la teoria della demonstratio nell%27opera giovanile di galileo galilei

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1 Introduzione Verso la fine del Quattrocento si assiste ad una grande svolta all’interno della tradizione medievale degli studi delle cosiddette artes sermocinales. La logica scolastica, che ha al suo centro la discussione sulle proprietà dei termini e sugli enunciati paradossali, quindi strettamente legata ad un tipo di speculazione di natura formale, 1 viene ad essere affiancata da un tipo di studi che rivaluta la retorica antica ed è fortemente interessato ad incentivare l’analisi dei modi di acquisizione e di organizzazione del sapere scientifico (ossia a quella che definiremo in termini moderni epistemologia). Preliminarmente deve essere chiarito che la logica terministica non viene considerata di colpo inattendibile o superata da nuove soluzioni alle problematiche consolidate, ma più semplicemente cambiano gli stessi interessi: i problemi che erano centrali per la scolastica perdono di interesse, mentre nuovi problemi emergenti tendono ad oscurare quelli precedenti. L’aristotelismo non viene del tutto soppiantato, come ingenuamente ci si aspetterebbe, in favore di un nuovo modo d'intendere la scienza, ma piuttosto l'attenzione si sposta (quindi sempre all’interno di una tradizione consolidata), dai libri di Aristotele che trattano delle categorie, dei predicabili e dei sillogismi cioè Categorie, De interpretazione, Analitici primi, a quelli che si occupano dell'organizzazione logica del discorso e del metodo scientifico, ossia i Topici e gli Analitici secondi. 2 La questione del metodo e dei modi di organizzazione della conoscenza diviene uno dei problemi filosofici più discussi, tanto più che la tradizione aristotelica propone una classificazione del sapere scientifico in compartimenti tesi a dividere le scienze teoretiche da quelle pratiche sulla base di considerazioni riguardanti l'oggetto e lo scopo delle diverse discipline. I due risultati più importanti di questo spostamento d'interesse sono le opere di Pierre de la Ramée e dei suoi seguaci da un lato, e quelle di Jacopo Zabarella e di altri aristotelici padovani dall'altro. Da questi filoni si sviluppano due idee di metodo scientifico: quella dei ramisti, che intendono il metodo come insieme di precetti per l'esposizione di ogni discorso che voglia dirsi scientifico, e quella del cosiddetto aristotelismo padovano, che intende il metodo come strumento per l'investigazione dei fenomeni fisici. Nonostante la critica all’aristotelismo giochi un ruolo importante nel superamento della scolastica e nella nascita della scienza moderna, esistono numerosi elementi che invece delineano una certa continuità fra una certa parte della scolastica medievale e la nascita della scienza sperimentale moderna. 1 Secondo l’accezione medievale del termine. 2 Questo spiega anche l'interesse dei magistri medievali per gli scritti di Cicerone.

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1

Introduzione

Verso la fine del Quattrocento si assiste ad una grande svolta all’interno della tradizione

medievale degli studi delle cosiddette artes sermocinales. La logica scolastica, che ha al suo centro

la discussione sulle proprietà dei termini e sugli enunciati paradossali, quindi strettamente legata ad

un tipo di speculazione di natura formale,1 viene ad essere affiancata da un tipo di studi che rivaluta

la retorica antica ed è fortemente interessato ad incentivare l’analisi dei modi di acquisizione e di

organizzazione del sapere scientifico (ossia a quella che definiremo in termini moderni

epistemologia).

Preliminarmente deve essere chiarito che la logica terministica non viene considerata di

colpo inattendibile o superata da nuove soluzioni alle problematiche consolidate, ma più

semplicemente cambiano gli stessi interessi: i problemi che erano centrali per la scolastica perdono

di interesse, mentre nuovi problemi emergenti tendono ad oscurare quelli precedenti.

L’aristotelismo non viene del tutto soppiantato, come ingenuamente ci si aspetterebbe, in

favore di un nuovo modo d'intendere la scienza, ma piuttosto l'attenzione si sposta (quindi sempre

all’interno di una tradizione consolidata), dai libri di Aristotele che trattano delle categorie, dei

predicabili e dei sillogismi cioè Categorie, De interpretazione, Analitici primi, a quelli che si

occupano dell'organizzazione logica del discorso e del metodo scientifico, ossia i Topici e gli

Analitici secondi.2 La questione del metodo e dei modi di organizzazione della conoscenza diviene

uno dei problemi filosofici più discussi, tanto più che la tradizione aristotelica propone una

classificazione del sapere scientifico in compartimenti tesi a dividere le scienze teoretiche da quelle

pratiche sulla base di considerazioni riguardanti l'oggetto e lo scopo delle diverse discipline.

I due risultati più importanti di questo spostamento d'interesse sono le opere di Pierre de la

Ramée e dei suoi seguaci da un lato, e quelle di Jacopo Zabarella e di altri aristotelici padovani

dall'altro. Da questi filoni si sviluppano due idee di metodo scientifico: quella dei ramisti, che

intendono il metodo come insieme di precetti per l'esposizione di ogni discorso che voglia dirsi

scientifico, e quella del cosiddetto aristotelismo padovano, che intende il metodo come strumento

per l'investigazione dei fenomeni fisici.

Nonostante la critica all’aristotelismo giochi un ruolo importante nel superamento della

scolastica e nella nascita della scienza moderna, esistono numerosi elementi che invece delineano

una certa continuità fra una certa parte della scolastica medievale e la nascita della scienza

sperimentale moderna.

1 Secondo l’accezione medievale del termine.

2 Questo spiega anche l'interesse dei magistri medievali per gli scritti di Cicerone.

2

Alcuni studiosi hanno avanzato interessanti ipotesi al riguardo, come ad esempio quella di

considerare la dottrina nominalista (secondo cui le entità astratte, cioè gli universali, non esistono di

per sé, ma si riducono ai nomi che designano classi di individui, che sono considerati gli unici

esistenti) alla base dell'attenzione per i fenomeni singolari propria dell'atteggiamento scientifico

moderno. Ed ancora la posizione di alcuni studiosi che fanno derivare la possibile applicazione

della matematica alla fisica, agli studi logici della quantificazione (ascensus e descensus nella

terminologia medievale) e alle discussioni sugli aspetti quantitativi delle forme, prodotte dalla tarda

scolastica.

D’altronde alcuni elementi ben presenti nelle correnti aristoteliche del Cinquecento, come la

tendenza a cercare di spiegare ogni fenomeno fisico con le sole leggi naturali, l’attenzione

all’aspetto metodologico della scienza, un marcato atteggiamento critico nei confronti di alcuni

dogmi della Chiesa (che sfociava in una sorta di anticlericalismo ante litteram), sono elementi che

indicano una certa continuità con l’emergere della scienza moderna. Un esempio, tra tutti, è

rappresentato dal determinismo e dal rifiuto dei miracoli espresso negli scritti di Pomponazzi.

Ma è soprattutto nelle discussioni sul metodo che si può trovare il maggior contributo della

tradizione aristotelica alla nascita della scienza moderna e al conseguente tramonto della scolastica.

Il centro universitario in cui si assiste allo sviluppo di questo dibattito è Padova ed il punto di

partenza da cui trae origine e si sviluppa la discussione sul metodo è costituito dall’interpretazione

degli scritti di Aristotele, Galeno e Averroè.

Nel commento agli Analitici Secondi di Aristotele, Agostino Nifo distingue tra una

dimostrazione che parte dalla conoscenza della causa ed arriva a determinarne gli effetti (propter

quid) ed una dimostrazione che parte dalla conoscenza dell’effetto e cerca di giungere alla

conoscenza della causa (propter quia). All’interno di questo doppio procedimento, un ruolo

fondamentale secondo il Nifo è dato dalla definitio, intesa come quel procedimento che consente di

specificare l’oggetto dell’indagine in quanto ne determina la natura: in questo modo la precisione

della demonstratio propter quid dipende dall’affidabilità delle premesse che vengono poste dalla

definizione:

«Ubi patet definitionem, quam est a forma, esse ut demonstrationis principium».3

Il Nifo mette in rilievo il fatto che la fusione del metodo compositivo con quello risolutivo è

propria della fisica, dove bisogna prima trovare le cause, per poi far vedere come dalle cause

3 AUGUSTINI NIPHI, Commentaria in libris Posteriorum Aristotelis, Venetiis, HeredesOctaviani Scoti, 1526, c.28r.

3

discendano gli effetti, e che la ricerca delle cause e dei principi primi non è, come voleva la

tradizione medievale, opera di un'intuizione dell'intelletto, ma la formulazione di un'ipotesi.

Tuttavia la certezza del sapere si fonda sulla demonstratio propter quid perché in natura nulla

avviene senza una causa e quindi il metodo che parte dalle cause è più attendibile, ed in questo

metodo la definitio riveste un ruolo centrale in quanto ne è il punto di partenza:

«Dixit causalem definitionem, quam propter quid vocant, a demonstratione non differre nisi

positione, nunc illud declarat, et sumit pro demonstratione».4

Marco Antonio Zimara è invece il primo a distinguere tra l’ordine, che riguarda la

collocazione del discorso scientifico, ed il metodo, che riguarda le procedure di scoperta dei principi

primi e delle dimostrazioni. Per Zimara e per tutta la scuola padovana il metodo diventa non

strumento dell'eloquenza, come è per i filosofi di tradizione ramista, ma un insieme di procedure

d'investigazione della natura. In particolare la discussione si sposta sul metodo di dimostrazione

propter quia, che viene da alcuni studiosi identificato (per la prima volta da Bernardino Tomitano)

con l'induzione.

Tuttavia la questione del metodo è strettamente legata alla figura di Jacopo Zabarella, al

quale va ascritto il merito di aver portato al massimo grado questa discussione che influenzerà

direttamente la nascita del metodo scientifico moderno. Le due opere principali in cui Zabarella

espone la sua teoria sono il De natura logicae e il De methodis. Per Zabarella la logica è uno

strumento che serve a distinguere, in tutti i campi, ciò che è vero da ciò che è falso. La logica è

quindi lo strumento della scienza, che altro non è che il metodo logico messo in pratica: per

Zabarella logica e metodo scientifico sono la stessa cosa. Il metodo è quello strumento che serve a

produrre nuova conoscenza e non un modo di esposizione; il metodo è uno strumento umano e non

deve riflettere l'ordine naturale delle cose (dal generale al particolare), ma deve adattarsi ai processi

di conoscenza umani che spesso vanno dal particolare al generale. Di fondamentale importanza, a

tal riguardo, è la distinzione che egli opera tra methodus e ordo, dove il secondo termine, a

differenza del primo, riguarda la disposizione ovvero l’ordine con cui si organizzano le conoscenze

disponibili.5

Zabarella distingue inoltre tra metodo dimostrativo e metodo risolutivo. Il metodo

dimostrativo è il modo di acquisire conoscenza per mezzo di sillogismi o inferenze deduttive. Il

metodo risolutivo consiste nell'acquisire conoscenze argomentando da ciò che è logicamente ultimo

4 Ibid. c.62v.

5 J. ZABARELLA, De methodis libri quatuor, lib. III, 1597, XVIII, col.

4

(gli effetti) a ciò che è primo (le cause). Mentre il metodo dimostrativo rende solamente esplicito

ciò che già è contenuto nella nostra conoscenza, il metodo risolutivo può portarci a nuove scoperte.

Il metodo risolutivo in generale può essere di due tipi: il primo è quello che propriamente viene

identificato come resolutio, cioè quel ragionamento che parte dagli effetti, o dai segni, per arrivare

alle cause; il secondo è propriamente l’induzione, cioè quel ragionamento che parte dai singolari ed

arriva a identificare gli universali. II primo tipo di metodo risolutivo è, secondo Zabarella, molto più

potente del secondo: l'induzione può solo ampliare la nostra conoscenza ad altri casi analoghi

rispetto a quelli di partenza, mentre il ragionamento da segni può condurci alla conoscenza di quelle

cose che sono al di là di ogni possibile percezione. I due metodi (dimostrativo e risolutivo) devono

essere usati congiuntamente: con il metodo risolutivo arriviamo alle cause e dalle cause dobbiamo

essere in grado di dedurre gli effetti, se vogliamo che le cause siano esplicative degli stessi. Fermo

restando che il metodo risolutivo deve essere al servizio della dimostrazione; a tal riguardo

esemplificativa è l’affermazione dello Zabarella secondo cui «Methodus resolutiva est serva

demonstrativae».6 Il metodo risolutivo ha come obiettivo l’inventio, non la scientia; tuttavia si può

raggiungere la perfetta conoscenza solo se, dopo essere tornato dai fatti alle proprie cause, si

deducono i fatti dalle cause deduttivamente.

L’obbiettivo di queste discussioni sul metodo è evidentemente quello di formularne uno

capace di svelare il vero rapporto causa-effetto realizzando l’intento proprio di ogni scienza, lo scire

per causam. Su questi aspetti, tuttavia, si dovrà ritornare più avanti allorché si affronterà

criticamente la questione della rilevanza di queste teorie nell’opera di Galileo, qui basterà

sottolineare che erano queste, a grandi linee, le posizioni degli autori più influenti nella discussione

sul metodo all’interno dell’aristotelismo padovano proprio nel periodo in cui Galileo entrava in

contatto direttamente con questo ambiente.

Prima di addentrarci nell’analisi e nella successiva valutazione del regressus demonstrativus,

contenuto nel MS 27, è utile soffermarsi sul rapporto tra le opere logiche e metodologiche del

Corpus Aristotelicum ed il nuovo modo di intendere la scienza, e successivamente sulla valutazione

generale della logica aristotelica da parte di Galileo.

Alcuni fattori hanno contribuito in maniera essenziale a far si che nel Rinascimento ci sia

stata una continuazione degli studi sulle opere di Aristotele. Anzitutto è innegabile che in nessun

altro periodo della storia della filosofia, ci sono stati in circolazione così tanti commenti alle opere

di Aristotele come nel Rinascimento e questo pur sembrando a prima vista un fatto sorprendente è

6 J. ZABARELLA, De methodis libri quatuor, lib. III, 1597, XVIII, col. 266.

5

stato dimostrato da alcuni autorevoli studi:

«It is an astonishing fact that the number of Latin Aristotle commentaries composed in this

brief span exceeds that of the entire millennium from Boethius to Pomponazzi».7

In secondo luogo, l’aristotelismo in questo periodo è utilizzato ancora come pietra di

paragone della filosofia moderna perché rimane comunque la filosofia insegnata nelle università.8

Infine, sia pur indebolito rispetto alla fase centrale della scolastica, sopravvive il principio

del ricorso all’auctoritas e qui i riferimenti all’Organon aristotelico rappresentano ancora un punto

fermo ed uno strumento per qualsiasi filosofo naturale.

Per Galileo la logica è uno strumento molto utile perché permette di confutare le tesi altrui e

consente di esprimere la realtà in modo razionale. La logica però rimane pur sempre un mezzo per

esporre in maniera efficace i dati acquisiti in via sperimentale. Lo studio dei fenomeni fisici si deve

basare sull'esperienza, sulla corrispondenza tra ciò che è vero logicamente e ciò che lo è secondo

l'osservazione. Il rapporto tra logica e realtà è stato a lungo discusso dai filosofi, in quanto i sensi

possono essere fallaci e ingannevoli, ma al tempo di Galileo la filosofia dominante, la scolastica, già

riteneva l'esperienza fondamentale per la speculazione filosofica, al punto da considerare i sensi

umani perfetti. La novità rappresentata dalla rivoluzione scientifica e in primis da Galileo consiste

quindi non tanto nella rivalutazione dell'esperienza sensibile, quanto nel cosiddetto metodo

scientifico, cioè nel modo in cui si interroga il mondo sensibile. Il filosofo quindi si sottopone ad un

rapporto con la realtà di tipo razionale e non più inconsapevole ed immediato. In questo modo di

intendere un fenomeno fisico, il moto della terra, ad esempio, può risultare vero anche se non è

percepibile.

Il metodo scientifico si sviluppa in vari passaggi: il primo di essi consiste nell'osservazione

della natura, e nella scelta delle informazioni rilevabili e trasformabili in dati. L'osservazione inoltre

può essere supportata da strumenti meccanici come il cannocchiale, ad esempio; di qui l'ennesimo

motivo di diatriba con gli Aristotelici che, ritenendo i sensi umani perfetti, credono che qualunque

strumento tecnico creato ad hoc dall’uomo, modificando la percezione, tende ad alterare la realtà.

Galileo invece difende in modo perentorio la possibilità di utilizzare strumenti che possano

ampliare i sensi umani asserendo che gli stessi sono costruiti per mezzo della ragione (considerata

7 C.H. LOHR, "Renaissance Latin Aristotele Commentari: Autori

AB ", in Studi del Rinascimento , XXI, p. 228.

8 A tal riguardo Cfr. P. R. BLUM, Studies on Early Modern Aristotelianism, in particolare il cap. 10, “Ubi natura facit

circulos in essendo, nos facimus in cognoscendo.” The Demonstrative Regressus and the Beginning of Modern Science

in Catholic Scholastics, pp. 183-198.

6

un dono divino), e di conseguenza non possono distorcere la realtà, ma anzi, aumentare la

precisione dell'occhio. Questo aspetto è importante per comprendere poi gli altri passaggi del

metodo scientifico, che consistono nell'ipotesi di una legge, con l'intervento della matematica, e la

sua verifica per mezzo dell'esperimento. In particolare l'esperimento, basandosi sulla riproduzione

della realtà in laboratorio, mostra come l'uomo possa agire sulla realtà e avvalersi di modelli senza

che essi costituiscano una distorsione della stessa.

La nuova filosofia di Galileo comporta inoltre il graduale distacco dal principio

dell’auctoritas, che presupponeva un rapporto di sottomissione di qualunque attività di ricerca

rispetto alla verità rivelata. Proprio su questo punto si innesta quel rapporto critico-dialettico che

Galileo instaura con le Sacre Scritture, come si evince dalle sue relazioni epistolari: per lo

scienziato infatti non bisogna intendere la Bibbia nel suo significato letterale, bensì essa va

interpretata; e inoltre è possibile mettere in discussione i vari commentatori della Bibbia, in quanto

essi non incarnano la verità, bensì una sua interpretazione. E' così che la scienza deve procedere:

secondo un processo critico, per cui ogni interpretazione può essere smentita o corroborata alla luce

di nuove ricerche. La natura per Galileo è un immenso libro scritto in “lingua matematica” e perché

possa essere indagata sono necessari i mezzi e i procedimenti critici della logica e delle scienze,

senza i quali “è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”, parafrasando le sue parole.

7

La questione storiografica

Le riflessioni sulla nascita e sulle articolazioni del metodo galileano hanno portato alla

costituzione di una questione storiografica tutt’oggi oggetto di discussione: la dipendenza del

metodo galileano dall'aristotelismo padovano nel contesto più generale del dibattito sulla nascita

della scienza moderna. Possiamo affermare che il dibattito vero e proprio prende le mosse in epoca

moderna, e più precisamente dalla tesi avanzata nel 1906 da Ernst Cassirer nella sua opera sulla

storia della teoria della conoscenza.9 In quest'opera il Cassirer sostiene che Galileo abbia trovato nel

pensiero logico della Scuola di Padova un imprescindibile punto di partenza.

Egli afferma che Galileo avrebbe mutuato dallo Zabarella non solo la distinzione tra metodo

compositivo e metodo risolutivo, ma soprattutto la fondamentale distinzione fra l'osservazione

comune e l'esperienza scientifica, anche se precisa che si tratta di un concetto che per i due filosofi

ha un significato diverso: per il logico padovano l'esperienza scientifica s'identificherebbe con una

induzione dimostrativa, mentre per il Galilei s'identificherebbe con una induzione matematica. Il

Cassirer, inoltre, aggiunge che:

«La funzione della matematica nell'induzione dimostrativa non è stata mal compresa da

Zabarella: gli esempi al quali egli si richiama per la sua nuova concezione son presi non dalla

scienza esatta, cui si accenna solo isolatamente, ma dalla metafisica e dalla dottrina aristotelica della

natura. Proprio in questo limite consiste la caratteristica storica del suo contributo, che si può

definire una trasformazione e una traduzione del concetto aristotelico di esperienza nel concetto

moderno dell'induzione analitica»10

.

Cassirer precisa, comunque, che le fonti di Galileo sono indiscutibilmente Zabarella e la

matematica e che queste sono ben distinte tra loro.

Tuttavia, nel 1944, lo stesso Cassirer torna su questo punto quando affronta la possibilità di

accostare Galileo al platonismo, e di intendere questo accostamento a livello metodologico, come

adozione del metodo ipotetico (cosi come teorizzato da Platone nel Menone) per la fondazione

dell'analisi problematica. Cassirer in quest'occasione, contraddicendo quanto scritto

precedentemente, afferma che l'analisi e la sintesi del metodo galileiano hanno la loro radice negli

enunciati di Platone, Eudosso, Euclide, Pappo e non nelle dottrine logiche degli aristotelici

9 Cfr. E.CASSIRER, Das Erkenntnisprobleln in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, voll.4, Stuttgart,

Kohlhammer, 1906-57 (tr. it.a cura di A.PASQUINELLI, Storia della filosofia moderna, Torino, Einaudi, 1952, voI. I,

pp.162-171). 10

Ivi, p. 165.

8

padovani, aggiungendo, infatti, che rappresentando questi ultimi «...il baluardo

dell'aristotelismo...non era certamente qui che Galileo avrebbe potuto ispirarsi per la sua opera

scientifica».11

Dall'aristotelismo padovano, afferma il Cassirer, Galileo derivò solo la terminologia:

rispettivamente il termine «risolutivo» per analitico e «compositivo» per sintetico.

Rimane tuttavia indelebile del primo intervento di Cassirer la critica implicita rivolta alla

storiografia scientifica precedente. La storiografia scientifica ottocentesca infatti, aveva spesso

posto l'accento sulla denominazione di sperimentale attribuita al metodo galileano, fondamentale

nella formazione dell'idea della scienza moderna, lasciando intendere che tale scienza si

differenzierebbe da quella della tradizione aristotelico-scolastica per il suo carattere di scienza della

sperimentazione. La contrapposizione con il carattere non sperimentale ed aprioristico della scienza

della tradizione aristotelico-scolastica era per questi studiosi evidente e rappresentava un vero e

proprio solco tra la scienza moderna e quella scolastica. Per il Cassirer, invece, questo aspetto

costituisce un grave errore interpretativo e contribuisce a creare un banale luogo comune.

Circa una ventina di anni dopo J. H. Randall intervenendo nel dibattito, ha fatto sua, seppur

mediante una prospettiva diversa, la tesi della continuità tra il pensiero logico della Scuola di

Padova e la metodologia galileiana teorizzato nel primo intervento di Cassirer. Il Randall evidenzia

in un suo saggio che per Zabarella l'analisi non parte da un'esperienza accidentale, bensì da

un'esperienza analizzata con metodo scientifico: il Regressus, così come inteso dallo Zabarella,

procede dunque dall'analisi rigorosa di pochi esempi scelti ad un principio generale e da questo

ritorna ad un corpo ordinato e sistematico di fatti.12

Questo dimostrerebbe come la novità della

scienza galileana non consista tanto nel metodo dell'osservazione, quanto nella matematizzazione

dell'esperimento e dell'ipotesi esplicativa; matematizzazione che al tempo di Galileo si realizza

anzitutto come geometrizzazione della scienza.

E' proprio questa la tesi sviluppata da A. Koyré in Etudes d 'Historie de la pensée

scientifique:

«il modo in cui Galileo concepisce un metodo scientifico corretto implica una predominanza

della ragione sulla semplice esperienza, la sostituzione di modelli ideali (matematici) ad una realtà

empiricamente conosciuta, il primato della teoria sui fatti...Un metodo in cui la teoria matematica

determina la struttura della stessa ricerca sperimentale, o per riprendere i termini dello stesso

11

E. CASSIRER, Galileo 's Plalonism, in AA. VV., Studies and Essays in the History of Science and Learning offered

in homage to George Sarton on the occasion of his sixtieth birthday, 31 August 1944, ed. by M.F. Ashley Montagu,

New York, Schuman, 1944, pp. 279-297. 12

Cfr. J. H. RANDALL, The development of Scientific Method in the School of Padua, in " Journal of the History of

Ideas" , I (1940), pp. 177-206 (ora in ID., The School of Padua and the Emergence of Modern Science, Padova,

Antenore, 1961, pp. 13-68).

9

Galileo, un metodo che utilizza il linguaggio matematico (geometrico) per formulare proprie

domande e proprie risposte».13

Tornando al Randall, l'importanza del suo contributo sta anche nel fatto di aver notato per

primo (ripreso poi da Cassirer nel suo secondo intervento) che gli stessi termini usati da Zabarella si

ritrovano tali e quali in Galileo, e ciò si può verificare in tre passi tratti dalle opere di Galileo: il

primo tratto dalle Risposte alle opposizioni di Lodovico delle Colombe,14

l'altro dal Dialogo sopra i

due massimi sistemi del mondo,15

ed il terzo dai Discorsi.16

I brani citati dimostrerebbero che

Galileo avrebbe inteso come analisi matematica l'analisi scientifica richiesta da Zabarella, l'avrebbe

inserita nel complesso di metodo risolutivo e compositivo teorizzato dal maestro padovano e ne

avrebbe dato la descrizione più precisa, sotto il nome di argomento ex suppositione.

L'intervento di Randall aveva suscitato la vigorosa contestazione di N. W. Gilbert, il quale in

un suo celebre saggio17

ricorda come Galileo, già prima di andare ad insegnare a Padova, fosse stato

influenzato dal metodo di Archimede e della matematica greca, come appare nel De motu, in cui

egli scrive esplicitamente «methodum mathematici mei me docuere».18

Considerando la lettera a

Pierre de Carcaville19

e lo stesso passo del Dialogo già citato da Randall, risulta evidente secondo

Gilbert, che il metodo galileano è derivato interamente dalla matematica: nella lettera, infatti,

Galileo dichiara di prescindere completamente dall'esperienza, e nel passo del Dialogo fa

intervenire il metodo risolutivo solo dopo essere ricorso all'esperienza. A questo punto Gilbert

indica anche la fonte di quest'ultimo passo, che sarebbe la traduzione latina, fatta dall'urbinate

Federigo Commandino e pubblicata a Venezia nel 1589, delle Mathematicae Collectiones20

di

Pappo d'Alessandria. Su un unico punto Gilbert concorda con Randall: Galileo aveva ripreso a

proposito del metodo risolutivo e compositivo, la terminologia degli aristotelici padovani.

Dalla parte del Randall, W. F. Edwards evidenzia come si stavano trascurando tentativi fatti

più volte nell'ambito della tradizione aristotelica, anzitutto dall'arabo Ali ibn Ridwan, detto anche

13

A. KOYRÉ, Etudes d'Historie de la pensée scientifique, Paris, Puf, 1966, p.83. 14

Cfr. G. GALILEI, Risposte alle opposizioni del sig. Lodovico delle Colombe... contro al Trattato... delle cose che

stanno su l'acqua... , Firenze 1615, in Le Opere, Edizione Nazionale a cura di A.Favaro, Firenze, G.Barbera, 1890-

1909, ristampata 1968, vol. IV, p. 52. 1515

Cfr. G. GALILEI, Dialogo. Dove nei congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del

mondo, tolemaico e copernicano, proponendo indeterminatamente le ragioni filosofiche e naturali tanto per l'una,

quanto per l'altra parte, Firenze 1632, in Le Opere, cit., vol. VII, p.75. 16

Cfr. G. GALILEI, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla matematica e i

movimenti locali, Leida 1638, in Le Opere, cit., vo. VIII, p. 212. 17

Cfr. N. W. GILBERT, Galileo and the School of Padua, in "Joumal of the History of Philosophy", I (1963), pp. 223-

231. 18

Cfr. G. GALILEI, De motu, in Le Opere, cit., I, p. 285. 19

Cfr. G. GALILEI, Lettera a Pietro Carcavy del 5 maggio 1637, in Le Opere, cit., XVII, pp. 90-91. 20

Cfr. PAPPI ALEXANDRINI, Mathematicae Collectiones, a Federico Commandino Urbinate in Latinum conversae,

et Commentariis illustratae, Venetiis, Apud Franciscum de Franciscis Senensem, MOLXXXIX, p. 157 r.

10

Haly, commentatore di Galeno, ma poi da Averroè, da Pietro d'Abano e dai successivi logici

padovani, fino allo Zabarella, di assicurare alla fisica, mediante il metodo risolutivo, una forma di

dimostrazione altrettanto rigorosa che quella matematica.21

In realtà, sostiene Edwards, più che di tentativi isolati si deve parlare di un vero e proprio

filone di ricerca nel quale un'intera Scuola era impegnata senza soluzione di continuità, con

l'obiettivo comune di giungere, mediante la tecnica sillogistica, a stabilire un metodo che potesse

rendere ragione di entrambi i modi di procedere della nostra conoscenza, identificati e codificati con

la demonstratio quia e la demonstratio propter quid. La soluzione degli aristotelici padovani era

quella di trovare la connessione dei due tipi di dimostrazione, connessione che verrà attuata

attraverso il regressus demonstrativus, e cioè quella tecnica che consta di due sillogismi, di cui il

primo procede da un fenomeno che, in quanto effetto, è più noto a noi (prius nobis) e perviene

all'essere della causa, mentre il secondo parte dalla causa in quanto tale per giungere all'effetto in

quanto tale (prius naturae). Passando poi ad analizzare il metodo galileano, Edwards sostiene che

esso è caratterizzato dall'innesto dell'induzione matematica negli schemi dimostrativi dell'analitica

aristotelica; innesto che sarebbe servito per tradurre i risultati dell'analisi in termini universali e

necessari.

Questo punto dell'intervento dell'Edwards è fondamentale per capire la posizione degli autori

che concordano nel ritenere il metodo galileano un prodotto sicuramente innovativo ma che ha

radici nella scienza scolastica. L’Edwards ritiene infatti che l'innesto dell'induzione matematica non

serve per garantire i risultati ottenuti con il regressus ma "solo" a renderli esplicativi, perché la

garanzia della corretta dimostrazione, cioè del passaggio dall'ipotesi al principio, è assicurata dalla

tecnica sillogistica; quest’ultima, se correttamente applicata, riesce a verificare la reciprocazione

della demonstratio quia con la demonstratio propter quid. Per Edwards, quindi, «il pensiero di

Galilei sul metodo» si è formato indubbiamente «all'interno della tradizione metodologica ormai

consolidata del suo tempo» di cui gli aristotelici padovani rappresentavano quella che ora

definiremo l'avanguardia.

In un intervento più recente,22

Edwards ha messo in evidenza come affrontando il problema

concernente la continuità (o la discontinuità) fra il pensiero degli aristotelici e il pensiero moderno,

ci si è limitati ai possibili rapporti esistenti tra gli aristotelici e ciò che chiamiamo scienza moderna,

tralasciando quindi una parte consistente del problema, rappresentato da quanto e come i pensatori

21

Cfr. W.F. EDWARDS, Randall on the Development of Scientific Method in the school of Padua, in J.P. ANTON

(ed.), Naturalism and Historical Understanding: Essays on the Philosophy of John Hermann Randall, Jr., Albany,

1967, pp. 55-66. 22

13 Cfr. W. F. EDWARDS, L 'aristotelismo padovano e le origini delle teorie moderne del metodo, in AA. VV.,

Aristotelismo veneto e scienza moderna, Atti del 25° anno accademico del Centro per la storia della tradizione

aristotelica nel Veneto, a c. di L. OLIVIERI, voll.2, Padova, Antenore, 1983,1, pp.187-220.

11

del diciassettesimo secolo abbiano attinto dalla complessa ed articolata tradizione metodologica dei

predecessori per costruire le loro teorie del metodo.

Di contro alla tesi dell’ Edwards, così come nel passato era accaduto per il Cassirer e il

Randall, si schierano pressoché compatti tutti gli studiosi ed interpreti del pensiero filosofico-

scientifico del tardo rinascimento e degli inizi dell'età moderna, fra i quali Cesare Vasoli, Antonino

Poppi, Wilhelm Risse, Charles B. Schmitt ed Eugenio Garin. Proprio il Garin il 7 aprile 1981, nella

prolusione al 25° anno di attività del Centro per la storia della tradizione aristotelica nel Veneto, ha

concluso quella che sarebbe stata, per così dire, la prima parte della disputa aperta all'inizio del

secolo da Ernst Cassirer. Eugenio Garin, sottolineando come «il primo compito dello storico è

quello di svelare gli elementi puramente "ideologici" sottesi all'immagine di un aristotelismo

padovano monocolore, dai caratteri costanti lungo alcuni secoli»23

, ha cercato di prendere atto di

tutti gli interventi più preziosi in questo senso per affermare, una volta per tutte, che «fondata

spesso su luoghi comuni giustapposti, quella continuità di metodo non esiste».24

Il dibattito che sembrava terminato, si è riaperto tuttavia nel 1988 con la pubblicazione del

manoscritto (=MS) 27, ad opera di W. A. Wallace e dell'Edwards,25

che deriva chiaramente dagli

Analitici posteriori di Aristotele. Il MS. 27 non è contenuto nell' Edizione Nazionale delle Opere di

Galileo, curata da Antonio Favaro, perché quest'ultimo, che pur era a conoscenza dell'opera, ritenne

che si trattasse di esercitazioni scolastiche risalenti al 1579 e cioè al periodo degli studi di Galileo al

monastero di Vallombrosa. Proprio dalla datazione delle Tractationes di logica si è sviluppato

nuovamente il dibattito, che vede schierati da una parte il Wallace e dall'altra A. Carugo ed A. C.

Crombie. Questi ultimi affermano che, negli anni 1968-69, analizzando un altro manoscritto di

Galileo, pubblicato da Favaro sotto il titolo di Juvenilia, cioè il MS. 46, che contiene due trattati di

fisica (De caelo e De elementis) derivanti dall'insegnamento aristotelico, hanno individuato le fonti

nell'opera di due gesuiti del Collegio Romano, cioè Pereira e Toledo; Crombie nel 1971 indica

come ulteriore fonte dello stesso manoscritto il gesuita Clavio,26

mentre Carugo nel 1975 esamina e

trascrive le due Tractationes di logica (chiamate da loro Disputationes), che appaiono strettamente

23

Cfr. E. GARIN, Aristotelismo veneto e scienza moderna, in AA. VV., Aristotelismo veneto e scienza moderna, cit., I,

p .6. 24

Id, «...come hanno dimostrato indagini puntuali dello Schmitt e del Poppi, è infondato l'avvicinamento a Zabarella. La

verità è che Galileo si staccò dall'aristotelismo proprio sul terreno del metodo almeno fin dai cosiddetti De motu

antiquora, composti fra il 1589 e il '92, in cui ad Aristotele, parum in geometria[...]versatum, oppone i «suoi»

matematici (methodum mathematici mei me doeuere)», p. 29. 25

16 Cfr. GALILEO GALILEI, Tractatio de praeeognitionibus et praecognitis and Traetatio de demonstatione,

transcribed ed. by W .F. EDWARDS, with an introduction, notes and commentary by W. A. WALLACE, Padova,

Antenore, 1988. 26

I risultati di queste ricerche furono pubblicati da A. C. CROMBIE nel saggio Sources of Galileo's natural philosophy,

in AA.VV., M.L. Righini-Bonelli e W.R.Shea (eds.), Reason, Experiment andMysticism in the Scientific Revolution,

New York, Science History Publications, 1975, pp. 157-175, 303-305.

12

collegate con il MS. 46 in quanto rappresentano la base metodologica di quest'ultimo.

Secondo Crombie e Carugo la fonte delle Tractationes è un'opera di Ludovico Carbone, il

quale studia nel Collegio Romano, e scrive gli Additamenta ad F. Toleti Commentaria una cum

Questionibus in Aristotelis Logicam, pubblicata per la prima volta a Venezia nel 1597.27

Da parte sua, il Wallace, che pubblica nel 1977 la traduzione ed il commento degli Juvenilia,

da lui tradotti sotto il nome di Physical Questions,28

nel 1981 pubblica una monografia su Galileo

dove indica come fonti di tali trattazioni, oltre alle opere edite di Pereira, Toledo e Clavio, anche

alcuni corsi inediti svolti al Collegio Romano da altri gesuiti come Paolo Valla (o Della Valle).29

Proprio a quest'ultimo Wallace fa riferimento anche come fonte principale delle Tractationes del

MS. 27, da lui chiamate Logical Questions, e più precisamente al corso inedito di logica tenuto dal

gesuita tra il 1587-1588 e concluso nell'agosto del 1588. Secondo Wallace questo corso, che è

andato perduto, sarebbe stato plagiato da Ludovico Carbone nei suoi Additamenta del 1597, cosa

che ci verrebbe indirettamente confermata dallo stesso Della Valle, che nel 1622 pubblicando la sua

Logica, si lamenta del fatto che un suo corso sul medesimo argomento è divenuto oggetto di plagio.

Con la pubblicazione della traduzione delle due Tractationes nel 1988, Wallace chiude il cerchio

delle sue ricerche ricostruendo, sulla base delle somiglianze tra la Logica di Della Valle e gli

Additamenta di Carbone nonché attraverso corsi inediti di altri gesuiti del Collegio Romano,30

il

contenuto del corso perduto di Della Valle, mostrando come esso rappresenti, insieme con quelli di

Giovanni Lorino e Ludovico Rugerio, la fonte quasi letterale dell'opera di Galileo.31

L'importanza di stabilire le fonti, va al di là della semplice indagine filologica, perché

diventa indispensabile per datare correttamente le Tractationes; se, infatti, la fonte fosse

principalmente il corso di logica perduto del Della Valle del 1587-1588, così come sostiene il

Wallace, allora le Tractationes sarebbero state composte da Galileo presumibilmente all'inizio del

1589 e quindi durante il soggiorno pisano, in cui Galileo era già professore di matematica; se,

invece, come sostenuto da Crombie e Carugo, la fonte principale fossero gli Additamenta di

Ludovico Carbone del 1597, allora le Tractationes sarebbero state composte presumibilmente nel

periodo della piena maturità, quello dell'insegnamento a Padova o addirittura della ricerca a Firenze.

Ulteriori studi, in particolare quelli di S. Drake, hanno dimostrato come la carta con filigrana

27

A. CARUGO-A. C. CROMBIE, The Jesuits and Galileo’s Ideas of Science and of nature, in "Annali dell’Istituto e

Museo di storia della scienza di Firenze" VIII (1983), pp. 3-68. 28

Cfr. W. A. WALLACE, Galileo’s Early Notebooks: The Physical Questions, Notre Dame, Notre Dame University

Press, 1977. 29

Cfr. W. A. WALLACE, Prelude to Galileo, Essays on Medieval andSixteenth-Century Sources olGalileo’s Thought,

Dordrecht-Boston-London, Reidel, 1981. 30

Cfr. W. A. WALLACE, Influssi sul pensiero di Galileo, in AA.VV., Aristotelismo veneto e scienza moderna, cit., I,

p. 385. 31

Cfr. G. GALILEI, Tractatio de praecognitionibus et praecognitis e Tractatio de demonstratione, cit, introd.

13

su cui è stato redatto il MS. 27, contenente le Tractationes di logica, indica che esso è stato redatto a

Pisa, cioè attorno al 1589. Ad avvalorare tale datazione è la notizia biografica che Galileo si recò

intorno al 1587 a Roma presso il Collegio Romano per visitare padre Cristoforo Clavio, famoso

matematico, per discutere con lui un saggio che aveva già scritto sul baricentro dei corpi solidi, cioè

il Theoremata circa centrum gravitatis solidorum.32

La corrispondenza che si sviluppò in seguito, mostra come padre Clavio non fosse del tutto

soddisfatto dall'impianto logico utilizzato da Galileo nel trattato, in particolare perché sembrava

implicare una petitio principii.33

Probabilmente, secondo la tesi del Wallace, fu proprio questa

critica che convinse Galileo ad approfondire le sue conoscenze logiche e metodologiche, e,

presumibilmente, sempre attraverso Clavio, venne in possesso di una copia di appunti del corso di

logica tenuto da un altro gesuita del Collegio, appunto il Della Valle.

Strettamente collegata con la questione cronologica delle Tractationes, c'è la questione del

valore che esse hanno come espressione del pensiero di Galileo, e più precisamente, della

collocazione all'interno della sua produzione scientifica. Va rilevata, poi, la particolare posizione

assunta da Crombie e Carugo, che, pur datando le Tractationes in un periodo successivo al 1597, e

quindi alla piena maturità del pensiero di Galileo, ritengono plausibile che quest'ultimo abbia

successivamente cambiato la sua concezione generale del metodo scientifico.

Drake e Wallace, d'altra parte, che collocano l'opera intorno al 1589, si trovano in disaccordo

circa il suo valore, perché Drake ritiene che Galileo abbia cambiato successivamente la sua

concezione di scienza, mentre Wallace ritiene che Galileo non abbia mai abbandonato le idee sul

metodo scientifico contenute nell'opera.34

A questa nuova ondata di studi, che cercavano una giustificazione dell’ipotesi della

continuità tra il pensiero degli aristotelici padovani e Galileo, si oppone Corrado Dollo. Egli ritiene,

a mio avviso a ragione, che l’opinione secondo cui Galileo avesse trovato l'ispirazione che lo aveva

condotto al suo approccio rivoluzionario alla fisica in queste fonti scolastiche, sia ingenua e poco

profonda in quanto non tiene conto di diverse situazioni complesse. L’analisi del Dollo si concentra

sul mostrare gli elementi discontinuità tra ciò che i Gesuiti insegnavano al Collegio Romano e ciò

che Galileo scriveva in un trattato giovanile sul movimento, conosciuto come De Motu35

, composto

proprio negli stessi anni durante i quali avrebbe compilato i suoi appunti di logica. Sebbene non si

32

Cfr. S. DRAKE, Galileo at work. His scientific biography, Chicago and London, The University ofChicago Press,

1978, tr. it., Galileo, Bologna, Il Mulino, 1988. 33

Per i rapporti con padre Clavio si veda G. GALILEI, Le Opere, cit., X, pp. 22-25. 34

Cfr. W. A. WALLACE, Influssi aristotelici sul pensiero di Galileo, in AA.VV., Aristotelismo Veneto e Scienza

Moderna, cit., I, p.403. 35

Le notizie che abbiamo su questo trattato lo fanno datare tra il 1589 e il 1592, proprio negli stessi anni in cui Galileo

si dedicava alla stesura del MS 27 e del MS 46.

14

possa esser certi del loro scopo, Dollo offre argomentazioni convincenti sul fatto che Galileo non li

riutilizzò nelle sue lezioni. Essi furono niente di più che uno strumento che egli adoperò per

acquisire quella perizia scolastica necessaria a un professore di filosofia naturale. Per dimostrare

questo si basa su di un passo fondamentale di questa opera in cui Galileo afferma esplicitamente:

«Aristotelem parum in geometria fuisse versatum, multis in locis suae philosophiae apparet;

sed in hoc potissimum, ubi asserit, motum circularem motui rec to non esse proportionatum, quia,

scilicet, recta linea curvae non est proportionata aut comparabilis: quod quidem mendacium

(indignum enim est nomine opinionis), nedum intima et magis recondita geometriae inventa,

Aristotelem igno rasse, verum et minima etiam principia huius scientiae, demonstrat».36

Alla luce di questo giudizio così poco lusinghiero è impensabile, secondo il punto di vista di

Dollo, che si possa parlare di continuità nella ricerca in filosofia naturale. Ed ancora più avanti, pur

tuttavia mitigando i toni, Galileo rincara la dose, ammettendo che in tutte le questioni sul moto

locale il pensiero di Aristotele è opposto alla verità:

«Aristoteles, sicut fere in omnibus quae de motu locali scripsit, in hac etiam quaestione,

(scil., a quo moveantur proiecta) vero contrarium scripsit: et profecto non mirum est; quis enim ex

falsis vera colliget?».37

L’analisi accurata del De Motu, posta in relazione con il contenuto del MS 46 in particolare,

porta il Dollo ad affermare che pur prescindendo dalle questioni puramente tecniche riguardanti le

concezioni della fisica che si evincono dalla lettura dei trattati in questione, tuttavia è evidente da

parte di Galileo «…l'esigenza di oltrepassare l'aristotelismo, trasferendo il bastone del comando

dalla logica alla matematica, dagli Analitici posteriori ai trattati archimedei».38

36

G. GALILEI, De Motu, in Opere, I, cit., p. 302. 37

Ibid., p. 307. 38

Cfr. C. DOLLO, L'uso di Platone in Galileo, Catania, Università di Catania, facoltà di lettere e filosofia, in Siculorum

Gymnasium, XLII, 1989, pp. 115-157.

15

La disputa sul metodo: la Scuola di Padova

Per meglio comprendere la questione del metodo può essere utile ritornare sulle posizioni dei

protagonisti già accennati nell’introduzione, a tal riguardo si procederà a contestualizzare la

questione e dare alcune indicazioni di come essa si sia evoluta nel periodo in cui avviene la

formazione del giovane Galileo.

Il dibattito sul problema del metodo che aveva caratterizzato tutta la cultura del '500, era

derivato anzitutto dalla necessità di trovare principi metodologici adeguati per rendere ragione dei

fenomeni naturali alla luce delle nuove scoperte in campo fisico, delle teorie geocentriche e

dell'importanza di una nuova alleanza tra "teoria" e "prassi" rivendicata dalla medicina. Per poter

costruire una metodologia scientifica duttile e rispondente a queste nuove esigenze che divengono

sempre più pressanti, si avverte la necessità che anche la logica divenga veramente uno strumento

duttile per i più diversi scopi. La sede dove più forte si avvertono queste esigenze è l'Università di

Padova dove l'aristotelismo si distacca dai problemi metafisici e teologici, per indirizzarsi verso

quelli di carattere fisico e logico.

La denominazione "Scuola di Padova" è stata « ...introdotta da E. Renan nella sua

monografia del 1852, dedicata ad Averroè e all'averroismo, per designare il gruppo di filosofi e

professori della Università di Padova inquadrati dall'autore in averroisti ed alessandristi, i quali in

opposizione alla cultura umanista e neo-platoneggiante fiorentina e nell' ostilità all'intransigenza

dommatica chiesastica, avrebbero approfondito la separazione tra fede e ragione con uno spirito

libertino anticipatore del pensiero laico del successivo illuminismo e positivismo».39

Al di là della interpretazione aprioristica che caratterizza le pagine del Renan e che risponde

bene ad una certa ideologia ottocentesca, questa definizione è rimasta a rappresentare un indirizzo

di studi ispirato da alcuni capisaldi della dottrina aristotelica che Eugenio Garin, con una

approfondita valutazione storico-filologica, ha chiamato «aristotelismi della tradizione veneta»:40

aristotelismi proprio perché la tradizione di spiegazione e di interpretazione del pensiero di

Aristotele, quale essa si sviluppò in particolare nell'università patavina nei secc. XIV, XV e XVI, è

una tradizione assai complessa.

All'interno dello Studio patavino si andò quindi delineando ed affermando un'impostazione

rinnovata dell'aristotelismo rispetto alle principali Università europee continentali, dove

39

Cfr. A. POPPI, Introduzione all’aristotelismo padovano, Padova, Antenore, 1970, p.13. 40

Cfr. E. GARIN, Aristotelismo veneto e scienza moderna, in AA. VV., Aristotelismo moderno e scienza veneta, cit., I,

p.23.

16

l'aristotelismo era ancora legato alle tradizionali scuole filosofiche medioevali (tomismo, scotismo e

occamismo). Molti fattori incisero in questo senso; a Padova, innanzitutto, la Facoltà delle Arti non

serviva principalmente da introduzione a quella di teologia e, perciò, non era finalizzata alla

preparazione della carriera ecclesiastica, come avveniva alla Sorbona, ma godeva di un'identità

autonoma; a questo si deve aggiungere l'indirizzo averroistico assunto dalle interpretazioni

padovane di Aristotele, che aveva sganciato la filosofia dalla teologia con la conseguenza diretta

che le opere aristoteliche che si studiavano non erano quelle di metafisica ma quelle di fisica, di

psicologia e di logica.

Un altro fattore che faceva convergere le ricerche verso lo stesso risultato, era rappresentato

dagli studi di medicina in cui l'Università patavina si specializzò, studi che si basavano

naturalmente su di un procedimento analitico che finì per attirare l'attenzione degli stessi filosofi,

tanto più che questi ultimi, proprio come Averroè, erano spesso anche medici.

Occorre poi ricordare che nel 1405 Padova passa sotto il controllo della Repubblica di

Venezia e anche questo fattore favorisce il carattere laico dello Studio, essendo Venezia interessata

a contrapporsi a Roma anche attraverso una precisa politica culturale.

La questione del metodo è comunque già presente nella Scuola di Padova molto tempo prima

del cinquecento. L'obiettivo comune agli aristotelici padovani è principalmente quello di attribuire

tutta la vasta problematica che essi sviluppano in campo prettamente logico, direttamente allo stesso

Aristotele. Ne consegue che le vie della demonstratio sono solo due: o si segue l'ordine interno alle

cose da conoscere o s'impone ad esse un ordine proprio della mente umana; è questa la

fondamentale distinzione aristotelica di più noto rispetto a noi (notius nobis) e di più noto per natura

(notius naturae): questa distinzione viene talmente approfondita dagli aristotelici, da divenire « ... il

paradigma epistemologico fondamentale anche presso gli stessi avversari dell'aristotelismo».41

Già Pietro d'Abano, agli inizi del Trecento, nel suo Conciliator philosophorum, trattando dei

problemi comuni ai due tipi di dimostrazione pone una distinzione tratta da Aristotele che diverrà

basilare per l'intera scuola patavina; il termine «scienza», come egli scrive, ha un triplice

significato:

1) Vi è la scienza che si basa sulla demonstratio propter quid, che è la dottrina che Galeno

chiama "compositiva" e che viene acquisita quando si conosce la causa per cui qualcosa

esiste ed allo stesso tempo si sa che essa è la sua causa e che non può essere altrimenti.

41

Cfr. F. BOTTIN, Giacomo Zabarella: la logica come metodologia scientifica, in AA. VV., La presenza

dell'aristotelismo padovano nella filosofìa della prima modernità. Atti del Colloquio internazionale in memoria di

Charles B.Schmitt (Padova 4 - 6 settembre 2000), Roma-Padova, Antenore, 2002.

17

2) Vi è un altro senso di scienza, «che anzi relativamente a noi deve dirsi il più proprio», e che

corrisponde alla via (metodo), per noi «innata», di procedere dalle nozioni che sono più

certe secondo il nostro modo di conoscere a quelle che invece sono più certe secondo natura,

che corrisponde alla demonstratio quia, e cioè alla dottrina che Galeno chiama «risolutiva».

3) Vi è, infine, la terza via che è la scienza che si ottiene fondendo la via «compositiva» e

quella «risolutiva», e che Pietro d'Abano chiama «abitudine intellettuale acquisita mediante

le dimostrazioni».

Su quest’ultimo punto sono esplicative le stesse parole del maestro patavino:

« Scientia quoque ... sicut et scire tripliciter dicitur. Est enim scire sive scientia proprissime

dicta, sicut illa, quae est per causas proximas, et immediatas secundum consequentiam continuam

conclusionis illativa. Scire opinamur... quando causam arbitramur conoscere, propter quam res est

et qoniam ipsius est causa: et non contingit aliter se habere et ista quidem scientia ex

demonstratione propter quid aggeneratur, sive doctrina secundum Galenum compositiva. Sumitur

secundo proprie, licet quoad nos propriissime possit dici, cum innata sit nobis via procedere ex

notioribus et certioribus nobis in notiora secundum naturam, physicorum principio.

Etenim cum effectibus per se causis sui inhaerentibus ordine priori econverso proximis et

immediatis secundum consequentiam pervenitur in causam quae intenditur venari; aut causis

remotioribus intermissis quibusdam propinquoribus deducitur conclusio in effectum, scientia per

demostrationem elicitur quia, seu doctrina dicta resolutiva, et ea quae ex his duabus exurgit scientia

dicitur habitus intellectualis ex demonstratione elicitus».42

L'identificazione della demonstratio propter quid con il procedimento compositivo, e della

demonstratio quia con quello risolutivo è tuttavia merito di Ali ibn Ridwan (+ 1061), commentatore

arabo di Galeno, cosi come riferisce ancora lo stesso Pietro d'Abano.43

Averroè, poi, oltre le due già note propter quid e quia, che rappresentano rispettivamente il

conoscere secondo natura ed il conoscere secondo il modo dell’uomo, aggiunge la demonstratio

potissima, che fornisce sia la causa di qualche cosa che il suo essere.

Nell’ambito della Scuola di Padova vi è poi una tendenza ad unificare le dottrine di Galeno e

42

PIETRO ABANO PATAVINO, Conciliator Controversiarum, quae inter philosophos et medicos versantur [

Conciliator…], Ristampa fotomeccanica dell'edizione Venetiis, apud Iuntas, 1565, a c. di EZIO RIONDATO e LUIGI

OLIVIERI, Padova, Antenore, 1985, Diff. 3, Prop. I, f.5r. 43

PIETRO ABANO PATAVINO, « Sicut dicit Hali, compositiva fit per dimonstrationem propter quid, resolutiva vero

per demonstrationem quia», Conciliator ... , cit., Diff.8, Introd.

18

Averroè che porterà a determinare il metodo del regressus. Questo percorso viene seguito nel XVI

secolo dagli autori già citati precedentemente, cioè Agostrino Nifo, Marco Antonio Zimara,

Girolamo Balduino, fino a Giacomo Zabarella in cui, come detto, vi è la convergenza e la

sistemazione di quanto elaborato dagli altri esponenti della Scuola patavina.

L’Opera logica dello Zabarella, pubblicata a Venezia per la prima volta nel 1578, ebbe

subito larga diffusione in tutta Europa e ispirò tutta una serie di nuovi logici che scrissero a cavallo

dei due secoli.

Per Zabarella ogni conoscenza necessaria delle cose va chiamata scienza, le altre conoscenze

che non vertono su oggetti necessari e che quindi non hanno come scopo la conoscenza in se stessa,

non sono scienze ma arti; ora la logica che tratta delle secundae notiones è dunque un’arte: le prime

nozioni, infatti, sono nomi, come animale e uomo, che significano le cose mediante i relativi

concetti e che quindi si riferiscono a cose che non dipendono da noi; le seconde nozioni, invece,

sono i nomi che significano i primi nomi, come genere e specie, che sono opera nostra, nostre

figmenta, che esistono solo nella nostra mente:

«... sunt autem primae notiones nomina statim res significantia per medios animi conceptus,

ut animal et homo, seu conceptus ipsi, quorum haec nomina signa sunt: secundae vero sunt alia

nomina his nominibus imposta, ut genus, species, nomen, verbum propositio, syllogismus, et alia

huiusmodi, sive conceptus ipsi, qui per haec nomina significantur. Nominibus quidem primae

notionis statim res ipsa significata extra animum respondet, quocirca haec opus nostrum esse non

dicuntur... At secundas notiones nemo negaret opera nostra, et animi nostri figmenta esse ... ».44

Vi è un senso, però, in cui la logica può essere chiamata scienza, e ciò accade quando essa si

applica ad una scienza vera e propria: la logica diventa quindi instrumentum sciendi e si configura

come una metodologia che, pur avendo delle proprie leggi ed un proprio ambito di applicazione, è

ordinata ad altro.

Zabarella si preoccupa di acuire il divario sussistente tra ordo doctrinae e methodus

dichiarando che al primo spetta il dominio del già noto, mentre alla seconda il compito di acquisire

ciò che è ignoto. Il metodo quindi, è uno strumento logico ordinato all'acquisizione delle cose ed il

suo campo d'intervento è la singolarità dei fenomeni còlti quando la predicazione si deve affidare

alla ricerca.45

44

G. ZABARELLA, De natura logicae, I, in Opera logica, col.6 A-C. 45

Cfr. G.PAPULI, Dal Balduino allo Zabarella e al giovane Galilei: scienza e dimostrazione, in "Bollettino di Storia

della filosofia dell’Università degli Studi di Lecce", X (1990-92), pp. 45-46.

19

Il metodo scientifico deve essere desunto dal nostro modo di conoscere e non dalla struttura

delle cose, per rispettare così il criterio della convenienza per chi apprende. Riprendendo così una

nota tesi di Averroè, lo Zabarella getta le basi teoriche per un primato pratico del metodo risolutivo

su quello compositivo, con ciò confermando lo spostamento del baricentro della ricerca filosofica

dal mondo all’uomo.

La methodus, tuttavia, non può mai prescindere dal criterio della piena congruenza del sapere

in via di acquisizione con l'ordine oggettivo dei fenomeni naturali sui quali verte l'indagine perché

essa concerne singoli problemi. Ora, il metodo per antonomasia per la formazione del nostro sapere

de rebus naturalibus è la dimostrazione; fra le varie specie di procedimenti dimostrativi, è senz'altro

al regressus demonstrativus che va riconosciuta la funzione di garantire il corretto sviluppo delle

teorie scientifiche in tutte le loro articolazioni.

Il regressus, così come inteso dallo Zabarella, prende avvio dall'osservazione naturale,

attraverso cui si entra in possesso dei “dati” che ci provengono dall'esperienza e da questi si passa

all'inferenza dimostrativa vera e propria che consta di tre momenti:

a) la demonstratio quia, un sillogismo che risale dall'effetto (notius nobis) all'essere della

causa, con cui si ottiene la conoscenza remota della causa;

b) la consideratio mentalis, o, con l'espressione propria dello Zabarella, mentale ipsius causae

examen, che consiste nel procedere dalla supposizione che qualche cosa causa l'effetto alla

ricerca di cosa esso sia;

c) la demonstratio propter quid, un sillogismo che discende dalla causa così inquadrata

all'effetto ed è finalizzato alla notificazione di quest'ultimo non già nel suo essere sensibile

ma proprio nel suo essere “effetto”, cioè risultato di un processo di causazione.

La separazione fra scienza τοῦ διότι e conoscenza τοῦ ὅτι è tipica degli aristotelici legati alla

tradizione padovana e si esprime nella distinzione fra demonstratio quia e demonstratio propter

quid. Il primo a rimarcare la distinzione in greco e diffonderla nella logica di fine Cinquecento è

proprio Zabarella:

«duae igitur scientificae methodi oriuntur, non plures, nec pauciores, altera per excellentiam

demonstrativa methodus dicitur, quam Graeci κυρίως ἀπόδειξιν, vel ἀπόδειξιν τῶ διότι vocant;

nostri, potissimam demonstrationem, vel demonstrationem propter quid appellare consueverunt:

altera, quae ab effectu ad causam progreditur, resolutiva nominatur: huiusmodi enim progressus

resolutio est, sicut ab causa ad effectum dicitur compositio. Methodum hanc vocant Graeci

20

συλλογισμὸν τῶ ὅτι, vel διὰ σημείον, nostri demonstrationem quia»46

La via della connessione delle due dimostrazioni, quella quia e quella propter quid, viene

invece realizzata mediante:

1) la conversione del loro medio, in modo che, nel complesso dell’articolazione dei due

sillogismi corrispondenti alle due dimostrazioni, il medio possa essere insieme causa

ed effetto;

2) la consideratio mentalis che rappresenta il controllo mentale su base empirica della

validità dell'inferenza.

Così come per il Balduino, che per primo aveva proposto di modificare l'immagine di

dimostrazione circolare che accompagnava il regressus per non accomunarlo alla petitio principii,

anche per lo Zabarella l'immagine più consona per rappresentare il regressus è quella del triangolo,

perché trattasi di una connessione lineare sia di tre nozioni (quella dell'essere dell'effetto, quella

dell'essere della causa, e quella dell'effetto come termine del processo di causazione), sia di tre

progressioni logiche (quello dell'inferenza dall'essere dell’effetto all’essere della causa, quello della

consideratio mentalis sulla causa per avere una conoscenza distinta di questa in quanto avvio

dell'inferenza dimostrativa, ed infine quello della definizione dell’effetto in quanto risultato

dell’azione della causa).

Per quanto concerne la demonstratio potissima, la proposta dello Zabarella è quella di

ritenerla coincidente con la demonstratio propter quid in quanto solo con essa si attua il passaggio

dalla causa all’effetto, cioè quel processo che è proprio dell’ordo naturalis.

E' questo lo status questionis riguardo l’evoluzione del metodo aristotelico, allorché il Galilei

viene in contatto, nell’Università di Padova, con la tradizione scientifica dell' aristotelismo italiano.

46

JACOPO ZABARELLA, De methodis, in Opera logica, Zetzner, Köln 1597, C. 230 E-F.

21

Interpretazione galileana della metodologia aristotelica

Il punto di partenza della nostra analisi che riguarda l’interpretazione galileana della

metodologia aristotelica, ci è fornito dallo stesso Galilei che, nella lettera a Fortunio Liceti del 15

settembre 1640, dichiara addirittura di essere sempre stato aristotelico per quanto concerne la

logica:

«... 1'esser veramente Peripatetico, cioè filosofo Aristotelico, consista principalmente nel

filosofare conforme alli aristotelici insegnamenti, procedendo con quei metodi e con quelle vere

supposizioni e principii sopra i quali si fonda lo scientifico discorso, supponendo quelle generali

notizie il deviar dalle quali sarebbe grandissimo difetto. Tra queste supposizioni è tutto quello che

Aristotele ci insegna nella sua Dialettica, attenente al farci cauti nello sfuggire le fallacie del

discorso, indirizzandolo ed addestrandolo a bene silogizzare e dedurre dalle premesse concessioni la

necessaria conclusione; e tal dottrina riguarda alla forma del dirittamente argomentare. In quanto a

questa parte, credo di havere appreso dalli innumerabili progressi matematici puri, non mai fallaci,

tal sicurezza nel dimostrare, che, se non mai, almeno rarissime volte io sia nel mio argomentare

cascato in equivoci. Sin qui dunque io sono Peripatetico».47

Queste affermazioni, alla luce della produzione scientifica matura di Galileo, non devono

tuttavia stupire, infatti l’intera speculazione filosofica di galileana è caratterizzata da una forte

tensione interna tra motivi aristotelico-scolastici ed aspetti innovativi. Galileo è allo stesso tempo

“aristotelico” ed “antiperipatetico”, “conservatore” e “progressista”; da una parte egli tende a

conservare quegli aspetti della dottrina aristotelica che definiscono in modo esplicito la

dimostrazione scientifica, vale a dire l’individuazione degli schemi logici su cui costruire il sapere,

ma riconosce, d’altra parte, l’esistenza di uno iato tra la teoria prescrittiva della scienza e la sua

pratica effettiva:

« La logica, come benissimo sapete, è l’organo col quale si filosofa; ma, sì come può esser

che un artefice sia eccellente in fabbricare organi, ma indotto nel sapergli suonare, così può essere

47

G. GALILEI, Lettera a Fortunio Liceti (15 settembre, 1640), in Opere, Clt.,V. XVIII, pp. 248-249.

22

un gran logico, ma poco esperto nel sapersi servire della logica [...]. Il sonare l’organo non s’impara

da quelli che sanno far organi, ma da chi gli sa suonare [...]; il dimostrare dalla lettura de i libri pieni

di dimostrazioni, che sono i matematici soli, e non i logici».48

La logica, dunque, insegna a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate

procedano in maniera coerente e con conclusioni corrette, ma non insegna in alcun modo “a trovare

i discorsi e le dimostrazioni concludenti”. La logica ha in definitiva una sua validità come strumento

per una chiara esposizione e per un opportuno controllo dei risultati raggiunti, ma non vale come

strumento euristico.

Ed ancora nei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze:

«Simp. Veramente comincio a comprendere, che la Logica, benché strumento prestantissimo

per regolare il nostro discorso, non arriva, quanto al destar la mente all’invenzione, all’acutezza

della Geometria.

Sagr. А’ me pare, che la Logica insegni a conoscere le dimostrazioni già fatte, e trovate

procedono concludemente, mà che ella insegni a trovare i discorsi, e le dimostrazioni concludenti,

ciò veramente non credo io».49

Qui vi è una ulteriore conferma che per Galileo la logica è strumento di controllo per

esplicare le “dimostrazioni già fatte”. Certo, altrove, non mancano critiche persino a quei

ragionamenti sillogistici che Galileo in ogni caso ha sempre tenuto in alta considerazione:

«Circa il secondo punto, io mi meraviglio che voi abbiate bisogno che’l paralogismo

d’Aristotile vi sia scoperto, essendo per sè stesso tanto manifesto; e che voi non vi accorgiate, che

Aristotile suppone quello, che è in quistione: però notate».50

Ma si deve evidenziare come queste critiche riguardino maggiormente i casi in cui il metodo

aristotelico viene impiegato in questioni di carattere fisico, come nell’esempio precedente dove

viene applicato al moto dei corpi gravi. Nel resto delle sue opere ma soprattutto nelle relazioni

epistolari, Galileo insiste molto nel definirsi ‘peripatetico’ nelle questioni logiche che venivano

affrontate in seno alle critiche ricevute dai suoi scritti di carattere ‘fisico’. Su questo punto è

48

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi…, giornata 1, Opere, VII, pp. 59-60. 49

G. GALILEI, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla mecanica ed i

movimenti locali, Leida, Gli Elsevirii, 1638. 50

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi…, giornata 1, Opere, VII, p. 59.

23

paradigmatica un'altra lettera a Fortunio Liceti, di qualche giorno precedente a quella sopra citata:

«[…]ciò mi venne detto perché contro a tutte le ragioni del mondo vengo io imputato di

impugnatore della peripatetica dottrina, mentre io professo e son sicuro di osservare più

religiosamente i perìpatetici, o per meglio dire Aristotelici insegnamenti, che molti altri, li quali

indegnamente mi spacciano per avverso alla buona peripatetica filosofia, e perché quello del ben

discorrere, argumentare, e dalle premesse dedurre la necessaria conclusione, è uno delli

insegnamenti mirabilmente datoci da Aristotile nella sua Dialettica, mentre io vegga da premesse

dedur conclusioni, che con esse non hanno connessione, e perciò falsano la dottrina Aristotelica, se

io le emenderò, e le ridrizzerò penso di poter meritamente stimarmi miglior Peripatetico».51

In questa lettera Galileo protesta con vigore contro le critiche ricevute che gli imputavano di

avversare la filosofia aristotelica, ed anzi, proprio perché più degli stessi filosofi peripatetici ritiene

se stesso ligio agli insegnamenti ed ai precetti dello Stagirita, si professa miglior peripatetico. È

importante evidenziare che qui Galileo si riferisce chiaramente al ragionamento sillogistico, infatti

l’argomentare dalle “premesse” ed il dedurre la “necessaria conclusione”, sono caratteristiche

essenziali del sillogismo. Ma c’è di più, l’accusa rivolta ai seguaci di Aristotele è addirittura quella

di non saper applicare correttamente il ragionamento sillogistico e di “dedurre conclusioni” che non

“hanno connessione” con le premesse. Il rispetto di Galileo per la logica aristotelica rappresenta un

aspetto portante del suo pensiero ed è presente anche nelle opere scientifiche divulgative della

nuova fisica, dove in più parti Galileo sostiene che l’argomentazione aristotelica sia stata travisata a

causa di errori interpretativi, come nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, dove Salviati-Galileo

sostiene attraverso una sottile distinzione che il pensiero di Aristotele sul moto sia stato appunto

frainteso:

«[…] e dubito che Aristotile nel pigliarla da qualche buona scuola non la penetrasse

interamente, e che però, avendola scritta alterata, sia stato causa di confusione mediante quelli che

voglion sostenere ogni suo detto. E quando egli scrisse, che tutto quel che si muove, si muove sopra

qualche cosa immobile, dubito che equivocasse dal dire, che tutto quel che si muove, si muove

rispetto a qualche cosa immobile, la qual proposizione non patisce difficultà veruna, e l’altra ne ha

51

G. GALILEI, Lettera a Fortunio Liceti (25 agosto, 1640), MSS. Gal., Par, III, T. 7, Sez. I, minuta originale, in G.

GALILEI, Commercio epistolare Di Galileo Galilei, a c. di E. ALBÈRI, Società Editrice Fiorentina, Firenze, 1859, p.

331.

24

molte».52

In questo passo Salviati imputa ai peripatetici di aver preso ‘alla lettera’ (diremmo noi), ciò

che Aristotele ha scritto circa il moto, infatti “avendola scritta alterata” è stata oggetto di confusione

per chi, a tutti i costi, intende “sostenere ogni suo detto”; la spiegazione è geniale nella sua

semplicità, infatti, secondo Salviati, Aristotele intendeva affermare “che tutto quel che si muove, si

muove rispetto a qualche cosa immobile” non “sopra” qualche cosa che è immobile (riferito alla

Terra): questa interpretazione non presenta quindi alcuna difficoltà perché facilmente verificabile.

Il ritenere Aristotele una figura di filosofo al di sopra dell’atteggiamento sconcertante dei

peripatetici, fa sì che Galileo si spinga ad affermare, nello stesso dialogo, che se lo Stagirita fosse

vissuto ai suoi tempi, avrebbe certamente modificato la sua posizione:

«ch’ io non dubito punto, che se Aristotile fusse all’età nostra , muterebbe opinione; il che

manifestamente si raccoglie dal suo stesso modo di filosofare: imperocchè, mentre egli Scrive di

stimare i Cieli inalterabili ec. perchè nissuna cosa nuova si è veduta generarvisi o dissolversi delle

vecchie, viene implicitamente a lasciarsi intendere, che quando egli avesse veduto uno di tali

accidenti, avrebbe stimato il contrario, e anteposto, come conviene, la sensata esperienza al natural

discorso».53

Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, si può trovare una delle pagine più esplicative della

critica di Galileo ad una certa frangia dell’aristotelismo; nel seguente passo, discorrendo di alcuni

errori che possono essere commessi quando non è il ragionamento che giuda la dimostrazione,

Salviati-Galileo e il curioso ma per nulla esperto Sagredo, si trovano d’accordo sul valutare la

posizione di chi commette l’errore di prefissarsi nella mente una conclusione e di adattare a questa i

propri discorsi:

«Salviati: Dove io finalmente, osservando, mi sono accertato esser tra gli uomini alcuni i

quali, preposteramente discorrendo, prima si stabiliscono nel cervello la conclusione, e quella, o

perché sia propria loro o di persona ad essi molto accreditata, sí fissamente s’imprimono, che del

tutto è impossibile l’eradicarla giammai;

[…] Sagredo: Questi dunque non deducono la conclusione dalle premesse, né la stabiliscono

per le ragioni, ma accomodano o per dir meglio scomodano, e travolgon, le premesse e le ragioni

52

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi…, giornata 1, Opere, VII, p. 142. 53

Ivi, p. 75.

25

alle loro già stabilite e inchiodate conclusioni».54

Prima di procedere vorrei soffermarmi su di un punto che è stato trattato solo

superficialmente nel vasto panorama degli studi su Galileo e la tradizione aristotelico-scolastica, e

cioè la presenza o meno negli scritti maturi di argomenti trattati abitualmente dalla logica scolastica.

Sappiamo per certo, come già visto, che Galileo negli anni pisani fu invitato da padre Clavio a

rivedere le proprie conoscenze logiche e che quindi gli appunti contenuti nel Ms. 27 riguardano in

parte un corso di logica. Ma cosa e quanto degli argomenti dibattuti nei testi logici della tarda

scolastica è rimasto nelle opere mature?

Ci sono dei passi che sono paradigmatici per cercare di ricostruire questo aspetto del

rapporto tra Galileo e la logica. Uno dei più rappresentativi è il seguente:

«Non vi diss’io, che non poteva esser altro, ch’un sofisma? Questo è un di quelli argomenti

cornuti, che si chiamano soriti: come quello del Candiotto, che diceva che tutti i Candiotti erano

bugiardi, però essendo egli Candiotto veniva a dir la bugia, mentre diceva che i Candiotti erano

bugiardi; bisogna adunque, che i Candiotti fussero veridici, e in conseguenza esso, come Candiotto,

veniva ad esser veridico; e però nel dir, che i Candiotti erano bugiardi, diceva il vero, e

comprendendo se, come Candiotto, bisognava, che e’ fusse bugiardo. E così in questa sorte di

sofismi si durerebbe in eterno a rigirarsi senza concluder mai niente».55

In questo passo è descritto l’argomento noto come paradosso del Mentitore, ed il termine

‘Candiotto’ è riferito ad un abitante della città di Candia, nell’isola di Creta (alla quale i Veneziani

estesero il nome di Candia, istituendovi in quanto colonia, il Ducato di Candia); quindi Galileo

dimostra di conoscere uno dei paradossi su cui avevano maggiormente dibattuto i magistri

medievali e che aveva portato addirittura alla nascita di un vero e proprio genere letterario, gli

Insolubilia che sarà portato avanti fino all’inizio del Cinquecento. Ma c’è di più perché Galileo

commette due imprecisioni che potrebbero essere persino volute (dato che a pronunciarle è

Simplicio, rappresentante della scuola peripatetica):

a) innanzitutto introduce l’argomento come esempio di sorite; ora se per sorite intende

una argomentazione sofistica in generale commette un errore abbastanza ingenuo,

perché l’argomento in questione è di diversa natura rispetto all’argomento del

54

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi…, giornata 3, Opere, VII, pp. 299-300. 55

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi…, giornata 1, Opere, VII, p. 66.

26

mucchio o dell’acervo; ma potrebbe anche intendere il soriticus syllogismus, detto

anche sillogismo regressivo o aristotelico (impropriamente), cioè un sillogismo

composto non da due ma da più premesse (quindi un «cumulo» di sillogismi in cui

sono eliminate tutte le conclusioni e le premesse minori), disposte in modo che il

predicato della prima premessa è assunto come soggetto della seconda, e così via fino

alla conclusione, in cui il soggetto della prima premessa si unisce al predicato

dell’ultima (A è B, B è C, C è D, quindi A è D);

b) in secondo luogo lo definisce come ‘argomento cornuto’ dimostrando di conoscere le

antinomie semantiche, ma allo stesso tempo di non padroneggiarle appieno: gli stessi

autori medievali utilizzavano esempi più efficaci rendendosi conto che l’argomento

così strutturato non conduceva ad una vera e propria antinomia in virtù del fatto che

dalla verità dell’enunciato in questione si deduce effettivamente la sua falsità, ma

dalla sua falsità non si deduce la sua verità, dato che per far questo andrebbe meglio

specificato.

Ed ancora nella Lettera a Francesco Ingoli,56

Galileo sembra adottare un tipo di

argomentazione molto utilizzata nelle obligationes medievali, 57

che erano ancora parzialmente

utilizzate come esercitazioni in ambito universitario e che riguardavano un determinato contesto

dialettico in cui valutare delle proposizioni:

«possono le medesime proposizioni concludere e non concludere ad arbitrio altrui? Signor

no, prese assolutamente ed in tutta la università della natura; ma attaccate talvolta ad altra

proposizione falsa possono essere con quella supposizione concludenti».58

Se infatti ad un insieme di premesse che non conclude necessariamente in una

argomentazione sillogistica, si inserisce una ulteriore premessa falsa, concedendola può accadere

che l’intera argomentazione risulti concludente. L’argomento sviluppato in questo passo è

56

Galileo aveva inviato la lettera a Roma all'amico Guiducci perché la presentasse all'Ingoli e la diffondesse

pubblicamente, questa fu invece mantenuta riservata. Nel 1616 l'Ingoli aveva infatti scritto la Disputatio de situ et

quiete Terrae, che si scagliava apertamente contro Copernico e Galileo. La Disputatio spinse Keplero a scrivere

una Responsio (maggio 1618), cui l'Ingoli, a sua volta rispose con le Replicationes Francisci Ingoli Ravennatis De situ

et motu Terrae contra Copernicum ad Ioannis Kepleri Caesari mathemathici Impugnationes contra disputationem de

eadem re ad d. Galilaeum de Galilaeis Gymnasii Pisani mathematicum celeberrimum scriptam (13 ott. 1618). 57

La teoria delle obligationes può essere rappresentata come una disputa dialettica tra due soggetti, un opponente ed un

rispondente, che ha come scopo quello di trovare le condizioni logiche mediante le quali sia possibile derivare

l’asserzione o la negazione di una data proposizione da alcune premesse o ipotesi. 58

G. GALILEI, Lettera a Francesco Ingoli, Opere, VI, p. 526.

27

chiaramente di natura logica; Galileo ritornerà su questo punto nel corso del Dialogo, dando ancora

una volta prova di conoscere i principi e la terminologia della logica scolastica:

«[…] son sicuro che per la prova di una conclusion vera e necessaria sieno in natura non solo

una ma molte dimostrazioni potissime, e che intorno ad essa si possa discorrere e rigirarsi con mille

e mille riscontri, senza intoppar mai in veruna repugnanza, e che quanto piú qualche sofista volesse

intorbidarla, tanto piú chiara si farebbe sempre la sua certezza; e che, all’opposito, per far apparir

vera una proposizion falsa e per persuaderla non si possa produrre altro che fallacie, sofismi,

paralogismi, equivocazioni e discorsi vani, inconsistenti e pieni di repugnanze e contradizioni».59

Nella stessa pagina poi, è contenuta una esplicitazione del principio del terzo escluso

applicato a problemi di natura fisica:

«Cosí è: noi siamo in un dilemma, una parte del quale bisogna per necessità che sia vera, e

l’altra falsa; perché tra ’l moto e la quiete, che son contradittorii, non si dà un terzo, sí che si possa

dire: "La Terra non si muove, e non sta ferma; il Sole e le stelle non si muovono, né stanno

ferme"».60

Quindi Tertium non datur ( ), una terza soluzione (una terza via, o possibilità) non

esiste rispetto alla questione del moto della terra ed a quello degli astri.

Ma la conoscenza e l’applicazione di figure e procedimenti della logica aristotelica non si

esauriscono qui, infatti più avanti nello stesso testo, Galileo riprende un argomento caro alle dispute

medievali:

«[…] Il primo sarebbe una impertinenza non minore che se altri dicesse che di una

circonferenza di cerchio ogni parte bisogna che sia un cerchio, o vero perché la Terra è sferica, ogni

parte di Terra bisogna che sia una palla, perché così richiede l’assioma eadem est ratio totius et

partium».61

L’argomento presentato in questo passo come analogia rispetto all’argomentazione

principale che verte sul moto di rivoluzione terrestre, dimostra che Galileo padroneggia pienamente

59

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi…, giornata 2, Opere, VII, p. 156. 60

Ibid., p. 156. 61

Ibid., p. 168.

28

sia la fallacia di sottrazione che avviene quando si attribuisce alla parte una qualità del tutto, sia la

sua opposta cioè la fallacia di composizione che si verifica quando si attribuisce al tutto la qualità di

una parte.

Per quanto concerne il debito che questi trattati hanno nei confronti degli autori del Collegio

Romano e dell’aristotelismo padovano, questo aspetto è stato riconosciuto da diversi interpreti del

dibattito storiografico. In questa sede, per gli scopi prefissi, sono interessato ad evidenziare solo

alcuni punti. Anzitutto se si confrontano i tipi di dimostrazione ammessi nel trattato di Galileo con

quelli elencati nell’opera già citata del Valla, possiamo scoprire come siano praticamente li stessi:

«demonstrationem esse multiplicem, ut patet ex Aristotele in hoc libro: ostensivam, ad

impossibile, quia, propter quid, potissimam. Demonstratio ostensiva illa est, quae aliquid esse

verum ex veris principiis probat; ad impossibile est, quae ex aliquo impossibili concesso ducit ad

aliud impossibile notius; demonstratio quia est, quae vel ex effectu vel ex causa remota aliquid

probat; demonstratio propter quid est, quae per vera et propria principia aliquid de alio demonstrat;

potissima est, quae primam aliquam et universalem passionem de subiecto adaequato per propria et

proxima principia ostendit, cui si aliqua praedictarum conditionum deerit, non erit potissima».62

L’influenza di queste opere nei trattati che compongono il MS. 27 risulta poi evidente da

alcuni capisaldi contenuti nelle due opere di Galileo.

In primis, si deve sottolineare l’impossibilità di distinguere la demonstratio potissima (così

come descritta da Averroè) dalla demonstratio propter quid, che qualifica in modo preciso la

derivazione diretta dei trattati in questione dalla tradizione dei gesuiti del Collegio Romano; come

già evidenziato in precedenza questo è un punto fondamentale su cui questi ultimi autori si

distaccavano dalla tradizione averroista. In merito a questo aspetto le parole di Galileo, estrapolate

dal Tractatio de Demonstratione non lasciano spazio a dubbi:

«Ex quo patet male Averroem divisisse species demonstrationis, ex hoc, quod una

faciat nos scire causam effectus, altera vero causam et existentiam»;63

«Dico secundo: demonstrationem potissimam Averrois non esse speciem distinctam a

62

G. GALILEI, Tractatio de praecognitionibus et praecognitis and Tractatio de demonstratione, ed. by W. F.

EDWARDS – W. A. WALLACE, Padova, Antenore, 1988, pp. 30-31. 63

Ivi, p. 97.

29

demonstratione propter quid»;64

«Dico tertio: duas esse tantummodo species demonstrationis, quia et propter quid.

Colligitur ex praecedentibus, nam demonstratio quia est vera demonstratio, ut

ostendimus, et demonstratio potissima non distinguitur a demonstratione propter

quid».65

In secondo luogo, un altro snodo fondamentale è rappresentato dalla distinzione fra notiora

nobis e notiora natura che invece è sicuramente ripresa dallo Zabarella66

:

«Notius secundum naturam est illud, quod prius natura intelligibile est, qualia sunt illa, quae

prius esse suum fuere sortita. Notius secundum nos illud est, quod nobis primo cognoscendum

occurrit: cuiusmodi est singulare, tum quia sensu percipitur a nobis; quod autem est tale, est

notissimum».67

Infine la concezione che le dimostrazioni matematiche rappresentano una tipologia a sé

stante in quanto procedono da cause note sia per noi che per natura:

«an possint dari propositionem, quae est secundum nos et natura sint notae? Nam videtur

quod non, quia idem inquantum idem non potest esse notum nobis et naturae. Respondeo: posse

dari; [22v] patet hoc in demonstrationibus mathematicis, in quibus causae sunt notiores nobis et

naturae, quam sint effectus, licet huiusmodi demonstrationes non sint potissimae».68

La consideratio mentalis del regressus, infatti, che pur rappresenta un controllo empirico,

inserita in mezzo alle due dimostrazioni, la quia e la propter quid, finisce col rappresentare un

processo di chiarificazione interna del rapporto causa-effetto; in altre parole la verità delle premesse

non viene mai messa veramente in discussione. Ciò comporta, dal punto di vista pratico notevoli

inconvenienti come per esempio l’impossibilità di stabilire, mediante il regressus, la presenza di più

cause per un unico effetto.

Galileo sembra voler criticare più che Aristotele stesso soprattutto gli aristotelici, rei di non

aver sviluppato correttamente l’interazione di "sensata esperienza" e "discorso", che lui fa risalire

64

Ivi, p. 102. 65

Ivi, p. 103. 66

Cfr. J. ZABARELLA, In duos Aristotelis libros posteriores analyticos commentarii, in Id., Opera logica, cit., 663 F,

664 D. 67

G. GALILEI, Tractatio de praecognitionibus…, cit., p. 65. 68

Ivi, p. 67.

30

direttamente ad Aristotele: ciò porta nel regressus ad includere l'esperienza come certezza

presupposta, neutralizzandone in tal modo la funzione di verifica.69

La terminologia usata dal Galilei per introdurre nelle sue opere l'esperimento e cioè il

periculum, che è diverso dall'experimentum della tradizione aristotelica, rappresenta da un lato la

consapevolezza che Galilei ha dell’elemento attivo che caratterizza la nozione di esperimento

rispetto all’esperienza-osservazione, dall’altro la necessità di staccarsi dalla terminologia

tradizionale per utilizzare un termine non equivoco ed autonomo anche sul piano semantico.70

Proprio su questo punto ha insistito il Wallace per far notare come nell’espressione usata

dallo Zabarella per inquadrare la fase intermedia del regressus, e cioè “mentale ipsius causae

examen”, ci sia il termine latino examen appunto, che corrisponde al greco πείρά cioè peira, un

vocabolo che è nella radice del latino periculum, cioè prova, l’equivalente di esperimento; ciò

proverebbe come Galilei non si sia mai staccato del tutto dal regressus, intendendo la fase

intermedia di quest'ultimo come esperimento matematizzato.

Da una analisi più accurata si evince, infatti, che il termine periculum non è del tutto estraneo

alla tradizione aristotelica: esso compare nella vulgata dell'Organon di Boezio71

e nella traduzione

dell'Organon72

di Giulio Pace, allievo di Zabarella che era noto a Galilei. L’uso di periculum in

Galilei per denotare l’esperimento potrebbe rappresentare allo stesso tempo un rimando e

un'integrazione alla tradizione aristotelica: il mettere alla prova esprime nella dialettica aristotelica

la condotta di chi dialogando pone in questione la tesi dell’altro interrogandolo; il mettere alla prova

di Galilei, invece, equivale ad un interrogare la natura per verificare e il mezzo con cui ciò avviene

è l'esperienza matematizzata che è la sola che può fungere da prova per la corretta dimostrazione

scientifica e che quindi rappresenta quella interazione tra “sensate esperienze” e “certissime

dimostrazioni” che è il nucleo della metodologia galileana.

Ma veniamo adesso ad analizzare un fattore che ha diviso profondamente i due schieramenti

storiografici, cioè il valore della resolutio per Galilei, che è stata intesa in diverso modo e

rispettivamente come fase intermedia del regressus dai sostenitori della continuità e come

risoluzione matematica dagli oppositori.

69

A differenza di ciò che accade nel metodo di Galilei, dove come osserva giustamente l’Olivieri, «questa funzione

dinamica dell’esperienza galileiana trova la sua espressione più pregnante allorché dall’aspetto passivo, di osservazione,

assume quello attivo, di sperimentazione»:L. OLIVIERI, Galileo e la tradizione aristotelica, in A.A. VV., "Verifiche",

VII (1978), p.163 70

Cfr. C. B. SCHMITT, Experience and experiment: a comparison of Zabarella's view with Galileo's in De motu, in

"Studies in the Renaissance", XVI (1969), pp.115-126. 71

Cfr. ANICIUS MANLIUS TORQUATUS SEVERINUS BOETHIUS, Elenchorum Sophisticorum Aristotelis

interpretatio, ed. Migne, Patr. Lat. T. LXIV, Parigi, 1891, col. 1021 a: «periculum sumat». 72

Cfr. ARISTOTELIS, Organum, Frankfurt 1967, fotocopia dell’edizione di Hanau del 1623, p.782, 783, 792, 840,

843, 897. Pace traduce costantemente πείρά con periculum.

31

Obiettivamente nelle sue opere Galilei si dimostra poco chiaro al riguardo, intendendo la

resolutio ora in un modo, ora nell’altro; tuttavia in una sua opera, dove più serrata diviene la critica

al sapere tradizionale si ha a che fare con una sorta di contaminazione tra i due modi.

Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, infatti, ponendosi in contraddizione con

l’aristotelico Simplicio, secondo cui Aristotele prima dimostrava le sue conclusioni attraverso il

discorso a priori e poi le confermava a posteriori, Salviati-Galileo risponde in maniera critica:

«... cotesto, che voi dite, è il metodo con il quale egli ha scritto la sua dottrina, ma non credo

già che sia quello col quale egli la investigò, perché io tengo fermo ch'e' procurasse prima, per via

de' sensi, dell’esperienza e delle osservazioni, di assicurarsi quanto fusse possibile della

conclusione, e che dopo andasse ricercando i mezi da poteria dimostrare, perché così si fa per lo più

nelle scienze dimostrative: e questo avviene perché, quando la conclusione è vera, servendosi del

metodo risolutivo, agevolmente si incontra qualche proposizione già dimostrata, o si arriva a

qualche principio per sé noto; ma se la conclusione sia falsa, si può procedere in infinito senza

incontrar mai verità alcuna conosciuta, se già altri non incontrasse alcun impossibile o assurdo

manifesto».73

La descrizione del metodo risolutivo, cioè il ricercare i mezzi per dimostrare deducendo le

conseguenze fino a incontrare qualche principio di per sé noto, è senza dubbio quella dei matematici

mentre la prima fase, cioè l'assicurarsi la conclusione attraverso l'esperienza, corrisponde alla

aristotelica demonstratio quia: si ha qui una specie di sintesi tra il metodo del regressus e quello dei

matematici, tra osservazione e procedimento matematico.

Strettamente correlata con questo punto è la questione riguardante la convertibilità dei

termini tra le proposizioni della risoluzione dimostrativa. Enrico Berti in un suo intervento nota

come «della differenza tra l'analisi dei geometri e i procedimenti che partono dall’esperienza

(demonstratio quia e induzione) si era già reso conto Aristotele».74

Negli Analitici posteriori,

infatti, Aristotele afferma che l'analisi funziona solo a determinate condizioni, cioè che le

proposizioni di cui ci si serve siano convertibili, ed una proposizione è convertibile quando

73

G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo tolemaico e copernicano, in Opere, cit., VII, p.75. 74

E. BERTI, Differenza tra il metodo risolutivo degli aristotelici e la «resolutio» dei matematici, in AA.VV.,

Aristotelismo Veneto e scienza moderna, cit., p.445. «Se fosse impossibile dimostrare il vero a partire dal falso, l’analisi

sarebbe facile, perché le proposizioni necessariamente si convertirebbero. Sia infatti vera la proposizione A: se questa è

vera, sono vere queste determinate proposizioni, che io so essere vere, per esempio B; a partire da queste, allora,

dimostrerò che quella [cioè A] è vera. Ma le proposizioni si convertono soprattutto nelle matematiche, perché non

assumono nessun accidente - ed anche in queste differiscono da quelle che si usano nelle discussioni - bensì assumono

definizioni».

32

mantiene lo stesso valore di verità anche se si invertono il soggetto ed il predicato.75

Questo accade

quando il nesso che li unisce è di assoluta necessità e si verifica principalmente nella matematica,

dove tutte le proposizioni sono convertibili. Fuori dall'ambito matematico non sempre si verifica

questa condizione perché siccome è possibile dimostrare il vero partendo dal falso, cioè pervenire

ad una conclusione vera anche muovendo da una premessa falsa, risalendo all'indietro da una

conclusione vera si può giungere ad una premessa falsa, il che significa non dimostrare affatto. Il

rapporto causa effetto può comportare questa convertibilità solo a patto che vi sia una connessione

costante tra le variazioni di un fattore e quelle di un altro, tale da essere reciproca.

Questa condizione è descritta precisamente da Galilei nei Discorsi e dimostrazioni intorno a

due nuove scienze, dove nel famoso esperimento del piano inclinato, attraverso rigorose

misurazioni, si riesce a rilevare una esatta proporzione tra la velocità ed i tempi di caduta che

consente di confermare la validità dell’ipotesi formulata intorno la causa dell’accelerazione;76

tra

causa ed effetto vi è quindi quella convertibilità che proprio Aristotele ha indicato come la

condizione necessaria e sufficiente affinché la validità dell’analisi sia confermata.

Un altro aspetto che è presente sia nella metodologia dell'aristotelismo, sia in quella galileana

è rappresentato dalla connessione tra metodo risolutivo ed argomento ex suppositione. La tradizione

aristotelica soprattutto quella dei Gesuiti del Collegio Romano, che abbiamo già detto essere tra le

fonti delle due Tractationes di logica contenute nel MS. 27, considera gli assiomi o dignitates fra i

principi della dimostrazione, che risultano essere però indimostrabili e perciò devono essere colti in

modo immediato affinché possano fungere da premesse alla dimostrazione.

Il Wallace, che ha studiato a fondo l'argomento ex suppositione, esponendo il contenuto degli

appunti dei Gesuiti, riferisce che:

«altri principi, tuttavia, non richiedono una tale istantanea ed uniforme accettazione, e

possono essere considerati come suppositiones che sono poste da chi propone la dimostrazione, o

come definizioni degli argomenti che egli sta considerando, o come petitiones per le quali egli

sollecita l'assenso di chiunque ambisca ad una conoscenza della conclusione».77

Nelle opere di Galileo i riferimenti alle suppositiones sono per lo più congrui all'uso descritto

negli appunti del Collegio, e a tal riguardo può fungere da paradigma l’esposizione dell'argomento

ex suppositione nella lettera a Pierre de Carcavy:

75

ARISTOTELE, Analitici Posteriori, I 12, 78a 6-12.

76

Cfr. G. GALILEI, Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze, in Opere, cit., VIII, p.212. 77

W. F. WALLACE, Influssi sul pensiero di Galileo, cit., I, p. 387.

33

«…io argomento ex supposizione, figurandomi un moto verso un punto, il quale partendosi

dalla quiete vadia accelerandosi, crescendo la sua velocità con la medesima proporzione con la

quale cresce il tempo; e di questo tal moto io dimostro concludentemente molti accidenti: soggiungo

poi, che se l’esperienza mostrasse che tali accidenti si ritrovassero verificarsi nel moto dei gravi

naturalmente discendenti, potremmo senza errore affermare questo essere il moto medesimo che da

me fu definito e supposto.»78

Qui chiaramente Galilei si riferisce alla fase intermedia del regressus che muove da una

causa supposta e non ancora dimostrata, ne inferisce le conseguenze e demanda all’esperimento il

compito di verificare se tra queste ve ne siano di note; nel caso che la verificazione dia una risposta

positiva l’ipotesi di partenza si potrà considerare dimostrata, cioè la causa supposta si dovrà

considerare causa vera. La connessione tra argomento ex suppositione e metodo risolutivo è del

resto sostenuta dallo stesso Aristotele che, come evidenzia con precisione Enrico Berti, «nella

Fisica definisce la necessità ex hypotheseos come quella che concerne i mezzi necessari a realizzare

un fine già dato, e nell'Etica Nicomachea paragona la ricerca dei mezzi necessari ad attuare un fine

già dato ad una vera e propria analysis geometrica».79

Ma nell’ultima quaestio del Tractatio de demonstratione viene affrontato direttamente il

problema se sia possibile avere un regressus demonstrativus. L’esposizione di Galileo parte

dall’analisi di cinque differenti opinioni che vengono da lui attribuite rispettivamente: agli antichi,

ai seguaci di Avicenna, ad alcuni seguaci moderni di Ugo da Siena, a Francesco da Nardò e la sua

scuola ed infine allo stesso Aristotele.

Facendo seguito all’elenco di tali posizioni, Galileo ci fornisce due notazioni, la prima

relativa ai requisiti per la dimostrazione e la seconda ai diversi modi di intendere la relazione tra

causa ed effetto. Nella prima si afferma che ciò attraverso cui si dimostra e ciò che viene dimostrato

sono collegati tra di loro, perché non si potrebbe necessariamente dedurre il secondo da

qualcos'altro, e in secondo luogo, che ciò attraverso cui si dimostra in quanto più noto deve venire

prima nella dimostrazione.

Questa è l’ulteriore conferma che l’innovazione metodologica di Galilei non consiste

unicamente nell’aver applicato l’analisi matematica alla misurazione quantitativa dei fenomeni

analizzati e nell’aver cercato la conferma sperimentale delle teorie, ma nell’aver fatto questo

78

G. GALILEI, Lettera a Pierre de Carcavy, in Le Opere, cit., XVII, pp. 90-91. 79

E. BERTI, La teoria aristotelica della dimostrazione nella «Tractatio» omonima diGalilei, in AA.VV., Filosofìa e

cultura. Per Eugenio Garin, a c. di M. CILIBERTO e C. VASOLI, p.345.

34

tenendo comunque presenti i principi della logica aristotelica (o meglio i principi che la scolastica

aveva ricondotto alla tradizione aristotelica). Tutto ciò testimonia come fin dai primi anni di

docenza Galileo fosse interessato a documentarsi, pur in un quadro notevolmente mosso e

articolato, su questioni riguardanti la logica ed il metodo scientifico adottato dai filosofi aristotelici.

Che ciò sia accaduto perché il termine di paragone con cui confrontarsi in quel periodo fosse la

filosofia aristotelica, o per qualsiasi altro motivo, rimane tuttavia inconfutabile il tentativo di tener

saldi alcuni principi logici e metodologici della tradizione anche se è allo stesso tempo innegabile lo

scarto esistente dal punto di vista degli studi sulla fisica.

Si riportano qui di seguito alcuni dei passi tratti dal Tractatio de demonstratione del giovane

Galilei, con relativa traduzione, su cui si è soffermata l’attenzione degli storiografi galileani del

XIX e del XX secolo. Il testo che verrà trascritto e tradotto riguarda una questione che W. F.

Edwards e W. A. Wallace, hanno dimostrato essere analoga a quelle trattate negli scritti dei gesuiti

Lorinus, Jones e Valla, dove addirittura il titolo della quaestio risulta molto simile.80

Trascrizione

Disputatio secunda: De Prorietatibus Demonstrationis [Quaestio quinta:] An omnia principia

immediata per se nota ingrediantur quamcumque demonstrationem?81

Certum est huiusmodi principia non ingredi actu quamcumque demonstrationem, in quo

omnes conveniunt. Dubium est an virtualiter ingrediantur, propter Aristotelem docentem textu

primo de primis principiis esse praecognoscendum quia vera sunt, quorum principiorum nomine

Philoponus intelligit etiam dignitates.

Prima opinio est Aegidii, Apollinaris, et Pauli Veneti; quae affirmat primo quia Aristoteles

tex primo huius libri docet de primis pnnclpiis esse praecognoscendum demonstrationem; ergo

[etc.]. Secondo, quia tex. 25° eiusdem libri docet Aristoteles scientiam versari circa genus,

passiones, et dignitates; ergo, etc.

Tertio, quia omnes sillogismi pendent a duobus illis principiis, de quolibet verum est

affirmare quod est vel non est, de nullo idem affirmari et negar ipotest; ergo, etc.

Seconda opinio, quae est communis fere omnium, negat. Fundamentum est, quia illa

principia actualiter vel habitualiter ingrediuntur demostrationem a quibus intrinsece conclusio

80

G. GALILEI, Tractatio de praecognitionibus et praecognitis and Tractatio de demonstratione, ed. by W. F.

EDWARDS – W. A. WALLACE, Padova, Antenore, 1988, p. 232. 81

G. GALILEI, Tractatio de demonstratione, f. 21r -22r6.

35

dependet; sed a principiis tantummodo propriis et intrinsecis intrinsece conclusio pendet; ergo non

ab illis notis per se, cum illa sint extrinseca.

Notandum est primo, nomen dignitatis dupliciter posse accipi: vel proprie et srticto modo,

vel improprie et lato modo. Primo modo acceptum complectitur illas tanturnrnodo propositiones,

quae et notissimae sunt, et communes vel omnibus scentiis vel aliquibus, qualis est ista, omne totum

est maius sua parte.

Secundo modo sumptum comprehendit non solum dictas propositiones, sed etiam omnia

principia propria, immediata, etc, qua ratione fuit acceptum ab Aristotele in eodem libro, textu 20°

et 25°.

Notandum est secundo, nomen dignitatis hoc secondo modo accepto dupliciter adhuc posse

accipi: vel prout est commune omnibus scientiis, vel aliquibus, vel prout contractum esse ad

aliquam materiam determinatam, ut patet hoc exemplo: de quolibet verum est affirmare quod est vel

non est; quod princiipium vel potest considerari in communi, ut potest applicari omnibus scientiis;

vel ut est iam applicatum de facto scientiae, verbi gratia Mathematicae.

His positis, dico primo: dignitates immediate per se notas posse ingredi actualiter aliquam

demonstrationem imperfectam; tamen et impropriam; ita Philoponus et Themistius. Probatur ex

Aristotele, tex. 24° et 26° primi Posteriorum, docente id expresse, praesertim de demonstratione

quae ducit ad impossibile, et ratione, quia potest assumi loco alicuius praemissae aliquod principum

immediatum et per se notum, ut videre est in demonstrationibus mathematicis; sed tunc actu

principium ingreditur demonstrationem, quando demonstratio actu conficitur ex illo; ergo [etc.].

Neque dicas: demonstrationem debere constare ex veris causis et immediatis, cuiusmodi non

sunt praedictae dignitates; ideo, etc. Nam hoc tantum probat dignitates non posse quidem ingredi

demonstrationem aliquam perfectam et propriam, non tamen impropriam et imperfectam,

quandoquidem contractae hae dignitates ad aliquam certam materiam (quomodo tantum actu

ingrediuntur demonstrationem) habent maximam proportionem cum veris causis; sunt enim priores,

notiores, simpliciores et causae respectu nostri.

Dico secundo: has dignitates neque actu neque virtute ingredi quamcumque

demonstrationem. Probatur conclusio, quia illa principia actu vel virtute ingrediuntur

demonstrationem a quibus intrinsece conclusio dependet; sed ab his dignitatibus, cum sint principia

extrinseca, non potest intrinsece dipendere conclusio; ergo [etc.].

Ex quo colligitur: dictas dignitates neque etiam ingredi virtualiter demonstrationes

mathematicas, si secundum se demonstrationes considerentur, quamvis ingrediantur illas, si

respectu cognitionis nostrae tales demonstrationes considerentur; quia respectu nostri veritas valium

dignitatum est notior quam sint propria principia in demonstratione mathematica.

36

Ad primum argumentum respondeo: Aristotelem loqui de praecognitionibus non tantim

scientiae demonstrative, sed cuiuscunque doctrinae et disciplinae.

Respondeo secundo: aliquando de primis principiis praecognoscendum esse quia vera sunt,

quando nimirum talia principia ingrediuntur actu aliquam demonstrationem imperfectam. Ad

secundum respondeo: Aristotelem sumpsisse nomem dignitatis secundo modo, hoc est, altissime,

prout continet omnia principia, tam propria et intrinseca, quam impropria et extrinseca.

Ad tertium respondeo negando omnes syllogismos pendere ab illis duo bus principiis; nam

intrinsece pendent tantummodo a suis propriis principiis. Quod si dicantur ex illis pendere, illud est,

quia ille qui negat proprium principium alicuius scientiae, redarguendus est tanquam per aliquid

notius ex his duobus principiis. Hic quadri posset an ad hoc, ut scientia conclusionis perfecte

habeatur, sit conclusio resolvenda usque ad prima principia: Hoc posito, dupliciter posse alicuius rei

haberi scientiam: vel simpliciter et absolute, vel secundum quid et in determinato genere.

Dico primo: ad hoc ut habeatur cognitio perfecta alicuius rei requiri ut fiat resolutio in omnia

principia et causas, etiam primas et universalissimas; seu, ut melius dicam, ut cognoscantur omnia

principia et omnes causae, etiam prima, contra Aegidium; nam resolutio debet fieri in aliquod

notius, cuiusmodi non est prima causa; ex quo fit ut res proprie non sit resolvenda usque in primam

Causam.

Probatur conclusio, quia sicut res se habet ad esse, ita [22r]ad cognosci; sed conclusio in esse

suo pendent et a suis principiis et a Deo; ergo [etc.].

Dico secundo: ad hoc, ut res perfecte cognoscatur in suo genere, satis esse cognosci causas

proprias. Probatur conclusio, quia res in esse determinato pendet a causis determinatis, quae si

perfecte cognoscantur etiam res in tali genere cognoscitur. Respectu autem nostri, ad hoc, ut

perfecte aliquid sciamus, resolvenda est conclusio in sua prima principia per se nota, quia et

respectu nostri talia principia sunt notissima; et negantes illa, per illa esdem sunt convincendi.

Traduzione

Seconda disputazione: sulle proprietà delle dimostrazioni [Quinta questione] Se tutti i

principi già noti introducano qualunque dimostrazione. E’ certo che principi di questo genere non

introducono di fatto qualunque dimostrazione, in un argomento in cui tutti sono d'accordo.

E’ dubbio se affrontino l’argomento virtualmente, a causa di Aristotele che insegna in un

primo testo che dai primi principi si deve intuire perché essi sono veri, e dal nome di questi principi

il filosofo comprende le considerazioni.

37

La prima opinione è di Egidio, Apollonio, e di Paolo Veneto; questa afferma in primo luogo

perché nella prima parte di questo libro insegna che dai primi principi si deve intuire perché sono

veri e non perché virtualmente affrontano la dimostrazione; dunque [etc.].

In secondo luogo perché al text. 25 del medesimo libro Aristotele insegna che la conoscenza

verte sul genere, le passioni e assiomi; dunque, etc.

In terzo luogo perché tutti i sillogismi dipendono da quei due principi, su ognuno dei quali è

giusto affermare ciò che è o non è, ma su nessuno dei due si può affermare o negare la stessa cosa;

dunque,etc.

La seconda opinione, che è comune quasi a tutti, lo nega. E’ un fondamento, perché quei

principi attualmente o abitualmente comportano una dimostrazione dai quali (principi)

intrinsecamente dipende la conclusione; ma dai principi soltanto propri ed intrinseci dipende

intrinsecamente la conclusione; quindi (dipende) non da quelli noti di per sé poiché quelli sono

estrinseci.

Si deve notare in primo luogo che il nome di assioma può essere recepito in due modi: o in

senso proprio e con significato ristretto, oppure impropriamente e con un significato più ampio.

Nel primo caso abbraccia come accezione soltanto quelle proposizioni che sono molto note e

comuni sia a tutte le scienze sia ad alcune, quale è codesta che il tutto è più grande della singola

parte.

Nel secondo caso comprende come accezione non solo le preposizioni (già) dette, ma anche

tutti i principi propri, immediati, etc., significato col quale fu accolto da Aristotele nel medesimo

libro, nel text. 20 e 25.

Si deve osservare in secondo luogo, che il nome di assioma, accolta questa seconda

accezione, può essere ancora interpretato in duplice modo: o secondo che sia uguale a tutte le

scienze, o ad alcune, o secondo [21 v] che sia stato riferito a qualche materia (disciplina) bene

determinata come è evidente da questo esempio: dall’uno e dall’altro è giusto affermare ciò che è o

non è; questo principio o può essere considerato in linea generale, si da poter essere applicato a tutte

le scienze, oppure che sia stato applicato già di fatto ad una scienza, e precisamente alla

matematica.

Poste queste questioni, io dico in primo luogo: gli assiomi noti di per sé con immediatezza

possono contenere attualmente qualche dimostrazione imperfetta, e tuttavia anche impropria, così

Filopono e Temistio.

Si evince da Aristotele, text. 24 e 26 del primo libro degli (Analitici) Posteriori, il quale

insegna espressamente ciò, che proprio dalla dimostrazione che conduce all’impossibile, e dalla

ragione, poiché può essere assunto in luogo di qualche premessa, qualche principio immediato e di

38

per sé noto, come è opportuno vedere nelle dimostrazioni matematiche; ma allora il principio

accoglie in atto la dimostrazione, quando la dimostrazione si compie grazie a quell’atto; dunque

[etc.].

Né potresti dire che la dimostrazione deve constare di cause vere e immediate, a qual genere

non appartengono i predetti assiomi, perciò [etc.].

Infatti ciò prova soltanto che gli assiomi non possono certamente contenere qualche

dimostrazione perfetta ed impropria, non tuttavia impropria ed imperfetta, dal momento che queste

dimostrazioni, ridotte a qualche materia determinata (in qualche modo soltanto dall’atto contengono

la dimostrazione) hanno un grandissimo rapporto con le vere cause; sono infatti prime, più note, più

semplici e cause per noi degne di essere osservate.

Dico in secondo luogo che questi assiomi né in atto, né in potenza contengono qualunque

dimostrazione. Si rende credibile la conclusione, poiché quei principi, o in atto o in potenza

contengono la dimostrazione da cui intrinsecamente la conclusione dipende; ma da questi assiomi,

essendo principi estrinseci, non può intrinsecamente dipendere la conclusione; dunque [etc.].

Da ciò si deduce che i suddetti assiomi non contengono neppure virtualmente le

dimostrazioni matematiche, se si considerano le dimostrazioni in relazione a se stesse, sebbene le

contengano, se tali dimostrazioni si considerano in relazione alla nostra conoscenza; poiché secondo

la nostra osservazione la verità di tali assiomi è più nota di quanto lo siano i principi propri nella

dimostrazione matematica.

Al primo argomento rispondo: Aristotele parla di conoscenze preventive non soltanto della

scienza dimostrativa, ma di ciascuna dottrina e disciplina.

Rispondo al secondo: talvolta sui primi principi si deve sapere prima perché sono veri,

quando senza dubbio tali principi contengono qualche dimostrazione imperfetta rispetto all’atto. Al

secondo argomento rispondo che Aristotele ha assunto il nome di assioma nella seconda accezione,

cioè, in maniera molto estesa, secondo che contiene tutti i principi, tanto propri ed intrinseci, quanto

impropri ed estrinseci.

Al terzo argomento rispondo negando che tutti i sillogismi dipendono da quei due principi;

infatti intrinsecamente dipendono soltanto dai loro propri principi. Che se si dice che dipendono da

quelli, bisogna accettarlo, poiché colui che nega il principio proprio di qualche scienza deve essere

smentito come per qualche cosa più nota da questi due principi.

A questo punto si potrebbe chiedere perciò, perché la conoscenza della conclusione sia

considerata in modo perfetto, se la conclusione debba essere estesa fino ai primi principi, Ciò posto,

la conoscenza di qualche argomento può essere considerata in duplice modo: o semplicemente ed in

senso assoluto, o in relazione a qualche cosa e in senso determinato.

39

Dico in primo luogo: affinché per questo si consideri che la conoscenza perfetta di qualche

argomento venga cercata in modo tale che ci sia una risoluzione in tutti i principi e le cause, anche

in quelle originarie e universalissime; o se per dir meglio siano conosciuti tutti i principi e tutte le

cause, anche le prime, ancora contro Egidio; infatti la risoluzione deve avvenire in qualche

argomento più noto del qual genere non è la prima causa; dal che si evince che l’argomento

propriamente non debba risolversi entro il primo motivo.

Si approva la conclusione, poiché come la cosa ha funzione per esserci, così ha funzione per

essere conosciuta; ma la conclusione del discorso dipende dal soggetto e dal predicato, che nella

loro essenza dipendono a loro volta dai propri principi; dunque [etc.].

Dico in secondo luogo, a questo fine, affinché l'argomento sia conosciuto perfettamente nel

suo genere, è sufficiente che si conoscano le cause originarie.

Si accetta la conclusione, poiché l’argomento in essere determinato dipende da cause

determinate, le quali, se sono conosciute perfettamente, consentono che anche l’argomento sia

conosciuto allo stesso modo.

Riguardo a noi, perciò, per conoscere qualche cosa perfettamente, la conclusione deve essere

trovata nei suoi primi principi noti di per sé, poiché anche per ciò che ci riguarda, tali principi sono

molto noti; e al contrario quelli che li negano, devono convincersi attraverso quelli stessi.

40

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