole presso la comunità internazionale. Il suo commento è sta-to: per porre fine alla crisi, i paesi devono scommettere su misure che gene-rino crescita e non solo contenimento dei costi. Commento molto simile a quello della presidente argentina Cristina Fernández de Kirchner, anche se quest’ultima non riesce a suscitare l’interesse degli investitori globali come

Vocabolario misurato, viaggi dentro e fuori dal paese e una ricetta anti-crisi che punta alla crescita più che ai tagli di spesa

nel segno di Lula ma senza i “lulisti”: dilma ha cacciato i dirigenti inquisiti, che il predecessore invece tollerava

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

Brasile può svolgere un ruolo importante nel processo di recupero dell’Honduras1 dal colpo di stato militare del giugno 2009. È importante non solo per gli honduregni ma anche per il bene della democrazia in que-sto emisfero. Il colpo è stato appoggiato dall’amministrazione Obama, che ha fatto tutto il possibile per assicurarne la riuscita e l’installazione del go-verno di destra con un’”elezione” cinque mesi più tardi.  Il Brasile, come la maggior parte della regione, ha rifiutato di riconoscere l’”elezione” del Presidente Porfirio Lobo perché è avvenuta in condizioni di violazione dei diritti umani che hanno reso impossibile lo svolgimento di votazioni libere ed eque.

Nel maggio di quest’anno, a Cartagena, Colombia, è stato negoziato un accordo che ha consentito il ritorno del presidente precedentemente eletto, Mel Zelaya, e degli altri funzionari del governo costituzionale spodestato. Questo accordo ha consentito all’Honduras di rientrare nell’Organizzazio-ne degli Stati Americani (OAS) dalla quale era stata sospesa dopo il colpo di stato.

da mark Weisbrot Co-direttore del Cepr, Centro per la ricerca economica e politica, Washington, D.C.È anche presidente di Just Foreign Policy [www.justforeignpolicy.org/] CEPR: www.cepr.net

Il

Il Brasile ha giocato una parte importante dell’alleanza dei governi de-mocratici progressisti che si sono opposti a Washington e hanno tenuto l’Honduras al di fuori della OAS fino a quando non ha accettato determinate condizioni. Si deve pertanto prendere l’iniziativa per insistere che tali con-dizioni vengano soddisfatte.

Una di queste condizioni era una garanzia di «rispetto e tutela dei diritti umani». Questa condizione non è stata chiaramente soddisfatta in quanto la violenza contro l’opposizione è aumentata2 sotto il governo Lobo. Sono stati documentati 61 omicidi politici finora quest’anno e 59 lo scorso anno3. Questa è forse la peggiore repressione politica dell’emisfero.

L’accordo di Cartagena ha stabilito una «commissione di conformità» for-mata dai ministri degli esteri di Venezuela e Colombia. Questi erano i due paesi che hanno negoziato l’accordo con l’Honduras, contro la volontà degli Stati Uniti, che volevano la riammissione dell’Honduras nella OAS senza con-dizioni. Washington aveva ottenuto ciò che voleva4 dal colpo di stato, ovvero il rovesciamento di un governo democratico di sinistra e la sostituzione con un governo di destra più condiscendente ai suoi obiettivi per la regione.

La commissione di conformità però era autorizzata ad aggiungere membri e il Brasile poteva aderire e aiutare a mettere pressione pubblica sull’Honduras per rispettare i diritti umani.

La maggior parte dei governi dell’America Latina, compreso il Brasile, sono restii ad interferire negli affari interni degli altri paesi dell’America Latina. Ci sono buone ragioni per questo, infatti l’interferenza di Washing-ton nella regione ha avuto conseguenze terribili: la destabilizzazione e il rovesciamento di governi, il sostegno delle dittature e della repressione, così come le politiche economiche fallite per decenni. Inoltre gli Stati Uniti hanno spesso usato i «diritti umani» come pretesto per il loro intervento pur sostenendo le peggiori violazioni dei diritti umani che la regione abbia mai visto.

In questo caso però l’aiuto del Sud è essenziale come con-trappeso dal momento che Washington ha fatto così tanto per sostenere la repressione in un paese che ha «catturato» solo di recente con la forza. Ha intensificato gli aiuti militari per l’Honduras dal colpo di stato e sta dicendo chiaramente che questi omicidi politici hanno il via libera dal nord. Se il Brasile non aiuta, gli Stati Uniti saranno spinti a sostenere altri colpi di stato contro i governi democratici, come ad esempio il gol-pe tentato in Ecuador5 nel settembre dello scorso anno.

soltanto il gigante sudamericano può opporsi a Washington. certo si tratta di un’interferenza, ma stavolta è necessaria

1 - http://www.cepr.net/index.php/op-eds-&-columns/op-eds-&-columns/honduras-needs-help-from-the-south

2 - http://www.thenation.com/article/164120/wikileaks-honduras-us-linked-brutal-businessman3 - http://www.cepr.net/documents/honduras-assasinations.pdf 4 - http://www.cepr.net/index.php/op-eds-&-columns/op-eds-&-columns/top-ten-ways5 - http://www.cepr.net/index.php/op-eds-&-columns/op-eds-&-columns/coup-in-ecuador-failed-but-threat-remains

un contRaPPeso agLi usaPuò saLVaRe L’honduRas e si chiama BRasiLe

Dopo il golpe contro Mel Zelaya, appoggiato dall’amministrazione Obama nel 2009, quasi tutta l’America Latina non ha riconosciuto il governo Lobo, con Brasilia in testa. Ora bisogna insistere

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

di mariela flores torres Ricercatrice di storia all’ Università di Quilmes (Argentina); borsista del Conicet

[Consejo nacional de investigaciones científicas y técnica]

meRcosuR e PaLestina:aL di Là dei gesti

Ha destato sorpresa la firma a Montevideo del trattato per un accordo di libero scambio tra la comunità economica sudamericana e la ”nazione che non c’è” del Medio Oriente

annunciata e recente firma del Trattato di Libe-ro Commercio del Mercato Comune del Sud (Mer-cosur) con la Palestina nella capitale dell’Uruguay,

Montevideo, ha generato sorpresa e aspettativa, come pure, durante lo stesso incontro, il fatto che si è proceduto al trapas-so della presidenza pro tempore di questo organismo all’Ar-gentina, che adesso dovrà monitorare la politica del Mercosur. Come sappiamo, il Mercosur è formato da Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay con il Venezuela - in un lungo processo per formalizzare il suo ingresso sabotato dal Senato uruguaiano - e l’Ecuador che stanno sollecitando la loro integrazione nell’ac-cordo economico.

Il precedente diretto di un accordo di questo tipo verso la regione del cosidetto Medio Oriente è il trattato firmato e man-tenuto da questo blocco, dall’anno 2010 e concretamente dal marzo 2011, con Israele (anche se le trattative si stavano svol-gendo fin dal 2007). Questa nuova iniziativa di fiducia econo-mica e politica verso l’Autorità Nazionale Palestinese sembre-rebbe stabilire un trattamento apparentemente più paritario, anche se non ci libera da alcune inquietanti domande.

Perché prima si è favorito un accordo con Israele senza sviluppare parallelamente una iniziativa di questo tipo con la Palestina fin da quel decisivo 2010? In che misura questa dimostrazione di fiducia verso la disarticolata e distrutta eco-nomia palestinese è qualcosa di più di un riflesso del clima del momento, e dei buoni auspici dell’ampio riconoscimento ot-tenuto in quest’ultimo anno dall’Autorità Palestinese in paesi dell’America del Sud e del Caribe -con l’eccezione del Messi-co- e per la recente incorporazione della Palestina all’Unesco, anche se non alle Nazioni Unite?

Se la ragione fosse solo in questa cornice regionale e inter-nazionale pro-palestinese non sarebbe male nella misura in cui trascendesse il puro impulso del momento e venissero conso-lidate politiche economiche e finanziarie responsabili e solide verso quella regione. Attualmente la Palestina si sta dando da fare perché Israele smetta di ostacolare il suo sviluppo econo-mico, perché venga tolto il blocco a Gaza e vengano liberati i

L’

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il mondo in cui viviamo

fondi dell’aiuto internazionale, il cui arrivo Israele blocca a intermittenza in virtù di noti avvenimenti di risonanza mondiale (appoggio della Cina e di altre nazioni importanti nel consesso mondiale verso la causa palestinese). E’ neces-sario ripetere che pensare ad uno Stato Palestinese signifi-ca soprattutto pensare a un’infrastruttura per questo Stato. L’accordo firmato con il Mercosur autorizza a pensare alla realizzazione di patti di sviluppo economico, finanziario e commerciale con la Palestina e certamente di trattati che

ne promuovano lo sviluppo umano e la ricostruzione, perché si tratta di una società e di un’economia totalmente devastate.

Alcune cifre sono eloquenti: coloro che abitano nella Palestina occupata (Gaza e Cisgiordania) sono un totale di 3.900.000 abitanti, mentre ci sono più di 4 milioni di palestinesi rifugiati in Siria, in Libano e in Giordania, e nella “dia-spora” ce ne sono altri 3 milioni. E inoltre ci sono ancora un milione e mezzo di cittadini arabi israeliani. Come si vede, l’indice demografico della Palestina è alto, forse uno dei più alti del mondo. A questo si deve aggiungere che le città palestinesi sono controllate dagli israeliani indipendentemente dalla loro autonomia, e che a Gaza e in Cisgiordania la carta moneta corrente è il shekel israeliano, cosa che condiziona oltre misura lo sviluppo della vita economica. Date le circostanze, non è nemmeno il caso di parlare di una politica economi-ca mediamente autonoma, perché i prodotti di importazione o esportazione devono passare necessariamente per la dogana israeliana.

Per tutto ciò è facile supporre che qualsiasi sviluppo industriale è più che precario, che si tratta più che altro di economia agropastorale e che questa, senza esagerazioni, si avvicina all’autosussistenza. D’altra parte, le risorse ener-getiche e idriche sono insufficienti ad assicurare le necessità della popolazione. Con questo panorama è difficile considerare il Trattato di Libero Commercio fra Palestina e Mercosur senza domandarsi seriamente e con grande speranza come fare a superare questi problemi. Come si attrezzerà un Trattato di Libero Commercio con dei territori che praticamente non hanno niente da commer-ciare? Solo a Gaza il 38% della popolazione vive sotto la linea di povertà e la cifra a cui arriva il tasso di disoccupazione è del 45%.

L’investimento privato dei palestinesi opta per insediare le sue imprese e i suoi capitali in Israele piuttosto che in altri posti della Palestina, visto che la loro economia è stata completamente svuotata. D’altra parte, come è noto, Israele ha dei piani per proibire l’entrata di lavoratori palestinesi uomini e donne nel suo territorio (per sostituirli con altri) e ciò danneggerebbe sensi-bilmente l’economia e lo sviluppo di quei lavoratori (che sono più di 50mila) e del paese. In questo modo, uno Stato Palestinese debole e frammentato ha pochissime possibilità di sopravvivere.

Un accordo economico, finanziario e commerciale con la Palestina deve ne-cessariamente tenere conto di queste condizioni perché naturalmente non è lo

Mariela Flores TorresMercosur e Palestina: al di là dei gesti

stesso un trattato commerciale con la Palestina o uno sottoscritto con la ricca controparte israeliana che, per di più, è quella che al mondo riceve maggior “aiuto” dagli Stati Uniti. Una simile base di disparità esige che per essere effi-cace, l’iniziativa del Mercosur passi dalla retorica ai fatti concreti. E questo si-gnifica non tanto libero commercio quando un massiccio programma di aiuto allo sviluppo.

A questo riguardo dobbiamo sottolineare e lodare l’iniziativa dell’Argentina in termini di politica verso l’Autorità Palestinese, non solo perché un anno fa è stata fra i primi paesi del Sud a riconoscere la Palestina come uno Stato (il 6 di-cembre 2010 la Cancelleria ha dato l’annuncio), quanto perché è anche l’unico fra i paesi del Mercosur che ha già dei precedenti di scambio commerciale di una certa importanza con la Palestina.

Secondo l’Associazione Latinoamericana per l’Integrazione (Alad) “con l’ec-cezione dell’Argentina, i paesi del Mercosur praticamente non hanno scambi commerciali con l’Autorità Palestinese. L’Argentina ha esportato beni per 1.702 milioni di dollari ai palestinesi nel 2010”. Il significato politico della firma di questo trattato ha tanto più valore in quanto notiamo che l’Autorità Palestine-se non è ancora considerata uno stato con pieno diritto da organizzazioni so-vranazionali come l’Onu. Per questo, questa iniziativa del Mercosur di stabilire un Trattato di Libero Commercio con la Palestina è di somma importanza e c’è da augurarsi che apra il passo a programmi concreti non solo di commercio ma anche di cooperazione internazionale.

In conseguenza di quanto sopra esposto, sarebbe auspicabile e desiderabile che l’Argentina assumesse un ruolo da protagonista durante la sua presidenza pro tempore del Mercosur e che possa proporre politiche economiche di fiducia verso la Palestina insieme a politiche regionali dell’Unasur (come blocco po-litico).

E infine sarebbe auspicabile che gli enti internazionali, in questo caso regio-nali, siano più efficaci nel loro impegno pratico verso un popolo così sofferente come quello palestinese, o per lo meno più efficaci di quanto siano state fino ad ora le organizzazioni sovranazionali come l’Onu, la Corte Internazionale dell’Aja o -per dare un esempio di qualcosa di completamente inoperante o inu-tile- il famoso Quartetto per la Pace in Medio Oriente (composto da Stati Uniti, Unione Europea, Russia e Onu) che fu una trovata degli Accordi di Madrid (1991)

per istruire e controllare i negoziati di pace fra l’Autorità Palestinese e Israele, il cui sviluppo avrebbe dovuto essere controllato da questo corpo come garanzia dell’osservanza di un “accordo” che rendesse praticabile la soluzione dei due Stati e la pace nei territori. Chiaramente questa trovata so-vranazionale imposta da enti internazionali è stata anch’es-sa infruttuosa, ma su questo tipo di istituzioni e sulla loro inefficacia potremmo parlare all’infinito. Per questa ragione, i nostri sospetti non sono campati in aria.

La moneta in Palestina è lo shekel, israeliano come la dogana che ferma tutto. ecco perché gaza ha il 38% di poveri e il 45% di disoccupati

il “libero commercio” per milioni di palestinesi che non hanno nulla passa, per forza,anche dai programmi di aiuto allo sviluppo

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

econdo la Commissione Etica Internazionale della Verità sui Crimini di Stato in Colombia,il bilancio della situazione dei diritti umani nell’an-

no passato continua ad essere molto negativo. Nonostante la grande copertura mediatica data alla Legge per le vittime e la restituzione delle terre, entrata in vigore questo primo gennaio, che secondo il presidente Santos, è unica al mondo perché viene promulgata nel quadro di un conflitto armato esistente, la realtà per le comunità e per le vittime che la commissione ha accompagnato in questo progetto di memo-ria e resistenza non è cambiata sostanzialmente: nel 2011 sono stati assassinati più di 20 leader nel processo di restitu-zione delle terre, e fra luglio 2010 e maggio 2011 sono state registrate 255 aggressioni contro difensori dei diritti umani. Di cui 54 omicidi, secondo il Rapporto del sistema di informazio-ne sulle aggressioni a difensori (Siaddhh), del programma Siamo difensori della Colombia.

La società civile rivolge molte critiche alla Legge per le vittime e la restituzione delle terre: gli indennizzi vengono erogati solo per fatti accaduti a partire dal 1985, mentre il diritto alla restituzione delle terre si esercita solo per sfolla-menti occorsi a partire dal 1991. Esiste poi un trucco giuri-dico che impedisce il ritorno degli sfollati ai loro terreni che secondo una stima ammontano almeno a 6.8 milioni di et-tari, secondo il Progetto per la protezione delle terre e del patrimonio, e coinvolgono più di 4 milioni di persone: se quelle terre sono state occupate “in buona fede” da impresa-ri agroindustriali, gli sfollati riceveranno dall’attuale proprie-tario solo una somma mensile per l’usufrutto. Non sono state neanche previste misure specifiche per le migliaia di vittime di sparizioni forzate. Chi riceve l’indennizzo rinuncia

di gilberto López y Rivas Politico e antropologo messicano

COLOMBIA S

iL teRRoRismo di stato continua

Il presidente Santos si vanta dell’approvazione di una norma “unica al mondo” che prevede indennizzi e terreni per i rifugiati del conflitto interno. Ma c’è il trucco, anzi ce ne sono molti

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il mondo in cui viviamo

Gilberto López y RivasColombia, il terrorismo di stato continua

comandi per violazioni dei diritti umani, come nei casi delle sparizioni for-zate del Palazzo di Giustizia o del massacro di Mapiripan, difficilmente po-tranno verificarsi nell’ambito della giustizia penale militare.

La campagna di critiche alla difesa dei diritti umani continua a far parte di una strategia orchestrata dalle forze armate che sostengono che le ong hanno scatenato una guerra giuridica contro i militari a partire da crimini presunti o ingigantiti, dall’aver comprato o inventato vittime e testimoni, chiamando in causa (o minacciando) organismi per i diritti umani come il Collettivo di avvocati José Alvear Restrepo, la Commissione colombiana di giuristi e la Commissione di giustizia e pace, fra le altre.

Nel contempo, come in tutti i nostri paesi, avanza il processo di occupa-zione integrale proprio della transnazionalizzazione capitalista neoliberale, nel caso della Colombia con le locomotive economiche delle miniere, dell’agroindustria, dell’infrastruttura e delle conoscenze tecnologiche. Di che ha da vantarsi il signor Santos?

al suo diritto a un indennizzo integrale in ambito interna-zionale. E poi non sono incluse le vittime dei gruppi parami-litari attuali, con la scusa che si tratta di “bande criminali”.

Il fatto che il governo di Santos abbia riconosciuto che esiste un conflitto armato interno è stato giudicato come un progresso relativo; tuttavia ha condotto al risultato che mol-ti crimini commessi vengano sommati adesso al “conflitto interno”, nascondendo che nella maggioranza dei casi si tratta di quel terrorismo di Stato di cui sta soffrendo la Co-

lombia, il cui costo è pagato da una popolazione civile indifesa e dagli op-positori politici al regime.

Questo riconoscimento del conflitto armato interno viene utilizzato per presentare al Congresso iniziative legislative che passano come “quadro le-gale per la pace” e che, se si riformasse la Costituzione, darebbero la possi-bilità al governo di dare un “trattamento differente alle diverse parti che hanno preso parte alle ostilità”, includendo i militari per i quali vengono previste pene massime dai cinque agli otto anni, come quelle applicate ai “gruppi armati al margine della legge” coperti dalla cosidetta Legge di giu-stizia e pace, diventando così un nuovo strumento di impunità mascherato in un meccanismo giuridico a favore “della pace e della riconciliazione”.

La legge 1424 del 2010 che fornisce un inquadramento giuridico per ri-solvere la situazione legale di più di 24mila paramilitari smobilitati che non hanno commesso delitti di lesa umanità e non sono stati inclusi nel proces-so della Legge di giustizia e pace, è un altro dispositivo di impunità. Questa legge prevede che gli smobilitati saranno imputati solo del delitto di com-plicità per delinquere, gli verranno sospesi gli ordini di cattura e le condan-ne vigenti ma in cambio dovranno contribuire alla “costruzione della verità”, in un meccanismo che non avrà conseguenze giuridiche o penali, un inciso che è stato dichiarato condizionalmente esigibile dalla Corte Costituzionale, aprendo in tal modo la possibilità di conseguenze giuridiche per i terzi, tranne per gli integranti del proprio gruppo, e di sottoscrivere impegni con i programmi di reintegrazione offerti dallo Stato. L’informazione fornita dai paramilitari (e in teoria dai guerriglieri), che non si sa come verrà verificata, sarà sistematizzata dal Centro per la memoria storica creato dalla Legge per le vittime. Questa è la proposta statale per una possibile Commissione per la verità per la Colombia, che nei fatti sarà nutrita dalle dichiarazioni dei paramilitari.

Preoccupa altrettanto il dibattito sull’ampliamento del tribunale militare. Anche se il ministro della giustizia afferma che questo ampliamento non verrà applicato alle violazioni dei diritti umani, si propone che la prima istanza a decidere se si tratta di un delitto commesso nel limiti del servizio o di una violazione dei diritti umani debba essere quella della giustizia pe-nale militare. Le poche condanne esemplari da 25 a 30 anni contro gli alti

4 milioni di sfollati vogliono riavere i loro 6,8 milioni di ettari. ma se un’impresa li ha occupati “in buona fede”, se li può tenere

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

aría Magdalena ha cominciato a lavorare a sette anni sulle rive del Cauca, il fiume che è stato la fonte di sostentamento della sua famiglia e di migliaia di abitanti nella regione di Antioquia. Tutti i fine settimana la piccola paisa si incamminava con gli stivali di plastica ai piedi e il suo unico strumento di lavoro sotto braccio, una vaschetta di legno, verso gli accampamenti dove vivono e lavorano i minatori. Sulle sponde scoscese di uno dei fiumi più importanti della Colombia, estraeva artigianalmente l’oro dall’alba al tramonto applicando la tecnica che, tramandatasi attraverso i secoli, aveva imparato da sua madre.

Come i suoi nove fratelli, María Magdalena immergeva la vaschetta nell’acqua torbida sul bagnasciuga del Cauca, facendo roteare il vassoio separava i granelli preziosi dalla sabbia, sciacquava ripetutamente il suo piccolo tesoro fino a farlo brillare, lo metteva diligentemente da parte e la sera lo consegnava ai genitori. Mentre lavorava pensava solo al lunedì, il giorno in cui, dopo il week-end passato a cercare l’oro e dormire nelle capanne fatte di pali di legno e teli di plastica senza elettricità, ricominciava ad andare a scuola. La casa della famiglia Muñoz si trova vicino al fiume, in cima a una collina a 45 minuti a cavallo da San Andrés de Cuerquia, un paesino a nord del paese dove arriva tre volte al giorno l’autobus dalla città di Medellín.

di Barbara meo evoliGiornalista professionista e fotografa free lance italo-francese. Vive a Caracas e collabora con Terra, Il Manifesto, Radio Vaticana, Narcomafie e Leggendaria

M

Via tutti, aRRiVa La diga È una centRaLe eLettRica ma semBRa una gueRRa

Sulle rive del fiume Cauca è iniziata la costruzione del più grande impianto idroelettrico del paese.Per assicurare l’ordine, prima c’erano i paramilitari, ora il personale armato della ditta costruttrice.Un incubo di contadini ammazzati, minatori scacciati e catastrofi ambientali. Per 2400 megawatt

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sguardo impavido e le mani segnate dal lavoro. L’associazione ha organizzato delle iniziative per protestare contro la diga Pescadero-Ituango: a marzo una manifestazione a cui hanno partecipato circa 5mila persone dei comuni vicini (contadini, minatori, commercianti, insegnanti e studenti) e a settembre un incontro con le organizzazioni di difesa dei diritti umani di diverse regioni in cui sono in corso altri progetti idroelettrici, mentre a novembre ha sostenuto i lavoratori che hanno bloccato con i loro corpi i macchinari di Epm.

Secondo l’ingegnere ed esperto in drenaggio Gabriel Echeverri Ossa, la costruzione di questa infrastruttura e l’inondazione della vallata, non solo è invisa a migliaia di persone della zona, ma genererà un’enorme quantità di biossido di carbonio e metano, farà estinguere centinaia di specie di flora e fauna, altererà il clima producendo maggiori precipitazioni e ridurrà drasticamente l’offerta d’acqua potabile per il consumo umano e animale. Inoltre le acque stantie rischiano di portare malattie per la popolazione come febbre gialla, malaria e dengue.

Oltre all’impatto ambientale e alle conseguenze socio-economiche per i 40mila abitanti dei comuni di San Andrés, Ituango e Briceño, più di 40mila ettari di terreni nelle vicinanze del Cauca sono stati venduti a prezzi stracciati, ovvero al valore che avevano negli anni ’50, alle multinazionali dell’oro (Anglo Gold Ashanti, Continental Gold e Cerromatoso) e il governo prevede l’imposizione di una zona franca che azzererebbe i benefici di ritorno per la popolazione locale.

Dopo le prime manifestazioni di protesta, la presa di posizione del governatore di Antioquia, la regione più ricca della Colombia, non si è fatta attendere. Qualche mese fa, a seguito della sospensione di un altro grande progetto idroelettrico sul fiume Porce per l’opposizione degli abitanti, Luis Alfredo Ramos ha dichiarato che molti minatori del Cauca erano degli “opportunisti” e dei “furbi” che si erano recati sulle sponde solo per ricevere un’indennità. Anche il presidente Santos è stato estremamente chiaro quando si è recato il primo settembre a Ituango, nel suo discorso ha infatti annunciato di volersi “prendere cura della diga” senza fare nessun riferimento alla sorte delle migliaia di persone oggi disoccupate.

Sebbene la centrale sia gestita da un’impresa pubblica, i proventi della produzione elettrica verranno rinvestiti in piccolissima parte nello sviluppo della zona, basta infatti rilevare che la Colombia produce maggiore energia idroelettrica di quella necessaria al fabbisogno del paese, ma ancora oggi al 13% della popolazione non arriva la corrente.

L’area dove è in corso la costruzione della colossale infrastruttura si caratterizza per una grave assenza dello stato, come tutte le zone rurali della Colombia ancor più delle città, perciò la popolazione si oppone all’esproprio

Oggi a trent’anni María Magdalena ricorda: “Mi spaccavo le ginocchia per non arrivare in ritardo a scuola. La mattina, dopo aver aiutato mia madre a cucinare, scendevo correndo per il sentiero stretto, tortuoso e pieno di massi fino alla strada principale. Non volevo perdere neanche qualche minuto di lezione”. Nessuno degli altri fratelli ha portato a termine il percorso scolastico. “A otto, nove o undici anni hanno smesso di andare a scuola -spiega forse pentita della scelta la madre di Magdalena, Maria Bertilda, 51 anni

- perché, dopo aver cominciato a guadagnare qualche soldino estraendo l’oro, hanno preferito lavorare”. Quando María Bertilda e Gerardo de Jesus Muñoz si sono sposati 35 anni fa non possedevano nulla e vivevano in una casupola di terra senza acqua corrente. Oggi, dopo una vita fatta di duro lavoro nella miniera e privazioni quotidiane, sono proprietari di un piccolo terreno che coltivano e di una casa di cemento costruita con le loro mani. Gerardo, diversamente dalla maggior parte dei contadini della zona, non ha nessun vizio: non beve, non fuma. Magdalena è molto orgogliosa di lui: “Gli uomini lavorano dal lunedì al sabato - dice con sguardo accigliato - e poi il sabato sera spendono molti soldi ubriacandosi per dimenticare la settimana di dolori fisici e sforzi, poi ricominciano di nuovo, mentre mio padre no”.

Magdalena, la terza dei Muñoz, ha un sogno: vuole che sua figlia di due anni vada all’università ed è disposta ad enormi sacrifici purché ciò avvenga. Ma la costruzione della diga sul fiume Cauca ha modificato i suoi piani poiché, obbligata ad abbandonare le sponde inospitali, ha perso il lavoro che faceva fin da bambina.

Nel 2010 la Empresas publicas de Medellin (Epm) ha iniziato a costruire sul fiume la più grande centrale idroelettrica della Colombia che, in base al progetto, a partire dal 2018 genererà 2400 megawatt, ovvero un quinto della domanda di energia del paese. Secondo il piano del presidente Juan Manuel Santos che individua nella costruzione di infrastrutture una delle cinque “locomotrici” dell’economia, l’enorme diga di 225 metri di altezza, che sarà eretta fra il comune di Ituango e quello di Briceño e costerà circa 3 miliardi di dollari, dovrebbe portare il progresso nella zona.

Come è stato denunciato dal Movimento in difesa del territorio “Rios Vivos”, la maggior parte degli abitanti della zona è contraria all’attuazione del progetto poiché ha implicato l’aumento degli incidenti a causa dell’esplosione di mine e la riduzione dei terreni coltivati, la crescita della prostituzione, del consumo di stupefacenti e della delinquenza comune e la perdita del lavoro per migliaia di minatori cacciati dalle rive aurifere. Per loro non c’è stata cassa integrazione, né si prospetta qualche possibilità di impiego.

In difesa dei propri interessi i minatori hanno costruito l’associazione Asomituango e scelto come portavoce María Magdalena, la donna dallo

Barbara Meo EvoliVia tutti, arriva la diga. È una centrale elettrica ma sembra una guerra

si specula sui terreni, si stronca la protesta e il Presidente minaccia. nella ricca regione di antioquia lo stato non esiste, gli affari sì

La empresas publicas de medellin ha iniziato la sua grande opera scacciando i minatori che setacciavano le sabbie aurifere

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ha inasprito pesantemente il conflitto armato e sta generando un’ennesima migrazione forzata della popolazione. “Negli ultimi mesi centinaia di persone hanno abbandonato le casupole dove lavoravano lungo il fiume per riversarsi nelle favelas di Medellín a causa del permanente aumento della tensione, delle numerose detenzioni di abitanti per supposti vincoli con la guerriglia e della pubblicazione sul web (http://colombialibresiempre.blogspot.com) di una lista di migliaia di persone accusate di collaborare con le Farc” ha puntualizzato la sociologa Isabel Cristina Zuleta López, membro della piattaforma.

Magdalena e la sua famiglia sono stati gli ultimi a lasciare Icura sulle rive del Cauca, l’ultimo accampamento a resistere nella zona. Dopo aver ricevuto l’ordine di sgombero a settembre, Asomituango ha fatto ricorso per chiedere il riconoscimento dei suoi membri come minatori e ottenere in tal modo l’indennità che era stata promessa dalla stessa Epm, ma a novembre il ricorso è stato rifiutato adducendo che “i minatori erano dei perturbatori dell’ordine pubblico”. A riprova del vuoto di giustizia e del clima di esasperata tensione, il difensore civico del comune di Briceño preposto alla tutela dei diritti umani dei cittadini ha detto che, a causa della presenza di guerriglieri, nessun funzionario del comune, di Epm e dell’esercito avrebbe rivelato il proprio nome.

La Colombia è il paese con il maggior numero di rifugiati per violenza al mondo (secondo l’ong Codhes oggi ve ne sono ben 5,2 milioni, la maggior parte dei quali provengono dalle zone rurali). Inoltre Antioquia ha il maggior numero di desplazados: nel 2010 nella regione ve ne sono stati 16.939 (dati dell’Osservatorio degli spostamenti forzati interni dipendente dall’Acnur). Si stima che il progetto idroelettrico potrà generare circa 10 mila nuovi rifugiati interni, implicando una drastica riduzione della coltivazione della terra, la perdita di identità delle popolazioni colpite e la recisione dei legami con la propria comunità.

Oltre alle migrazioni forzate, la piattaforma Hidroituango ha lanciato l’allarme sull’eventualità che possano ripetersi i casi di falsos positivos, le esecuzioni extragiudiziali commesse dall’esercito a danno di civili innocenti sospettati senza alcuna prova di essere guerriglieri, con la finalità di dimostrare l’efficacia della politica della “sicurezza democratica” promossa dall’ex presidente Uribe.

Dopo lo scoppio dello scandalo dei falsos positivos nel 2008 per l’uccisione di 18 giovani di Soachá, oggi sono in corso oltre duemila indagini sugli omicidi extragiudiziali, ma la maggior parte dei militari imputati sono stati prosciolti. “A marzo l’esercito ci ha accusato di essere degli invasori abusivi delle sponde ormai proprietà di Epm e degli alleati dei guerriglieri. Temiamo che l’alone di sospetto che hanno costruito – ha concluso l’anziano minatore Fabio Ramirez - giustifichi una inesorabile persecuzione contro di noi”.

delle risorse della natura a vantaggio di uno stato che ha fatto ben poco per i suoi cittadini. Le strade sono poche e dissestate e spesso sono riparate dagli stessi abitanti, non vi sono mezzi pubblici di trasporto e la gente si sposta ancora a cavallo, a dorso di mulo o a piedi, non vi è un impianto fognario, in molte case non vi è acqua corrente né elettricità e l’ospedale più vicino si trova a Medellín a cinque ore di strada. Con il funzionamento della centrale i servizi pubblici non miglioreranno, basta guardare alla zona della diga Urrá

I, edificata nel 1993 dove ancora oggi, poiché la maggior parte dell’elettricità viene esportata, non è assicurato un flusso di energia per le comunità locali e continua a non esserci un marciapiede.

Il nord di Antioquia inoltre è stato segnato più di altre regioni dal violentissimo conflitto armato che fa strage nel paese da oltre cinquant’anni. Il Movimento delle vittime dei crimini di stato (Movice) ha denunciato che negli ultimi tre anni vi sarebbero state oltre 38mila sparizioni, commesse da militari e paramilitari contro leader campesinos, indigeni, studenti, maestri, sindacalisti e attivisti. E i dati dell’Istituto di medicina legale parlano di oltre 200mila omicidi in dieci anni. Dopo l’uccisione del leader delle Farc Alfonso Cano da parte dell’esercito colombiano, il dialogo di pace è stato messo da parte e la fine del conflitto sembra ancora più lontana, anche perché, mentre l’ex capo della guerriglia era fautore di un’uscita negoziata, il nuovo leader eletto Timochenko è una delle voci più radicali e militariste delle Farc.

A Ituango negli anni di egemonia dei paramilitari tra il 1996 e il 1998, la procura aveva indagato su 350 omicidi commessi presumibilmente dalle Autodefensas unidas (Auc) e sull’assassinio dell’assessore del comune Valle Jaramillo che aveva intrapreso una campagna di denuncia contro le violazioni di diritti umani attuate proprio dal gruppo paramilitare. Come accade sempre in Colombia, poche sono state le condanne dei responsabili. Nell’ambito della politica di militarizzazione disposta dall’ex presidente Álvaro Uribe e proseguita da Santos, anche nel territorio circostante alla diga con forte presenza delle Farc, sono stati inviati centinaia di soldati e di vigilanti privati. I minatori hanno dichiarato che, da quando sono stati comprati da Epm i terreni sulle rive del fiume, il personale armato della società di sicurezza Vise ha lanciato numerose intimidazioni contro di loro, mentre l’esercito ha tagliato ripetutamente il cavo che collegava le sponde obbligandoli in questo modo a camminare ore sotto al sole cocente per arrivare agli accampamenti.

La piattaforma Hidroituango (http://debatehidroituango.blogspot.com), composta da organizzazioni sociali, rappresentanti della società civile, sindacalisti e politici e costituita con la finalità di tutelare gli abitanti contro violazioni di diritti umani, ha denunciato che la militarizzazione della vallata

Barbara Meo EvoliVia tutti, arriva la diga. È una centrale elettrica ma sembra una guerra

in caso di conflitto si temono altri 10mila rifugiati e nuovi casi di falsos positivos, massacri “travestiti” da scontri con le Farc

Paramilitari accusati di 38mila “sparizioni” negli ultimi 3 anni. e dopo l’uccisione di cano, leader delle Farc, la pace è più lontana

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

a costruzione di un candidato presidenziale è un processo complesso di costruzione dell’immagine, del linguaggio, di configurazione di alleanze e in ultima

istanza di visibilità reale. Costruire un candidato costa denaro e fatica a molta gente. L’entourage del futuro candidato compie un atto di fede politica, nella convinzione che tutto ciò potrà cam-biare la storia. La Banca mondiale lo definirebbe un atto di inclu-sione sociale. Tanti giovani si sono impegnati attivamente per convincere le nuove generazioni a votare per la sinistra e non per la destra e le generazioni più mature a riprendere l’impegno con la società, impegno perso per le frustrazioni di decenni di lotte stroncate. Strada facendo, ogni gruppo di lavoro inventa un im-maginario progressista e cerca di portarlo al livello di quello che si vede all’orizzonte.

La divisione destra/sinistra si manifesta con contrapposizioni come coscienza ambientale contro politiche estrattive; democra-zia partecipativa contro democrazia elettorale; diritto al proprio corpo contro sessualità riproduttiva compulsiva; miglioramenti nei salari e nella distribuzione del reddito contro concentrazione del reddito e calma dei mercati; politiche economiche eterodosse contro politiche economiche ortodosse; modello di crescita dell’esportazione contro modello di crescita verso l’interno; più tasse ai ricchi contro esoneri tributari; lotta al razzismo e a ogni forma di discriminazione contro lo status quo.

Con la caduta del bipolarismo nel 1990, l’impegno è stato quello di costruire un nuovo regionalismo politico multipolare in opposizione all’unipolarismo militare adottato dagli Stati Uniti dopo aver perso la leadership globale.

Oggi la lotta di classe è più complessa di quella tra guadagni e salari solo perché c’è in gioco il pianeta. La lotta salari-guadagni è stata vinta dalla finanza, che nel mondo occidentale ha conso-

di oscar ugartecheEconomista peruviano, lavora presso l’Instituto de Investigaciones

Económicas dell’UNAM, in Messico; é presidente di ALAI e coordina-tore dell’ Observatorio Económico de América Latina www.obela.org

LPerùiL VoLtafaccia di oLLantaeLetto con La sinistRa, goVeRna con La destRa

In 136 giorni, Ollanta Humala ha prodotto un terremoto, facendo piazza pulita di chi l’ha costruito come candidato, gli ha scritto i discorsi e gli ha pagato la campagna elettorale

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il mondo in cui viviamo

Oscar Ugarteche

È stato sia un “massacro politico” sia una dimostrazione di stile politico. Il presidente può anche chiudere il ministero dell’inclusione sociale, appena aper-to, facendo risparmiare al ministero dell’economia e della finanza (Mef) un bel po’ di denaro. L’”efficienza” consiste nel fatto che si tratta di programmi del mi-nistero della Presidenza. Qualcuno dovrebbe spiegare al presidente la differenza tra efficienza economica e efficienza politica, e che l’inclusione sociale è un tema di politica macroeconomica e non ad essa estraneo.

Quanto ai rapporti con gli Stati Uniti, si tratta dell’ultimo paese che Humala ha visitato dal momento della sua elezione, dopo il giro effettuato per il Sudame-rica. Ha visitato il Consiglio nazionale della difesa a luglio perché secondo Móni-ca Bruckman dell’Università federale di Rio e Ana Esther Ceceña dell’Osservatorio geostrategico dell’Unam, in Perù il numero di militari statunitensi è pari o mag-giore alla Colombia e anche perché il Perù è pieno di basi aeree statunitensi.

Il primo ospite ufficiale statunitense in Perù, in visita il 29 novembre 2011, è stato il generale William Brownfield, sottosegretario di Stato nordamericano del Bureau of International Narcotics and Law Enforcement Affairs (Inl). In precedenza Brownfield era stato ambasciatore degli Stati Uniti in Colombia all’epoca di Álva-ro Uribe, il più forte alleato di Washington in America latina.

Il 23 novembre, nell’ambito delle celebrazioni per il cinquantenario dell’Agen-zia statunitense per lo Sviluppo internazionale (Usaid), il ministro degli esteri, Rafael Roncagliolo Orbegoso, aveva conferito al suo direttore in Perù, Richard Goughnour, il titolo di Grand’ufficiale dell’ordine del Sole del Perù.

A settembre, un mese dopo avere assunto l’incarico di governo, il programma di cooperazione degli Stati uniti con il Perù si è incrementato da 230 a 293 milio-ni di dollari per il periodo 2008-2012, il che di fatto significa che Humala ha avuto 60 milioni di dollari in più per l’inizio del suo mandato. Questo sta a signi-ficare anche che il Perù si riafferma alleato di Washington al pari di Colombia, Messico e Cile, e che continua a far parte del cosiddetto Arco del Pacifico.

In pratica non vi sono variazioni sostanziali in politica estera, contrariamente a quanto si potesse pensare ascoltando i suoi due discorsi al riguardo, traboccan-ti di enfasi sull’importanza del multilateralismo e del Sudamerica.

Coscienza ambientale contro politiche estrattiveIl Perù è e sarà un paese minerario. Questa condanna alla redditività ambien-

tale è una minaccia non solo per gli abitanti della sierra in cui sono ubicate le miniere, ma per l’intero pianeta. Le Ande pe-ruviane sono senza neve da più di due decenni, mentre il deserto sulla costa viene irrigato, modificando così l’ecosiste-ma. L’industria mineraria genera reddito e lascia passività ambientali che sono ormai il problema principale nella zona di Cajamarca. Nel mese di settembre erano 90 i conflitti socio-ambientali latenti collegati all’attività mineraria, conflitti che sono scoppiati a novembre, quando la popolazione ha comin-

Perù, il voltafaccia di Ollanta: eletto con la sinistra, governa con la destra

lidato una partecipazione sempre minore di salari nel Pil a favore di una maggiore concentrazione del reddito. Questa è stata la ragion d’essere delle proteste degli Indignados spagno-li e di Occupy Wall Street, come pure dei precursori dei cam-biamenti in tutto il Mediterraneo.

È ormai pratica consolidata che i presidenti/sindaci/gover-natori, con o senza partito di sinistra, una volta eletti cambino rotta e cerchino di collocarsi al centro, adattandosi al potere contro il quale avevano lottato in campagna elettorale. Questa

transizione politica mette alcuni vecchi attori fuori gioco e ne introduce alcuni nuovi sulla scena. La ragione che adducono gli eletti è che bisogna avere i voti della sinistra per governare con la destra. Di questa realtà sono pieni i governi progressisti dell’America del sud e la socialdemocrazia europea.

Ad ingrossare le fila della folta squadra dei transfughi è stato il presidente peruviano, sul quale alcuni avevano riposto molte speranze. Per il Perù, un go-verno di sinistra avrebbe significato il consolidamento del progetto sudamericano. E invece, anche stavolta, la sterzata peruviana, alla quale siamo abituati dall’ele-zione di Alberto Fujimori (Aff) nel 1990, c’è stata ed è stata più brusca che mai. Nel 1990, Aff aveva impiegato due anni per buttare fuori dal governo i suoi com-pagni di cammino e aveva rotto le alleanze chiudendo poi il congresso, il 5 apri-le 1992, con l’autogolpe. Ha impiegato cioè 608 giorni a mandare via dall’esecu-tivo tutti i “progressisti” e un altro mese per eliminare i suoi consiglieri elettora-li prima di assumere il comando.

Ollanta Humala (Oh) in 136 giorni ha prodotto un “massacro politico”, facen-do piazza pulita di quelli che l’hanno costruito come candidato, che gli hanno scritto i discorsi e gli hanno pagato la campagna elettorale. Le alleanze politiche proseguono sui banchi del Congresso in un campo di battaglia molto complicato. Se i suoi compagni del gruppo parlamentare se ne andranno perché defraudati, Humala governerà con Fujimori e l’Apra. Se così fosse, il presidente del Congres-so parla della necessità di concedere l’indulto al reo Aff e boicotta il lavoro della commissione contro la corruzione del regime di Alan García Pérez. Stranamente il governo progressista di Oh non può fare ciò che è riuscito al governo di centro-destra di Toledo, cioè condannare la grande corruzione. Il Parlamento non aiuta Oh nella sua opera e il presidente del Congresso getta le basi per un cambio fina-le di alleanze. Il “massacro politico” del 10 dicembre 2011 è avvenuto quando 11 dei 17 ministri sono stati destituiti con atto presidenziale che sfiduciava pubbli-camente, primo fra tutti, il premier impegnato in quel momento in una trattativa con la popolazione del Cajamarca. In secondo luogo decretava lo stato d’emer-genza nella zona mineraria aurifera in questione. Infine metteva in carcere i re-sponsabili politici del movimento che si trovavano a Lima per cercare una solu-zione pacifica al conflitto provocato dalle richieste di un’impresa intenzionata ad utilizzare quattro lagune per le sue attività minerarie, andando contro l’opinione degli abitanti della zona che invece le loro lagune le vogliono mantenere.

destituiti 11 ministri su 17, incassati altri 60 milioni di aiuti, premiato il direttore di usaid... humala ha capovolto sé stesso

È prassi dei candidati di sinistra, se eletti, di correre verso il centro. fujimori ci aveva messo due anni, ollanta appena 136 giorni

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il mondo in cui viviamo

estromesso il primo ministro greco, quello italiano, spagnolo, portoghese e il tunisino, il libico, l’egiziano, lo yemenita, mentre vi sono state forti proteste in Siria e in Israele, tutte nel 2011. L’altro aspetto della questione è un irrigidimen-to della democrazia nello stile di Alan García, su cui punta Washington.

Richieste di miglioramento dei salari e della distribuzione del reddito contro calma dei mercati

Migliorare il mercato interno mediante la ridistribuzione del reddito è una clamorosa richiesta del popolo peruviano. Come risposta, è stato introdotto un programma di pensionamento a 65 anni e di borse di studio agli studenti di 18 anni, annunciato da Ollanta Humala nel suo discorso di insediamento, il 28 luglio 2011. La cosa meno probabile è che si formalizzi ulteriormente il lavoro e che si migliorino i salari, perché l’orientamento assunto dall’esecutivo è di stampo conservatore per quanto riguarda la politica e neoliberale per quanto riguarda l’economia. La nomina iniziale del ministro Castilla al Mef è stata una sorpresa per lo staff economico del presidente. Né Dancourt, né Félix Jiménez hanno avu-to il portafoglio dell’economia nonostante fossero i responsabili dell’area econo-mica del programma di governo. Per mantenere la stabilità politica, è stato inve-ce promosso a ministro il vice ministro dell’economia. A novembre Fitch Ratings ha declassato il Perù a Bbb a causa della continuità della politica.

Castilla ha ottenuto il dottorato in economia all’Università John Hopkins di Baltimora, e a differenza di Rafael Correa non ha cambiato bandiera: è un econo-mista ortodosso il cui obiettivo è mantenere l’inflazione al punto più basso pos-sibile per consentire lo sviluppo dei mercati. Crede nelle eccedenze di bilancio e di bilancia dei pagamenti, entrambi presenti nel paese da un decennio. Non si tratta di un eterodosso orientato allo sviluppo del mercato interno e dell’inclu-sione sociale.

Alla fine, ciò che può portare ad una militarizzazione del regime non è il fatto che nel governo ci sono dei militari, ma è la fragilità del regime politico eletto in un senso e governato nel senso opposto. Perché coloro che hanno

perso possano rimanere al potere a cui sono arrivati il 10 dicembre 2011, bisogna ridurre lo spazio della protesta so-ciale. La metà della popolazione ha votato un’altra cosa e può pretendere di avere ciò che le è dovuto e che riguarda i dirit-ti dei cittadini. Ormai nel paese gli analfabeti sono quasi scomparsi e nei poveri è ben radicata la coscienza cittadina, specialmente quando la ricchezza mineraria continua ad essere portata via dalla loro terra per lasciare in cambio solo contaminazione ambientale.

per gentile concessione Alai/AmLatina

La fragilità del suoregime politico, eletto in un senso e governato nel senso opposto, rischia di portare alla militarizzazione

ciato a percepire che le sue istanze, inoltrate prima del cambio di governo, sarebbero rimaste senza risposta.

In campagna elettorale, Ollanta Humala nei suoi discorsi ha sempre posto al centro delle priorità la coscienza ambien-tale. Il ministero competente è stato affidato ad un mentore politico di Oh, Ricardo Giesecke. Esperto internazionale di temi ambientali, Giesecke ha fatto parte del piccolo gruppo creatosi intorno ad Humala fin dal 2005. Al ministero c’erano due viceministri di sinistra esperti in materia ambientale, e

questo era in linea con lo spirito della campagna elettorale. I due sono stati de-stituiti insieme al ministro, per essere sostituiti - com’è avvenuto nel 1992 - da “tecnici”, come se Giesecke, Cabieses y de Echave, i tre defenestrati dal ministero dell’ambiente, non lo fossero. Ciò che interessa ora è che siano tecnici disposti, diciamo, a dialogare con Washington.

Democrazia partecipativa contro democrazia elettoraleDietro al partito nazionalista c’è un gruppo politico chiamato Gana Perú che

alla fine ha portato Oh alla vittoria, e che è composto da intellettuali e dirigenti regionali che hanno organizzato la campagna presidenziale, soprattutto al secon-do turno in cui Ollanta avrebbe potuto perdere. L’obiettivo di Gana Perú era fare del processo politico avviato da Humala un processo di democrazia partecipativa la cui peculiarità sarebbe stata il dialogo sociale, e al cui centro sarebbero stati messi gli interessi del popolo.

Il modo in cui sono stati gestiti i conflitti relativi all’industria mineraria di Andahuaylas e Cajamarca dimostra quanto segue: il ministro dell’energia e delle miniere è arrivato a Andahuaylas a bordo di un aereo della società mineraria Yanacocha, proprietaria della miniera Conga. Lo staff di ministri e viceministri che si trovavano sul luogo per la trattativa non si era trovata d’accordo, e due ministri erano tornati a Lima per timore. Cioè, un governo disposto a trattare con le società, ma timoroso del popolo. Quei ministri in ultima istanza hanno esau-torato i negoziatori che stavano lavorando con la popolazione che ha avuto una reazione furiosa (http://www.forosperu.net/showthread.php?t=256905). È lo stes-so episodio che si è verificato a novembre a Cajamarca per la miniera Conga. La paura del popolo e l’alleanza con gli imprenditori minerari per cui “il mercato trema”.

Alla fine, rifiutando la democrazia partecipativa rivendicata dal popolo in tutto il paese e ancor più nelle zone rurali in cui è presente l’industria mineraria, il presidente apre uno scenario: la popolazione può restare tranquilla perché ha paura della repressione oppure può scendere in piazza chiedendo le dimissioni dell’eletto, analogamente a quanto è accaduto con Abdalá Bucaram, Jamil Mahuad e Lucio Gutiérrez in Ecuador; con Carlos Meza Gisbert e Gonzalo Sánchez de Lo-zada in Bolivia, costretti dalle pressioni sociali ad uscire di scena. È il caso di ci-tare la dinamica dei fatti del Mediterraneo, dove la pressione della piazza ha

addio democrazia partecipativa, addio coscienza ambientale: tra un licenziamento e l’altro, il Perù torna repressivo e minerario

Oscar UgartechePerù, il voltafaccia di Ollanta: eletto con la sinistra, governa con la destra

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

o scorso 6 novembre il Nicaragua e il Guatemala hanno tenuto le loro elezioni presidenziali, ma mentre quelle nicaraguensi sono state sottoposte a una serie di critiche, quelle del Guatemala sembrano aver soddisfatto colo-ro che si dichiaravano preoccupati per la rielezione di Daniel Ortega.

E’ curioso che nessuno si sia preoccupato per la vittoria in Guatemala del generale Otto Pérez Molina, che si era già candidato varie volte senza centrare l’obbiettivo. E’ probabile che in questo caso sia stato aiutato dal divieto del tribunale di consentire la candidatura di Sandra Torres, l’ex mo-glie dell’attuale presidente Alvaro Colom. Gli analisti politici ritengono che Sandra Torres, grazie all’appoggio popolare di cui godeva per il suo lavoro fra i settori più deboli, era nella posizione migliore per vincere ma che la sentenza del tribunale ha lasciato l’Unione Nazionale della Speranza (Une) senza candidati.

Tutto ciò ha favorito Pérez Molina, molto discusso per il suo operato come militare nei precedenti governi dittatoriali. E’ stato indicato come il responsabile della morte di centinaia di persone, soprattutto indigeni. Questa accusa è stata presentata di nuovo quest’anno alle Nazioni Unite dall’organizzazione Waqib Kej, in un documento che lo indica come “diret-tamente responsabile dell’uso sistematico della tortura e di atti di genocidio durante il conflitto interno del Guatemala”.

Quanto è accaduto durante quel periodo è stato indagato dalla Commis-sione nazionale di riconciliazione che aveva designato il vescovo Girardi per indagare su questo argomento. Il vescovo aveva consegnato il rapporto “Guatemala Nunca Más” in quattro tomi, in cui aveva documentato più di 54.000 violazioni dei diritti umani, puntando il dito contro l’esercito della maggior parte dei casi.

di frida modakGiornalista cilena, è stata addetta stampa del Presidente Salvador Allende

L

guatemaLa aPPRoVato,nicaRagua Bocciato:quando iL Voto non Piaceai Paesi “democRatici”

elezioni presidenziali in novembre: a Ciudad de guatemala vince la destra e quindi va tutto bene, a Managua, invece, trionfa il Frente sandinista di Ortega e scattano le denunce per frode elettorale

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il mondo in cui viviamo

Frida Modak

tito liberale indipendente, che ha preso la metà dei voti del sandinismo, o il Partito liberale conservatore dell’ex presidente Arnoldo Alemán, che ha raccolto appena il 5%, ha insistito nel denunciare frodi e ha chiesto l’an-nullamento delle elezioni. Nessuno ha presentato fatti concreti, ma le loro proteste sono servite da stimolo agli Stati Uniti che in mancanza di prove hanno optato per dichiararsi “preoccupati”. La stampa nicaraguense - to-talmente all’ opposizione - ha pubblicato i reclami, ma alla fine ha dovuto anche far sapere che denunce come quella di Alemán non avevano fonda-mento e che il portavoce del suo stesso partito aveva riconosciuto che i capi della campagna elettorale avevano trascurato i rappresentanti di partito ai seggi, che per questo non si erano presentati a controllare il voto.

Le ragioni della vittoriaVale la pena di riflettere sulle ragioni di una vittoria così ampia di Daniel

Ortega, visto che è evidente che vi è una frattura nel sandinismo. Cosa che si è palesata nelle dichiarazioni pre-elettorali di personaggi che in passato avevano avuto un ruolo pubblico.

Il governo di Ortega ha lanciato una serie di iniziative che vanno a be-neficio dei settori più vulnerabili. Gli osservatori segnalano che si è dato appoggio a nuovi gruppi imprenditoriali per lanciare iniziative che stanno facendo calare i prezzi dei prodotti di base. Uno studio recente di M&R Con-sulenze ha evidenziato che i principali problemi sono la disoccupazione e la povertà, con indici di risposta del 26% e del 20%, e che solo lo 0.3% degli intervistati ha lamentato l’aumento del paniere di base. l’11 novembre il Banco Central de Nicaragua ha dichiarato che l’inflazione in ottobre era stata dello 0,43% e che l’accumulo dell’anno arrivava al 5.34%, cifre notevol-mente inferiori a quelle degli anni precedenti.

I mercati sono ben forniti e i prezzi sono bassi, una libbra (poco meno di mezzo chilo, ndt) di pollo si vende a 18,50 córdobas, l’equivalente di 80 cen-tesimi di dollaro. Naturalmente non si tratta di mercati del settore privato.

I fondi governativi provengono in maggioranza dal risparmio realizza-to dal paese grazie al fatto di appartenere a Petrocaribe, l’organizzazione

creata dal Venezuela che vende il petrolio ai paesi membri a condizioni favorevoli: il 50% si paga a 30 giorni e il resto a 25 anni, il che permette di risparmiare una somma per questi programmi. Ma a Moody’s questo non piace e anche se ha mantenuto per il Nicaragua la qualifica di B3 stabile, il giorno dopo le elezioni ha deciso di avvisare sui pericoli che, secondo la sua opinione, potrebbe correre il Nicaragua per la sua vicinanza al Venezuela, cosa che si inserisce nelle nuove offensive in divenire.

Guatemala approvato, Nicaragua bocciato: quando il voto non piace ai paesi “democratici”

Girardi venne assassinato brutalmente due giorni dopo nel garage della sua casa parrocchiale. Con blocchi di ce-mento gli avevano fracassato il cranio e sfigurato il volto, a tal punto che venne identificato solo grazie all’anello ve-scovile. Il libro L’arte di un omicidio politico. Chi ha ammazzato il vescovo?, fornisce molte informazioni e indica fra gli autori, militari dell’epoca di Pérez Molina. Di questi fatti e degli indigeni che si trovavano nell’ambasciata di Spagna e che morirono bruciati quando venne appiccato il fuoco a quella

sede diplomatica, non si è proprio parlato L’attenzione si è centrata invece sull’insicurezza causata dalla delinquenza, ma si dice poco della inesisten-za di una polizia organizzata. In effetti, i responsabili della sicurezza in questo paese sono le 120.000 guardie delle imprese di vigilanza privata, senza una particolare preparazione ma armati, che sono cinque volte più dei poliziotti.

La rielezione di OrtegaNelle elezioni del Nicaragua, il presidente Daniel Ortega è stato rieletto

con il 64% dei voti, il suo rivale più vicino ha ottenuto il 30%. Eppure si è cercato di mettere in discussione questo risultato, senza che le organizza-zioni di osservatori delle elezioni abbiano presentato prove di una qualche irregolarità.

Si è discusso sul lungo rapporto elaborato dal gruppo inviato dall’Unio-ne Europea. Tuttavia quel documento non indica che si sia verificata una qualche frode o che si sia incorso in un qualche maneggio destinato ad alterare il voto. Questo rapporto si riferisce alla legge elettorale, alla ido-neità di coloro che lavoravano ai seggi dove venivano depositate le schede, fa paragoni con elezioni nicaraguensi anteriori, formula raccomandazioni, ma non indica che vi sia stata frode. Addirittura il capo missione, l’eurode-putato socialista spagnolo Luis Yánez, presentando alla stampa a Managua il rapporto preliminare sull’elezione ha chiarito che lì nessuno è indicato come vincitore. “A titolo personale ha detto che Ortega aveva vinto ma con qualche anomalia”, secondo quanto ha pubblicato “La Prensa”, giornale che si oppone a Ortega.

La missione degli osservatori dell’Organizzazione degli Stati Americani (Oea), con alla testa l’ex ministro degli esteri argentino Dante Caputo, nei primi momenti si è lamentata dell’elezione perché i responsabili dei seggi non gli facilitavano l’accesso, una questione che è stata risolta in breve tem-po. Benché Caputo fosse sotto l’influenza dell’Unione Europea, le dichia-razioni del Segretario generale dell’Oea, José Miguel Insulza sono apparse chiare quando ha dichiarato che in queste elezioni avevano fatto passi avan-ti la pace e la democrazia in Nicaragua.

L’opposizione, che ha sopportato rovesci clamorosi come quello del Par-

malgrado la frattura tra i sandinisti l’eterno daniel ortega straccia la destra anche grazie agli aiuti del Venezuela

L’ex generalePérez molina cancella il passato e vince in un paese che quasi non ha polizia ma 120mila vigilantes

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

indicare il luogo c’è una sempli-ce croce bianca di cemento, vicino

al ponte dal quale si entra nel piccolo villaggio di Chel, nel dipartimento dell’altopiano gua-temalteco del Quiché, dove 95 civili maya Ixil furono brutalmente assassinati il 3 aprile del 1982.

Non ci sono targhe, né fiori o nomi incisi sulla pietra ma solo un umile ricordo degli uomini e delle donne crivellati dai mitra o di-laniati a colpi di machete e dei bambini, i cui piccoli corpi furono lanciati contro le rocce dai soldati della Task Force Gumarcaj.

Il massacro è descritto minuziosamente in Guatemala: memoria del silenzio, il rapporto ela-borato dalla Commissione per il chiarimento storico, promossa dalle Nazioni Unite dopo la firma degli accordi di pace nel 1996.

Nei primi anni Ottanta, i comuni del Trian-golo Ixil - Santa María Nebaj, San Gaspar Chajul e San Juan Cotzal - nel Quiché erano diventati uno dei principali scenari delle operazioni ri-belli dell’Esercito Guerrigliero dei Poveri (Egp).

“La guerriglia sono i pesci. Il popolo è il mare. Se non puoi prendere i pesci, devi pro-

di Louisa Reynoldsgiornalista freelance. [louisamarinareynolds.blogspot.com]

A

La frattura del tessuto sociale durante il lungo conflitto armato, il gap generazionale tra le vittime della guerra e gli elettori di oggi: l’ex generale, complice di massacri, fa il pieno di voti nelle zone da lui stesso devastate trent’anni fa

guatemaLa: PeRché Le aRee distRutte daLLa RePRessione miLitaRehanno Votato PéReZ moLina?

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il mondo in cui viviamo

Louisa Reynolds

atrocità della guerra non hanno creato una coscienza antimilitare tra le po-polazioni indigene colpite, a causa del gap generazionale tra gli elettori di oggi e le persone coinvolte nel conflitto armato. “Alle nuove generazioni in-teressa guardare avanti, la storia è come un ostacolo che cercano di negare”, ha detto. Quindici anni dopo gli accordi di pace, il ministero dell’istruzione non ha ancora inserito il conflitto armato e le sue cause nel piano di studi. Come risultato, una nuova generazione di guatemaltechi non è informata della propria storia.

“Gli ex paramilitari hanno ancora un forte potere sulle strutture politi-che locali e molte popolazioni indigene sono profondamente conservatrici a causa dell’influenza delle chiese evangeliche che predicano il fatto che gli stessi poveri sono i colpevoli della loro situazione”, aggiunge Rosal.

Dello stesso parere è Edgar Gutiérrez, collaboratore principale di monsi-gnor Juan José Gerardi nella preparazione del rapporto “Recupero della me-moria storica” (progetto Remhi), un tentativo diretto dalla chiesa cattolica per registrare le violazioni dei diritti umani commesse durante il conflitto armato.

“I massacri in sé sono un dato che spezza la storia e la vita delle comu-nità. Ma cosa succede dopo? Chi ha interpretato questa storia negli ultimi trent’anni? Nella maggior parte delle aree è stato l’esercito quello che è ri-

masto, dicendo ‘vi abbiamo salvato, [i gruppi guerriglieri] vi hanno ingannato, vi hanno usato e abbandonato’”, ha det-to Gutiérrez. E aggiunge: “Io sono tornato, dopo il progetto Remhi, in diverse comunità nelle quali ho raccolto varie te-stimonianze e la gente continua a parlare dello stesso passa-to con la stessa amarezza, solo che ora aggiunge gli inganni del governo, l’incompletezza del risarcimento e l’assalto di bande giovanili. Non c’è una connessione diretta tra quel passato dantesco e il significato di un governo del Pp”.

Guatemala: perché le aree distrutte dalla repressione militare hanno votato Pérez Molina?

sciugare il mare”. Così il dittatore Efraín Ríos Montt (1982-1983) giustificava i suoi attacchi brutali contro la popolazio-ne Ixil nel tentativo di eliminare le forze ribelli.

Il presidente eletto del Guatemala, l’ex generale dell’eser-cito Otto Pérez Molina, fu uno dei comandanti della Task Force Gumarcaj, situata a Chajul, dove 26 villaggi furono totalmente o parzialmente distrutti, si verificarono 10 mas-sacri, 317 civili disarmati furono assassinati e 9mila persone furono sfollate.

I risultati delle elezioni di quest’anno rivelano un dato sorprendente: la maggior parte degli elettori dei tre comuni Ixil ha scelto Pérez Molina nel primo turno elettorale. Questo risultato però si è capovolto durante il secon-do turno, il 6 novembre, quando questi elettori hanno favorito il candidato opposto Manuel Baldizón.

Legami con molteplici massacriNel marzo del 1982, un mese prima della strage di Chel, fu commessa

un’altra atrocità, questa volta nel comune di Rabinal, nel dipartimento set-tentrionale di Baja Verapaz, dove le pattuglie della Protezione Civile, cono-sciute come forze paramilitari, assassinarono 70 donne e 107 bambini.

Rabinal ha votato in massa per il Partito Patriota (Pp) di destra di Pérez Molina, sia al primo che al secondo turno, in due elezioni generali conse-cutive. Ciò sembra confermare una tendenza preoccupante: alcune popo-lazioni maya che hanno subito il peggio della politica di “terra bruciata” dell’esercito, appoggiano un candidato che ha partecipato attivamente a questo capitolo sanguinoso della storia del Guatemala.

Juan Dionisio Marcos de León, leader di un gruppo di giovani maya di Ne-baj, è nato un anno dopo i massacri nel Triangolo Ixil ma è molto informato sulla storia del suo popolo. Ha detto che, paradossalmente, molta gente a Nebaj considera Ríos Montt come un eroe. “Adorano Ríos Montt perché se-condo loro ha fatto costruire la strada nell’area Ixil. È stato fatto però con lo scopo di mobilitare il corpo militare e non per beneficiare il popolo Ixil”, ha detto De León.

I parenti delle persone assassinate dall’esercito tendono a scegliere alter-native non militari, come il partito di governo Unità Nazionale della Spe-ranza (Une). Il resto tende a votare il candidato che elargisce più donazioni, indipendentemente dal fatto che sia un ex generale dell’esercito che ha assassinato il loro popolo.

Perché il cambiamento?Perché i tre comuni Ixil hanno votato Pérez Molina nel primo turno e

Baldizón nel secondo?Il politologo Renzo Rosal, dell’Università Rafael Landívar, afferma che le

La guerra civile non si studia a scuola e certe chiese fanno il resto, predicando che i poveri sono colpevoli della loro indigenza

“i militari ci hanno costruito la strada”. ma era proprio quella che serviva a muovere le truppe della task force che uccideva e bruciava

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

ra l’11 e il 13 dicembre del 1981, il battaglione Atlacatl, il primo batta-

glione di risposta rapida dell’esercito salva-doregno, attrezzato e addestrato dagli Stati Uniti, ha massacrato più di mille persone in sei cantoni ubicati nei comuni di Meanguera e Joateca, nel dipartimento di Morazán.

Secondo il Rapporto della Commissione per la Verità, gli ufficiali al comando del battaglione Atlacatl al momento dell’opera-zione erano: il tenente colonnello Domingo Monterrosa, il maggiore Natividad de Jesús Cáceres, il maggiore José Armando Azmitia; i comandanti di compagnia: Juan Ernesto Méndez, Roberto Alfonso Mendoza e José Antonio Rodríguez; il capitano Walter Sala-zar e José Jiménez. Per questo massacro e per le aberranti violazioni dei diritti umani com-messe da istanze dello Stato in tempo di guerra, il presidente del Salvador, Mauricio

di carlos ayala RamírezDirettore di Radio YSUCA, El SalvadoreL SALvADOr

nel Salvador del famigerato colonnello D’Aubuisson, un anno e mezzo dopo l’assassinio del vescovo romero, in alcuni villaggi di una zona che l’esercito riteneva in mano ai guerriglieri del Frente Farabundo Martí, furono sterminate quasi mille persone, soprattutto donne e bambini.responsabile della carneficina il battaglione d’eccellenza Atlacatl, attrezzato e addestrato dagli Stati Uniti, che avevano alcuni consiglieri militari nello stesso reparto omicida. ronald reagan, eletto da meno di un anno, tentò, senza esito, di minimizzare la feroce strage

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iL PResidente funes doPo 30 annichiede PeRdono aL PoPoLo PeR iL massacRo di eL moZote

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Carlos Ayala Ramírez

la non ripetizione di fatti considerati di lesa umanità; infine –e forse più difficile da realizzare- molti si aspettavano che il Presidente si impegnasse a far aprire gli archivi delle Forze Armate per poter essere esaminati dai rappresentanti delle vittime, che richiedono verità e giustizia anche per le violazioni dei diritti umani da parte di organismi di Stato. Insomma, cerca-re verità, giustizia e risarcire nella misura del possibile i danni commessi, sono condizioni necessarie per la pace salvadoregna almeno nel suo debito con il passato.

Certo è che le violazioni flagranti dei diritti umani che hanno scosso la società salvadoregna e la comunità internazionale, non sono state commes-se solamente da persone arruolate nelle Forze Armate, ma anche dagli in-sorti. Ma è altrettanto certo che per quantità e per gravità la maggiore re-sponsabilità ricade sui militari di quegli anni. C’è chi vorrebbe che non si parlasse di questi temi, soprattutto nel contesto della commemorazione degli Accordi di Pace. Continuano a credere che l’oblio e la Legge di amnistia siano fattori necessari a superare le ferite del passato.

Coloro che la pensano così non sono realisti e neanche etici, perché né la pretesa di oblio né la Legge di amnistia sono riusciti a chiudere le ferite

provocate da tanta sofferenza, e, d’altra parte, è fin troppo dimostrato che senza verità, giustizia, riparazione e perdono staremmo lontanissimi da una vera riconciliazione naziona-le, uno dei principali obbiettivi tracciati negli accordi di pace che, a venti anni dalla firma, continuano ad essere respinti. L’azione di risarcimento fatta dal presidente Funes a El Mo-zote, ha lasciato passare di nuovo il grido profondo di “nun-ca más” ai crimini contro l’umanità, l’insabbiamento e l’impunità.

anche gli insorti fecero violenze, ma la responsabilità degli atti più tremendi è dei vertici militari, addestrati dagli usa

il mondo in cui viviamo

Il Presidente Funes dopo 30 anni chiede perdono al popolo per il massacro di El Mozote

Funes, ha chiesto perdono alle famiglie delle vittime. La cosa, di per sé, ha un’importanza storica e umana perché riconosce alcune verità dei fatti e restituisce dignità alle vittime. Inoltre, ciò avviene nel contesto del ventesimo an-niversario della firma degli Accordi di Pace, il cui spirito iniziale era quello di rifondare la società salvadoregna sulla verità, la giustizia, la democrazia. In definitiva, l’azione del presidente rappresenta, se non altro, un atto di risarcimen-to e di rivendicazione morale per le vittime rispetto ai loro

carnefici del passato. Per quel che riguarda la verità dei fatti –i cui dati sono ben provati e

sono noti da anni- la richiesta di perdono formulata da presidente include: il riconoscimento del fatto che truppe del battaglione Atlacatl hanno assas-sinato circa un migliaio di persone non combattenti, in maggior parte bambine e bambini; il riconoscimento che questo massacro –commesso 30 anni fa- è stato un crimine di lesa umanità che si è cercato di negare e di nascondere in maniera sistematica; il riferimento esplicito dei responsabili che devono essere riconosciuti, fra i quali, il tenente colonnello Domingo Monterrosa; la convinzione che non si possa continuare ad innalzare e pre-sentare come eroi dell’istituzione militare e del paese, persone che sono state coinvolte in gravi violazioni dei diritti umani; e la necessità che, in quanto Stato e società, venisse espresso pubblicamente il pentimento per una simile barbarie.

D’altra parte, per quel che riguarda il riconoscimento della dignità delle vittime e dei familiari, il Presidente ha preso per lo meno nove impe-gni, fra i quali: avviare un censimento che permetta di conoscere il numero esatto delle vittime, le necessità più urgenti e i principali problemi che af-frontano le comunità della zona; dichiarare bene culturale il luogo dove è avvenuto il massacro; rispondere immediatamente alle principali sofferen-ze fisiche e psicologiche di molte delle vittime; avviare una serie di misure di appoggio ai settori produttivi della zona; e sviluppare- nel nord di Mo-razán- il secondo spazio di Zona di Progresso. Il gesto del Presidente, dunque, sembrerebbe essere più di un atto simbolico, mostra le caratteristiche di un vero programma di riparazione, restituzione, riabilitazione e compensazio-ne per le vittime e per i loro familiari.

Tuttavia presenta alcuni vuoti o assenze. Ne citeremo almeno tre: in primo luogo l’atteggiamento passivo del Presidente rispetto alle ripetute raccomandazioni e sollecitazioni della Commissione Interamericana per i Diritti Umani, orientate a realizzare azioni per derogare la Legge di amnistia in vigore dal marzo del 1993, che continua ad essere una fonte di impunità e di rifiuto al diritto alla giustizia per le vittime; in secondo luogo, l’assenza di un impegno per promuovere l’integrazione nella legislazione interna di importanti trattati internazionali di diritti umani che potrebbero garantire

il gesto del Presidente ha un’importanza storica: riconosce alcune verità dei fattie restituisce dignità alle vittime

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il mondo in cui viviamolatinoamerica

Il Partito nazionale del popolo (PNP), schieramento giamaicano d’oppo-sizione, si è aggiudicato 41 dei 63 seggi in Parlamento e la sua leader Portia Simpson Miller è stata eletta primo ministro. La veterana politica social-democratica, di 66 anni, ha ottenuto una vittoria schiacciante alla fine di una campagna incentrata sulla lotta alla corruzione, alla criminalità e alla povertà. Alle elezioni, avvenute senza particolari incidenti, in cui ha votato il 75% degli oltre 1,6 milioni di elettori, è stato sconfitto il più giovane pri-mo ministro del paese, il trentanovenne Andrew Holness, leader del Partito laburista (PLJ) delfino dell’ex Presidente dimissionario Bruce Golding, che ha ottenuto solo 22 seggi.

Il nuovo governo del PNP, partito che è già stato al potere dal 1989 al 2007, dovrà gestire un paese con un debito molto alto, un’economia in sta-gnazione da quattro anni, un tasso di disoccupazione del 12,9% e afflitto da un alto indice di violenza che si riverbera sul turismo, una delle principali fonti di reddito del paese.La Giamaica ha già richiesto un nuovo prestito di 1.270 milioni di dollari dal Fondo monetario internazionale, e durante la campagna elettorale Simpson Miller si è impegnata a proseguire le trattati-ve con l’FMI per rendere più flessibile la restituzione del debito.

Simpson Miller, che ha avuto il merito di essere stata la prima donna a diventare primo ministro giamaicano da marzo 2006 a settembre 2007, quando perse le precedenti elezioni, ora torna a ricoprire la carica con un

Ilappoggio più forte. Al momento di proclamare la sua vittoria, ha promesso trasparenza durante il suo mandato. Tra gli obiettivi dichiarati, maggiori opportunità di istruzione a tutti i livelli e promozione di una strategia na-zionale di esportazione incentrata sulle piccole e medie imprese.

Riconoscendo la sconfitta del laburisti, Holness ha dichiarato «Il popolo della Giamaica si è espresso», e ha poi aggiunto che da questo momento co-mincia la nuova campagna in vista delle prossime elezioni, che avverranno tra cinque anni. Gli analisti ritengono che il partito laburista abbia pagato certi errori dell’ex primo ministro Bruce Golding, rimasto in carica dal 20 gennaio 2005 al 23 ottobre 2011. A maggio del 2010, Golding aveva estra-dato il narcotrafficante Christopher Dudus Coke, e il fatto aveva provocato

scontri con 76 morti e aveva costretto a dichiarare lo stato d’emergenza.

Alle sue dimissioni nel mezzo di una crisi di sicurezza pubblica, Golding aveva lasciato a capo del governo il suo ex ministro alla Cultura Holness, il quale aveva deciso di anticipare le elezioni di quasi un anno rispetto alla data pre-vista, allo scopo di legittimare la sua presenza al governo e a fronte della difficile situazione economica. Questa decisio-ne aveva portato alla fine del suo mandato.

Per gentile concessione di cubadebate.com

gIAMAICAiL RitoRno di PoRtia, una donna aL goVeRno neLL’isoLa dei naRco-Boss

Portia Simpson Miller sfiora i due terzi dei seggi e ridiventa primo ministro. Lo era già stata nel 2006. Il suo Pnp, di centro sinistra, batte i laburisti [che là sono conservatori] del giovane Andrew Holness, divenuto premier dopo le dimissioni del controverso Bruce golding

due anni fa il discusso ex premier golding aveva estradato in usa il boss dudus coke e Kingston era stata devastata dalle sue bande

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CIle così la dittaturanei libri di scuola

diventa un normale“regime militare”

Il maldestro tentativo di “ripulire”, quarant’anni dopo, gli orrori di un colpo di statoAn

alisi

più di quaranta anni da quel triste settembre del 1973, settori della società cilena discutono se si è trattato di una “dittatura” o se è meglio riferirsi a quel periodo come “regime militare”. A prima vista poterebbe sembrare davvero una discussione bizantina, una pura disquisizione semantica priva di importanza. Invece, l’uso del linguaggio è uno degli strumenti fondamentali per la costruzio-ne della memoria e dell’immaginario di una società. Dunque non ci troviamo di fronte a una questione superficiale, al contrario, proprio nell’ambito del simbo-lico si materializza la questione politica.

Dopo l’assalto al potere, i militari golpisti diedero inizio ad una pulizia che cominciava dal linguaggio. Non si era trattato di un “cruento colpo di stato” ma di un “pronunciamento militare”, come se con un simile eufemismo si potesse lavare il sangue versato nelle strade del Cile. In generale, quanto più detestabile è un atto, tanto più venga rivestito da una interessata retorica che ne nasconda la natura. In questo modo, ogni documento e ogni dichiarazione di Augusto Pi-nochet ha acquisito il tono formale e mercuriale come un modo per legittimare l’ignominia.

Per diciassette anni, noi cileni siamo stati ostaggio non solo delle armi ma soprattutto del linguaggio. Il nuovo potere si è appropriato della lingua e ha im-posto il silenzio a qualsiasi dissidenza. Se ogni dittatura si definisce come un governo che impone la sua autorità, violando la legislazione precedentemente vigente, la dittatura del linguaggio può essere intesa come un regime simbolico che legittima nei segni una autorità di fatto. Per questo, ogni dittatura vigila sul linguaggio, lo amministra e lo censura.

Quando in questi giorni viene discussa la dicotomia fra i termini “dittatura” e “regime militare”, ciò che sta in gioco è proprio la dittatura del linguaggio. A più di venti anni dal presunto ritorno alla democrazia, la società cilena continua ad essere sottomessa non solo all’istituzionalizzazione politica ed economica generata durante la dittatura, ma - e molto particolarmente - continua ad essere sottomessa alla dittatura dei segno, una vera e propria “schizofrenia” in cui la verità è menzogna e la menzogna è verità.

I cileni sono stati obbligati ad accettare che la parola “democrazia”, per esem-pio, è la collusione naturalizzata di poteri fattivi e politici opportunisti, proprio come abbiamo accettato che “lo sviluppo del paese” non è altro che il lucro e la cupidigia dei grandi gruppi economici nazionali e stranieri. La dittatura del lin-guaggio è quella chimica perversa che prolunga simbolicamente il potere dei potenti. Per questo, nel nostro paese assistiamo al paradosso secondo cui qualsia-si domanda sociale o protesta democratica si trasforma immediatamente in una minaccia alla democrazia stessa. La dittatura del linguaggio non è altro che il linguaggio della dittatura in un presente che aspira alla democrazia.

analisilatinoamerica

di Álvaro cuadraRicercatore e docente alla Scuola Latinoamericana post Laurea dell’Università Arcis

A

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analisilatinoamerica

ella sua seconda accezione “chimera” significa, secondo il dizionario della lingua spagnola, “quello che si propone all’immaginazione come possibile o veritiero, senza esserlo”.

Nelle dichiarazioni e documenti dei vertici della Zona Euro (Ze), ma an-che del G7, del G20 e del Fmi, quando si tratta di mantenere la stabilità dell’attuale sistema di dominazione finanziaria sull’economia mondiale, tutte le strade portano al Consiglio di Stabilità Finanziaria (Cef). Il prede-cessore del Cef, il Forum della stabilità Finanziaria (Fef), è nato nel 1999 come iniziativa del G7, nello stesso momento in cui venne lanciata le creazione del G20 a livello di ministri delle finanze e di governatori delle banche centrali, con il “consenso” del settore finanziario privato.

Il forte conservatore Hans Tietmeyer, presidente del Bundesbank nel 1999 – e attualmente vicepresidente del Consiglio di direzione del-la Banca internazionale dei pagamenti (Bis, nella sigla inglese) – ven-ne designato dal G7 per la creazione del Fef. La creazione del Fef e del G20 è avvenuta al termine della presidenza del democratico Bill Clinton, promotore principale delle politiche di deregolamentazione del sistema finanziario per facilitare la sua espansione globale. Clinton ha portato a termine queste azioni nel contesto della “Terza Via”, ovvero della conti-nuazione delle politiche neoliberali di Margaret Thatcher e Ronald Re-agan da parte dei partiti liberali e socialdemocratici. I principali soci di Clinton nella Terza Via sono stati Tony Blair e Gerhard Schröder.

Il politologo canadese Tony Porter dell’Università McMaster di Hamil-ton scrisse all’inizio del 2000 in un documento intitolato “The G-7, the Financial Stability Forum and the Politics of International Financial Re-gulations”, che la creazione del Fef e del G20 avrebbe affermato principi che avrebbero enfatizzano il sostegno reciproco tra gli Stati e gli attori più forti del mercato, aggiungendo che il Fef e il G20 presentavano alcune caratteri-stiche in comune nella loro struttura con”le reti di istituzioni informali e interconnesse, come la Commissione Trilaterale o il Gruppo dei 30”,

di alberto rabilottagiornalista argentino

N

la chimera della stabilità finanziaria

È diventata il totem al quale tutto è sacrificabile, un obiettivo inarrivabile per definizione, che spesso serve, a chi la propone, per mascherare la socializzazione dei fallimenti. Come la “sicurezza nazionale”

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analisi

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Alberto Rabilotta

tori in Occidente” e la relazione di Patrick Meighan sul suo arresto durante la “Occupazione di Los Angeles”, il 12 di dicembre The London Banker scrive nel suo blog che “ha senso affermare le banche siano come dittatori”.

Per questo ex banchiere che da quasi 10 anni analizza criticamente la cri-si finanziaria attuale, la dittatura dei banchieri che denuncia Fisk “ha sen-so” perche i regolatori del sistema finanziario sono al servizio delle banche, degli speculatori e delle agenzie di qualificazione del credito: “E’ inimmagi-nabile (per i regolatori) l’idea di fare politica pubblica a favore dell’interesse pubblico se le banche la disapprovassero. E in questa maniera le banche ottengono le regolamentazioni che preferiscono.

Tutto ciò spiega tanto le cause come lo sviluppo delle crisi finanziarie che si sussegono negli Stati Uniti e nei paesi capitalisti avanzati. Questa su-bordinazione degli Stati al diktat del sistema finanziario è evidente nell’ot-tusa testardaggine della difesa degli azionisti dalle insolvenze delle banche della Ze, mentre si applicano programmi di austerità nei paesi della Ze, e con maggior severità nei paesi maggiormente indebitati e vulnerabili ai tagli del mercato finanziario.

Al termine dell’ultima Conferenza dell’Ue, a Bruxelles, l’analista econo-mico Eric Reguly, ha scritto sul quotidiano canadese The Globe and Mail che questa riunione è stata un fallimento perché ha evitato di trattare temi quali i problemi-causa della crisi nella Ze, la mancanza di crescita economi-ca, e aggiunge che in maniera perversa questo vertice “abbia accelerato i problemi. Maggior disciplina (fiscale) significa maggior austerità, che a sua volta vuol dire maggiori tagli (di bilanci) e licenziamenti, e imposte più alte. Come risultato non scompaiono né i deficit né il peso del debito. La Ue sta andando in recessione – che sorpresa! – che significa che maggiore austerità servirà a contenere il deficit. È un circolo vizioso”.

In questo contesto The London Banker non esclude che la ricerca della sta-bilità del sistema finanziario senza aumentare il costo sociale ed economico provochi un “crollo deflazionistico che possa condurre all’instabilità politica, come accade sempre quando la deflazione distrugge il valore degli attivi che per la maggior parte sono in mano ai più ricchi, l’1%. E quando la deflazione distruggerà i loro valori, distruggerà con questi il loro potere e questo creerà un vuoto” (di potere).

“La crisi esiste da molto tempo”In una dissertazione alla radio pubblica di Unasur, l’8 di-

cembre a Buenos Aires – riportata dal quotidiano argentino Pagina 12 -, la presidente della Banca Centrale argentina, Mercedes Marcò del Pont, ha affermato: “Personalmente sono molto pessimista riguardo a come andrà evolvendosi l’economia mondiale nei prossimi anni. (...) Le diagnosi che provengono dal lato del pensiero neoliberale sono essenzial-mente vincolate agli interessi concreti del mondo finanzia-

La chimera della stabilità finanziaria

che riuniscono i più alti dirigenti del business, dei governi e del mondo accademico “per forgiare le politiche destinate alla economia mondiale e favorire il capitalismo (e per) legittimare gli effetti dell’autorità privata e tecnica”.

E di conseguenza dare legittimità ai meccanismi politici destinati ad applicare le raccomandazioni del Fef, converti-to in Cef e aperto a tutti i paesi del G20 a cominciare dalla riunione del G20 a Londra nell’aprile del 2009.

Stabilità e capitalismo, un’incongruenzaLo scorso 8 dicembre l’autore del rinomato blog The London Banker – che

occupa una posizione rilevante nel sistema finanziario della City di Londra - descrive le ragioni per le quali si oppone alla “stabilità finanziaria”: non ho mai capito perché la stabilità finanziaria debba essere un obiettivo di politica pubblica. Gli obiettivi delle politiche pubbliche dovrebbero essere dei risultati desiderabili e misu-rabili a beneficio della popolazione. La stabilità è un stupido e impraticabile obiettivo dell’economia capitalista. I successi e i fallimenti di imprese che competono tra loro stanno alla base del progresso economico, della divisione dei capitali e della fissazione dei prezzi di mercato. Il capitalismo richiede il riconoscimento del fallimento, e il falli-mento causa sempre perdite economiche e alcune instabilità fintantoché i presupposti del passato vengono ri-esaminati e ri-valutati con maggior obiettività alla luce della presente e dolorosa realtà.

The London Banker enfatizza inoltre che la maniera di affrontare il falli-mento può contribuire a migliorare i risultati nel futuro, ma “solo se i costi del fallimento ricadono sulle spalle di chi lo ha causato e non sopra quel-le degli innocenti. Le politiche degli anni ‘90 promosse durante la Grande Austerità dai regolatori (finanziari) servirono a mascherare e ritardare, e finanziarono i fallimenti”. E ricorda che dalla crisi finanziaria del 2008 i governi, attraverso piani di salvataggio in serie, sono stati più che disposti a socializzare con i contribuenti i costi dei fallimenti amplificati dalla leva finanziaria.

Ricorda poi che non è stato sempre così. Dagli anni ‘30 fino agli anni ‘80 il sistema bancario statunitense ha affrontato i fallimenti in maniera rapida e sicura. Avendo istituzionalizzato il salvataggio in tutti i livelli dell’econo-mia, continua The London Banker, assistiamo oggi alla “giapponizzazione” (stagnazione a lungo termine) invece del recupero dell’economia reale. E aggiunge che l’obiettivo della “stabilità finanziaria”, come la “sicurezza nazionale”, non potrà mai essere obiettivamente confermato. Troppo spesso serve ai suoi proponen-ti per mascherare altri obiettivi, o per deviare l’attenzione della cattiva politica degli aiuti, che condannano gli interessi pubblici anziché promuoverli.

La dittatura dei banchieriReagendo ad un articolo di Robert Fisk intitolato “I bancheri sono i ditta-

gli stati, subordinati al potere della finanza, preferiscono proteggere le banche indebitate e imporre ai cittadini programmi di austerità

voluto da clinton, blair e schroeder (l’intera terza via) il “consiglio di stabilità finanziaria” è il mezzo per salvare i “grandi” dai fallimenti

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analisi

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latinoamerica

n accordo farsa che fa carta straccia degli allarmi della scienza, della democrazia e irride alle vittime del caos climatico. Impossibile defini-re diversamente quanto successo in Sudafrica, durante il vertice mondiale sul clima. Dopo due settimane e 40 ore di extra-time l’accordo di Durban in realtà non prevede assolutamente nulla di obbligatorio e vincolante per i grandi inquinatori, ma dice solamente che nel 2015 verrà definita un’inte-sa e che questa sarà valida nel 2020.

Come un obeso che dopo 19 anni (tanti ne sono passati dal primo summit ad oggi per trovare una soluzione vincolante sul clima) continua a rimanda-re al prossimo lunedì la dieta necessaria a salvargli la vita. Gli credereste? Irresponsabile cecità. Non c’è altro modo per definire il comportamento di chi governa oggi il mondo. 350mila morti ogni anno, innalzamento dei ma-ri, scomparsa di molti paesi del Pacifico, distruzione delle economie degli stati costieri, intensificazione dei fenomeni metereologici estremi, acidifica-zione dei mari, desertificazioni di intere aree del mondo, 50 milioni di pro-fughi ambientali, centinaia di milioni di posti di lavoro a rischio, perdita di biodiversità a ritmi superiori rispetto alle precedenti estinzioni di massa: come si fa a non vedere e a rimandare ancora?

Proprio qui in Africa, il continente che rischia di essere “cucinato” dal caos climatico, si è seppellito l’unico accordo in vita, quello di Kyoto, che vincola legalmente i paesi industrializzati a ridurre le emissioni. Nel 2012 scadrà senza essere sostituito da qualcosa di altrettanto obbligatorio.

di giuseppe de marzoPortavoce A Sud – www.asud.net

U

La chimera della stabilità finanziaria

rio e stanno cercando di proteggere le banche e il sistema, dimenticandosi del resto della società”.

“Sappiamo che sono i lavoratori e gli imprenditori coloro che realmente possono rigenerare le condizioni per tornare a crescere; nei paesi sviluppati non si sta discutendo riguar-do a questo, credo che sia importante prendere coscienza che questa crisi esiste da molto tempo”, ha detto Marcò del Pont.

L’osservazione della presidente della Banca centrale ar-gentina è considerata giusta da qualsiasi economista o analista che abbia osservato lo sviluppo della politica economica e commerciale durante gli ultimi decenni, come nel mio caso in riferimento all’America del Nord: i problemi dell’economica reale, della crescita, della disoccupazione, della domanda aggregata, in poche parole del capitalismo, non sono discussi ne tantomeno presi in considerazione seriamente dai paesi capitalisti sviluppati.

La voce principale è quella del settore finanziario, come ha analizzato il presidente e direttore esecutivo della Federal Reserve per il distretto di Kan-sas City, Thomas M. Hoenig, il 27 giugno di quest’anno al “Pew Financial Re-form Project and New York University Stern School of Business”. Come The London Banker, Hoenig aveva previsto che le grandi banche e istituzioni fi-nanziarie considerate troppo importanti per il sistema per lasciarle fallire, per esempio le grandi banche che costituiscono il midollo della crisi nella Ze, “sono fondamentalmente incompatibili con il capitalismo. Stanno intrinsecamente destabilizzando i mercati globali e pregiudicando la crescita (economica) mondiale”.

Sebbene possa sembrare contraddittorio - ma non lo è in alcuna ma-niera - il baluardo del capitalismo secco, con le sue conseguenze gravi e meno gravi ma con il vantaggio di generare sviluppo, creare occupazione e diminuire la povertà, si trova oggi in molti paesi emergenti dell’Asia e dell’America Latina. La prova è in ciò che afferma Marcò Del Pont: “I paesi che si stanno sbloccando dalla recessione sono quelli che hanno raggiunto una reindustrializzazione e la ricostruzione di un proprio mercato interno, ovvero dei salari, ovvero del mercato del lavoro (...). L’Argentina e i paesi dell’America Latina hanno avuto l’enorme vantaggio di essere cresciuti a partire dal proprio mercato interno, che dobbiamo mantenere e orientare all’integrazione regionale”.

In conclusione, nella sua prima accezione chimera è un mostro immagi-nario che, secondo la favole, sputa fiamme e ha la testa da leone, il corpo da capra e la coda da drago. Nel suo terzo significato si intende lite, lotta o guerra. Per questo mi sembra che il termine chimera identifichi molto bene l’ideologia di questa dittatura finanziaria: i suoi obiettivi sono mostruosi, irrealizzabili e sono la causa della ripresa dei saccheggi stile imperiale. Ri-prende in tutto il mondo la rapina imperiale.

contrordine comPagni,la terra bolle e chi se ne frega

Dopo vent’anni di solenni dichiarazioni e promesse contro il riscaldamento globale che uccide il pianeta, al vertice di Durban sparisce ogni traccia di accordo. C’è la crisi, tutti in fuga dai costi del clima

il termine chimera identifica bene l’ideologia di questa dittatura finanziaria: obiettivi mostruosi, falsi e irrealizzabili

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Il Cop17 di Durban sarà ricordato co-me un fallimento per l’umanità e un grande affare per chi continua a far salire la febbre del pianeta. A sentire i governi dei grandi inquinatori, su tutti Usa e Ci-na, dovremo aspettare il 2015 per nego-ziare un accordo che sarà vincolante solo nel 2020. Il punto è che non abbiamo 10 anni! La scienza è chiara su questo. Il

picco delle emissioni deve essere il 2015 e dall’anno seguente dovranno ridursi se vogliamo evitare di essere responsabili di un innalzamento della temperatura superiore ai 4 gradi nel corso di questo secolo.

Due anni fa a Copenaghen, sede del Cop15, i governi avevano indicato solennemente in 2 gradi il limite oltre il quale la conseguenza sarebbe trasformare la terra in un girone dantesco e sprofondare la gran parte dell’umanità nell’apartheid economica e ambientale. E’ cambiato qualcosa da allora? Basterà la green economy gestita dal colosso cinese a ridurre il riscaldamento globale? Evidentemente no. Come si fa quindi ad aspet-tare il 2020? Chi dovrebbe obbligare i grandi inquina-tori a ridurre le emissioni? Ha prevalso l’idea di lasciare nelle mani del mercato, delle forze produttive (o distrut-tive?) e della finanza la capacità di ridurre le emissioni di gas clima alteranti, come se la crisi finanziaria non avesse insegnato niente sulla mano “invisibile” del mercato e sul suo unico interesse: fare soldi.

L’assenza al vertice dei principali capi di Stato del mondo inquinante e industrializzato dimostra del resto come la politica sia oggi incapace di prendere decisioni contrarie ai grandi interessi economici e finanziari, anche se la posta in gioco sono le sorti dell’umanità. Chi per una ragione e chi per un’altra tutti privilegiano, sbagliando, le ragioni della crisi economi-ca. Un pensiero primitivo, eppure vincente, quello che dipinge ancora in contrapposizioni l’economia all’ecologia e ignora i limiti segnalati dalla scienza. E non è certo questa la strada per coniugare le ragioni dell’ambien-te con quelle del lavoro. Le proposte portate dalla società civile e dalla scien-za per una seria riconversione energetica e industriale dell’apparato produt-tivo, in grado di rispondere concretamente a queste due grandi urgenze, sono rimaste invece inascoltate. Nemmeno sui meccanismi di mitigazione e adattamento si sono fatti passi avanti concreti per sostenere i paesi più poveri e quelli più vulnerabili, come le isole nel Pacifico che stanno scom-

parendo per l’innalzamento dei mari. Gli Usa che avevano garantito 100 miliardi di dollari ogni anno per il Fondo Verde hanno fatto marcia indietro e non si capisce chi metterà i soldi, come saranno ripartiti e come avverrà il trasferimento di tecnologie pulite.

Siamo in balia delle onde. Per evitare di scoprirci naufraghi sul nostro stesso pianeta dobbiamo fare prestissimo e costruire un campo nuovo che esprima una cultura e una pratica egemone che ripensi lo sviluppo a partire dai limiti del pianeta. Non è impossibile. La società civile, i movimenti, i lavoratori, i contadini e la scienza sono pronti.

Speriamo che la politica questa volta scelga di stare dalla parte giusta. È l’ultima occasione.

sparito il fondo verde, stracciati gli impegni, morto anche l’accordo di Kyoto. la tragedia di chi, già oggi, annega nei mari che si alzano

Giuseppe De MarzoContrordine compagni, la Terra bolle e chi se ne frega

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analisilatinoamerica

di samir aminEconomista egiziano, presidente del Foro Mondiale delle Alternative

Laudacia, Più audacia

la dittatura globale della finanza si alimenta dell’esistenza del debito, in tutte le sue forme ma soprattuto il debito pubblico. Chi dice di combattere il debito pubblico mente. Oggi è necessario proporre strategie non per “uscire dalla crisi del capitalismo” ma per “uscire dal capitalismo in crisi”

e circostanze storiche create dall’implosione del capitalismo contempo-raneo richiedono una sinistra radicale, così al Nord come al Sud, che sia capace di formulare un’alternativa politica al sistema esistente. Il proposito di questo articolo è mostrare perché è necessaria l’audacia e cosa questa significhi.

Perché audacia?1. Il capitalismo contemporaneo è un capitalismo di monopoli generaliz-

zati. Con questo voglio dire che i monopoli non sono più le isole più grandi in un mare di imprese relativamente autonome, bensì un sistema integrato che controlla assolutamente tutti i sistemi di produzione. Piccole e medie imprese, incluse le grandi corporazioni che non sono strettamente oligopoli, sono sotto il controllo di una rete che rimpiazza i monopoli. Il loro grado di autonomia si è ridotto al punto da arrivare a convertirsi in subcontraenti dei monopoli.

Questo sistema di monopoli generalizzati è prodotto da una nuova fase di centralizzazione del capitale che ha avuto luogo durante gli anni 80 e 90 nei paesi che compongono la Triade: Stati Uniti, Europa e Giappone.

I monopoli generalizzati, in questo momento, dominano l’economia mon-diale. “Globalizzazione” è il nome che hanno dato all’insieme delle domande tramite le quali esercitano il proprio controllo sui sistemi produttivi della pe-riferia del capitalismo globale (periferia intesa come il mondo al di sotto della Triade). Questo non è nient’altro che una nuova fase di imperialismo.

2. Il capitalismo dei monopoli generalizzati e globalizzati è un sistema che garantisce che questi monopoli facciano gravare le imposte sulla massa di plu-svalore (trasformata in profitto) che il capitale estrae dallo sfruttamento del lavoro. Per quanto questi monopoli stiano operando nelle periferie del sistema globale, la rendita monopolica è rendita imperialista. Il processo di accumula-zione capitalista – che definisce il capitalismo in tutte le sue forme storiche – è determinato dalla massimizzazione della rendita monopolistica/imperialista.

Questo spostamento del centro di gravità dell’accumulazione del capitale è la fonte della continua concentrazione di guadagni e di ricchezza a beneficio dei monopoli, ampiamente controllata dalle oligarchie (plutocrazie) che gover-nano i gruppi oligopolistici a spese della remunerazione del lavoro e della re-

munerazione del capitale non monopolistico.3. Questo mette a rischio la stessa crescita, disequilibrando la fonte di finaziariz-

zazione del sistema economico. Con questo mi riferisco al fatto che un segmento crescente del plusvalore non può essere investito nell’espansione e nell’approfon-dimento dei sistemi di produzione e, di conseguenza, l’investimento finanziario dello smisurato plusvalore diventa l’unica opzione per sostenere l’accumulazione sotto il controllo dei monopoli.

L’implementazione che il capitale realizza in determinati sistemi, permette alla finanziarizzazione di operare in modi diversi, generando:

(I) la subordinazione della gestione delle imprese al principio del “valore delle azioni”.

(II) la sostituzione del sistema basato sulla capitalizzazione per la distribuzione delle pensioni (fondi pensione).

(III) l’ adozione del principio di “scambio di tasse flessibili”.(IV) l’abbandono del principio secondo il quale le banche centrali determinano i

tassi di interesse – principio di liquidità – e il trasferimento di questa responsabilità al “mercato”.

La finanziarizzazione ha trasferito la responsabilità principale del controllo del-la riproduzione del sistema di accumulazione a 30 grandi banche che sono parte della Triade. Gli eufemisticamente chiamati “mercati” non sono nient’altro che i luoghi dove vengono spiegate le strategie degli attori che dominano la scena eco-nomica.

Di conseguenza, questa finanziarizzazione, che è responsabile della crescita del-la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi (ricchezza), genera lo stesso plu-svalore che la sostiene. L’“investimento finanziario” (meglio detto investimento in speculazioni finanziarie) continua a crescere a grande velocità senza corrispondere alla crescita del prodotto interno lordo (che attualmente si è convertito in qualcosa di fittizio) o all’investimento nella produzione reale. La crescita esplosiva dell’inve-stimento finanziario richiede e si alimenta dell’esistenza di debito in tutte le sue forme, specialmente il debito pubblico. Quando i governi che sono al potere dicono di perseguire la riduzione del debito, stanno deliberatamente mentendo. Per mette-re in pratica la strategia di finanziarizzazione dei monopoli è necessaria la crescita del debito, una cosa che alla quale i monopoli ambiscono e non combattono, come una maniera di assorbire il proprio guadagno. Le politiche di austerità imposte per

“ridurre il debito”, hanno avuto come risultato (così come ci si aspettava) l’incremento del volume dello stesso.

4. E’ questo sistema – chiamato popolarmente neoliberale, il sistema del monopolio generalizzato capitalista, “globalizza-to” (imperialista) e finanziarizzato (come una necessità per la sua stessa riproduzione) – che implode davanti ai nostri occhi. Questo sistema, apparentemente incapace di sconfiggere le sue contraddizioni interne, è condannato a continuare la sua sel-vaggia espansione.

Quelli che vengono chiamati “mercati” sono 30 grandi banche della triade formata da stati uniti,europa e giappone

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analisi

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Samir Amin

che sia possibile obbligare il capitalismo monopolistico a retrocedere, forzandolo a ritornare come era nel1945. Però la storia non permette mai ritorni al passato. Il capitalismo deve essere affrontato così come è oggi, non come noi avremmo desi-derato che fosse stato immaginandoci un blocco nella sua evoluzione. Questione che, senza dubbio, continua a tormentare buona parte della sinistra globale.Terza risposta: la ricerca di un consenso “umanista”

Io definisco questo pio desiderio nel seguente modo: l’illusione che un accordo tra gli interessi in conflitto sia possibile. Alcuni ingenui movimenti ecologisti, tra gli altri, condividono questa illusione.Quarta risposta: le illusioni del passato

Queste illusioni invocano “la specificità” e “il diritto alla differenza” senza pre-occuparsi di capirne la portata e il significato. Il passato ci ha già risposto alle do-mande del futuro. Questi “culturalismi” possono adottare varie forme etniche o para-religiose. Teocrazie ed etnocrazie si convertono in sostituti delle lotte sociali democratiche che vedono svuotata la propria agenda.Quinta risposta: la priorità della “libertà personale”.

La gamma delle risposte basate su questa priorità, considerata il “valore supre-mo”, includono tra le proprie fila i retrogradi difensori della “democrazia elettorale rappresentativa”, alla quale equiparano la democrazia stessa. La formula separa la democratizzazione della società dal progresso sociale, tollerando inoltre un’asso-ciazione di fatto con la regressione sociale per non porre a rischio e discreditare la democrazia, ridotta allo status di una tragica farsa.

Eppure, ci sono variazioni di questa posizione anche più pericolose. Mi riferisco qui ad alcuni tipici “post moderni” attuali (come Toni Negri in particolare) che im-maginano che l’individuo si sia già convertito nel protagonista della storia, come se il comunismo, che permette all’individuo di emanciparsi dall’alienazione e con-vertirsi nel protagonista della storia, già fosse stato instaurato.

E’ chiaro che tutte le risposte di cui sopra, incluse quelle della destra (come le regolazioni che non colpiscono la proprietà privata dei monopoli) hanno tuttavia una poderosa eco per una maggioranza di persone di sinistra. La guerra dichiara-ta dal generalizzato capitalismo monopolistico dell’imperialismo contemporaneo non ha niente da temere dalle false alternative che ho descritto fin qui.

Cosa fare quindi?Questo momento ci offre l’opportunità storica di andare

molto più lontano; ci richiede come unica ed effettiva risposta una audace e coraggiosa radicalizzazione nella formulazione di alternative capaci di mobilitare lavoratori e popoli per metter-si all’attacco e difendersi dalla strategia di guerra dei nemici. Queste formulazioni, basate sull’analisi del capitalismo attual-mente esistente, devono affrontare direttamente il futuro da costruire e tirarci fuori dalla nostalgia del passato e dalle illu-sioni dell’identità o del consenso.

Audacia, più audacia

La “crisi del sistema” è causata dal suo stesso “successo”. In effetti, la strategia utilizzata dai monopoli ha sempre pro-dotto i risultati desiderati: i piani di “austerità” e i cosidetti piani di riduzione sociale (in realtà anti-sociale) continuano a essere imposti, a prescindere dalla resistenza e dalle lotte. At-tualmente, l’iniziativa è nelle mani dei monopoli (“i mercati”) e dei loro servi politici (governi subordinati alle domande del “mercato”).

5. A queste condizioni il capitale monopolistico ha dichiara-to apertamente la guerra ai lavoratori così come ai popoli. Questa dichiarazione è parte del progetto del “liberalismo non negoziabile”. Il capitale monopolistico con-tinuerà ad espandersi senza rallentare. La critica alla “regolazione” che spiegherò a continuazione, è basata su questo.

Non stiamo vivendo in un momento storico in cui la ricerca di un “compro-messo sociale” è un’opzione possibile. Ci sono stati momenti in passato, come il compromesso sociale nel periodo successivo alla guerra tra il capitale e il lavoro, in riferimento a uno Stato sociale democratico in occidente, il socialismo attualmente esistente nell’est e i progetti nazionalisti e popolari nel sud, ma il momento storico attuale non è lo stesso. Il conflitto attuale si produce tra il capitale monopolisti-co, i lavoratori e la gente che è chiamata ad arrendersi incondizionatamente. Le strategie di resistenza difensive, a queste condizioni, non sono efficienti e posso anche portare alla sconfitta. Nella guerra dichiarata dal capitale monopolistico, i lavoratori e i popoli devono sviluppare strategie che permettano loro di passare all’offensiva.

Il periodo di guerra sociale è necessariamente accompagnato dalla prolifera-zione di conflitti politici internazionali e di interventi militari da parte delle forze imperialiste della Triade. La strategia di “controllo militare del pianeta” da parte delle forze armate degli Usa e i suoi alleati della Nato è, in ultima istanza, l’unico mezzo attraverso il quale i monopoli imperialisti della Triade possano continuare ad esercitare il proprio dominio su popoli, nazioni e Stati del Sud. Davanti a questa sfida della guerra dichiarata dai monopoli, quali sono le alternative?

Prima risposta: “ regolazione dei mercati” (finanziari e di altro tipo)La regolazione è un’iniziativa che i monopoli e i governi rivendicano. Senza

dubbio questa è solo vuota retorica, creata per confondere l’opinione pubblica. Queste iniziative non possono arrestare la sfrenata corsa al beneficio finanziario, risultato della logica di accumulazione controllata dai monopoli. Sono, pertanto, una falsa alternativa.Seconda risposta: un ritorno ai modelli post-Guerra

Queste risposte alimentano una tripla nostalgia: (I) la ricostruzione di una vera “socialdemocrazia” in Europa occidentale, (II) la risurrezione dei “socialismi” basa-ti sui principi che hanno governato il XX secolo, (III) il ritorno a formule di nazio-nalismo popolare nella periferia del Sud. Queste nostalgie portano a immaginare

regolare i mercati, cercarne il consenso, cercare di limitarli...i monopoli non hanno niente da temere da queste ricette anticrisi

a colpi di austerità il capitale monopolistico ha dichiarato apertamente guerra ai lavoratori così come ai popoli

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che forniscono inputs e crediti, sia da quelli dai quali dipendono per i processi di trasporto e commercializzazione dei loro prodotti. Però, nessuno dei due gruppi ha un’ autonomia reale nel processo decisionale. A questo si aggiunge il fatto che la produttività raggiunta è appropriata per i monopoli che riducono i produttori allo stato di “subcontraenti”. Dinanzi a questo, qual è l’alternativa possibile?

I monopoli dovrebbero essere sostituiti da istituzioni pubbliche che lavorino in un ambito legale come parte del loro modo di governare. Queste istituzioni dovrebbero essere costituite da rappresentanti di: (I) contadini (principali interes-sati), (II) unità ascendenti (produzione di inputs, banche) e discendenti (industria alimentare, catene commerciali), (III) consumatori, (IV) autorità locali impegnate con l’ambiente e la società (scuole, ospedali, pianificazione urbana, alloggi, traspor-ti), (V) lo Stato (cittadini). Questi rappresentanti dovrebbero essere selezionati in base a procedimenti corrispondenti alla propria maniera di gestione sociale, come per esempio unità di produzione di inputs gestita da consigli di amministrazione formati dai lavoratori direttamente impiegati dalle relative unità, così come coloro che sono impiegati in unità di subcontratto. Queste strutture dovrebbero essere progettate in modo tale da associare la gestione del personale ad ognuno di questi livelli, così come con centri d’investigazione indipendente, e tecnologia appropria-ta. Potremmo addirittura concepire l’idea di una rappresentanza dei fornitori di capitale (piccoli azionisti) eredi della nazionalizzazione, se utile.

Stiamo parlando, pertanto, di approssimazioni istituzionali che sono più com-plesse delle riforme di autogestione o cooperative conosciute fino ad oggi. E’ necessario inventare i cammini di questo processo in modo tale da promuovere l’esercizio di una vera democrazia nella gestione dell’economia, esercizio basato su negoziati aperti tra tutte le parti interessate. Si richiede una formula che vin-coli sistematicamente la democratizzazione della società al progresso sociale, in contrasto con la realtà del capitalismo che dissocia la democrazia, riducendola alla gestione formale della politica, con le condizioni sociali abbandonate al “mercato” dominato da ciò che il monopolio di capitale produce . Solo a quel punto potremo parlare di una vera trasparenza dei mercati, quando questi saranno regolati da for-me istituzionalizzate di gestione socializzata.

L’esempio può sembrare marginale nei paesi capitalisti sviluppati dato che i piccoli proprietari di terra e contadini sono solo una piccola porzione dei lavoratori (3-7%). Senza dubbio, questo tema è centrale per il Sud, dove la popolazione rurale

continuerà ad essere significativa per molto altro tempo. Qui l’accesso alla terra, che deve essere garantito per tutti (con la maggiore equità possibile nella distribuzione) è fondamentale per avanzare con l’agricoltura contadina. Questa “agricoltura contadina” non deve essere intesa come sinonimo di “agricol-tura statica” o “tradizionale e folcloristica”. Il progresso neces-sario dell’agricoltura contadina implica una certa “moderniz-zazione” (nonostante il termine sia poco appropriato, dato che suggerisce immediatamente la modernizzazione attraverso

Programmi audaci per una sinistra radicaleOrganizzerò i seguenti modelli in base a tre idee centrali: (I)

la socializzazione della proprietà dei monopoli (II) la definan-ziarizzazione della gestione dell’economia (III) de globalizza-zione delle relazioni internazionali.

Socializzazione della proprietà dei monopoli.L’effettività della risposta alternativa richiede necessaria-

mente la messa in discussione del principio della proprietà pri-vata del monopolio del capitale. La proposta di “regolare” le operazioni finanziarie, il ritorno dei mercati alla “trasparenza” per permettere che le aspettative di chi vi agisce diventino “razionali” e definiscano i termini di un consenso a queste rifor-me, senza abolire la proprietà privata dei monopoli, non è che un chiaro intento di confondere un pubblico ingenuo. I monopoli sarebbero chiamati a “gestire” rifor-me contro i loro stessi interessi, ignorando il fatto che essi hanno mille e un modo per gabbare gli obiettivi di queste riforme.

Il progetto sociale alternativo dovrebbe invertire la direzione dell’attuale ordine sociale (disordine sociale) prodotto dalle strategie dei monopoli, con il proposito di assicurare piena e stabile occupazione, garantendo salari onesti e allo stesso tempo generando la produttività del lavoro sociale. Questo obiettivo è praticamente im-possibile senza l’espropriazione del potere dei monopoli.

Il “software dei teorici dell’economia” deve essere ricostruito (usando le parole di Francois Morin) così come l’assurda ed impossibile teoria economica secondo la quale le “aspettative” promuovono la democrazia perché permettono un maggiore controllo sulle decisioni economiche. L’audacia in questo momento richiede rifor-me radicali nell’educazione per la formazione non solo degli economisti, ma anche di coloro chiamati ad occupare ruoli di gestione.

I monopoli sono corpi istituzionali che devono essere maneggiati in conformità con i principi della democrazia, in conflitto diretto con chi santifica la proprietà privata. Nonostante il termine “beni”, importato dalla parola anglosassone, sia in se stesso ambiguo perché è disconnesso dal dibattito sul significato dei conflitti sociali (il linguaggio anglosassone ignora deliberatamente la realtà delle classi so-ciali), qui può essere utilizzato in maniera specifica per denominare i monopoli come parte dei “beni”.

L’abolizione della proprietà privata dei monopoli deve avvenire attraverso la loro nazionalizzazione. Questo primo passo legale è inevitabile. Però l’audacia im-plica a questo punto di andare più in là di questo passo legale per proporre la socia-lizzazione della gestione dei monopoli nazionalizzati e la promozione delle lotte sociali democratiche articolate in questo processo.

Farò un esempio concreto di cosa possono includere questi piani di socializza-zione.

Tanto i proprietari di terra “capitalisti” (quelli dei paesi sviluppati) quanto i proprietari “contadini” (principalmente del Sud) sono prigionieri sia dei monopoli

Samir AminAudacia, più audacia

i monopoli dovrebbero essere sostituiti da istituzioni pubbliche in grado di esercitare una vera democrazia dell’economia

Qualsiasi reazione efficace richiederebbe di mettere in discussione la liceità della proprietà privata e del monopolio del capitale

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rete monopolistica. L’obiettivo è essenziale per qualsiasi agenda che voglia sfuggire all’anchilosamento al quale ci costringe l’attuale gestione dell’economia. L’imple-mentazione di un processo di nazionalizzazione dissesta la gestione dell’economia. Stiamo ritornando alla famosa “eutanasia del guadagno” coniata da Keynes du-rante la sua epoca? Non necessariamente, e di certo, non completamente. Si può incoraggiare il risparmio, ma in base alla condizione della sua origine (risparmio dei lavoratori, affari, comunità) e le condizioni di garanzia, che siano ben definite. Il discorso di risparmio macroeconomico nella teoria economica convenzionale na-sconde la pretesa di accesso esclusivo al mercato di capitale da parte dei monopoli. Il cosiddetto “guadagno generato dal mercato” non è altro che il mezzo per garan-tire la crescita della rendita monopolistica.

Certamente, la nazionalizzazione/socializzazione dei monopoli si può anche ap-plicare alle banche, o per lo meno per quelle più grandi. Ma la socializzazione dei loro interventi (“politiche di credito”) ha caratteristiche specifiche che richiedono maggior precisione nella costruzione dei consigli di amministrazione. La naziona-lizzazione nel senso più classico si riferisce unicamente alla sostituzione dei con-sigli di amministrazione formati da azionisti privati con altri definiti dallo Stato. Questo consentirebbe l’implementazione di politiche di credito formulate dallo Stato, il che non è poco. Ma non è sufficiente se consideriamo che la socializzazione richiede la partecipazione di azionisti sociali rilevanti nella gestione della banca. Qui la gestione delle banche da parte degli stessi lavoratori non sarebbe la cosa più adeguata. Il personale dovrebbe prendere parte alle decisioni che riguardano le proprie condizioni di lavoro, ma poco più, dato che non sarebbe suo compito determinare le politiche di credito da implementare.

Se i consigli di amministrazione devono mediare il conflitto d’interessi tra colo-ro che forniscono prestiti (le banche) e coloro che li ricevono (le imprese), la formula per la composizione dei consigli di amministrazione deve essere progettata tenen-do conto di quali sono queste imprese e di cosa hanno bisogno. C’è bisogno di una ristrutturazione del sistema bancario, sistema che si è convertito in qualcosa di ec-cessivamente centralizzato da quando il quadro regolatore degli ultimi due secoli fu abbandonato nelle ultime quattro decadi. Questo è un argomento forte che giustifica la ricostruzione della specializzazione bancaria in funzione delle richieste dei benefi-ciari dei crediti, così come alla loro funzione economica (provvedere liquidità nel bre-ve periodo, contribuire al finanziamento di investimenti nel medio e lungo periodo).

Dovremmo quindi, per esempio, creare una “banca agrico-la” (o un congiunto coordinato di banche agricole) con una clientela che include non solo piccoli proprietari terrieri e con-tadini ma anche tutti coloro coinvolti nelle differenti “entità” agricole descritte sopra. Il consiglio di amministrazione della banca potrebbe incorporare da un lato i “bancari” (personale di banca, reclutato dal consiglio d’amministrazione), altri clienti (piccoli proprietari terrieri o contadini) e altre entità.

non basta nazionalizzare: è la socializzazione dei monopoli l’asse centrale della sfida al capitalismo contemporaneo

il capitalismo). Più inputs effettivi, crediti e catene di produzione e distribuzione sono necessari per dare impulso alla produttività del lavoro contadino. Le formu-le qui proposte hanno l’obiettivo di aumentare la modernizzazione sotto forme orientate da uno spirito “non capitalista”, ovvero da un orizzonte socialista.

Ovviamente, l’esempio specifico scelto in questo articolo ha bisogno di essere istituzionalizzato. La nazionalizzazione/socializzazione della gestione dei monopoli nei settori dell’industria e del trasporto, delle banche e di altre istituzioni finanzia-rie, devono essere immaginate con lo stesso spirito, prendendo le specificità delle loro economie e funzioni sociali per la costruzione dei consigli di amministrazione. Come è stato già segnalato, questi consigli devono includere i lavoratori della com-pagnia, così come i subcontraenti, rappresentanti delle industrie, banche, istituti di investigazione, consumatori e cittadini.

La nazionalizzazione/socializzazione dei monopoli è una necessità fondamen-tale, l’asse centrale della sfida che i lavoratori e il popolo devono accettare sotto un capitalismo contemporaneo di monopoli generalizzati. Questo è l’unica strada per frenare l’accumulazione per spoliazione alla quale ci sta portando la gestione dell’economia da parte dei monopoli.

De-finanziarizzazione: un mondo senza Wall StreetLa nazionalizzazione/socializzazione dei monopoli dovrebbe abolire il principio

di “valore delle azioni” imposto dalla strategia di accumulazione al servizio della

Samir AminAudacia, più audacia

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A livello internazionale: disconnessioneA questo punto utilizzero’ il termine “disconnessione” che proposi mezzo seco-

lo fa, un concetto che il discorso contemporaneo ha apparentemente sostituito con il sinonimo “deglobalizzazione”. Non ho mai concettualizzato la disconnessione come una forma autarchica di rifugio, ma come un cambiamento strategico delle forze interne ed esterne in risposta a richieste inevitabili di sviluppo autodetermi-nato. La disconnessione promuove la ricostruzione di una globalizzazione basata sul negoziato invece che una subordinazione agli interessi esclusivi dei monopoli imperialisti. La disconnessione rende anche possibile la riduzione delle disugua-glianze internazionali.

La disconnessione è necessaria perché senza di essa le soluzioni esposte nelle due sezioni precedenti di questo articolo, non potranno mai essere implementate su scala globale, o nemmeno a livello regionale (per esempio in Europa). Queste soluzioni potranno cominciare a realizzarsi nel contesto degli Stati/nazione a par-tire da lotte sociali e politiche, legate ad un processo di socializzazione di gestione della loro economia.

L’imperialismo, fin dopo la seconda guerra mondiale, ha generato un forte con-trasto tra centri imperialisti industrializzati e periferie dominate dove l’industria venne proibita. Le vittorie dei movimenti di liberazione nazionale iniziarono il pro-cesso di industrializzazione delle periferie, tramite l’implementazione di politiche di disconnessione necessarie per raggiungere lo sviluppo endogeno. Associati alle riforme sociali, che per quei tempi erano riforme radicali, queste disconnessioni crearono le condizioni per un’eventuale “crescita” dei paesi che erano arrivati più lontani in questa direzione - ovviamente con la Cina in testa a questo blocco di paesi.

Invece l’imperialismo dell’attuale momento storico, l’imperialismo della Triade, è costretto a rinegoziare e “aggiustarsi” alle condizioni imposte da questo nuovo momento, e pertanto a ricostruirsi su nuove basi, centrate su “vantaggi” mediante i quali si cerca di mantenere il privilegio dell’esclusività classificato secondo cinque categorie. Queste si riferiscono al controllo di:

• tecnologia;• accesso alle risorse naturali del pianeta;• integrazione globale del sistema monetario e finanziario;• sistemi di comunicazione e informazione;

• armi di distruzione di massa.Attualmente, la principale forma di disconnessione è defi-

nita esattamente da questi cinque privilegi dell’imperialismo contemporaneo. I paesi emergenti sono destinati alla discon-nessione di questi cinque privilegi, con diversi gradi di control-lo e autodeterminazione. Mentre il risultato durante le passa-te due decadi di disconnessione permise l’accelerazione del suo sviluppo - in particolare attraverso lo sviluppo industriale dentro il sistema “liberale” globalizzato, ovvero “capitalista” -

Possiamo immaginare anche un altro tipo di sistema arti-colato di banche, adattate a differenti settori industriali, dove i consigli di amministrazione potrebbero includere clienti indu-striali, così come centri di investigazione, tecnologia e servizi, per assicurare il controllo dell’impatto ecologico dell’industria, e in questo mondo garantire il minimo rischio (chiaro che nes-suna azione umana è completamente libera dal rischio) e legar-lo a un dibattito trasparente e democratico.

La definanziarizzazione della gestione economica richiede due tipi di legislazione. La prima si riferisce all’autorità di uno Stato sovrano, che proibisca che i fondi speculativi (fondi di copertura) operino sul territorio. La secon-da è in riferimento ai fondi pensione, i quali si sono trasformati attualmente nei maggiori operatori della finanziarizzazione del sistema economico. Questi fondi furono creati, in primo luogo, ovviamente, negli Usa, per trasferire ai lavoratori i ri-schi normalmente assunti dal capitale, che costituiscono le ragioni alle quali ci si è soliti appellare per giustificare la remunerazione del capitale! Ma quest’invenzione è uno strumento ideale per le strategie di accumulazione dominate dai monopoli.

L’abolizione dei fondi pensione è necessaria per il beneficio dei sistemi redistri-butivi delle pensioni, i quali, per natura, richiedono un dibattito democratico per determinare le quantità e i periodi di contribuzione così come la relazione tra le quantità delle pensioni e i pagamenti. In una democrazia che rispetti i diritti socia-li, i sistemi di pensione sono universalmente accessibili per tutti i lavoratori.

Tutti i mezzi di definanziarizzazione suggeriti fin qui ci portano ad una conclu-sione ovvia: un mondo senza Wall Street, prendendo in prestito il titolo di un libro di François Morin, è possibile e preferibile.

In un mondo senza Wall Street, l’economia è comunque controllata dal mer-cato. Ma, per la prima volta, i mercati sono realmente trasparenti, regolati da un negoziato democratico tra attori sociali genuini (attori che per la prima volta non sono avversari, come succede con il capitalismo). E’ il “mercato” finanziario, opa-co per natura e per il carattere dei requisiti di gestione a beneficio dei monopoli, quello che scompare. Potremmo persino indagare se sia utile o meno porre fine allo scambio di azioni, dato che i diritti alla proprietà (tanto nella sua forma privata come in quella sociale) saranno indirizzati diversamente. Il simbolismo, in qualsia-si caso - un mondo senza Wall Street - conserva tutto il suo potere.

Definanziarizzazione non significa in qualsiasi caso l’abolizione della politica macroeconomia e in particolare la gestione macro del credito. Al contrario, ripri-stina la sua efficienza liberandola dalla sottomissione a strategie che cercano la massimizzazione del profitto dei monopoli. La restaurazione dei poteri delle ban-che centrali nazionali, già non più “indipendenti” ma dipendenti tanto dallo Stato quanto dai mercati e regolati dal negoziato democratico tra gli azionisti sociali, ci permette di formulare una politica macro di credito capace di permettere una gestione sociale dell’economia.

Samir AminAudacia, più audacia

così si rende necessaria una globalizzazione basata sul negoziato e non subordinata solo agli interessi del grande capitale

Per uno stato sovrano, liberare l’economia dalla dittatura della finanza significa, tra l’altro, proibire le speculazioni e abolire i fondi pensione

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che è stata ridotta allo status di farsa e che adotta forme estreme, concentrandosi solo sulla domanda: come reagiranno il “mercato” (ossia i monopoli) e le “agenzie di rating” (ossia, di nuovo i monopoli)? Attualmente, questa è l’unica questione che sia stata posta. La reazione della gente non è una questione presa in considerazione.

E’ chiaro che né qui né là esiste un’ alternativa all’audacia: è necessario “di-sobbedire” alle regole imposte dalla “Costituzione Europea” e dalla fittizia Bce. In altre parole, non esiste altra alternativa se non quella di decostruire le istituzioni europee e la zona euro. Questo è il pre-requisito ineluttabile per l’eventuale rico-struzione di “un’altra Europa” di popoli e nazioni.

In conclusione: audacia, più audacia, sempre audaciaIn definitiva, questo è quello che intendo con “audacia”:(I) Per la sinistra radicale delle società della Triade imperialista, la necessità di

un impegno per costruire un blocco sociale antimonopolistico.(II) Per la sinistra radicale delle società della periferia, l’impegno di costruire un

blocco sociale alternativo anti-compratore.Ci vuole del tempo per avanzare nella costruzione di questi blocchi, però si

potrebbe accelerare se la sinistra radicale si muovesse con determinazione e si im-pegnasse nell’avanzamento lungo il cammino verso il socialismo. E’ senza dubbio necessario proporre strategie non per “uscire dalla crisi del capitalismo” ma per “uscire dal capitalismo in crisi”, come dice il titolo di uno dei miei recenti lavori.

Ci troviamo in un periodo cruciale della storia. L’unica legittimità del capita-lismo è aver creato le condizioni per il passaggio al socialismo, che dobbiamo in-terpretare come una fase più avanzata di civilizzazione. Il capitalismo è ormai un sistema obsoleto, la sua continuità può solo portarci alla barbarie. Non è possibile un altro capitalismo. La possibilità di uno scontro di civilizzazioni è, come sempre, incerta. O la sinistra radicale trionfa tramite l’audacia delle sue stesse iniziative per elaborare obiettivi rivoluzionari, o la controrivoluzione vincerà.

Tutte le strategie della sinistra non radicale non sono di fatto strategie, ma solo aggiustamenti congiunturali agli alti e bassi di un sistema che implode. E se il po-tere che si vuole, come il Gattopardo, è di “cambiare tutto affinché niente cambi”, e se i candidati di sinistra credono sia possibile “cambiare la vita senza toccare il potere dei monopoli”, la sinistra non radicale non arresterà il trionfo della barbarie del capitalismo. Hanno già perso la battaglia per non aver voluto affrontarlo.

Audacia è quello che manca per provocare l’autunno del capitalismo, autunno che verrà annunciato dall’implosione del sistema e dalla nascita di un autentica primavera dei popoli, una primavera possibile.

Bibliografia:Samir Amin, Sortir de la crise du capitalisme ou sortir du capitalisme en crise ; Le temps des cerises, 2009.Samir Amin, Ending the crisis of capitalism or ending capitalism. Pambazuka Press 2011Samir Amin, Du capitalisme à la civilisation ; Syllepse, 2008.Aurélien Bernier, Désobéissons à l’Union Européenne ; Les mille et une nuits, 2011.Jacques Nikonoff, Sortir de l’euro ; Mes mille et une nuits, 2011.François Morin, Un monde sans Wall Street ; Le seuil, 2011.

questo risultato ha alimentato la disillusione sulla possibilità di continuare a percorrere questo cammino emergendo come nuovi “soci capitalisti allo stesso livello”. L’intenzione di “coop-tare” i più prestigiosi tra questi paesi mediante la creazione del G20 ha fomentato queste illusioni.

Con l’attuale implosione del sistema imperialista (chiamata “globalizzazione”) queste illusioni devono dissiparsi. Il conflit-to tra i poteri imperialisti della Triade e i paesi emergenti è già visibile, e ci si aspetta che peggiori. Se vogliono avanzare,

le società dei paesi emergenti saranno forzate ad indirizzarsi verso un modello di sviluppo autosufficiente tramite piani nazionali e tramite il rafforzamento della cooperazione Sud-sud.

L’audacia, in queste circostanze, deve includere un impegno vigoroso e coeren-te fino alla fine, che vincoli le soluzioni di disconnessione richieste con lo sperato avanzamento del progresso sociale.

L’obiettivo di questa radicalizzazione implica: la democratizzazione della socie-tà; il conseguente processo sociale associato; la presa di posizione antimperialista. Un compromesso in questa direzione è possibile, non solo per le società dei paesi emergenti, ma anche per i paesi “abbandonati” o “invisibili” del Sud globale. Que-sti paesi sono stati ricolonizzati attraverso programmi di aggiustamento struttura-le degli anni 80. Le popolazioni sono attualmente mobilitate, hanno conquistato delle vittorie (in America del Sud) o non ci sono ancora riuscite (mondo arabo) .

Audacia significa che la sinistra di queste società deve avere il coraggio necessa-rio per misurare le sfide che affronta e appoggiare la continuazione e la radicaliz-zazione delle lotte necessarie attualmente in marcia.

La disconnessione del Sud prepara il cammino per la destrutturazione del siste-ma imperialista. Questo è particolarmente ovvio per le aree colpite dalla gestione del sistema monetario e finanziario globale, risultato dell’egemonia del dollaro.

Ma attenzione: è un illusione sperare che questo sistema venga sostituito con “un altro mondo monetario e un altro sistema finanziario” che sia più equilibrato e favorevole allo sviluppo delle periferie. Come accade solitamente, la ricerca di un “consenso” basato sulla ricostruzione internazionale e generato dall’alto è un mero desiderio in attesa che si compia un miracolo. Ciò che è ora sull’agenda è la decostru-zione del sistema esistente – la sua implosione – e la ricostruzione dei sistemi nazio-nali alternativi (per i paesi, continenti e regioni), qualcosa che comincia ad accadere in America del Sud. Audacia è avere il coraggio di avanzare con la maggiore determi-nazione possibile, senza preoccuparsi troppo di come reagirà l’imperialismo.

La stessa questione della disconnessione è ugualmente importante per l’Euro-pa, che è una specie di sub-scenario di globalizzazione dominato dai monopoli. Il progetto europeo fu creato dall’esterno e costruito sistematicamente per privare la gente della capacità di esercitare il potere democratico. L’Unione Europea fu pro-gettata come un protettorato di monopoli. Con l’implosione della zona euro, la su-bordinazione al profitto dei monopoli ha significato l’abolizione della democrazia,

l’illusione del g20:i paesi emergenti più “prestigiosi” devono dissipare l’illusione di poter essere cooptati come soci capitalisti

Samir AminAudacia, più audacia

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Docu

men

ti&Te

sti

documenti e testiLatinoamerica

a storia immediata, ramo della storiografia che si dedica a chiarire pro-cessi vicini al presente, si differenzia dal giornalismo perché applica la meto-dologia e la narrazione tipiche delle discipline storiche. Comunque, proprio per la sua “immediatezza”, soffre dello stesso endemico problema che hanno le sue gemelle che ragionano e indagano sul tempo al passato remoto: l’obiet-tività. Eric Hobsbawm segnala in The Age of Empire che lo storico possiede sempre una relazione molto personale con una determinata epoca, anche se questa non è stata da lui vissuta direttamente, ma magari solo in modo me-diato, attraverso qualche membro della propria famiglia o altri informanti e testimoni. Pertanto questo è un semplice esercizio di ricostruzione elaborato dal presente messicano e proiettato al futuro, dato che la nostra problematica immediata sarà, un giorno, storia e soprattutto perché, quando ci mettiamo a disquisire su questo tetro presente, non possiamo fare altro che rievocare la lunga serie di guerre civili che il nostro paese già ha sperimentato.

Come ricorda giustamente Marshall McLuhan in The medium is the massage, “quando ci troviamo di fronte a una visione completamente nuova, tendia-mo sempre a restare legati al sapore più recente. Guardiamo il presente dal-lo specchietto retrovisore. Retrocediamo verso il futuro”. Il processo storico della narcoguerra, simile a una guerra civile, ormai s’è trasformato e inten-sificato: da sparatorie isolate a conflitti tipo “guerriglia urbana” dai macabri risvolti, con scene mai viste da un secolo a questa parte. Da qui l’esigenza di un esercizio di storia immediata che parte da un paio di domande. Quando è cominciato tutto questo? Dove è diretto questo processo?

Da una sottile linea d’incertezza allo scoppio dell’incendio in tierra caliente (Stato di Michoacán): 2005-2006.

Il problema è cominciato quando il vecchio Partido Revolucionario Institu-cional (Pri) (per 70 anni alla guida del paese come partito egemonico in una cornice apparentemente democratica, n.d.t.), scaturito dall’assetto post-rivo-luzionario del 1910-17, è andato perdendo il suo potere. I nuovi politici del Partido Acción Nacional (Pan) (partito che ha portato alla presidenza Vicente Fox 2000-2006 e Felipe Calderón 2006-2012, n.d.t.) hanno deciso di autonominarsi “paladini della giustizia” punitiva ma non di quella sociale, il che ha fornito tanti uomini alle file del narcotraffico. Le vecchie reti di complicità, impuni-tà e controllo dei narcos che il Pri aveva tessuto si sono progressivamente sfaldate dinnanzi alle nuove reti create dal Pan e dal nuovo e fiammante

L

Messico: storia della narcoguerra 2005-2011di eder gallegosgiornalista e blogger messicano. il suo blog è http://clioscopia.wordpress.com

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documenti e testi

Eder Gallegos

rono lanciate dalla Fm in una discoteca della città di Uruapan (inizio della pratica delle decapitazioni come macabri “messaggi” tra i bandi in lotta, n.d.t.).

Fu così che cominciò la riuscita espulsione degli Zetas dal Michoacán. Que-sto fatto ha rotto l’aura d’invincibilità che accompagnava gli Zetas nel mondo della delinquenza organizzata e e ha spinto i restanti cartelli a lanciare delle piccole offensive in tutto il paese per espandere i propri territori e sostituire i vecchi armamenti con granate e potenti fucili automatici (come i famosi cuerno de chivo o AK 47, n.d.t.).

I cartelli del Pacifico, che prima lavoravano relativamente per conto loro, si sono unificati in un’organizzazione che è stata denominata La Federación o Cartello di Sinaloa. Se la Federación voleva sopravvivere al Cdg-Zetas doveva entrare in possesso stabilmente di un passaggio attraverso la frontiera set-tentrionale, un passaggio automatico ai dollari e alle armi del vasto mercato degli stupefacenti statunitense. Le victime di questa strategia furono i cartelli tradizionali di Tijuana e di Juárez operanti nel nord del paese.

Il Nord si frammenta e le alleanze si spezzano: 2007-2008.Con le sue tattiche antiquate il Cártel de Tijuana non è stato un gran rivale per i commando ad alta velocità di Sinaloa e i suoi metodi mafiosi del terrore consistenti nello scioglimento in acido e soda caustica (“pozolear”) e smem-

Messico: storia della narcoguerra 2005-2011

“sistema democratico”.Nel 2005, ultimo anno della gestione di Vicente Fox, la situazione era tesa

nel mondo del narcotraffico. A Est, il Cártel del Golfo (Cdg) aveva costituito un esercito paramilitare composto da disertori delle forze d’elite dell’eser-cito messicano, esperti in sanguinarie tattiche contro-insurrezionali, eredità dei conflitti in Centro America. Questo gruppo, autodenominatosi Los Zetas, ha scardinato il canone tradizionale del sicario “ubriacone” armato con una 9mm per imporre quello di un personaggio dalle conoscenze tattiche e strate-giche molto avanzate. Gli Zetas facevano e fanno paura per la loro disciplina e le loro operazioni brutali, una vera minaccia per il resto dei cartelli tradi-zionali che ancora mantenevano l’ordine che aveva costruito il capo Miguel Ángel Félix Gallardo (boss storico degli anni 70 e 80, fondatore del Cartello di Guada-lajara, precursore di quello di Sinaloa, in carcere dal 1989, n.d.t.).

Gli Zetas avevano e hanno la tremenda abitudine di diversificare il loro bu-siness dal narcotraffico ai rapimenti e alla spoliazione di proprietà. Per questo motivo nello Stato centrale del Michoacán è iniziata un’ondata terribile di cri-mine che ha risvegliato le aspirazioni revansciste degli antichi gruppi di narcos locali che hanno organizzato una ribellione contro gli Zetas con la fondazione del cartello della Familia Michoacana (Fm). L’accadimento che fece scoppiare la guerra su grande scala si verificò il 6 settembre 2006 quando 5 teste umane fu-

Cartello di Juarez

Cartello di Tijuana

Boss locali

Cartelli del Pacifico

CDG/Zetas

Cartelli del Pacifico

immagine 1. il vecchio ordine con le strade del narcotraffico e i loro padroni nel 2005. il segreto

sta nel controllare porti e i punti di

accesso di frontiera verso gli stati

uniti. il carburante della criminalità organizzata è la

povertà crescente che colpisce un

60% dei messicani. gli usa, primo

consumatore di droghe e produttore

di armi, sono la bombola d’ossigeno

dei narcos.

Cartello di Juarez

Cartello di Tijuana

Boss locali

Famiglia di Michoacán

Cartelli del Pacifico

CDG/Zetas

Cartelli del Pacifico

immagine 2. 2006. inizia la guerra. la prima mossa è la creazione della Familia Michoacana e l’espulsione del cartello del golfo/Zetas da Michoacán. Presto la Federazione (sinaloa) avrebbe cercato un ingresso agli stati uniti a spese dei vecchi cartelli di tijuana e Juárez.

1 2

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documenti e testi

Eder Gallegos

partita finisce con un costoso e sanguinoso “pareggio”.L’avanzata sul campo della Federazione/Sinaloa non trova una corrispon-

denza con gli accordi a livello interno. Al principio del 2008 il governo ha arrestato Alfredo Beltrán Leyva “Mochomo”, leader di una delle principali fazioni della Federazione, quella dei fratelli Beltrán Leyva. Questi fratelli, provenienti da una famiglia di grandi tradizioni nello Stato del Sinaloa, era-no quelli che avevano sopportato maggiormente il peso dei combattimen-ti nell’Est del Messico e nel centro (zona di Cuernavaca, Morelos, e Pacifico Sud, n.d.t.). Ben presto cominciarono a circolare dei pettegolezzi circa il possibile tradimento del capo, El Chapo Guzmán, nei confronti dei suoi alleati e si scatenò una terribile spirale di vendette che coinvolse parenti e consanguinei a vari livelli delle due famiglie di Sinaloa oltre e implicò una redistribuzione dei rispettivi territori d’influenza.

Dopo l’abbandono della Federazione da parte dei fratelli Beltrán Leyva, questa s’è divisa in quattro zone. Sfrotunatamente per i Beltrán le loro zone d’influenza sono rimaste separate da ampie frange territoriali sotto il con-trollo di gruppi ostili. Il recupero di quelle zone ha acceso il conflicto nel Sinaloa (Nord Pacifico), nel Morelos (Centro Sud), nel Coahuila (Nord) e nel Michoacán (Centro Nord). Perché Michoacán?

Messico: storia della narcoguerra 2005-2011

brare i corpi dei nemici.Il Cártel de Juárez (la storica organizzazione del capo, scomparso nel 1997, Amado

Carrillo Fuentes, alias el Señor de los Cielos, che controlla la via d’accesso agli Usa da Ciudad Juárez, n.d.t.) già stava preparando i suoi propri squadroni paramilitari (La Linea, Los Aztecas) ed è stato un osso duro da combattere per i gruppi di Sinaloa. Se Tijuana è stata lo scenario di battaglie urbane impensabili fino a pochi anni fa, ebbene Ciudad Juárez è diventata un vero e proprio campo di sterminio in cui a migliaia si sono accumulati i morti, insieme all’impunità e alle vittime innocenti in 4 lunghi anni, senza tregua. I vecchi cartelli si sono visti assediati nelle loro capitali e quello di Tijuana è stato il primo a capitola-re. Una situazione da un certo punto di vista “positiva” per gli abitanti della città californiana che hanno vissuto solamente alcuni mesi di scompiglio. L’obiettivo era stato raggiunto e Sinaloa aveva ottenuto le sue porte d’ingres-so agli Usa: Tijuana, Otay, Mexicali e Nogales sono ormai degli avamposti fissi da cui entrano milioni di dollari nelle casse “dell’impresa”.

Intanto, nell’Ovest, nella zona Nord-Est - nella Frontera Chica di Tamauli-pas - e nel centro del paese, il cartello di Sinaloa (capeggiato dal narco più famoso e ricco del mondo, El Chapo, Joaquín Guzmán Loera, n.d.t.) inizia a penetrare nel territorio che tradicionalmente era dominato dal Cartello del Golfo, però la

Cartello di Juarez

Cartello di Tijuana

Boss locali

Famiglia di Michoacán

CDG/ZetasLa Federazione

La Federazione

immagine 3.

2007. la guerra imperversa nelle

città di tijuana e cd. Juárez per l’avanzata della Federazione. ci sono scontri minori

nel tamaulipas en el centro del paese che, però, presto avranno

un impennata.

Cartello di Juarez

Cartello dei Beltrán

Cartello dei Beltrán

Cartello dei Beltrán

Famiglia di Michoacán

Zetas

CDGCartello di Sinaloa

immagine 4. la frammentazione dei cartelli. nell’ovest, la Federazione si spezza nel cartello di sinaloa e in quello dei leali ad arturo Beltrán leyva. nell’est il cdg (cartello del golfo) resta con i suoi territorii tradizionali nel tamaulipas mentre gli Zetas s’impossessano del centro e del sud del paese.

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documenti e testi

Eder Gallegos

verificarsi degli scontri che aumentano in brutalità e violenza. Ciudad Juárez continuava a dissanguarsi, la Frontera Chica a Nord-Est cominciava a farsi notare come campo di battaglia, la zona della Comarca Lagunera (Nord del paese) e anche gli Stati di Morelos, Sonora e Sinaloa ci mettevano il loro buon numero di morti e terrore.

Gli Zetas hanno mantenuto un basso profilo nel 2009 a causa della perdita degli accessi alla frontiera con gli Usa, in seguito alla rottura con il Cdg. Quin-di hanno dato maggiore importanza e attenzione al redditizio business del traffico e dell’estorsione contro i migranti nel Sud, sconfinando addirittura in Guatemala dove si sono resi colpevoli di vari infami massacri. Gli Zetas hanno assorbito i vecchi cacicchi degli Stati di Guerrero, Oaxaca, Veracruz e Chiapas e hanno instaurato un baronato nel Messico meridionale, dimenticato e po-vero, in cui imperano il sequestro di persona e il terrore.

Silenziosamente vari luogotenenti narcotrafficanti hanno propiziato alle-anze tra diverse fazioni in lotta con l’intenzione di riportare l’ordine, per cui alcuni ex nemici si sono ritrovati uniti per cause comuni. Il Cartello di Juárez e i Beltrán Leyva si sono avvicinati agli Zetas, le vecchie ruggini sono state rimosse visto che questi tre sono i cartelli più colpiti da quello di Sinaloa. Questo, dal canto suo, ha preso a dialogare con la Familia Michoacana e i suoi antichi rivali del Cdg che, abbandonati dai loro ex cani da guardia, gli Zetas, si trovavano in una situazione disperata nella loro lotta contro la fazione dei Beltrán Leyva. Nasceva così l’aggruppamento dei “Cárteles Unidos”.

Il Governo decide la sua giocata –in modo quasi definitivo– in favore del Cartello di Sinaloa quando il 16 dicembre 2009 abbatte il boss ribelle dei Beltrán Leyva. Il jefe Arturo muore crivellato dopo un lungo e sanguinoso scontro a fuoco con le forze della Marina nazionale nella località turistica di Cuernavaca, meno di 90km a sud di Mexico City.

2010. Alla morte di Arturo Beltrán Leyva, gli Zetas si guardano intorno e realizzano di essere rimasti praticamente soli a controllare molte regioni del paese. I loro alleati di Ciudad Juárez stanno a centinaia di chilometri di distanza in pieno stato paranoico. Infatti, i feroci comandanti di Don Arturo Beltrán, persi e disperati, con l’ansia di trovare spazi per respirare, sono come topi in gabbia e riescono solo a sfogarsi con crudeli delitti e omicidi negli Stati di Guerrero e Morelos, commessi in maniera quasi casuale e pressoché disorganizzata. Sono emblematici la mattanza di 20 turisti del Michoacán ad Acapulco e l’assassinio di Juan Francisco Sicilia, figlio del poeta che oggi è alla testa del gran Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità in Messico.

Gli Zetas, da bravi militari quali sono, hanno realizzato con successo un’azione rapida: lo spostamento massiccio verso nord in cerca di ossigeno, cioè dollari e armi yankee. In pochi mesi si sono impadroniti di ampie zone di Coahuila, Durango, Zacatecas, Tamaulipas e Nuevo León, inclusa l’opulenta capitale industriale del Nord, Monterrey. Allo stesso tempo hanno lanciato una forte offensiva contro i rimasugli di resistenza del Cdg e hanno lasciato

Messico: storia della narcoguerra 2005-2011

La Familia Michoacana aveva stretto una proficua alleanza con Sinaloa (gruppo del Chapo) per cui i “michoacanos”, forti della pace con la Federa-zione/Sinaloa lungo i confini settentrionali con lo Stato di Jalisco, s’erano potuti concentrare sulla lotta per il controllo delle redditizie montagne del meridionale Stato di Guerrero (confinante con Michoacán e produttore di marijuana; città importanti: Acapulco, Taxco, Chilpancingo, n.d.t.) e sull’espan-sione verso i tristi sobborghi che circondano la capitale nell’Estado de México, la regione amministrativa intorno a Città del Messico/Distretto Federale.

Nel frattempo nemmeno il Cartello del Golfo riusciva a gestire le rela-zioni col suo braccio paramilitare armato al meglio. Il potere accumulato dagli ex corpi militari d’assalto ha cominciato a creare rivalità tra i due bandi (Zetas e Cdg) e durante il biennio 2008-2009 è iniziato il distacco tra i due ex alleati ma senza scontri. Quando i fratelli Beltrán Leyva attaccano lo stato nordorientale di Tamaulipas, semplicemente il Cdg viene lasciato alla sua sorte dagli antichi alleati.

Preludio dell’anarchia e il Requiem del bicentenario: 2009-2010.Il 2009 è stato un anno confuso. In seguito al recupero da parte del

Cartello di Sinaloa dei territori perduti, in tutto il Messico cominciano a

Cartello di Juarez

Famiglia di Michoacán

Zetas

CDGCartello di Sinaloa

Cartello dei Beltrán

Cartello dei Beltrán

Cartello dei Beltrán

immagine 5. 2009. il recupero

da parte del cartello di sinaloa dei territori del

dissidente arturo Beltrán leyva fa scoppiare la

guerra in tutto il paese. ciudad Juárez continua

a soffrire lo scontro brutale per il redditizio

accesso agli usa. gli Zetas espandono la loro

influenza ai danni dei cacicchi appartenenti

al vecchio partito politico Pri e s’instaura il regno del terrore per i migranti (soprattutto

centroamericani diretti a nord) dinnanzi alla

passività del governo.

5

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128 I latinoamerica • 4 • 2011 latinoamerica • 4 • 2011 I 129

documenti e testi

Eder Gallegos

storica capitale del turismo.Il Cartello di Sinaloa ha dovuto nuovamente far fronte al caos al suo in-

terno quando Nacho Coronel, narco-comandante a Guadalajara e nella sua regione Jalisco, è stato freddato dall’esercito. Il vuoto di potere risultante dovette essere colmato rapidamente da Sinaloa nella zona ovest e dalla Fa-milia in quella est. Nel mentre anche Gudalajara e Nayarit hanno conosciuto la narcoviolenza.

Alla fine dell’anno, il presidente Felipe Calderón scaglia la Polizia Fede-rale all’attacco contro la Familia Michoacana. Obiettivo: posizionare la so-rella dello stesso presidente come paladina della giustizia e la legalità nel Michoacán (Stato da cui proviene la famiglia presidenziale, n.d.t.) in vista delle elezioni del governatore e il parlamento locali nel 2011. I risultati di questa decisiones hanno condotto a una Polizia Federale umiliata, a una regione in fiamme per oltre un anno, a centinaia di morti e alla scissione de La Familia in due bande: quella dei Caballeros Templarios (Cavalieri Templari) allineato con il Cartello di Sinaloa e quella della nueva Familia, in esilio nel Estado de México (a ridosso della capitale) e alleato con gli Zetas.

Messico: storia della narcoguerra 2005-2011

dietro di sé una scia di città e villaggi fantasma all’interno del Tamaulipas e sulle coste del Golfo del Messico settentrionale: il caso di Ciudad Mier è l’esempio più doloroso.

Sull’altro versante della contesa la decisione era sempli-ce: la sopravvivenza dei Cárteles Unidos dipendeva dal suceso nell’evitare la scomparsa totale del Cdg ad opera degli Zetas. Squadroni di Sinaloa e della Familia Michoacana si sono uniti a quelli ancora presenti nel Tamaulipas per portare avanti una controffensiva nelle città di Reynosa e Matamoros.

Il Cartello di Sinaloa è quindi cresciuto a Ciudad Juárez e anche nei suoi territori d’origine. S’è pure adoperato per con-tenere gli Zetas nella zona centro settentrionale della Comarca Lagunera.

La Familia ha reagito nella zona di Guanajuato, il Bajío, in-viando uomini armati perfino nel Tamaulipas per recuperare la cosiddetta Frontera Chica con il Texas. A sud, ad Acapulco, gli squadroni di Sinaloa hanno respinto i resti del Cartello dei Los Beltrán in un’escalation di violenza che ha coinvolto questa

Cartello di Juarez [II]

Cartello dei Beltrán [II]

Famiglia di Michoacán [CU]

Zetas [II]

CDG [CU]

CDG [CU]Cartello di Sinaloa [CU]

Cartello di Sinaloa [CU]

Cartello dei Beltrán

Caballeros Templaríos

Zetas [II]

CDGCartello

di Sinaloa

Cartello di Sinaloa

immagine 7. ottobre 2011. la tenaglia dei cárteles unidos (in rosa e in azzurro l’alleato cdg) nella comarca lagunera frammenta il territorio degli Zetas. Juárez pare finire sotto il controllo di sinaloa e il cdg recupera il tamaulipas con una forza sufficiente a invadere anche il nuevo león e Veracruz (due punti separati da oltre 600 km di distanza). la violenza si muove dal nord al centro e sud del paese. la Marina coadiuva su tutti i fronti nell’offensiva anti-Zetas.

immagine 6. 2010. i cartelli dei narcos formano

due grandi gruppi. cárteles unidos: cdg, sinaloa e Familia Michoacana.

gli Zetas sostengono i cartelli ormai asfissiati dei Beltrán leyva

e di cd. Juárez e intraprendono un’impressionante movimento

verso il nord per impossessarsi degli accessi di frontiera nel nuevo león e coahuila; a sud invadono il guatemala. cárteles unidos riesce a contenerne l’avanzata nel nord e prepara la controffensiva. tutti

s’affrettano a riempire i vuoti lasciati dagli assassinii di arturo Beltrán e nacho coronel (boss di sinaloa nel

nord-ovest). il caos si fa sentire con migliaia di vittime (alla fine del 2011,

si stimano in circa 60mila i morti e oltre 16mila i desaparecidos legati

alla narco-guerra, n.d.t.)

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documenti e testi

Autore autore

tima, visto che si tratta del porto più importante, si registra la presenza di commando giunti da tutto il paese che si dedicano ad attaccare, ultimare e ammucchiare membri degli Zetas. Il territo-rio di questi (spesso citato dalla stampa come Zetania, Repubblica Crimi-nale di, n.d.t.) si trova, in effetti, spezzato in due piccole aree, una nel Nord e un’altra circondata da forze nemiche a Sud.

In cosa hanno sbagliato gli ex militari che erano arrivati a con-trollare mezzo Messico? Il loro zelo estremo nell’uccisione massi-va di migranti, l’invasione del Guatemala e l’omicidio per errore di alcuni agenti Usa a San Luis Potosí li ha messi contro mezzo mondo. L’idea era che la pacificazione si sarebbe potuta ottenere ristabilendo lo status quo ante e l’eliminazione non del business del narcotraffico ma con la sconfitta dei cartelli più violenti. Secon-do queste linee d’azione l’ultimo corpo federale non infiltrato dai narcos, la Marina, ha effettuato missioni spettacolari per strozzare gli Zetas nel Tamaulipas e bloccarli a Veracruz.

Forse Ciudad Juárez potrebbe essere pacificata in quanto il Cár-tel de Juárez è al bordo del collasso. La situazione a Monterrey è, invece, più delicata, ma l’avanzata del Cdg sembra solida. Lì la Marina agisce nell’entroterra chiudendo la frontiera presso Ciudad Acuña cercando di tagliare le vitali forniture di armi e dollari ai nemici di questo, gli Zetas. La Comarca Lagunera risulta costan-temente sotto attacco e se si chiude la tenaglia nei prossimi mesi ci saranno 450 km di distanza tra la zona degli Zetas nei pressi di Monterrey e il loro territorio meridionale.

S’osserva così un processo storico di violenza che si sposta da nord a sud e che molto probabilmente potrebbe muoversi anche per il centro del paese.

Quale sarà l’intensità in quest’ultima fase del conflitto? Dipen-derà dalla capacità dei cartelli e dalla volontà del Governo di sot-trarre agli Zetas l’ultima fonte di valuta costituita dal traffico di migranti e, come pare si stia precedendo a fare, di eliminare le bande di maniaci che sconvolgono le periferie e i dintorni di Città del Messico (La Mano con Ojos – Mano con Occhi).

Titolo titolo

Rafforzamenti e ritirate. 2011Contro ogni previsione il Cártel del Golfo insieme a Cárteles Unidos (Sina-

loa e altri) ha resistito e ha contrattaccato gli Zetas nel Tamaulipas. E’ riuscito a ricompattare nuovamente i suoi territori, avendo recuperato la Frontera Chica e i suoi 6 passaggi alla frontiera con il Texas. Ha anche iniziato un’im-portante controffensiva verso Monterrey. Questa lotta ha immerso Monterrey in una violenza psicopatica con livelli di crudeltà inumani.

Al Sud i Cárteles Unidos hanno braccato gli Zetas e il terrore s’è impadro-nito di città allegre e culturalmente vive come Xalapa e Veracruz. In quest’ul-

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ggi è possibile un cambiamento nelle relazioni fra L’Avana e Washington. Gli Stati Uniti hanno tolto tutte le restrizioni relative ai viaggi dei cubano-americani nell’isola e alle rimesse destinate alle famiglie. Contemporanea-mente, il governo cubano favorisce la creazione di piccole imprese private. Questa realtà apre la strada al rafforzamento dei vincoli fra queste due comu-nità, e più precisamente –come ha sottolineato un osservatore– a “un flusso di capitale dagli Stati Uniti verso Cuba”. Tuttavia, da un lato il caso di Alan Gross, arrestato il 3 dicembre del 2009, e dall’altro quello dei Cinque Cubani, rappresentano un grosso ostacolo al miglioramento delle relazioni.

Chi è Alan Gross?Alan Gross è un cittadino statunitense di Potomac, Maryland, di religione

ebraica, di 61 anni, che lavora per il governo degli Stati Uniti. E’ un dipenden-te della Development Alternative, Inc (DAI), subappaltata dalla Agenzia Statuni-tense per lo Sviluppo Internazionale (Usaid), la quale a sua volta dipende dal Dipartimento di Stato. Nel dicembre del 2009, quando Gross era in procinto di lasciare Cuba dove era entrato con un semplice visto turistico –in quello che era il suo quinto viaggio in un anno- i servizi di sicurezza lo hanno ferma-to all’aeroporto internazionale dell’Avana. Un’indagine aveva permesso di stabilire stretti legami fra lui e l’opposizione interna al governo cubano, a cui distribuiva computer portatili e telefoni satellitari, nel quadro di un program-ma del Dipartimento di Stato di “promozione della democrazia a Cuba”. (1)

Esperto in tecnologia della comunicazione a lunga distanza, Gross dispo-ne di una grande esperienza nel campo. Ha lavorato in più di cinquanta na-zioni e ha elaborato sistemi satellitari di comunicazione durante gli interven-ti militari statunitensi in Irak e in Afganistan per eludere i canali controlla-ti dalle autorità locali. (2)

di salim lamrani & Wayne smithDocente universitario alla Sorbona di Parigi • Diplomatico Usa, a Cuba dal 1979 al 1982.Il saggio è stato scritto per il Center for International Policy

O

se un contractor della cia PotreBBe, alla Fine, restituire la doVuta liBertà ai cinque cuBani

Perfino il cauto New York Times ha dovuto ammettere che l’ingegnere nordamericano Alan Gross, arrestato nel 2009 a l’Avana, era sull’isola “nel quadro di un programma semiclandestino dell’Usaid [agenzia della Cia, ndr] destinato a minare il governo di Cuba” e non per assistere tecnologicamente la locale comunità ebraica. Eppure testardamente il governo di Washington rifiuta le pressioni internazionali per scambiare Gross con i cinque agenti dell’intelligence cubana che smascherarono le centrali terroristiche di Miami. Sarebbe un modo vero, come affermano gli autori di quest’articolo, uno dei quali ex diplomatico degli Stati uniti, per confermare la volontà del governo di Obama di condurre una politica più aperta nei riguardi di Cuba e dell’America Latina

Il possesso di un telefono satellitare è rigorosamente vietato a Cuba per ragioni di sicurezza nazionale. D’altra parte, il settore delle telecomunicazio-ni è un monopolio dello Stato a Cuba ed è proibita qualsiasi concorrenza.(3)

Aiuto alla comunità ebraica di Cuba?Il Dipartimento di Stato statunitense, che esige che il detenuto venga libe-

rato, afferma che “Gross lavora per lo sviluppo internazionale e che è andato a Cuba per aiutare i membri della comunità ebraica dell’Avana a mettersi in contatto con altre comunità ebraiche nel mondo”. Secondo Washington, le attività di Gross erano legali e non hanno violato la legislazione cubana.(4)

Nell’ottobre del 2010, in occasione della riunione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Arturo Valenzuela, segretario di Stato assisten-te per gli Affari Interamericani, ha incontrato Bruno Rodríguez, ministro cubano degli Esteri, a proposito di Gross. Si trattava, in quel caso, del più importante incontro diplomatico fra rappresentanti delle due nazioni dall’ini-zio dell’era Obama. (5)

Anche la famiglia di Alan Gross ha sostenuto che i suoi frequenti viaggi nell’isola avevano come scopo quello di permettere che la comunità ebraica dell’Avana potesse accedere a Internet per poter comunicare con gli ebrei di tutto il mondo.(6) Il loro avvocato, Peter J. Kahn, ha ratificato queste parole: “Il suo lavoro a Cuba non aveva niente a che vedere con la politica, ma si proponeva semplicemente di aiutare a migliorare la vita dei membri della piccola, pacifica e non dissidente comunità ebraica in quel paese”. (7)

Sicuramente Gross aveva dei contatti con qualche membro della comu-nità ebraica a Cuba, sebbene la stessa comunità ebraica dell’Avana contrad-dica la versione ufficiale degli Stati Uniti e della famiglia di Gross. In realtà,

[2] Phillip J. Crowley, «Statement on Anniversary of Alan Gross’ Incarceration in Cuba», U.S. Department of State, 3 de diciembre de 2010; Saul Landau, «The Alan Gross Case», Counterpunch, 30 de julio de 2010. http://www.counterpunch.org/landau07302010.html (sito consultato il 18 febbraio 2011).[3] Ibid.[4] Phillip J. Crowley, «Statement on Anniversary of Alan Gross’ Incarceration in

Cuba», op. cit.[5] Paul Haven, «U.S., Cuban Diplos Met About Jailed U.S. Man», The Associated Press, 18 ottobre 2010[6] Anthony Broadle, «Exclusive: American Held in Cuba Expresses Regret to Raul Castro», Reuters, 24 ottobre 2010.[7] Juan O. Tamayo, «Pedirán 20 años de cárcel para Gross», El Nuevo Herald, 5 febbraio 2011.

[1] Jeff Franks, «Scenarios-U.S. Contractor Jailed in Cuba Still in Limbo», Reuters, 24 ottobre 2010[2] Phillip J. Crowley, «Statement on Anniversary of Alan Gross’ Incarceration in

Cuba», U.S. Department of State, 3 de diciembre de 2010; Saul Landau, «The Alan Gross Case», Counterpunch, 30 de julio de 2010. http://www.counterpunch.org/landau07302010.html (sito consultato il 18 febbraio 2011).

documenti e testiLatinoamerica

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documenti e testi

Salim Lamrani e Wayne Smith

del 2010 che è stata trasmessa dal vivo alla televisione cubana ed è apparsa in prima pagina sul Granma. In quell’occasione ha rivolto un saluto “alla co-munità ebrea di Cuba e alla straordinaria storia del popolo ebreo”. (12)

D’altra parte, la comunità ebraica cubana dispone di tutti gli strumenti tecnologici necessari a comunicare con il resto del mondo, grazie all’aiuto offerto da altri enti ebrei internazionali come il Benai Brith and the Cuban Jewish Relief Projet, il Canadian Jewish Congress (CJC), la World ORT, il Joint Distribution Committee (JDC) o l’ United Jewish Committee (UJC), in accordo con le autorità cubane. (13)

Anche Arturo López-Levy, segretario di Benai Brith nella Comunità Ebrai-ca Cubana fra il 1999 e il 2001 e attualmente professore all’Università di Denver, si mostra scettico a proposito della versione statunitense sul caso Gross. Egli afferma quanto segue: “Gross non è stato arrestato perché è ebreo o per le sue presunte attività di aiuto tecnologico alla comunità ebraica cu-bana, che disponeva già di un laboratorio informatico, della posta elettronica e di accesso a Internet prima del suo arrivo all’Avana. [Gli ebrei di Cuba] non si riuniscono in una sinagoga per cospirare con l’opposizione politica giacché questo metterebbe in pericolo la cooperazione con il governo che è necessa-ria per le attività come il programma di emigrazione verso Israele ogni anno, o per trattare circa l’aiuto umanitario. Per proteggere la cosa più importante, stanno il più lontano possibile dai programmi di ingerenza politica statuni-tense negli affari interni cubani. Gross è andato a Cuba non per lavorare in qualche organizzazione ebraica ma per l’Usaid”.(14)

Da parte sua Wayne Smith, ambasciatore a Cuba fra il 1979 e il 1982 e direttore del programma “Cuba” del Centro di Politica Internazionale di Washington, segnala che “Gross, in altre parole, era implicato in un program-ma le cui intenzioni sono chiaramente ostili verso Cuba visto che l’obbiettivo è niente di meno che il cambiamento di regime”. (15)

Attività illegali secondo le autorità cubaneLa versione ufficiale non ha convinto le autorità cubane, infatti Gross è

sospettato di attività di spionaggio e di sovversione interna. (16) Ricardo Alarcón, presidente del Parlamento cubano, ha affermato che il cittadino

Se un contractor della Cia potrebbe, alla fine, restituire la dovuta libertà ai cinque cubani

la comunità afferma di non conoscere Alan Gross e di non averlo mai incontrato nonostante i suoi cinque soggiorni a Cuba nel 2009. Adela Dworin, presidentessa del Tempio Beth Shalom ha smentito le affermazioni di Washington: “E’ un peccato [...] La cosa più triste è che hanno voluto coinvolgere la comunità ebraica di Cuba che è totalmente estranea”.

Da parte sua, Mayra Levy, portavoce del Centro Ebraico Sefardita, ha assicurato di ignorare chi fosse Gross il quale non si è mai presentato nella loro istituzione. L’Agenzia sta-tunitense Associated Press segnala, da parte sua, che “i capi

della comunità ebraica di Cuba hanno negato che il contrattista statunitense Alan Gross [...] abbia collaborato con loro”. (8) Anche l’Agenzia Telegrafica Ebraica precisa che “i principali gruppi ebrei di Cuba hanno smentito qual-siasi contatto con Alan Gross e hanno negato di essere a conoscenza del suo programma”. (9)

Il reverendo Odén Marichal, segretario del Consiglio delle Chiese di Cu-ba (CIC), che riunisce le istituzioni religiose cristiane e della comunità ebrai-ca di Cuba, ha confermato questa posizione durante una riunione con Peter Brennan, coordinatore per gli Affari Cubani nel Dipartimento di Stato. In occasione dell’Assemblea generale delle Chiese di Cristo degli Stati Uniti a Washington, a novembre del 2010, il capo religioso ha smentito le afferma-zioni di Gross. “Quello che abbiamo ben chiarito è che la comunità ebraica di Cuba, che è membro del Consiglio delle Chiese di Cuba, ci ha detto: ‘Noi non abbiamo mai avuto rapporti con questo signore, non ci ha mai portato apparecchiature di nessun tipo’. Hanno negato qualsiasi rapporto con Alan Gross”.(10)

In verità, la piccola comunità ebraica cubana, lungi dall’essere isolata, è perfettamente integrata nella società e mantiene ottime relazioni con le autorità politiche dell’isola. Fidel Castro, pur mostrandosi molto critico verso la politica israeliana nei territori occupati, ha dichiarato al giornalista statu-nitense Jeffrey Goldberg che “nessuno era stato tanto diffamato come gli ebrei” nella storia. “Sono stati scacciati dalla loro terra, perseguitati e mal-trattati in tutto il mondo. Gli ebrei hanno avuto un’esistenza molto più dura della nostra. Niente è paragonabile all’Olocausto”, ha aggiunto. (11)

Il presidente cubano Raúl Castro ha partecipato alla cerimonia religiosa di Hanuka –Festa delle Luci- nella sinagoga Shalom dell’Avana nel dicembre

Marichal, segretario del consiglio delle chiese di cuba, a Brennan, capo dell’ufficio affari cubani del governo usa: “gross non lo conosciamo, non è venuto per noi ”

[8] Andrea Rodríguez, «Judíos niegan haber colaborado con Alan Gross», The Associated Press, 2 dicembre 2010.[9] Jewish Telegraphic Agency, «Cuba to Seek 20- Year Prison Term for Alan Gross», 6 febbraio 2011.[10] Andrea Rodríguez, «EEUU pide Iglesias de Cuba interesarse por contratista preso»,

The Associated Press, 2 dicembre 2010.[11] Jeffrey Goldberg, «Castro: ‘No One Has Been Slandered More Than the Jews’», The Atlantic, 7 de diciembre de 2010. http://www.theatlantic.com/international/archive/2010/09/castro-no-one-has-been-slandered-more-than-tthe-jews/62566/ (sito consultato il 18 febbraio 2011).

[12] The Associated Press, «Raúl Castro Celebrates Hanukkah With Cuban Jews»; Juan O. Tamayo, «Raul Castro asiste a fiesta de Janucá en sinagoga de La Habana », El Nuevo Herald, 6 dicembre 2010. [13] Comunidad Hebrea de Cuba, «Quienes ayudan». http://www.chcuba.org/espanol/ayuda/quienes.htm (sito consultato il 18 febbraio 2011).[14] Arturo López-Levy, «Freeing Alan Gross: First Do No Harm», Agosto de 2010. http://www.thewashintonnote.com/

archives/2010/08freeing_alan_gr/ (sito consultato il 18 febbraio 2011).[15] Wayne S. Smith, «The Gross Case and the Inanity of U.S. Policy», Center for International Policy, marzo de 2011. http://ciponline.org/pressroom/articles/030411_Smith_Intelligence_Brief_Gross.htm (sito consultato il 18 febbraio 2011).[16] Paul Haven, «U.S. Officials Ask Cuba to Release Jailed American», The Associated Press, 19 febbraio 2010.

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documenti e testi

Il New York Times ricorda che Gross “è stato arrestato nel dicembre scorso durante un viaggio a Cuba nel quadro di un programma semiclandestino dell’Usaid, servizio di aiuti all’estero del Dipartimento di Stato destinato a minare il governo di Cuba”. Il quotidiano di New York sottolinea anche che “le autorità statunitensi hanno riconosciuto che il signor Gross era entrato a Cuba senza il visto in regola, e hanno dichiarato che distribuiva telefoni sa-tellitari a dissidenti religiosi”. (23)

Dal 1992 e dall’ entrata in funzione della Legge Torricelli, gli Stati Uniti ammettono apertamente che il loro obbiettivo rispetto a Cuba è “un cambia-mento di regime e che uno ei pilastri di questa politica consiste nell’organiz-zare, finanziare e attrezzare un’opposizione interna”. (24)

L’USAID, incaricata dall’amministrazione di questo piano, ammette di finanziare l’opposizione cubana nel quadro di questo programma. Secondo l’Agenzia, per l’anno fiscale 2009, la somma dell’aiuto destinato ai dissidenti cubani è arrivato a 15,62 milioni di dollari. In totale, dal 1996, sono stati impiegati 140 milioni di dollari per il programma destinato a far cadere il governo cubano. “La gran parte di questa somma è destinata a individui che stanno a Cuba. Il nostro obbiettivo è quello di aumentare la somma di appog-gio destinato ai cubani dell’isola”. (26)

Da un punto di vista giuridico, questa realtà colloca i dissidenti che ac-

statunitense aveva violato le leggi del paese. “Ha violato leg-gi cubane, la sovranità nazionale, ha commesso delitti che negli Stati Uniti sono molto duramente castigati”. (17)

Effettivamente, questo dipendente dell’USAID forniva at-trezzature tecnologiche altamente sofisticate. La distribuzione e l’uso di telefoni satellitari sono regolati a Cuba ed è proibito importarli senza autorizzazione. D’altra parte, l’Art. 11 della Legge 88 cubana stabilisce che: “Colui che, per la realizzazione dei fatti previsti in questa Legge, direttamente o mediante terzi, riceva, distribuisca o partecipi alla distribuzione di mezzi finan-

ziari, materiali o di altra indole, provenienti dal Governo degli Stati Uniti d’Ame-rica, dalle sue agenzie, dipendenze, rappresentanti, funzionari o entità private, incorre nella sanzione di privazione della libertà da tre a otto anni”. (18)

Questo rigore non è specifico della legislazione cubana. In effetti, la legge statunitense prevede sanzioni simili per questo tipo di delitti. La Legge di Registro di Agenti Stranieri (Foreing Agents Registration Act) punisce qual-siasi agente non registrato dalle autorità che “negli Stati Uniti solleciti, rac-colga, fornisca o spenda contributi, prestiti, denaro o altri oggetti di valore nel suo stesso interesse”, a una pena di cinque anni di prigione e una multa di 10.000 dollari” (19)

Anche la legislazione francese sanziona questo tipo di azione. Secondo l’Articolo 411-8 del Codice Penale, “il fatto di esercitare, per conto di una potenza straniera, di un’impresa o di un’organizzazione straniera o sotto il controllo straniero o dei suoi agenti, un’attività allo scopo di ottenere o for-nire dispositivi, informazioni, procedimenti, oggetti, documenti, dati infor-matizzati o archivi il cui uso, divulgazione o riunione abbiano lo scopo di attentare contro gli interessi fondamentali della nazione viene punito con dieci anni di carcere e 150.000 euro di multa”. (20)

Il 4 febbraio 2011, il Pubblico Ministero della Repubblica di Cuba ha accusato formalmente Alan Gross di “atti contro l’integrità e l’indipendenza della nazione”, e ha chiesto una pena di venti anni di carcere. Il 12 marzo 2011, Gross ha ricevuto la sentenza definitiva di quindici anni di carcere dopo il processo. (21) L’avvocato difensore, Peter J. Kahn, si è dispiaciuto del fatto che il suo cliente fosse “intrappolato nel mezzo di una lunga disputa politica fra Cuba e gli Stati Uniti”. (22)

gross è stato condanato a 15 anni per atti contro integrità e indipendenza della nazione. Per gli stessi reati si va in galera ovunque, anche negli stati uniti

[17] Andrea Rodríguez, «Contratista de EEUU violó soberanía de Cuba, dice alto dirigente», The Associated Press, 11 dicembre 2010.[18] Ley de protección de la independencia nacional y la economía de Cuba (LEY N?. 88), Artículo 11.[19]U.S. Code, Title 22, Chapter 11, Subchapter II, § 611, iii «Definitions», § 618, a, 1 «Violations; false statements and willful omissions».

[20] Code Pénal, Partie législative, Livre, Titre Ier, Chapitre I, Section 3, Article 411-8.[21] William Booth, «Cuba Seeks 20 Year Jail term for Detained American», The Associated Press, 4 febbraio 2011.[22] Paul Haven «Cuba Seeks 20-Year Jail term for Detained American», The Associated Press, 4 febbraio 2011.

[23] Ginger Thompson, «Wife of American Held in Cuba Pleads for His Release and Apologizes to Castro», The New York Times, 24 ottobre 2010.[24] Cuban Democracy Act, Titre XVII, Article 1705, 1992.[25] Along the Malecon, «Exclusive: Q & A with USAID», 25 de octubre de 2010. http://

alongthemalecon.blogspot.com/2010/10/exclusive-q-with-usaid.html (sito consultato il 26 dottobre 2010); Tracey Eaton, «U.S. government aid to Cuba is the spotlight as contractor Alan Gross marks one year in a Cuban prison», El Nuevo Herald, 3 dicembre 2010.[26] Ibid.

Salim Lamrani e Wayne SmithSe un contractor della Cia potrebbe, alla fine, restituire la dovuta libertà ai cinque cubani

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cubane. Sono stati consegnati al FBI quasi 42 rapporti. In quel momento le autorità cubane si aspettavano che gli Stati Uniti agissero contro i terroristi, ma non successe nulla di tutto questo. Poco dopo l’ FBI ha arrestato i cinque agenti cubani, cioè hanno arrestato coloro che avevano fornito le prove inve-ce di arrestare i terroristi. I Cinque Cubani sono stati “processati” e dichiara-ti colpevoli. Il processo è stato scandaloso. La Pubblica Accusa non aveva prove, per questa ragione ha accusato i Cinque di “cospirazione” per com-mettere atti illegali (accusa che non richiede prove, basta convincere la giuria). E per di più sono stati processati a Miami, dove il sentimento anticastrista è talmente esasperato (vedi il caso di Elián González) che è impossibile riunire una giuria imparziale. Gli avvocati della difesa hanno sollecitato un trasferi-mento del processo ma, contro ogni previsione, è stato negato.

Il caso di Gerardo Hernández, accusato di “cospirazione”, di omicidio –in relazione alla distruzione da parte dell’esercito cubano di due aerei dell’or-ganizzazione anticastrista Hermanos al Rescate, nel febbraio del 1996- e con-dannato a due ergastoli più 15 anni, è senza alcun dubbio il peggiore di tutti. Il fatto che non sia stato possibile presentare nessuna prova che dimostrasse la sua implicazione non è stato giudicato importante dalla giuria. Gerardo è ancora dietro le sbarre, a volte in isolamento, e dopo tanti anni ancora non è stato autorizzato a vedere sua moglie neanche una sola volta.

Questa ingiustizia contraddice la fama degli Stati Uniti di essere al servi-zio della legge. Bisogna trovare una soluzione. Mantenere in prigione queste persone dopo tanti anni, senza nessuna prova che li accusi salvo il fatto di essere degli agenti non registrati di una potenza straniera, è degno della Guerra Fredda (una pratica ingiustificabile perfino in quegli anni).

Adesso, a più di venti anni dalla fine della Guerra Fredda, quando potreb-be essere un’opportunità senza precedenti per avviare dei nuovi rapporti fra Cuba e gli Stati Uniti, questa detenzione è moralmente ingiustificabile e singolarmente controproducente. E’ ormai ora di dare avvio a un processo di revisione di tutti questi casi e permettere a queste persone di riunirsi con le loro famiglie. Uno di loro, René González, ora è stato liberato avendo sconta-to la sua pena. Deve ancora scontare una condanna a tre anni di libertà con-dizionata. Sembra incredibile, ma non è stato autorizzato il suo ritorno a Cuba per incontrare sua moglie che non vede da più di dieci anni. Permetter-gli di tornare a Cuba dovrebbe essere la prima decisione da prendere in questo processo di riconciliazione. Se gli Stati Uniti decidono di agire con rispetto verso i Cinque Cubani, naturalmente anche Cuba dovrà liberare Alan Gross affinché possa ritornare in famiglia.

documenti e testi

cettano gli emolumenti offerti dalla USAID in una situazione di agenti al servizio di una potenza straniera, il che costituisce una grave violazione del codice penale a Cuba. L’Agenzia è cosciente di questa realtà e si limita a ricordare che “nessuno è obbligato a accettare o formare parte dei programmi del governo degli Stati Uniti”. (27)

Judy Gross, la moglie di Alan Gross, è stata autorizzata ad andare a trovarlo in prigione per la prima volta a luglio 2010. (28) Ha approfittato dell’occasione per mandare un messaggio al presidente cubano Raúl Castro. Ha mostrato il

suo pentimento e ha chiesto scusa per le azioni di suo marito. “Riconosco oggi che il governo cubano non apprezza il tipo di lavoro che Alan faceva a Cuba. La sua intenzione non è mai stata quella di danneggiare il vostro go-verno”. (29)

Judy Gross accusa il Dipartimento di Stato di non aver spiegato a suo marito il fatto che le sue attività erano illegali a Cuba. “Se Alan avesse saputo che a Cuba gli poteva succedere qualcosa, non avrebbe fatto quello che ha fatto. Penso che non sia stato informato chiaramente dei rischi”. (30)

Come venir fuori dalla crisi?Ovviamente, Gross ha violato la legge. Non ci sono dubbi in proposito.

D’altra parte non sembra che abbia prodotto un vero danno e la sua carcera-zione non beneficia per niente Cuba. Invece, la sua liberazione potrebbe migliorare sensibilmente le relazioni fra Cuba e gli Stati Uniti, soprattutto se Gross chiedesse scusa per il suo operato.

La faccenda Gross-USAID sembra vincolata alla sorte dei cinque agenti cubani condannati a pene severe di privazione di libertà negli Stati Uniti e in carcere dal settembre 1998. Proprio come gli Stati Uniti che hanno affermato che non ci sarebbe stato nessun cambiamento sostanziale finché non si fosse risolto il caso Grass, anche le autorità cubane sembrano non disponibili a nessun riavvicinamento finché i Cinque Cubani restano in prigione. Dopo una serie di attentati con bombe contro i centri turistici dell’Avana, il gover-no cubano ha inviato i cinque agenti affinché si infiltrassero nei gruppi ter-roristici anticastristi della Florida e raccogliessero informazioni sui loro piani. L’idea era di consegnare poi queste informazioni al FBI in modo da consentirgli di neutralizzare i gruppi terroristici. A giugno del 1998 si è svol-to all’Avana un incontro di vari giorni fra rappresentanti del FBI e le autorità

20 anni dopo la fine della guerra Fredda questa storia potrebbe offrire l’occasione per avviare nuovi rapporti fra usa e cuba

[27] Ibid.[28] Jessica Gresko, «U.S. Man Jailed in Cuba Can Call Home More Often», The Associated Press, 26 ottobre 2010.[29] Anthony Boadle, «Exclusive: American Held in Cuba Expresses Regret to Raul Castro», op. cit.; Jeff Frank, «Factbox: Jailed U.S.

Contractor, Sour U.S.-Cuba Relations», Reuters, 24 ottobre 2010.[30]Anthony Boadle, «Exclusive: American Held in Cuba Expresses Regret to Raul Castro », op. cit., EFE, «EEUU no negocia liberación de Alan Gross», 8 febbraio 2011.

31] Agence France Presse, «Contratista de EE UU en Cuba sugiere intercambio de espías», 8 novembre 2011.

Salim Lamrani e Wayne SmithSe un contractor della Cia potrebbe, alla fine, restituire la dovuta libertà ai cinque cubani

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documenti e testiLatinoamerica

ara de piña”, faccia di ananas, come era chiamato in Panama il generale Ma-nuel Noriega, nel gennaio del 1990, veniva stanato dal suo rifugio nella Nunziatura apostolica della capitale. La sua resa avveniva dopo un lungo assedio da cui usciva assai malridotto a causa del supplizio dei decibel con cui gli assedianti statunitensi avevano cercato di far capitolare un impaurito e ormai sconfitto Presidente della Repubblica del Panama, reo di aver con-trapposto brogli elettorali a brogli elettorali, ma soprattutto di aver osato ribellarsi a Washington dopo essere stato per trenta anni nel libro paga della CIA.

Inghiottito nell’anonimato di un carcere nella Florida –che molti indizi suggeriscono come più che confortevole- Noriega fu giudicato e condannato a venti anni per traffico di droga e lavaggio di denaro sporco, ma fu consi-derato come prigioniero di guerra anche se non era stato lui a scatenare un conflitto contro gli Stati Uniti, bensì gli Stati Uniti a invadere e bombardare il suo paese dopo aver chiuso gli aeroporti e tenuto fuori i giornalisti.

Gli Stati Uniti di Bush padre avevano deciso di intervenire dopo che No-riega aveva brutalmente annullato delle elezioni più che manipolate da tut-ti i contendenti, con l’operazione intitolata “Giusta (?) Causa”. Così avevano inviato la 82esima Divisione Aerotrasportata, formata da addestratissimi

“Cdi alessandra riccio

cara de Piña è tornato a casa

PAnAMAmarines che avevano messo il paese a ferro e a fuoco. Tutto quel che si è saputo è che il popo-lare quartiere di El Chorrillo, duramente col-pito da proiettili al fosforo bianco, ha dovuto lamentare quattromila morti e che il paese fu messo in ginocchio in poche ore, mentre En-dara, una grassa marionetta al servizio degli yankee, giurava come Presidente in una base panamense degli USA. Una giovane cineasta nordamericana ci ha lasciato l’unica docu-mentazione filmata di quegli avvenimenti in un bel documentario che vinse anche un Oscar, ma il tutto è rimasto nei limiti di un esercizio di stile, a riprova di quanto sia intoc-cabile l’impunità del potere della nazione più forte del mondo che con una mano premia e con l’altra insabbia.

Spogliato della sua divisa di generale e tra-dotto con una tuta della DEA a Miami, Norie-

ga pur avendo finito di scontare da due anni la sua condanna, non voleva lasciare quel confortevole carcere per non essere estradato in Francia, la cui giustizia lo reclamava per poter eseguire una sentenza che lo condannava a dieci anni per lavaggio di denaro sporco, frutto del traffico di cocaina inve-stito nell’acquisto, in quel paese, di immobili di lusso.

Non potendo essere rimandato a Panama,che pure lo reclamava, Noriega non voleva in alcun modo essere estradato in Francia; eppure, negli anni in cui era al potere, esibiva con grande orgoglio e presunzione il nastrino della Legion d’Onore di cui era stato insignito dal Governo del Presidente Mitterand. I suoi avvocati sostenevano che, in quanto prigioniero di guer-ra, Noriega dovesse essere rimandato in Panama, una tesi che il Tribunale Supremo degli Stati Uniti non intendeva accogliere sostenendo a sua volta che la Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra non poteva essere applicato a “Faccia d’ananas”.

È toccato a Hillary Clinton firmare l’autorizzazione all’estradizione, ma qualcuno ci dovrebbe pur spiegare perché la Giustizia statunitense è stata così ben disposta verso l’estradizione di Noriega in Francia mentre invece si oppone fieramente all’estradizione richiesta insistentemente dal Venezuela, di Posada Carriles, reo confesso del sabotaggio dell’aereo delle Bahamas in cui morirono più di settanta persone, Un qual-che funzionario usamericano aveva, a suo tempo, sostenuto che la giustizia venezuelana non offriva garanzie per il pri-gioniero, ma dopo l’ 11 settembre e le tante, scandalose vio-

dopo vent’anni di carcere negli usa, che invasero Panama per catturarlo, noriega è stato estradato nel suo paese

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documenti e testi

Alessandra Riccio

combattuto per ottenere la chiusura della famigerata Escuela de las Américas, [la “fabbrica” dei peggiori militari assassini del continente] e l’allontana-mento del Comando Sud dalla Zona del Canale. Abile nel doppio e triplo gio-co, aveva creduto di poter ingannare il temibile vicino. Per far questo aveva intrapreso alcune iniziative di carattere sociale: lo sfortunato quartiere di El Chorrillo, poi distrutto dai bombardamenti Usa, mi venne mostrato, in quei giorni di campagna elettorale, come un esempio di sviluppo armonico di settori della società meno fortunati, e in verità lo era. Vi si respirava anche la volontà popolare di dar vita a una solidarietà di quartiere, l’aspirazione a vivere in condizioni sanitarie meno precarie e di offrire ai piccoli abitanti il conforto della scuola.

Noriega era un personaggio pieno di contraddizioni. Il suo aspetto fisico robusto e tozzo contrastava con la sua spiritualità: si dichiarava buddista e non trascurava durante il giorno, i suoi momenti di meditazione. I suoi discorsi erano pieni di patriottismo e non erano pochi gli intellettuali e gli uomini di sinistra che avevano pensato che un cambiamento fosse possibile seguendo quell’uomo forte, che si dimostrava deciso e senza paura.

Cosa abbia pensato, come abbia vissuto i venti anni del carcere dorato di Miami, non è dato sapere. Certo, prudentemente, durante il processo che lo ha condannato negli Stati Uniti, si è ben guardato dal denunciare le passate connivenze con la Cia e il lavoro sporco che ha diligentemente eseguito per conto di quell’Agenzia. Adesso, il suo silenzio sembra essere stato ripagato: per quanto anziano e malandato, Noriega gode ancora di un formidabile collegio di difesa, molte amicizie che contano e, forse, la volontà di riscatta-re quell’umiliazione terribile, quando, dopo giorni e giorni di assedio nella Nunziatura apostolica di Città del Panama, circondata da blindati e militari, senza la possibilità di rifornirsi di cibo e acqua, con la luce elettrica tagliata e una musica a sonorità insopportabili per l’orecchio umano, ha dovuto uscir fuori e consegnarsi nelle mani del nemico.

Per arrestare un solo uomo, l’Amministrazione di Bush padre non ha esitato a invadere un piccolo paese, metterlo a ferro e a fuoco, usare armi micidiali come i proiettili al fosforo bianco, senza un battito di ciglia, senza un rimorso, malgrado le oltre mille vitime.

La storia recente non ci racconta che quel piccolo paese, ritagliato d’au-torità dal più ampio spazio della Colombia per dare avvio alla straordinaria impresa del taglio del Canale, adesso, dopo più di venti anni dalla fine di un governo autoritario e ambiguo –come fu certamente la Presidenza di Noriega- sia oggi uno stato davvero democratico in cui impera la legali-tà. Come negli anni lontani della fine del secolo XIX, questo piccolo paese continua ad essere passaggio obbligato per il narcotraffico, il contabbando e territorio privilegiato per la violazione di leggi internazionali.

Panama: Cara de piña è tornato a casa

lazioni dei diritti dei prigionieri da parte degli Stati Uniti, questa affermazione non ha più nessuna credibilità.

Adesso, spuntato appena il 2012, il settantasettenne e malandato “Cara de piña”, è tornato finalmente in patria dove ha ancora seguaci e, soprattutto, numerosi amici, parenti e sodali in posti di potere. Il Presidente Martinel-li, amico del nostro Berlusconi, sembra molto ben disposto verso l’ex generale, recluso adesso in un carcere dall’ironico nome di “El Renacer”, la rinascita. Noriega, infatti, ha otte-

nuto quello che fin dal momento del suo arresto nella Nunziatura di Città di Panama, aveva richiesto quando si era opposto alla sua estradizione.

Come e perché questo narcotrafficante socio di Pablo Escobar, del fami-gerato cartel di Medellín, agente della Cia per tanti anni, abbia meritato un trattamento, se non di favore, certamente infinitamente migliore di quello che gli Stati Uniti hanno riservato ad altri dittatori o personaggi a libro paga della Cia in momenti recenti, resta un mistero. E resta anche un mistero la ragione per cui Noriega abbia sempre insistito per tornare in patria dove è stato condannato a sessanta anni non per traffico di droga, non per lavaggio di denaro, ma per l’assassinio del medico italopanamense Spatafora a cui fu mozzato il capo, del maggiore Moisés Giroldi, fucilato, e di altri nove oppositori.

Avevo seguito quella campagna elettorale del 1989 che si è poi rivelata fatale per il Panama, e non posso dimenticare il livello di violenza repressa di quei giorni. Una domenica mattina, all’uscita dalla messa, alcune elegan-tissime e belle signore panamensi, mi avevano ospitato nella loro lussuosa macchina e mi avevano mostrato le armi che custodivano nel cruscotto: erano disposte a tutto pur di liberarsi di Noriega, il quale aveva commesso –fra gli altri- l’errore di scontrarsi direttamente contro le indicazioni, ma meglio sarebbe dire gli ordini, degli Stati Uniti, abituati a considerare il Panama e il suo Canale più che mai cortile di casa. Era davvero impressio-nante vedere la povertà e la precarietà di quel paese e la cura meticolosa dedicata ai prati verdissimi e agli edifici di un bianco impeccabile di tutte le costruzioni della Zona del Canale, ancora nelle mani degli Stati Uniti. Il governo di Washington, come è sua abitudine, manteneva separate le sue enclaves in paesi altri con recinzioni ben custodite all’interno delle quali i cittadini nordamericani potevano godere di tutti i più moderni conforts della loro civiltà di progresso.

Noriega, dopo la morte in un incidente aereo del Presidente Torrijos che nel 1977 era riuscito a firmare con Jimmy Carter il trattato che imponeva la restituzione del Canale al Panama nel 1999, sembrava aver riscoperto un patriottismo dimenticato nei lunghissimi decenni di appiattimento alle politiche degli Stati Uniti.

Convinto seguace delle scelte di Torrijos, il controverso generale aveva

Forse è stato premiato per il silenzio tenuto sui suoi traffici con la cia, in un paese che era ed è terra di ogni tipo di violazione

l’estradizione resta un mistero, come la sua voglia di tornare in patria, dove dovrebbe scontare60 anni di carcere

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Cultu

ra e

cul

ture

cultura e culturelatinoamerica

uando ci lascia un testimone, un narratore di un aspetto controverso del mondo in cui viviamo come è stato Saverio Tutino nel caso di Cuba, è normale

che molti si approprino delle sue analisi e purtroppo, spesso, le trasformino nel sostegno delle proprie tesi e dei propri pregiu-dizi, forzandone il senso e la storia. Specie se si parla della Ri-voluzione cubana, che alla fine, dopo cinquant’anni, è arrivata a smentire tutte le previsioni negative sulla sua sopravvivenza, annunciate via via da tanti presunti esperti e censori e anche da alcuni pentiti, incapaci di perdonarsi di aver creduto in un mondo socialista.

Tutino, partigiano e comunista, non fece questo errore, anzi, fin da quando arrivò a l’Avana come corrispondente de l’Unità intuì, pur fra diverse contraddizioni, la portata storica della rivoluzione, che per un certo periodo raccontò in diretta, e la sua importanza come laboratorio di idee, non solo nel con-tinente latinoamericano, ma anche per tanti diseredati paesi del Sud del mondo.

Certo, tutto questo ha avuto un prezzo, e molti errori sono stati commessi dalla rivoluzione ma il fatto che, per esempio, Cuba e alcune nazioni latinoamericane che alla sua resistenza si sono ispirate, oggi soffrano meno il disastro economico del mondo, perché meno dipendenti dai giochi sporchi delle ban-che nordamericane ed europee e dal mercato condizionato dal-la finanza speculativa, non può non far pensare che uno come Saverio Tutino quando raccontava di questa incredibile isola che cambiava per una rivoluzione scandita dalla cultura, non sbagliava impostazione e aggettivi dei suoi articoli.

Questa prosa però, infastidiva sia il mondo conservatore che quella sinistra italiana [e poi anche francese] incapaci di

Q

Partigiano, comunista, corrispondente dell’Unità da Cuba durante e dopo la Rivoluzione, ci ha lasciato una testimonianza rigorosa di avvenimenti scomodi. Innamorato dell’isola quanto critico leale delle sue chiusure

di Gianni Minà

L’aMore critico di tutino verso cuba

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cultura e culture

146 I latinoamerica • 4 • 2011latinoamerica • 4 • 2011 I 147

Gianni Minà

fine a quegli anni bui, vissuti come in un castello assediato.Tutino non risparmiò la sua critica dura, ma si guardò bene dal genera-

lizzare e criminalizzare Cuba impedendo, specie a molti ex comunisti penti-ti di casa nostra, di mal intendere le sue parole e speculare sulle sue testimo-nianze sulla crisi di un paese sotto embargo e costantemente messo con le spalle al muro dall’amministrazione Reagan, che usava spregiudicatamente il tema dei diritti umani mentre favoriva l’eversione dei gruppi terroristi della Florida contro l’isola.

Così Tutino si trovò fra due fuochi, fra chi non capiva la sua passione e il suo rispetto per Cuba e chi, i cosiddetti riformisti, voleva da lui una presa di distanza più netta dal marxismo caraibico di Fidel Castro o addirittura insegnare ai cubani come si fa una rivoluzione.

Fu in quell’occasione, all’inizio degli anni ’80, che Enrico Berlinguer volò a l’Avana per cercare di riannodare un dialogo fra Pci e che, stranamen-te, non era mai davvero cominciato e non era mai migliorato. Qualcuno a l’Avana cercò di spiegare alla delegazione italiana: “Noi qui la rivoluzione l’abbiamo fatta, ormai da più di vent’anni, e le leggi sociali e culturali che giustificano la scelta progressista di un paese le abbiamo fatte. E voi?”. È abbastanza singolare che trent’anni dopo Cuba, pur ammaccata, sia ancora lì, con la sua retorica e con i suoi errori ma anche con le sue indiscutibili conquiste sociali, mentre è la sinistra italiana che non c’è più e anche, salvo che in Germania, la sinistra europea.

Tutino, nel frattempo, aveva collaborato con Repubblica e poi aveva dato corpo a un’intuizione lungimirante, quella di dare attenzione e valorizzare, per capire i tempi e le trasformazioni che vivevamo, l’esercizio di molte persone di tenere un diario, intimo o di tutti, ma che fosse capace di rivela-re la sincerità di un paese e la voglia di raccontare gli accadimenti comuni, quello che i media non erano più capaci di fare. Aveva fondato a Pieve Santo Stefano nella val Tiberina toscana, l’Archivio diaristico nazionale, che ora, dopo vent’anni, raccoglie ormai quasi 10mila scritti di persone che han-no aperto il loro cuore [“O il loro fegato”, come disse una volta Saverio commentando lo sfogo bellissimo e durissimo di un emigrante]. Fu in quel frangente che mi volle al suo fianco per presentare le prime edizioni del premio legato all’Archivio, chiedendomi di fare le interviste pubbliche con

i finalisti dei diari. Ormai, insieme all’affettuosa compagna della seconda

parte della sua vita, l’affermata scultrice argentina Gloria Argeles, Tutino era andato a vivere nel vicino borgo medie-vale di Anghiari perché, deluso dai risultati delle ormai ste-rili battaglie giornalistiche e politiche, trovava più consono alla sua coerenza trasformare quel luogo nella “Libera uni-versità dell’autobiografia”.

Qualche anno dopo, nel 1986, Saverio mi fece l’onore di

L’amore critico di Tutino verso Cuba

accettare che un paese dei Caraibi dettasse la linea, con il suo esempio e le sue idee, diventando, in alcuni passaggi, il simbolo della lotta anticapitalista e per il riscatto di milioni di persone.

Saverio Tutino, quando nacque il movimento dei pae-si non allineati, la cosiddetta “terza via” che si proponeva come mediatrice fra capitalismo e comunismo e di cui Cuba sembrava poter diventare leader, sognò per esempio una netta scelta in questo senso da parte della Rivoluzione, che

però non trovò sbocco e seguito a causa della Guerra fredda e dei bisogni vitali di Cuba, che fu praticamente costretta a schiacciarsi sulle scelte poli-tiche dell’Unione Sovietica.

Questo innamoramento per gli ideali di lotta cubani non piacque però ai dirigenti del Pci di allora, che trovavano gli articoli di Tutino troppo ripiega-ti sulle scelte della Rivoluzione. Cuba, infatti, in un continente annientato poco più tardi dal Plan Condor [la feroce repressione messa in atto dalle dittature militari con la benedizione e il coordinamento di Nixon e Kissin-ger] aveva scelto di appoggiare tutti i movimenti di liberazione dell’America Latina e perfino, negli anni 80, di paesi africani come l’Angola o la Namibia, mettendosi di traverso alle politiche di spartizione del mondo sancite nel febbraio del 1967 a Gladsboro, Virgina, nell’incontro fra il presidente norda-mericano Johnson e il primo ministro sovietico Kossighin. La dottrina delle “aree di influenza” stabiliva che l’Asia diventasse territorio di pertinenza dell’Unione Sovietica e l’America Latina degli Stati Uniti: fu la logica che condannò alla solitudine e alla sconfitta il tentativo di Che Guevara di libe-rare l’America Latina partendo dal suo centro, dalla Bolivia, per l’improvvi-so rifiuto del segretario del partito comunista boliviano Mario Monje che, ubbidiente agli ordini di Mosca, negò dopo averlo promesso, l’appoggio dei militanti locali, tanto nella fase organizzativa a La Paz quanto nella lotta armata nella selva, da dove ormai il Che non poteva più tirarsi fuori.

Dieci anni dopo Cuba, assediata dagli Stati uniti con l’embargo, le cam-pagne di discredito montate dalle agenzie di propaganda della Cia e perfino con gli attentati terroristici organizzati in Florida e messi in atto nell’isola, cominciò a chiudersi e a sospettare di tutto, condizionata anche dall’influen-za sovietica. Fu in quella stagione che Saverio Tutino, pur comprendendo la fatica della Rivoluzione per continuare a esistere, non risparmiò il suo dissenso e la sua critica ai suoi vecchi amici cubani.

Fu doloroso per lui, come si capisce anche dalla lettura del suo libro [1984] e ancor più della sua autobiografia [1995] vedere affievolirsi la spinta innovatrice e il carattere libertario della rivoluzione cubana, con le censure letterarie e politiche del cosiddetto “quinquennio grigio” [1971/1976] che videro prevalere i dogmi e le rigidità della società sovietizzata, terminate solo con l’arrivo al ministero della cultura di Armando Hart, capace di porre

Fondò a Pieve santo stefano l’archivio diaristico nazionale. e mi aiutò a trovare le domande giuste per l’intervista a Fidel

sognò cuba leader dei non allineati, invece l’isola si schiacciò sull’urss. e allora non le risparmiò i suoi rimproveri

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cultura e culture

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Gianni Minà

Qualche tempo dopo, la diversità d’interpretazione degli accadimenti di allora nell’isola, che sarebbero culminati con il processo al generale Ochoa, un protagonista della guerra per la liberazione dell’Angola e della Namibia poi condannato e fucilato per narcotraffico, suggerì ad alcuni “riformisti” l’idea di organizzare in Umbria un dibattito, prevedendo scintille, fra Save-rio e me. Le cose andarono diversamente.

La sommarietà con cui alcuni in sala tentavano di leggere la tormentata vicenda cubana, dimenticando perfino il lungo e infame assedio degli Stati Uniti, fece uscire Tutino fuori dai gangheri. Così invece di duellare dialet-ticamente con me, mandò letteralmente a farsi fottere quella parte preve-

nuta dell’uditorio, si alzò e se ne andò, lasciandomi solo a rispondere alle domande.

Dopo la sua decisione di ritirarsi ad Anghiari e di occu-parsi solo della bellissima avventura legata all’Archivio dei diari e al Premio Pieve, ci siamo visti meno, ma so che leg-geva la nostra rivista, perché l’America Latina e Cuba, dove era nata una delle sue figlie, erano per lui una passione as-soluta, specie in questi ultimi tempi, con il vento di riscatto che spira in quel continente.

L’amore critico di Tutino verso Cuba

aiutarmi a metter giù tutte le domande possibili che un giornalista onesto avreb-be voluto avere a disposizione il giorno che avesse potuto avere davanti Fidel Ca-stro, all’epoca oggetto di duemila richie-ste di intervista l’anno.

La mia amicizia con García Marquez e Jorge Amado, presidente nel 1986 della giuria del Festival del Cinema a l’Avana, mi aveva infatti offerto questa possibili-tà e io, per non essere inadeguato, avevo chiesto la collaborazione del più grande esperto della Rivoluzione cubana del mondo occidentale. Ci trovammo in un pomeriggio festivo nel suo studio a Tra-stevere e Saverio mi spinse a non rispar-miare domande, anche se io ero convin-to che tutto si sarebbe risolto in un’ora [il tempo di porre sette o otto quesiti], il tempo che concede normalmente un capo di Stato.

Ebbe ragione Saverio, perché l’inter-vista filmata con Fidel Castro durò 16 ore, con una significativa parte del tempo dedicata alla sua amicizia con Ernesto Che Guevara. Un racconto che non aveva mai fatto e che non avrebbe mai più ripetuto.

Quell’intervista, trasferita anche in un libro con un saggio di 16 pagine di Gabriel García Màrquez come prefazione, ebbe una risonanza internazio-nale, ma forse più per gelosia giornalistica che per le inevitabili contrappo-sizioni ideologiche.

Valerio Riva, che anni prima aveva accompagnato Giangiacomo Feltri-nelli a l’Avana nel tentativo, senza esito, di far raccontare a Fidel Castro la storia della Rivoluzione, scortò al tribunale di Trento Carlos Franqui, ex direttore del quotidiano cubano Revolución che un giorno aveva scelto di ri-manere in Europa e che mi aveva querelato per alcune affermazioni del cubano, riportate nel libro e da lui ritenute offensive.

Vinsi la causa, addirittura con le lodi del giudice, riportate nel dispositi-vo di sentenza, per la mia onestà intellettuale e per la mia rigorosa ricerca delle prove. A reperire quelle prove mi aveva aiutato Saverio Tutino, che pure già in quegli anni non nascondeva, nei suoi scritti, la sua critica alle chiusure politiche della Rivoluzione.

Saverio aveva anche molto apprezzato l’incisività con cui avevo affron-tato la dialettica di Fidel. “Devi solo ignorare l’invidia dei colleghi” mi disse ridendo

Quel dibattito in cui, invece di accapigliarsi con me, saverio mandò a farsi fottere chi si aspettava da lui l’esecrazione di cuba

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opera letteraria dello scrittore brasiliano Jorge Amado (1912-2001) ha spalancato la finestra del Brasile sul mondo affascinando milioni di lettori. Grazie a lui Bahia è divenuta scenario poetico e terra di eterni personaggi nell’immaginario popolare. Storie di vecchi marinai, pastori della notte, ja-gunços, bambini di strada, prostitute, fazendeiros, coroneis e lotte alla fine del mondo, nella Terra del Cacao.

Amado ha mostrato il volto del Brasile e il suo contradditorio sistema sociale, ridando il giusto valore a culture negate, come quella degli afro-di-scendenti, parte essenziale e ricca della cultura brasiliana. Il suo obiettivo era scrivere per un grande numero di lettori allo scopo di liberare la lettera-tura dal dominio della élite al potere. Per questo esaltò le radici della tradi-zione popolare nordestina, la ricchezza molteplice della cultura popolare baiana e utilizzò l’estetica del realismo di denuncia, con profondi risvolti socio-politici.

“Ho appreso tutto quello che so dal popolo. Mi sono alimentato di esso. I difetti presenti nella mia opera sono miei, ma le qualità sono tutte del po-polo perché se ho posseduto una virtù è stata quella di circondarmi del po-polo, di unirmi ad esso e integrarmi nella sua realtà. Chi non vuole ascolta-re può anche andare via, le mie parole sono semplici e senza pretese” ( dal libro “Pastori della Notte”). Tra il 1931 e il 2001 pubblicò quarantacinque libri, racconti, poesie, testi teatrali e musicali tradotti in 50 paesi. Fu depu-tato federale del Pcb nel breve governo democratico tra il 1945 e il 1948, durante il quale propose un articolo fondamentale sulla libertà di religione

di antonella rita roscilli

L’Giornalista, brasilianista

cultura e culturelatinoamerica

iL centenario deLLa nascita di JorGe aMado e i FesteGGiaMenti in brasiLe

Vecchi marinai, pastori della notte, bambini di strada e prostitute, fazendeiros e colonnelli: il mondo dello scrittore che ha raccontato il popolo brasiliano esplode in tutto il paese, ma soprattutto nella “sua“ Bahia

che divenne legge nella Costituzione del 1946. Nel lavoro e nella vita ebbe accanto per 56 anni una persona speciale: Zélia Gattai (1916-2008), scrittrice e memorialista, figlia e nipote di anarchici italiani, emigrati in Brasile alla fine del XIX secolo. Con lei visse a Salvador in una casa ormai storica, a Rua Alagoinhas n. 33. nel quartiere di Rio Vermelho che, si spera, venga presto aperta al pubblico come Casa-Museo. Amado si fece portatore della cultura della mistura, della cultura afro che l’élite brasiliana in generale ancora oggi continua a discriminare. Utilizzò frasi provocatorie e piene di verità dicendo che in ogni brasiliano bianco scorre sangue africano nelle vene. Subì il carcere varie volte e l’amaro esilio in Europa dal 1948 al 1952.

Per ricordare e celebrare il grande “figlio” di Bahia, la Fundação Casa de Jorge Amado di Salvador (Bahia) il giorno 10 agosto 2011 ha aperto ufficial-mente l’Anno del Centenario della sua nascita. Le commemorazioni si pro-trarranno fino al 10 agosto 2012. Sarà festeggiato con eventi, pubblicazioni e film in Brasile e in altri paesi come l’Italia, la Francia e il Libano. Tutto parlerà di lui e omaggerà il grande essere umano e lo scrittore che rimane vivo nella grande Casa Azzurra del Pelourinho, giunta quest’anno ai suoi venticinque anni di vita.

Oggi la Fundação Casa de Jorge Amado costituisce il cuore pulsante dell’opera di Jorge e Zélia e mantiene 250mila documenti per promuoverne la memoria. Incentiva dibattiti e stimola la letteratura baiana. Nel corso del 2011 è stata completamente ristrutturata: è disponibile una visita guidata dei due piani dove si può ammirare l’esposizione su Jorge e Zélia; i testi che

Jorge amado con la moglie Zelia Gattai

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Antonella Rita Roscilli

do, magistralmente interpretati dall’attore Dody Só, ripreso nei luoghi di Salvador tipici dell’opera amadiana. Inoltre, vengono veicolate negli inter-valli commerciali musiche del tema Amado Jorge, appositamente create per l’occasione. Durante la Festa Letteraria della città di Cachoeira, è stata inau-gurata la Casa da Rede con letture e mostra fotografica sull’universo amadia-no di Siqueira con testi del professore e poeta Jorge Portugal, personaggio molto noto in Brasile.

La vita di Amado è il tema scelto per le sfilate carnevalesche a Salvador e nella Escola di Samba Imperatriz Leopoldinense di Rio de Janeiro. Sono nati cordeis (ballate tradizionali nordestine), incontri nelle biblioteche, concerti che portano il suo nome, spettacoli teatrali. Sugli schermi di Rede Globo andrà in onda una nuova versione della novela “Gabriela, garofano e cannel-la”.

La stessa biblioteca di Rede Bahia nel mese di ottobre 2011 è stata ribattez-zata Praça de Leitura Jorge Amado, alla presenza di Myriam Fraga, stimata po-etessa che, per volere dello stesso Amado, dirige amorevolmente la Fonda-zione dal 1986. “È una Casa in cui tutto accade e tutti si incontrano” afferma Myriam, “attenta a tutte le manifestazioni culturali, aperta ai venti di con-vivenza, incrocio di destini diversi, confluenza di contrari che si uniscono nella Bahia mistica e profana”. All’entrata troviamo una scultura di Carybé con le figure di un indio, un negro e un portoghese, simbolo delle tre origi-ni brasiliane, ma soprattutto una frase: se for de paz pode entrar (Se vieni in pace puoi entrare) di James Amado, fratello di Jorge. Esprime il desiderio di eleggere questo spazio come un locale che previlegia il dialogo fra i contrari, alla ricerca dell’armonia e della fraternità, contro ogni forma di discrimina-zione.

All’entrata ci accoglie la statua di Exú, opera del grande artista Tati Mo-reno completamente restaurata e cara a Jorge perché “Exú è il guardiano di tutti i cammini di Salvador, il messaggero degli Orixás, è il No dove esiste solo il Si. Exú spezza i cammini del falso e del perverso” (da Bahia de Todos os Santos: guia de ruas e misterios di J.A.). Presidenti, ministri, governatori, artisti, studenti e turisti vi sono entrati, attratti dal carisma del Pelourinho e desi-derosi di conoscere il mistero di questo luogo, frontiera di un mondo ricre-ato dal potere della scrittura, popolato da esseri reali e di finzione, ombelico

della Bahia di Amado che trascende i limiti del reale per in-scriversi nella mappa delle città leggendarie. Bahia e il mon-do festeggeranno nel modo più completo il Centenario di colui che ha vissuto la vita nella continua lotta per i diritti sociali e la valorizzazione della sua Terra: “...Qui tutta la cultura nasce dal popolo e di esso si alimentano artisti e scrittori. Il legame con il popolo e con i suoi problemi è il simbolo fondamentale della cultura baiana, cellula madre che influenza tutta la cultura brasiliana”. (Jorge Amado).

Il centenario della nascita di Jorge Amado e i festeggiamenti in Brasile

compongono la mostra sono tradotti in inglese e francese; vi sono pannelli touchscreen; è stata rinnovata la sala del Caffè-Teatro Zélia Gattai. Alla cerimonia di inaugurazione del Centenario erano presenti, tra gli altri, la famiglia Amado e Antonio Albino Rubim, Segretario della cultura dello Stato di Bahia (Secult), promotore degli eventi. Il presidente Ar-thur Guimarães Sampaio e la direttrice esecutiva Myriam Fraga hanno ricordato che la Fondazione “è stata sempre fortemente sostenuta da Zélia Gattai, che l’ha difesa anche

nei momenti di difficoltà”. L’agenda delle celebrazioni è ricca e già in corso : piéces teatrali, semina-

ri, la grande esposizione fotografica “100x100-Carybé ilustra Jorge Amado”, dedicata a Jorge e al suo grande amico pittore Carybé, le cui immagini po-polano tanti suoi libri. Si è tenuta la conferenza “Um Mar Vivo: Como Jorge è Amado em Africa” con lo scrittore mozambicano Mia Couto. Il I Coloquio de Literatura Brasileira, tenutosi all’Accademia di lettere di Bahia, è stato inte-ramente dedicato all’opera amadiana e in particolare al libro “Il Paese del Carnevale”, primo libro di Amado (1931), a ottanta anni dalla sua pubblica-zione. Nel Pelourinho ogni fine mese si tengono gli incontri delle “Merende di Dona Flor” con la realizzazione di ricette tipiche tratte dal libro “Dona Flor e i suoi due mariti”.

Il 5 ottobre 2011 è uscito nelle sale brasiliane il film Capitães da Areia, tratto dal libro “I capitani della spiaggia”, con la colonna sonora di Carlinhos Brown e diretto da Cecilia Amado, nipote di Jorge e figlia di Paloma. “Ho letto il libro a 14 anni” dice Cecilia “e mi colpì molto perché parla del dram-ma sociale dei meninos de rua, oggi purtroppo ancora molto attuale, dopo settant’anni. Il libro parla direttamente ai giovani e contrappone libertà e abbandono, una questione fondamentale dell’adolescenza. Poter presentare quest’ opera alle nuove generazioni, nell’anno del suo Centenario, per me è un onore infinito”.

João Jorge Amado, figlio di Jorge e Zélia, sta organizzando intanto il fon-do della corrispondenza epistolare tra i genitori, per dar vita al volume “Jorge & Zélia, correspondência” con uscita prevista nell’agosto 2012. Uno dei punti più alti del Centenario avverrà nel marzo 2012 con l’inaugurazione dell’esposizione interattiva “Jorge, amado e universal”, nel Museo della Lin-gua Portoghese di São Paulo. La mostra percorrerà varie capitali prima di giungere a Salvador il 9 agosto 2012. Vogliamo qui ricordare altri eventi prestigiosi, oltre a quelli organizzati dalla Fondazione. Infatti da agosto 2011 Rede Bahia (il maggior gruppo di comunicazione del nord-nordest, composto da 6 televisioni affiliate a Rede Globo) ha inaugurato la campagna Amado Jorge, sotto la responsabilità del “Dipartimento de Criação e Conteudo”, diretta da Sérgio Siqueira. Mosaico, uno dei programmi più importanti della rete nazio-nale, ha ospitato una serie settimanale di grande successo, con testi di Ama-

“Qui tutta la cultura nasce dal popolo e di esso si alimentano artisti e scrittori.è il senso della cultura bahiana”

opere teatrali, mostre, seminari, programmi in tv: si celebra per un anno l’autore che liberò la letteratura dal dominio delle elites

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cultura e culturelatinoamerica

In

Le Pietre cHe sono dio:c’e’ L’inQuisiZione

500 anni di resistenza culturale sulle Ande: alle origini del Movimiento al socialismo di Evo c’è la lotta alla cristianizzazione forzata, le sue pratiche, il suo cosmo distrutto e ricostruito

La Cataluña en la España moderna Pierre Vilar scrive a proposito della memoria storica: ‹‹Alcu-ni fatti storici per me oscuri, il compromesso

di Caspe del 1412, la rivolta dei segadors del 1640, e la presa di Barcellona da parte dei soldati di Filippo V, potevano essere, per alcune persone attuali, evocazioni dolorose, che la conversazione vincolava senza cesure ai fatti più recenti››. Ancora oggi i catalani ricordano questi avvenimenti come elementi centrali della pro-pria storia, vivi e fondamentali.

Girando la Bolivia per raccogliere informazioni ri-guardo alla conquista spirituale e al tentativo, malamente naufragato, del cristianesimo di eliminare la cultura an-dina, ho parlato con decine di persone e raccolto testi-monianze. Mi sono reso conto di quanto il concetto di resistenza culturale sia più vivo che mai e abbia solide basi storiche. Se alcuni miei compagni di viaggio avreb-bero studiato l’evoluzione del governo di Evo Morales, io avrei indagato le fondamenta culturali del movimen-to indigenista, da ricercarsi nei numerosi sviluppi di quello che lo storico nordamericano David Stannard ha descritto come ‹‹il più grave genocidio della storia del mondo››: la conquista.

Insieme alla vera e propria occupazione delle nuove terre scoperte, dal XIV secolo gli europei iniziarono a comprendere l’entità di quella che sarebbe divenuta la più grande opera di evangelizzazione dalle origini del cristianesimo, oltre che una legittimazione dell’azione

Giornalista. Laureato in Storia dal Medioevo all’età contemporaneaall’Università “Ca’ Foscari” di Venezia

di david angeli

L

aLLe radici deLLa“rivoLuZione MoraLes”

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cultura e culture

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David Angeli

mento era irregolare perché dipendeva direttamente dalla volontà dell’ar-civescovo di Lima e del viceré del Perù; se questi, infatti, erano favorevoli alle visite, l’istituzione prosperava, in caso contrario poteva scomparire per anni.

Su tale terribile epopea, spesso messa in secondo piano dalle violenze della conquista militare, si incardina uno dei più vivi esempi di resistenza culturale della storia. Il cristianesimo si era sovrapposto a tutte le religioni antiche in ambito europeo, sulle Ande l’obiettivo era lo stesso, ma il tenta-tivo era destinato a fallire e a porre le basi per l’inizio, secoli più tardi, della decolonizzazione.

Le comunità andine seppero trasferire il conflitto dal materiale all’astrat-to, dove l’Estirpazione non avrebbe potuto trionfare perché i suoi metodi erano principalmente quelli di distruggere le manifestazioni empiriche del-la religione indigena: le huacas e i mallquys (appropriandosi di tutti i beni che le corredavano).

I nativi fingevano l’inesistenza di “idolatrie”, via pericolosa perché un visitatore astuto aveva gli strumenti per far confessare anche l’inconfessabi-le, oppure inscenavano manifestazioni religiose fittizie per ingannarlo. Nel caso in cui fosse fallito il tentativo di raggiro, c’era sempre la possibilità di corrompere gli aiutanti del visitatore, che avrebbero finto di distruggere le huacas in cambio di denaro.

Inoltre, una huaca distrutta non perdeva il suo valore e le sue ceneri ri-manevano comunque oggetto di venerazione; oppure, se gettate in un fiu-me, lo stesso corso d’acqua sarebbe divenuto custode dello spirito. In un processo conservato nell’archivio arcivescovile di Lima, lo storico inglese Nicholas Griffiths ha trovato testimonianza di un nativo che si riferisce alle ceneri con l’espressione señor padre quemado.

Sappiamo anche di controaccuse di crimini o addirittura di idolatria al curato del villaggio o allo stesso visitatore, con l’esito dell’avvolgimento dell’inchiesta su se stessa. Questa pratica si diffuse e causò un progressivo spostamento dei processi a Lima; la delocalizzazione comportò un minor “lavoro sul campo” causando il declino delle visite, che divennero sempre più rare nel corso del tempo.

Se la Chiesa è riuscita a demolire la sfera pubblica e materiale dell’an-tica religione, quella domestica e spirituale si è rafforzata e sviluppata proprio grazie alle persecuzioni. La volontà di difendere le huacas aveva inoltre provocato un maggior ri-corso alle pratiche di stregoneria, per contrastare con me-todi soprannaturali il lavoro dei visitatori; pertanto, ironia della sorte, le visite contribuirono allo sviluppo di forme più profonde di religiosità.

L’Estirpazione si era prefissa un obiettivo irraggiungibi-le: disincantare il mondo andino ed eliminare una cultura

Le pietre che sono dio: c’è l’Inquisizione alle radici della “Rivoluzione Morales”

militare. Come in Catalogna il compromesso di Caspe è sto-ria viva, la resistenza alla cristianizzazione nell’età moderna rappresenta la base storica dell’attuale “socialismo andino” di Morales: in entrambi i casi sopravvive un filo rosso che lega cinquecento anni di storia.

La conquista non portò sulle Ande soltanto la violenza dei conquistadores, ma anche coloro i quali avrebbero dovuto compiere quell’opera di colonizzazione dell’immaginario neces-saria per affermare la supremazia dei nuovi padroni sul ter-

ritorio scoperto. Si trattò di un processo di fondamentale importanza, che permise agli spagnoli di penetrare nelle menti delle popolazioni sottomesse e stravolgere, o almeno provarci, la loro cosmovisione compromettendo i rap-porti con le forze della natura e con gli elementi, estremamente complessi e sviluppati sulle Ande.

Il pensiero andino si basa sulle ofrendas, offerte, e sulla venerazione delle huacas, pietre zoomorfe custodi degli spiriti della natura, e dei mallquys, le mummie degli antenati sepolte nei machay.

I primi missionari cristiani descrissero questi culti come idolatria e ne individuarono i ministri fondamentali, ascrivibili ai diversi sacerdoti della religione andina: si iniziò a parlare di hechiceros.

Nella Spagna dei secoli XIV – XV hechicero (o hechicera) era un vocabolo uti-lizzato dall’Inquisizione per indicare indistintamente chi facesse uso delle arti magiche; i religiosi ne ignoravano il significato profondo e lo impiegava-no in modo del tutto arbitrario, come categoria. Cercando insistentemente “seguaci del maligno” inesistenti, i missionari riuscirono a trovarli quando i nativi iniziarono, giocoforza, a parlare utilizzando gli stessi termini impie-gati negli interrogatori; parole che spesso nemmeno comprendevano.

Su queste basi si assistette dalla metà del XVI secolo, alla legittimazione di una vera e propria repressione culturale voluta, appoggiata e sostenuta dalla Chiesa e dalla Corona: la pratica delle visite di estirpazione delle idolatrie.

Nel 1551 il I Concilio di Lima ordinava la distruzione di tutti gli idoli che si fossero trovati nei villaggi nativi cristianizzati, che avrebbero dovuto es-sere bruciati, e interdiceva le pratiche di culto indigene. Iniziò a svilupparsi così “la hija bastarda de la Inquisición”: l’Estirpazione.

L’apparato dell’istituzione dovette la sua struttura all’Inquisizione essen-do uguale ad essa nei suoi schemi di funzionamento, seppur con alcune differenze. L’Estirpazione può essere, infatti, definita “quantitativa” in op-posizione all’Inquisizione “qualitativa”, ciò rendeva i suoi processi azioni sommarie “di massa”. L’obiettivo non era quello di perseguitare pochi ere-tici, ma sottomettere intere popolazioni al cristianesimo nel minor tempo possibile.

I periodi in cui si concentrò la repressione sono quattro: 1609–1622, 1649–1670, la decade del 1690 e alcuni strascichi nel 1724–1725. Il funziona-

L’inquisizione prima e l’estirpazione poi (la distruzione degli idoli) hanno rafforzato la difesa a oltranza della cultura ancestrale

è la resistenza all’evangelizzazione la base storica del socialismo andino, che lega il Mas all’epoca dei conquistadores

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cultura e culture

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David Angeli

tilla rivoluzionaria che avrebbe dato il via all’incendio.Il movimento di Evo Morales ha compreso che l’idea politica di stampo

occidentale non bastava da sola a risvegliare il popolo boliviano, vessato da secoli di sottomissione prima alla Spagna e poi al capitalismo neoliberale; la prova tangibile vive nel sacrificio del Comandante Ernesto “Che” Guevara. Il socialismo andino ha unito l’intelligenza politica alla resistenza cultu-rale e a una memoria storica viva e presente nell’immaginario collettivo, avviando quel processo di decolonizzazione che l’America latina aspettava dal 1492.

Sono in atto in questi anni innumerevoli tentativi di screditare il gover-no di Morales, incardinati sul difficile compromesso tra ambientalismo e sviluppo e su scelte facilmente criticabili. Non intendo affatto difendere ad oltranza l’operato del Movimento Al Socialismo, ma com’è possibile aspet-tarsi un “tutto, subito e nel migliore dei modi” da chi per cinque secoli è sta-to sottomesso e interdetto al potere? È sufficiente notare come, contro Evo, si sia assistito addirittura a una ridicola e fasulla evoluzione ambientalista delle lobbies capitaliste di Santa Cruz de la Sierra, nell’oriente boliviano, in-sorte contro il discutibile progetto della strada che avrebbe tagliato il parco

nazionale Isiboro – Secure.Indipendentemente da come evolverà la situazione, il

processo di cambio è avviato. Sergio Loayza, vicepresidente del Mas, interrogato a fine 2010 a La Paz su tali questioni, ha affermato: ‹‹Però vi dico, succeda quello che succeda, e abbiamo passato di peggio, questo governo è un fatto è sto-rico. Quelli che torneranno della destra, dovranno pensare a tutto dieci volte, perché questo popolo ha una memoria e, quando si solleva, rovescia governi››. Come dire: avvertiti.

il socialismo andino ha unito intelligenza politica e resistenza culturale. cercare di screditarlo non basterà a fermarlo

ancestrale che si evolveva e arricchiva da secoli. La distru-zione delle huacas e il furto dei loro tesori non sarebbero bastati a demolirne il significato “postumo”; gli spiriti delle “piedras que son dioses”avrebbero continuato a vivere sotto altre forme senza perdere il loro significato.

Per distruggere la cosmovisione andina sarebbe stato ne-cessario radere al suolo la Cordigliera, prosciugare il lago Titicaca e trasformare il Sudamerica in un deserto. ‹‹Padre, perché ti affatichi a distruggere i nostri idoli? Portati via

questa montagna, se ci riesci, perché essa è il dio che adoro››, riporta una testimonianza in una lettera del 1648 all’arcivescovo di Lima. Con la per-manenza del paesaggio sagrado delle Ande, permaneva anche la visione del mondo a esso legata. L’interrelazionalità dell’uomo con gli elementi che lo circondavano, nei quali risiedevano le divinità, e il concetto di essere uma-no come parte integrante della natura e non padrone di essa, non poteva es-sere soppiantato dal materialismo cristiano, puro potere e teologia astratta. Il concetto di un mondo dove l’uomo non è il dominatore della natura ma solo una parte fra tante del suo fragile equilibrio non era fatto per i cristia-ni, come il cristianesimo non era fatto per gli andini.

Nel 1571 gli spagnoli soffocarono nel sangue la prima rivolta indigena: il Taqy Onqy. L’anno successivo Tupac Amaru, ultimo Inca di Vilcabamba, città considerata centro focale dell’idolatria peruviana, veniva condannato a morte per ordine del vicerè Francisco de Toledo e le sue ultime parole furono: ‹‹Madre Terra! Sei testimone di come i miei nemici versano il mio sangue.

Due secoli più tardi, alla fine del Settecento, tre avvenimenti risvegliaro-no la volontà di rivalsa delle popolazioni native.

Nel 1781 José Gabriel Condorcanqui, discendente dell’ultimo Inca, as-sunse il nome di Tupac Amaru II e guidò la prima rivolta anticolonialista scoppiata dalla resistenza del trisavolo. La sedizione e i focolai successivi furono repressi, ma si trattò del calcio d’inizio di qualcosa di molto più grande. Nello stesso anno a Potosì, Tomás Katari capeggiò un’altra ribellio-ne contro l’eccessiva pressione fiscale: venne assassinato.

Il terzo tassello fu Julián Apaza, noto come Tupac Katari, che scelse il suo nome in onore dei predecessori. Apaza guidò due assedi di La Paz, ma nulla poterono i ribelli contro le truppe spagnole e la rivolta si concluse con l’esecuzione dei capopopolo.

La cerniera con l’età contemporanea è quel 15 novembre del 1781 in cui Tupac Katari, prima di essere torturato e squartato sulla piazza di San Francesco a La Paz, gridò alla folla: ‹‹Voi mi uccidete, ma io tornerò, e sarò milioni››.

La resistenza culturale che covava da secoli sotto le ceneri delle huacas, sopravvissuta attraverso antichi riti e stili di vita, aspettava soltanto la scin-

nel 1571 la rivolta di tupac amaru, nel 1781 quelle di tómas e tupac Katari: “torneremoe saremo milioni”

Le pietre che sono dio: c’è l’Inquisizione alle radici della “Rivoluzione Morales”

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ella casa dei miei nonni, nella parte alta di San Roque, nel centro stori-co di Quito, ho vissuto con i miei genitori e le mie sorelle per qualche anno. Era una casa a più piani che dava su due strade, con tre “patios” interni e parecchie stanze. Era appartenuta ai miei bisnonni che erano anche pro-prietari di una hacienda al sud della città, che all’epoca era terreno agricolo e pascolo mentre adesso è diventato un quartiere rumoroso e pieno di ce-mento. Con il passare delle generazioni la azienda agricola è stata divisa e la casa non esiste più, però, riflettendo sull’attuale amministrazione del presidente Rafael Correa, mi è venuta in mente una persona la cui vita può servire bene come esempio dei processi sociali degli ultimi cinquanta anni in Ecuador.

Si tratta di Maria di cui non ho mai saputo il cognome pur avendo lei passato in quella casa dagli otto agli ottanta anni. Era quello che adesso si chiama una collaboratrice domestica, ma che ai suoi tempi, e fino alla fine della sua vita, veniva chiamata semplicemente la serva. Nei miei pri-mi ricordi d’infanzia lei avrà avuto una cinquantina di anni. Tempo dopo sono venuta a sapere che, da bambina, l’avevano scelta fra altre coetanee indigene della azienda agricola perché già allora era robusta e obbediente. Era l’uso portarla a casa dei padroni per crescerla, in altre parole, insegnarle i suoi doveri e le abilità necessarie perché in seguito potesse svolgere tutti i mestieri e i compiti che le sarebbero stati imposti mentre è certo che all’epoca a nessuno della famiglia sarebbe venuto in mente di parlarle dei suoi diritti. Venni a sapere anche che per prima cosa le era toccato impa-rare lo spagnolo visto che nella sua famiglia di origine le avevano parlato in quechua fin dalla nascita. Naturalmente si trattava di un apprendistato mnemonico perché Maria non sapeva, e non avrebbe mai saputo, leggere né scrivere in nessuna delle due lingue. Ricordo ancora che quando tornavo da scuola con i primi libri e quaderni, lei sbirciava interessata i disegni e le frasi di quelle pagine che guardava come fossero qualcosa di magico; se a volte si avvicinava alla mia scrivania incuriosita e la nonna se ne accorgeva, le ordinava immediatamente di non perdere tempo con cose che non la ri-guardavano e che pensasse a fare i servizi. Ricordo che anche senza capire le regole familiari indiscutibili, qualche volta strappavo dai libri delle pagine con le figure e i dialoghi e gliele regalavo di nascosto ficcandole nella tasca del suo grembiule. Fino a quando mia madre si accorse che avevo rovinato il libro e che i fogli si trovavano nella tasca di Maria. Fummo sgridate entram-be, io piangevo e lei giurava sulla Madonna che non me le aveva chieste ma

cultura e culturelatinoamerica

Ndi olivia casares

Scrittrice ecuadoriana, ha studiato negli Stati Uniti e in Polonia Ha pubblicato in Italia “Memoria in chiaroscuro” e “Diario apocrifo” di Frida Kahlo (Iacobelli, 2010)

Nella casa dei miei nonni, nel centro di Quito, ha vissuto dagli 8 agli 80 anni la loro serva indigena. Senza diritti, perché non sapeva leggere. Ora il governo Correa ha cominciato a voltare pagina

ECuAdORa ProPosito di Media e MeMoria storica

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cultura e culture

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Olivia Casares

ribellione di Maria aveva a che vedere con l’episodio dei fogli strappati del mio libro, perché dopo quell’episodio aveva chiesto ai miei nonni, chinando il capo e con voce umile, di permetterle di assistere a un corso di alfabetizzazione il sabato pomeriggio. La risposta di mia nonna che mi ripeté mio zio era stata più che eloquente: “Che si crede questa india, voler cambiare i disegni di Dio e la morale andando a quei corsi organizzati dai comunisti. No e poi no! Niente permesso.”

Naturalmente non ha potuto soddisfare questo desiderio e io ricordo il suo pianto silenzioso e gli occhi gonfi di quei giorni. Più tardi avrei capito che quel-lo era stata il minore dei suoi sacrifici, dato che non le hanno mai permesso di conoscere un uomo che avrebbe potuto portarla via dalla casa, e peggio ancora l’idea che avrebbe potuto avere dei figli e non le avevano neanche permesso di tornare a casa dei genitori, dei quali, con il passar degli anni, si era dimen-ticata. Alla morte dei nonni a casa non era rimasto più nessuno, Maria aveva compiuto ottanta anni senza essere mai andata dal medico e senza avere messo piede in un ospedale. Gli zii hanno deciso di metterla in un ospizio municipale e le hanno regalato un paio di mensilità, comunque davvero scarse, che du-rante la vita lavorativa erano bastate a stento per cambiare ogni tanto gonne e scialli, o per pagare a rate eterne qualche piccolo oggetto d’oro.

A partire dagli anni Settanta in Ecuador ci sono stati molti cambiamenti: nell’alfabetizzazione, l’istruzione, i diritti degli indigeni, la questione di gene-re, i rapporti di lavoro e l’uguaglianza di fronte alla legge. Bene o male le leggi relative sono state approvate e applicate anche se con molte lacune e conflitti sociali, ma in particolare si sta conquistando con il governo attuale che ha chia-mato la sua gestione “socialismo del secolo XXI”. Ma l’argomento di questa mia riflessione non è un’analisi socio-politico-culturale, lo è invece il riferimento all’episodio dei fogli strappati dai miei libri d’infanzia, la televisione che veni-va proibita a Maria, il significato della memoria storica, l’alfabetizzazione e il diritto all’informazione attraverso i media.

In Ecuador hanno predominato dalla fine del secolo XIX i giornali di de-stra, al servizio delle oligarchie. Tre in particolare attualmente che sono pre-senti anche nel web: El Comercio e El Hoy a Quito, e El Universo a Guayaquil, con distribuzione nazionale, Quando il presidente Correa ha assunto il potere nel 2006 ha organizzato per la prima volta un giornale pubblico: El Telégrafo, tendenzialmente di centrosinistra, per informare sui lavori della sua gestione

ma anche come servizio statale. Lo ha comprato perché si trattava di un giornale moderato, uno dei primi del paese, fondato all’inizio del secolo XX con l’idea di diffondere il liberalismo. Le Marie dell’attualità ormai sanno leggere e scrivere e non sono necessariamente indigene perché il si-stema non emargina più come prima, soprattutto per la raz-za, ma magari per il denaro posseduto. Ma poche persone hanno il tempo o la formazione per leggere la stampa seria; è paradossale che ora che i livelli di alfabetizzazione sono

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che ero stata io a dargliele. Comunque ci fu detto che non si doveva ripetere.

Quell’episodio e molti altri in cui veniva messo bene in chiaro quale fosse il posto di Maria nella famiglia, mi hanno lasciato il suo ricordo come un elemento essenziale per la mia futura formazione ideologica. La sua vita quotidiana si ripeteva come un orologio dal lunedì alla domenica, mese dopo mese, anno dopo anno, quasi senza variazioni. Si al-zava al canto del gallo, andava verso il lavatoio del patio

principale con una tunica di lino rozzo e i capelli sciolti, neri e lunghi fino alla schiena, prendeva l’acqua dal lavatoio con una brocca e si lavava con un sapone azzurro senza rabbrividire per l’acqua fredda nell’alba di Quito che può facilmente arrivare a una temperatura di sei gradi. Poi tornava in camera sua, in realtà un angolo sotto la scala, si vestiva da donna india, con gonne, bluse di merletto, scarpe di corda e scialle, si raccoglieva i capelli in due trecce e an-dava in chiesa quando ormai suonavano le campane della messa delle cinque. Ritornava alle sei e portava con sé un gradevole odore di pane appena sfornato che comprava sulla via del ritorno. Andava subito in cucina e attizzava il fuoco di carboni con dei pezzi di candela e dei ventagli di palma. Prima delle sette la colazione era servita sul grande tavolo da pranzo dove si sedevano non meno di dieci persone in media, con il nonno a capotavola da un lato e la nonna dall’al-tro. Terminata la colazione, Maria si metteva a scopare e a pulire tutta la casa, stanza per stanza, e intanto ritirava i panni sporchi. Poi andava a lavare al la-vatoio, strofinando ogni indumento, sciacquando e stendendo al sole nel patio alto. Dopo di che chiamava la nonna: “Doña Herminita, sto andando al mercato”

La nonna le consegnava dei soldi e delle spiegazioni generiche sul menù del giorno; Maria afferrava due cesti, uno per mano, e si avviava. Tornava a metà mattina e cominciava le sue faccende per preparare il pranzo: sbucciare e macinare granaglie, schiacciare purea, insaporire e cucinare la carne, girare le creme, addensare le salse, ecc. Avviava di nuovo il fuoco e piazzava le pentole. In quei momenti non le si poteva chiedere niente perché erano gli unici in cui aveva diritto di arrabbiarsi e diceva:“Dopo, signorina. Non vedi che ho da fare?”

Servito il pranzo, rigovernava tutto e si sedeva su una panca della cucina a mangiare in silenzio. Più tardi nel pomeriggio portava i panni asciutti nella stanza da stiro, dove per giunta rammendava, cuciva, metteva i bottoni e ri-parava perfino i ricami, sistemava i panni nelle cassapanche e negli armadi. Prima che facesse buio si riuniva con le più grandi di casa a recitare il rosario e, durante i frequenti pomeriggi di pioggia di Quito, bruciava incensi. Alle sette serviva la merenda, a volte con gli avanzi del pranzo e alle otto si sedeva un mi-nuto sullo scalino della stanza della televisione, all’epoca in bianco e nero, e se ne andava quando qualcuno degli zii le diceva che erano cose della politica che lei non poteva capire. Allora salutava i padroni e si ritirava nel suo sottoscala.

Da una conversazione casuale con uno zio ho saputo che l’unico gesto di

oggi la situazione sociale del paese è cambiata. e dal 2006 un giornale pubblico sfida lo strapotere della stampa di destra

strappavo i fogli dai libri per darli a Maria: mia nonna ci scoprìe le vietò di frequentare i corsi di alfabetizzazione“di quei comunisti”

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molto superiori a quelli degli anni settanta, il giornale più venduto a livello nazionale sia El Extra, in cui predominano la violenza e il sesso, con foto in prima pagina che sono un macabro insieme di tragedia e di pornografia.

La comunicazione per radio è stata la più democratica: oltre alle emittenti di destra, principalmente nelle città, ci sono state emittenti religiose e di sinistra nei luoghi più di-stanti del paese; attualmente, la radio statale copre tutto il territorio.

Ma quando la destra ha compreso che la televisione sarebbe diventata il principale mezzo di comunicazione e di trasmissione ideologica, a partire dagli anni ottanta ha invaso il paese con nuovi canali, la cui programmazione per molti anni è stata prevalentemente da quattro soldi, con programmi super-ficiali provenienti dagli Stati Uniti o da altri paesi latinoamericani, con una chiara tendenza conservatrice. Le telenovelas tipo Anche i ricchi piangono, hanno segnato, con il loro messaggio classista e razzista, varie generazioni. Le notizie provengono dalle agenzie internazionali, generalmente al servizio del sistema capitalista; abbondano i programmi dal vivo dedicati agli emarginati, per ven-dere loro l’illusione della popolarità e del successo, trasmettendo pubblicità e ideologie durante le ventiquattro ore. I canali più conosciuti sono Ecuavisa, Telecentro e Teleamazonas, di proprietà di banchieri e azionisti oligarchi. Du-rante gli ultimi trenta anni, più del 70% degli ecuadoriani si sono alimentati di un’ideologia imposta attraverso queste emittenti, senza alternative possibili. Sono comuni le antenne paraboliche in quartieri marginali e in paesi dove ancora si soffre la fame.

Una delle mete dell’attuale governo è quella di offrire mezzi di comuni-cazione alternativi a cominciare dal canale televisivo statale. Molte persone storicamente emarginate stanno entrando nella logica dei diritti che spettano loro che vengono introdotti con leggi e referendum che godono di un appoggio delle masse ma che sono in scontro diretto con le forze tradizionaliste della destra.

L’arma più utilizzata per contrastare l’operato del presidente Correa è quel-la di accusarlo di limitare la libertà d’espressione perché per la prima volta nella storia recente del paese, un capo di stato si è opposto ai soliti gruppi di potere. Ne ha querelato qualcuno per calunnia contro la sua persona e la sua gestione, vincendo la causa. In conseguenza ha applicato delle sanzioni di chiu-sura temporale di quei media. Una cosa che ha irritato estremamente i suoi oppositori ideologici e non vi è dubbio che continueranno a lavorare per scre-ditarlo, perfino per destituirlo forse, perché lui sta toccando i punti essenziali dei loro interessi: regolamentare la diffusione dei media, allo scopo di limitare la tradizionale trasmissione esclusiva di un’ideologia classista e conservatrice.

il governo di correa viene accusato di limitare la libertà di espressione, invece per la prima volta la sta facendo crescere

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cultura e culture libriLatinoamerica

Gli amanti della scrittura di Luis Sepúlveda troveranno di che divertirsi in que-sto libro, frutto di un viaggio in Patagonia fatto insieme al fotografo Daniel Mor-dzinski (ma forse i viaggi sono più d’uno) con tutti i ricordi ugualmente stupefacen-ti perché narrano di una terra dove, quando ci si incontra ci si ferma a salutare, dove si condivide il mate o un bicchiere di vino, dove si entra nelle casa accolti dall’ospitalità senza diffidenze di chi abita un immenso e spopolato territorio.

Il viaggio –e gli episodi che lo scrittore è andato conservando gelosamente nella sua memoria e nei suoi cassetti– si svolge in quel vasto mondo che si sten-de sotto il 42° parallelo, al Sud di Bariloche, raggiunge la Terra del Fuoco e risa-le verso Chiloé e l’ingrata patria di Sepúlveda, il Cile. Quel viaggio-reportage insieme al fotografo argentino ha tardato molto a vedere le stampe, ha dormito insieme a un pacco di fotografia dell’era pre-digitale, e si è composto in libro solo quando, ci dice l’autore, i ricordi si sono messi in ordine da sé, in una sele-zione misteriosa che dipende dall’ancora più misteriosa alchimia che trasforma l’esperienza in ricordo e il ricordo in racconto di alta letteratura.

Nei dodici capitoli del libro, per l’immenso territorio spazzato dal vento, corrono i cavalli dei gauchos, l’asmatica locomotiva del Patagonia Express, le mandrie di un bestiame un tempo fonte di grande ricchezza, ma anche i fantasmi di Butch Cassidy e Billie the Kid, perseguitati dallo sceriffo messo alle loro costo-le dalla leggendaria Agenzia Pinkerton, insieme alle sinistre figure di residui nazisti, mascherati da onesti cittadini fra le strade tirolesi della bella Bariloche.. Sui cieli a volte di un insopportabile azzurro della Patagonia, Sepúlveda e il suo “socio”, il fotografo Mordzinski , possono rivivere l’avventura esilarante che il suo fraterno amico, lo scrittore argentino Osvaldo Soriano, cui il libro è dedicato, ha inventato nel suo atroce e indimenticabile Mai più pene né oblio, dovranno ac-cettare che forse è vero che nei boschi di El Bolsón vivono i folletti di Tolkien. I due viaggiatori sono disposti a credere a tutto: nel loro girovagare si sono imbat-tuti nella situazioni e nei personaggi più strani, uno dei quali, uno straordinario liutaio che fornisce l’orchestra di Berlino lavorando nella solitudine della sua capanna, darà ai nostri autori l’indicazione più giusta per chi viaggia al sud: Sepúlveda e socio incontrano al bordo della strado un giovane che cammina con passo energico. Si fermano e gli chiedono: “Dove va di bello?”, e l’altro risponde: “Vado avanti, come quasi tutti.”

È un libro divertente, questo Ultime notizie dal sud, eppure, quell’aggettivo nel titolo è rivelatore della grande malinconia con cui l’autore ha raccolto i suoi ricordi di quel viaggio per la consapevolezza di stare parlando di un mondo che va scomparendo, che sbiadisce sempre più nella polvere agitata dal vento del sud. [Alessandra Riccio]

Luis SepúlvedaUltime notizie dal Sud Con fotografie di Daniel MordzinskiGuanda, Parma,

2011, pp.161, € 16.00

Prima di entrare nel merito dei reportage di questa notevole giornalista, è doveroso rivolgere un augurio grande e congratularsi con la casa editrice per aver dato vita ad una nuova collana –Cronache di Frontiera- che ha inaugurato, nell’ottobre scorso, con il libro che qui si recensisce e con la pubblicazione di uno dei testi più importanti per il giornalismo internazionale che è Operazione Massacro dell’argentino Rodolfo Walsh, una delle tante vittime del regime militare di Videla & Co. E veniamo al testo: si tratta di una serie di cronache che coprono un arco di tempo di circa trenta anni, che nella storia dell’Ame-rica Latina equivale al passaggio dalle dittature e dalla lotta armata a demo-crazie all’acqua di rose, fino alla vera e propria rivoluzione regionale che ha scacciato numerosi capi di governo e ha cambiato i fondamentali della vita repubblicana degli stati latinoamericani, ciascun paese a suo modo e con i suoi leader non uguali l’uno all’altro ma in gran parte disposti a dar vita a nuovi esperimenti di governo e al progetto di unità del subcontinente.

Guillermoprieto ha una storia curiosa e appassionante: con una forma-zione serie di ballerina classica con Merce Cunningham, ha dovuto riconosce-re i limiti delle sue capacità di danzatrice ed accettare di andare all’Avana come maestra di danza nel 1969. Allora più di adesso, Cuba era il luogo della speranza e della politica. Poco a poco la danzatrice si è andata trasformando in cronista di eventi controversi e appassionanti. Ha lavorato per The Washing-ton Post, The Guardian, The New Yorker, è stata la corrispondente di Newswe-ek per il Sudamerica e come tanti latinoamericani (è nata a Città del Messico nel 1949) ha vissuto molta parte della sua vita negli Stati Uniti. E’ così che questa giornalista ha trovato il tono per parlare ai nordamericani con la sen-sibilità di chi l’America Latina la conosce e le scorre nelle vene. Eppure, quan-do ha raccontato del massacro di El Mozote, nel Salvador insanguinato dalla guerra civile e dalla crudele repressione governativa, gli Stati uniti non hanno voluto crederle e c’era da aspettarselo visto che in quei terribili anni ottanta, gli Stati Uniti fornivano un aiuto militare al governo salvadoregno secondo solo a quello prestato a Israele! Fra le cronache pubblicate in questo libro c’è la storia del Presidente Gonzalo, il temibile e sanguinario capo di Sendero Luminoso in Perù; una curiosissima e intrigante storia del Brasile degli anni novanta in cui la rinuncia del Presidente Collor de Melo si intreccia a una storiaccia di passioni telenovelesche i cui protagonisti sono proprio dei famo-si personaggi della televisione O Globo.

Cuba e l’Avana si affacciano anch’esse nelle pagine dell’ex ballerina, come la terribile storia dei femminicidi e gli intrecci fra narcotraffico e superstizione in Messico, e siamo già nel nuovo secolo e millennio. Di tante novità che il 2000 ha portato in America Latina, Guillermoprieto sceglie una storia curiosa

Alma GuillermoprietoCronache del continente che non c’è

La Nuova-frontiera, Roma, 2011, pp. 317, € 14

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ricostruisce queste dinamiche sociali e culturali, e tenta di formulare un bilan-cio di questi primi sette anni di governo e delle ipotesi su un possibile scenario dell’immediato futuro. L’opera ripercorre, alternandole a momenti tratti dal diario di viaggio dell’autore, le vicende che hanno portato alla formazione e allo sviluppo storico dei principali movimenti sociali e sindacali del paese, de-finendo il ruolo che singolarmente e coralmente anno avuto nelle due fonda-mentali sollevazioni di piazza del 2000 e 2003, e nella sequela di avvenimenti politici che hanno portato al trionfo di Morales e che hanno dato possibilità a milioni di nativi di poter «camminare a testa alta» dopo cinque secoli di oppres-sione colonialista e capitalista.

Due studiose dell’Università delle Calabrie, Emanuela Jossa e Irene Campagna, hanno testardamente perseguito il nobile scopo di portare in Italia la poesia gioiosa, surrealista, indignata e profonda del salvadoregno Roque Dalton, un intellettuale e un guerrigliero che è diventato un mito nella sua terra –il picco-lo e tragico El Salvador- e nell’America Latina tutta. Figlio illegittimo di un nordamericano e un’infermiera salvadoregna, la vita di Dalton è scandita dall’amore per gli studi che compie in quella fucina di intelligenza che è stata la scuola gesuita di Padre Ellacuría e degli altri martiri degli squadroni della morte. La sua indignata ribellione al corrotto governo del paese lo condurrà in carcere con il rischio di essere condannato a morte. Rilasciato fortunosamente, parte per un lungo esilio che lo conduce in Messico, a Cuba, in Unione Sovieti-ca e in Cecoslovacchia. Tornato in patria nel 1964 clandestinamente viene nuovamente arrestato e condannato a morte. Lo salva una scossa di terremoto che fa crollare le mura della prigione; si rifugia a Cuba dove coltiva al pari tem-po le armi e la poesia. E’ uno degli animatori di un gruppo di giovani e gagliar-di poeti, irriverenti e generosi, convinti di avere il mondo in tasca e che le inevitabili trasformazioni fossero affidate alle loro braccia.

Torna in Salvador per militare nell’ERP (Esercito Rivoluzionario del Popolo), suscita sospetti e dubbi a causa della sua franca critica e della sua eterodossia. Viene eliminato in un sommario processo portato avanti dai suoi stessi compa-gni e il suo cadavere fu fatto scomparire. Il cantatore cubano Silvio Rodríguez gli ha dedicato una delle sue canzoni più belle, El unicornio azul, in cui lo imma-gina –mitica personaggio- vagante fra le nebbie delle montagne del suo paese. Oggi si sa che la stessa Cia aveva organizzato il copione che indicava in Roque Dalton un traditore, ma intanto, una mano “amica” aveva spento la sua leggen-daria risata e la sua voce poetica. Fra coloro che ebbero l’incarico di liquidarlo,

Roque DaltonIl cielo per cappelloAntologia poetica a cura di Emanuela Jossa e Irene CampagnaMultimedia

Edizioni,Salerno, 2011,pp. 300, € 20,00

Da due anni riconfermato al governo con più del 60% dei voti, il primo presi-dente indigeno della storia dell’America Latina, Evo Morales, si trova ora ad affrontare la prova più ardua dei suoi sette anni di Movimiento al Socialismo: dare continuità al grandioso proceso de cambio avviato dopo la vittoria elettorale del 2005. Il melting pot di movimenti sociali e sindacali che, prima nel 2000 con la guerra del agua, poi nel 2003 con la guerra del gas (culminata con la cacciata dell’allora presidente Gonzalo Sanchez de Lozada e del capitalismo di matrice USA), ha consentito la svolta in Bolivia, ha alle spalle una storia secolare che ha portato alla peculiare formazione di ognuno di essi e alla definizione del suo ruolo chiave nelle vicende rivoluzionarie e di governo degli ultimi anni. Basato su un esperienza diretta dell’autore nel paese andino-amazzonico, il libro

Nicola NesoSartañani- LevantemonosMovimenti sociali e sindacali in BoliviaEd. Albatros,

pp.163, € 14,90

sulle lottatrici boliviane, figlie della miseria e della disperazione che trovano sotto le luci del ring la speranza di una riscossa.

Nell’edizione originale, la giornalista aveva scritto una prefazione davve-ro interessante che non so per quale ragione gli editori italiani hanno saltato. Per i nostri lettori traduco le righe finali: “Scrivo questo il 1 gennaio 2011. Nel 2010 hanno assassinato dieci giornalisti in Messico e nove in Honduras, tutti in relazione con il narcotraffico. Nell’ agosto dell’anno scorso settantadue emigranti che viaggiavano insieme in Messico con la speranza di attraversare la frontiera degli Stati Uniti sono stati sequestrati e assassinati da uno qualun-que dei gruppi che vivono di narcotraffico. In Perù ricompare un gruppo senderista e sopravvive grazie ai soldi che gli dà la coltivazione illegale di coca. A Rio de Janeiro, chi attraversa le favelas troverà bambini di dieci o do-dici anni con la mitragliatrice, a guardia dei territori dei capi del narcotraffico. Nel continente intero è raro il governo che non abbia qualche alto personaggio legato direttamente al traffico illegale di droghe. In Guatemala e nel Salvador gli eredi di quelli che avevano fatto le guerre degli anni ottanta adesso com-battono al soldo del narcotraffico, armati fino ai denti. Nella frontiera nord del Messico, e anche nella frontiera sud, sono centinaia –forse migliaia- i ra-gazzi che eseguono i macabri incarichi decisi dai padroni della droga. Se la speranza è una pelle che ci ricopre e ci protegge dal terrore della morte e dal vuoto esistenziale, gli impiegati in questo affare sono stati scuoiati. Non è un caso che fra le distrazioni inventate dai sicari del narcotraffico ce ne è una che consiste nello strappare la pelle delle vittime. Nel Gran Guignol della violenza generata dalla proibizione delle droghe e del loro consumo, tutto è metafora, e ogni cadavere è un autoritratto”. [A. R.]

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–insieme alla presentazione del fotografo, di un esaustivo saggio della Ciattini dal titolo intrigante, Le religioni afrocubane. Una sfida alla precarietà in cui l’autrice ripercorre la storia di Cuba fino dai tempi della scoperta, mettendo in rilievo il concetto di “colono-evangelizzazione” per alludere a quel micidiale intreccio di bassi interessi economici e nobili pretesti spirituali, che ha caratterizzato il lungo processo di sottomissione di un continente alla civiltà europea e, nel caso dell’America Latina, ispano-portoghese. Ripercorrendo la storia della colo-nizzazione, l’autrice ricorda l’assurda ingiunzione –il requerimiento- con cui i conquistatori imponevano le leggi temporali e spirituali delle madrepatria. Si arriva all’infausta introduzione della coltivazione della canna da zucchero a Cuba e la conseguente, drammatica, tratta di schiavi dall’Africa. E’ così che antiche religioni, antiche lingue e tradizioni africane si insediano nell’isola del Caribe con una strategia di clandestinità e resistenza che le ha preservate fino ad oggi, conservando un inquietante (per noi) patrimonio culturale fortemente radicato nella popolazione cubana ormai a prescindere dalla razza e dall’etnia di origine e perfino a prescindere dell’abolizione della schiavitù (1886) che aveva motivato una mimesi fra le religioni africane e l’imperante e dispotica religione cattolica.

Il libro, i cui saggi sono in edizione bilingue italiano e spagnolo, illustra nelle belle fotografie di Ferrera, i riti e le cerimonie dei quattro principali filoni: la Regla de Ocha o Santería yoruba, forse la più importante, la Regla Conga o Palo Monte, davvero cruenta e impattante, la pratica Abakuá di origine nigeria-na, e il Vudú haitiano, anch’esso piuttosto impressionante nella sua ritualità. L’obbiettivo di Ferrera ritrae il sangue che scorre da caproni, maiali e galli sgoz-zati, le drammatiche “trance” del Palo Monte, ma anche l’allegria del rito, la partecipazione popolare, i segreti di un “altare” santero, i volti dei babalao, le danze rituali.

Si tratta di un bel volume, di grande impatto visivo, a volte addirittura impressionante, interessante per gli appassionati della materia e indispensabi-le, credo, per i cultori dell’antropologia e della sociologia, insomma per chi è curioso delle diversità e delle possibilità dell’uomo di atteggiarsi di fronte alla spiritualità e alla trascendenza.

Ritornando brevemente al titolo del saggio della Ciattini, devo rimarcare l’originalità di quella sfida alla precarietà che l’autrice individua nel forte radi-camento e nella resistenza di un patrimonio culturale che ormai ha attraversa-to i confini del circolo ristretto degli eredi degli schiavi per entrare a far parte della complessa identità meticcia latinoamericana in generale, ma cubana in particolare. [A. R.]

Joaquín Villalobos fu poi messo a capo dell’ERP e, dopo la smobilitazione lo ritroviamo su posizioni molto filo nordamericane che esprime in editoriali diffusi in tutto il mondo dai maggiori quotidiani e riviste.

Il poeta è stato anche un uomo d’armi e un combattente, ma la sua voce, oggi raccolta nella nostra lingua dal lavoro delle due studiose, è ancora una voce necessaria a raccontare l’amore e il dolore; l’indignazione e l’entusiasmo; lo sfruttamento e la ribellione; l’erotismo e la morte. Emanuela Jossa e Irene Campagna hanno operato una selezione intelligente che mette in evidenza la sua cultura e la sua formazione universale, facendoci sentire l’irresistibile no-stalgia per la sua patria dispersa con parole che –secondo il critico Lara Martí-nez- mostrano le cicatrici delle ferite del suo spirito gioioso, utopico e guascone a cui la vita ha riservato la più brutale delle delusioni. Lo racconta da par suo Eduardo Galeano in poche righe che non posso fare a meno di citare:

“Roque Dalton, alunno di Miguel Mármol nell’arte della resurrezione, è sfuggito due volte alla fucilazione. Una volta si è salvato perché cadde il gover-no e un’altra volta si è salvato perché è caduta la parete, grazie ad un opportu-no terremoto. Si è salvato anche dai torturatori, che lo lasciarono mal combi-nato ma vivo, e dalle polizie che lo inseguirono sparandogli addosso. E si è salvato dai tifosi di calcio che lo misero in fuga a pietrate, e si è salvato dalla furia di una bestia che aveva appena partorito e da numerosi mariti desiderosi di vendetta. Poeta profondo e sfottente, Roque preferiva prendersi in giro piut-tosto che prendersi sul serio, e in questo modo si è salvato dalla magniloquenza, dalla solennità e da altre malattie che affliggono gravemente la poesia politica latinoamericana. Ma non si è salvato dai suoi compagni. Sono i suoi stessi com-pagni che condannano Roque per il delitto di disobbedienza. Da vicino doveva arrivare quella pallottola, l’unica capace di trovarlo”.

L’antologia darà al lettore la misura e il calibro artistico di questo poeta che ha scritto testimonianza e versi in una poesia militante piena di gioiosità vitale, piena di generosa disponibilità a combattere per realizzare sogni difficili e lontani. [A. R.]

Anche se non figura in copertina, questo bel libro fotografico si avvale di un corposo saggio della sociologa Alessandra Ciattini, docente alla Sapienza di Roma. Il libro nasce da una interessante mostra fotografiche tenutasi a Umber-tide qualche tempo fa, ed effettivamente sarebbe stato un peccato limitare la diffusione di questo reportage fotografico di Paolo Ferrera alla sola esposizione in mostra. Il volume, invece, oltre alle foto di grande impatto visivo, si avvale

Paolo Ferrera, Ashé. Viaggio nei riti religiosi afrocubaniPetruzzi editore,

Città di Castello, 2011, pp. 110, s.p.

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e Sotto processo il giudice che aveva arrestato Pinochet e indagato sui crimini franchistiOc

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eri è cominciato il primo dei tre «processi vergogna» che vedono sul

banco degli imputati il noto magistrato Baltasar Garzón. Decine di giornalisti ac-creditati, folla delle grandi occasioni da-vanti al Tribunale supremo, nel centro di Madrid, e persino la diretta televisiva: non potrebbe essere maggiore l’attenzione dell’opinione pubblica (nazionale e non solo) nei confronti di una vicenda giudizia-ria destinata a passare alla storia. L’uomo a cui si devono il clamoroso arresto del dittatore cileno Augusto Pinochet e la con-danna di alcuni dei peggiori killer-tortura-tori della dittatura argentina, passi grazie a cui il principio della giurisdizione uni-versale a tutela dei diritti umani ha fatto passi da gigante, rischia ora 17 anni di sospensione, ossia l’espulsione de facto dalla magistratura spagnola.

Nel giudizio iniziato ieri, però, non c’entrano nulla i crimini contro l’umanità, bensì un più comune (ma enorme) caso di corruzione, altro obiettivo privilegiato dell’implacabile Garzón. Il giudice istrut-tore andaluso, di 57 anni, che nel passato

di Jacopo RosatelliCollaboratore del manifesto da Madrid

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occidenteLatinoamerica

SPagna La vendetta deL PaRtito PoPoLaRe contRo GaRzón

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Spagna: la vendetta del Partito popolare contro Garzón Jacopo Rosatelli

l’ingombrante star andalusa: una per aver ricevuto un compenso, da parte della Banca Santander, per una conferenza celebrata a New York, l’altra per aver osato investigare sui crimini del franchismo, «violando», secondo l’accusa, la legge di amnistia del 1977 e rompendo, secondo altri (non solo a destra), il tacito patto politico «amnesia-amnistia» capo-saldo della transizione spagnola.

Un «assedio giudiziario» dal quale difficilmente Garzón potrà uscire indenne.

ha turbato il sonno anche di Silvio Berlusconi per i suoi affari con l’emittente Telecinco, ha infatti scoperto nel 2009 un’estesa trama criminale (conosciuta come il caso Gürtel) che vede implicati numerosi dirigenti del Partido Popular ora al governo del paese.

Dinamica classica: denaro e «servizi» da parte di im-prenditori a politici, in cambio di appalti pubblici, in particolare nelle Comunità autonome di Valencia e di Madrid, feudi dei populares del premier Mariano Rajoy.

Garzón è sempre stato un giudice controverso e di prima linea (di lui si ricorda anche l’accanimento con cui ha perseguito la sinistra indipen-dentista basca, accusata di essere il braccio politico di Eta, incarcerando i suoi esponenti e impedendo loro di presentarsi alle urne).

Tuttavia, in un ribaltamento dei ruoli che ha dell’incredibile, ad es-sere processato è il magistrato, e non i presunti autori del più grande furto ai danni del denaro pubblico mai commesso in Spagna. L’appiglio ufficiale è che Garzón ha, secondo l’accusa, violato il diritto alla difesa dei presunti corruttori, intercettando le loro comunicazioni, anche quan-do parlavano con gli avvocati.

Una pratica giustificata, secondo il magistrato, dal fatto che alcuni dei difensori fossero partecipi del disegno criminale, come hanno poi confermato gli eventi successivi. E soprattutto, una scelta avallata dai giudici che hanno sostituito Garzón nella conduzione del caso. Logica vorrebbe che a rispondere del reato di abuso d’ufficio fossero tutti e tre, e magari anche le decine di magistrati che in passato hanno ordinato intercettazioni della stessa natura senza suscitare scandalo. Ma di logica, in questa vicenda, ce n’è poca, e invece c’è una gran voglia di vendicarsi contro un giudice scomodo e irrispettoso verso i potenti. I disinvolti faccendieri amici del Pp hanno convinto i magistrati della sezione pena-le del Tribunale supremo (la nostra Cassazione) che Garzón (e solo lui) meritasse il processo per aver violato i loro diritti fondamentali, malgra-do le conversazioni relative alle legittime strategie processuali di difesa fossero state stralciate ed eliminate.

E così, mentre i processi ai responsabili della «trama Gürtel» sono ben lungi dal cominciare, la magistratura spagnola offre una pessima prova di sé nel perseguire il suo giudice più conosciuto (forse troppo...) e apprezzato. Secondo vari osservatori, fra cui l’ex procuratore naziona-le anti-corruzione Jiménez Villarejo e molti giudici democratici, a moti-vare l’azione del Tribunale supremo (in maggioranza di orientamento ultra-conservatore, quando non apertamente nostalgico del franchismo) non è un sacrosanto garantismo, bensì un preciso disegno politico per neutralizzare un elemento pericolosamente incontrollabile.

Per essere sicuri di riuscirci hanno imbastito altre due cause contro

aveva smascherato i traffici degli appalti del Pp. Lo hanno stoppato accusandolo di intercettazioni abusive di alcuni indagati

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