ladakh, morte nel monastero

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Graziella Canapei, mystery

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GRAZIELLA CANAPEI

LADAKH MORTE NEL MONASTERO

 

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LADAKH, MORTE NEL MONASTERO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-480-2 Copertina: Immagine Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2013 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

 

 

Ai miei figli, è ovvio

Resterà qualcosa di me nella notte?

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1. L’arrivo Nonostante fosse notte fonda, a Delhi il caldo era soffocante. Appena l’uomo mise piede sulla scaletta dell’aereo, un vento umido lo investì togliendogli il respiro. Per tutta la durata del viaggio l’aria condizionata era stata tenuta al massimo e stava passando dai venti gradi dell’aereo ai trentotto della città capitale dell’India. Salì assieme agli altri passeggeri su di un autobus diretto al terminal. Sull’area destinata agli aerei prossimi al decollo, due Boeing 747 aspettavano con gli sportelli aperti gruppi di turisti con tanto di macchine fotografiche e foulard di seta attorno al collo. I Boeing sembravano grosse balene arenate, luccicanti sotto le luci incrociate dei fari. “Io arrivo e loro se ne stanno tornando a casa” pensò l’uomo. Era partito dall’aeroporto della città di Verona, aveva volato fino a Parigi e da lì, con un altro volo, era atterrato a Delhi. Non amava quella città. C’era già stato sei anni prima in un’occasione dolorosa. Anche quella volta l’umidità dell’aria era terribile. A quanto pareva, a Delhi faceva perennemente caldo. Certo, a Bombay si stava peggio. Nel sud ovest del continente indiano si registravano temperature altissime che unite al tasso di umidità intorno al novanta per cento rendevano le pianure di quella regione uno dei luoghi più caldi del pianeta. Quando c’era stato aveva rimpianto il calore dei deserti australiani e africani dove, pur se caldissima, l’aria era asciutta. Attese di vedere lo zaino sul nastro trasportatore. Lo afferrò per le cinghie dopo aver controllato che fosse veramente il suo, poi se lo mise in spalla. Non sapeva cosa fare. L’aereo diretto a Leh partiva sette ore dopo, poco tempo per farsi un giro in città, troppo per aspettare nella sala passeggeri. Si sentiva stanco perché non aveva dormito. Le hostess erano passate di continuo con colazioni, pranzi, cuffie, mazzi di carte, giornali. Durante il viaggio quasi non aveva chiuso occhio. Sbirciò i posti a sedere delle sale d’attesa, semplici file di sedie grigie di plastica. A dormirci sopra era dura, l’aveva già provato, e poi in quei posti c’era un rumore continuo, un brusio simile a quello dei supermercati affollati, che lui detestava. Le rare volte che entrava nei

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centri commerciali si deprimeva. Tutta quella roba di cui non aveva bisogno che gli occhieggiava dagli scaffali lungo le corsie! La vista gli calava. Ne aveva parlato con un amico spiegandogli che pensava fosse un effetto della depressione che gli piombava addosso, ma quello gli aveva assicurato che dipendeva dalle luci al neon. Comunque fosse stato, lui andava giù di tono. A peggiorare il suo stato d’animo era proprio il rumore di fondo. Voci di fantasmi, questo gli sembrava di udire; così usciva in fretta, sudato anche in pieno inverno. L’uomo guardò il grande orologio alla parete. Segnava le tre. Regolò il suo orologio da polso e quello del telefonino sull’ora locale. Si avvicinò all’uscita. La porta scorrevole si aprì. Pochi passi e fu nel caos della città. Non dormivano mai a Delhi, questa era l’impressione che s’era fatto. A qualunque ora del giorno e della notte centinaia, anzi migliaia di persone e animali si muovevano sulle strade: automobili, autobus, carretti, risciò, gente a piedi e le immancabili vacche. Poco lontano alcuni uomini mezzo nudi dormivano su dei sacchi di iuta accanto a un cuoci vivande. Un fumo nerastro saliva dalle braci e una donna sventolò un braccio cercando di attirare la sua attenzione. L’uomo si avvicinò. Impilate su di uno spiedo, una fila di frittelle ricoperte di zucchero gocciolavano olio su di un pezzo di carta di giornale. «Ne prenda» disse la donna in inglese. Lui scrollò la testa e si guardò attorno. Un taxi gli si accostò. «Vuole andare da qualche parte?» «No, cerco un posto dove dormire alcune ore.» «Chieda a quello» disse il tassista indicandogli un tizio seduto sul bordo della strada. Un cane gli corse fra le gambe, facendolo inciampare. Lui imprecò sottovoce. Quando fu abbastanza vicino per essere sicuro di venir udito disse: «Cerco una stanza.» Il tizio si alzò sbattendosi la polvere dai pantaloni con i palmi delle mani e gli fece cenno di seguirlo. Dopo qualche centinaio di metri si fermò. Si trovavano davanti a una casa bassa con i muri scrostati che un tempo era stata pitturata di un bel rosa confetto. L’uomo gli fece strada lungo una scala. Al secondo piano si fermò, prese dalle tasche un mazzetto di chiavi, ne scelse una e aprì una porta. Dentro alla stanza c’era un letto con una coperta, senza lenzuola. «C’è pure un bagno» disse l’indiano, indicandogli una porta di lato. L’uomo l’aprì. Osservò il minuscolo lavandino bianco e la tazza. «Quanto costa?»

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«Quanto si ferma?» «Fino alle otto.» «Di sera?» «No, di mattina, fra cinque ore me ne vado.» «Allora fanno trecento rupie.» «D’accordo. Devo pagare subito?» «Certo che sì. Quando se ne va lasci la chiave nella toppa.» Appena l’indiano fu uscito l’uomo appoggiò lo zaino sul pavimento, pisciò nella tazza del bagno e si stese sul letto. La coperta era di lana. Che fastidio! La sentiva pungere sulle zone scoperte delle braccia e del collo. Caricò la suoneria del telefonino e chiuse gli occhi. Dopo un po’ dormiva. Lo svegliò un leggero solletico sul viso, una sorta di formicolio. Alzò le palpebre. Sul naso, sfuocato per la vicinanza, uno scarafaggio lo fissava. Istintivamente gridò, mentre con una manata scacciava l’insetto. Fu immediatamente sveglio. Lo scarafaggio correva come un pazzo sulle pareti, poi sparì dietro a un quadro senza vetro raffigurante Krishna bambino. L’uomo provava ribrezzo. Guardò l’orologio, appena le sette. Era presto, ma gli sarebbe stato impossibile dormire ancora perché intravedeva le zampine dell’insetto ai margini della cornice. Temeva che se si fosse riaddormentato sarebbe tornato a passeggiare su di lui. Andò in bagno e si lavò la faccia. Indossò una camicia pulita a manica corta, poi si pettinò, infine si mise seduto sul letto. Dopo dieci minuti lasciò la stanza e raggiunse l’aeroporto. Arrivò a Leh, la capitale del Ladakh, poco prima di mezzogiorno. Aveva letto un’infinità di libri e riviste su quello stato a nord dell’India. Oltre che Ladakh era chiamato Piccolo Tibet, a motivo delle alte montagne e della presenza di numerosi tibetani fuggiti dal loro paese dopo l’invasione cinese del millenovecentocinquanta. Aveva visto parecchie foto della città per cui pensava non avrebbe avuto sorprese; una volta arrivato gli sarebbe parso di essere in un ambiente se non familiare almeno conosciuto. Si sbagliava. Il paesaggio era molto più brullo di quanto immaginasse. Gli rammentava vagamente quello cileno: colori grigio e ocra, catene montuose in lontananza, e sopra un cielo terso che feriva gli occhi. Gli piacque subito. Alcuni poliziotti armati giravano dentro e fuori l’aeroporto. Nei giorni seguenti ne avrebbe visti spesso. Qualcuno gli spiegò che gli indiani tenevano sotto controllo quella zona nel timore di qualche invasione da parte dei ribelli pakistani.

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Un anziano che camminava a pochi passi da lui cadde a terra colto da un malore. Un poliziotto si avvicinò e chiamò qualcuno con una radio. «È la carenza di ossigeno, qui siamo a tremilacinquecento metri» disse una giovane donna guardandolo. Quando uscì dal terminal un tassista lo avvicinò. «In centro? La porto in centro. Cerca un albergo?» L’uomo spinse il suo zaino sul sedile posteriore dell’auto e poi ci si sistemò accanto. Sapeva che sarebbe stato più economico prendere una corriera ma non ne aveva viste. Forse si trattava di aspettare, ma aveva fretta di arrivare a Leh, per stendersi su di un letto comodo, mangiare qualcosa, e dormire per davvero. «Se vuole la posso portare in un albergo buono per gli stranieri, non costa molto» disse il tassista girando la manopola della radio. Partì con un’accelerata brusca mentre una musica cantilenante si diffondeva. «D’accordo per l’albergo» confermò l’uomo mentre appoggiava la testa sullo schienale dell’auto. L’albergo si chiamava Royal Palace Hotel. Si trovava lungo una strada in salita che terminava nel centro della città. Era nel tipico stile di quel paese: tetto piatto, pareti tinteggiate di bianco e tanto legno. Gli diedero una camera con vista sulle montagne e questo lo rese contento. Un certo numero di camere guardava invece all’interno, verso un giardino con albicocchi e seggiole bianche. Tirò il pesante tendaggio color vinaccia che oscurava la stanza. In quel momento il cielo era color latte. Era ora di pranzo, aveva fame ma anche sonno. Alla fine prese una mela dallo zaino, la sbucciò con un coltellino e si mise a mangiarla. Non era un granché, si trovava in quella tasca da alcuni giorni ed era leggermente avvizzita oltre che ammaccata. Decise che quel frutto sarebbe stato il suo pranzo. Il sonno era più intenso dell’appetito. Si svegliò che il cielo cominciava a tingersi dei colori della sera. Era certamente ora di cena e di lì a poco sarebbe stato buio. Non si sentiva bene: il cuore gli batteva veloce nonostante fosse steso. Prima di partire un suo amico gli aveva suggerito di starsene tranquillo per un paio di giorni, per dar modo al corpo di acclimatarsi all’altitudine; aveva pensato che esagerasse e che sarebbe bastato riposare qualche ora a letto. Si tastò il polso, era frequente e debole. Frugò nello zaino. Dentro a un contenitore di plastica teneva alcuni medicinali di base che gli aveva suggerito il suo medico, fra questi anche una specialità omeopatica ricavata dalle foglie di coca. Se ne versò in bocca cinque granuli, direttamente sotto la lingua. Attese che fosse completamente buio, poi scese al pianterreno per la cena.

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2. Alessandro L’uomo si chiamava Alessandro Vitaschi, ma tutti lo chiamavano semplicemente e solo Sandro. Era nato a Vicenza, in una vecchia casa della storica Contrà Barche. Aveva quarant’anni appena compiuti e viveva solo. Non era né brutto né bello. Qualcuno lo trovava di aspetto gradevole ma i più parlavano di lui come di un tipo anonimo il che, secondo una sua logica, equivaleva a esser brutto. La bellezza, quando c’è, non è mai anonima; un bell’uomo, come una bella donna, cattura l’occhio. Una persona che non si nota, alla fine è brutta; questo era il suo pensiero. Di altezza media, cioè intorno al metro e settanta, capelli castani portati a caschetto, le gambe troppo magre rispetto al busto, viso ovale, naso leggermente schiacciato e labbra sottili. A essere inconfutabilmente piacevoli erano solo gli occhi, intelligenti e di un bel colore nocciola cangiante. In certi momenti, ad esempio sotto la luce del pieno giorno, davano singolari riflessi come se dentro vi nuotassero pagliuzze d’oro. Era quello sguardo scintillante a renderlo una persona vagamente interessante. Era necessario però che lo guardassero negli occhi e questo accadeva di rado, perché lui non lo permetteva. Perlopiù teneva lo sguardo basso, a livello del petto degli interlocutori, e d’estate indossava sempre occhiali scuri per proteggersi dal sole, oltre che dagli sguardi altrui. In merito al suo carattere si sarebbe potuto dire che era tenace. Lo era diventato col tempo perché da ragazzo si distraeva facilmente iniziando decine di faccende che lasciava poi incompiute. A conoscerlo era pure simpatico, faceva battute, rideva. Gli piacevano le donne, ma non da lasciarci il cuore. Alla passione preferiva la tranquillità perché odiava gli alti e bassi e nelle storie d’amore che aveva avuto, assai poche per la verità, passava da momenti di esaltazione ad altri di scuro sconforto. Bastava che una donna dicesse di amarlo perché gli vibrasse il petto. Appena questa si stancava di lui, di solito a motivo del suo lavoro che lo portava sovente in giro, cadeva come malato per intere settimane, trascinando le gambe come un vecchio. A un certo punto gli era parso che nelle storie di cuore la sofferenza superasse la gioia e aveva cominciato a evitarle. Si fermava sempre prima di un bacio, di un

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invito. Se si sentiva troppo solo partiva. Restava lontano da casa una decina di giorni, non di più, concludeva qualche affaruccio e tornava contento e ricaricato. La passione per i viaggi gli veniva da suo padre. Quando era ragazzino aveva viaggiato spesso con il genitore, soprattutto dopo che la madre era morta. Lui aveva diciotto anni quando s’era ammalata. Li aveva lasciati nel giro di otto mesi dopo grandi sofferenze. Suo padre lavorava in un’azienda chimica della zona e aveva due periodi di ferie: ad agosto e a Natale. In quei momenti dell’anno quasi sempre loro due partivano: Egitto, Zimbawe, Costa d’Avorio, Ucraina, Inghilterra, Australia, Colombia. Era sempre suo padre a decidere dove sarebbero andati e lui lo riteneva giusto, visto che era il genitore a pagare per tutti e due. Ancora giovane aveva aperto un negozio di oggetti antichi nella prima periferia della sua città natale. Niente di che. Vecchi vasi di terracotta, suppellettili, mobili, qualche libro e piccoli monili. Aveva cominciato vendendo quanto era appartenuto a sua nonna, una nobildonna ormai in miseria che alla morte gli aveva lasciato in eredità la villa cadente dove i suoi erano vissuti da generazioni. All’inizio si era sentito in colpa. Ricordava ancora quando aveva venduto il letto dove la donna aveva esalato l’ultimo respiro. In quel periodo non se la passava bene, stava già da solo e non intendeva chiedere aiuto a suo padre. Il letto l’aveva adocchiato un conoscente che gli aveva offerto una cifra sufficiente per tirarlo su di morale. Se l’era portato via su di un furgoncino, dopo aver tolto le reti e i materassi. All’uomo interessava in pratica solo la testiera perché di legno intarsiato con bei motivi floreali. Poi era toccato alle poltroncine di velluto rosso del salottino. Non ricordava quando gli era venuta l’idea di aprire un negozio di antichità, ma non era trascorso molto tempo dalla morte di sua nonna. Col tempo aveva pensato di arricchire il negozio con oggetti provenienti dai paesi che visitava. Fu una splendida idea: le tre stanze che costituivano il negozio si riempirono di tamburi masai, collane di pietre dure, stoffe pregiate, tessuti ricamati a mano, boomerang, miniature di navi vichinghe. Così il negozio di antichità divenne un negozio di articoli etnici. A frequentarlo erano soprattutto giovani “alternativi” in cerca di qualche pezzo curioso da sistemare su di una mensola o da appendere a una parete in camera. Continuava a vendere qualche mobiletto, ma era poca cosa a confronto delle varie cianfrusaglie che teneva in bella mostra su scaffali sempre stracolmi.

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Sandro era a Leh da due giorni e cominciava a sentirsi meglio. Prendeva sempre i granuli di coca ma lo faceva quasi fosse un vezzo, come mangiare una caramella. Non era certo che quelle minuscole palline bianche l’avessero aiutato per davvero. Pensava che, semplicemente, col passare dei giorni il suo fisico si era acclimatato. Risaliva a piedi la strada fino al centro cittadino; poche vie piuttosto trafficate con molti negozi per turisti. Comperò una trentina di rosari di preghiera. Ne trovò con i grani (rigorosamente centootto) di svariati tipi di pietre, ma i più belli, così valutò pensando a quando li avrebbe venduti nel suo negozio, erano quelli con i semi di loto. Quelli realizzati con ossa di yak li lasciò perdere perché emanavano un odore rancido. Comperò anche alcuni rotoli di bandiere di preghiera. In Italia c’era sempre qualcuno a cui piaceva fissarle fra i muri delle case o ai balconi. Indugiava in quelle occupazioni, ma lo scopo di quel viaggio era un altro. Suo padre, Valerio Vitaschi, era morto in quel posto sei anni prima, durante un viaggio con amici. Lui non c’era. Suo padre gli aveva chiesto se voleva unirsi alla comitiva ma lui aveva rifiutato perché appena tornato dalla Mauritania. Che peccato, aveva detto lui. Sandro aveva replicato: «Ma sei con i tuoi amici, ti divertirai.» Aveva accompagnato in aeroporto i quattro uomini. Quando li aveva salutati suo padre aveva detto sorridendo “ci vediamo”. Invece non si erano più visti. Sandro aveva visto solamente una bara sigillata, a Delhi, prima che fosse imbarcata sull’aereo per essere portata in Italia. I tre amici del padre erano rientrati subito dopo la disgrazia. Era stato uno di loro, Camillo, a informarlo dell’accaduto. Un giorno erano andati tutti insieme a visitare il monastero di Lamayuru, dove si erano poi fermati a dormire. Il mattino successivo suo padre era scomparso. Poi un monaco l’aveva notato in fondo a una scarpata, vicino al monastero. Cos’era accaduto quella notte? Nessuno aveva udito nulla nonostante il silenzio totale di quei luoghi. Nessun grido, nessuna richiesta d’aiuto. Forse l’uomo era uscito a fumare, aveva camminato nel buio senza rendersi conto di essere vicino a un precipizio. Un piede nel vuoto e la fine. Sandro prima di allora non aveva pensato di andare a visitare il luogo dove suo padre si era sfracellato contro le pietre. Gli faceva impressione anche solo l’idea di vedere quel posto, ma continuava a fare un sogno. Vedeva suo padre precipitare nel nero della notte, la

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brace della sigaretta che scompariva, e poi un bambino con le guance arrossate dal freddo. Quel sogno si ripeteva di continuo, ossessionandolo. L’ultima volta era accaduto a Delhi, dentro alla camera con lo scarafaggio, durante il breve sonno che l’aveva rapito. Da quando era a Leh, stranamente, non sognava. Si addormentava pesantemente e dormiva fino a quando la luce del giorno non filtrava da dietro al tendone. Aspettava. Passava le giornate gironzolando, poi pranzava al secondo piano di un edificio a cui si accedeva da una scala esterna. I proprietari erano nepalesi, molto gentili. Mangiava solo cibi vegetariani. Gli piacevano soprattutto i sottili spaghetti di riso. Appena finito di mangiare andava sulla terrazza del ristorante e da là fissava la città. In mezzo al paesaggio brullo si aprivano macchie verdi di alberi: pioppi con i rami fitti, e salici dalle cortecce giallo-verdi. A tremilacinquecento metri di altezza altre specie, evidentemente, non riuscivano a sopravvivere. Unica eccezione gli albicocchi. L’aveva trovato strano, ma aveva letto che la regione era conosciuta per l’abbondante produzione di albicocche, arancioni e succose. Quelle non consumate fresche venivano essiccate al sole e conservate in sacchetti ben chiusi. Quel mattino ne aveva comperate da un vecchio che le esponeva su di un’asse lungo la strada polverosa. L’altra cosa che non si aspettava era l’inquinamento della città. Fumi neri arrivavano a ondate in mezzo alle vie trafficate. Uscivano dai tubi di scarico delle automobili, ma anche dalle botteghe artigiane e dai camini. Spesso si avvertiva odore di nafta. Dalla terrazza del ristorante, dopo essersi lavato le mani in un piccolo lavandino collocato accanto ai servizi igienici, Sandro esplorava la città con l’olfatto, cercando di discernere i profumi portati dal vento che spirava costante. Ora che si sentiva meglio poteva cominciare a muoversi. Non sarebbe andato subito a Lamayuru, no, quella località l’avrebbe tenuta per ultima. Prima voleva visitare i monasteri più vicini, ma prima ancora voleva fare un giro a Sabu, dove viveva un famoso oracolo. Rientrando in albergo sostò a un negozietto che vendeva le katag, finissime sciarpe solitamente di seta, bianche o beige, che era usanza donare ai geshe, i monaci buddisti dotti. Era tradizione lasciare una sciarpa nei monasteri. La stoffa sottile si adagiava ai piedi delle statue dei Buddha o attorno al collo dei monaci, seguendo un rituale piuttosto rigido di cui aveva letto qualcosa.

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Davanti all’ingresso del Royal Palace sostavano due fuoristrada. Facevano la spola per il centro per quegli ospiti che non gradivano camminare, inoltre erano a disposizione per eventuali escursioni. Sandro si accordò con un autista per andare a Sabu il giorno successivo, di primo mattino. Dopo la colazione, quando uscì dall’albergo, l’uomo già lo attendeva, ben vestito e pettinato. L’oracolo di Sabu, dal nome del paesino dove viveva, era in realtà una donna. Abitava in una casetta isolata, in fase di restauro. Sandro entrò in una stanza già piena di gente. Si trattava di un gruppo di giovani inglesi accompagnati da un anziano che pareva essere molto a suo agio, segno forse che non era la prima volta che veniva in quel posto. Sandro fu fortemente impressionato. La donna, una vecchia, aveva in testa uno strano cappello e si copriva il volto con un fazzoletto rosso. In una mano stringeva una campanella e un minuscolo tamburo che scuoteva di continuo mentre recitava qualcosa. Sembrava in trance. Di lì a poco l’autista, che era andato a parcheggiare, entrò. «Chieda qualcosa all’oracolo» gli disse piano, dopo che gli fu vicino. «Capisce l’inglese?» «No, ma posso tradurre io per lei.» Poi aggiunse: «Tranquillo, non le costerà nulla in più.» L’uomo cominciò a pensare a cosa avrebbe potuto chiedere a un oracolo. Era venuto per passatempo, non credeva a quelle cose. Lo stesso atteggiamento l’aveva nei confronti degli oroscopi. Considerava come minimo ingenui quelli che consultavano giornali e riviste per sapere se gli astri erano favorevoli o contrari. Intanto i giovani inglesi, uno alla volta, andarono a inginocchiarsi davanti alla vecchia. Il loro accompagnatore si era seduto lì accanto e traduceva per loro. Ognuno chiedeva qualcosa: avrebbe trovato l’amore? E un lavoro? Uno chiese se sua zia sarebbe guarita da una brutta malattia, un altro se sarebbe riuscito a mettersi in proprio come giornalaio. Sandro si tratteneva dal sorridere. Dopo che aveva posto la sua domanda la persona appoggiava la fronte contro quella dell’oracolo. Poi i due rimanevano così, in silenzio, testa contro testa, quindi la donna dava il responso. Alla fine gli inglesi se ne andarono lasciando una manciata di rupie dentro a un cestino pieno a metà di semini e riso. Se voleva era il suo turno. La vecchia si era tolta il fazzoletto dalla faccia e stava zitta. Era

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una donna piena di rughe, pelle scura come i contadini di qualunque paese al mondo. Borbottò qualcosa all’autista. Questi disse: «Chiede se ha una domanda da rivolgerle.» Sandro d’impeto disse di sì. Mi mise accosciato davanti a lei e chiese: «Sono venuto per mio padre. Troverò delle risposte?» L’autista tradusse. La donna chiuse gli occhi e rimase come concentrata su qualcosa. Poi parlò. L’autista le chiese qualcosa e fra i due iniziò una conversazione che durò qualche minuto. «Dice che sarà suo padre stesso a dargliele.» Sandro trattenne una risata. «Mio padre è morto» replicò. L’indiano tradusse. La vecchia si strinse nelle spalle e disse qualcos’altro. «Dice di essere sicura. Ha aggiunto che deve seguire il Buddha.» «Andiamocene» tagliò corto l’italiano. Tornarono a Leh senza parlare. L’autista guidava veloce schivando le buche e facendo salire nuvole di polvere. Sandro guardava fuori dal finestrino. Arrivati all’albergo risalì in camera vagamente seccato. Aveva sperato inconsciamente che l’oracolo gli desse qualche “dritta” su suo padre, invece gli aveva detto una cosa assurda… Suo padre era morto, lui stesso l’aveva sepolto nel cimitero accanto a sua madre; come avrebbe potuto dargli delle spiegazioni? Poi la vecchia gli aveva suggerito di diventare un seguace dell’Illuminato, ci mancava solo quello! Pranzò nel tepore di un salone quasi vuoto. I turisti erano pochi in quel periodo. Era maggio. Gli americani e gli europei cominciavano ad arrivare verso luglio. Poi uscì di nuovo. A poca distanza dall’albergo, vicino a un incrocio, era installata una grande ruota di preghiera. In quel momento non c’era nessuno che la facesse girare. Sandro ci appoggiò sopra una mano e spinse, pensando ai rotoli di preghiere che giravano veloci all’interno del cilindro pieno di raffigurazioni sulla vita del Buddha. Accanto alla ruota, un muro di sassi delimitava una zona militare in disuso. Era pieno di cani. Lui fece qualche verso di richiamo e alcuni cuccioli arrivarono correndo. Allungò una mano e li accarezzò sul muso. Uno aveva una brutta ferita sulla schiena ed era particolarmente magro. Sandro fu dispiaciuto di non aver nulla con sé da dargli. Sull’altro lato della strada un vitello e due asini facevano a pezzi uno scatolone strappandolo con i denti e la lingua. Non era la prima volta che vedeva gli animali mangiare i cartoni, ma gli fece una

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certa impressione; in giro non c’era un filo d’erba e le bestie cercavano di sopravvivere ingerendo la cellulosa triturata di scatole usate per il trasporto della frutta. Prese la direzione del centro. Là individuò un negozietto di generi alimentari. Comperò del formaggio a fette e dei biscotti, per gli animali. Il mattino successivo per colazione si fece preparare una frittata, poi anziché mangiarla l’avvolse in una salvietta di carta. Uscì, attraversò la strada e chiamò “cani, cagnolini!”. Li vide arrivare di corsa. Erano usciti da alcuni resti di mura, cumuli di pietre squadrati. Fece a pezzi la frittata e la diede ai cuccioli. Arrivò anche la madre, lo si capiva dalle mammelle flosce, sfibrate. Purtroppo la frittata era terminata.

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3. Il monastero Il paesaggio era lunare, spazi vastissimi con dune di sabbia e rocce, sotto un cielo terso. In lontananza erano visibili le montagne di oltre cinquemila metri. Sandro stava seduto accanto al posto di guida su di un fuoristrada bianco, ammaccato in più punti. Sul sedile posteriore della macchina, una otto posti, stavano sprofondate due coppie di italiani e tre giovani austriaci. Erano partiti alle sei mentre il sole cominciava ad accarezzare i profili innevati dei monti. Lungo il tragitto avevano fatto un paio di soste tecniche; in pratica le donne avevano pisciato, accucciate dietro alle rocce. Quando erano risalite a bordo alcuni fazzolettini di carta svolazzarono sulla sterrata. Sandro pensò che la civiltà era anche quello: asciugarsi in mezzo le cosce dopo aver orinato. Le donne parlavano fra di loro mentre i rispettivi mariti dormicchiavano o almeno tentavano di farlo. La strada, una vecchia pista carovaniera, serpeggiava lungo un fondovalle. All’improvviso sullo sfondo apparve il monastero. Sandro lo riconobbe immediatamente perché aveva visto numerose foto su depliant turistici, e poi uno degli austriaci lo indicò con un braccio dicendo “Lamayuru”. La donna dietro di lui fece: «Ma è un posto fuori dal mondo!» Intanto strattonava per un braccio il marito semi addormentato. Lui bofonchiò qualcosa mentre lei diceva che non capiva quelli che fanno un viaggio per poi dormire. Il monastero era su di uno sperone roccioso dove in quel momento batteva il sole. Sandro spaziava con lo sguardo, incantato dalla bellezza del posto. Si intravedevano alcuni chorten, piccole costruzioni di sasso dove venivano conservate reliquie di santi, e più in là c’era il villaggio. Aveva letto che ci vivevano circa cinquecento persone. Erano loro a provvedere al sostentamento dei monaci. Questi passavano per le case alla ricerca di offerte di cibo necessarie alla sopravvivenza. Non accettavano denaro. “Non proprio come i nostri preti” pensò l’uomo.

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Quando la macchina fu a poca distanza dalle pareti di roccia sulla cui sommità sorgeva il monastero, l’autista frenò bruscamente. Si alzò una nuvola di polvere che per qualche istante nascose la visuale. «Siamo arrivati» disse l’uomo. Fuori li accolse un vento gelido. Sandro pensò al calore terribile di Delhi. Preferiva il freddo al caldo. Quando faceva freddo ci si poteva coprire di più, contro il caldo non c’era invece modo di ottenere sollievo, a meno di non rimanere in ambienti climatizzati. Si mise un berretto e chiuse la lampo della giacca a vento, compiaciuto di quel clima. Tutti scesero. Le donne presero a braccetto i rispettivi compagni. Gli austriaci cominciarono a scattare foto. Il gruppo si avviò per il sentiero che conduceva al monastero. Camminando Sandro notò che per terra era disseminato di sassi scolpiti. «Pietre di preghiera» spiegò l’autista. Una donna disse: «Qui c’è un’atmosfera senza tempo.» Suo marito fece: «Qui è esposto al sole dall’alba al tramonto.» Sandro pensò a come le donne tendevano a notare gli insiemi, il contesto, mentre gli uomini buttavano subito l’attenzione sui particolari e sugli aspetti pratici, in quel caso la buona esposizione al sole. Sandro si sentiva il cuore lieto. In quel momento non pensava a suo padre morto. Respirava a pieni polmoni senza fatica, sentiva il sole sulla faccia, provava una sensazione di benessere. L’autista stava spiegando che quello di Lamayuru era uno dei più grandi e antichi monasteri dei berretti rossi, i buddisti di tradizione tibetana. Era stato fondato intorno all’anno mille da Mahasiddhacarya Naropa, così almeno pareva. Ai tempi d’oro vi risiedevano quasi quattrocento monaci, ora ridotti a poche decine. Il monastero non era molto diverso da quelli che Sandro aveva visitato alcuni giorni prima. Era stato a Spituk, a Timse e a Tilke. Alla fine si assomigliavano tutti. Quello di Lamayuru era però molto più grande, l’autista aveva ragione. C’erano diversi templi e cappelle, oltre alle stanze riservate ai monaci. Chiese all’autista se fosse lì la grotta dove secondo la tradizione aveva meditato il grande maestro indiano Naropa, l’uomo che aveva diffuso le dottrine buddiste in Tibet. L’autista scosse la testa e disse che la grotta si trovava nel monastero di Atitse, luogo particolarmente sacro. Là, nel millenovecentonovantasette, un certo Paljin Tulku Rinpoce aveva allestito un tempio unico nel suo genere,

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chiamato Tempio delle mille Tare, per omaggiare appunto Tara, la divinità femminile più venerata dai tibetani. Quando furono nel vasto cortile interno del monastero, il gruppo si disperse. Avevano un’ora di tempo per visitare il complesso, poi sarebbero ripartiti alla volta del villaggio. L’austriaca chiese in inglese cosa ci fosse di interessante al villaggio, l’autista rispose che si poteva vedere come vivevano gli abitanti del posto. Sandro rimase solo. Era quello che desiderava dal momento in cui era salito sul fuoristrada. Il desiderio di starsene da solo l’aveva spinto anche a valutare la possibilità di noleggiarsi un’auto per visitare quei luoghi come meglio credeva, ma poi aveva lasciato perdere temendo di incorrere in qualche incidente o di rimanere senza carburante. All’albergo, poi, l’avevano sconsigliato, così alla fine si era aggregato a quella comitiva. Un’ora. Era pochissimo tempo. Lui voleva capire dove fosse morto suo padre. Camminò sotto un porticato dove alcuni monaci realizzavano minuscole candele impastando cera e burro. Vide che la turista austriaca ne comperava una. La donna entrò poi nel vicino tempio. Sandro la seguì a distanza. Si tolse le scarpe e fece un passo per superare il gradino che delimitava lo spazio interno. Dentro c’era una luce soffusa. Non c’erano finestre e la luminosità proveniva dalla porta aperta alle sue spalle e da file di candele accese, collocate su una specie di grata in ferro. L’austriaca accese la sua candela avvicinandola alla fiamma di una già accesa, poi la mise in fila con le altre. Una statua di Buddha color oro occupava quasi l’intero spazio del tempio. Appena si fu abituato alla penombra, Sandro notò che ai lati della statua, perfettamente immobili, stavano accosciati due monaci. Uno dei due si alzò, si avvicinò a un tamburo e cominciò a percuoterlo dolcemente. L’altro tirò fuori da sotto le vesti un strumento simile a un oboe e prese a soffiarci dentro. Poche note, ripetute, inframmezzate da trilli. L’uomo si sentì avvolto in un’atmosfera mistica. Dopo una decina di minuti, cercando di non far rumore, uscì dando un’ultima occhiata all’austriaca che pareva pregare. Prese a girare nei piccoli cortili attorno a quello principale, cercando dove le mura del monastero scendevano a picco sull’altopiano circostante. Immaginava suo padre, i suoi amici, mentre giravano in quegli stessi luoghi. Da dove era precipitato suo padre? C’erano decine di punti da cui, sporgendosi, si sarebbe potuti cadere. Non c’erano protezioni. I monaci dovevano stare ben attenti…

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Come altri monasteri, Lamayuru era un insieme di costruzioni in pietra addossate le une alle altre dove al posto del tetto c’erano terrazzini. Sandro salì su di una scala a pioli e raggiunse un terrazzo. Capitò in mezzo a migliaia di pezzi di tela colorati, le bandiere di preghiera. Si sentiva il rumore secco delle stoffe che sbattevano fra di loro e sui pali a cui erano fissate. Ci passò in mezzo proteggendosi il viso. Che sensazione! Era una specie di abbraccio multicolore. Immaginò le preghiere portate dal vento, in una ripetizione senza fine. Vedeva sotto di sé le due coppie di italiani. Avevano già terminato la visita perché si guardavano attorno con aria annoiata. Guardò l’orologio, aveva ancora mezz’ora di tempo. Mezz’ora per fare che? Per guardare dall’alto i pochi campi coltivati, le rare capre pashima che cercavano sul terreno arido qualche filo d’erba da masticare, e due yak dal pelo scuro. Poco più in basso alcuni monaci risalivano il sentiero portando in schiena fasci di legna. Tutti erano vestiti con l’abito tradizionale, la tonaca, nei colori zafferano e bordeaux. Con loro c’erano due bambini. Uno di loro rallentò il passo e guardò nella sua direzione, poi sventolò una mano in segno di saluto. “I bambini sono uguali in qualunque paese del mondo, hanno sempre voglia di giocare” pensò Sandro mentre ricambiava il saluto allo stesso modo. Poi il gruppetto scomparve dietro a un muro. Non stava combinando nulla di utile. Se voleva saperne di più su suo padre doveva parlare con i monaci. Certamente ricordavano il turista italiano che era precipitato, uccidendosi. Il fatto era accaduto solo sei anni prima. Sandro diede un’ultima occhiata al paesaggio sconfinato che lo circondava e scese in fretta dal terrazzo. Nel grande cortile regnava un silenzio assoluto. Si sentiva solo il vento che fischiava incessante attraverso le fessure delle finestre che guardavano il villaggio vicino. I soliti monaci stavano seduti per terra; ora erano occupati a modellare della cera realizzando formine simili al corpo di un Buddha. Un altro, decisamente più anziano, sgranava un rosario. Om mani padme hum, ripeteva continuamente. Sandro ebbe un attimo di esitazione. Gli dispiaceva disturbare i monaci, ma gli premeva avere delle risposte. Quello anziano lo guardò da sopra una sciarpa che gli avvolgeva il collo e le spalle. Sorrise. Sandro si chiese se parlasse inglese, almeno quanto lui, cioè non tantissimo. A rompere il silenzio fu uno dei due giovani.

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«Vuole una candela per il tempio?» chiese in inglese. «No, vorrei un’informazione.» «Va bene» rispose sorridendo. Sandro pensò a come quelle persone sorridessero sempre; non sapeva se era per una questione di carattere, per cultura, o a motivo della loro religione che raccomandava la gentilezza. «Sei anni fa in questo posto è morto un uomo, un italiano…» Il monaco parlò con il suo compagno, poi rispose: «È vero.» L’uomo attese che il monaco aggiungesse dell’altro, ma quello continuava a fissarlo con espressione candida. «Era mio padre… vorrei vedere dove è successo.» «Suo padre?» «Sì.» Negli occhi del giovane monaco passò un lampo di stupore. Si mise a parlare fitto con quello che gli sedeva accanto, poi si rivolse all’anziano il quale smise di recitare le sue preghiere. Intanto sopra le teste dei quattro uomini si muoveva incessante un vento che diventava via via più forte. In alto nel cielo giravano alcuni corvi. Il monaco anziano alzò lo sguardo, poi disse qualcosa. «Hanno girato in cerchio per tre volte» sottolineò il giovane. «Significa qualcosa?» domandò Sandro. «È un buon auspicio» spiegò il monaco. Sandro intravide l’autista in lontananza. Doveva essere trascorsa un’ora. Gli restava pochissimo tempo. «Sapete dirmi di mio padre?» insistette. L’anziano parlò di nuovo con il giovane monaco, poi questi disse: «C’è una sorpresa per lei, venga.» I tre monaci si alzarono. Il vecchio camminava con passo incerto. Incrociarono l’autista, questi gli fece un cenno col capo e disse: «Solo dieci minuti ancora.» “Una sorpresa, di cosa poteva trattarsi?” Così pensava Sandro, perplesso. I monaci oltrepassarono il tempio quindi svoltarono dentro a una porta bassa sovrastata da una ghirlanda di rami secchi intrecciati. L’italiano li seguiva. Furono in un cortiletto delimitato da un porticato dove erano riposti i fasci di legna. In un angolo c’era un serraglio con alcune galline. Per le uova, spiegò il monaco giovane. Sandro non lo sentì. Era teso perché pensava che gli altri del gruppo probabilmente lo stavano già aspettando.

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Poi l’anziano gridò qualcosa e un piccolo monaco uscì da sotto il portico. In mano teneva un pezzo di pane. Diede una serie di occhiate, spostando lo sguardo dai monaci a Sandro. «Sei venuto» disse infine. Sandro parve non comprendere. Nemmeno capì che il bambino si era rivolto a lui. Fu questione di pochi istanti. Poi ebbe consapevolezza che il bambino aveva parlato nella sua lingua, in italiano! Com’era possibile? In quei posti se trovavi qualcuno che parlava un po’ di inglese eri già fortunato, pensò. Il giovane monaco disse: «Si chiama Altan. Dall’età di tre anni si esprime a volte in una lingua che non è quella dei suoi genitori. Quando è stato portato qui noi non capivamo di che lingua si trattasse, poi un giorno vennero dei turisti italiani e lui parlò con loro. Conosce solo poche parole. Col passare del tempo sta dimenticando, naturalmente.» «Com’è possibile che conosca una lingua che non gli è stata insegnata? E cosa significa che sta dimenticando?» «Non si tratta di una lingua che ha imparato adesso.» «Cosa?» «Per lei forse è difficile da comprendere… è uno di quei casi che si verifica ogni tanto.» «Uno di quei casi…?» Un pensiero faceva capolino nella sua mente ma lo rifiutava, scettico. Poi fu il monaco a dire la parola che lui aveva pensato. «Reincarnazione.» «Reincarnazione» ripeté Sandro, basito. Poi si scosse. Si sentiva ridicolo perché si limitava a ripetere le parole dell’altro. «Lui sarebbe…» Il monaco prese a dargli del tu. «Sì. Tutto torna, è nato sei anni fa, pochi mesi dopo la morte di tuo padre. Anche la circostanza che sia nato qui è significativa. E poi i suoi ricordi, e quelle parole in una lingua che nessuno gli ha insegnato.» «Voi credete davvero a queste cose?» Il monaco parlò con gli altri e poi tutti risero. «Scusaci, noi troviamo incredibile che gli occidentali non credano a tutto questo. È ovvio che le cose stanno così.» Poi aggiunse: «Non mi sono ancora presentato, mi chiamo Sonam. Tu come ti chiami?»

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L’uomo non rispose. Fissava il bambino tenendo le braccia lungo il corpo, come svuotato di energia. A parlare fu il bambino. «Alessandro» disse piano. L’uomo sentì un brivido lungo la schiena. Suo padre era l’unica persona al mondo a chiamarlo a quel modo. Tutti gli altri, parenti e conoscenti, lo chiamavano col diminutivo di Sandro. Si tolse gli occhiali da sole. Notò allora che il piccolo aveva le guance arrossate. Il cuore accelerò. Il bambino del suo sogno ricorrente gli somigliava moltissimo. Sandro era senza parole. Una persona gli aveva appena detto che quello che aveva di fronte era suo padre, poi lui l’aveva chiamato come usava fare il genitore, in più quella somiglianza straordinaria con il bambino del sogno. Questo era molto più di quanto la sua razionalità potesse accettare. Tutto gli pareva irreale. D’improvviso si ricordò che lo stavano aspettando. Guardò l’orologio: era lì da un’ora e un quarto. Ora però non poteva andarsene, non subito, non prima di aver parlato con quelle persone, con quel bambino. Aveva fatto un lungo viaggio per capire cosa era veramente accaduto a suo padre. Forse adesso avrebbe avuto delle risposte. Doveva restare. «Potrei rimanere qui a dormire?» chiese d’improvviso guardando il suo interlocutore. Questi si rivolse al monaco anziano. I due si parlarono a lungo. «Se vuoi puoi restare.» Sandro si sentì sollevato. «Grazie, non vi recherò disturbo. Scusatemi, devo avvertire gli altri del gruppo.» Sandro tornò in fretta nel cortile. I suoi compagni di escursione stavano chiacchierando. L’autista fu il primo a vederlo. «Ora che ci siamo tutti, possiamo andare» esclamò alzando una mano. «Io rimango qui» fece Sandro trafelato. «Rimane? Ma poi come farà a tornare a Leh?» «Troverò il modo, non si preoccupi. Le pago l’intera escursione.» Sandro mise mano al portafogli e diede una banconota all’autista che scrollò la testa. «Stia attento, anni fa qui un tizio è caduto da un precipizio, un italiano come lei…» Una delle donne disse:

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«Scusi se mi permetto di dirglielo, ma forse non è prudente che si fermi. Che ne sa di questa gente?» A Sandro era tornato improvvisamente il buonumore. «Qui ho dei parenti» rispose.

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4. Il piccolo monaco Nel freddo della notte Sandro dormiva rannicchiato dentro a una coperta accanto a un fuoco ormai spento. Poco più in là dormiva il piccolo monaco. Era notte fonda e i due si erano appena assopiti. La luce della luna entrava attraverso un vetro scheggiato, pallida come una nobildonna. Il piccolo russava piano. La porta si aprì con un cigolio. Era il monaco anziano del monastero. Anche a lui sarebbe piaciuto dormire, ma gli acciacchi della vecchiaia lo tenevano sveglio. Sovente sentiva dolore alle spalle e alle ginocchia. Le sue articolazioni scricchiolavano come vecchi assiti sotto il peso di uomini robusti. Aveva spesso bruciore in bocca a motivo di piaghe che gli si formavano di continuo. Non aveva quasi più denti ed era costretto a nutrirsi con la tsampa, farina di orzo tostata, macinata, e poi mescolata ad acqua bollente. Si trattava di un piatto della cucina tradizionale tibetana che lui non amava, perché gli ricordava la pappa dei bambini. Gli rimaneva solamente il piacere del tè. Lo preparava lui per tutti ogni mattina: ci aggiungeva un cucchiaio di burro di yak e dello zucchero. Almeno a quel modo metteva nello stomaco qualcosa di nutriente. Quello che veniva avanzato lo conservava dentro a due grandi thermos, regalo di una turista. Ne beveva poi durante il giorno. Tacitamente si era stabilito fra i monaci che il tè rimasto dopo la colazione fosse per lui, l’anziano di Lamayuru. Con occhi preoccupati guardò i due che dormivano, si sfregò le mani come per scaldarsele e se ne andò. Sandro fu svegliato dal chiarore dell’alba. Dalla finestra scorgeva una striscia di cielo rosa. Sentiva freddo ai piedi. La sera prima i monaci gli avevano consegnato una coperta indicandogli un tavolato rialzato da terra. A quanto pareva, da quello che gli aveva detto Sonam, era in quella stanza che suo padre aveva trascorso la sua ultima notte, prima del volo nel buio. Valerio e uno dei suoi amici - Sonam non ricordava quale - avevano dormito in quel posto, mentre gli altri due del gruppo erano stati alloggiati in un’altra stanza. Per quello che Sandro aveva potuto capire da Camillo, l’amico del padre che gli aveva telefonato informandolo della disgrazia, non era consuetudine che i monaci

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permettessero ai turisti di fermarsi al monastero per la notte, ma una sorta di confidenza si era subito stabilita fra di loro, soprattutto fra il monaco anziano e Valerio, e quando quest’ultimo aveva chiesto ospitalità il monaco era stato d’accordo. I quattro amici avevano in programma di fermarsi tre giorni per visitare con calma il villaggio vicino e per spingersi sulle montagne. Valerio desiderava raggiungere la neve che biancheggiava lungo i crinali sassosi. Quella prima notte la sua vita era invece terminata contro altri sassi… Sandro si tirò su appoggiando un gomito sul tavolaccio. Si sentiva tutto ammaccato. Quello era il letto più duro su cui gli fosse capitato di trascorrere la notte. Altan dormiva ancora. La sera prima avevano parlato fino a tardi, più che altro in inglese. I suoi genitori, nel villaggio dove era vissuto fino ai tre anni, parlavano un dialetto tibetano ma lui aveva cominciato a imparare l’inglese dai monaci giovani, dopo essere arrivato a Lamayuru. In effetti il piccolo monaco conosceva alcune parole di italiano ma Sandro, sempre molto scettico, trovava che il fatto non fosse eccezionale visto che al monastero venivano spesso turisti dall’Italia. La cosa davvero sorprendente era che l’avesse chiamato Alessandro, e poi quella frase “sei venuto”, come se lo aspettasse da tempo. Il bambino gli aveva spiegato di non ricordare molto della sua vita precedente, e di come i suoi ricordi continuassero a sbiadire. Quando avevano parlato di questo argomento era presente anche Sonam il quale gli aveva ribadito che era così che accadeva di solito: i bambini, crescendo, tendevano a dimenticare; a sette o otto anni già non serbavano ricordo della vita precedente. Le occupazioni quotidiane, come il lavoro e la preghiera, nel caso dei monaci, coprivano con un velo tutto quanto apparteneva al passato; a un livello di coscienza profondo, però, tutto rimaneva intatto. Il problema era accedervi. Il principe Siddartha, divenuto poi il Buddha, ricordava centinaia di vite precedenti vissute nell’arco di numerosi eoni, ma si trattava di una eccezione; non per nulla lui era diventato un illuminato, un Buddha appunto. Le prime luci dell’alba illuminarono la parete sopra il letto del bambino. Un riflesso dorato accecò Sandro per un istante; proveniva da una nicchia dove era collocata una piccola statua di Buddha, dipinto nel colore dell’oro, molto simile a quella gigantesca del tempio in cui era entrato il giorno prima. L’uomo distolse lo sguardo, infastidito. Sentiva un forte bisogno di svuotare la vescica. Si chiese se esistesse un bagno in quel posto. Mise i piedi per terra e prese le scarpe. Erano gelide e quando le infilò un brivido di freddo gli risalì lungo le gambe. Uscì. Si

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trovò nel cortile. Le galline becchettavano dentro a un tegame di alluminio. Lì accanto un monaco le osservava reggendo un secchio. «Gli animali hanno fame» disse. «Ho bisogno di andare in bagno.» «È là» fece il monaco indicando con il braccio una minuscola casupola a strapiombo sulle rocce. Sandro ringraziò e si avviò in fretta. Raggiunse la costruzione e urtò la porta di lamierino. Rimase sorpreso. Aveva letto qualcosa sui bagni di quel paese ma non se li era immaginati così essenziali. Il pavimento era costituito da alcune assi con un foro nel mezzo. Fin qui niente di straordinario, in fondo si trattava di una turca, solo che il foro era molto largo; attraverso di esso si intravedevano delle rocce e poi il vuoto. Ora Sandro sentiva anche il bisogno di liberare l’intestino, doveva quindi accovacciarsi. Appoggiò i piedi ai lati del buco e per un istante ebbe paura di poterci cadere dentro. Provò una leggera vertigine mentre barcollava sulle gambe magre. Imprecò pensando al genio che aveva deciso per un buco di quelle dimensioni. Fece i suoi bisogni mentre un’aria fredda gli investiva le natiche. Si guardò attorno. Non aveva pensato alla carta igienica e lì non c’era nulla. Stando attento a non perdere l’equilibrio si frugò nelle tasche dei pantaloni. In una trovò un fazzolettino di carta che usò per pulirsi. Lo lasciò andare sotto di sé, nel vuoto, dove lo vide svolazzare per alcuni istanti. Quando uscì dal cesso tirò un sospiro di sollievo. Trovò il bambino inginocchiato sul letto, che guardava la statuina del Buddha. Altan si voltò. «Sei uscito» disse. Sandro guardò l’orologio, segnava le cinque e mezzo. «Come mai sei già sveglio?» «Ci alziamo presto per la meditazione, ma prima io prego davanti al piccolo Buddha.» «Ti sei svegliato da solo?» chiese, rammentando che fino a poco prima dormiva profondamente. «No, mi chiama sempre Sonam. Adesso mi aspettano al tempio. Se vuoi puoi venire, dopo faremo colazione.» Sandro scrollò la testa. Dopo pochi minuti il bambino uscì dalla stanza. Avrebbe voluto accendere il fuoco, ma non c’era legna. La sera precedente le fiamme di un fuocherello di sterpi avevano intiepidito l’aria, ma ora faceva freddo. Si avvolse nella coperta e si distese sul tavolaccio. Aveva ancora le scarpe addosso.

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Si risvegliò con il sole che inondava completamente la stanza. Del bambino non c’era traccia. Dallo zaino posto per terra prese gli occhiali da sole, li mise, e uscì fuori chiedendosi se si fosse perso la colazione. Vide il monaco anziano che gli fece un cenno di saluto alzando il mento. Arrivò Altan. «Ti abbiamo avanzato del tè e una fetta di ciapatì.» Il piccolo monaco gli fece strada fino a una stanza a cui si accedeva dal porticato. Dentro, alcuni monaci stavano seduti su dei cuscini e mangiavano in silenzio. Sonam non c’era. Altan gli indicò un posto libero e gli portò un bicchiere e un piattino con sopra un pezzo di quel pane che chiamavano ciapatì, infine prese un thermos e gli riempì il bicchiere con del tè al burro. A Sandro la bevanda piacque. Era calda e dolce. Il burro conferiva al tè un vago sapore di brodo che ben si accostava a quello della schiacciata di pane. Altan andò a sedersi a qualche metro di distanza, accanto a un altro bambino. Sandro cominciò a mangiare pensando a come avrebbe trascorso la giornata. Gli interessava parlare ancora con Sonam; inoltre desiderava vedere il punto preciso da cui era precipitato suo padre. Sonam gli aveva promesso di portarlo fino a quel posto quel mattino stesso. Da Altan sperava di ottenere qualche altra informazione. La sera precedente, a un certo punto, il bambino aveva cominciato a raccontargli della vita al monastero, dei giochi che faceva con l’altro piccolo monaco, poi con fare cerimonioso aveva tirato fuori un vecchio giocattolo donatogli da una turista americana poco tempo prima: un minuscolo aereo inglese con un’ala rotta; insomma gli aveva parlato delle sue cosette di bambino. Del resto, cosa poteva aspettarsi? Che gli parlasse come avrebbe fatto suo padre? Non doveva essere così che funzionava con le reincarnazioni. Trattenne una risata pensando che a quelle cose lui non credeva proprio, almeno così era prima di quel viaggio. Se avesse potuto avere un computer e collegarsi a internet avrebbe fatto una ricerca per saperne di più. Si diede subito dello stupido. Si trovava in uno dei posti migliori al mondo per apprendere su quell’argomento: un monastero buddista.

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5. Il precipizio Sandro trovò Sonam in cortile. Il monaco trascinava un fascio di legna. «Oggi tocca a me pensare al fuoco» gli spiegò dopo averlo salutato. «Immagino che serva molta legna per riscaldare tutto.» «Riscaldare tutto? Impossibile. Accendiamo il fuoco per cucinare e per intiepidire le stanze dove stanno i bambini e il vecchio, la sera, prima di andare a dormire.» «Ho visto che c’è un altro bambino, oltre ad Altan.» «Viene da un villaggio di là delle montagne. I suoi genitori hanno fatto un lungo viaggio per portarlo fin qui.» «Sono le famiglie a decidere chi diventa monaco?» «A volte sì, sono in molti a desiderarlo. Avere un figlio in monastero è motivo di orgoglio.» «Per Altan è stato così?» «No. Fin da piccolissimo dalla propria casa guardava il monastero e insisteva col dire di volerci venire. E poi quei segni di cui ti ho parlato… alla fine sua madre ha ceduto.» «Avrebbe preferito qualcos’altro per lui?» «Forse sì. Altan è il suo unico figlio maschio. Sarebbe stato utile per i lavori nei campi, e poi le madri sono molto attaccate ai figli maschi. Se ne avesse avuti altri sarebbe stato diverso.» «Già» ammise Sandro. Sopra le loro teste uno stormo di uccelli cominciò a gracchiare. «I corvi sono tornati» disse Sandro. «Vengono spesso, cercano resti di cibo. A volte lasciamo qualcosa per loro sui tetti.» «I tetti?» «I terrazzi.» «Vorrei chiederti…» «Lo so, ci andiamo subito.» «Viene anche Altan?» «No, quel posto gli mette paura.» «Dov’è adesso?» «Con Shamar, il monaco anziano, è lui che gli insegna il dharma.»

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«Il dharma?» «La dottrina del Buddha.» «Capisco.» «Porto al riparo la legna e poi andiamo, aspettami qui.» Sandro rimase solo. Alzò la testa verso il cielo terso. I corvi si erano allontanati e in quel momento si distinguevano appena, simili a puntini scuri sulla linea dell’orizzonte. Sonam tornò presto. «Andiamo, è qui vicino.» Risalirono verso la sommità dello sperone di roccia, con il vento che gli scompigliava i capelli. Il monaco camminava con passo veloce e dopo un po’ Sandro ebbe il fiato corto. «Ecco, è qui che è successo» disse Sonam quando furono arrivati, indicando un punto in cui un muro esterno terminava contro una parete rocciosa. Sandro si avvicinò e guardò verso il basso. Subito arretrò. Il vuoto che vedeva lo spaventava. In fondo, sul piazzale, si intravedevano alcune auto parcheggiate, segno che i primi turisti della giornata erano arrivati. Poi Sonam aggiunse: «Da questo stesso punto settanta anni fa precipitò un monaco.» Sandro seguiva i suoi ragionamenti quasi senza ascoltarlo. «È lontano dalla stanza in cui dormiva» disse come fra sé. «È vero, ha camminato per un bel po’, considerando che era buio.» «Forse aveva una torcia.» «Laggiù non è stata trovata.» «Mi chiedo cosa fosse venuto a fare quassù. Se voleva solo fumarsi una sigaretta poteva farlo stando nel cortile, non serviva spingersi fin qui.» «Non sono in grado di darti una risposta, mi dispiace. Immagino che vorrai rimanere qui per un po’… io scendo.» Sandro apprezzò l’intelligenza e la sensibilità del religioso che aveva pensato bene di allontanarsi perché lui rimanesse solo. L’uomo si appoggiò con la schiena contro la roccia. Chiuse gli occhi. Sentiva delle voci lontane, forse qualche turista che risaliva il sentiero diretto al monastero. E poi il rumore incessante del vento contro le bandiere di preghiera. Rivedeva le immagini del sogno: il volo nel buio, la brace della sigaretta che cadeva vorticando, il viso del bambino dalle guance arrossate che ora aveva un nome. Provava una vaga delusione. Adesso che aveva visto dove era accaduta la disgrazia, improvvisamente, aveva la sensazione che questo non significasse nulla. E gli importava poco persino di aver incontrato il piccolo Altan, che pensava di essere la reincarnazione di suo padre. Non credeva a quelle cose. Se anche,

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realmente, Altan fosse stato chi tutti in quel posto credevano che fosse, cosa rimaneva dentro di lui di suo padre? Qualche ricordo sbiadito, nient’altro. D’un tratto pensò: “Ecco, ora che ho visto dove papà è morto, posso tornarmene a casa.” Gettò un’ultima occhiata nel precipizio e poi cominciò a scendere passando negli stretti sentieri fra le mura. Nel vasto cortile davanti al tempio alcuni stranieri girovagavano distratti. Altan gli venne incontro. Sandro gli spiegò dov’era stato e il bambino fece una smorfia. «Non vado là sopra, provo paura.» «Ti capisco» fece Sandro, mentendo. Che ne sapeva lui delle paure per i traumi accaduti nelle vite precedenti? «Sembri strano» disse il bambino. «Che vuoi dire?» «Non lo so di preciso, è solo che hai una faccia diversa.» «Diversa, dici?» «Quanto pensi di rimanere?» «Pensavo di andarmene domani. Terrò d’occhio i turisti in arrivo, qualche posto libero nelle auto ci sarà, chiederò un passaggio, non dovrebbe essere troppo difficile.» Altan parve dispiaciuto o almeno questa fu l’impressione dell’uomo. Sandro passò del tempo chiacchierando con i monaci. Shamar, il monaco anziano, dimostrò in più occasioni il desiderio di parlare con lui, ma non conosceva l’inglese. Ogni tanto Sonam traduceva per loro. Shamar volle sapere che lavoro facesse, se avesse studiato; poi gli chiese di sua madre. All’ora di pranzo Sandro venne invitato a mangiare una ciotola di riso. Sulla tavola non c’era nient’altro. A quanto sembrava i monaci si accontentavano di poco. Sandro risalì poi di nuovo verso il luogo della disgrazia. S’era portato la macchina fotografica. Scattò due o tre foto puntando l’obiettivo verso l’altopiano sottostante; poi scattò alcune fotografie al monastero. Non sapeva esattamente a cosa gli sarebbero servite, probabilmente solo come ricordo di quel viaggio. Dopo l’ultima istantanea si allontanò dal precipizio abbassandosi il berretto sugli orecchi. Faceva un freddo tremendo. Sceso al monastero, per cercare di riscaldarsi, chiese a un monaco di poter avere un bicchiere di tè caldo. Gli diedero un bicchiere col consueto tè al burro. Lo tenne stretto fra le mani gustandosi il calore che passava attraverso il vetro. “Speriamo che si possa accendere il fuoco” pensò.

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Altan portò alcuni sterpi nella stanza dove dormivano che già era buio. Li sistemò dentro a un braciere e con un pezzo di carta gli diede fuoco. Le fiamme cominciarono a divorare la misera legna. «Non avete qualche ceppo?» domandò Sandro. «No, non ci sono alberi qui.» «Ma i rami dei salici… potrebbe essere un combustibile migliore rispetto a questi magri sterpi.» «Quelli vengono usati nella costruzione delle case.» «Non avete freddo?» «Un poco, poi ci si abitua. Bisogna infilarsi subito sotto la coperta» rispose lisciandosi una ciocca di capelli. «Ho notato che gli altri monaci sono rasati, tu invece no, come mai?» «Non ho voluto, preferisco tenere i capelli lunghi. Ho pensato che forse mi piacciono così a causa di tuo padre.» «Che vuoi dire?» «Tenevo i capelli lunghi anche allora.» Nella luce del fuoco il viso del bambino risultava pallido, quasi marmoreo. Sandro pensò al genitore che a volte usava portare i capelli stretti in un codino. «Sì, teneva i capelli lunghi, sulla nuca.» Altan gli offrì un mezzo sorriso. «Adesso è meglio che ci mettiamo a dormire» suggerì togliendosi le scarpe. Le fiamme si stavano già spegnendo. Sandro si avvolse nella coperta. «C’è una cosa che volevo dirti» fece Altan dal suo letto. «Dimmi.» «Il giorno che sono caduto… qualcuno mi ha spinto.» FINE ANTEPRIMAContinua...