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l a V oce del popolo OSCAR2013 ANNATABUONA INTERVISTA “NO”, film del regista cileno Pablo Larraín ZagrebDox tra fiction e realtà “Twelve years a slave” di Steve McQueen L’attore anglo-irlandese Daniel Day-Lewis DOCUMENTARI IN AGENDA POLVERE DI STELLE RECENSIONE 2 3 8 5 6 A colloquio con il regista Vinko Brešan I film croati attraggono sempre più pubblico nelle sale cinematografiche Il documentario non può più esser osservato nel suo contesto tradizionale Un film sulla schiavitù ispirato all’omonima autobiografia di Solomon Northup Con “Lincoln” vince il suo terzo Oscar. Per lui, recitare è una missione La pubblicità come strumento di democrazia in un Paese dilaniato dalla dittatura l a V oce del popolo cinema www.edit.hr/lavoce Anno 1 • n.1 martedì, 26 marzo 2013

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la Vocedel popolo

OSCAR 2013 ANNATA BUONA

INTERVISTA“NO”, film del regista cileno Pablo Larraín

ZagrebDox tra fiction e realtà

“Twelve years a slave” di Steve McQueen

L’attore anglo-irlandese Daniel Day-Lewis

DOCUMENTARI IN AGENDAPOLVERE DI STELLE RECENSIONE

2 3 85 6A colloquio con il regista Vinko BrešanI film croati attraggono sempre più pubblico nelle sale cinematografiche

Il documentario non può più esser osservato nel suo contesto tradizionale

Un film sulla schiavitù ispirato all’omonima autobiografia di Solomon Northup

Con “Lincoln” vince il suo terzo Oscar. Per lui, recitare è una missione

La pubblicità come strumento di democrazia in un Paese dilaniato dalla dittatura

la Vocedel popolo

cinemawww.edit.hr/lavoce Anno 1 • n.1martedì, 26 marzo 2013

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cinema2 martedì, 26 marzo 2013 la Vocedel popolo

INTERVISTA di Marin Rogić

IL SUCCESSO DEL CINEMA

CROATO NON È PIÙ UN CASO

A COLLOQUIO CON IL REgISTA VINKO BREŠAN, IL CUI fILM “I fIgLI DEL PRETE” hA CENTRATO ANCORA UNA VOLTA I gUSTI DEL PUBBLICO

L’ultima fatica di Vinko Brešan, “I figli del prete” (Svećenikova djeca), è uno dei film più

popolari nella storia della Croazia dall’indipendenza. Stando agli ultimi dati, usciti il 18 febbraio scorso, è il lungometraggio croato più visto del XXI secolo, arrivando a toccare la cifra di oltre 155 mila spettatori e scalzando dal podio il film “Cos’è un uomo senza i baffi” di Hrvoje Hribar, che conta poco più di 150 mila presenze. Nella scaletta dei più visti si piazza al terzo posto un’altra opera di Vinko Brešan, “Il fantasma del Maresciallo Tito” (Maršal).Per salire, però, sul trono dei lungometraggi con il maggior numero di spettatori dall’indipendenza della Croazia, il regista dovrà fare i conti con... sè stesso. Ebbene sì, affinché “I figli del prete” diventi il film di maggior successo nella recente storia croata e si porti a casa la corona da primatista, dovrà superare la pellicola più famosa di Brešan, “Come è cominciata la guerra sulla mia isola”, che da anni è solidamente al comando, contando più di 340 mila spettatori. Sono in molti a ritenere che il suo nuovo film abbia buone possibilità di raggiungere e superare il film del 1997. Oltre a registrare un ottimo successo di pubblico, la pellicola è stata coinvolta pure nel dibattito pubblico sull’introduzione dell’educazione sessuale nelle scuole. Protagonista del film è un giovane prete che, per aumentare il tasso di natalità nel suo paesino, escogita un piano alquanto bizzarro. La trama del film non è stata gradita dai circoli ecclesiastici e sono state dure le critiche nei confronti del regista e della sua ultima opera cinematografica. Di questo e altro abbiamo parlato con il regista zagabrese.

Incominciamo con una domanda che avrà sentito più volte nelle ultime settimane. “I figli del prete” è uscito in sala proprio quando nel Paese infuriava la polemica sull’educazione sessuale nelle scuole. C’è chi sostiene che è stato proprio il dibattito a “spingere” gli spettatori al cinema. In quale misura le vicende esterne al film possono influenzare il suo successo?La forza di un lavoro ben riuscito non è solo nel talento, ma anche nella capacità di cogliere il momento giusto. Ammetto che il dibattito sull’educazione sessuale nelle scuole abbia aumentato l’interesse dei mass media per il film. Per quanto riguarda il pubblico, è difficile dire come sarebbe andata se il dibattito non ci fosse stato. Non posso sapere se in una situazione diversa il film avrebbe registrato un simile successo di pubblico.

Il film racconta la storia di Don Fabijan, un giovane prete che vive su un’isola dalmata e che in un modo insolito cerca di aumentare la natalità del posto: incomincia a forare le confezioni dei preservativi. Il noto teologo Adalbert Rebić ha addirittura definito il film una cospirazione di gay, lesbiche e comunisti. Come risponde a tali accuse?Questa dichiarazione non è indirizzata al film, non è una critica che riguarda l’opera cinematografica e pertanto non mi interessa. L’unica cosa che mi stupisce è il linguaggio rude di una persona colta, laureata e, per di più, di un prete! Nonostante la sua esternazione, il pubblico è andato in massa al cinema a vedere il film. Se il pubblico non ha reagito a questo attacco, perché dovrei farlo io?

Quale aspetto del testo di Mate Matišić l’ha colpita maggiormente al primo impatto?La perenne questione della manipolazione. Una persona che vuole fare del bene con tutto il cuore, ma in realtà si ritrova a fare del male.

Qual è lo stato di salute della cinematografia croata contemporanea?Molto buono, in costante crescita. Il pubblico sta tornando a riempire le sale cinematografiche e vuole vedere film croati. Non si tratta più di un caso, ma del risultato di un sistema impostato dall’HAVC (Centro Audiovisivo Croato, nda). Per fare un esempio recente, il film di Bobo Jelčić “Difesa e protezione” è stato presentato nella sezione “Forum” del Festival internazionale del cinema di Berlino.

Già all’uscita dei primi dati ufficiali era chiaro che “I figli del prete” sarebbe diventato un serio pretendente al titolo di miglior film croato dall’indipendenza. Altri suoi film si sono contesi questo titolo, tra cui il celebre “Come è cominciata la guerra sulla mia isola”, uscito nel 1997. Com’è cambiata la cinematografia croata dal ‘97 in poi? Il ruolo di regista ha subito delle modifiche?Per quanto riguarda la cinematografia, negli ultimi quindici anni la situazione è molto cambiata, direi in meglio. È stato fondato il Centro Audiovisivo Croato che svolge un ruolo fondamentale e che

segue tutto ciò che riguarda il mondo del film. Al suo timone c’è un operatore del cinema, Hrvoje Hribar, che svolge un ottimo lavoro. Invece, per quanto riguarda il ruolo di regista, la situazione non è cambiata molto. Era un mestiere impegnativo prima come lo è anche oggi, indipendentemente dalle condizioni offerte dalle case produttrici.

Sono in tanti, tra professionisti cinematografici e spettatori, che considerano il cinema croato come una realtà di serie b, incapace di competere con le altre cinematografie europee. Qual è la sua opinione?Sono consapevole di questo fatto, ma non condivido tale opinione. Sono convinto che i nostri cineasti possano competere a pieno titolo con i loro colleghi europei. Dagli anni Novanta fino ad oggi numerosi film hanno rappresentato la cinematografia croata a Venezia, Berlino, Cannes, Karlovy Vary, Mosca, Montreal, e via dicendo.

Un film può influenzare e cambiare la società?Purtroppo no. Il mondo sarebbe un posto migliore se un film fosse in grado

di cambiarlo. Però, il film ha un’altra „arma“. È capace di „fotografare“ lo stato d’animo di un determinato luogo in un determinato momento, forse meglio di tutte le altre arti.

A quando risale la sua passione per l’“universo cinematografico“?A quando ero giovane, dopo aver visto i documentari di Krsto Papić. Avevo 15 anni e in me è nato qualcosa: desideravo anch’io raccontare il mondo come lo raccontava Krsto Papić e, come lui, desideravo farlo attraverso una cinepresa.

Qual è secondo lei il fattore che incide di più sul successo di un film: gli attori, la sceneggiatura, il regista o altro?Tutto ciò che ha elencato e anche altro. Il film è un’arte collettiva e tutti i fattori, anche quelli più trascurabili, fanno la differenza tra un film di qualità e uno scadente.

Ha mai desiderato andare oltre oceano e fare film ad Hollywood? È mai stato affascinato da quel mondo?Hollywood è un’industria, mentre noi siamo dei piccoli manifatturieri. Metaforicamente parlando, loro producono delle Mercedes mentre io sono un fabbro che produce pentole. Siamo due mondi infinitamente diversi ed inconciliabili.

Woody Allen dice che Hollywood „distrugge la creatività“. Mi sembra che anche lei la pensi in questo modo?È vero che da molto tempo ormai non ho visto un bel film che sia uscito dagli studi di Hollywood, però, è altrettanto vero che, all’interno della produzione indipendente americana accadono cose straordinarie, film magnifici, con registi e attori strepitosi.

Se avesse un budget illimitato, quali sono gli attori che vorrebbe ingaggiare per un film?Nel film “I figli del prete” non avrei voluto lavorare con nessun altro al di fuori degli attori che ho scritturato, anche se qualcuno mi avesse dato la possibilità di scegliere qualunque attore di fama internazionale. Non avrei sostituito nessuno.Frequenta i cinema nel tempo libero?Sì, soprattutto con i miei figli.Progetti per la prossima pellicola?Non ci sono ancora. Ho bisogno di fermarmi per un determinato periodo, il tempo necessario per ricaricare le batterie.

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cinema 3martedì, 26 marzo 2013la Vocedel popolo

DOCUMENTARI di Dragan Rubeša

IL FILM COME

ESPERIENZA GENUINA

LA NONA EDIZIONE DEL FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL DOCUMENTARIO

ZAGREBDOX DENOTA UN DIVARIO TRA FICTION E REALTÀ

Ogni qualvolta un autore, accusato di aver “manipolato” il proprio documentario, tenta di giustificarsi,

prende spesso come esempio il film etnografico muto di Robert Flaherty, “Nanook l’eschimese”, nel quale alcune sequenze – quella della costruzione di un iglù e la caccia alle foche – furono inscenate. Rimane il dubbio se un documentario simile sia adatto a un festival come lo è il ZagrebDox. I puritani sostengono che non lo sia.Tuttavia, dal momento che in questo genere cresce sempre di più il divario tra la fiction e la realtà, la verità e la menzogna, l’onestà e la manipolazione, ciò che è documentato e ciò che è ricostruito, tra l’autentico e l’estetizzato, oggigiorno il documentario non si può più osservare nel suo contesto tradizionale, ma viene contaminato da altri mezzi.Così, nel nuovo film del grande Želimir Žilnik, “Pirika nel film”, l’autore orchestra il suo incontro con Pirika Čapko nel cinema berlinese “Arsenal”, dove è stato proiettato il suo film “Opere giovanili”, nel quale lei recitò il ruolo di sorella della protagonista. Nonostante il loro incontro sia stato pianificato, l’autore – richiamando lo spirito del popolare programma televisivo di Raffaella Carrà “Carramba! Che sorpresa” - tenta di creare un’impressione di spontaneità e convincere il pubblico a credere che l’incontro fosse avvenuto per caso.Invece, Pirika è giunta a Berlino per rintracciare sua figlia lesbica che non ha visto da dieci anni e la quale non la vuole vedere, volendo nascondere dalla madre la sua identità sessuale. Questo metodo artistico tipico di Žilnik è utilizzato pure da Danis Tanović nel film documentario “Un episodio nella vita di un cacciatore di ferraglia”, nel quale i suoi non attori rivivono ciò che è loro realmente accaduto, ma diventano consapevoli della presenza invadente della cinepresa dell’autore, per cui la loro “recitazione” diventa ostentata.

EMOZIONI AMPLIFICATE Tuttavia, mentre Tanović cerca di rimanere serio, in conformità con il tema che tratta (un venditore rom di materiali di scarto fa di tutto per salvare la moglie che ha urgente bisogno di un’operazione ginecologica, in quanto è a rischio di sepsi, ma il medico si rifiuta di operarla perché non ha la tessera dell’assicurazione sanitaria), Žilnik insiste deliberatamente sull’artificiosità dell’inquadratura e delle emozioni amplificate al limite del kitsch in modo da ottenere un effetto di consapevole „trash“. Quello che li unisce è il trattamento del film come un’esperienza genuina. I loro lavori sono un eterno susseguirsi di movimenti, rituali e piccoli miracoli. L’immaginazione dell’inimmaginabile nelle tristi vite umane.Dall’altro lato, almeno per quanto riguarda i pittoreschi abitanti ed eccentrici berlinesi, un metodo artistico ben diverso caratterizza invece il lavoro del tandem Lena Müller e Dragan von Petrovic nel cortometraggio „Dragan Wende“, i quali scelgono un approccio più tradizionale e utilizzano un pulsante materiale d’archivio mentre seguono il percorso di vita di un „gastarbeiter“ | Pirika nel film

| Dragan Wende

jugoslavo che diventò re dell’edonistica scena disco della Berlino Ovest negli anni Settanta. Come cittadino jugoslavo, attraversava liberamente il confine segnato dal Muro di Berlino con il suo passaporto e ciò gli permetteva di contrabbandare su vasta scala giubbotti in pelle a Berlino Est. Con la caduta del Muro inizia anche il suo declino. Infatti, mentre cadeva un muro, ce n’era un altro, ancora più resistente, che si innalzava intorno al protagonista dopo che questi si era isolato in uno squallido appartamento di Kurfürstendamm.

STORIE DI GASTARBEITER Oggigiorno è un decrepito portiere di un bordello che usufruisce dell’assegno sociale e vive di ricordi nostalgici di tempi migliori, rifiutandosi, un po’ razzista, di varcare il vecchio confine e di entrare nell’ex Berlino Est, in quanto lì l’aria “puzza”. L’arrivo di suo padre dalla Serbia, che ha costruito mezza Berlino come ex gastarbeiter e muratore, porterà al film una sufficiente dose di situazioni umoristiche. Le leggende metropolitane narrano che avesse addirittura murato la propria tuta da lavoro in un pilastro del Reichstag.Un destino tragico simile vivono pure i lavoratori nell’ottimo film di Goran Dević “Dvije peći za udarnika Josipa Trojka” (Due forni per il lavoratore modello Josip Trojak), che segue lo smantellamento del famoso forno Siemens-Martin, il cuore dell’ex ferreria di Sisak nell’epoca d’oro del socialismo jugoslavo. Grazie a questo forno, i lavoratori della ferreria avevano battuto diverse volte il record di produzione di ferro. Oggidì la stanno abbattendo, senza nascondere la loro commozione, i figli degli uomini che vi hanno lavorato, caricando i suoi resti su un furgone. Con questo piccolo grande film, Dević ha fatto per i lavoratori croati ciò che per i loro omologhi cinesi fece Jia Zhangke nel suo magnifico opus.

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la Vocedel popolo4 martedì, 26 marzo 2013

C’è una notte dell’anno in cui tutti i patiti di cinema rimangono svegli. È la notte in cui vengono assegnati

gli Oscar. La TV ci permette, superando lo sfasamento temporale, di vedere in diretta la cerimonia. Stavolta a servirci la telecronaca dell’85.esima distribuzione delle prestigiose statuette è stata l’emittente NovaTV poco dopo la mezzanotte del 25 febbraio, con due ore di torture sul glamour, i vestiti e i diamanti in scena, frammisti ai commenti vergognosamente scadenti di un ospite televisivo sperso fra i nomi dei protagonisti ed i titoli dei film. Esausti ed irritati (sarà stato questo, forse, a tenerci svegli) alfine siamo arrivati all’apertura delle buste e ai nomi dei vincitori.

“LINCOLN” UNA NOIA Man mano che il tempo passava, “Lincoln” di Steven Spielberg uno dei favoriti, lentamente si stemperava nel buio dei perdenti. Non è una biografia, del grande presidente americano ci dice ben poco e la maggior parte delle scene, realizzate negli interni e con una massa di dialoghi, non suscita nello spettatore, non si dirà un senso di appagamento, ma neppure la curiosità. Situata nel gennaio 1865, l’azione s’incentra sugli sforzi per far accettare dal Congresso il tredicesimo emendamento concernente l’abolizione dello schiavismo. Un gennaio stiracchiato tanto da estendersi alla maggior parte del film. Lincoln fu ucciso in aprile e la noiosa pellicola in costume si conclude senza la ripresa dell’attentato.Daniel Day Lewis, premio Oscar quale attore protagonista, è rifuggito da gestualità teatrali e verbosità invadenti mettendo in luce un’interiorità contenuta e senza patetismi. La barba, il lungo naso, l’alto cilindro in testa, lo hanno fatto assomigliare a una figura della commedia muta americana, avversario di Chaplin, Stanlio e Ollio e altri.

TARANTINO NON SI SMENTISCE “Django Unchained “ di Quentin Tarantino è un western bizzarro, spiritoso e violento. Molti non potranno accettare il bagno di sangue nella residenza Candy, ma Tarantino è fatto così. Scherzoso e crudele. Django è uno schiavo negro alla ricerca della donna amata che gli è stata portata via

a forza. Lo aiuta un cacciatore di taglie, il dentista tedesco King Schultz. I due ammazzano una montagna di persone per tutta la durata della pellicola e una sorte felice arride solo alla coppia innamorata. Tarantino ha avuto l’Oscar per la miglior sceneggiatura originale (il primo gli fu assegnato per „Pulp Fiction“) e Cristoph Waltz quale attore non protagonista, per il ruolo del dentista Schultz, un assassino con maniere da gentiluomo. A sua volta questi si era aggiudicato il precedente Oscar per la partecipazione al film di Tarantino „Bastardi senza gloria“. Particolarmente positive le impressioni suscitate da Samuel L. Jackson, che impersona Stephen, un negro maligno amante degli intrattenimenti, tanto che avrebbe potuto tranquillamente avere l’Oscar. Con “Django Unchained“, i fan di Tarantino si sentiranno pienamente appagati.

CARTOLINA NEW AGE Ang Lee si è aggiudicato l’Oscar per “La vita di Pi”. È una sorta di libro della giungla ambientato nell’area oceanica, ingentilito dall’essere, si dice, una storia vera. Pi è un indù che da adolescente amava stare nello zoo del padre, affascinato dalla tigre chiamata Richard Parker. Fallito il genitore, aveva imbarcato gli animali su una nave lasciando l’India con la famiglia. Nei pressi delle Filippine la nave era naufragata e nella scialuppa di salvataggio avevano trovato posto solo Pi, una zebra, un orango, una iena e la tigre. Presto questa è l’unica a rimanere con Pi che, seppur pieno di paura, si industria nel ruolo di domatore in cui

riesce perfettamente. La pellicola presenta una grande ricchezza visiva. L’esperienza mistica dell’uomo nel suo rapporto con la natura e gli animali, l’anelito alla spiritualità e religiosità avvicineranno questa “cartolina new age” ad un gran numero di spettatori. Claudio Miranda ha avuto l’Oscar per la miglior fotografia. Impossibile dimenticare le affascinanti scene dell’affondamento della nave nella tempesta, la navigazione della scialuppa, la notte sull’isola deserta. Non meno degna di nota l’apparizione di Gérard Depardieu quale odioso cuoco di bordo.

UMORISMO E OTTIMISMO Il piccolo grande film „Silver Linings Playbook“, titolo italiano “Il lato positivo”, firmato da David O. Russell è il mio preferito. Rincasando all’improvviso, Jake coglie la moglie a fare nel bagno l’amore con l’amante. Incapace di trattenersi, bastona a sangue l’altro, deve passare otto mesi in un istituto psichiatrico e quindi va a vivere nella casa dei genitori, frustrato per un’ingiunzione del tribunale a non avvicinare la donna. L’incontro casuale con Tiffany, giovane e problematica vedova, aggrovigliera ancora di più la sua vita emotiva. La pellicola è un susseguirsi di scene di gente ripresa mentre vive la propria quotidianità, in un clima permeato da un lieve umorismo e ottimismo in merito alla possibilità di rifarsi una vita e trovare nuovi amori. Premio Oscar per il ruolo di Tiffany, la giovane Jennifer Lawrence ha dato molto attraverso i dialoghi esprimendo però il meglio del suo mondo interiore nel ballo e lo jogging. Bradley

Cooper è stato pure un ottimo Jake tanto da distanziare di gran lunga nel merito Daniel Day Lewis nel „Lincoln“.

FILM EMOZIONANTE “Argo”, diretto e interpretato da Ben Affleck, si è aggiudicato l’Oscar quale „best picture“, decisione facile anche solo considerando il tema. Nell’autunno del 1979 una masnada di seguaci dell’ayatollah Khomeini assale e occupa l’ambasciata americana a Teheran prendendo i diplomatici in ostaggio. Sei cittadini americani lasciano la sede trovando scampo nell’ambasciata canadese. E Tony Mendez, agente della CIA, ha il compito di farli arrivare in America. Per ingannare gli iraniani, Mendez spaccia il gruppo per un’equipe cinematografica incaricata di visionare a Teheran e in altre parti del paese i siti più idonei per girare “Argo”, un film di fantascienza di terz’ordine. La finzione filmica viene così usata per salvare vite vere. “Argo” offre il brivido del thriller e tiene desta l’attenzione dello spettatore sino alla fine. Molto bravo Alan Arkin nel ruolo del produttore Lester. Peccato gli sia sfuggito l’Oscar.

JAVIER BARDEM NON CONVINCE Il cinquantesimo della comparsa dei film su James Bond trova conferma in “Skyfall“ in cui il regista Sam Mendez ha subordinato trama e personaggi alla componente visiva. “Skyfall“ riluce entro una fotografia estetizzata con una lussuosità baroccamente dorata. La grossa debolezza è rappresentata dalla figura del personaggio più negativo. Dolcezza nel parlare e gesticolazione caramellosa che rimandano a un creatore di moda con tendenze omosessuali, Javier Bardem non è assolutamente credibile quale principale avversario di Bond. “Skyfall“ ha preso l’Oscar per la musica di testa interpretata da Adele. Anche su questa decisione pesa il timbro del ritardo perché doveva arrivare già con “Goldfinger“.È stata comunque un’annata buona, anche se non ha presentato film eccezionali. E il verdetto più giusto in merito a quelli premiati verrà dalla proiezione sul piccolo e grande schermo da cui essi apporteranno entusiasmo e delusioni agli spettatori. Lo showbusiness non è mai in perdita.

CRITICA di Aldo Paquola

LO SHOWBUSINESS NON È MAI IN PERDITA

PREMIO OSCAR 2013: UN’ANNATA BUONA MA SENZA LAVORI ECCEZIONALI

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cinema 5martedì, 26 marzo 2013

RECITARE È UNA MISSIONE

RITRATTO dI dANIEL dAY-LEWIS, PRIMO

ATTORE NELLA STORIA A VINCERE TRE OSCAR

PER IL RUOLO PRINCIPALE

IL PROTAGONISTA di Helena Labus Bačić

Vince l’Oscar e abbatte un record. Il celebre attore anglo-irlandese Daniel Day-

Lewis, premiato per il ruolo del presidente americano nel film “Lincoln” di Steven Spielberg, è entrato nella storia dell’Oscar come il primo ad aver vinto tre statuette per il miglior ruolo di protagonista. Ha superato così ben otto attori che ne hanno vinto due, tra cui Jack Nicholson, Marlon Brando, Gary Cooper e Dustin Hoffman.Il 55.enne attore ottenne il suo primo Academy Award nel 1989 per il ruolo di Christy Brown nel film di Jim Sheridan, “Il mio piede sinistro”. Interpretò con eccezionale intensità la parte del pittore e scrittore irlandese, paralizzato fin dalla nascita e capace di muovere soltanto il suo piede sinistro. Si immedesimò talmente nel ruolo da rimanere “confinato” su una sedia a rotelle per tutta le durata delle riprese del film, pretendendo di venir trasportato a braccia da un set all’altro e incrinando addirittura due costole per le posizioni innaturali assunte sulla carrozzella. Questo suo modo di immergersi completamente nel ruolo che interpreta, al punto di viverlo anche fuori dal set cinematografico, diventerà il suo marchio di fabbrica. L’attore si approccerà a ciascun ruolo in maniera scrupolosa, vivendolo come una missione.Il secondo Oscar arriva nel 2007 per il film “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson, una pellicola di estrema potenza espressiva nella quale Day-Lewis eccelle nel ruolo di Daniel Plainview, creando un personaggio pieno di sfaccettature e talmente intenso da rimanere impresso a lungo dopo la visione del film.

SCELTA ACCURATA DEI RUOLI Daniel Michael Blake Day-Lewis, nato a Londra il 29 aprile 1957, un attore di formazione teatrale classica, esordisce sul film nel 1982 con un piccolo ruolo in “Ghandi” di Richard Attenborough. Ha inizio così una brillante carriera, sebbene molto particolare, che lo vedrà molto selettivo nella scelta dei ruoli. Infatti, in trent’anni di attività girerà poco meno di venti film e soltanto cinque dal 1997 fino ad oggi. Saranno, però, quasi tutte delle scelte azzeccate, opere cinematografiche di alta e altissima qualità nelle quali Day-Lewis metterà in mostra tutta la ricchezza del suo straordinario talento, ma anche del suo particolare, e ormai leggendario, modo di lavorare.Per “Il mio piede sinistro“ impara a scrivere effettivamente con il piede; per “The Boxer“, anche questo girato con Jim Sheridan, si prepara per due anni con l’ex pugile campione del mondo Barry McGuigan; per “L’ultimo dei Mohicani“ di Michael Mann scuoia animali, vive in una tenda e non abbandona mai il suo fucile; per “Nel nome del padre“, un’altra collaborazione con Sheridan, trascorre molto tempo chiuso in una cella e non esce mai dal personaggio, continuando a parlare con l’accento di Belfast anche durante le pause dal lavoro. Il ruolo gli procura una seconda nomination al premio Oscar.Per il film “L’età dell’innocenza“ di Martin Scorsese gira per due mesi nelle strade di New York sfoggiando un abito tipico dell’aristocrazia newyorkese degli anni 1870, con tanto di cilindro, mantello e bastone da passeggio. E le curiosità non si fermano qui.

RITORNO SUL SET CON SCORSESE Al termine delle riprese di “The Boxer”, Daniel Day-Lewis decide di ritirarsi dal mondo cinematografico e tra il 1997 e il 2001 svolge l’attività di apprendista calzolaio in una bottega di Firenze. Sarà Martin Scorsese a convincerlo a ritornare sul set, offrendogli il ruolo di “Bill il Macellaio” nel suo epico film “Gangs of New York”. Un’altra interpretazione strepitosa per Day-Lewis, seguita dalla terza nomination per l’Oscar.Ormai, sembra che l’attore non possa

fare un passo falso e pure nei film che non sono stati accolti con troppi favori dalla critica e dal pubblico – tra questi si inseriscono il dramma “La storia di Jack&Rose” (2005) e il musical “Nine” (2009) – Day-Lewis offre un’interpretazione degna di nota. In una recente intervista, l’attore spiega il suo metodo di lavoro dicendo che per preparare bene un personaggio deve innanzitutto documentarsi accuratamente. “Poi è una spinta interiore ad avvertirmi quando l’oggettività diventa soggettività – sottolinea l’attore -.

Intendiamoci: puoi prepararti anche per 25 anni, ma non c’è nessuna garanzia che riuscirai ad essere convincente”.Chiesto, subito dopo aver accettato la terza statuetta d’oro nella carriera, di svelare quale sarà il suo prossimo ruolo, dichiara – ma ce lo potevamo immaginare – di aver bisogno di un periodo di riposo per riprendersi dall’intensa esperienza del film “Lincoln”. Quindi, non ci resta che armarci di pazienza e attendere alcuni anni per poter assistere a una nuova straordinaria prova di questo attore davvero fuori dal comune.

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cinema6 martedì, 26 marzo 2013 la Vocedel popolo

I MECCANISMI DELLA PUBBLICITÀ A SERVIZIO DELLA LIBERTÀ

«NO - I GIORNI DELL’ARCOBALENO» DI PABLO LARRAÍN, CANDIDATO OSCAR COME MIGLIORE FILM STRANIERO

S iamo nel 1988 e il Cile si trova in un momento storico decisivo. Dopo quindici anni di dittatura militare del

generale Augusto Pinochet, in seguito a pressioni politiche internazionali, il Paese ha finalmente l’occasione di decidere, nell’ambito di un referendum, se vuole altri otto anni di governo Pinochet oppure una politica nuova. I cittadini che preferiscono Pinochet voteranno “sì”, mentre i suoi oppositori opteranno per il “no”. Ciascuna parte avrà la possibilità di presentare le proprie ragioni “pro” oppure “contro” il prosieguo della sua dittatura in una campagna della durata di 27 giorni, nel corso della quale verrà trasmesso ogni sera in televisione uno spot politico della durata di quindici minuti.È questa, in poche parole, la trama del film “No – I giorni dell’arcobaleno“ del regista cileno Pablo Larraín, uno dei cinque film stranieri candidati all’Oscar 2013. Larraín è ben noto per l’impegno politico e sociale dimostrato nei suoi film precedenti, “Tony Manero“ e “Post Mortem“. “No – I giorni dell’arcobaleno“ è un ulteriore passo avanti nella rappresentazione dell’ambiente politico cileno degli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso.Su uno sfondo storico e sociale nel quale

viene tratteggiata la realtà politica ed economica di Cile e rievocate le tragedie vissute durante la dittatura di Pinochet, siamo testimoni di un utilizzo sottile e ben elaborato del linguaggio pubblicitario, ovvero del gioco semantico usato nelle pubblicità, nelle quali le possibilità espressive e manipolative di questo media vengono impiegate per migliorare la società.

EMOZIONANTE INTERPRETAZIONE DI BERNAL Uno degli attori più apprezzati nella cinematografia internazionale, Gael García Bernal, offre una bella ed emozionante interpretazione del protagonista René Saavedra, un giovane agente pubblicitario che dirige la campagna del “no” contro il regime di Pinochet. Durante il lavoro alla campagna, Saavedra deve scoprire la “formula universale” che avesse il potere di schierare dalla parte del „no“ coloro che sono ancora indecisi; dai giovani agli anziani, tenendo conto dei loro interessi assai diversi. Il primo abbozzo della pubblicità è basato sulle tragiche vicende degli esiliati, degli scomparsi, sulle torture e su tutto ciò che di negativo porta una dittatura militare. Però, Saavedra conclude ben presto che c’è bisogno di uno spot che “venda” (e

qui ci viene dimostrato come funzionano i meccanismi creativi di una pubblicità) e di qualcosa che sia piacevole, ma che al contempo abbia un significato. Capisce che la risposta è la felicità, la prospettiva del Cile quale Paese che merita prosperità e allegria. Lo slogan della campagna diventa „Cile, l’allegria arriva“.In poco meno di due ore di durata del film diventiamo consapevoli dell’importanza della libertà dell’opinione pubblica. Questo aspetto è messo particolarmente in rilievo nelle sequenze in cui lo schieramento del “sì” manipola sottilmente le idee e i concetti, cambia di continuo strategia e “risponde” ai filmati dello schieramento opposto distorcendo le sue idee al fine di produrre un’impressione negativa. Nonostante ciò e le continue minacce che subisce lo schieramento „no“, la vittoria finale della campagna di Renè Saavedra assicura al Paese una nuova pagina nella storia.Sono risultati convincenti i quindici minuti che decidono sul futuro del Cile, nei quali si può parlare apertamente, senza riserve e censure su tutti gli aspetti della dittatura e lasciare una forte impronta sul pubblico. Non si parla, però, di abusi e torture. Entrambe le proiezioni – sia quella del “sì” sia quella del

“no” - mettono in rilievo il lato positivo e ottimistico della vita. È un’immagine del mondo felice e prosperoso e, soprattutto, attraente, che nelle ultime scene del film verrà paragonato al prossimo progetto dell’agenzia pubblicitaria di cui Saavedra è dipendente: una “soap opera”, ovvero una „bellissima e coraggiosa“ rappresentazione del mondo moderno.

LA LIBERTÀ COME PRODOTTO All’inizio del film Renè si prepara a presentare la pubblicità per una bibita. È interessante il modo in cui il protagonista, a piano a piano, si rende conto dell’importanza del suo lavoro. Capisce che il „prodotto“ che vende questa volta è la libertà, qualcosa di astratto, che si contrappone al concetto base del marketing: quello di far acquistare alle persone ciò di cui possono fare a meno. Il punto cruciale è rappresentato dal fatto che lo stesso linguaggio viene usato per vendere, da un lato, un prodotto concreto e, dall’altro, i “beni” astratti, come lo sono la libertà d’espressione, il benessere e, in fin dei conti, la democrazia.È avvincente pure l’aspetto tecnico ed estetico del film. Il regista ha scelto uno stile realistico, documentaristico, usando una cinepresa risalente ai primi anni Ottanta, in modo da far rivivere in maniera quanto più autentica quel periodo storico. La sua estetica corrisponde perfettamente al tema analizzato.

STRUTTURA CICLICA Il film ha una struttura ciclica: il protagonista apre e conclude il film con un discorso identico. Questo discorso viene ripetuto anche una terza volta, parola per parola, nel momento in cui il protagonista fa vedere la prima versione della campagna pubblicitaria „No“. La bibita, il voto „no“ e la “soap opera” vengono pubblicizzati attraverso lo stesso media e sono capaci di provocare un cambiamento di coscienza nella gente. Il discorso rappresenta l’essenza dell’intero film e il suo manifesto, ciò che ci attende nei prossimi 115 minuti: „Vorrei dire che quello che state per vedere si inserisce nell’attuale contesto sociale. Siamo convinti che il paese sia pronto per un messaggio del genere. Oggi, il Cile sta pensando al proprio futuro“.

RECENSIONE di Ana Varšava

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cinema 7martedì, 26 marzo 2013la Vocedel popolo

Commedia autobiografica“Buongiorno papà” di Edoardo Leo (regista e sceneggiatore al fianco di Massimiliano Bruno e Herbert Simone Pargnani), con Raoul Bova, Marco Giallini, Edoardo Leo e Nicole Grimaudo, è nelle sale d’Italia per raccontare la storia di una generazione incapace ad assumersi le proprie responsabilità. Commedia in buona parte autobiografica ma non solo. Leo s’identifica nel personaggio e dipinge bene la “tipologia del quarantenne piacione metrosexual” che tuttavia è “vera” fino ad un certo punto perché il regista-sceneggiatore è anche bravo a “ricamarci sopra”, cosa che fa con abilità e astuzia, giocando con i tic e i cliché tra situazioni improbabili e dialoghi anche brillanti. (dd)

Cent’anni fa...Esattamente cent’anni fa, nel 1913, Enrico Guazzone girava “Marcantonio e Cleopatra”, una trasposizione cinematografica del testo teatrale di William Shakespeare. Lo stesso anno e l’anno successivo, Giovanni Pastrone lavorava sul celeberrimo “Cabiria”, che sarebbe stato proiettato in anteprima il 18 aprile 1914 al Teatro Vittorio Emanuale di Torino. Il film di Pastrone ebbe un grande successo di critica e di pubblico sia in Italia che all’estero e infatti restò in cartellone per sei mesi a Parigi e per quasi un anno a New York. Questo per ribadire che tra il 1910 e il 1914, il cinema italiano muto riscosse in ogni parte del mondo un successo oltre ogni previsione con i suoi kolossal storici e religiosi. E per ricordare anche che, procedendo ulteriormente a ritroso, tra il 1903 e la fine del decennio, il cinema si organizzò come industria, ed ebbe un numero non indifferente di case di produzione nei principali capoluoghi, ma specialmente a Torino (la quale tenne il primato dell’epoca con la Società Anonima Ambrosio, l’Aquila Film e la Itala Film), e una rete già capillare di sale cinematografiche. Il primo film sonoro italiano, prodotto dalla Fabbrica Pisana di Pellicole Parlate, venne proiettato al cinema Lumière di Pisa dal professore Pietro Pierini. (dd)

Una stimmate cambia la vitaDistribuzione indipendente e per questo limitata ad una ventina di sale italiane per “W Zappatore”, il film di Massimiliano Verdesca che continua a mietere successi ai festival di tutto il mondo dal 2011, l’anno di produzione, e che torna a casa soltanto adesso e per la gioia di pochi. Protagonista è Marcello Zappatore di Lecce, un “bam-boccione metallaro” diviso tra la madre chioccia e le sue amanti in nero. Chitarrista estroso ma introverso, suona un metal imbevuto di satanismo che segue senza troppa convinzione. La trama piglia una piega inattesa con il delinearsi del sog-getto religioso e lo spiegarsi del fenomeno sociale: Marcello Zappatore comincia a sentire uno strano prurito sul costato che crescendo si rivelerà essere una stimmate; un miracolo autentico così poco adatto al metallo e all’immagine dura e cruda della band, che dovrà lasciare giocoforza tra in-cubi, paure, minacce del leader del gruppo e la devozione di nuove fans. Un film che, dettagli a parte, gioca le sue carte sul con-fronto tra la provincia bigotta limitata e l’universalità della musica senza limiti. (dd)

Tra realtà e finzione, c’è di mezzo... la pellicolaChe la finzione cinematografia e il vissuto non siano poi così distanti ma che, anzi, gli incontri e le sovrapposizioni tra l’uno e l’altro universo accadano più spesso di quanto si è portati a credere, anche quando le probabilità sono infinitesimali, è bello e confermato. Dopo l’abdicazione dal mi-nistero petrino di papa Joseph Ratzinger, alias Benedetto XVI, la costernazione pla-teale dell’Ecclesia e la pronta soluzione del conclave fuori norma che ha portato all’ele-zione di un nuovo pontefice, il gentilissimo cardinale Bergoglio, come non rievocare lo straordinario film del 2011 “Habemus papam” che... aveva previsto tutto?Eh sì, Nanni Moretti c’aveva visto lontano quando decise di girare la bizzarra storia dell’abdicazione di un pontefice, assurda quanto inattesa visto che non accadeva da secoli, e stravagante al punto da allontanare parecchi spettatori dal grande schermo solo per questa condizione di “inverosimiglianza” della trama e del personaggio che invece co-stituiscono uno dei punti di forza del film di Moretti! Visti i recenti sviluppi delle faccende pontificie, e sperimentata sul serio l’abdica-zione di un erede di San Pietro effettivo (che a onor del vero non somigliava molto a quello cinematografico) sarà il caso di consigliare “Habemus papam” a quanti non l’avessero ancora visto per un motivo o per l’altro. Non tanto per la profezia avverata (perché, in re-altà, le due storie non collimano se non al livello delle emozioni umane più profonde), quanto piuttosto per non perdere un’altra opportunità di presentarsi ad un doveroso appuntamento con la cultura cinematogra-fica italiana.

Daria Deghenghi

ATTUALITà

SGUARDO AL PASSATO AL CINEMA

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cinema8 martedì, 26 marzo 2013 la Vocedel popolo

Anno 1 /n. 1 / martedì, 26 marzo 2013

Caporedattore responsabileErrol Superina

Redattore esecutivoHelena Labus BačićImpaginazioneVanja Dubravčić

la Vocedel popolo

IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina

Edizione CINEMAProgetto editoriale Silvio Forza

CollaboratoriDaria Deghenghi, Aldo Paquola, Marin Rogić, Dragan Rubeša, Ana Varšava

[email protected]

ultImo NumERo DEllA RIVIStA CINEmAtoGRAFICA «FIlmoNAut»

È uscito fresco di stampa il nuovo numero (7-2013) della rivista cinematografica “Filmonaut”.

Il tema del nuovo numero è la recitazione, o meglio, il ruolo della recitazione nel film. Come è il caso con ogni edizione, anche questa viene aperta dalla nota introduttiva dei due responsabili della rivista, Tamara Kolarić e Mario Kozina, che fanno un’attenta analisi della situazione cinematografica nei Balcani (Croazia, Serbia e Bosnia), confrontandola con i paesi circostanti, Romania in primis dove, negli ultimi anni, si respira aria “nuova“. Questo fatto dovrebbe aprire le porte a una stagione filmica di primissima qualità. Paesi come l’Austria, la stessa Romania, la Russia, poi ancora la Danimarca, il Belgio e i Paesi Bassi, stanno negli ultimi tempi sfornando film che fanno incetta di premi nei più prestigiosi festival.I due redattori constatano che vi è una forte diffidenza nei confronti della settima arte nei Balcani, non solo da parte di operatori cinematografici che provengono dall’estero, ma anche e soprattutto da gente di cinema che lavora e opera in queste terre: registi, attori, operatori, critici, tutti molti scettici sul futuro che attende il cinema dalle nostre parti.Kolarić e Kozina si soffermano poi sulla situazione in Croazia e indicano i film “I figli del prete” di Vinko Brešan e “Sonja e il toro” di Vlatka Vorkapić come nuovi punti di partenza per un cinema croato migliore, che sia in grado di ricevere favori dalla critica, ma anche e soprattutto dal pubblico.Nelle prime pagine troviamo una recensione dell’ultimo film di Quentin Tarantino, “Django Unchained”, e il saggio di Kozina, “La recitazione nel film – Semplice presenza o segnale filmico”, che approfondisce il ruolo della recitazione presentando il ruolo dell’attore in diverse vesti: l’attore come strumento filmico, come colonna

portante della pellicola e l’attore a confronto con i diversi metodi recitativi. Su questo argomento, nelle pagine successive, scrivono il loro parere anche Diana Robaš con il suo pezzo intitolato “Chaney contro Chaney – L’uomo con i mille volti che parlano”, Vjeran Kovljanić con “Cassavetes e l’alchimia della recitazione”, di nuovo Kozina con “Il diavolo nella signora Keaton” e Stipe Radić con “Reygadas, Bresson e la recitazione estetica”. Il capitolo dedicato alla recitazione si conclude con il saggio di Petra Vukelić “Holy Motors di Leos Carax”.Nel capitolo “Sight&Sound” troviamo un’interessantissima e toccante intervista con il recente vincitore del premio Oscar nella categoria “Miglior film straniero”, Michael Haneke, che si racconta a tutto tondo: gli inizi, la lunga carriera, le delusioni, gli incontri, la sua visione del mondo filmico, fino ai recenti premi vinti. Nel capitolo “Focus sull’autore” viene presentata la regista americana Kelly Reichardt. Segue una lunga intervista all’artista grafica Petra Zlonoga che parla del suo lavoro, spesso a contatto con il mondo filmico.Nella sezione dedicata ai documentari viene presentato il nuovo lavoro di Matthew Akers e Jeff Dupre dedicato alla famosa interprete delle arti performative, Marina Abramović, dal titolo “Marina Abramović – L’artista è presente”. Il capitolo sul cinema sperimentale riporta un’intervista al maestro della lavorazione video olandese, Gideon Kieres. Il “Caffè cinematografico” vede ospite il giovane regista, promessa del cinema mondiale, Benh Zeitlin. Il nuovo numero del “Filmonaut” si conclude con il capitolo “Specchietto retrovisore”, che presenta una serie di recensioni di pellicole recenti come “Argo”, “Cesare deve morire”, “James Bond: Skyfall”, e via dicendo. (mr)

IN uSCItA «tWElVE YEARS A SlAVE», NuoVo FIlm DI StEVE mCQuEEN

Il tema della schiavitù nella storia degli Stati Uniti, attualizzato da film come “Django Unchained” di Quentin

Tarantino e “Lincoln” di Steven Spielberg, viene esplorato pure dal regista e artista britannico Steve McQueen nel suo film in lavorazione intitolato “Twelve Years a Slave”. L’ultima fatica dell’autore di pellicole acclamate come “Hunger” e “Shame” si è concentrato questa volta su un fatto storico raccontato in un’autobiografia del 1853, intitolata appunto “Twelve Years a Slave” (Dodici anni di schiavitù), di Solomon Northup, un uomo libero rapito nel 1841

SCHIAVItÙ

e ridotto in schiavitù prima di riuscire a fuggire anni dopo.Oltre alla regia, McQueen firma pure la sceneggiatura assieme allo scrittore statunitense John Ridley. Nel ruolo di protagonista c’è l’attore inglese Chiwetel Ejiofor, mentre al suo fianco appaiono Michael Fassbender (già protagonista dei due precedenti lavori di McQueen), Brad Pitt, qui anche in veste di produttore, quindi Paul Giamatti e Benedict Cumberbatch. Nel film figura pure la giovanissima Quvenzhané Wallis, la più giovane candidata all’Oscar nella storia, nominata quest’anno per il film “Re della terra selvaggia”.Il film racconta la storia di un afro-americano libero, Solomon Northup, un violinista che, vittima di un inganno, venne rapito a Washington e venduto come schiavo nel Profondo Sud degli Stati Uniti.Il libro su cui si basa la trama è considerato uno dei resoconti più dettagliati della vita quotidiana degli schiavi costretti a lavorare nelle piantagioni di cotone in Louisiana. Vengono descritte l’alimentazione e le condizioni di vita degli schiavi, ma anche il loro rapporto con i padroni. Il film dovrebbe uscire nel corso di quest’anno, che segna pure il 160.esimo della pubblicazione del libro. (hlb)

uN RESoCoNto DEttAGlIAto

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Riflessioni sul ruolo della recitazione nel film