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La vita religiosa nell’Italia repubblicanadi Maurilio Guasco
Alcune osservazioni di don Primo Mazzolari potrebbero mettere in imbarazzo chi si appresta a proporre qualche considerazione sulla storia religiosa degli ultimi decenni. Nei primi due mesi del 1949 il parroco di Bozzolo analizza ampiamente la situazione politico-religiosa negli articoli che pubblica sul suo giornale appena fondato, “Adesso”. Siamo in clima di guerra fredda, l’Italia si avvia a firmare il patto Atlantico, gli schieramenti sono ben delineati, molti pensano che tutto il bene stia da una parte e tutto il male dall’altra. Dopo qualche esitazione, il mondo cattolico sembra avere fatto le sue scelte: l’unità politica è un dovere, legato per molti a ragioni ideologiche, per i restanti a ragioni storiche, essa si realizza nell’adesione indiscussa alla Democrazia cristiana. La politica internazionale non offre alternative: costituiti i blocchi e le sfere di influenza, non esistono motivazioni che possano suggerire qualche esitazione nella scelta della parte con cui schierarsi. L’anticomunismo, messo necessariamente in sordina nel periodo della Resistenza e nei mesi successivi, quando la presenza delle sinistre al governo è quasi un esito scontato e obbligato- rio nella difficile situazione postbellica, ritorna ormai nelle sue manifestazioni e nelle sue motivazioni profonde, e segnerà fortemente gli anni cinquanta e il pontificato di
Pio XII. In questo clima, Mazzolari sembra muoversi in un altro pianeta: scrive che il mondo vive ormai una profonda dicotomia, poiché giustizia e libertà non camminano più insieme, si sono separate, installandosi nei blocchi contrapposti. Continua poi nel suo articolo: “Chi cerca la libertà si volge ad Occidente; chi cerca la giustizia, ad Oriente. E la prima pare una parola vuota di senso ai poveri; la seconda, un proposito pauroso ai benestanti. I poveri si sono spostati verso Oriente, anche se non hanno garanzie sufficienti, per un istinto che altri chiama fanatico, ma che potrebbe essere anche qualche cosa di religioso”1.
Cosa significavano queste espressioni? Solo le fantasie un po’ devianti di un populista illuso, come qualcuno pensò e scrisse allora? Sempre nel 1949, quando Mazzolari pubblica analisi poco consone alla linea dominante, giunge anche la scomunica per quanti professano la dottrina marxista, e specificamente i comunisti e quei socialisti che non hanno ancora mandato Marx in soffitta. Al di là delle esegesi che si possono fare del documento, resta un dato: un numero piuttosto alto dei candidati alla scomunica si trova proprio fra quelli che, secondo l’espressione di Mazzolari, si rivolgevano a Oriente, spinti da un sentimento quasi religioso. È nota la reazione disincantata
1 Primo Mazzolari, Giovani coscienze cristiane di fronte alla possibile guerra, “Adesso” , 15 settembre 1950, p. 5.
“Italia contemporanea”, dicembre 1990, n. 181
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di un prelato romano di fronte al decreto, da lui considerato poco opportuno. Se la scomunica ‘attacca’, aveva commentato, avremo tredici milioni di scomunicati, che è certo un bel problema; se non attacca, perché comminarla? Probabilmente la scomunica non ‘attaccava’, poiché non erano molti a rientrare nella categoria descritta dal decreto vaticano. Ma questa ultima considerazione diventa anche più determinante per chi voglia proporre qualche considerazione su una storia religiosa: poiché se i tanti milioni di votanti a sinistra non incorrevano nella scomunica in quanto non potevano essere considerati atei militanti (un’alta percentuale degli stessi aveva anche conservato una qualche pratica religiosa), gli stessi però sceglievano scientemente di adottare un comportamento politico esplicitamente condannato dalla gerarchia ecclesiastica. Riaprendo così il capitolo, al quale da vari anni ci hanno abituati storici e sociologi della religione, del difficile connubio, nella storia della Chiesa, tra religione prescritta e religione vissuta.
D’altra parte, gli storici sono più facilmente tentati o attratti dallo studio della religione prescritta: le personalità anche ecclesiastiche fanno notizia, e in anni recentissimi tale rischio è ulteriormente aumentato, dal momento che i mezzi di comunicazione sembrano tornati a vere e proprie forme di papola- tria, riducendo tutta la vita della Chiesa alla vita di un ristrettissimo corpo dirigente. Non si può però dimenticare che è più facile fare programmi di ricerca sulla vita del popolo fedele di quanto non sia il realizzarli; e che molti di coloro che scrivono che bisogna fare la storia non della religione prescritta, ma di
quella vissuta, sono poi spesso i primi ad occuparsi della religione prescritta, magari in nome del fatto che non si dà società senza capi e senza strutture, e che in fondo sono poi quelle che contano e restano. Per questo, non si può che concordare con Silvio Lanaro, quando scrive:
In d a ffa r a ti d ie tro a lle v ice n d e del c a tto lice s im o p o lit ic o — certo u tili per co m p ren d ere a p p ien o le or ig in i di u n ’e g em o n ia — g li s tu d io s i h a n n o sp esso d im e n tica to ch e n o n si d à stor ia so c ia le d e ll’Ita lia c o n te m p o ra n ea sen za sto r ia d e lla se c o la r iz z a z io n e e d eg li a n tid o ti ap p resta ti d a lla C h iesa per co m b a tter la ; d e tto a ltr im en ti, n o n si so n o a c co rti ch e per cap ire come ca m b ia la so c ie tà in un p a ese im p reg n a to d i c a tto lice s im o fin n e lle su e f i bre p iù r ip o ste la s to r ia del c le ro , d e lla ca tech esi, d ella p a sto ra lità , d e ll’a p o s to la to è in fin ita m en te p iù im p o rta n te di q u e lla d e ll’O p era d ei c o n g r ess i, d e l p a tto G en tiio n i, d el P a rtito p o p o la re o d ella D e m o cr a z ia cr istia n a 2.
Ma l’accordo con Lanaro non porta a dimenticare che forse anche questa pagina, come tante altre del libro da cui proviene, è volutamente e salutarmente provocatoria, ma finisce da un lato di rischiare l’ambiguità (studiare gli “antidoti apprestati dalla Chiesa” per combattere la secolarizzazione può ancora una volta risolversi nello studio della religione prescritta), dall’altro di dimenticare che cominciano a esistere non poche e non banali ricerche di storia della pastoralità, di storia della catechesi, di storia dell’apostolato, di storia della parrocchia, che non si risolvono affatto in una storia dell’Opera dei congressi o del patto Gentiioni3. È chiaro che simili osservazioni sanno un po’ di giustificazione non richiesta, per chi vuole
2 Silvio Lanaro, L ’Italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Torino, Einaudi, 1988, p. 129. Lo stesso autore aggiunge poi in nota che mentre il suo lavoro era ormai in bozze è apparso il volume di Guido Verucci, La chiesa nella società contemporanea. Dal primo dopoguerra al Concilio Vaticano II, Bari, Laterza, 1988, la cui premessa porta a pensare che “il vuoto lamentato qui sia stato in parte riempito”. Ma l’opera di Verucci, pur se di vasto respiro e con interessanti pagine di sintesi, non mi pare rispondere del tutto a quelle attese espresse da Lanaro.3 Chi dedicasse qualche tempo allo spoglio sistematico di un certo numero di riviste specializzate, nell’ambito della pastorale, della catechesi, della liturgia, accumulerebbe un elenco di studi e di ricerche, pur di diverso e talvolta an-
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proporre qualche linea di lettura della storia religiosa, iniziando ancora una volta da una storia dei vertici, da una storia di problemi forse più politici che religiosi, dall’analisi di scelte che sono fatte dalla gerarchia e forse non corrispondono né alle attese né ai comportamenti successivi dei credenti: ma esiste una storia religiosa che non sia strettamente connessa con la storia politica? Esiste una comunità di credenti le cui scelte di fede non siano messe in causa, sollecitate, costrette a continui ripensamenti dalle scelte politiche o dalle contingenze economiche?
La Chiesa del dopoguerra
È opinione condivisa dagli storici dei più diversi orientamenti che la chiesa cattolica,
nonostante gli ambigui rapporti con il regime fascista, uscisse molto rafforzata dalla drammatica esperienza della guerra: se non altro, perché aveva vissuto atteggiamenti e scelte ben diverse e ben più dignitose delle altre istituzioni pubbliche, dalla monarchia all’esercito alla classe dirigente politica4. Non si era levata neppure quella ventata di anticlericalismo, che secondo alcuni osservatori avrebbe dovuto travolgere la Chiesa e i suoi organismi. Anzi, sembrava che uno dei valori da salvare a tutti i costi fosse proprio la pace religiosa; in nome di essa si sarebbero fatte scelte anche inattese, fino a ratificare quei patti Iateranensi che parevano rappresentare solo un deleterio ricordo del regime. Fu proprio in nome della pace religiosa che si accettò, pur nella comune volontà di giungere presto a modifiche sostanziali, un
che di scarso valore, certamente rilevante. Esistono poi numerosi studi dedicati proprio a quegli aspetti che Lanaro considera del tutto trascurato. I volumi dedicati alle visite pastorali della regione veneta, pubblicati dalle Edizioni di storia e letteratura, — come ad esempio Franca Lucchiari (a cura di), Le visite pastorali di Antonio Polin nella diocesi di Adria, 1884-1899, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1981 (Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e storia religiosa); Filiberto Agostini (a cura di), Le visite pastorali di Giuseppe Callegari nella diocesi di Padova, 1884-1888/1893-1905, presentazione di Gabriele De Rosa, Roma, ivi, 1981 (Vicenza, Istituto per le ricerche di storia sociale e storia religiosa) — sono numerosi e noti: se non tutti conservano la stessa impostazione e lo stesso rigore metodologico, quasi sempre presentano ampie introduzioni dedicate alla storia della pastorale. In proposito, e per una informazione su ricerche analoghe, si può ancora vedere: Aa.Vv., La società religiosa nell’età moderna. A tti del convegno studi di storia sociale e religiosa, Napoli, Guida, 1973. Nella stessa linea, si può vedere Storia vissuta del popolo cristiano, direzione di Jean Delumeau, ed. it. a cura di Francesco Bolgiani, Torino, Sei, 1985. Un’altra proposta di rilievo, per le indicazioni di ricerca e per i saggi che già contiene, è rappresentata dal volume a cura di Gabriele De Rosa e Angelomichele De Spirito, La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Napoli, De- honiane, 1982, mentre alla storia della parrocchia è dedicata un’ampia ricerca di Vincenzo Bo, limitata per ora ai primi secoli del cristianesimo. L’elenco potrebbe diventare rilevante, se dessimo uno sguardo alle ricerche di storia locale, di valore e impegno vario. Posso citare, solo a titolo di esempio e proprio per la loro attenzione specifica alla storia della pastoralità, Gaetano Zito, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867- 1894), Acireale, Galatea, 1987, e Cataldo Naro, Momenti e figure della chiesa nissena dell’Otto e Novecento, Cal- tanissetta, Ed. del Seminario, 1989. Di grande interesse anche la ricerca di Andrea M. Erba, Preti del sacramento e preti del movimento. Il clero torinese tra azione cattolica e tensioni sociali in età giolittiana, Milano, Angeli, 1984, poi ampiamente sviluppata in Id., “Proletariato di chiesa" per la cristianità. La Faci tra curia romana e fascismo dalle origini alla Conciliazione, 2 volumi, Roma, Herder, 1990.4 Fra le opere che dedicano attenzione al problema, si possono vedere in particolare Pietro Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, Bologna, Il Mulino, 1977, e alcuni dei saggi raccolti nel volume di Francesco Traniello, Città dell’uomo. Cattolici, partito e stato nella storia d ’Italia, Bologna, Il Mulino, 1990. Ma si veda pure Francesco Malgeri, La chiesa italiana e la guerra (1940-1945), Roma, Studium, 1980 e i saggi dello stesso Malgeri in Chiesa, cattolici e democrazia. Da Sturzo a De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1990. Un’interessante sintesi, anche per gli anni successivi, in Giovanni Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile, in L'Italia contemporanea 1945-1975, a cura di Valerio Castronovo, Torino, Einaudi, 1976, pp. 191-252 (ora in G. Miccoli, Fra mito della cristianità e secolarizzazione. Studi sul rapporto chiesa-società nell’età contemporanea, Casale, Marietti, 1985, pp. 371-427).
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trattato che conteneva in sé non pochi elementi non del tutto consoni al nuovo ordinamento democratico; forse anche perché da parte del Vaticano si diede spesso l’impressione di volere leggere tutto in questa chiave, finendo per condizionare i parlamentari democristiani e spingerli a diventare, secondo l’espressione di Jemolo, “sentinelle con le quali non si discute”, persone che hanno più “una consegna a cui adempiere, che non un’intima persuasione”5.
Quella pace religiosa avrebbe però lasciato presto il posto a una guerra neppure tanto fredda: la primavera del 1948 avrebbe rappresentato il momento culminante di quella guerra, nel corso di una delle campagne elettorali più memorabili. Si trattava ormai di salvare, più che la pace religiosa, quella società cristiana che proprio gli anni del regime sembravano avere rimesso in auge; e lo strumento maggiore sarebbe stato il partito, l’impegno nella politica ma anche l’impegno nel sociale, con le varie organizzazioni, e quindi il coinvolgimento nel progetto di evangelizzazione di un numero elevatissimo di cittadini, attraverso lo strumento principe dei vari rami dell’Azione cattolica. Anche nel periodo in cui la scelta della Democrazia cristiana come strumento privilegiato di intervento nel politico non è ancora stata fatta, si parla esplicitamente, come fa ad esempio “La Civiltà Cattolica” nel marzo 1945, del “dovere della unione fra i cattolici” . Un dovere che sarà presentato spesso come ineludibile, e che certamente
rappresenta uno degli elementi portanti per una lettura della storia religiosa di questi decenni. Logicamente, quel dovere è stretta- mente connesso con un diritto: quello che la Chiesa rivendica di intervenire in materia politica, quando questa coinvolge problemi di morale e di costumi, riservandosi anche il diritto di decidere su quelle connessioni. Tale rivendicazione è una delle costanti dell’insegnamento di Pio XII, per nulla disposto a tollerare limitazioni, e altrettanto convinto che i vescovi debbano sentire la responsabilità di imporre ed esigere il rispetto della disciplina ecclesiastica. I vescovi saranno solleciti a eseguire le consegne: insisteranno a loro volta sul diritto di intervento della Chiesa, ricorderanno il dovere dei credenti di votare sempre e solo per quei candidati che diano garanzie di rispettare la religione, dopo avere manifestato un certo agnosticismo quando si era trattato di decidere sulla scelta tra monarchia e repubblica. In seguito, anche i vescovi si allineeranno sulla scelta apertamente anticomunista: anche se forse quella omogeneità negli indirizzi e nelle scelte da parte dell’episcopato italiano, di cui si è spesso parlato, era meno profonda di quanto non fosse dato a vedere, fino a giustificare in qualche modo l’affermazione di un certo pluralismo ecclesiale negli anni di Pio XII6.
Sono tutti temi noti e ampiamente studiati; così come sono ben noti gli orientamenti e l’attività delle varie associazioni di carattere ecclesiale, politico o sindacale7. Altrettanto noti i non sempre facili rapporti di Alcide
5 Arturo Carlo Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1963, p. 516.6 È quanto emerge dal volume Le chiese di Pio XII, a cura di Andrea Riccardi, Bari, Laterza, 1986 e da Chiese italiane e Concilio. Esperienze pastorali nella chiesa italiana tra Pio X II e Paolo VI, a cura di Giuseppe Alberigo, Genova, Marietti, 1988. Per quanto concerne gli interventi vaticani e dei vescovi italiani su tematiche politiche, resta ancora utile il volume di Alfonso Prandi, Chiesa e politica. La gerarchia e l ’impegno politico dei cattolici in Italia, Bologna, Il Mulino, 1968.7 È questa la ragione per cui in questo saggio viene dedicato maggiore spazio, pur nella necessaria sinteticità, agli anni settanta e ottanta, privilegiando poi alcune linee interpretative, più che l’esposizione di fatti. Fra le sintesi di particolare utilità, si può vedere il già ricordato saggio di G. Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile. Varie tematiche vengono affrontate dagli autori di Pio XII, a cura di A. Riccardi, Bari, Laterza, 1984, mentre alcune li-
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De Gasperi, il protagonista della vita politica negli anni del dopoguerra, con gli ambienti vaticani e con lo stesso Pio XII8: che forse gli rimprovera di non credere troppo a una politica cristiana e a uno stato confessionale, di fare scelte e coltivare alleanze troppo laiche; rimproveri che in qualche modo finiranno per coinvolgere anche uno degli ispiratori di numerosi uomini politici legati alla Democrazia cristiana, il filosofo francese Jacques Maritain. Il suo nome tra l’altro ne richiama un altro, quello di Giovanni Battista Montini, uno dei primi a leggere e far conoscere in Italia i libri di Maritain. Anzi, proprio queste ascendenze e questi legami sono da diversi commentatori considerati uno degli elementi che porteranno alla decisione di allontanare da Roma il discreto e laboriosissimo prosegretario di Stato: per fargli fare quell’esperienza pastorale che gli manca, in vista della sua futura elezione al pontificato, diranno alcuni; per tenerlo lontano da Roma ed evitare proprio quella elezione, non essendo tra l’altro insignito della dignità cardinalizia, diranno altri.
La successione a De Gasperi avrebbe determinato anche forti tensioni e problemi nella comunità ecclesiale: gli anni del centri
smo sono anche gli anni degli sguardi ammiccanti verso destra, culminati nei drammatici mesi del governo Tambroni, proprio mentre è in corso un acceso dibattito sulle possibilità di un’alleanza verso sinistra. Un dibattito che fa emergere i primi sintomi di quello che sarà l’atteggiamento degli anni sessanta, quando la discussione su quella possibilità si sposta dal piano ideologico al piano storico: prima per dire che pur restando ferma l’opposizione ideologica, non si vede perché non si possa immaginare una collaborazione sul terreno sociale con i socialisti, se questi restano fedeli ai metodi democratici; in seguito, per dire che le preclusioni anche ideologiche dovevano pur fare i conti con la storia, che porta lentamente gruppi e partiti a modificare profondamente la propria ispirazione, anche se nati da ideologie contrapposte e, in questo caso, incompatibili con la fede religiosa. Insomma, si passa dalla impossibilità alla inattualità. Sono le premesse delle note tesi di papa Giovanni, espresse esplicitamente nella Pacem in terris del 1963, pubblicata quasi negli stessi giorni in cui Togliatti enuncia principi analoghi nel discorso di Bergamo9.
Non si era trattato di un processo indolore, e a più riprese i vescovi italiani erano in-
nee interpretative vengono presentate da G. Alberigo, La chiesa italiana tra Pio X II e Paolo VI, nel citato volume di G. Alberigo (a cura di) Chiese italiane e Concilio, pp. 15-34. Ampia anche la saggistica dedicata agli orientamenti anticomunisti; se ne vada una sintesi in Giorgio Vecchio, Il conflitto tra cattolici e comunisti: caratteri ed effetti (1945-1958), in Aa.Vv., Chiesa e progetto educativo nell’Italia del secondo dopoguerra (1945-1958), Brescia, La Scuola, 1988, pp. 443-475. Sulla vita della Chiesa nei decenni postbellici, Giacomo Martina, La chiesa in Italia negli ultimi trent’anni, Roma, Studium, 1977, e gli ultimi due volumi della Storia del movimento cattolico in Italia, diretta da F. Malgeri, Roma, Il Poligono, in particolare il volume VI, I cattolici e la società italiana negli ultimi trent’anni, 1981. Su una linea interpretativa diversa, Filippo Mazzonis, La chiesa di Pio XII: dalla riconquista alla diàclasi, in Aa.Vv., Storia della società italiana, voi. 23, La società italiana dalla Resistenza alla guerra fredda, Milano, Teti, 1989, pp. 129-228.8 Su questi aspetti, oltre all’epistolario dello stesso De Gasperi, De Gasperi scrive. Corrispondenza con capi di stato, cardinali, uomini politici, giornalisti, diplomatici, a cura di Maria Romana De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1974, e ai lavori della figlia, Maria R. Catti De Gasperi, De Gasperi, uomo solo, Milano, Mondadori, 19655, si veda in particolare P. Scoppola, La proposta politica di De Gasperi, cit. Per gli ambienti romani che condizionano anche le scelte politiche, A. Riccardi, Il “partito romano” nel secondo dopoguerra (1945-1954), Brescia, Morcelliana, 1983. Una rassegna saggistica internazionale più recente in G. Miccoli, Aspetti e problemi del pontificato di Pio XII. A proposito di alcune pubblicazioni recenti, “Cristianesimo nella storia” , 1988, n. 2, pp. 343-427.9 Vedi in Paimiro Togliatti, Opere, vol. VI, 1956-1964, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 697-707.
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tervenuti, talvolta anche senza molta discrezione, per ricordare l’assurdità di un’alleanza a sinistra; e non deve sembrare singolare che tali interventi fossero diventati anche più duri proprio nei primi anni del pontificato giovanneo10. Il papa seguiva una sua scelta, e non intendeva derogarvi anche se forse non si sentiva a suo agio constatandone le conseguenze. Aveva scelto di vivere maggiormente il suo ruolo di vescovo di Roma e di responsabile delle chiese del mondo, più che di primate d’Italia; e quindi interveniva meno nelle vicende italiane, lasciando ai vescovi quel compito, anche per abituarli a un lavoro comune e creare le basi e la mentalità di una conferenza episcopale nazionale. Era così emersa anche maggiormente la linea non molto morbida dell’arcivescovo di Genova, Giuseppe Siri; e il cardinale Alfredo Ottaviani poteva ironizzare sui maniaci dell’apertura a sinistra, definiti “comunistelli di sacrestia”11. Si trattava in qualche modo, anche se solo in seguito se ne avrebbe avuto coscienza, degli ultimi fuochi d’artificio di una linea in fase di esaurimento: se è vero che papa Giovanni l’aveva in qualche modo favorita, dando spazio a certe voci in nome dell’autonomia dei vescovi, è altrettanto vero che con i suoi gesti e con la convocazione del Concilio stava tagliando l’erba sotto i piedi proprio a quella linea; che non sarebbe stata per nulla favorita negli anni suc
cessivi dagli interventi, talvolta flebili, di Paolo VI, che già come arcivescovo di Milano aveva dimostrato in non poche occasioni di saper cantare fuori dal coro di una conferenza episcopale italiana poco abituata alla ricchezza ed agli stimoli di una dialettica interna, considerata non come strumento di crescita, ma come ipotetico cattivo esempio nei confronti di una comunità di credenti che si vorrebbe molto più omogenea di quanto spesso si dimostri.
Il Concilio vaticano II
Gli anni sessanta si aprono dunque con quegli ultimi fuochi di artificio; ma sono caratterizzati da quello che si sarebbe rivelato il vero spartiacque, l’evento più significativo della storia della chiesa contemporanea, il Concilio ecumenico vaticano II, con la sua volontà di dialogo con il mondo e le nuove culture, con la sua ricerca dei nuovi modi di essere per la chiesa, di un nuovo linguaggio, di un atteggiamento che ponesse definitivamente in soffitta i ricordi di una chiesa costantiniana e le nostalgie della cristianità come dominio sul mondo12. Il concilio si presentava come un evento liberatorio, anche per gli stessi vescovi: i quali sperimentarono un clima di libertà forse mai provato, fatto
10 Ampia analisi in A. Riccardi, II potere del papa da Pio X II a Paolo VI, Bari, Laterza, 1988. Con il solito straordinario acume, don Milani aveva colto immediatamente le ragioni di tale svolta, come appare dalle conversazioni riportate da Neera Fallaci, Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milano, Milano, Libri edizioni, 1977, p. 268, brano citato in A. Riccardi, Il potere del papa, cit., p. 177.11 Molta attenzione a questi temi viene dedicata da Sandro Magister, La politica vaticana e l ’Italia 1943-1978, Roma, Editori Riuniti, 1979. Pagine interessanti anche in Roberto Sani, Da De Gasperi a Fanfani. “La Civiltà Cattolica” e il mondo cattolico italiano nel secondo dopoguerra (1945-1962), Brescia, Morcelliana, 1986.12 Riprendo qualche osservazione dal mio saggio Religione e società nell’Italia degli anni sessanta e settanta, in Crisi sociale e mutamento dei valori. L ’Italia negli anni sessanta e settanta, a cura di Nicola Tranfaglia, Torino, Tirre- nia Stampatori, 1989, pp. 133-151. La bibliografia in proposito è logicamente vasta, e di diversissimo valore. Un orientamento generale su temi e bilanci storiografici si può trovare negli atti del convegno tenuto presso l’École française di Roma nel maggio 1986: Le deuxième Concile du Vatican (1959-1965), Roma, École française, 1989. Per un’analisi di grande respiro, Vaticano II: bilancio e prospettive venticinque anni dopo (1962-1987), a cura di René Latourelle, 2 volumi, Assisi, Cittadella, 1987. Una prima riflessione sulla ricezione del concilio nella Chiesa
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di discussioni, di entusiasmi e di polemiche, di alleanze, di contatti. Un clima di libertà che si manifestò fin dall’inizio nel rifiuto degli schemi preparati dalle commissioni come base di discussione, e nella richiesta, esaudita dal papa dopo qualche momento di apprensione generale, di una revisione radicale di quei testi, considerati un po’ troppo curiali, affidando il lavoro di revisione a nuove commissioni elette dal concilio stesso.
In San Pietro si udirono allora discorsi inauditi, impensabili fino a poco tempo prima, sulla Chiesa come popolo di Dio e non essenzialmente come gerarchia, sui rapporti con le chiese cristiane e anche le altre confessioni (il grande nodo dell’ecumenismo), sulla povertà nella Chiesa, sulla pace fra gli uomini al di là di ogni frontiera politica e religiosa, sulla necessità di pensare a precise condanne nei confronti di chi continuava a fare una politica degli armamenti, e di chi possedeva armi atomiche. Non tutto logicamente sarebbe passato nei testi finali: ma il fatto che fosse detto da vescovi, in un simile contesto, senza provocare rotture nella Chiesa, acquistava uno straordinario significato, rompeva con molti schemi e con certe tradizioni. Una grande trasformazione anche per i vescovi, che spesso uscivano frastornati da quei dibattiti, ma spesso anche trasformati. Riscoprivano la cattolicità della Chiesa, aprivano i loro orizzonti, conoscevano direttamente situazioni a cui non avevano mai pensato davvero, si confrontavano con modi diversi di vivere la stessa fede da parte di altri vescovi.
Un concilio che voleva prima di tutto essere un evento pastorale: e proprio per questo più importante di altri, poiché non si limitava a ribadire dottrine ormai consolidate, ma si
chiedeva come trasmetterle, come calarle in tutte le culture, recuperando uno degli aspetti essenziali della missione della Chiesa, quello dell’annuncio. Un concilio che guardava il mondo per capirlo, non per condannarlo; con uno sguardo ottimista, carico di simpatia, che guarda la storia non con l’impressione di trovarsi di fronte ad un elenco di aberrazioni, ma in presenza del luogo in cui si attua e agisce la Parola di Dio. Tutti temi, questi, che saranno a più riprese svolti anche in diversi interventi e discorsi dallo stesso pontefice, fin dalla Costituzione con cui indiceva il concilio, discorsi che sollevarono vasta eco e consensi. I testi conciliari, alcuni dei quali contenenti affermazioni di straordinario vigore e novità, venivano quindi affidati agli episcopati nazionali perché ne facessero tesoro e li realizzassero nelle loro chiese locali, figlie ciascuna di storie diverse, di tradizioni e consuetudini consolidate, nelle quali ad esempio i rapporti con la società civile e con lo Stato erano fondati su una separazione consensuale o diffidente, oppure, come in Italia, su rapporti modellati dalla mentalità e dalla consuetudine concordataria.
L’episcopato italiano, nel periodo immediatamente successivo al concilio, visse con atteggiamenti alterni le conseguenze che ne derivavano. Al concilio il ruolo dei vescovi italiani non era stato di primo piano. Senza voler ricorrere a semplicistiche distinzioni di destre e di sinistre, certamente furono pochi i vescovi italiani a influire nei momenti decisivi, e quelli che intervenivano più spesso in aula nelle discussioni svolgevano piuttosto un ruolo frenante. Era quindi difficile che quei vescovi potessero diventare i realizzatori del concilio. Ci furono casi interessanti, anche di
in II Vaticano II e la chiesa, a cura di G. Alberigo e J.P. Jossua, Brescia, Paideia, 1985. Per la chiesa italiana, G. Alberigo (a cura di) Chiese italiane e Concilio, cit., e II Vaticano II nella chiesa italiana: memoria e profezia, Assisi, Cittadella, 1985. Rappresenta una significativa testimonianza la corrispondenza pubblicata da Francesco Michele Stabile, Il Cardinale Raffini e il Vaticano II. Le lettere di un “intransigente”, “Cristianesimo nella storia” , 1990, n. 1, pp. 83-176.
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vere e proprie clamorose conversioni. Proprio certe resistenze, certe rozze polemiche che furono sollevate contro elementi di spicco nella applicazione delle riforme, possono spiegare certi atteggiamenti di Paolo VI, il papa chiamato a gestire la non facile eredità lasciata da Giovanni XXIII, sia nella prosecuzione del concilio che nella sua attuazione. Paolo VI finì per muoversi in questa nuova realtà in modo contraddittorio, alternando provvedimenti e interventi leggibili in chiavi divergenti. Molti vescovi si trovavano di fronte a realtà del tutto nuove, senza la mentalità e la cultura per affrontarle. Erano logicamente figli di altri tempi, si erano formati in una Chiesa con altri orientamenti. Era difficile immaginare che potessero diventare i protagonisti del cambiamento.
Forse proprio questa mentalità aiuta a capire certi episodi che sembrano oggi grandi occasioni mancate, e che non erano riducibili a forme temute di contestazione (che pure ci furono): si pensi ad esempio alla vicenda dell’Isolotto di Firenze, o al modo in cui venne gestito dallo stesso arcivescovo Ermenegildo Florit il rapporto con don Lorenzo Milani13. Così come parve coglierli del tutto impreparati la gravissima crisi del clero, che alla fine degli anni sessanta e negli anni successivi parve irresolvibile. Una crisi che si collocava a due livelli: nei seminari, con il calo sensibilissimo delle vocazioni al sacerdozio; e fra gli stessi preti, le cui percentuali di abbandono del ministero salirono a livelli sconosciuti, probabilmente simili solo agli anni immediatamente successivi alla rivolu
zione francese14. Proprio il modo in cui venne affrontata o vissuta questa crisi da parte della gerarchia era un ulteriore segno di quei problemi culturali che non si potevano risolvere velocemente; non era cioè facile scoprire e superare i limiti di una mentalità dogmatica alla quale erano stati formati, per compiere analisi e scelte significative. Con questa chiave di lettura si potrebbe forse cercare di analizzare anche il fenomeno delle comunità di base, che ebbero un discreto sviluppo in Italia negli anni a cavallo dei due decenni, ma che andarono troppo presto in crisi. Un atteggiamento talvolta provocato- rio da parte di alcune comunità, mentre i timori della gerarchia nei confronti di proposte che venivano considerate come un pericolo per la costituzione gerarchica della Chiesa, finirono per impedire un dialogo che avrebbe potuto diventare proficuo per le due parti, rendendo anche più difficile l’emergere di quella ecclesiologia di comunione auspicata dal concilio15.
La presa di coscienza della scristianizzazione
Gli ultimi anni sessanta lasciavano apparire i segni di una prossima crisi, non solo religiosa, ma anche economica e sociale; della prima, erano in qualche modo segno preoccupante, per la gerarchia, le reazioni diverse, e non sempre positive, che aveva sollevato l’enciclica sull’etica sessuale e matrimoniale, la Humanae vitae (luglio 1968)16. Andava in crisi anche l’Azione cattolica, mentre si co-
13 Sulle varie vicende di cui furono protagonisti movimenti, comunità di base o singole persone, la sintesi più lucida mi pare rappresentata dal volume di Mario Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia, Milano, Rizzoli, 1983. Attente analisi in chiave sociologica in numerosi saggi di Luigi Berzano, ora raccolti in Differenziazione e religione negli anni ottanta, Torino, Giappichelli, 1990.14 Un’analisi della crisi in M. Guasco, Seminari e clero nel Novecento, Cinisello Balsamo, Edizioni Paoline, 1990, pp. 165 sgg.15 Una lettura in questa chiave, con ampia bibliografia sulle comunità di base, in Marino Morganti, Eucaristia raccontata, Roma, Boria, 1988.16 Una raccolta delle reazioni sollevate nel mondo, e soprattutto delle dichiarazioni delle conferenze episcopali, in Humanae vitae e magistero episcopale, a cura di L. Sandri, Bologna, Dehoniane, 1969.
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minciava a parlare di scelta religiosa: non nel senso di un ritiro da ogni attività politica e sociale, ma nel senso di un atteggiamento che cercava propri modelli di ispirazione, senza diventare automaticamente il supporto della politica di un partito. Anche le Adi (Associazioni cattoliche lavoratori italiani), a partire dal 1969, avevano dichiarato apertamente la fine del collateralismo con la Democrazia cristiana; e la scelta religiosa dell’Azione cattolica, teorizzata apertamente dal suo presidente Vittorio Bachelet a partire dal 1972, veniva proposta come scelta di tutta la Chiesa.
Si aprivano intanto nuovi dibattiti, che trovarono un terreno comune attorno al nuovo modo di vedere e teorizzare l’ispirazione cristiana della politica; un’ispirazione che doveva essere vissuta in una realtà che non poteva più essere considerata omogenea. I valori cristiani dovevano essere vissuti in un contesto secolarizzato e pluralistico, dove erano in crisi i grandi valori di riferimento. Parlare di pluralismo politico significava però anche dire (e sembrava affermarlo anche Paolo VI in certi suoi interventi) che la medesima fede cristiana poteva condurre a impegni e scelte politiche diverse; il che logicamente non metteva in causa la presenza dei cattolici nella vita politica, ma la qualità e i modi di questa presenza, che sembravano necessitare di un profondo rinnovamento. Quel cammino veniva reso ulteriormente difficile dal dibattito e poi dalla approvazione della legge sul divorzio.
La legge Fortuna-Baslini, che introduceva il divorzio nella legislazione italiana, era stata approvata il 18 dicembre 1970. Quel progetto aveva una lunga storia ed era stato più volte proposto, modificato e discusso fin dai primi anni del secolo; così come fu molto discussa, anche all’interno del mondo cattolico, la scelta di portare il paese al referendum abrogativo. Quelle discussioni sono note, anche se restano dubbi e incertezze sui tentativi fatti anche nell’imminenza del refe
rendum per cercare di scongiurare lo scontro che si stava rivelando anche più traumatico di quanto già si potesse immaginare. Il referendum comunque si fece nel maggio 1974, in un clima di grande incertezza; gli abroga- zionisti sapevano di rischiare molto, ma forse credevano davvero di poter uscire vincitori dalla prova; i difensori della legge, fra i quali si potevano annoverare la grande maggioranza dei partiti laici, ma anche non pochi democratici cristiani e certamente anche un numero non irrilevante di cattolici praticanti, ostentavano una discreta sicurezza, ma non nascondevano qualche dubbio e timore sull’esito della prova. I risultati furono una sorpresa: oltre il 59 per cento degli italiani votarono no, chiedendo quindi il mantenimento della legge, mentre il 41 per cento si schierò in favore dell’abrogazione, con una differenza quindi che si avvicinava al 20 per cento, sollevando stupore anche nei fautori della legge e costringendo la Chiesa a prendere atto di quanto fosse mutata quella società considerata da sempre globalmente cristiana. Anzi, la stessa comunità dei credenti aveva vissuto in quei mesi una profonda lacerazione, fino al punto di spingere qualcuno a considerare quella battaglia elettorale quasi un referendum sulla fede, con il risultato di temere addirittura uno scisma. In effetti, se per non pochi cattolici la legge sul divorzio non era altro che il riconoscimento della ormai chiara impossibilità per uno stato laico di conservare una legge, quella della indissolubilità del matrimonio, il cui fondamento sembrava radicarsi in una fede religiosa, per altri la stessa indissolubilità matrimoniale era da ritenersi di diritto naturale, e quindi inviolabile anche senza ricorrere alla legge divina, e non riuscivano ad ammettere che si potesse collaborare a quella scelta senza mettere in qualche modo in causa anche la propria fede religiosa.
È quindi comprensibile, anche se in qualche modo singolare, che la presentazione della legge sull’interruzione della gravidanza
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abbia sollevato meno scalpore della legge sul divorzio, così come il successivo referendum abrogativo, che pure avrebbe avuto esito negativo (la legge cioè sarebbe rimasta in vigore). La vera presa di coscienza della laicizzazione delle coscienze era avvenuta con la crisi legata alla discussione sul divorzio, che aveva dato l’impressione che fossero ormai intaccati alcuni dei principi da sempre considerati elementi portanti della società, in primo luogo la famiglia, quindi l’inviolabilità della vita umana. La prima legge aveva infranto i principi cristiani su cui si fondava la famiglia; la seconda infrangeva quelli della inviolabilità della vita. Si sentiva come ineludibile una eventuale successiva discussione sull’eutanasia. Tutto questo finiva per provocare una profonda crisi della coscienza religiosa e anche una certa ripresa di atteggiamenti non solo anticlericali, ma anche antireligiosi. Qualunque fosse la scelta che i singoli individui potevano aver fatto, era infatti difficile mettere sullo stesso piano un intervento legislativo che permettesse, in certe situazioni determinate, lo scioglimento di un matrimonio e quindi la regolamentazione della nuova situazione che si veniva a creare, e una normativa che permettesse l’interruzione della gravidanza in modo da lasciare teoricamente aperta la discussione sul momento in cui il concepito può essere considerato effettivamente persona, ma in pratica con delle eccezioni che finivano per rendere lecita la soppressione del feto anche quando nessuno poteva certo considerarlo solo un elemento estraneo al corpo della madre. Mascherare quello che in certe circostanze non è altro che un vero omicidio di Stato con termini tutto sommato piuttosto ipocriti non serviva a nessuno; lo Stato si avviava, di fatto, in alcuni paesi a definire per legge, e dove questo non era ancora esplicitamente avvenuto era prevedibile in tempi ravvicinati, che si poteva provvedere alla soppressione del nascituro, per esempio handicappato e anche prossimo alla nascita, se avesse potu
to provocare rischi per l’equilibrio psicologico della madre: anche se quasi tutti i commentatori preferivano e preferiscono usare termini che dicono la stessa cosa, ma in modo più sfumato e meno brutale. Ed è proprio a questo livello che nasceva il nuovo dramma della coscienza del credente, costretto a ripensare a tutte le sue categorie morali e politiche, essendo cittadino e suddito di uno Stato che può imporre leggi che il credente considera profondamente lesive di principi che egli ritiene irrinunciabili.
Non vi era dunque da stupirsi se molti credenti dichiaravano apertamente di non accettare quelle leggi dello Stato, sentendosi quindi costretti a praticare nuove forme di obiezione di coscienza. Certamente in alcuni casi si trattava di scelte di comodo: ma davvero esisteva in Italia un tradizione culturale che avesse il diritto di irridere a quelle scelte, magari accusando nuovamente i cattolici di mancare da sempre, come dimostravano certi aspetti della loro storia, del senso dello Stato? Forse non erano così pretestuose come si voleva far credere le obiezioni di quegli stessi cattolici, che avevano qualche difficoltà ad accettare lezioni di correttezza politica e civile da una sinistra che aveva fondato tutta la sua analisi politica proprio sul rifiuto di quello Stato, considerato borghese, o dai partiti laici, che vantavano come padri fondatori persone che sembravano essersi mosse in modo analogo, obiettando contro un potere politico considerato ingiusto e lottando per instaurarne uno diverso. Sembrava dunque difficile immaginare chi potesse seriamente scagliare la prima pietra contro quei cattolici accusati di scarso senso dello Stato.
La crisi interna del mondo cattolico veniva intanto accentuata dalle accuse che alcuni rivolgevano agli altri, considerati responsabili di aver voluto, nella scia di un malinteso ottimismo conciliare, avvicinarsi al mondo per capirlo, fino ad assimilarne anche i valori negativi, quali una vera e propria laicizza
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zione delle coscienze, portate a dubitare della oggettività delle norme morali, e una secolarizzazione letta come vera e propria svendita dei propri valori fino a forme di radicale assimilazione alla società laica, con il conseguente passaggio a raggruppamenti politici al di fuori del cosiddetto partito dei cattolici.
Cultura della presenza e cultura della mediazione
Il concilio tornava in qualche modo al centro dell’attenzione: perché si invocava la sua applicazione, o perché si riteneva che fosse stato interpretato male (un’ipotesi questa che emergerà spesso, soprattutto in bocca a quanti pensavano ma non osavano dire che non si trattava di erronea interpretazione, ma di un evento da svalutare e svuotare dei suoi contenuti più significativi: sorte che si voleva far subire anche al pontificato di Giovanni XXIII). Di fronte alla crisi della Democrazia cristiana, non più considerata universalmente il partito dei cattolici, e in vista della sua rifondazione, un gruppo di intellettuali aveva dato origine ad un movimento denominato Lega democratica, collocandosi a metà strada tra movimento culturale e movimento politico, il cui scopo era anche più ambizioso: non si trattava solo di rifondare un partito, ma di ripensare la stessa politica in quanto tale. Una proposta che ebbe qualche successo, grazie anche alla benevola attenzione dello stesso pontefice Paolo VI, ma soprattutto grazie al lavoro discreto ma di grande significato svolto dal segretario della Conferenza episcopale italiana, monsignor Enrico Bartoletti. Il punto di arrivo di tutto un cammino, che aveva coinvolto anche diversi esponenti di quel movimento, sarebbe stato il convegno dei cattolici italiani, svolto a Roma nel 1976, dedicato a “Evangelizzazione e promozione umana”.
Quella proposta, che per qualche anno parve vincente, sarebbe stata definita la ‘cultura della mediazione’. Le premesse erano nella convinzione di un ormai definitivo superamento della cristianità, nel suo significato religioso e soprattutto politico. Alla pretesa del potere religioso, la cui voce era espressa dalla gerarchia ecclesiastica, di farsi unico interprete e garante dei fondamenti di ogni ordine sociale, veniva contrapposto un modello cristiano diverso: non un modello di superiorità e separatezza, ma di incarnazione, non di imposizione ma di dialogo. Si tendeva cioè a portare fino in fondo la riflessione sulla incarnazione, affermando che la città politica si costruisce in comune, dando ognuno il proprio contributo fondato e desunto dalle proprie radici e dalle proprie scelte ideologiche. Il dialogo doveva servire a evitare la conflittualità, a riaffermare la tolleranza reciproca; ma il concetto di democrazia doveva essere accettato integralmente, senza imporre a nessuno delle scelte politiche, e neppure etiche, in base a principi religiosi che non erano condivisi. Riemergevano le affermazioni montiniane sul dialogo, su una Chiesa che si fa dialogo, si fa parola, come aveva affermato il papa nella sua prima enciclica, Ecclesiam suam (6 agosto 1964), dedicata proprio alla Chiesa e al dialogo con il mondo. Su questo cammino, già di per sé non facile, si interponeva l’emergente accusa rivolta agli ottimismi conciliari, e l’affermazione che proprio quel modo di concepire i rapporti della Chiesa con il mondo era all’origine della perdita di identità da parte dei cristiani, il dubbio che una crescente attenzione all’altro finisse per portare molti cristiani a diluire i propri principi in un irenismo rischioso, che poteva indurre a dimenticare anche alcuni elementi portanti della propria fede. Alcuni avevano anzi buon gioco a citare esempi di percorsi quasi esemplari, vissuti anche da molti giovani, che erano passati dalle organizzazioni cattoliche alle organizzazioni politiche, e dalla
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condivisione di certi obiettivi politici, non sempre in sintonia con la propria fede religiosa, fino alle scelte estreme del passaggio al terrorismo.
Di tali processi e accuse si facevano interpreti in modo particolare dei gruppi nati proprio per opporsi in qualche modo a quei cammini, gruppi e associazioni che avrebbero dato origine a uno dei movimenti più significativi, quello di Comunione e liberazione, un movimento che, al di là degli esiti politici non sempre esemplari e delle analisi politiche e culturali, in cui avrebbe indugiato, di una straordinaria rozzezza e immaturità, si sarebbe sviluppato proprio grazie alla ripetizione di quelle accuse, e alla semplificazione quasi ai limiti dello slogan di messaggi diventati così facilmente assimilabili, quali la riaffermazione della identità cristiana e la globalità della sua proposta; trovando poi un terreno fertile nel nuovo clima che pareva nascere in seguito all’avvento al pontificato di Giovanni Paolo II (ottobre 1978). Proprio dalla riaffermazione del concetto di cristianità, messo in causa dal cristianesimo conciliare, nasceva quella che veniva definita la ‘cultura della presenza’, una linea che si può forse definire in termini quasi sillogistici, pur nel rischio sempre connesso alle eccessive semplificazioni interpretative. Il rapporto sociale, sembrano affermare i fautori di quella linea, è autentico e costruttivo solo quando si realizza secondo verità e secondo la norma etica fondamentale, una norma che può essere fondata solo su valori oggettivi, e non su valori legati al tipo di conoscenza che il soggetto ha dei valori stessi. Ora, nella condizione umana, resa fragile e caduca dal peccato, solo la rivelazione cri
stiana permette all’uomo di conoscere se stesso e di conoscere la norma etica oggettiva: questo perché di fatto solo il cristianesimo possiede la verità intera sull’uomo, e solo il cristianesimo ha la forza di realizzare tale verità nella società. Non è quindi pensabile poter costruire il rapporto sociale, e una società giusta, prescindendo dalla verità cristiana, che è un intero, un unicum, e non può essere presentata solo in alcune sue parti, in attesa di comunicare anche le altre. Presentando solo una parte, si rischia di travisare l’insieme. L’errore di oggi di molti cristiani è di voler costruire una società giusta non proponendo le proprie idee-forza e le proprie norme etiche in modo totale e intransigente, ma immaginando di poter trovare un luogo neutro di dialogo e di rapporto con altri uomini e altre culture, prescindendo dalla propria fede.
Si tratta in qualche modo di un ritorno al radicalismo evangelico, non scelto solo per sé, ma imposto a tutti; premessa, tra l’altro, di molti integralismi contemporanei, presenti non solo nel mondo cristiano. L’esito sarà la restaurazione di quella cristianità che molti cristiani vogliono erroneamente superata. Questo perchél’esperienza culturale medievale, la coincidenza tra ambito religioso e ambito sociale, resta un paradigma esemplare per la Chiesa di ogni tempo. Ovviamente il modello medievale è da aggiornare quanto alla forma ma rimane sempre valida l’impostazione che esso ha dato del rapporto fede-cultura se è vero che l’unica e autentica coltivazione dell’uomo, la cultura, è la coltivazione cristiana. Ogni altra cultura rischia sempre di essere arbitraria o manipolante17.
Tali ragioni portano alla riaffermazione, come ad esempio da parte del cardinale Bif
17 Un’analisi sintetica di tale linea, con le citazioni qui riportate, è fatta da Bartolomeo Sorge, La chiesa in Italia nelpost-Concilio: bilancio e prospettive, “Ricerca”, ottobre 1988, pp. 16-19. Ma dello stesso padre Sorge è interessante vedere, una testimonianza sul periodo, Uscire dal tempio. Intervista autobiografica, a cura di Paolo Giumella, Genova, Marietti, 1989.
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fi, della necessità per la Chiesa di dar vita in ogni momento della sua storiaad una cristianità secondo forme che mutano nei tempi e nei luoghi ma che non possono venire meno in assoluto; perciò il problema vero diventa quello di rinvenire la forma che meglio conviene al nostro tempo. La nostra cristianità potrà anche essere di minoranza diversamente da quella di qualche secolo fa, ma non per questo deve essere meno vivace e meno fortemente caratterizzata18;
in una logica che sembra preferire il confronto, se non proprio lo scontro, al dialogo. Questo modello culturale, fondato su ragioni che non possono essere respinte in modo acritico, ha provocato in anni recenti anche numerose polemiche, soprattutto a causa del modo volutamente provocatorio in cui viene proposto da alcuni personaggi che sembrano aver abbandonato la riflessione religiosa per sposare quasi esclusivamente una linea politica che spesso costringe a logiche di potere difficilmente eludibili nel clima politico italiano, ma altrettanto difficilmente collocabili dentro una proposta che si voglia religiosamente fondata.
Il dibattito tra le due proposte culturali non si svolge né si è svolto in uno scenario asettico e privo di altri stimoli e problemi; e di tale scenario vale la pena di mettere in risalto due elementi che in modi diversi hanno condizionato e condizionano la vita politica e religiosa italiana, i cosiddetti anni di piombo e la conferma della scelta concordataria nei rapporti tra Stato e Chiesa.
Gli anni di piombo. II terrorismo e le sue conseguenze
Più che le premesse o le storie di vita e le analisi delle genealogie, o i dibattiti sulle mi
sure provocate dalla lotta contro il terrorismo e sui rischi di un imbarbarimento della società civile, mi pare particolarmente interessante in questa sede ricordare soprattutto che cosa abbia prodotto nella coscienza religiosa la discussione sullo sconto di pena previsto per pentiti e collaboratori, che avrebbe sollevato varie riflessioni sulla autenticità dello stesso pentimento e sui rischi del “perdonismo”19. Il dibattito si sarebbe svolto a vari livelli, con difficili risvolti umani e giuridici. Non era facile trovare risposte quando ci si poneva di fronte a una generazione di giovani che avevano fatto certe scelte, di fronte a mille, forse duemila persone che in modi diversi erano stati coinvolti nell’attività terroristica, di fronte poi a quanti decidevano di abbandonare la lotta perché scoprivano di aver sbagliato, o di essere stati sconfitti, o anche solo di avere la possibilità di uno sconto di pena, come non pochi sospettavano. Tutto questo non poteva non costituire una forte e difficile provocazione per le coscienze, laiche o religiose. Molti pentiti si erano poi rivolti alla Chiesa, alle sue istituzioni o a qualcuno dei suoi rappresentanti: una Chiesa che veniva così a ritrovare una centralità non cercata, ma comunque accettata. Le ragioni potevano essere le più diverse, forse si trattava di trovare un interlocutore, come osservava Ernesto Balducci, cercando di analizzare i perché di quelle scelte:Proprio perché il carcere, anzi quel tipo di carcere, è una condizione di totale separatezza, esso produce, per così dire, la decantazione chimica degli ingredienti in conflitto. Al detenuto che rifiuti l’identità di ieri viene meno ogni parametro per ridefinirsi. È, nel senso di Émile Durkheim, un uomo “anomico”, cioè senza nomos, senza quadro storico d’identità, e senza norme. Non
lh B. Sorge, La chiesa in Italia nelpost-Concilio, cit.19 Fra la vasta bibliografia, si veda Diego Novelli-N. Tranfaglia, Vite sospese. Le generazioni del terrorismo, Milano, Garzanti, 1988.
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quelle del sistema che ha combattuto e che ancora condanna, non quelle della realtà associativa in cui ha militato, non quelle del carcere che d’altronde non sono tramite di risocializzazione ma meccanismo di annientamento. Si capisce perché, in questa assenza di punti di riferimento, i detenuti preferiscano rivolgersi alla Chiesa [...] In questa preferenza c’è da leggere, io penso, più che un segnale di conversione religiosa il riconoscimento che quando si cerca un interlocutore che esprima la società nella sua consistenza più generica e meno compromettente, anche la Chiesa va bene20.
In questa nuova centralità della coscienza religiosa, due momenti diventavano emblematici e provocavano reazioni di grande valore etico collettivo: la preghiera del figlio di Vittorio Bachelet durante il funerale del padre ucciso dalle Brigate rosse; e, ancora prima, la straordinaria e drammatica preghiera di Paolo VI al funerale di Aldo Moro. Il 13 maggio 1978 il papa decideva di partecipare al funerale dell’amico Moro, per il quale aveva vanamente cercato di intervenire durante le settimane del rapimento che si sarebbe concluso con l’assassinio. Al termine della cerimonia liturgica, Paolo VI pronunciava queste parole:E ora le nostre labbra, chiuse da un enorme ostacolo simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il De profundis, il grido cioè e il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per l’incolumità di Aldo Moro, di questo uomo buono, mite, saggio, innocente e amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora intercede tra i defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il programma del nostro essere di redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo! Signore, ascoltaci!
E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo uomo carissimo e a quelli che hanno subito la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, dalla sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta nazione italiana! Signore, ascoltaci!21
Il papa esprimeva pubblicamente il drammatico sentimento della impotenza umana, quasi rimproverava a Dio di non aver esaudito le preghiere che gli erano state rivolte; in qualche modo, finiva così per rimettere pubblicamente in causa una certa concezione religiosa, quella che vuole che il rapporto con Dio sia quasi un rapporto di scambio, di dare e avere, e non un rapporto di assoluta gratuità; e non poteva non impressionare il fatto che fosse un papa a sentire e denunciare il drammatico silenzio di Dio.
Giovanni Bachelet superava invece tutto il dibattito sul perdono come risposta a un pentimento sicuro e garantito ribadendo, con grande serenità e senza ostentazione, la scelta del credente di non dissolvere la logica della giustizia, ma di affermarne una più grande, quella del perdono anche se non richiesto. Nel corso della celebrazione eucaristica, il giovane Bachelet aveva pronunciato queste
20 Ernesto Balducci, Da! carcere una nuova cultura?, “Testimonianze”, luglio-agosto 1984, pp. 7-20; brano citato p. 14.21 II testo della preghiera in Ipapi dei ventesimo secolo, numero speciale della rivista “Jesus”, 1987, p. 165.
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parole, riprese da tutta la stampa, al momento delle preghiere di invocazione:Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono, e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri.
Significativo, e in qualche modo emblematico, il commento che sarebbe apparso su “La Civiltà Cattolica” :La storia del rapporto fra i terroristi e la società italiana, e viceversa, dopo i funerali di Vittorio Ba- chelet è diversa da come sarebbe stata senza quella offerta gratuita di perdono. Il perdono apre orizzonti e spazi di speranza, incide profondamente nella vita di chi lo accoglie, aiuta a ricomporre i frammenti spezzati; dà insomma un’ultima e insuperabile possibilità di trasformare la morte ingiusta in occasione di vita22.
Anche la coscienza laica veniva provocata in alcuni suoi valori fondamentali, veniva costretta a rifare i conti con una difficile realtà, trovandosi nella necessità di modificare i contenuti negativi di concetti quali quelli di ‘delatore’ e ‘delazione’. Quei gesti dei terroristi, quelle forme di pentimento che si era abituati a considerare comunque vere e proprie forme di tradimento, di abbandono dei propri compagni, ora assumevano i contorni della collaborazione con la giustizia; lo Stato stesso era portato a promulgare leggi che premiavano un gesto da sempre considerato come prova di viltà. Nello stesso tempo si era corso un grave rischio di regresso della coscienza civile: alcuni di quei laici che si erano da sempre presentati come difensori dello stato di diritto, che consideravano la pena di morte come un relitto di tempi barbari, ora chiedevano apertamente il ristabilimento di quella pena di morte, e usavano un linguaggio che era
chiaramente leggibile in chiave di invito a ricorrere a tutti i mezzi (magari anche a forme larvate di tortura) per ottenere dagli arrestati quelle informazioni indispensabili per portare a buon esito le indagini. Quelle modifiche profonde della coscienza etica si collocavano anche ad altri livelli, anch’essi prima non immaginati: i detenuti per terrorismo si trasformavano lentamente da oggetto di legislazione penale a soggetti e agenti di una nuova dialettica culturale che coinvolgeva tutto il paese; sia per i risvolti ora ricordati, sia anche per le proposte concrete di pene alternative, di modi diversi di espiazione di cui si facevano promotori gli stessi detenuti, in particolare quelli che appartenevano alla categoria dei “dissociati”, di quanti cioè non avevano collaborato attivamente con la magistratura, ma avevano espresso la loro dissociazione dalla lotta armata e si dichiaravano disposti a pagare almeno una parte del debito contratto nei confronti della società, offrendo a quella stessa società nuove forme di servizio, prima riservate ad altre categorie di cittadini23.
I rapporti tra Stato e Chiesa e la cultura concordataria
Con la fine della dittatura fascista e poi della guerra, la nuova repubblica italiana aveva ereditato dal regime anche i patti lateranen- si, firmati I’ll febbraio 1929; e l’Assemblea costituente aveva discusso animatamente sul ruolo e lo spazio che quegli accordi avrebbero dovuto avere nell’ordinamento repubblicano. Dopo dibattiti spesso di alto livello politico e culturale, si era giunti alla decisione: i patti lateranensi venivano recepiti nella Costituzione, senza che i singoli articoli assu
22 “La Civiltà Cattolica”, 7 gennaio 1984, p. 84.23 E. Balducci, Dal carcere, cit.; un ampio servizio sulle proposte avanzate dai detenuti dal carcere di Novara per un uso diverso degli anni delia espiazione in “Avvenire”, 20 febbraio 1985.
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messero il valore degli articoli della carta costituzionale; l’articolo 7 affermava dunque che i rapporti tra Stato e Chiesa sarebbero stati regolati da quei patti. L’Assemblea costituente aveva chiara coscienza che quei patti contenevano anche affermazioni, o sfumature, che andavano contro lo spirito e qualche volta anche la lettera della nuova costituzione. Si dava quindi per scontato che si sarebbe arrivati in tempi brevi alla modifica di alcuni degli articoli contenuti nei patti, senza con questo metterli in causa nel loro insieme.
Le vicende che porteranno a quelle modifiche sono incredibilmente lunghe e complesse, indicano spesso più la volontà del rinvio che la volontà della soluzione. Il clima del Concilio vaticano II avrebbe aiutato a cercare una soluzione, mentre l’opinione pubblica veniva preparata non solo da certi testi conciliari, che sembravano indicare una logica ormai molto diversa da quella concordataria, ma anche dai molti e appassionati dibattiti attorno alla possibilità di una abrogazione del concordato. Finalmente nel 1976 il presidente del Consiglio Giulio Andreotti nominava una commissione incaricata di studiare più dettagliatamente il problema. Due elementi presenti nella discussione di quel momento si sarebbero successivamente persi per strada: l’invito all’abbandono della logica concordataria, propria di sistemi a scarsa partecipazione democratica, per la scelta di qualche elemento di fondo su cui trovare un’intesa, senza restare legati a un vero trattato di carattere internazionale fra due stati sovrani; quindi il maggiore peso che avrebbe dovuto avere la Conferenza episcopale italiana, organismo di fatto più adatto a trattare con lo stato italiano su elementi essenziali per la vita della società italiana, ridando così al Vaticano il suo naturale ruolo di organismo internazionale, meno coinvolto nelle vicende dell’Italia.
Con il passare degli anni, questi due elementi sarebbero andati in crisi; prevaleva la logica abituale dei rapporti bilaterali tra due stati sovrani, l’Italia e il Vaticano; mentre la
Conferenza episcopale veniva sentita e parzialmente coinvolta, ma i veri organismi decisionali restavano quelli vaticani. Intanto la commissione nominata nel 1976 proseguiva nei suoi lavori, nella logica appunto di una revisione di alcuni elementi del testo, mantenendolo però vivo come trattato internazionale, le cui modifiche avrebbero quindi sempre richiesto accordi bilaterali. La commissione doveva vagliare le proposte di parte italiana e quelle di parte vaticana, mentre a più riprese i vescovi facevano sentire la loro voce, con testi anche ufficiali, nei quali emergevano numerosi elementi che rappresentavano punti in discussione, e sui quali si sarebbe dovuta pronunciare la commissione. Fra questi, il ruolo e il posto della religione cattolica in Italia; la collaborazione tra Stato e Chiesa e i suoi limiti; il problema dell’insegnamento religioso nelle scuole di Stato; lo statuto del clero, il suo sostentamento e le normative circa gli enti e i benefici ecclesiastici; infine, la legislazione matrimoniale.
Superate le ultime difficoltà, finalmente il governo Craxi perveniva alla firma di quello che si può definire il nuovo concordato, anche se con un linguaggio improprio. I firmatari erano il presidente del Consiglio, Bettino Craxi, e il cardinale segretario di Stato, Agostino Casaroli. La data, scelta forse per evitare simbolismi fuori luogo, non era I’ll febbraio, ma il 18 febbraio 1984. D’altra parte, i simbolismi erano già numerosi: ciò che non era riuscito negli anni precedenti alla Democrazia cristiana e ai suoi leader, riusciva ora al leader del partito socialista, il partito che vanta la maggiore tradizione anticlericale nella storia italiana, e che si era, a differenza del partito comunista, duramente opposto alla recezione dei patti lateranensi nella Costituzione italiana. Da parte ecclesiastica, la presenza del segretario di Stato confermava la volontà del Vaticano di gestire ancora in proprio i rapporti con l’Italia, e di non volerli delegare alla Conferenza episcopale italiana.
Il nuovo concordato riguardava la chiesa
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cattolica; le altre chiese o confessioni religiose non venivano più considerate tollerate, come in antecedenza, ma ottenevano di poter discutere e poi firmare delle ‘intese’ con lo stato italiano, atte a informare le leggi che prevedono i diritti e i doveri di quelle confessioni: si sarebbero così firmate intese, ad esempio, con la comunità valdese-metodista, e con la comunità ebraica. Alcuni elementi sono immediatamente percepibili nel nuovo testo: la religione cattolica non viene più considerata come la sola religione dello stato italiano, lasciando così spazio al formarsi di uno stato autenticamente aconfessionale, di uno stato laico, non sottomesso cioè alla legittimazione da parte della Chiesa, ma neppure con la pretesa di presentarsi, con qualche nostalgia hegeliana, come fonte originaria di tutti i valori. Nello stesso tempo scompaiono quegli articoli che in qualche modo si presentavano come lesivi dei diritti di alcune categorie di persone, alle quali la Costituzione garantisce parità assoluta di diritti anche se, ad esempio, siano incorsi in censure da parte dell’autorità ecclesiastica. Stato e Chiesa poi dichiarano di volersi impegnare “alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene del paese” (art. 1), affermazione che appare carica di buone intenzioni, ma forse non sprovvista di possibili ambiguità, quando si trattasse di definire quale sia quel “bene del paese” a cui si impegnano a collaborare. I vescovi d’altra parte non sono più tenuti, come con il concordato del 1929, al giuramento di fedeltà al governo, né il Vaticano a chiedere il placet statale per le nomine vescovili: si trattava di chiari residui di una mentalità giurisdizionalista, del tutto superata in una società democratica. Sono poi previste nuove norme per gli enti e i beni ecclesiastici, in base soprattutto ai fini da essi perseguiti. Modifiche significative vengono anche introdotte nelle norme che regolano il matrimonio. Nel precedente concordato, lo Stato dichiarava di riconoscere gli effetti civili ai matrimoni religiosi validamente celebrati, e
di riconoscere come nulli quei matrimoni che la Chiesa avesse successivamente dichiarati nulli, senza indagare sulla sentenza relativa e senza applicare ai coniugi non più tali le norme previste dallo stato italiano in caso di separazione. La nuova normativa dichiara invece che la magistratura italiana si riserva il diritto sia di applicare queste norme, sia di verificare “che ricorrono le altre condizioni richieste dalla legislazione italiana per la dichiarazione di efficacia delle sentenze straniere” (art. 8, comma 2). Vale la pena di ricordare ancora che l’articolo 12 prevede la collabo- razione tra Stato e Chiesa in un settore che da tempo richiede interventi legislativi importanti ed urgenti: la tutela del patrimonio storico ed artistico.
Infine, due ambiti di particolare interesse per la società italiana, per i quali vengono decisi nuovi orientamenti: l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole di Stato, e la condizione economica del clero. Il nuovo concordato contiene sul primo punto una novità: mentre prima lo Stato garantiva l’insegnamento della religione cattolica in tutte le scuole, esclusa l’università, permettendo al singolo alunno di chiedere l’esonero, ora lo Stato continua a garantire quell’insegnamento, che sarà però impartito a chi ne farà esplicita richiesta. La situazione sembra chiara: vi è l’insegnamento confessionale, ne usufruisce chi lo desidera; e tale insegnamento si giustifica con l’affermazione, difficilmente contestabile, che la repubblica italiana riconosce “il valore della cultura religiosa”, e tiene insieme conto del fatto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” (art. 2). Ma il seguito dell’articolo, e altre affermazioni presenti in altri articoli, rendono quel testo profondamente ambiguo: al punto che, anche prima che di fatto sorgesssero dispute accese, si poteva prevedere che la sua applicazione avrebbe creato gravi difficoltà.
Quali le ambiguità? Lo Stato afferma che la cultura religiosa è patrimonio storico del
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popolo italiano: ma non conclude che quindi tutti debbano acquisire quelle conoscenze, bensì solo chi lo desidera. È proprio logico che lo Stato dichiari che la scuola rinuncia a fornire quanto viene considerato essenziale nella cultura di un paese? Lo Stato si afferma laico: quindi parrebbe che debba garantire a tutti le conoscenze religiose, non confessionali. E invece si programma l’insegnamento della religione cattolica. Forse, viene obiettato, vi è una logica anche in questo: quel patrimonio religioso è rappresentato soprattutto dalla religione cattolica. Ma allora subentra l’altra incongruenza: se anche lo si ammette, resta obbligo dello Stato di formare e poi assumere i docenti di ogni insegnamento. Lo Stato invece dichiara che la nomina dei docenti, che saranno poi stipendiati dallo Stato stesso, viene lasciata all’autorità ecclesiastica, che formerà anche quei docenti, e che potrà togliere loro il diritto di insegnare qualora dubiti della loro ortodossia religiosa.
Tutto questo evidentemente, anche se può essere spiegato ricorrendo al principio stesso della logica concordataria, in cui ognuno acquista e cede qualcosa, con il risultato che in certi settori la regolamentazione non può non essere ambigua, lascia comunque spazio a possibili conflittualità. Ciò che si poteva prevedere al momento della firma, e che non pochi hanno previsto, si è puntualmente verificato. Le successive intese per applicare le norme, firmate dal presidente della Conferenza episcopale italiana e dal ministro della Pubblica Istruzione sono state fortemente contestate, fino al rischio di giungere, proprio a causa dell’applicazione pratica delle affermazioni giuridiche, ad una denuncia del concordato. Resta comunque il fatto che la grandissima maggioranza degli studenti ha scelto di seguire l’insegnamento religioso, mentre l’autorità ecclesiastica ha programmato itinerari formativi di grande impegno per i futuri docenti, fra i quali i membri del clero sono ormai in netta minoranza. Un frutto, se non altro, di tale situazione sarà una più diffusa in
formazione e formazione religiosa nel laicato cattolico italiano.
Vi è infine un punto che potrebbe significare, entro pochi anni, una vera e propria svolta epocale nella storia della società italiana, e nella storia del clero. Il vecchio concordato garantiva ai titolari di alcuni uffici ecclesiastici, e in particolare ai vescovi e ai parroci (non dunque ai preti in quanto tali: molti quindi non godevano di quel salario), uno stipendio corrispondente all’incarico, piuttosto modesto, ma che trasformava quel clero quasi in un funzionario statale. Lo stesso clero poi beneficiava di una serie di altri proventi: da beni immobili di proprietà delle parrocchie e delle diocesi, o da rendite bancarie su beni delle parrocchie o delle diocesi, oltre che delle offerte dei fedeli in occasione di prestazioni liturgiche. Tale sistema viene ora radicalmente mutato. A partire dal 1990 (era stato previsto un periodo di graduale applicazione del nuovo sistema, quasi un rodaggio, con la lenta applicazione delle norme stipulate), lo Stato non fornirà più nessuno stipendio al clero. È nato quindi un organismo di nomina ecclesiale, denominato Istituto centrale per il sostentamento del clero, per la messa in opera e poi l’applicazione del nuovo sistema. Tutti i benefici, parrocchiali o altro, perderanno la loro attuale titolarità per passare sotto l’amministrazione di questo organismo sovrano, che avrà un suo microorganismo in ogni diocesi, il cui numero è stato tra l’altro ampiamente ridotto (da 325, le diocesi sono scese a 228). I frutti di questi benefici centralizzati permetteranno di garantire a tutti i preti, qualunque sia l’ufficio ricoperto, uno stipendio di base uguale per tutti, stabilito con opportuni parametri e correttivi regionali, legati al livello di vita e di spesa delle singole regioni. La somma garantita dai proventi di quei benefici non basterà per coprire le spese: è quindi prevista un’altra fonte di reddito, per la quale lo Stato garantisce le strutture e il servizio atto a raccogliere quel denaro. A partire appunto dal 1990, i singoli cittadini potranno detrarre dal-
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la loro dichiarazione dei redditi la cifra versata, come offerta alla chiesa, fino ad un massimo prefissato; inoltre vi sarà la possibilità di destinare una piccola percentuale delle tasse o ad opere sociali gestite dallo Stato, o alla Chiesa. Gli uffici imposte verseranno quelle cifre indicate nella dichiarazione dei redditi alPorganismo centrale che provvede al sostentamento del clero. Una modifica profonda dunque nella vita del clero e quindi della comunità religiosa; il prete in effetti non apparirà più come un funzionario stipendiato, ma come un membro di una chiesa da cui riceve il necessario per vivere. Dovrebbero inoltre scomparire certe sperequazioni economiche presenti nel vecchio sistema tra regioni ricche e regioni povere, ma anche tra preti della stessa regione, man mano che si affermerà la logica dell’uguaglianza e soprattutto della solidarietà: il tutto naturalmente comporterà anche qualche prezzo, in parte già apparso dopo il breve periodo di sperimentazione, che potrebbe spingere a qualche correttivo.
La diaspora del mondo cattolico
La lettura in chiave di ‘diaspora’ era particolarmente cara alle comunità di base, che interpretavano, anche se talvolta in modo provocatorio, una realtà che si poteva anche ignorare, ma che era difficile negare. Proprio su quella base concreta si può oggi riprendere quella chiave di lettura, proponendo alcune constatazioni e lasciando ad altri eventuali interpretazioni. Si può oggi parlare di diaspora del mondo cattolico a diversi livelli, rifacendosi alla dialettica tra religione prescritta e religione vissuta, senza voler giudicare della religione vissuta, né aprire il discorso, che però dovrà pure essere affrontato, del modo in cui certe forme di religione vissuta finiranno un giorno per diventare anche religione prescritta, o dissolversi in forme religiose al di fuori di esperienze ecclesiali.
Una prima forma di diaspora si è verificata in questi anni a livello politico, attraverso un cammino abbastanza lineare. L’affermazione della necessità dell’unità politica dei cattolici era fondata per alcuni su ragioni storiche, per altri su ragioni ideologiche. La prima ipotesi si è lentamente imposta; ed era quindi inesorabile che sul giudizio della opportunità storica emergessero lentamente opinioni diverse. Si faceva strada nel frattempo la convinzione, che un giorno sarebbe stata fatta proprio anche da Paolo VI, che gli stessi principi di fede possono portare a militare in schieramenti politici anche diversi fra di loro, purché non in antitesi con la fede religiosa. Tale cammino subiva rallentamenti periodici: era comprensibile che quelle affermazioni sulla cessata necessità della unità politica dei cattolici, circolanti in tempi normali, venissero un po’ messe in causa in clima elettorale. Ma intanto si verificavano altri eventi: da un lato, la scontata presenza di cattolici praticanti in diversi partiti, anche in Italia, presenze talvolta proclamate, talvolta discusse, talvolta duramente criticate, e molto più spesso semplicemente vissute, senza alcun tipo di teorizzazione. In questi ultimi anni poi, si è verificato un dato anche più significativo, l’appello ai cattolici da parte di vari partiti, che si dicono latori di messaggi profondamente cristiani (o forse semplicemente attendono la fine del partito cattolico, e sperano di partecipare alla divisione dei voti di quanti si sentiranno senza patria).
L’altra forma di diaspora si colloca a livello etico, un ambito difficile da definire e da delimitare, ma paradossalmente molto meno difficile da individuare. È nell’ambito dei comportamenti che si verifica con maggiore evidenza la profonda divaricazione tra il prescritto e il vissuto; esiste in altri termini una moralità affermata e continuamente ridefinita anche dalla gerarchia ecclesiastica, e una diversa moralità vissuta dai credenti; esiste un’intransigenza di facciata, e una tolleranza silenziosa molto forte. I luoghi di tale diffici
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le rapporto tra moralità richiesta e moralità vissuta sono plurimi: fra i più evidenti, quello economico, quello sociale, quello dell’etica sessuale. Non si tratta soltanto di dare credito a qualche sondaggio che appare periodicamente, dove l’elemento più interessante finisce per essere di carattere psicologico: i sondaggi informano cioè sui modi in cui giornalisti e improvvisati ricercatori tendono a rimettere in circolazione vecchi luoghi comuni, senza per nulla preoccuparsi della loro attendibilità e di una modifica di costumi che rende quei luoghi comuni profondamente ambigui. Ma si è diffusa in anni recenti, anche fra i credenti, la forte convinzione che altro è la moralità individuale altro quella collettiva, altro l’etica privata altro la moralità pubblica, altro i principi altro i compromessi indispensabili dell’agire politico: con una sensibile modifica dei tradizionali sensi di colpa e del sentimento soggettivo del peccato. Andando ben oltre la banalizzazione di simili problematiche, la comunità dei credenti è oggi portata a ripensare profondamente alle antinomie del vivere cristiano, alle lacerazioni della coscienza religiosa, provocate da una società che propone ed esalta altri valori e mette in causa quelli religiosi. La coscienza religiosa si trova così di fronte a nuove sfide, che in qualche modo spiegano sia le fughe in avanti sia il ritirarsi nel proprio privato, sia la ricerca di un rifugio rassicurante e che vanifichi il significato di quelle sfide, un rifugio che in numerosi casi è offerto da nuove forme di religiosità o spiritualità di matrici diverse, ma che hanno in comune l’offrire protezione e luoghi sicuri dove vivere l’esperienza religiosa lontani dalla logica cristiana dell’incarnazione.
Nella grande categoria della disaffezione religiosa rientra anche un’altra forma di diaspora, quella dalla pratica religiosa. Per anni, tale ambito fu quello privilegiato da sociologi e storici delle religioni. Le statistiche della pratica religiosa venivano considerate uno degli elementi rilevatori della religiosità di una zona o di un paese. Una convinzione che
ha lentamente portato ad affinare i metodi dell’indagine, prima condotta con criteri non sempre del tutto attendibili e comunque difficilmente comparabili, poi sempre più perfezionata; mentre la valorizzazione di nuove fonti per la storia religiosa permetteva un confronto, pur se limitato, con altri momenti storici, e la psicologia religiosa, la storia della liturgia, l’antropologia, permettevano di superare i gravi rischi di un anacronismo in agguato. D’altra parte, ai lunghi dibattiti sui rapporti tra fede e religione, sulla necessità della seconda per vivere la prima, sono subentrate altre ipotesi di ricerca, ancora suggerite dall’antropologia, sulla necessità del rito, del gesto religioso anche collettivo per esprimere ed alimentare una fede. Ed è proprio a questo livello che si collocano le osservazioni sulla diaspora della pratica religiosa, in senso rituale, e sull’emergere di una nuova pratica.
La relativa perdita di importanza del rito, verificatasi in questi ultimi decenni, lascia ora il posto a una forte affermazione della importanza del gesto, di una pratica religiosa che non si risolve e non si esaurisce solo nel cultuale. Sono le sfide, e forse qui è il caso di dire i fallimenti, della società contemporanea, che hanno provocato la coscienza religiosa; una società competitiva, spesso spietata, ha provocato nuove conflittualità, crisi esistenziali, nuove povertà e nuove emarginazioni; ha anche provocato quella che in modo sintetico viene definita come perdita di senso. Molte risposte religiose finiscono per collocarsi proprio a questi livelli: la perdita di senso determina nuove domande anche religiose, e apre la strada a due diverse risposte: una risposta mistica, di fuga dal mondo e di ricerca di spazi di sicurezza e di gratificazione. È il fenomeno, già in qualche modo ricordato, del diffondersi delle sette, o anche di forme di cristianesimo che tendono ad assumere le stesse caratteristiche settarie. Ma apre anche la strada a una risposta che si colloca a livello operativo, o in altri termini determina vere e proprie nuove forme di pratica religiosa: il feno
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meno della straordinaria crescita del volontariato in Italia riveste significati di carattere religioso, ma necessariamente anche umani e politici. Molte di quelle associazioni in cui il volontariato si esprime rappresentano le risposte, che lo Stato — nonostante promesse e illusioni — non è riuscito a dare, alle nuove forme di povertà e di emarginazione; e potrebbero diventare il luogo privilegiato del dialogo e della collaborazione ad ampio raggio, che superi il problema teorico e il conflitto tra la cultura della mediazione e la cultura della presenza; il luogo privilegiato che potrebbe provocare una riflessione che porti alla elaborazione di nuove risposte e di una diversa riflessione anche in ambito giuridico e politico; e finiscono anche per apparire una delle risposte alla grave crisi di impegno politico che tutti i partiti stanno sperimentando.
I rapporti tra Stato e Chiesa, ma anche quelli tra società civile e società religiosa, si svolgono dunque a vari livelli, talvolta in sintonia tra di loro, talvolta in opposizione. Il livello istituzionale è espresso dal sistema concordatario in vigore, che rimane la scelta di fondo della Chiesa e dello stato italiano; gli altri sono quelli dei rapporti molteplici e molto più liberi che si ritrovano nel tessuto sociale; ed è in questo ambito che assume importanza emblematica il volontariato, poiché potrebbe produrre riaggiustamenti sia nella società civile che in quella religiosa, in seguito alle provocazioni positive che sta proponendo a tutti i membri di quelle società e alle loro coscienze.
Nella comunità dei credenti sono poi profondamente mutati i rapporti tra clero e laicato; sono cresciuti quei cristiani che hanno una nuova coscienza del loro credere e del loro essere cristiani in una Chiesa non più clericale. Cristiani, siano preti o laici, ben consapevoli che la scelta di sentirsi adulti in una Chiesa che non si vorrebbe più clericale, spesso si paga, sul piano collettivo e sul piano individuale. D’altra parte, è cresciuta la coscienza della rilevanza della propria fede an
che nelle scelte politiche: proprio questo ha aperto il discorso della mediazione da trovare tra fede e impegno politico.
Anche nel mondo laico poi il problema religioso ha ritrovato una sua centralità. Tra gli anni cinquanta e gli anni sessanta erano già emerse affermazioni ed analisi significative in proposito, ad opera soprattutto di Lelio Basso, sulla polivalenza della coscienza religiosa, sfociate nel già citato discorso di Togliatti, con il quale si ammetteva il grave errore commesso da chi aveva pensato che la coscienza religiosa come tale rappresentasse un elemento reazionario. La storia ha dimostrato, affermava il segretario del Partito comunista italiano, che quanti hanno pensato così si sono semplicemente sbagliati. L’atteggiamento antireligioso, e non solo anticlericale, si è in qualche modo modificato: anche se la crisi delle ideologie e la fine dei partiti come luogo di appartenenza ideologica rende difficile proporre simili distinzioni. Si è comunque superato il concetto della tolleranza del diverso, anche se resta la preoccupazione dei risorgenti integrismi. Non si tratta solo di tollerare chi ha posizioni sociopolitiche diverse, perché fondate sul modello religioso; ma di riconoscere che quelle posizioni possono portare a progetti sociali e politici non necessariamente reazionari. Anche se resta aperto il discorso sul rapporto fra progetto politico e ispirazione religiosa, e di fronte a forme di integralismo che affermano che l’unica e autentica cultura è quella cristiana, e quindi bisogna imporla a tutti, esistono anche laici che professano un integralismo alla rovescia, dichiarando esplicitamente che una professione religiosa è assolutamente incompatibile con qualsiasi progetto politico definito laico; riaffermando quindi che un credente non potrà mai essere uno spirito autenticamente democratico.
Vale la pena di avanzare ancora un’ultima osservazione, che potrebbe aprire prospettive molto diverse in un futuro forse neppure tanto lontano. Quando si afferma e si dà per
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scontato che all’interno di una stessa fede religiosa possono nascere diverse proposte politiche, si apre un discorso molto più ampio e delicato, che non si può eludere proprio a causa dell’abitudine a pensare al cattolicesimo in termini politici e di cristianità: si apre il discorso della pluralità dei cattolicesimi, delle nuove forme di “politeismo religioso”, di una pluralità di valori di riferimento, di autorità religiose e di verità ecclesiali24. La chiesa italiana sembra vivere una situazione interessante e problematica: una certa ripresa della religione si accompagna al persistere, anzi alla crescita, della secolarizzazione; mentre la stessa Chiesa, che sembra ritrovare una più forte identità verso l’esterno, pare fortemente indebolita all’interno, nonostante tentativi di restaurazione autoritaria che potrebbero ottenere altri ritiri nel privato, forse più dannosi delle dialettiche interne; con il rischio di incrementare quella che un sociologo, Franco Garelli, ha definito una “religione dello scenario”25. Il venir meno di un concetto obbligante e condizionante del sentimento religioso ha provocato l’emergere di una forte debolezza sia dogmatica che etica, mentre il persistere di un riferimento religioso non ha impedito una forte diminuzione dell’impatto della religione sulla vita dell’individuo.
Forse però quello che è venuto meno è so
prattutto l’impatto della religione istituzionale, nonostante il successo popolare di qualche leader, mentre permane nel profondo, e riemerge periodicamente, un sentimento religioso vago e non facilmente definibile. Non basterà, per risolvere la divaricazione, proclamare che il futuro dell’Europa sarà un futuro cristiano, o dire che il secolo ventunesimo sarà religioso o non sarà: lo aveva già proclamato André Malraux in altri tempi, e forse non pensava molto a una religione istituzionale. Ma non basterà neppure continuare a proclamare la fine imminente della religione, travolta da una non ben individuata modernità, come ritorna a fare periodicamente una certa cultura laica, non meno acritica di quei fondamentalismi religiosi che giudica con disprezzo, perché si abbiano le risposte alle risorgenti domande di senso e di religiosità, in parte causata proprio dalla crisi di quella non ben individuata modernità. Per i credenti, oggi come sempre, si tratta di non dare nulla per scontato, né di delegare ad altri la propria capacità critica; e di prendere coscienza che la ripetizione di formule è ancora meno risolutiva, quando si è chiamati a riscrivere il messaggio religioso con categorie storiche e culturali che siano significative per la coscienza contemporanea.
Maurilio Guasco
24 Brevi osservazioni su queste forme di “politeismo”, in Giuseppe De Rita, La società italiana alla luce del rapporto Censis, “La rivista del clero italiano”, settembre 1984, pp. 658-667, ora in G. De Rita, Chiesa e società in Italia. Intervista di Antonio Acerbi, Roma, Ave, 1985, pp. 113-123. Per uno studio dei vari aspetti della pratica, della organizzazione e della mentalità religiosa negli ultimi anni, si veda anche il volume già citato di L. Berzano, Differenziazione e religione negli anni ottanta. Le analisi più interessanti sulla pluralità dei cattolicesimi contemporanei si trovano nelle numerose opere di Emile Poulat: si veda ad esempio Une église ébranlée. Changement, conflit et continuité de Pie X II à Jean-Paul II, Paris, Casterman, 1980; Liberté, laïcité. La guerre des deux France et le principe de la modernité, Paris, Cerf/Cujas, 1987; Poussières de raison. Esquisses de météosociologie dans un monde au risque de l ’homme, Paris, Cerf, 1988.25 Franco Garelli, La religione dello scenario. La persistenza della religione tra i lavoratori, Bologna, I! Mulino, 1986.
Maurilio Guasco (1939) ordinario di Storia del pensiero politico contemporaneo presso l’Università di Torino. Tra le sue numerose opere pubblicate: R o m o lo M u rr i e il m o d e r n is m o , A l f r e d L o is y in I ta lia , S e m in a r i e c le ro n e l N o v e c e n to .