la strada dell'africa

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Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonamento postale - 70% /Roma/Aut. N° 140/2009 Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 3 - maggio/giugno 2010 - Euro 12 Direttore Adolfo Urso www.farefuturofondazione.it La strada dell’Africa

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Charta minuta 3/2010

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Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonam

ento postale - 70% /Rom

a/Aut. N°140/2009

Nuova serie A

nno IV - N

umero 3 - m

aggio/giugno 2010La strada dell’A

frica

È qui che si decidonogli assetti del futuro

EDITORIALEDI ADOLFO URSO

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiet-tivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergereuna nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della glo-balizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, dicultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dellosviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, svilup-pare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello.Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestraitaliano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nelquadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in si-nergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idead’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale vi-sione dell’Occidente.La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113.Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientificae dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scien-tifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro chene finanziano l’attività con donazioni private.

Presidente

Gianfranco FINI fini@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO urso@ farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA [email protected]

Consiglio di fondazioneAlessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI,

Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro

PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Segreteria organizzativa fondazione FarefuturoVia del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 400044130 - fax 06 400044131

[email protected]

Direttore scientificoAlessandro [email protected]

Direttore editorialeAngelo [email protected]

DirettoreMario [email protected]

Direttore relazioni internazionaliFederico [email protected]

Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 3 - maggio/giugno 2010 - Euro 12

Direttore Adolfo Urso

L’Africa non è più il grande buco nero della globalizzazione maanzi il continente su cui si misureranno le migliori prospettive dicrescita dei prossimi decenni. L’Africa mediterranea, che già que-st’anno avrà le migliori performance di ripresa di tutto il bacinoEuromediterraneo e di cui l’Italia è diventata la prima partnercommerciale, superando Francia e Germania: da soli rappresen-tiamo un quarto degli scambi europei. La sponda sud del Medi-terraneo rappresenterà per l’Italia nei prossimi anni quello chel’Europa centrale ed orientale è stata per le nostre imprese e perla nostra economia negli ultimi vent’anni. Sarà l’area di maggiorecrescita ai confini dell’Unione, fonte di energia e consumatrice diprodotti, e nel contempo la maggiore destinataria del cono diluce dello sviluppo che si estende lungo il Golfo Persico, l’India,la Cina, il sud-est asiatico, l’Oceania: l’area del mondo che sta giàtrainando la ripresa, non solo luogo di produzione ma anche diconsumo per miliardi di uomini prima ai margini ed ora al cen-tro dell’economia mondiale.L’Africa mediterranea è già nostra partner, con le sue contraddi-zioni e le sue speranze: islamica ma in buona misura anche laica,ormai avviata nella integrazione con l’Unione attraverso l’area dilibero scambio euromediterranea che finalmente sarà compiutanel 2012, sulle prospettive del processo di Barcellona.

L’Africa però è anche e soprattutto il con-tinente nero. Dal deserto del Sahara sinoal Capo di Buona Speranza: una volta con-siderata come terra perduta, sopraffatta daun convulso processo di decolonizzazioneche ne aveva piegato le speranze e lacerato

le società. Negli ultimi dieci anni, molto è cambiato, senza chece ne accorgessimo. Molti paesi sono cresciuti a due cifre e intanti si è consolidata la democrazia, soprattutto lungo le costecommerciali. La nostra Europa era troppo presa dalla crescitadella sua metà orientale e dalla necessità di integrarla, per accor-gersi di quanto fossero cambiate le condizioni e soprattutto leprospettive di un’area del mondo che è stata a lungo europea. Nel frattempo, altri paesi ed altre economie hanno occupato glispazi vuoti e soprattutto le aree di crescita. La Cina innanzi tutto,con una politica espansionista priva di scrupoli, fatta di prestitie di imprese, nella corsa ad accaparrarsi le materie prime di cuinecessita. Ed inoltre, a ruota, India e Brasile e le economie emer-genti del sud-est asiatico, con gli Stati Uniti a tentare di fare ar-gine, prima con Bush e con un’accorta politica bilaterale, poi conObama che ha ovviamente un richiamo in più anche sul pianoideale e quindi multilaterale.L’Europa, grande assente, ha perso terreno ma ora sa o comunquedovrebbe sapere che proprio in Africa si decidono le nuove ge-rarchie globali e gli assetti del prossimo futuro. L’Africa ha tuttoquello che serve alla crescita degli altri grandi, dei nuovi grandi

In Africa si decidonole nuove gerarchie globali e gli assetti del prossimo futuro

www.farefuturofondazione.i t

La strada

dell’Africa

È qui che si decidono gli assetti del futuroADOLFO URSO - EDITORIALE

Africa, un altro mondo - 2STEFANO CALICIURI

Il continente del XXI secolo - 8GIUSEPPE PENNISI

Non abbiamo bisogno del vostro paternalismo - 16ABDOULAYE WADE

Ghana: la stabilità favorisce gli investimenti - 20HANNAH TETTEH

Una priorità etica e strategica per l’Italia - 32ELISABETTA BELLONI

Religione, un mezzo per superare le divisoni etniche - 38INTERVISTA a PETER TURKSON di Federico Brusadelli

Per fare sentire forte le voci assordanti dimenticate - 42DA Ffwebmegazine DI CECILIA MORETTI

Serve un bagno di realismo per capire un continente plurale - 46INTERVISTA a GIULIO ALBANESE di Domenico Naso

La sicurezza globale passa dall’Africa - 58PAOLO QUERCIA

Una strategia italiana al servizio del continente nero - 64ROBERTO PASCA DI MAGLIANO E DANIELE TERRIARCA

La rinascita africana passa anche per le imprese - 72GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI

Servono investimenti per diventare adulti - 80FRANCESCO CROCENZI

Il colonialismo del Terzo Millenio - 90FEDERICO BRUSADELLI

La Somalia libera fa sentire la sua voce - 92DA Ffwebmegazine

SOMMARIONUOVA SERIE ANNO IV - NUMERO 3 - MAGGIO/GIUGNO 2010

Quando il calcio fa miracoli - 96ITALO CUCCI

Sudafrica: uno Stato a due facce - 106ERIC MOLLE

Un giorno a Kayalitcha, l’inferno alle porte di Città del Capo - 116SILVIA ANTONIOLI

Mataka: «Aids, bisogna fare molto di più» - 119INTERVISTA a ELISABETH MATAKA di S.A.

Quel pezzo di Africa che parlava italiano - 124ALFREDO MANTICA

La stele venuta da lontano - 138BARBARA MENNITTI

Il business delle navi pirata - 146PIERO BONADEO

La linea rossa che squarcia l’area subsahariana - 154DOMENICO NASO

Tra petrolio e colpi di Stato - 160PIETRO URSO

Quando l’Africa funziona - 168DANIELE CRISTALLINI

I difficili equilibri del Maghreb - 175ANTONIO PICASSO

Verso l’unità africana - 183BRUNO TIOZZO

APPUNTAMENTIA CURA DI BRUNO TIOZZO

ROMAL’odissea americanadel XXI secoloGiovedì 20 maggio

Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

in via del Seminario 113, si terrà la presentazione del

volume L’ora di Telemaco. Un’odissea americana di

Alberto Pasolini Zanelli, edito da Feltrinelli. Inter-

verrà l’autore.

ROMAIncontro con le fondazioni europeeLunedì 3 maggio

Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

in via del Seminario 113, si terrà un incontro fra i rap-

presentanti delle fondazioni che aderiscono allo

European Ideas Network, rete che riunisce i think-

tank del Ppe.

Direttore Adolfo Urso [email protected]

Direttore responsabile Barbara [email protected]

Collaboratori:Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, DilettaCherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini,Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti,Cecilia Moretti, Domenico Naso, GiuseppePennisi, Paolo Quercia, Bruno Tiozzo, Pietro Urso.

Direzione e redazioneVia del Seminario, 113 - 00186 RomaTel. 06/97996400 - Fax 06/97996430E-mail: [email protected]@gmail.com

Segreteria di [email protected]

Grafica ed impaginazioneGiuseppe Proia

Editrice Charta s.r.l.Abbonamento annuale € 60, sostenitore da €200Versamento su c.c. bancario , Iban IT88X0300205066000400800776intestato a Editrice Charta s.r.l. -C.c. postale n. 73270258Registrazione Tribunale di Roma N. 419/06

Amministratore unicoGianmaria Sparma

Segreteria amministrativaSilvia Rossi

TipografiaTipografica-Artigiana s.r.l. - Roma

Ufficio abbonamentiDomenico Sacco

www.farefuturofondazione.i t

www.chartaminuta.it

WASHINGTONThe Milton Friedman Prize for Advanc-ing LibertyIl premio per la libertà intitolato a Mil-ton Friedman viene consegnato dalCato Institute al giornalista dissidenteiraniano Akbar Ganji.Giovedì 13 maggio

CADENABBIAKonrad Adenauers Europa und Caden-abbia.Incontro della Konrad AdenauerStiftung nella villa italiana dell’ex Can-celliere, rivolto ai motociclisti. I parte-cipanti partono, in moto, da Oldenburgnella Germania settentrionale.Interviene Hans-Gert Pöttering, Presi-dente della Kas.Domenica 16 – Sabato 22 maggio

CRACOVIABuilding a Commercial Society: Culture& the Transition to WealthSeminario dell’Acton Institute sullatransizione all’economia di mercatonell’Europa dell’est 20 anni dopo lacaduta del muro di Berlino. Tra i rela-tori: Mart Laar, ex Premier estone,Leszek Balcerowicz, ex ministro dell’E-conomia polacco e John O’Sullivan, giàconsigliere di Margaret Thatcher.Mercoledì 19 maggio

SIMI VALLEY (CALIFORNIA)Annual Reagan LectureIl discorso annuale organizzato dallaRonald Reagan Foundation in memoriadell’ex presidente americano saràtenuto da Mitt Romney, già governa-tore del Massachusetts. Romney pre-senterà anche il suo nuovo libro: Noapology: The Case for American Great-ness.Martedì 25 maggio

ROMACome si misura il benessereMartedì 11 maggio

Presso la Sala delle Conferenze di Palazzo Marini,

Camera dei deputati, in via del Pozzetto 158, alle ore

10 inizierà il convegno Oltre il Pil. I nuovi indicatori

del benessere e la sostenibilità dello sviluppo. Inter-

verranno fra gli altri, Mario Ciampi, Kazuiko Takeu-

chi, Raffarele Bonanni, Federica Guidi, Enrico Letta

e Adolfo Urso. Concluderà i lavori Gianfranco Fini,

presidente della fondazione Farefuturo.

SEOULGerman Unification and EU, Implicationon Korean PeninsulaLa Konrad Adenauer Stiftung inter-viene a un seminario dell’universitàYonsei che confronta la riunificazionetedesca con la divisione della Corea.Venerdì 28 maggio

TORONTOFraser Institute Gala DinnerCena di gala del Fraser Institute. Inter-viene Peter Munk, Presidente di BarrickGold e noto filantropo.Giovedì 3 giugno

BRUXELLESChanges in Nato and consequences forEuLa European Ideas Network, che rag-gruppa i think-tank del Ppe, si interrogasul futuro rapporto tra l’Ue e la Nato.Mercoledì 9 giugno

RABATForum marocain-allemand de jeunesdécideursIncontro fra giovani tedeschi e maroc-chini impegnati nella politica e nell’am-ministrazione, organizzato dalla KonradAdenauer Stiftung insieme all'Associa-tion Ribat Al Fath pour le Développe-ment Durable.Giovedì 24 – Sabato 26 giugno

EICHHOLZ Europas besteLa summer school della Konrad Ade-nauer Stiftung contiene una simu-lazione sulla sicurezza energeticaeuropea e un’escursione alle istituzioniUe a Bruxelles.Domenica 11 – Mercoledì 14 luglio

La stradadell’Africa

È qui che si decidono gli assetti del futuroADOLFO URSO - EDITORIALE

Africa, un altro mondo - 2STEFANO CALICIURI

Il continente del XXI secolo - 8GIUSEPPE PENNISI

Non abbiamo bisogno del vostro paternalismo - 16ABDOULAYE WADE

Ghana: la stabilità favorisce gli investimenti - 20HANNAH TETTEH

Una priorità etica e strategica per l’Italia - 32ELISABETTA BELLONI

Religione, un mezzo per superare le divisoni etniche - 38INTERVISTA a PETER TURKSON di Federico Brusadelli

Per fare sentire forte le voci assordanti dimenticate - 42DA Ffwebmegazine DI CECILIA MORETTI

Serve un bagno di realismo per capire un continente plurale - 46INTERVISTA a GIULIO ALBANESE di Domenico Naso

La sicurezza globale passa dall’Africa - 58PAOLO QUERCIA

Una strategia italiana al servizio del continente nero - 64ROBERTO PASCA DI MAGLIANO E DANIELE TERRIARCA

La rinascita africana passa anche per le imprese - 72GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI

Servono investimenti per diventare adulti - 80FRANCESCO CROCENZI

Il colonialismo del Terzo Millenio - 90FEDERICO BRUSADELLI

La Somalia libera fa sentire la sua voce - 92DA Ffwebmegazine

SOMMARIONUOVA SERIE ANNO IV - NUMERO 3 - MAGGIO/GIUGNO 2010

Quando il calcio fa miracoli - 96ITALO CUCCI

Sudafrica: uno Stato a due facce - 106ERIC MOLLE

Un giorno a Kayalitcha, l’inferno alle porte di Città del Capo - 116SILVIA ANTONIOLI

Mataka: «Aids, bisogna fare molto di più» - 119INTERVISTA a ELISABETH MATAKA di S.A.

Quel pezzo di Africa che parlava italiano - 124ALFREDO MANTICA

La stele venuta da lontano - 138BARBARA MENNITTI

Il business delle navi pirata - 146PIERO BONADEO

La linea rossa che squarcia l’area subsahariana - 154DOMENICO NASO

Tra petrolio e colpi di Stato - 160PIETRO URSO

Quando l’Africa funziona - 168DANIELE CRISTALLINI

I difficili equilibri del Maghreb - 175ANTONIO PICASSO

Verso l’unità africana - 183BRUNO TIOZZO

APPUNTAMENTIA CURA DI BRUNO TIOZZO

ROMAL’odissea americanadel XXI secoloGiovedì 20 maggio

Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

in via del Seminario 113, si terrà la presentazione del

volume L’ora di Telemaco. Un’odissea americana di

Alberto Pasolini Zanelli, edito da Feltrinelli. Inter-

verrà l’autore.

ROMAIncontro con le fondazioni europeeLunedì 3 maggio

Presso la sede della fondazione Farefuturo a Roma,

in via del Seminario 113, si terrà un incontro fra i rap-

presentanti delle fondazioni che aderiscono allo

European Ideas Network, rete che riunisce i think-

tank del Ppe.

Direttore Adolfo Urso [email protected]

Direttore responsabile Barbara [email protected]

Collaboratori:Roberto Alfatti Appetiti, Rodolfo Bastianelli, Federico Brusadelli, Stefano Caliciuri, Rosalinda Cappello, DilettaCherra, Silvia Grassi, Giuseppe Mancini,Alessandro Marrone, Pierluigi Mennitti,Cecilia Moretti, Domenico Naso, GiuseppePennisi, Paolo Quercia, Bruno Tiozzo, Pietro Urso.

Direzione e redazioneVia del Seminario, 113 - 00186 RomaTel. 06/97996400 - Fax 06/97996430E-mail: [email protected]@gmail.com

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Grafica ed impaginazioneGiuseppe Proia

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Amministratore unicoGianmaria Sparma

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CADENABBIAKonrad Adenauers Europa und Caden-abbia.Incontro della Konrad AdenauerStiftung nella villa italiana dell’ex Can-celliere, rivolto ai motociclisti. I parte-cipanti partono, in moto, da Oldenburgnella Germania settentrionale.Interviene Hans-Gert Pöttering, Presi-dente della Kas.Domenica 16 – Sabato 22 maggio

CRACOVIABuilding a Commercial Society: Culture& the Transition to WealthSeminario dell’Acton Institute sullatransizione all’economia di mercatonell’Europa dell’est 20 anni dopo lacaduta del muro di Berlino. Tra i rela-tori: Mart Laar, ex Premier estone,Leszek Balcerowicz, ex ministro dell’E-conomia polacco e John O’Sullivan, giàconsigliere di Margaret Thatcher.Mercoledì 19 maggio

SIMI VALLEY (CALIFORNIA)Annual Reagan LectureIl discorso annuale organizzato dallaRonald Reagan Foundation in memoriadell’ex presidente americano saràtenuto da Mitt Romney, già governa-tore del Massachusetts. Romney pre-senterà anche il suo nuovo libro: Noapology: The Case for American Great-ness.Martedì 25 maggio

ROMACome si misura il benessereMartedì 11 maggio

Presso la Sala delle Conferenze di Palazzo Marini,

Camera dei deputati, in via del Pozzetto 158, alle ore

10 inizierà il convegno Oltre il Pil. I nuovi indicatori

del benessere e la sostenibilità dello sviluppo. Inter-

verranno fra gli altri, Mario Ciampi, Kazuiko Takeu-

chi, Raffarele Bonanni, Federica Guidi, Enrico Letta

e Adolfo Urso. Concluderà i lavori Gianfranco Fini,

presidente della fondazione Farefuturo.

SEOULGerman Unification and EU, Implicationon Korean PeninsulaLa Konrad Adenauer Stiftung inter-viene a un seminario dell’universitàYonsei che confronta la riunificazionetedesca con la divisione della Corea.Venerdì 28 maggio

TORONTOFraser Institute Gala DinnerCena di gala del Fraser Institute. Inter-viene Peter Munk, Presidente di BarrickGold e noto filantropo.Giovedì 3 giugno

BRUXELLESChanges in Nato and consequences forEuLa European Ideas Network, che rag-gruppa i think-tank del Ppe, si interrogasul futuro rapporto tra l’Ue e la Nato.Mercoledì 9 giugno

RABATForum marocain-allemand de jeunesdécideursIncontro fra giovani tedeschi e maroc-chini impegnati nella politica e nell’am-ministrazione, organizzato dalla KonradAdenauer Stiftung insieme all'Associa-tion Ribat Al Fath pour le Développe-ment Durable.Giovedì 24 – Sabato 26 giugno

EICHHOLZ Europas besteLa summer school della Konrad Ade-nauer Stiftung contiene una simu-lazione sulla sicurezza energeticaeuropea e un’escursione alle istituzioniUe a Bruxelles.Domenica 11 – Mercoledì 14 luglio

La stradadell’Africa

Poste italiane S.p.a. - Spedizione in abbonam

ento postale - 70% /Rom

a/Aut. N°140/2009

Nuova serie A

nno IV - N

umero 3 - m

aggio/giugno 2010La strada dell’A

frica

È qui che si decidonogli assetti del futuro

EDITORIALEDI ADOLFO URSO

Farefuturo è una fondazione di cultura politica, studi e analisi sociali che si pone l’obiet-tivo di promuovere la cultura delle libertà e dei valori dell’Occidente e far emergereuna nuova classe dirigente adeguata a governare le sfide della modernità e della glo-balizzazione. Essa intende accrescere la consapevolezza del patrimonio comune, dicultura, arte, storia e ambiente, con una visione dinamica dell’identità nazionale, dellosviluppo sostenibile e dei nuovi diritti civili, sociali e ambientali e, in tal senso, svilup-pare la cultura della responsabilità e del merito a ogni livello.Farefuturo si propone di fornire strumenti e analisi culturali alle forze del centrodestraitaliano in una logica bipolare al fine di rafforzare la democrazia dell’alternanza, nelquadro di una visione europea, mediterranea e occidentale. Essa intende operare in si-nergia con le altre analoghe fondazioni internazionali, per rafforzare la comune idead’Europa, contribuire al suo processo di integrazione, affermare una nuova e vitale vi-sione dell’Occidente.La Fondazione opera in Roma, Palazzo Serlupi Crescenzi, via del Seminario 113.Èun’organizzazione aperta al contributo di tutti e si avvale dell’opera tecnico-scientificae dell’esperienza sociale e professionale del Comitato promotore e del Comitato scien-tifico. Il Comitato dei benemeriti e l’Albo dei sostenitori sono composti da coloro chene finanziano l’attività con donazioni private.

Presidente

Gianfranco FINI fini@ farefuturofondazione.it

Segretario generale

Adolfo URSO urso@ farefuturofondazione.it

Segretario amministrativo

Pierluigi SCIBETTA [email protected]

Consiglio di fondazioneAlessandro CAMPI, Rosario CANCILA, Mario CIAMPI, Emilio CREMONA, Ferruccio FERRANTI, Gianfranco FINI,

Giancarlo LANNA, Vittorio MASSONE, Angelo MELLONE, Daniela MEMMO D’AMELIO, Giancarlo ONGIS, Pietro

PICCINETTI, Pierluigi SCIBETTA, Adolfo URSO

Segreteria organizzativa fondazione FarefuturoVia del Seminario 113, 00186 Roma - tel. 06 400044130 - fax 06 400044131

[email protected]

Direttore scientificoAlessandro [email protected]

Direttore editorialeAngelo [email protected]

DirettoreMario [email protected]

Direttore relazioni internazionaliFederico [email protected]

Bimestrale della Fondazione Farefuturo Nuova serie anno IV - n. 3 - maggio/giugno 2010 - Euro 12

Direttore Adolfo Urso

L’Africa non è più il grande buco nero della globalizzazione maanzi il continente su cui si misureranno le migliori prospettive dicrescita dei prossimi decenni. L’Africa mediterranea, che già que-st’anno avrà le migliori performance di ripresa di tutto il bacinoEuromediterraneo e di cui l’Italia è diventata la prima partnercommerciale, superando Francia e Germania: da soli rappresen-tiamo un quarto degli scambi europei. La sponda sud del Medi-terraneo rappresenterà per l’Italia nei prossimi anni quello chel’Europa centrale ed orientale è stata per le nostre imprese e perla nostra economia negli ultimi vent’anni. Sarà l’area di maggiorecrescita ai confini dell’Unione, fonte di energia e consumatrice diprodotti, e nel contempo la maggiore destinataria del cono diluce dello sviluppo che si estende lungo il Golfo Persico, l’India,la Cina, il sud-est asiatico, l’Oceania: l’area del mondo che sta giàtrainando la ripresa, non solo luogo di produzione ma anche diconsumo per miliardi di uomini prima ai margini ed ora al cen-tro dell’economia mondiale.L’Africa mediterranea è già nostra partner, con le sue contraddi-zioni e le sue speranze: islamica ma in buona misura anche laica,ormai avviata nella integrazione con l’Unione attraverso l’area dilibero scambio euromediterranea che finalmente sarà compiutanel 2012, sulle prospettive del processo di Barcellona.

L’Africa però è anche e soprattutto il con-tinente nero. Dal deserto del Sahara sinoal Capo di Buona Speranza: una volta con-siderata come terra perduta, sopraffatta daun convulso processo di decolonizzazioneche ne aveva piegato le speranze e lacerato

le società. Negli ultimi dieci anni, molto è cambiato, senza chece ne accorgessimo. Molti paesi sono cresciuti a due cifre e intanti si è consolidata la democrazia, soprattutto lungo le costecommerciali. La nostra Europa era troppo presa dalla crescitadella sua metà orientale e dalla necessità di integrarla, per accor-gersi di quanto fossero cambiate le condizioni e soprattutto leprospettive di un’area del mondo che è stata a lungo europea. Nel frattempo, altri paesi ed altre economie hanno occupato glispazi vuoti e soprattutto le aree di crescita. La Cina innanzi tutto,con una politica espansionista priva di scrupoli, fatta di prestitie di imprese, nella corsa ad accaparrarsi le materie prime di cuinecessita. Ed inoltre, a ruota, India e Brasile e le economie emer-genti del sud-est asiatico, con gli Stati Uniti a tentare di fare ar-gine, prima con Bush e con un’accorta politica bilaterale, poi conObama che ha ovviamente un richiamo in più anche sul pianoideale e quindi multilaterale.L’Europa, grande assente, ha perso terreno ma ora sa o comunquedovrebbe sapere che proprio in Africa si decidono le nuove ge-rarchie globali e gli assetti del prossimo futuro. L’Africa ha tuttoquello che serve alla crescita degli altri grandi, dei nuovi grandi

In Africa si decidonole nuove gerarchie globali e gli assetti del prossimo futuro

www.farefuturofondazione.i t

La strada

dell’Africa

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del sud del mondo. L’Europa deve agire, con una politica co-mune, per consentire al continente nero di crescere con gli altrie anche grazie agli altri, evitando un’altra, diversa deriva coloniz-zatrice.L’Africa non come oggetto dei nostri desideri e nemmeno mera-mente come destinataria di elargizioni, con cui mettere in pacela nostra tormentata coscienza. L’Africa non ha bisogno di doni

ma di imprese, la cooperazione basata solosugli aiuti è stata anzi spesso fonte di guai,di corruzione e violenza: ha devastato il ter-ritorio, le sue colture (agricole) e le sue cul-ture (umane). L’Africa non come oggettoma come soggetto dello sviluppo, partner

con cui agire insieme, in un rapporto per la prima volta davverowin-win.L’Africa è il più grande giacimento di materie prime e il pro-blema dei prossimi decenni sarà appunto il reperimento e l’uti-lizzo delle risorse. Tra poco saremo sette miliardi, con unacrescita in gran parte concentrata nell’altro emisfero. Soprat-tutto sette miliardi di persone che giustamente pretendono diconsumare anche loro, dopo che negli ultimi secoli hanno assi-stito al consumo (e agli sprechi) degli altri, e talvolta assistitoil consumo degli altri, di pochi. È il caso di dire: prima consu-mavamo in pochi ma molto e i nostri consumi trainavano lalenta e sconnessa crescita di alcuni paesi emergenti, lasciandocomunque indietro i più. Negli ultimi trent’anni è stata la cre-scita dei consumi in Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti,a determinare la crescita dell’Oriente, a cominciare dalla Cina.Noi consumavamo di più ad ovest, loro producevano di più adest. Questo assioma si è infranto con la bolla finanziaria e im-mobiliare. Ora anche gli Usa vogliono produrre ed esportare, enon solo consumare. E la Cina intende anche consumare per cre-scere. Per la prima volta lo scorso anno sono cresciute più leesportazioni italiane in Cina che le importazioni di prodotti ci-nesi in Italia.

Cambiano le direttrici dello sviluppo e gli assetdella crescita, in un mondo che dovrà razio-nare e dividere ogni risorsa, per soddisfarele molteplici e crescenti esigenze. Il nuovomodello di sviluppo si fonda sull’uso piùparco di ogni bene, a cominciare quello pri-mario dell’acqua. Quando si produce e non

solo quando si consuma, occorre sempre pensare a come raziona-lizzare, riutilizzare, riciclare, rinnovare, insomma ottimizzare lerisorse.E quando si parla di risorse oggi si parla di Africa.

Bisogna che l’Africa diventi un partnercon cui agire insieme, in rapporto win-win

Con la crisi economicasono cambiate le direttrici dello sviluppoe gli asset della crescita

DI STEFANO CALICIURI

AFRICA,un altro mondo

Un continente da vivere e interpretare,per non continuare a cadere nello stesso errore: quello

di giudicarlo secondo criteri occidentali.

Quando si parla di Africa non bi-sogna cadere nell’errore di volerladescrivere e giudicare secondo icanoni occidentali. L’Africa non èsoltanto un altro continente, maè soprattutto un altro mondo. Unmondo che per conoscerlo biso-gna innanzitutto viverlo, primaancora che studiarlo. Soltanto inquesto modo ci si rende contoche, ad esempio, tre concetti pernoi fondamentali, in Africa ven-gono svuotati di ogni significato.Tempo, democrazia e famiglianon possono essere analizzati se-condo le nostre comuni convin-zioni ma occorreuno sforzo di im-medesimazione. Ledif ferenze sonodettate sia da di-versi substrati an-tropologici , s iadalle diverse abitu-dini quotidiane. Accanto all’Africa povera delleguerre etniche e a quella coloratadei mondiali di calcio, ne esisteun’altra, spesso sconosciuta, avolte contraddittoria. L’Africa delnomadismo e dei pastori; l’Africadei capi-villaggio e delle istitu-zioni, l’Africa della cooperazionee delle missioni religiose. Forseun’Africa non proprio politica-mente corretta ma sicuramenteun’Africa più vera. Per avere un’idea della diversaprospettiva che utilizziamo quan-do ci occupiamo di Africa, è suf-ficiente esaminare alcuni fra imolteplici progetti di cooperazio-ne internazionale che operano nelcontinente africano. Spesso nontengono conto delle reali necessi-

tà locali, perché sono ideati damentalità occidentali e seguendocriteri ed esigenze occidentali.Ad esempio, intervenire per co-struire un deposito di grano ga-rantisce certamente la conserva-zione del raccolto per la stagionein corso; ma se l’anno successivola regione sarà colta dalla siccitànessuno penserà alla manutenzio-ne della struttura perché la prio-rità diventerà la ricerca di un ter-reno fertile. La canna da pesca èimportante per catturare il pesce,però poi ci vuole qualcuno chesappia spiegare anche come tro-

vare le esche. Ma siamo sicuriche la mentalitàoccidentale s iasempre e comun-que quella domi-nante, quella daesportare e da in-culcare anche a

popolazioni che hanno necessità estili di vita profondamente diver-si dai nostri? Vivere di nomadi-smo o di pastorizia presupponedelle difficoltà che le società in-dustrializzate e sedentarie neppu-re possono immaginare. Ed allo-ra, perché proporre anche in Afri-ca un modello che poco ha a chefare con la mentalità e le radicilocali?Nella nostra società il tempo è al-la base di ogni attività: dal sem-plice appuntamento alla normalescansione della giornata, non sipuò vivere senza un riferimentotemporale. In Africa non è così:non esiste il concetto di puntuali-tà, non esiste il concetto di “ap-puntamento”. Il ritmo è condi-

INTRODUZIONEStefano Caliciuri

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Accanto all’Africa povera delle guerree a quella dei mondialidi calcio, ne esiste una spesso sconosciuta

zionato dalla luce. Con la luce sifa quello che si deve fare, con ilbuio ci si riposa. Gli incontri isti-tuzionali sono fissati, infatti, sol-tanto seguendo il giorno sul ca-lendario ma senza indicare unorario preciso. Saranno le condi-zioni del momento a stabilirequando l’incontro potrà comin-ciare e solitamente succede quan-do “ci sono tutti i partecipanti”,senza fretta e senza pressione. Nell’Africa nera, l’enorme areacontinentale al di sotto del deser-to del Sahara, i rapporti fra lepersone sono basati essenzialmen-te sulla pura con-servazione dellaspecie, che oltre-tutto significa ga-rantire forza lavoroalla famiglia. Ilruolo principaledella donna è quel-lo di procreare,quello dell’uomo è lavorare. Ilsesso è puro sfogo, da cui conse-gue il concepimento. Non esistela figura della moglie ma delladonna in quanto tale, che procreae vende i prodotti al mercato,sempre dove esso esiste. Soltantoconoscendo questi rapporti inter-personali è possibile analizzare ilproblema relativo alla diffusionedell’Aids. Spesso, invece, gli occi-dentali vorrebbero intervenire se-guendo i loro schemi e canoni so-ciali. L’incidenza della malattia èesponenziale vicino i fiumi, men-tre nei villaggi interni l’Aids èpressoché assente. Per conoscernei motivi è sufficiente analizzare lageomorfologia del territorio: learee verdi adiacenti i corsi d’ac-

qua sono zone di intensi traffici escambi commerciali. E di conse-guenza anche la promiscuità èben maggiore rispetto alle areeinterne, non fornite di attracchi oponti. Al contrario, all’internodei villaggi patriarcali la vita è ri-stretta al solo mantenimentodell’ordine costituito, alla soprav-vivenza della tribù e alla salva-guardia del suo nucleo. Non ci sisposta, se non alla ricerca di terre-ni coltivabili. I rapporti, dunque,vengono consumati soltanto conpersone dello stesso villaggio at-traverso cui si garantisce la so-

pravvivenza dellacomunità. Eccoperché non è pen-sabile che si possatrovare risposta alp rob l ema de l -l’Aids con la sem-plice distribuzionedi preservativi:

l’atto sessuale è visto come unanecessità fisiologica ed in quantotale non può essere né previstatanto meno pianificata. Si fa e ba-sta, senza preamboli o sovrastrut-ture. L’errore di fondo commesso dallesocietà industrializzate è che dasempre hanno considerato il con-tinente africano come una zonada spartirsi, senza tenere in mini-ma considerazione gli interessidella popolazione autoctona. Ba-sti pensare alla secolare domina-zione coloniale ed alla conseguen-te suddivisione artificiosa del ter-ritorio. I confini sono stati trac-ciati non tenendo conto delle rea-li etnie ed appartenenze tribalidegli abitanti. I confini disegnati

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In Africa il ritmo è condizionato dalla luce, con la lucesi deve fare, con il buio ci si riposa

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a tavolino, infatti, ancora oggiuniscono realtà diversissime traloro. Un esempio per tutti èquello dell’Etiopia: i Tigrini pre-senti nel nord del paese hanno ca-ratteristiche somatiche minute eregolari, mentre al sud sono pre-senti i villaggi dei Suri, etnia chevive ancora quasi allo stato pri-mitivo, conosciuta dagli occiden-tali per l’usanza femminile di in-serire un piattello nel labbro infe-riore. In tali società tribali è quindi dif-ficile parlare di democrazia. Biso-gnerebbe invece parlare di normedi comportamento o di abitudinisociali, spesso inconcepibili pernoi. Il saggio del paese, o il con-siglio dei saggi, rappresenta tuttie le decisioni finali non possonoessere messe in discussione. Gliequilibri interni si fondano sul

diritto di occupare una terra: èquesta la causa principale scate-nante le guerre tra villaggi. Per leregioni con importanti giacimen-ti (soprattutto coltan e diamanti),invece, il discorso è molto diver-so: in questo caso entrano in gio-co le forze straniere (soprattuttoUsa e Cina, ma in passato ancheFrancia e Olanda) che finanzianoe armano i villaggi e le tribù ac-canto ai giacimenti per conserva-re l’ordine stabilito.Le cronache hanno spesso riporta-to degli eccidi tra gli Hutu e iTutsi in Rwanda, ma quasi maihanno spiegato che la causa ditutto furono i finanziamenti pri-ma concessi e poi ritirati dallaFrancia, una sorta di doppio gio-co che ha favorito l’armamentodei villaggi e il loro successivoannientamento. Anche le istitu-

INTRODUZIONEStefano Caliciuri

stefano caliciuri

Giornalista professionista, già consulente per

la comunicazione del ministero degli Affari

esteri, lavora attualmente al ministero della

Funzione pubblica. Collabora con Il Giornale,

Il Secolo d’Italia e Ffwebmagazine. Ha pubbli-

cato il volume Giovani nel merito per I tipi di

Rubbettino Editore. .

L’Autore

zioni che pian piano stanno cer-cando di accreditarsi sulla scenainternazionale in realtà hannodentro di sé molte contraddizio-ni: basti pensare all’Unione afri-cana, una sorta di via mezzo tral’Ue e l’Onu, lo scorso anno pre-sieduta da Gheddafi, oppure alsuo segretario generale, il sino-africano Jean Ping, corporaturaorientale e pelle nera, una sorta dipersonificazione dell’attuale si-tuazione del continente. All’azione ufficiale dei governi,però, bisogna aggiungere anchel’attività, gratuita e volontaria,dei numerosi missionari presentiin Africa. Costituiscono una sortadi cooperazione non istituzionalee spesso, proprio per l’impegnodiretto, sono i primi a pagarne leconseguenze. Non sono rari, in-fatti, i casi di missionari rapiti oassassinati proprio mentre svolge-vano il loro lavoro di assistenza.Perché vengono uccisi? Semplice-mente perché affiancano le tribùminoritarie del luogo in cui ope-rano e dunque vengono visti co-me nemici dell’ordine costituito.A differenza dei cooperanti (chesvolgono progetti che inglobanotutti, e quindi “non danno fasti-dio”) i missionari sono oggettodegli assalti delle tribù armateche, uccidendoli, intendono man-tenere lo status quo. Cogliendo l’occasione del primomondiale di calcio organizzato inAfrica, non si poteva dunque nonparlare del paese ospitante, il Su-dafrica. Dopo le vergognose leggirazziali, per paura di tornare alvecchio ma anche per dimostrareagli occhi dell’Occidente che

l’apartheid è cosa passata, è in at-to una sorta di “apartheid alla ro-vescia” ai danni dei bianchi diorigine europea: ghetti in cui ibianchi vivono con i bianchi e lecui case sono sorvegliate conguardie armate ventiquattr’ore algiorno. Questo numero di Charta minuta,dunque, cerca di delineare unquadro della situazione africana,al di là degli stereotipi o precon-cetti. Innanzitutto distinguendole diverse Afriche presenti inAfrica: mondo arabo, corno orien-tale, zona subsahariana, Sudafrica.Senza dimenticare che anche l’Ita-lia, agli inizi del Novecento, hacercato di colonizzare parte delcontinente. Soltanto recentementeci siamo resi conto dell’errore e,trascorsi 50 anni dall’occupazio-ne, siamo gli unici ad aver ricono-sciuto lo sbaglio ed aver in qual-che modo ripagato il prezzo del-l’invasore: all’Etiopia è stato ri-consegnato l’obelisco di Axum,alla Libia è stato concesso un ac-cordo in infrastrutture di 5 mi-liardi di dollari. La speranza è cheanche altri paesi seguano l’esem-pio italiano e sappiano, con umil-tà, riparare i loro errori storici.

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Nel delineare oggi i temi princi-pali della geopolitica e della ge-oeconomica dell’Unione europearispetto all’Africa a sud del Saha-ra (e nella nascente Unione afri-cana), pochi ricordano come granparte di queste tematiche venis-sero esaminate in un documento“europeo”, ossia non di singoliStati del Vecchio Continente madell’Europa in via d’integrazione,quasi subito dopo la secondaguerra mondiale in un documen-to redatto da un gruppo di esper-ti su incarico del Consiglio d’Eu-ropa e presentato nel 1957 al-l’Assemblea parlamentare dell’or-ganizzazione: il Piano di Stra-sburgo. Frutto di un’elaborazionecomplessa e non banale – unaprima versione era stata redatta

nel 1952 –, aveva l’obiettivo dipermettere «all’Europa ed ai Pae-si aventi legami costituzionalicon essa» di costituire, «tra la zo-na collettivistica e quella del dol-laro, una terza zona economicacapace di equilibrare gli scambicon le prime due». Un disegno,se lo si legge con gli occhi di og-gi, lungimirante anche a ragionedi alcune indicazioni specifiche:in breve, una duplice liberalizza-zione degli scambi sia tra gli Sta-ti africani sia tra questi ultimi ele potenze coloniali (allora quasisul punto di passare il testimo-ne), coordinamento delle politi-che commerciali (anche tramitetariffe doganali preferenziali);contratti a lungo termine per al-cune materie prime e prodotti di

Il continentedel XXI secolo

DI GIUSEPPE PENNISI

Dal Piano di Strasburgo ai giorni nostri, passando per la lunga parentesi della Guerra Fredda, ecco come è cambiato il ruolo geopolitico dell’Africae come può ancora evolversi, positivamente, in questo secolo.

Percorsi strategici

GEOPOLITICAGiuseppe Pennisi

base; una banca euro-africana,modellata più o meno sulla Ban-ca mondiale. In parallelo, il Con-siglio d’Europa varava una diret-tiva intesa a «far formulare ogniproposta innovatrice capace di fa-vorire lo sviluppo economico esociale dell’Africa tramite unacooperazione su un piede di pari-tà nel seno di una comunità euroafricana». Tenendo conto del lin-guaggio dell’epoca – ad esempioil richiamo all’Euroafrique ipotiz-zata da Etienne Antonelli nellontano 1924 – è chiara l’indica-zione di un rapporto preferenzia-le tra un’Europa in via d’integra-zione ed un’Africa allora formatain gran parte da colonie. Talerapporto sarebbe dovuto essere lastella polare una volta avviato il

processo d’integrazione europea ecompiuta l’indipendenza di nu-merosi paesi africani.I due percorsi iniziarono quasicontemporaneamente; nel 1958,cominciò ad operare l’Europa asei con l’obiettivo di formare unmercato comune ed aggregare ri-sorse e potenzialità in alcuni set-tori funzionali specifici (uso paci-fico dell’energia atomica, metal-lurgia e siderurgia, sostegnodell’agricoltura) e nel 1960-64gran parte dell’Africa a sud delSahara assunse la piena indipen-denza.Sappiamo come è andata. Il dise-gno del Piano di Strasburgo èstato ben presto abbandonato. Daun lato, l’Europa a sei strinse ac-cordi di associazione (basati su

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zone di libero scambio parallelema imperfette ed un Fondo diaiuti allo sviluppo) con i paesicon cui aveva avuto “legami co-stituzionali”. Da un altro, moltiStati di nuova indipendenzanon si rivelarono all’altezzadella situazione, come docu-mentò l’economista agrariofrancese (simpatizzante perl’Africa) René Dumont. Da unaltro ancora, nel disegno di unrapporto privilegiato tra l’Eu-ropa e l’Africa subsahariana, siinserì la Guerra Fredda. La si-tuazione non cambiò sostan-zialmente nean-che quando a par-tire dal 1972 laComunità euro-pe a s i a l l a rgòprogressivamen-te , inc ludendogran parte degliStati che avevanood avevano avuto “legami costi-tuzionali” con l’Africa.

La Guerra FreddaAl momento dell’indipendenzae negli anni immediatamentesuccessivi, solamente pochi Statiafricani (esempi importanti sonostati la Guinea ed il Mali nellacosta occidentale e, in parte, laTanzania in quella orientale)cessarono il rapporto privilegia-to con quelle che erano state leloro metropoli o gli Stati euro-pei titolari di “amministrazionifiduciarie” per conto delle Na-zioni Unite. Nell’arco di un pa-io di lustri, però, l’Africa a suddel Sahara diventò non solamen-te campo di battaglia della

Guerra Fredda, ma anche dicompetizione tra i singoli Statieuropei pur uniti nella Comuni-tà con sede a Bruxelles.È interessante, ad esempio, soffer-marci sul ruolo quanto meno am-biguo della Francia. Amara peravere perso alcune ex colonie (laGuinea ed il Mali si erano salda-mente collocati nel blocco sovie-tico) ambiva ad ampliare la pro-pria sfera altrove. Un tentativo,peraltro, velleitario venne effet-tuato nell’Etiopia ancora imperia-le dove sorse una mini-universitàfrancofona e venne perseguito (tra

l’altro con pocaforza e scarsa coe-renza) il piano dirimpiazzare l’in-glese con il france-se come secondalingua; allora, iprincipali consi-glieri economici

del governo erano britannici e,sotto le guisa di una missionegeografica (la Us Mapping Mis-sion), gli americani vigilavanosulle sorti del traballante impero.Più coerente e portato avanti conmaggiore determinazione, il ten-tativo di soppiantare il Belgionella regione dei Grandi Laghi.Pochi sanno che la capitale delBurundi (Bujumbura) è stata peranni una centrale dello spionag-gio russo, americano, francese ebelga: dalle stazioni radar di Bu-jumbura, infatti, si controlla loShaba (un tempo chiamato Ka-tanga), una delle regioni minera-rie più importanti al mondo.Ancora negli anni Novanta, iTutsi che, dopo trent’anni d’esi-

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Durante la Guerra Freddal’Africa subsaharianadiventò un “campo di battaglia” per i singoliStati europei

lio in Uganda, hanno conquista-to il Ruanda, il Burundi e lostesso Congo, sono stati adde-strati ed armati dai francesi, incompetizione con gli americanied i belgi (allora il blocco orien-tale si era spappolato).Più astuto, per molti aspetti, ilruolo della Cina. Privilegiavasoltanto in apparenza gli Statientrati nell’area socialista, macorteggiava (già negli anni Ses-santa e Settanta) quelli con im-portanti risorse naturali (il Con-go allora denominano Zaire) e siteneva alla larga da quelli cheavevano rapportip r iv i l eg i a t i conl’Urss e l’Europaorientale a sociali-smo reale (Etiopiadopo la fine dell’im-pero, Somalia, Mo-zambico, Angola).A molti paesi davaun pacchetto d’aiuti bello e fat-to: stadio, campi sportivi, pisci-ne e teatro all’aperto. A Tanza-nia e Zambia aggiunse la ferro-via Tam-Zam per trasportare ilrame delle miniere ai porti sen-za giungere a quelli del Sudafri-ca e di colonie (allora portoghe-si). Non guardò molto per ilsottile costruendo per il filo-americano Zaire guidato da Mo-butu la “città ideale” di N’Seléraggiungibile da Kinshasa inpoche ore di navigazione fluvia-le. Modesti i risultati in attivitàproduttive: addirittura disastro-si quelli all’Office di Niger(l’ente del Mali per il controllodelle acque, l’irrigazione e, so-prattutto, la produzione di riso).

Ancora meno brillanti gli inter-venti in Madagascar nonostanteil gruppo dirigente fosse nonafricano ma polinesiano e parlas-se una lingua di ceppo indone-siano e malesiano.Molto declamatoria ma poco ef-ficace la funzione dell’Unionesovietica. I rapporti privilegiaticon la Guinea ed il Mali si dete-riorano nell’arco di pochi anni.L’Urss ottenne un ruolo impor-tante, per un periodo, in Somaliaprincipalmente come riflesso diquello che gli Usa avevano nel-l’impero d’Etiopia; poco amati

dalla popolazio-ne somala, arte-fici di progettiquanto meno bi-s lacchi (comequello del mat-tatoio di Moga-discio), alzaronoi tacchi non ap-

pena Menghistu defenestrò Hai-lé Selassié. Fornirono armi al re-gime socialista etiope, ma prefe-rirono affidare una funzione po-litica ed economica a quella cheallora veniva chiamata Repub-blica democratica tedesca (moltopresente pure in Mozambico edAngola) nelle cui università pe-raltro molti leader africani hannostudiato.In breve, nel perdurare dellaGuerra Fredda l’Africa subsaha-riana è stata uno scacchiere amacchia di leopardo dove, però,l’Europa in quanto tale ha pro-gressivamente perso il prestigioed il peso che pareva avere al mo-mento dell’indipendenza di mol-ti Stati. A ciò hanno contribuito

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Nello scacchiere africano l’Europa ha perso il prestigioche aveva al momentodell’indipendenza

GEOPOLITICAGiuseppe Pennisi

non solamente le differenti e di-vergenti strategie di vari Stati diquella che sarebbe diventatal’Unione europea ma anche la de-cisione, per taluni aspetti corret-

ta ma fonda-mentalmenterinunciataria,delle delega-z i on i d e l l a

Commissione europea nei variStati; hanno sempre avuto laconsegna di occuparsi quasiesclusivamente di problemi tec-nici e microeconomici dei singoliprogetti, evitando quelli macroe-conomici e delle politiche di svi-luppo. In pratica, le rappresentan-ze del Fondo monetario e dellaBanca mondiale (pur con un orga-nico molto ridotto rispetto a quel-lo delle delegazioni della Com-missione) incidevano sulla macro-economia e sulle politiche di svi-luppo molto di più degli europeiin quanto tali. Non ha avvantag-giato l’Europa, inoltre, l’attenzio-ne comparativamente scarsa allavalutazione dei progetti a valeresul Fondo europeo di sviluppo.

Dopo la Guerra Fredda. Le determinanti della crisi

Dopo il crollode l muro d iBerlino, la si-tuazione nel-l’Africa subsha-riana (tranne

poche eccezioni) non è migliora-ta ma peggiorata. Da un canto, sisono scatenate pandemie nuove(Aids) e sono mutate diventandopiù aggressive quelle vecchie(malaria, tubercolosi, oncocerco-

si). Da un altro ancora, si sonoscatenate quelle locali per motivietnico-tribali od anche futili co-me l’esito di una partita di cac-cia. Ad un certo momento, eranoin corso 24 guerre dichiarate eguerreggiate. Attualmente, laSomalia appare disintegrata, il

La scarsa attenzione ai progetti del Fondo europeo di sviluppo hasvantaggiato l’Europa

Dopo il crollo del Muro, la situazione di molti Stati peggiorò ulteriormente

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GEOPOLITICAGiuseppe Pennisi

Sudan afflitto da movimenti se-paratisti che 20 anni fa appariva-no in via di pacificazione, unodegli Stati un tempo consideratipiù moderni, la Costa d’Avorio,diviso in due (dopo un conflitto),uno dei più ricchi (il Congo) difatto dominato da Tutsi del

Ruanda (dopo ben 30 anni di esi-lio in Uganda). Nell’ultimoquarto di secolo, si sono succedu-ti studi su studi. Cerchiamo dicomprendere le determinantidella crisi. L’economia dit r a t ta o s s i al ’ imp o v e r i -mento delle ri-sorse umanedovuto a l l atratta degli schiavi. Considerataper decenni una delle ragioniprincipali del mancato sviluppo,la storiografia moderna documen-ta che, specialmente nella costaoccidentale, la schiavitù era am-piamente praticata sia negli impe-ri del Mali e del Benin sia nel re-gno degli Ashanti e dei Dogon siain formazioni politiche minori: illavoro (non la terra) veniva consi-derato il principale fattore di pro-duzione e la schiavitù veniva pra-ticata nei confronti di prigionieridi guerra e di debitori.Un secondo fattore è la distanzadalla moderna scienza e tecnolo-gia. Un’analisi, ancora inedita del-l’Università di Capetown, docu-menta, in primo luogo, che le excolonie britanniche hanno riporta-to (negli ultimi50 anni) un an-damento econo-mico miglioredelle ex coloniefrancesi e moltomigliore di quello delle ex coloniebelghe e portoghesi. Utilizzandouna strumentazione statistica raf-finata, lo studio quantizza che nelmodello britannico, si massimiz-zava l’obiettivo di sviluppare capi-

Le colonie inglesi si sono sviluppate

più di quelle francesi dopo l’indipendenza

Nel modello britannicosi massimizzava

lo sviluppo di capitaleumano di qualità

tale umano di alta qualità adun’élite ristretta mentre in quellofrancese, pur rivolgendosi sempread un’élite ristretta, si massimizza-va quello di sviluppare capitaleumano “assimilato” (alla metro-poli) ma di scarsa qualità. Ciòspiega le differenze in distanza dimoderne scienze e tecnologia especialmente di governo della co-sa pubblica.Circa le determinanti della deco-lonizzazione di cinque lustri or-sono, è ancora un lavoro ineditodella Università di Capetown adare una lettura nuova – come ènoto solo in pochi Stati dell’Afri-ca a sud del Sahara (il caso più si-gnificativo è la rivolta Mau Mauin Kenia) si è combattuto perl’indipendenza – al fenomeno. Lanatura del capitale umano trasfe-rito dalle potenze coloniali spie-ga i processi di decolonizzazione,la loro tempistica ed i nessi conla ex metropoli dopo l’indipen-denza. Spiega anche il proliferaredi governi “proprietari” che con-sideravano la cosa pubblica comeloro appannaggio privato.Altro problema è la perdita con-tinua di capitale umano. Nono-stante la vastissima disponibilitàdi risorse naturali il deflusso dicapitale umano (essenziale perrenderle produttive) è continua-to dopo l’indipendenza. E prose-gue ancora tanto che si parla diun vero e proprio brain draindall’Africa subsahariana. Un la-voro interessante è stato prodot-to all’inizio di gennaio dall’Isti-tuto tedesco di analisi sui pro-blemi del lavoro. Sulla base didati dal 1990 al 2001 di emi-

grazione verso l’Ue, viene testataeconometricamente l’ipotesi se-condo cui è la formazione di ca-pitale umano, oltre alle affinitàcon le metropoli di un tempo,ad orientare i flussi. Non sola-mente partono i più preparati (oquanto meno coloro che hanno ititoli di studio più elevati), male mete preferite paiono essere,in quest’ordine, il Portogallo, ilRegno Unito, il Belgio, la Ger-mania e l’Italia, con Francia eSpagna ultime ed ex aequo. L’esi-stenza di reti e di più alti tenoridi vita e di maggiori opportuni-tà contribuiscono al brain drain.

Le prospettiveAltri articoli in questo fascicoloesaminano aspetti puntuali (co-me i rapporti tra Africa a sud delSahara e Cina e la competizionein Europa per concessioni perl’uso di risorse naturali del conti-nente). La Banca mondiale e laBanca africana per lo sviluppopubblicano periodicamente indi-catori di sviluppo dei singoli Sta-ti e rapporti sulle storie di suc-cesso e sulle lezioni che da talistorie si possono apprendere. So-no note, poi, le attività di grandiimprese italiane (ad esempio,l’Eni) nella vasta regione. A conclusione di questo articolosarebbe banale ripetere ciò che al-tri hanno già detto, fornendo unamaggiore e migliore base empiri-ca. Il rinnovato interesse perl’Africa subsahariana è di buonauspicio se vuole dire maggioririsorse finanziarie e tecniche dalresto del mondo ed un miglioregoverno interno di quelle natura-

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li disponibili. L’Africa a sud delSahara può diventare un’area dicrescita e di sviluppo del XXI se-colo, dopo avere mancato gli ap-puntamenti del XX.Ci sono, però, due condizioni: ri-tornare (con gli aggiornamentiappropriati) al Piano di Strasbur-go nel senso di dare una rispostaeuropea non dei singoli Stati del-l’Ue alla sfida del continente. So-lo in questo modo, si potrà evita-re una nuova Guerra Fredda emassimizzare l’impiego delle ri-sorse disponibili, puntando sulcapitale umano, il vincolo mag-giore al decollo ed allo sviluppodell’Africa subsahariana.

Questo articolo riguarda i nessi traEuropa e Africa a sud del Sahara; irapporti con l’Africa mediterraneapresentano problematiche molto diffe-renti. Ho lavorato per diversi annisull’Africa subsahariana quando,nel 1967-1982, ero in Banca mon-diale, nel 1986-89, alla Fao e allametà degli anni Novanta venni invi-tato dalla Banca mondiale a collabo-rare al programma per la ricostruzio-ne postbellica dell’Angola. In questolungo arco di tempo, ho avuto moltiamici africani veri e sinceri, in parti-colare Peter Gauchati, leader MauMau, imprenditore kenyota e a lungosegretario permanente all’Istruzione;Million Neqniq, ministro dello Svi-luppo dell’Etiopia, Trevor Combe del-l’Università dello Zambia e KamaSywor Kamanda, consigliere economi-co del presidente dello Zaire. Ringra-zio Charta minuta per avermi datol’opportunità di tornare con la memo-ria a quegli anni ed ad amici moltocari. G.P.

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giuseppe pennisi

Docente di economia all’Università europea di

Roma e all’Università di Malta.

L’Autore

Bibliografia

Agbor J, Fedderke J-W, Viegi N(2010) A Theory of Colonial Gover-nance University of Capetown, incorso di pubblicazione.

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Pennisi G. (1967) L’Europa e il Sud delmondo”, Bologna, Il Mulino.

Thorton J. (2010) L’Africa e gli afri-cani nella formazione nel mondo atlan-tico”, Bologna Il Mulino.

GEOPOLITICAGiuseppe Pennisi

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Non abbiamo bisognodel vostro paternalismo

DI ABDOULAYE WADE

Il presidente senegalese è uno dei protagonisti della nuova Africa, un continente che ha deciso di far capire

all’Occidente che non ha bisogno di elemosinama di infrastrutture, regole, concreti aiutiallo sviluppo. Senza questo cambiodi prospettiva, la Cina è sempre più vicina.

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Discorso tenuto in occasione del conve-gno Italy&Africa Partners in Busi-ness organizzato a Roma il 25-26giugno 2009 dal ministero dello Svi-luppo economico.

Sono molto felice di essere oggiqui insieme a voi in questo in-contro sulla cooperazione fral’Italia e l’Africa. Alcuni, non so-lo qui ma anche in Africa, po-trebbero stupirsi della mia pre-senza qui, visto che sono un capodi Stato, ma ho scelto liberamen-te di venire perché dietro le for-malità protocollari ci sono le real-tà e gli interessi degli Stati. Sonoquindi molto contento di esserequi con voi e di aver accettatol’invito del vice presidente Tajaniche ho conosciuto ad Addis Abe-ba in qualità di rappresentantedell’Unione europea, occasione incui l’ho sentito parlare un lin-guaggio nuovo rispetto a tuttiquelli che lo avevano preceduto.Abbiamo visto un uomo che fi-nalmente aveva compreso quelloche volevamo e non quello chegli altri vogliono per noi. Ha ca-pito che la nostra priorità, perchéanche noi abbiamo una nostrascala di priorità, sono le infra-strutture. Ed è la ragione per cuiho voluto accettare, in qualitànon tanto di presidente del Sene-gal ma di coordinatore del settoreinfrastrutturale del Nepad, il suoinvito e venire a vedere quali be-nefici l’Africa può trarre dallanuova concezione dell’Unione eu-ropea in termini di infrastrutture.Sono quindi venuto qui in sedutadi lavoro, infatti dal punto di vi-sta del protocollo io per il presi-

dente della Repubblica Italiana eper il presidente del ConsiglioItaliano, che saluto e che rispettoe che vedrò presto visto che Ber-lusconi mi ha gentilmente invita-to a titolo personale a partecipareal G8, non esisto qui in questomomento. Sono venuto qui perdiscutere di problemi molto pra-tici, perché per me il tempo èprezioso.Vorrei ringraziarvi e ringraziare inostri amici che hanno voluto ri-cevermi e darmi la parola in qua-lità di coordinatore delle infra-strutture e di altri settori come letecnologie dell’informazione edella comunicazione, l’energia el’ambiente del Nepad. Il Nepad èil nuovo partenariato economicoper lo sviluppo dell’Africa, in in-glese New Partnership of AfricanDevelopment, da cui la sigla Ne-pad. Noi africani abbiamo riflet-tuto per definire come vogliamosviluppare l’Africa a partire daquelli che chiamiamo settori, chenon sono i settori economici clas-sici, quelli che chiamiamo i setto-ri di Collins-Clarck, ovvero l’agri-coltura, l’industria e il terziario,bensì dei settori di determinateattività economiche fondamentaliche chiamiamo filiere. Abbiamodiscusso a lungo e il risultato èstata la definizione di otto settoriessenziali per lo sviluppo. In pri-mo luogo le infrastrutture, a se-guire l’istruzione, la sanità, l’agri-coltura, l’ambiente, l’energia, letecnologie dell’informazione e del-la comunicazione e infine le espor-tazioni, fra cui il turismo. Abbia-mo classificato questi otto settoriin settori direttamente produttivi,

L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

come l’agricoltura o l’industria, esettori “irriganti” ovvero settori icui effetti si diffondono in tuttal’economia, come ad esempio letecnologie dell’informazione e del-la comunicazione, l’energia, ecc.

Tutto questoper farvi com-prendere cheabbiamo defi-nito un percor-

so di sviluppo razionale. Perchéper troppo tempo i nostri amicieuropei hanno definito quelleche erano le loro priorità e perloro la priorità era l’Aids, la ma-laria, l’immigrazione. Per noi in-vece la priorità va alle infrastrut-ture. Se anche non ci fosse piùAids, più malaria, l’Africa rimar-rebbe un continente sottosvilup-pato. Qualche giorno fa in Ger-mania ho iniziato dicendo “Perfavore, non cominciate a dire checi aiuterete a lottare control’Aids o la malaria”. L’Africa nonè malata! L’Africa è sana. Esisto-no delle malattie come ne esisto-no in tutto il mondo. E invece siparla sempre e solo di Aids, dimalaria, di tubercolosi. Vorreiche fosse chiaro che non sono ve-nuto qui per questo. Bisogna

pensare anchealle persone sa-ne, che lavora-no nell’agricol-tura, nelle in-dustrie. Certa-

mente le malattie devono esserecurate, bisogna portare avanti laricerca scientifica, ma non biso-gna pensare solo a questo: io nonsono stato eletto per guarire imalati. Sono stato eletto per svi-

luppare un paese, per occuparmidei malati, ma anche per occu-parmi del le persone sane, che so-no numerosissime. Queste visioni unilaterali e pa-ternalistiche non corrispondonoalla nostra visione. Se pensateche, dicendo questo io trascuro lasanità, vi assicuro che vi statesbagliando. Io spendo il 40% delbilancio per l’istruzione ed èl’unico paese che faccia una cosadel genere in tutto il mondo.Quando sono andato in Giappone,prima del mio intervento ho di-scusso con il Primo Ministro equando gli ho detto quanto spen-do per l’istruzione lui mi ha dettoche il Giappone spende il 30% delbilancio nell’istruzione, ed è co-munque uno dei più importantipaesi del mondo! Ma se noi faccia-

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Le infrastrutture sono la priorità per innescare la rinascitadell’Africa

L’Europa non deve pensare all’Africa solo per le malattie, ma deve occuparsi dello sviluppo

mo questo è perché sappiamo cheè sviluppando il fattore umano chesi combattono anche le malattie.Perché le malattie colpiscono so-prattutto i poveri? Persino inAfrica, le persone colpite dal-l’Aids, dalla malaria o dalla tuber-colosi sono soprattutto i poveri. Iospendo il 12% del bilancio delloStato per la sanità: non è sicura-mente sufficiente, ma ho volutoprivilegiare l’istruzione perché soche una parte di questa spesa an-drà comunque nella sanità. Torniamo a parlare delle infra-strutture: quali infrastrutture?Purtroppo fino ad oggi in Africaabbiamo avuto delle esperienzenegative per quanto riguarda leinfrastrutture. Si costruisce unastrada, bella, la si inaugura, maquando arriva la stagione delle

piogge, perché noi abbiamo duestagioni, di cui una è appuntoquella delle piogge, la strada ègià deteriorata e si ritorna a uti-lizzare la pista. È per questo chedico che preferisco 10 km distrada fatta co-me le avete voiin Europa ,piuttosto che1000 km distrada che comportano una con-tinua spesa di manutenzione. Secontinueremo ad accettare questotipo di cose, in futuro l’Africa sa-rà un continente di strade disse-state. Non è possibile continuarea utilizzare la maggior parte dellenostre risorse per la manutenzionedelle strade. È economicamenteassurdo. Costruite strade di quali-tà, così come facciamo in Senegal.Da quando sono stato eletto hovietato al ministro delle Infra-strutture di costruire strade chenon siano della migliore qualità.E ho discusso con il delegatodell’Unione europea, con il presi-dente della Banca mondiale al-l’epoca, ma loro mi hanno dettoche sono i paesi africani a presen-tare i progetti che loro approvano,e probabilmente hanno ragioneperché talvoltagli africani han-no delle aspet-tative trop pobasse e non cer-cano di ottenerela migliore qualità possibile. Iosono diverso, io voglio la migliorequalità in qualsiasi settore.Abbiamo scelto di sviluppare leinfrastrutture perché questo è ilvero problema del nostro conti-

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In Africa le persone colpite

dall’Aids o dallamalaria sono i poveri

Solo sviluppandoil fattore umano

si potranno combattereanche le malattie

L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

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Ghana: la stabilità favorisce gli investimentiGrazie moderatore, grazie signor Celi, colleghi, ministri, spettabili signore e signori, primadi tutto vorrei ringraziare il governo italiano per l'opportunità che ci ha offerto di parteci-pare oggi a questo forum così importante su Italy & Africa Partners in Business. Ritenia-mo che questo sia estremamente importante e significativo perché non tutta l'Europasembra essere in grado di comprendere le potenzialità e le promesse che ci sono in Africae ci complimentiamo con voi per lo sforzo compiuto nel riunirci e nell'aver esposto alla co-munità economica italiana le opportunità che ci sono nel nostro continente. Vorrei ancheportarvi il saluto del nostro presidente, Sua Eccellenza professor John Evens Ata Mills,entrato in carica a gennaio 2009. Ora vorrei darvi qualche informazione sul mio paese, ilGhana.Siamo stati il primo paese subsahariano ad ottenere l'indipendenza nel 1957 e negli ultimi18 anni siamo stati forse l'unico paese subsahariano in grado di tenere cinque elezioni go-vernative democratiche consecutive e due partiti politici che si sono alternati al governo etutto questo si è svolto in un clima pacifico e democratico. Questo vi dice molto sulla sta-bilità del Ghana. Nell'arco dello stesso periodo, ma forse anche negli ultimi 25 anni, ab-biamo assistito ad una costante crescita economica dal 5 al 7% annuo. La nostra econo-mia si è rafforzata e si è estesa, come pure sono aumentate le opportunità per ogni tipo diinvestimento. Siamo principalmente un paese esportatore di cocco e l'oro è forse il secon-do materiale che esportiamo e abbiamo sviluppato un settore non tradizionale che si diri-ge principalmente verso mercati europei, ossia il settore della frutta tropicale, della verdu-ra e dell'orticultura.Ma negli ultimi due anni siamo stati in grado di fare qualcosa di diverso, abbiamo scopertodei giacimenti di petrolio e gas, in base alle informazioni che abbiamo a disposizione, è lascoperta più interessante dopo quella in Guinea Bissau e questo offre l'opportunità di tra-sformare la nostra economia completamente. Per questo motivo, abbiamo stabilitol'obiettivo per il 2020 di diventare un paese a medio reddito.Non vogliamo che le persone continuino a pensare all'Africa come a un paese esportatoreesclusivamente di materie prime, non vogliamo che pensiate che l'Africa a cui dare soloelemosina, perché in Africa e in Ghana ci sono molte opportunità. Esistono opportunitàper uomini d'affari che vogliono trarre vantaggio dai consumatori del nostro continente eche sono pronti a venire e a investire in Africa per produrre beni e servizi per i consumatoriafricani e per l'estero. Esistono opportunità per coloro che vengono e intendono fare busi-ness in modo etico: non siamo interessati a coloro che praticano falsa fatturazione e utiliz-zano scorciatoie e che continuano ad alimentare il ciclo della corruzione, che ha creato dif-ficoltà in molti paesi del nostro continente. Siamo alla ricerca di partner commerciali concui instaurare un rapporto di fiducia e crediamo che gli italiani abbiano dimostrato proprioquesto e per questo vi siamo molto grati.Dobbiamo inoltre esprimere la nostra gratitudine al governo italiano, in modo particolareper gli aiuti economici provenienti dal settore privato per le piccole e medie imprese ghane-si: grazie a questi aiuti sono stati messi a disposizione 10 milioni di euro che finanzieranno ipiù importanti progetti d'impresa ghanese e di recente la somma a disposizione è duplicatacosì ora abbiamo 20 milioni di euro. Concorderete con me nell'affermare che, se finora èstato un successo, è possibile fare ancora di più. Vi invitiamo ad approfittare delle opportu-nità che il nostro paese vi offre, vorremo aiutarvi a trovare la strada che porta ad Accra e afarvi capre che, quando venite in Ghana passate per la porta dell'Africa occidentale. Il no-stro impegno è assicurare che il nostro paese funzioni. Siamo costantemente impegnati a

L’INTERVENTO di Hannah Tetteh*

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L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

nel processo di sviluppo. In Ghana è necessaria una settimana per registrare un'attività mastiamo lavorando per ridurre l'intera procedura a due giorni; ci sono ancora difficoltà nelsettore dei trasporti e della logistica che necessitano di ulteriori investimenti ma siamo im-pegnati anche su questo fronte. Abbiamo zone economiche speciali e zone per il liberoscambio e ne stiamo creando una nella città di Sekondi-Takoradi, città dove abbiamo giaci-menti di petrolio e gas. Vogliamo concentrarci su questa zona posizionata nella valle del pe-trolio e del gas perché crediamo che sia il settore che abbia le potenzialità per creare altreattività commerciali per la piccola e media impresa ghanese.Vi ho già detto che i nostri primi prodotti di esportazione sono il cocco e l'oro, ma non vo-gliamo limitarci ade essere esportatori di materie prime: siamo molto grati alle società chevengono per investire nella lavorazione del cocco e vi invitiamo a fare lo stesso perché cre-diamo nella trasformazione agricola e industriale e vogliamo garantire il processo che al-lontani il nostro popolo dalla povertà. Vogliamo investire anche nel settore delle tecnologie dell'informazione e della comunica-zione e con il ministero del Commercio dell'industria e la Banca mondiale abbiamo realiz-zato un progetto per creare un parco tecnologico. Ma vorremmo fare ancora di più perchécrediamo che, se vogliamo essere la porta verso l'Africa occidentale dobbiamo assicurareche la tecnologia e i servizi finanziari funzionino.Per concludere, quando il nostro primo presidente fece il suo discorso inaugurale disseche l'indipendenza del Ghana non aveva senso senza l'indipendenza del resto dell'Africa.Riteniamo che gli sviluppi in campo economico e sociale debbano essere fermamente an-corati sia all'integrazione regionale a livello della comunità economica degli Stati dell'Afri-ca occidentale sia all'integrazione continentale a livello dell'Unione africana. Dunquequando investite in Ghana, state investendo anche nel resto dell'Africa occidentale e aiu-terete non solo la popolazione ad uscire dal tunnel della povertà ma contribuirete anche acreare opportunità che solo in Africa possono esistere una volta che le nostre risorse sia-no sfruttate nel modo migliore.

*Ministro dell’Industria e commercio della Repubblica del Ghanaripreso dagli atti del convegno Italy & Africa Partners in Business

del 25-26 giugno 2009 a Roma

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nente. Parlando agli americani hochiesto: “Cosa hanno fatto i vostriantenati quando sono arrivati inAmerica nel XIX secolo? Hannoper caso fatto dei calcoli per sta-bilire la redditività delle strade odelle ferrovie che dovevano realiz-zare fra l’est e l’ovest?”. Hannosemplicemente costruito strade eferrovie: le attività economichesono venute dopo. Anche voi eu-ropei avete sviluppato strade na-zionali e internazionali. Certo pervoi la situazione è differente especiale perché tutto quello cheavete oggi è il prodotto di unastoria millenaria, che ha iniziocon i romani. Per noi in Africaserve sviluppare delle strade cheseguano le nostre scelte razionalidi sviluppo. Non è che non cisiano strade, ma le strade costrui-te nel XIX secolo erano stradeche servivano essenzialmente aicolonizzatori, quindi strade cheportano dalle miniere e dai luo-ghi di produzione ai porti: ed ècosì in tutta l’Africa. Anche leferrovie sono scarse: in ben 13paesi le ferrovie non esistono enon sono paesi piccoli. Oggidobbiamo quindi passare da untipo di razionalità ad un altro ebisogna costruire tutto.Non parlerò degli altri settori,mi limiterò a parlare di quellodelle infrastrutture. Quando oc-corre costruire tutto da zero è ov-vio che ci sia bisogno di tuttol’aiuto possibile. Con l’Europaabbiamo avuto delle relazionicontraddittorie: la schiavitù, lacolonizzazione, ma queste sonocose note che devono essere supe-rate. Lo sapete bene voi europei,

voi italiani, visto che la guerramondiale contro la Francia e laGermania non vi ha impedito dicreare un insieme che si chiamaUnione europea per andare insie-me verso la creazione di unagrande comunità. E anche noidobbiamo farlo. Pur rispettandoil dovere delle memorie, ci stia-mo impegnando nella creazionedi una vasta comunità africana:abbiamo gli Stati Uniti d’Africa,ma cooperiamo con gli altri pae-si, e in primo luogo con l’Europa.Spero di farmi capire bene perchétalvolta le mie parole non vengo-no interpretate nel modo corret-to: io non dico che l’Europa nonaiuta l’Africa; non lo direi mai.Nel caso ad esempio del mio pae-se o della Costa d’Avorio gli in-vestimenti francesi sono quellipiù importanti, tuttavia si sta ve-rificando un cambiamento, di cuivi chiedo di essere coscienti. Noisiamo nella cooperazione francesee quando abbiamo avuto bisogno

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di costruire un’autostrada ci sia-mo rivolti alla Banca mondialein Francia e alla Banca africanadi sviluppo che partecipava aquesto progetto, ma i cinesi cihanno detto che avrebbero co-struito loro l’autostrada senzaproblemi. Non lo abbiamo fatto,ma non a causa dei nostri rappor-ti con l’Europa, non abbiamo af-fidato questo lavoro ai cinesi per-ché avevamo altre priorità che inquesto modo non potevano esseresoddisfatte. Non dico quindi chel’Europa non aiuta l’Africa per-ché sarebbe come cambiare la re-altà, dico semplicemente che og-gi esistono delle realtà di cui sia-mo obbligati a tenere conto.L’Europa non è più sola.Abbiamo creato un mondo di li-bero scambio con l’Ocse, che sor-veglia come un grande gendarmetutto il mondo. Bisogna sman-tellare le barriere doganali, biso-gna liberalizzare le esportazioni:sul piano di principio è tutto ve-

ro, ma l’Europa non rispetta leregole. Il commercio è come ungioco e giocare è bello, ma biso-gna in ogni caso rispettarne leregole, e ci sono dei giocatori chenon lo fanno. L’Europa stessa,che ha creato queste regole, nonle rispetta: ha istituito delle sov-venzioni ai propri prodotti cherendono i nostri prodotti noncompetitivi in Europa, e questonon è accettabile! Non si puòcompetere con prodotti che rice-vono delle sovvenzioni. Io sonoun liberale in economia e sonoquindi contro le barriere dogana-li e contro le sovvenzioni ed esi-go che l’Europa rispetti le regole:l’ho detto in tutte le sedi, negliStati Uniti, al G8, ovunque neabbia avuto occasione.Ma non è tutto: esistono degli ac-cordi fra l’Europa e l’Africa chia-mati Epa (Economic partnershipagreements) che dovrebbero per-mettere di costruire delle relazio-ni economiche fra i paesi Acp,Africa, Caraibi, Pacifico, el’Unione europea. Innanzitutto,signor Commissario, vorrei chie-derLe di dire ai nostri amici euro-pei che personalmente non com-prendo le ragioni per cui si conti-nua a mettere insieme l’Africa, iCaraibi e il Pacifico: sono deipaesi che rispetto molto, prestofarò un viaggio nei Caraibi, maquesto non è un buon motivo permetterli tutti nella stessa catego-ria. In questo modo si generalizzae ci si allontana dalla realtà. Esi-stono realtà africane che non han-no niente a che vedere con la Gia-maica o Haiti. E gli europei, persemplificare le cose, hanno deciso

L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

di avere come interlocutore gliAcp: è molto semplice, ma sitratta di realtà molto diversel’una dall’altra. Occorre suddivi-dere: lavorate con l’Africa, lavo-rate con i Caraibi, lavorate con ipaesi del Pacifico, ma prendetel’Africa come una realtà diversada quella di questi altri paesi, al-trimenti resterete sempre lonta-ni dalle realtà locali. Chiudoquesta parentesi con la certezzache Lei saprà farsi interprete del-le mie parole.Per tornare dunque alle relazionifra l’Europa e l’Africa, queste so-no fondate su basistoriche, soprattuttoper il Senegal sonoalmeno tre secoli oanche più, ma oggila realtà è che l’Eu-ropa non è più sola:la Cina, l’India, inparte il Giappone, ilBrasile sono ormai presenti suimercati africani.Per quanto riguarda poi gli ac-cordi di partenariato, abbiamodovuto superare numerose diffi-coltà perché ci siamo rifiutati difirmarli: così come ci sono statipresentati a Bruxelles, gli accordiEpa erano inaccettabili e ho deci-so di rifiutarli. Si parla di colla-borazione Europa-Africa, di libe-ralizzazione degli scambi, diapertura delle frontiere e dismantellamento delle barrieredoganali, ma non è possibile faretutto questo brutalmente, biso-gna farlo gradualmente e occorredefinire le modalità con cui arri-varci. Il primo problema era checi venivano proposti degli accor-

di commerciali, ma la nostra pri-ma priorità non è il commercio,è lo sviluppo. Per commerciarebisogna avere dei prodotti fab-bricati in Africa in condizioni diconcorrenza. Gli Stati Uniti of-frono ad alcuni paesi, fra cui ilSenegal, la possibilità di esporta-re alcuni prodotti senza tariffadoganale e in quantità illimitata.Ebbene, dal Senegal non abbia-mo mai potuto esportare uno so-lo dei prodotti elencati. È inutileoffrire alle persone cose che nonpossono realizzare. Anche l’Euro-pa, quando parla di reciprocità,

di aprire le fron-tiere, parla di co-se senza sensoperché l’Africanon può espor-tarvi nessun pro-dotto, mentre gliitaliani possonoprodurre qualsia-

si prodotto ed esportarlo in Afri-ca. Non è quindi realistico néeconomico ed è per questo moti-vo che diciamo che questi accor-di devono essere prima di tuttodegli accordi di partenariato eco-nomico e non commerciale. Ilcommercio potrà essere inclusosuccessivamente. Se decidessimodi fare degli scambi eliminandole barriere doganali il risultatosarebbe che i paesi africani chericavano una buona parte delleloro risorse dai diritti doganali(fino all’80%) sui prodotti euro-pei finirebbero per pagare lorostessi i loro sviluppi. La rispostaa questo problema, secondo l’Eu-ropa, sarebbero le compensazionifinanziarie. Se noi lasciassimo en-

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L’Ue non è più l’unicopartner commercialeche abbiamo: esistono anche Cina,India e Brasile

trare i prodotti europei abbassan-do le tariffe doganali, la conse-guenza sarebbe la distruzione dialcune industrie in Africa. Equesti effetti economici secondol’Europa potrebbero essere com-pensati con il denaro: è ovvio cheeconomicamente questo sistemanon può funzionare. Il Senegalavrebbe tanti di quei problemiche il denaro ricevuto come com-pensazione sarebbe speso solo percercare di risolverli e non percreare qualcosa. È per questomotivo che abbiamo rifiutato difirmare gli accordi e abbiamochiesto invece aiu-to per svilupparealcune nostre atti-vità affinché pos-s i amo davve roesportare di più inEuropa. Non èuna questione dicompensazione.Oggi, dopo una serie di negozia-ti, abbiamo raggiunto un accor-do: l’Europa ha scelto di negozia-re, non con l’Unione africana,creando così una rottura del pa-rallelismo delle forme (Unioneeuropea con Unione africana), macon le comunità regionali. Si èdeciso così e anche se non ho ap-prezzato questo approccio ho do-vuto comunque rispettarlo. Il Se-negal fa parte della comunitàdell’Africa occidentale. Ci è statodetto di selezionare i nostri pro-getti: ogni paese ha selezionato ipropri e il Senegal ne ha selezio-nati 33, dopodiché verrà presen-tato all’Unione europea un “pac-chetto” su cui si discuterà el’Unione europea ci aiuterà a fi-

nanziare questi progetti. In que-sto modo, gli accordi economici,gli Epa contro cui ho combattutosi stanno trasformando in quelloche chiamiamo un “programmadi sviluppo degli Epa”. Io invecepropongo una nuova denomina-zione di questi accordi, che se-condo me dovrebbero chiamarsiDpa, ovvero Accordi di partena-riato per lo sviluppo (Develop-ment partnership agreements)invece di Accordi di partenariatoeconomico che è troppo genericoe ha un’accezione ormai negati-va. E chiedo a Lei che è così sen-

sibile alle proble-matiche dell’Afri-ca di trasmetterequesto messaggio.Io ho già fattoquesta propostama può darsi chesia entrata da unorecchio e uscita

dall’altro. Ecco dunque quelloche stiamo facendo dal punto divista economico.Il secondo punto di discussione èstato lo smantellamento delle ta-riffe doganali. L’Europa ci hachiesto di indicare un elenco diprodotti, detti “sensibili” suiquali non vogliamo riduzionedelle tariffe doganali ed è quelloche stiamo facendo: stiamo sele-zionando questi prodotti e la di-scussione sta procedendo. Inol-tre, alle quattro categorie di libe-ralizzazione la Nigeria ne ha vo-luta aggiungere una quinta che èquella del petrolio. Se tutto vabene, dovremmo essere in gradodi firmare gli accordi già durantequesto mese di giugno. Se avessi-

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Finalmente l’Europaha deciso di negoziarecon le comunità regionali e non con l’Unione africana

L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

mo firmato gli accordi così comeerano il 31 dicembre scorso, per-ché c’erano paesi come la Costad’Avorio che erano disposti a fir-mare, i paesi i cui prodotti essen-ziali e le cui risorse derivanodall’esportazione di caffè, di ca-cao, sarebbero stati strangolati eobbligati a firmare. Oggi, perfortuna, grazie alla contestazionetutti insieme potremo firmaredegli accordi comuni a tutti ipaesi dell’Africa occidentale epotremo rispettare il nostro sen-so della verità. Tutto questo perdire che esiste un problema.Adesso vorrei parlare dell’Europaper dire semplicemente chel’evoluzione in atto in Europa cipreoccupa non poco. Non tantole misure che in Europa vengonoadottate: l’Europa è un grandepaese che ha tutto il diritto discegliere i propri orientamenti,ma il mondo in cui viene affron-tato il problema dell’immigra-zione. E qui mi sento in doveredi ringraziare l’Italia e la popola-zione italiana. La prima coloniadi immigrazione dal Senegal èl’Italia, grazie all’ospitalità degliitaliani, anche se esistono co-munque dei problemi. Forse per-ché il vostro è un paese di espor-tazione e di emigrazione. A se-guire ci sono la Francia e la Spa-gna. Io però sono contro l’immi-grazione, non contro quella cheha come unica motivazione il gu-sto di partire all’avventura. Sonomillenni che l’uomo si sposta daun paese all’altro ed è sicuramen-te libero di farlo. Ma quando gliuomini sono obbligati a partireperché hanno fame, perché non

hanno un lavoro, è quello chenon funziona. In questi casi lasoluzione non è da ritrovarsi nelvostro paese ma nel nostro. È nelnostro paese che dobbiamo crearelavoro, sviluppo e impiego pertutti quelli che vorrebbero torna-re a casa loro, e vi assicuro chesono davvero numerosi quelli chefanno richiesta di rientrare in Se-negal. È dunque in questo sensoche bisogna lavorare e modificarela nostra cooperazione, soprattut-to in Europa, affinché gli africaniche non vogliono partire possanorimanere nel loro paese. Il pro-getto di coopera-zione con la Fran-cia non è moltovalido: gli “aiutial ritorno” sonosolo filosofia, per-ché gli uominispendono tuttoquello che vienedato loro prima di ritornare enon riportano nulla nel loro pae-se. Al contrario, la particolaritàdella nostra cooperazione con laSpagna è che gli spagnoli hannocapito che io non sono a favoredell’immigrazione. È per questomotivo che in otto giorni di di-scussioni con Zapatero siamoriusciti ad arrivare ad un accordoche ha lo scopo di combattere inmodo risoluto l’immigrazioneselvaggia. La Spagna ci ha aiuta-ti: noi abbiamo dei battelli e de-gli elicotteri e perseguiamo leimbarcazioni e i trafficanti che leorganizzano, li prendiamo e li ri-portiamo nel nostro paese. Equelli che invece riescono, nonimporta come, ad arrivare in

Spagna, vengono rimpatriati sen-za esitazione con un nostro aereo.La sola cosa che chiedo è chequeste persone vengano rispetta-te perché chi va in cerca di un la-voro non è un malvivente. Altempo stesso, la Spagna ha biso-gno di mano d’opera, per cui ab-biamo realizzato un sistema diformazione e di selezione: la Spa-gna ci comunica in quale settorehanno necessità di personale, noili formiamo su richiesta e limandiamo a lavorare in Spagnacon un contratto regolare. Oggifra i 35 e i 40mila senegalesi la-

vorano normal-mente in Spagna,non sono clande-stini e spesso ritor-nano nel loro pae-se. Non bisognagiudicare male laSpagna per il rin-vio degli immi-

grati clandestini perché in realtàsono io che ne ho la responsabili-tà: perché io ho bisogno dei mieigiovani. La Spagna è stata co-struita da giovani come voi. Nonmolto tempo fa era un paese invia di sviluppo come il Portogal-lo, ma hanno lavorato. Senzadubbio anno avuto il supportodell’Unione europea, ma anchenoi, lavorando e cooperando conaltri paesi riusciremo a costruirel’Africa. Io sono sicuro chel’Africa può essere costruita e chesi arriverà a un momento in cuianche noi attireremo persone dapaesi meno sviluppati. In realtàin Senegal sta già accadendo: cer-to, siamo un paese che ha ancoramolti poveri, molta disoccupa-

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L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

È nel nostro paeseche dobbiamo crearelavoro e sviluppo per tutti quelli che vorrebbero tornare

zione, ma molte persone vengonoin Senegal da altri paesi del-l’Africa perché il Senegal si stasviluppando al punto che il red-dito è superiore a quello di altripaesi. Io dico ai nostri giovaniche non devono fuggire per sal-varsi, è una battaglia e devonorestare per battersi per la costru-zione dell’Africa.È per questo che comprendomolto bene l’Italia, comprendo lepressioni che sono state fattedall’Europa su gli italiani perchéliberalizzano troppo e troppe si-tuazioni sono considerate norma-li. Siete in Europa enon potete fare co-me volete, soprat-tutto per quanto ri-guarda l’immigra-zione. Voglio co-munque ribadireche siamo partner,l’immigrazione se-negalese in Italia è in una buonasituazione e beneficia anche dellacooperazione diretta delle societàitaliane e dei sindacati. La coope-razione da parte del settore priva-to è senz’altro un fattore moltoimportante.Questo è quello che volevo direriguardo all’Europa. Ora vorreiinvece parlare dell’Italia. L’Italiaè un paese europeo come gli al-tri, con le sue relazioni conl’Africa, così come la Francia,l’Inghilterra, la Spagna. Tre gior-ni fa ero ad una riunione con Za-patero con l’Ecowas (Economiccommunity of west african sta-tes) durante la quale ha confer-mato la sua intenzione di inten-sificare la cooperazione della Spa-

gna con l’Africa occidentale. Si ètrattato di una vera e propria se-duta di lavoro, non di formalità ediscorsi, durante la quale abbia-mo vagliato tutte le opportunitàche possono derivare dalla coope-razione con la Spagna. La Franciaè un’altra questione, esistono re-lazioni molto particolari con noi,ma voglio parlare in particolaredell’Italia. C’è stato un momen-to, subito dopo l’indipendenza,in cui la cooperazione con l’Italiaera disastrosa, la cooperazionepubblica mal gestita, e voi tuttilo sapete bene, con l’operazione

Mani Pulite, e sodi dire spesso co-se che non si do-vrebbero dire.Anche la coope-razione con ilsettore privatonon è mai statamolto felice. Al-

cuni anni fa abbiamo avutol’esperienza di aziende italianeche hanno realizzato lavori pessi-mi in Africa: strade che si sonorovinate subito, ponti crollati.Eppure tutti sanno che l’Italia èil paese dei costruttori, è la pa-tria dell’architettura, che gli ita-liani sanno costruire ottimi edifi-ci, mi dicevate poco fa che que-sto edificio è stato costruito deci-ne di secoli fa. Ma non basta faredegli edifici di buona qualità, ènecessario anche costruire buonestrade. Dobbiamo quindi creareuna nuova cooperazione dell’Ita-lia con l’Africa: bisogna trovareun nuovo approccio e la cosa piùimportante è quindi sapere qualisono le possibilità. Nel campo

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I cinesi e gli indianici danno i macchinari, i veicoli e i trattoricon pagamenti dilazionati a 20 anni

dei finanziamenti nei settori cheho indicato, ad esempio in quelloagricolo in cui ho lanciato laGoana, la Grande offensiva perl’agricoltura e l’indipendenza cheè stata presa molto sul serio dalgoverno italiano. Oggi l’Europa è un grande mer-cato di prodotti orticoli: societàprivate francesi e spagnole si so-no installate in Senegal e produ-cono ed esportano questi prodot-ti. Abbiamo la terra, l’acqua eanche i lavoratori. Anche l’Italia,che ha grandi capacità nel campodelle culture orticole e frutticole,può senz’altro tro-vare un propriospazio in questosettore. Sono statoinvitato dalla miaamica, la signoraMoratti, a Milano,dove ho trovatoimprenditori ita-liani che ho invitato a venire e alavorare in Senegal. Mi ha colpi-to la differenza di produttivitàfra la produzione di riso in Italiae quella in Senegal: anche se deiproduttori italiani venissero inSenegal per produrre per la loroazienda, ci sarebbe già un trasfe-rimento di conoscenze e di tec-nologia a favore dei produttoriafricani. Invito quindi gli im-prenditori italiani di questi set-tori a venirsi ad installare in Se-negal e in Africa.Bisogna comunque tenere pre-sente che in molti settori, comequello industriale e dei macchi-nari bisogna affrontare la concor-renza della Cina, dell’India e, ameno di grandi cambiamenti

strutturali nella concezione stessadella cooperazione, sarà difficileriuscire a guadagnare quote dimercato. I cinesi e gli indiani cidanno infatti i macchinari, i vei-coli, i trattori che ci servono (neho ordinati 100 in India) con pa-gamenti dilazionati su 15 o 20anni, cosa che gli europei nonfanno. Non parlo dell’Unione eu-ropea, che può fare donazioni ocrediti a lungo termine, parlo diimprese private e, forse mi sba-glio, ma le aziende europee nonsono pronte a operazioni di que-sto tipo. Il credito europeo in ge-

nere si pone nelmedio termine egli africani in que-sto modo non han-no la possibilità dipagare. Gli asiaticinon sono certo deibenefattori e fannoquesto perché han-

no una strategia, cosa che l’Euro-pa, mi dispiace dirlo, non ha. Icinesi e gli indiani investono sulfuturo attraverso le macchine esugli uomini: dovreste vedere laformazione che offrono agli afri-cani. Sono andato in Cina e horicevuto 8 senegalesi. Tutti sta-vano ricevendo una formazionenel campo della finanza e del ma-nagement, nessuno di loro studia-va letteratura o sociologia. La Ci-na offre agli africani corsi di for-mazione con un impegno finan-ziario davvero rilevante. Sul pia-no industriale quindi la qualitàdei prodotti e dei prezzi dell’Eu-ropa non è competitiva, sicura-mente non sui prezzi, forse lo èsulla qualità, anche se i prodotti

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L’INTERVENTOAbdoulaye Wade

Il credito europeoin genere si ponenel medio termine egli africani non hannola possibilità di pagare

cinesi e indiani sono anche essidi buona qualità. L’Europa haanche il problema del credito:l’Africa per il momento non puòfunzionare solo sul credito. Maquesto non vuol dire che non cisia possibilità di fare affari. Lan-ciamo continuamente gare di ap-palto per la costruzione di stradee in quel caso siamo noi a mette-re il denaro necessario e gli ita-liani che io sappia non partecipa-no mai pur avendone la possibili-tà. La signora che mi sostituiràqui è la responsabile dei grandiprogetti in Senegal e potrà ri-spondere a tutte le vostre do-mande in modo preciso e vi diràcome sono gestiti tutti questiprogetti. Ci sono poi ottime op-portunità anche nel campo dellaformazione e della cooperazionescientifica. Sono stato molto col-pito da quello che ho visto a Mi-lano durante una visita alle uni-versità e ai centri di ricerca: sicu-ramente in quel settore abbiamomolto da imparare. Sono prontoa ospitare ricercatori e a progettidi cooperazione fra i centri di ri-cerca italiani e quelli senegalesi.Dicevo poco fa che non capiscocome mai Fiat non abbia maiprovato a venire in Senegal.Hanno provato in Marocco aconcepire un veicolo per il terzomondo ma è stato un fiasco. Gliindiani hanno costruito questotipo di auto per l’Africa. Ma cisono altre possibilità soprattuttoper quanto riguarda i trattori, vi-sto che gli italiani per un certoperiodo sono stati i migliori almondo per la costruzione di trat-tori. Come abbiamo detto,

l’Africa si svilupperà soprattuttonel settore agricolo, quindi ci so-no buone opportunità di investi-mento per l’Italia. Vi chiedo di riflettere a fondo sututti questi argomenti e di orga-nizzare delle tavole rotonde congli africani sia a livello di Unio-ne Europea sia a livello dell’Ita-lia. Da parte nostra, siamo inmolti a pensare che se l’Europarivedesse in parte i propri princi-pi, le modalità di azione e so-prattutto la propria strategia neisuoi rapporti di partenariato conl’Africa, si potrebbero costruirerelazioni fruttuose a lungo termi-ne. Concludo tornando a sugge-rire una riflessione periodica adalto livello: ogni sei mesi ci sidovrebbe incontrare in modomolto informale per stabilire co-sa sta funzionando e cosa no, persuggerire soluzioni e per andareavanti. Vi ringrazio ancora infi-nitamente della vostra attenzionee di avermi dato l’opportunità divenire a spiegare, in quanto ami-co dell’Europa, amico dell’Italia,quello che mi sta veramente acuore e che dovrebbe a mio pare-re essere alla base della nuovacooperazione fra i nostri due con-tinenti. Ancora grazie.

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ABDOULAYE WADEDal primo aprile 2000 è il terzo presidente delSenegal. Laureato in giurisprudenza a Parigi.Iscritto al Partito democratico senegalese(Pds), concorre nelle presidenziali del 2000contro il presidente uscente Abdou Diouf. Nel2001 modifica la costituzione, allungando ilmandato presidenziale da 5 a 7 anni.

L’Autore

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DI ELISABETTA BELLONI

Una priorità etica e

Fedele al suoabitualeimpegno per

lo sviluppoeconomico, culturalee sociale dell’Africasubsahariana, l’Italiarilancia una nuovaconcezionedegli aiuti, perpassare finalmentedal patronagealla partnership.

L’Africa è nostra vicina. Parte es-senziale del destino dell’Europa,per l’Italia è il continente in cuidispiegare la vocazione alla pre-senza solidale e alla collaborazio-ne fra pari che caratterizzano laproiezione internazionale del no-stro paese e la sua politica estera.L’Africa subsahariana è, d’altraparte, destinazione tradizional-mente privilegiata dell’impegnoitaliano per lo sviluppo. Lo ab-biamo codificato con le nuove li-nee guida strategiche per iltriennio 2009-2011 e conferma-to con il loro aggiornamento peril periodo 2010-2012. In en-trambi i casi, la decisione è stataadottata dal massimo organo de-cisionale della cooperazione ita-liana, il Comitato direzionale,sotto la presidenza del ministroFrattini.In Africa sono stati sperimentatii modi d’intervento che costitui-scono, oggi, gli strumenti d’aiu-to più allineati con gli standardinternazionali di cui disponiamo.È in Africa, infine, che sono stateposte le basi per il superamentodei ruoli tradizionali di “paesedonatore” e “paese beneficiario”,attraverso gli obiettivi condivisidella Dichiarazione del millenniodel 2000. Lì, adesso, la cooperazione inter-nazionale allo sviluppo deve pas-sare definitivamente dal patronage

COOPERAZIONEElisabetta Belloni

strategica per l’Italia

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alla partnership. Se vogliamo dav-vero raggiungere gli obiettivi delmillennio, che in Africa trovanoi maggiori ostacoli, ciò deve av-venire seguendo i principi e i cri-teri dell’efficacia degli aiuti, san-citi dalle conferenze di Roma,Parigi e Accra. Occorre, peraltro, puntare anche esoprattutto all’efficacia reale econcreta per lo sviluppo di quantotutti gli attori coinvolti, comin-ciando dagli stessi paesi partnerafricani, intraprendono in vista diun futuro migliore, che cominciasempre dall’impegno responsabilenell’oggi. L’Africa, nostravicina, è per l’Ita-lia un imperativoetico di solidarietàma anche, in que-st’epoca globaliz-zata, un investi-mento strategicoper stringere e rafforzare legamia tutto campo con paesi essenzia-li per la nostra stessa sicurezza,oltre che per un orizzonte comu-ne di pace e di prosperità.Penso all’emigrazione, che nonpotremo mai controllare davve-ro, se non creando nei paesi diprovenienza condizioni economi-che e sociali capaci di radicarvile proprie popolazioni, special-mente le fasce più giovani e me-glio formate. Penso alla sicurezza internaziona-le, perché la lotta al terrorismopassa anche attraverso una giu-stizia sociale e un progresso civi-le che siano alternative vere al fa-natismo e al rancore. Penso a le-gittimi e necessari spazi econo-

mico-commerciali per le nostreimprese, perché attraverso la coo-perazione allo sviluppo si posso-no creare solide e sane premesseper lo sviluppo di rapporti dicollaborazione.Considero, infine, il campo dellestesse relazioni politiche interna-zionali, perché – ad esempio – inambito Onu vige il principio“uno Stato, un voto” e le nostreaspirazioni in termini di candida-ture negli organismi internazio-nali devono poggiarsi anche sulnostro impegno per lo sviluppo. Una priorità etica e nello stesso

tempo strategica,quindi, che ci èben presente comedimostrano, fral’altro, le due mis-sioni in Africa ef-fettuate in un annodal ministro Frat-tini ed i frequenti

incontri, con un rinnovato im-pulso alle attività di cooperazio-ne allo sviluppo.Questa “priorità Africa” dell’Ita-lia è stata evidente in occasionedella nostra presidenza del G8dello scorso anno. Al verticedell’Aquila i leader del G8 hannoconfermato gli impegni di aiutopubblico allo sviluppo già assun-ti, hanno rilanciato i negoziatidell’Organizzazione mondiale delcommercio e avviato il dimezza-mento dei costi delle rimesse de-gli emigrati. Sono state adottate,per la prima volta, due dichiara-zioni congiunte con i paesi afri-cani: una sulla sicurezza alimen-tare, con un impegno di 20 mi-liardi di dollari per lo sviluppo

La “priorità Africa” dell’Italia è stata ribadita dalla nostrapresidenza al vertice del G8 dell’Aquila

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agricolo sostenibile, e una sullerisorse idriche.In Africa subsahariana la coope-razione italiana è attiva nella sa-nità e nell’educazione, nello svi-luppo locale, nella sicurezza ali-mentare, nella gestione delle ac-que e nelle infrastrutture. Inquesti settori vogliamo rafforzarele sinergie con le componenti diquel sistema paese della coopera-zione che siamo impegnati a co-struire. Le università italiane sisono mostrate fortemente inte-ressate ad approfondire la colla-borazione con le università afri-cane, mentre la cooperazione de-centrata di regioni, province ecomuni e le organizzazioni nongovernative manifestano un rin-novato interesse a fare davvero si-stema con la cooperazione delministero degli Esteri. Il mondoimprenditoriale non è da meno,

all’insegna di nuovi modi diguardare allo sviluppo che si fan-no strada.Ampliando così i nostri orizzon-ti, aumenta lo spazio per attivitàinnovative come il convegno, cheabbiamo organizzato a marginedel Sinodo dei vescovi africanidello scorso ottobre, su una nuo-va cultura dello sviluppo in Afri-ca e il progetto Biblioteche deldeserto in Mauritania. Con l’ini-ziativa Smile (Systemic Multistake-holder Italian Leveraging Aid), chesi sta avviando in Mozambico eTunisia, sperimenteremo un nuo-vo modo di favorire lo sviluppoendogeno dei paesi partner, valo-rizzando le eccellenze del siste-ma- Italia in un’ottica di partner-ship pubblico-privato. In Africa subsahariana, le lineeguida triennali individuano do-dici paesi prioritari. Vi sono i

COOPERAZIONEElisabetta Belloni

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partner tradizionali dove la nostracooperazione ha operato con suc-cesso nei decenni scorsi, quali ilMozambico e l’Etiopia (tuttora imaggiori beneficiari dei nostriaiuti a dono), il Senegal, il Gha-na, il Burkina Faso, il Kenya e laMauritania. Anche paesi con si-tuazioni di crisi o fragilità, qualiSudan, Somalia e Sierra Leone,sono fra quelli prioritari. Nonpotrebbe essere diversamente perun paese come l’Italia, che fa del-la pace e della sicurezza uno deipilastri della sua politica estera, apartire dal peacekeeping Onu. Qui concentreremo sempre me-glio le risorse disponibili in set-tori strategici per lo sviluppo so-stenibile dell’Africa come sanità,agricoltura e sicurezza alimenta-re, istruzione, governance e soste-gno alle piccole e medie imprese,ma anche in ambiti dove l’Italiaha acquistato un ruolo di primopiano, quali il ruolo della donna ela protezione dei soggetti vulne-rabili come i bambini e i disabili. L’impegno per la cooperazioneallo sviluppo della Farnesina èstato dunque rilanciato, anchecon una serie d’innovazioni orga-nizzative interne, in parte ancorain corso, su cui non mi soffermoin questa sede. Siamo consapevoli, tuttavia, diun’inadeguatezza crescente a farfronte ai molti impegni assuntidal nostro paese, bilateralmente enelle sedi multilaterali. L’arretra-tezza del nostro quadro normati-vo, che risale a oltre venti anni fa,unita al drastico taglio delle ri-sorse finanziarie – che sarannosoggette ad un’ulteriore significa-

tiva riduzione nel 2011 – e allacronica insufficienza di quelleumane, rende impossibile sfrutta-re appieno le potenzialità, per ilnostro sistema paese e la sua poli-tica estera, di una cooperazionegovernativa pur aggiornata nellesue priorità e strategie e nei suoimetodi. Essendo l’Africa subsaha-riana al centro della nostra attivi-tà, le ricadute negative sull’impe-gno e la presenza del nostro paesein quel decisivo continente sonofacilmente intuibili.Di qui l’importanza di una piùdiffusa e penetrante presa di co-scienza del ruolo della coopera-zione allo sviluppo, per un paesee un popolo generosi e aperti almondo come l’Italia e gli italia-ni. Come Direzione generale perla cooperazione allo sviluppo,siamo attivi in questo senso conidee e proposte su cui, oltre allasocietà civile e al mondo im-prenditoriale, registriamo cre-scente attenzione e sensibilitàanche da parte del mondo politi-co e parlamentare, al di là di lo-giche di schieramento.

elisabetta belloni

Direttore generale della cooperazione allo

sviluppo della Farnesina. Ha ricoperto incari-

chi nelle ambasciate e nelle rappresentanze

permanenti a Vienna e a Bratislava. Dal no-

vembre 2004 al giugno 2008 ha diretto l’Uni-

tà di crisi del ministero degli Affari esteri.

L’Autore

Serve un cambio di percezione,innanzitutto. Il resto del mondonon può continuare a parlare diAfrica «come se fosse un piccolopaesino sperduto». Perché è uncontinente, un mosaico di cultu-re e di esperienze. In cui esperi-menti di successo (la democraziain Ghana, per esempio) si mesco-lano a tragedie globali (il Darfur,l’emergenza sanitaria, le migra-zioni di massa). È questo il pri-

mo auspicio del cardinale PeterTurkson, arcivescovo di Cape Co-ast, primate del Ghana e dall’ot-tobre 2009 chiamato dal papa apresiedere il Pontificio consigliodella giustizia e della pace. Chechiede poi all’Occidente di di-mostrare solidarietà vera, neiconfronti di un continente versocui – se non “colpe” – ha certa-mente “responsabilità”. Più for-mazione tecnologica, più soste-

INTERVISTA AL CARDINALE PETER TURKSONDI FEDERICO BRUSADELLI

Un continente di diversità,un mosaico di culture ed esperienze storiche,

politiche e culturali. Ecco perchéparlare di Africa come un unicopaese è ingiusto e sbagliato. E anche il concetto di solidarietàandrebbe rivolto al futuro.

Religione, un mezzoper superare le divisoni etniche

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L’INTERVISTA Peter Turkson

gno allo sviluppo economico, piùsolidarietà “vera”. E meno paura.Perché «si deve capire che lo svi-luppo dell’Africa sarebbe un beneper tutti».

Eminenza, qual è la sua preoccupazioneprincipale sullo stato del continente?Intanto ho un desiderio. Il desi-derio che il mondo si liberi diuna percezione sbagliata del-l’Africa. Perché l’Africa viene

troppo spesso raccontata come sefosse un piccolo paesino sperdu-to. E invece l’Africa è un conti-nente. Il secondo continente, perestensione, dopo l’Asia. Un con-tinente vasto, un mosaico di cul-ture, di esperienze politiche, sto-riche e culturali. Un continentedi diversità, insomma. E alloraparlare di Africa come se fosse unsolo paese, e per giunta piccolo,quasi insignificante, è ingiusto e

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Religione, un mezzoper superare le divisoni etniche

sbagliato. Si generalizza troppo,e gli effetti di questa generalizza-zione non possono che essere no-civi. Un esempio: su 58 paesiafricani, ce ne sono solo otto conconflitti in corso. Eppure, alla fi-ne, passa la notizia che tuttal’Africa è in preda a guerre e con-flitti: si estende, insomma, a tut-to il continente la situazione cheè propria di alcuni paesi (peresempio, il Sudan o la Somalia).Questo della “generalizzazione” èun punto cui tengo molto. E saperché? Perché è anche un pro-blema “pedagogico”.

In che senso “pedagogico”?Come sanno tutti gli insegnanti,se continui a ripetere a un bam-bino «Tu sei così…», lui cre-scendo si convincerà di esserefatto proprio in quel modo. O diessere destinato a essere in quelmodo. Ecco, la dinamica che ilresto del mondo sta innescandonei confronti dell’Africa è pro-prio questa. «Tu sei vittima dicarestie e conflitti, di povertà emalattie», si ripete. E allora gliafricani cominciano a credereche sia proprio così, e che non cisia nulla da fare. Si tratta di unaderiva che lambisce anche noi,nella Chiesa: l’ho notato all’ulti-mo Sinodo d’Africa, qui a Roma,in cui troppo spesso ho sentitoparlare di “Africa” in generale,senza fare attenzione alle sue di-versità interne.

Anche perché in realtà ci sono esempipositivi, nell’Africa degli ultimi anni…Sì, e qualcuno potrebbe esseretentato, allora, di fare generaliz-

zazioni inverse. Io che sono gha-nese, per esempio, potrei dire chel’Africa è riuscita a instaurare unregime democratico funzionante:noi abbiamo cambiato governotre volte pacificamente, con ele-zioni regolari. E lo stesso potreb-be dirsi del Togo, della Costad’Avorio… Ma sbaglieremmoanche noi, a generalizzare questeesperienze. Insomma, sarebbegiusto iniziare a parlare del-l’Africa come si parla dell’Euro-pa, in cui non si confonde la Ger-mania con l’Italia. E sarebbe diaiuto anche a noi africani, periniziare ad accettare la nostra di-versità, per accettare il fatto chenon ci sono “destini inevitabili”,ma buoni esempi da seguire ecattivi esempi da evitare.

È innegabile, però, che le emergenzesiano tante: dalla salute, alla povertà,alla rinascita del fondamentalismo. Mal’Occidente, soprattutto il suo sistemaeconomico e finanziario, quanto è“colpevole”? Case farmaceutiche, mul-tinazionali, industrie, Stati: fanno ab-bastanza? Non amo lanciare accuse, non mipiace scaricare “colpe” sui paesidel mondo. E questa delle colpedell’Occidente è una questionedelicata. Certamente, però, ci so-no stati, e ancora ci sono, “avve-nimenti” meno piacevoli perl’Africa, mettiamola così. Pensoalla schiavitù, ovviamente. Maanche alle miniere che rendonoarido il terreno, allo sfruttamen-to del suolo, alla distruzione del-le foreste. Avvenimenti, questiultimi, ancora in corso che nonaiutano affatto lo sviluppo del

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continente. E invece si deve capi-re che lo sviluppo dell’Africa sa-rebbe un bene per tutti. Ma per-ché l’Africa si sviluppi serve soli-darietà vera.

Di solidarietà, di “dono”, ha parlato Be-nedetto XVI nella Caritas in veritate.Un nuovo modo di intendere l’econo-mia valido anche e soprattutto per ipaesi in via di sviluppo?Sì, il Papa parla, nell’enciclica, disolidarietà, amore, dono, etica. Ilpunto è questo: senza la nostrasolidarietà, il sud del mondo nonsolo non risolverà i suoi proble-mi, ma li porterà tutti al nord(cosa che già sta avvenendo inquesti anni). Quindi serve unasolidarietà che sia rivolta anchealle popolazioni del futuro. Se sisfruttano le terre, se con le mi-niere si rende arido il suolo, l’ef-fetto resterà per generazioni. Enon si può operare uno sfrutta-mento pensando che, poi, non cisarà alcuna reazione.

Pensare al futuro significa anche for-mazione. Si fa abbastanza?Una cosa è chiara: i paese sotto-sviluppati potranno svilupparsisolo costruendo una “tradizione”tecnologica, un sapere anche tec-nico. Perché senza il primo gra-dino, non si sale nessuna scala.Però si sa che ci sono di mezzo,anche qui, gli interessi del mon-do sviluppato. I prodotti hannobisogno di mercato, e se quelmercato fosse autosufficiente,non sarebbe più un “mercato”.Così si fa di tutto per non per-mettere a quelle aree del mondodi possedere conoscenze e tecno-

logie per realizzare quei prodot-ti. Una colpa? Non so. Ma sonocertamente dinamiche di unacerta economia: se hai qualcosada vendere, devi avere qualcunoa cui vendere. C’è bisogno dicomprensione, per risolvere que-sti problemi. Serve solidarietà,ripeto. E la solidarietà vera puònascere solo dall’amore. Questarischia di sembrare una predica,ma non è così: è l’unico modopossibile per realizzare una coe-sistenza pacifica.

Dall’Africa partono imponenti flussimigratori. E l’immigrazione, in Europa ein Italia è un tema entrato prepotente-mente nell’agenda politica, a volte contoni “emergenziali” più che strategici.Ecco, quali sarebbero, a suo avviso, lestrategie più efficaci per affrontare untema così complesso e spinoso? L’immigrazione non è un feno-meno nuovo, nella storia dell’uo-mo. È un fenomeno che è sem-pre esistito: tanto per parlare distoria europea (che anche noi ab-biamo dovuto studiare!), vengo-no alla mente i Goti e i Visigoti,o le migrazioni verso il conti-nente americano, oggi abitatoprevalentemente dagli eredi diquei migranti europei. Insom-ma, la migrazione è un fattoredirei “costitutivo” dell’esperien-za umana.

Un fattore problematico, però…Il problema nasce quando siidentifica “migrazione” con “mi-naccia”. E non è difficile farlo: inuovi arrivati, d’altronde, sonoquasi sempre “bisognosi”. Cosìoggi in Europa si considera l’im-

L’INTERVISTA Peter Turkson

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FFWEBMAGAZINE

Sulle poltroncine rosse della sala conve-gni della Camera dei deputati, inusual-mente, ci sono soprattutto bambini. Igrembiulini blu e gli occhi spalancati aguardarsi attorno, non stanno fermi e zittiper l’eccitazione di trovarsi in quel postodi grandi importanti. Ma appena si spen-gono le luci e le immagini vengono proiet-tate sugli schermi, scende di colpo un si-lenzio immediato e i bambini si fanno se-rissimi tutto d’un tratto. Come ipnotizzatidi fronte a bambini della loro stessa età, ospesso anche più piccoli, con la pelle ma-lata, la pancia gonfia, gli occhi rassegnati.Bambini senza neppure più la forza discacciare le mosche che si appoggiano lo-ro addosso.Sono i piccoli pigmei e bantù del Congo,martoriati dalla lebbra che divora la loropelle e dalla frambesia (malattia endemicain quelle zone) che dalle prime virulente le-sioni cutanee invade a poco a poco tutto ilcorpo, consumando gli arti fino a trasfor-marli in informi moncherini. A volte pertrasformare sofferenze lancinanti in nor-malità, basterebbe una compressa. A volteper garantire buone probabilità di salute alposto di stenti certi, sarebbe sufficienteun’iniezione. Ma questi bambini con la pel-le nera, potenzialmente uguali agli altri ditutto il mondo, sono nati nella metà sba-gliata del mondo. Per questa circostanzadel destino, imparano da subito a convive-re con la fame e il dolore, come se fosseronormali compagni di viaggio; apprendonopresto che riuscire a sopravvivere alle ma-lattie e alla mancanza di tutto non è dirittodi tutti, ma fortuna di pochi.Non è un concetto semplice per il sensodi giustizia trasparente di un bambino,provoca rabbia, tristezza, domande, ma inquesta occasione gli adulti hanno pensatofosse giusto coinvolgere anche i più picco-li, per raccontare anche a loro la storiadolorosa di questi coetanei sfortunati edell’iniziativa coraggiosa di un gruppo diquaranta italiani che è partito verso l’Afri-

ca per portare aiuto. Una missione con-dotta dalla organizzazione non governati-va Ali per Volare e guidata dal suo presi-dente Rino Martinez per portare vaccini emedicine nella Repubblica del Congo-Brazzavile alla comunità pigmea che ri-schia l’estinzione nel cuore della forestatropicale. Là, dove la crisi umanitaria ègravissima ma non è illuminata dai riflet-tori dell’opinione pubblica, quasi coinvol-gesse vittime di serie b.Di fronte agli occhi, un paese dalla naturaprepotentemente lussureggiante, soffoca-to da un intrico di problemi che si presen-tano da subito come irrisolvibili. Ma ilsenso di impotenza non deve sopraffare,perché la dignità della vita del singolo nonpuò essere messa in discussione dallafredda matematica dei numeri. E se tuttonon è mai abbastanza, se ciascuno, però,facesse quanto può, già sarebbe molto.Per questo la missione Cuore per la Vitaorganizzata da Ali per Volare tra il genna-io e il marzo del 2009, in mezzo a tantetestimonianze di dolore contenute nel li-bro e nel documentario reportage Sudchiama Sud presentati oggi, fa filtrare an-che la luce della speranza: con soli 45milaeuro spesi, sono state vaccinate 23milapersone, soprattutto bambini e donnegravide. E tanto si potrà ancora fare nellaprossima missione di cure mediche, in vi-sta della quale si sta anche cercando didare corpo alla proposta di creare unanuova cooperazione internazionale allosviluppo, tesa a organizzare programmiumanitari nei luoghi più disagiati dellaterra, sotto l’egida delle Nazioni Unite edell’Unione europea. Se le immagini sonoforti e le considerazioni dolorose, è giu-sto, però, che ciascuno sappia che è fon-damentale non sottrarsi alla propria re-sponsabilità e tutti sentano forte il doveredi fare. Fin da bambini.

di Cecilia MorettiPubblicato il 25 febbraio 2010

su Ffwebmagazine

Per fare sentire forte le voci assordanti dimenticate

migrazione soltanto come unaminaccia. Minaccia all’integritàeuropea, minaccia allo sviluppo,minaccia al benessere, minacciaalla sicurezza. Un pericolo, e nonun potenziale aiuto allo sviluppo.Per secoli non si è discussa lapresenza dei musulmani in Euro-pa, e adesso si fanno i referen-dum sui minareti.

E da cosa nasce questa paura?Posso sbagliarmi, ma visto chec’è un problema demografico,qui in Europa, queste legislazio-ni restrittive più recenti sembra-no essere non voglio dire “para-noiche”, né “isteriche”, ma certa-mente preoccupate. Perché se lapopolazione non cresce, e arriva-no “altri” che invece crescono, cisi domanda “cosa succederà do-mani”? Cosa succederà all’Italiadi domani? Questa è la doman-da. E invece di incoraggiare uncambiamento di visione, invecedi sostenere lo sviluppo demo-grafico, ci si chiude. Ma il puntoè che non si può fare una nazionesenza popolazione. E la popola-zione – se non si fa in laborato-rio – si fa con gli uomini. Anchecon gli immigrati. In questa si-tuazione, in cui gli immigratisaranno sempre di più, è ovvio ladiscussione crescerà. Insomma,la preoccupazione c’è ed è anchegiustificata, a suo modo. Ma lemigrazioni non si possono fer-mare, non si possono evitare. Epoi, diciamo una cosa: il confinetra legislazioni restrittive e raz-zismo rischia di farsi sempre piùsottile… E sa qual è un altro ri-schio, poi?

Quale?Che gli “stranieri” imparino afare lo stesso. Perché, in questianni, gli africani tornano trop-po spesso in patria con qualcheamarezza. E se poi diventanopolitici, se diventano legislato-ri? Che leggi scriveranno? Suquali principi baseranno la re-golamentazione della conviven-za, del confronto con altre po-polazioni?

E la Chiesa, in tutto questo, che ruolopuò avere?La Chiesa parla di “fraternitàumana”, di unica origine, diunico Dio padre. I principi chela ispirano, dunque, sono frater-nità e solidarietà. Ma come de-clinare questi valori nella situa-zione di cui parlavamo? Ecco lasfida. Una sfida anche “interna”alla Chiesa: se qui non ci fosseropiù sacerdoti sufficienti, verreb-bero accettati quelli stranieri?Negli Stati Uniti il problema siè già posto, e in alcune diocesi cisono sacerdoti africani o di altripaesi. Però so che ci sono altrerealtà in cui, all’interno stessodella Chiesa, c’è chi trova argo-menti contro questa presenza: «Ipreti che vengono dall’Africanon capiscono la cultura ameri-cana, non parlano bene la lin-gua…». Ma se la Chiesa si chiu-de, come si potrà mai realizzarequella fraternità universale? In-somma, il senso di unità e di fra-ternità della famiglia umana variscoperto e sviluppato.

Eppure spesso la fede religiosa vieneutilizzata – più dai politici che dai reli-

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L’INTERVISTA Peter Turkson

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giosi, va detto – come barriera identita-ria più che come collante…È un errore che tradisce l’essenzastessa del Cristianesimo. Quandostudiavo all’Istituto biblico, ana-lizzai il passo del Vecchio Testa-mento in cui Salomone consacrail suo tempio, dicendo: Anche lostraniero, che non è del tuo popolod’Israele, quando verrà da un paeselontano a motivo del tuo nome,quando verrà a pregarti in questacasa, tu esaudiscilo dal cielo, e conce-di a questo straniero tutto quello cheti domanderà, affinché tutti i popolidella terra conoscano il tuo nome. Lapreghiera, la religione, possonoabbattere le divisioni. A livelloetnico lo straniero è “straniero”,questo è un dato di fatto: io sononato africano, non c’è nulla da fa-re! Ma c’è un livello superiore,che permette di superare questadifferenza. Ed è il rapporto conDio. Quindi la religione forniscei mezzi per superare le divisioni.La Chiesa deve offrire la possibi-lità di scavalcare queste barrierenaturali. Ma se la religione stessadiventa mezzo, o luogo, di sepa-razione, questo sì che sarebbe unbel guaio. E a quel punto, cos’al-tro mai ci resterebbe?

federico brusadelli

Scrive per Ffwebmagazine e collabora con il

Secolo d’Italia. Laureato in Lingue e civiltà

orientali, ha seguito il master “Tutela interna-

zionale dei diritti umani” presso l’Università La

Sapienza di Roma.

L’Autore

cardinale peter turkson

Cardinale e arcivescovo cattolico ghanese.

Nato l’11 ottobre 1948, è stato consacrato sa-

cerdote per l’Arcidiocesi di Cape Coast nel

1975, diventandone Arcivescovo dal 6 ottobre

1992. Ha ricevuto la consacrazione episcopale

il 27 marzo 1993. Ha inoltre presieduto la Con-

ferenza episcopale ghanese dal 1997 al 2005.

Ricopre anche il ruolo onorifico di primate del

Ghana. Papa Giovanni Paolo II lo ha innalzato

alla dignità cardinalizia nel concistoro del 21

ottobre 2003. Papa Benedetto XVI lo ha nomi-

nato presidente del Pontificio consiglio della

giustizia e della pace il 24 ottobre 2009. Ha so-

stituito nell’incarico il dimissionario Cardinale

Renato Raffaele Martino.

L’Intervistato

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INTERVISTA A PADRE GIULIO ALBANESEDI DOMENICO NASO

Radicalmente diverso da come

lo rappresentano i media occidentali,

il continente africano va analizzato

abbandonando gli opposti pregiudizi ottimisti

o pessimisti. Bisogna affrontare una sfida

che prima di tutto è culturale

e che deve vedere l’Europa protagonista.

SERVE UN BAGNO DI REALISMO PER CAPIRE UN CONTINENTE PLURALE

Cinquantuno anni, romano, unavita dedicata all’Africa. PadreGiulio Albanese, comboniano,fondatore dell’agenzia stampaMisna (Missionary Service NewsAgency), di continente nero se neintende davvero. Tra aree di crisi,problemi secolari, instabilità po-litiche e ricchezze culturali, ciracconta le Afriche plurali, pienedi sfaccettature e di sfumatureche spesso in Occidente non siriescono a cogliere. E il rapportocon l’Africa, nell’era dell’invasio-ne cinese, va ripensato e rimodu-lato abbandonando l’approcciopaternalistico. Con l’Europa chedeve svegliarsi e riallacciare i fili

spezzati di una partnership irri-nunciabile.

Recentemente ha parlato dell’Africacome la metafora delle contraddizionidel mondo. Ci vuole spiegare questoconcetto?La prima considerazione da fare amio avviso è questa: abbiamo ache fare con una realtà continen-tale che è tre volte l’Europa. Unvero e proprio pianeta distanteanni luce dal nostro immagina-rio, perché la percezione che ab-biamo delle Afriche è quella checi viene offerta a spizzichi e boc-coni dai grandi media. Ma la ve-rità è che sappiamo poco o nien-

SERVE UN BAGNO DI REALISMO PER CAPIRE UN CONTINENTE PLURALE

L’INTERVISTAGiulio Albanese

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te di quello che succede ogginelle Afriche. Da questo puntodi vista, nelle relazioni nord-sud, la sfida prima che essere po-litica, sociale ed economica èculturale. Deve cambiare il no-stro atteggiamento nei confrontidell’alterità. Ci sono dei luoghi comuni chesono fuorvianti e limitanti. Lefaccio qualche esempio: solita-mente la nostra gente pensa chel’Africa sia povera. Non è assolu-tamente vero. Semmai è impove-rita, e c’è una differenza sostan-ziale. Galleggia sul petrolio danord a sud, da est a ovest. Vi so-no paesi africani, come la Repub-blica democratica del Congo, chesono miniere a cielo aperto. Un altro luogo comune riguardala nostra convinzione secondo laquale l’Africa ha bisogno di bene-ficienza, di quella che io definisco“carità pelosa”. No, non sannoche farsene. L’Africa invoca echiede innanzitutto giustizia.Dobbiamo avere l’onestà intellet-tuale di staccare la spina del pre-giudizio. Dico questo perché,quando parliamo di beneficienza,ci poniamo come benefattori atutti i costi davanti a tanta uma-nità dolente. Invece dovremmocercare di capire i meccanismiche contraddistinguono le Afri-che. Di fronte agli enormi pro-blemi africani (riferiti con grandeapprossimazione da parte dei me-dia) rischiamo sempre di banaliz-zare. Gli approcci all’Africa sonotendenzialmente due: ci sono iterzomondisti ad oltranza, secon-do cui le colpe dei mali dell’Afri-ca è tutta dell’Occidente, delle

nazioni ricche; sul versante oppo-sto abbiamo i reazionari che dico-no che se l’Africa sta male è colpasua, dei suoi governanti. Un’Afri-ca prelogica e primitiva, insom-ma. Secondo me non dobbiamoessere “afro-ottimisti” o “afro-pessimisti”. Dobbiamo andare aldi là sia di un certo terzomondi-smo che di un certo conservatori-smo. Dobbiamo stare con i piediper terra. L’Africa è un continen-te dalle risorse eccezionali con ol-tre ottocento grandi etnie. È uncontinente che afferma il ricono-scimento della propria dignitàche indubbiamente nei secoli, peruna serie nota di ragioni storiche,è stata fortemente condizionatadall’esterno. È importante essere “afro-reali-sti”. Le responsabilità, cioè, sonofondamentalmente condivise: dauna parte vi sono classi dirigentilocali che fanno il bello e il catti-vo tempo, oligarchie attaccatecon bramosia al potere e al dena-ro; dall’atra parte, gli interessistranieri (dal colonialismo allosfruttamento economico di oggi)fanno sì che i problemi delleAfriche continuino a permanere.

La cancellazione del debito, che a voltesembra un hobby da rockstar, servedavvero? Cosa rappresenterebbe perl’Africa?Se dovessimo fare la lista dei ma-li africani, indubbiamente al pri-mo posto ci sarebbe la questionedel debito. Oltre, ovviamente, anuove regole per il commercio,alla necessità di rilanciare la coo-perazione allo sviluppo. L’attualecrisi economica ha penalizzato

fortemente l’Africa, al punto taleche tutti gli sforzi fatti per sana-re le economie nazionali sonosvaniti come bolle di sapone. La questione del debito è rilevan-te, anche perché, diciamolo confranchezza, questi paesi non han-no potuto rendere i soldi chehanno ricevuto (dai petrodollaridegli anni Settanta a oggi) entroi limiti stabiliti e si sono indebi-tati a dismisura. Ci sono stati deigoverni occidentali che hannocancellato parte del debito. L’Ita-lia, ad esempio, sotto governi didiverso colore politico e sullaspinta dell’appello di GiovanniPaolo II durante il Giubileo delDuemila, ha cancellato le quotedi debito di alcuni paesi (adesempio il Mozambico o la Re-pubblica democratica del Con-go). Ma la questione rimaneaperta, perché il vero problemanon è tanto il debito contrattocon i governi ma con i privati,gli istituti finanziari e le grandibanche. Con questa crisi, i paesiafricani si sono ulteriormente in-debitati e sono tornati indietro allivello della fine degli anni Ot-tanta. La questione del debito va af-frontata con tanta buona volontà.Anche da parte dei privati, però. In questi anni i paesi africani so-no stati costretti ad applicare ipiani di aggiustamento struttura-le, che sono consistiti nella svalu-tazione della moneta locale, faci-litando le esportazioni ma ren-dendo proibitive le importazioni.E poi ci sono stati tagli alla spesapubblica in due settori strategici:istruzione e salute. Le economie

L’INTERVISTAGiulio Albanese

africane non ce la faranno a risol-levarsi senza cancellazione. È unaconditio sine qua non. Però è solo lapunta dell’iceberg. Il discorso èmolto più profondo. Per quantoconcerne, ad esempio, le regoledel commercio, l’Europa vorreb-be che l’Africa fosse in grado dicompetere sui mercati. Ma non cela può fare.Da parte dei governi europei,poi, in questi anni c’è stata unapolitica protezionista. I prodottiafricani sono sottoposti a severidazi. In Africa, invece, i prodottiagricoli europei sono paradossal-mente più competitivi di quellilocali. E molti contadini hannogettato la spugna perché non cela fanno a reggere il confronto. Un’altra considerazione da fare èsul forte deprezzamento delle

materie prime in Africa. Un fat-to davvero sconvolgente. I bam-bini che raschiano a mani nude ilcoltan nelle miniere vengono pa-gati un dollaro al giorno, e poiquesto prezioso metallo viene ri-venduto a peso d’oro sui mercatifinanziari dell’Occidente. I go-verni africani non hanno formedi tutela, anche perché vi è unaforte corruzione delle classi diri-genti. Che non è opera solo deipaesi occidentali. Da questo pun-to di vista, ad esempio, oggi laCina sta davvero battendo tutti.

A proposito di Cina, come giudica l’im-ponente impegno cinese in Africa? È unrischio o una opportunità?Sarò molto sincero: ho seguito davicino il fenomeno “giallo” e seandiamo avanti di questo passo

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tra qualche anno l’Africa non sa-rà più nera ma gialla. I primi adenunciare la presenza e le bra-mosie di Pechino in Africa sonostati proprio i missionari in rife-rimento al Sudan. La colonizza-zione gialla si è diffusa a macchiad’olio e oggi non c’è un paeseafricano che non sia “contamina-to” dalla presenza cinese. La Cinaè riuscita a coniugare un sistemamarxista-leninista con le istanzedel libero mercato e del capitali-smo. È venuto fuori un meccani-smo che è un vero e proprioschiacciasassi. I cinesi non stannoaiutando l’Africa, la stanno de-predando. Dico questo perché laCina non ha assolutamente acuore il tema dei diritti umani, adifferenza dei paesi occidentaliche almeno idealmente sono esi-genti da questo punto di vista. Epoi Pechino, che dice di non vo-lere interferire negli affari internidei paesi africani, per riuscire aessere vincente sta fomentando adismisura la corruzione. Alcunipresidenti africani sono diventativeri e propri “chierichetti di Pe-chino”. Il discorso di fondo è che le ma-terie prime dell’Africa vengonosvendute, perché di questo sitratta. La metodologia cinese nonè dissimile da quella dei famosiconquistadores spagnoli nelleAmeriche, che regalavano bigliedi vetro e si portavano via oro,pietre preziose e quant’altro. InAfrica abbiamo un mare di Chi-natowns. I cinesi hanno trovatouna soluzione anche al loro pro-blema carcerario. In alcuni paesicome l’Etiopia o l’Angola ci sono

moltissimi ex detenuti cinesi,spesso in galera per reati di opi-nione e per il dissenso nei con-fronti del partito. Questi prigio-nieri sono stati deportati in Afri-ca come forza lavoro e quindi laCina è competitiva perché ha unasua manodopera praticamente acosto zero.C’è un vero e proprio ponte aereoche collega Pechino alle principalicittà africane quasi quotidiana-mente. Sono aspetti inediti chenon vengono raccontati dai massmedia.

E l’Italia invece? Abbiamo fatto tuttoquello che c’era da fare per l’Africa?Nelle relazioni tra il nostro paesee l’Africa vanno distinti due filo-ni: quello legato fondamental-mente al mondo missionario e al-la solidarietà e quello istituzio-nale. Tantissimi nostri connazio-nali operano in Africa, e pocoimporta che siano religiosi, mis-sionari, volontari. Sono personedi buona volontà che fanno il lo-ro dovere, lo fanno bene. È uncapitale umano italiano all’esteroche fa onore al Tricolore e di cui,a mio avviso, c’è bisogno diprendere maggiore coscienza. Pe-raltro, e lo dico con schiettezza,quando muore un missionario anessuno è venuto mai in mentedi organizzare un funerale di Sta-to. Io ho molto rispetto per i no-stri militari che cadono sui teatridi guerra e a loro va tutto il no-stro riconoscimento per l’impe-gno a favore della pace. Ognivolta che uno di loro cade è giu-sto che la nazione pianga. Ma lostesso ragionamento va fatto an-

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L’INTERVISTAGiulio Albanese

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che per i missionari, i quali van-no in giro disarmati e senza ga-ranzie economiche. Hanno sceltodi lasciare tutto e prendere lastrada degli ultimi, dei poveri. Il secondo filone è quello dellerelazioni politiche ed economi-che. In questi ultimi anni da par-te dei nostri governi c’è stataun’attenzione particolare neiconfronti dell’Africa, anche se avolte sono mancate le risorse eco-nomiche e finanziarie. Da questopunto di vista in Europa siamotra gli ultimi e non è certo colpadi questo governo. È un discorsoche va avanti da diverso tempo. Comunque abbiamo avuto sem-pre delle figure politiche che inuna maniera o nell’altra hannomanifestato un grande interesseper i problemi africani e per lerelazioni con quei paesi. Ne citoalcuni: Rino Serri, Alfredo Man-tica, Patrizia Sentinelli, tuttisottosegretari agli Esteri e perso-ne estremamente serie e rispetto-se, che hanno compreso chel’Italia doveva fare la sua parte.Ora sarebbe auspicabile che ve-nisse nominato un sottosegreta-rio a tempo pieno, per una que-stione di tempi e regolarità neirapporti italo-africani. In riferi-mento alla Somalia, poi, vorreifare una importante osservazio-ne. L’Italia ha la responsabilitàdi rilanciare la propria leadershipnei rapporti con Somalia, Etio-pia ed Eritrea, per ovvie ragionipolitiche e storiche.

A proposito del Corno d’Africa, comeviene percepito l’impegno italiano inquella zona?

Da quelle parti i nostri politicisono stimati e ascoltati. Ci sareb-be davvero un grande bisogno,ad esempio, di un inviato del-l’Unione europea nel Cornod’Africa, auspicabilmente italia-no, perché il nostro paese ha di-mostrato una visione realisticadei problemi e ha indicato congrande coraggio alcune soluzio-ni, magari non condivise a livellointernazionale ma che alla provadei fatti si sono rivelate corrette.È una regione fondamentale, siaperché è la linea di confine traOccidente e Oriente in Africa erischia di essere contaminata dal-le influenze jihadiste, e soprat-tutto perché galleggia letteral-mente sul petrolio, una vera epropria “sciagura” che ha contri-buito a esasperare le diatribe giàesistenti. Come diceva Basquiat,dove non passano le merci, passa-no gli eserciti. Se questo era veroper l’Europa dell’Ottocento, micreda che è ancor più vero perl’Africa di oggi. Nel 2008, ilprodotto interno lordo dell’Afri-ca subsahariana era di 900 mi-liardi di dollari, miliardo più,miliardo meno. Praticamentemeno della metà del Pil italiano.E la situazione è ancora più gravese togliamo dal totale il Pil delSudafrica, l’economia forte delcontinente, con un prodotto cheè più o meno quello del Porto-gallo. C’è evidentemente qualco-sa che non funziona del sistema.Mi viene in mente quello che di-ceva Leopold Ségar Senghor,grande intellettuale, statista epresidente del Senegal: «La storiapassata ci ha visto divisi. Nel

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nuovo villaggio globale abbiamoun destino comune». La provoca-zione che viene dalle Afriche èquesta: i loro problemi devonoessere i nostri problemi.

Cosa è nato e cosa può nascere dal rap-porto tra Chiesa e tradizioni culturaliafricane? È davvero un incontro cosìdifficile?Visto che parliamo di Afriche enon di Africa, dobbiamo distin-guere anche qui. La Chiesa etio-pica, ad esempio, ha una storiamillenaria, che risale al secondosecolo dopo Cristo. Ci sono altrezone dell’Africa, invece, che so-no state evangelizzate in coinci-denza con la circumnavigazionedel continente da parte dei por-toghesi. Il grosso impegno è poiavvenuto nell’Ottocento. Oggile chiese in Africa hanno rag-giunto una loro maturità e unaloro capacità di sussistenza, puressendo chiese povere di mezzi erisorse. Ma stanno camminandosulle loro gambe. È chiaro che si confrontano conuna serie di problemi dovuti alfatto che il Vangelo è stato an-nunciato in tempi recenti. Il fat-to che vi siano fenomeni di tiposincretistico, con varie mescolan-ze tra cristianesimo e animismo,non deve sorprendere. Per certiversi è fisiologico. Detto questo,è chiaro che è molto importanteporsi in un atteggiamento diascolto. Prima del Concilio Vati-cano II c’era un’impostazionemolto critica e negativa nei con-fronti delle culture autoctone.Con il magistero venuto fuori dalConcilio ci si è posti in maniera

diversa. Il messaggio evangelicoè un messaggio che illumina leculture quindi può, e deve, met-tere in risalto gli aspetti positividi una cultura specifica ma, allostesso tempo, deve stigmatizzaree combattere quelli negativi eantitetici alla teologica cristiana.Vi sono fenomeno legati alla ma-gia nera, ad esempio, che ovvia-mente la chiesa condanna; oppu-re situazioni di sudditanza di ti-po culturale della donna nei con-fronti di una società prettamentemaschilista. In casi come questi,nonostante le forti resistenze, laChiesa dice la sua.È anche vero che molte volte laChiesa ha saputo valorizzare leculture locali. Tra i popoli Acho-li del nord Uganda, ad esempio,ci sono tradizioni di riconcilia-zione che avvengono attraversouna complessa ritualità. Questeesperienze di fraternità sono ov-viamente incoraggiate dallaChiesa, perché sono perfetta-mente compatibili con il mes-saggio evangelico. Il problema è andare al di là del-le divisioni tra questi popoli. Laquestione etnica in Africa c’è,inutile nasconderlo. Ma va af-frontata con grande rispetto. Noiparlamo di queste etnie in ma-niera fuorviante, siamo abituati aparlare di tribù, termine coniatodai colonialisti ai tempi dellaconquista. Molte volte queste“tribù” sono popolazioni di mi-lioni di persone. Basti pensare aiBaganda in Uganda, che sonocirca sedici milioni. Lo sforzo della Chiesa, dunque,deve essere quello di incentivare

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il rispetto e la conoscenza diqueste realtà. Ovviamente ci so-no aspetti di queste culture chevanno, tra virgolette, evangeliz-zati, ma non è un’operazionesemplice. Tutto ciò richiedel’inculturazione che i missionaripossono anche promuovere madeve essere realizzata dagli afri-cani stessi. Sembra esserci una nuova forma di raz-zismo in Africa, ad opera degli arabi suineri. È un problema reale?Situazioni di intolleranza tra va-ri gruppi etnici ci sono semprestate e ci sono tuttora. Non ne-cessariamente hanno una matricereligiosa. L’esempio emblemati-co è il Sudan. Lì c’è una contrap-posizione tra il nord musulmanoe il sud animista e cristiano:l’aspetto religioso in questo casoconta, però la questione etnica siinnesca anche in gruppi che piùo meno hanno la stessa fede.Pensiamo, ad esempio, a duegruppi nilotici del Sudan, iNuer e i Dinka. La contrapposi-zione tra questi due gruppi etni-ci, a volte sfociata in vere e pro-prie battaglie, è spesso causatadalla povertà, dalle fonti d’ac-qua, dal bestiame. Sono questioni aperte ma che de-rivano dal Congresso di Berlino,durante il quale l’Africa vennefatta a fette, suddivisa tra le po-tenze occidentali secondo logichegeopolitiche, senza considerare ledivisioni etniche, i confini natu-rali. Furono creati Stati, poi ri-masti tali e quali con l’indipen-denza, all’interno dei quali con-vivono, bene o male, vere e pro-prie nazioni differenti.

L’attuale divisione europea, adesempio, deriva da una lunghis-sima serie di processi storici epolitici durati millenni. L’Africaha bisogno dei suoi tempi. C’è daaugurarsi che la risoluzione deiconflitti avvenga in maniera pa-cifica, ma la contrapposizione et-nica per certi versi è fisiologica.Prendiamo l’Uganda: ha la su-perficie uguale a quella italianasenza Sicilia e Sardegna. I dueterzi dei gruppi etnici ugandesivivono attualmente dentro i con-fini dello Stato, il restante terzonei paesi limitrofi. La geografia

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politica ha determinato delle di-visioni che hanno penalizzato lacrescita di questi paesi. Moltevolte ci si lamenta della scarsaidea dello Stato degli africani.Ma bisogna tenere presenti que-ste premesse importanti ed esse-re pazienti: l’Africa deve fare ilsuo percorso, il suo cammino.L’ex dittatore dello Zaire Mobu-tu, ad esempio, ha tentato dilanciare una vera e propria cam-pagna di sensibilizzare dell’iden-tità nazionale e per alcuni versic’è riuscito. Ovviamente non bi-sogna dimenticare né tacere il

fatto che comunque Mobutu èstato un dittatore sanguinario.

Se dovesse scegliere un episodio, unapersona, un particolare, un luogo, perraccontarci la sua esperienza africana,quale sarebbe?Al di là delle esperienze partico-lari che ho vissuto, come il miosequestro in Uganda o le guerredimenticate che ho seguito davicino, quella più bella è stato ilperiodo di studio che ho trascor-so in Uganda. Ero ragazzo, stu-diavo teologia all’Università diKampala, ed ero l’unico bianco

L’INTERVISTAGiulio Albanese

tra settanta neri. Ero, come di-cevano i miei compagni, unawhite spot, l’unica macchia bian-ca. Lì ho sperimentato il disa-gio, forse ancora maggiore, cheprovano oggi gli immigrati afri-cani in Italia. È stata un’espe-rienza interessante, mi ha fattocapire cosa significa essere stra-nieri in un contesto del genere.Ma poi di esperienze ne ho fattedavvero tante. Nel nord dellaSierra Leone, ad esempio, sonostato colpito dall’incontro contanti baby soldiers, i bambini sol-dato. Mi ha scosso profondamen-te perché ho capito che questibambini così violenti e sangui-nari sono le prime vittime delleguerre dimenticate. Uno di que-sti ragazzi, avvicinatosi a me conun mitragliatore in mano, allafine mi ha chiesto le sigarette ole caramelle. Già il suo nome erasignificativo: in italiano possia-mo tradurlo con “Io uccido senzaspargere sangue”. Aveva i capellialla Bob Marley e sulle bracciaaveva tantissime crocette incise:erano i soldati nigeriani che ave-va ucciso. Quando mi vengonoin mente queste cose, mi vienein mente al contempo un mes-saggio di speranza. Questo ra-gazzo, come tanti altri, era algi-do nei miei confronti, facevapaura. Ma in fondo sono soldati-ni di piombo, spesso con il kala-shnikov più alto di loro. Un al-tro ragazzo, invece, che sembra-va davvero un bambolotto di 10-12 anni, quando stavo andandovia mi ha chiesto di venire conme, semplicemente perché vole-va tornare a scuola: la cattiveria

degli adulti non era riuscita asoffocare la sua voglia di vivere.Vengono arruolati i bambiniperché sono facilmente manipo-labili e gli adulti la guerra nonla vogliono fare. In Sierra Leonecombattevano sotto effetto di so-stanze stupefacenti e in nordUganda, invece, la cosa era anco-ra più sconcertante: erano sottoeffetto di una ipnosi collettiva.

Ci sono, però, anche paesi africani(Ghana, Zambia e altri) che hanno rag-giunto standard socioeconomici di tut-to rispetto. E tra pochi mesi il Sudafricaospiterà un evento importante e globa-le come i Mondiali di calcio. C’è ancorasperanza per l’Africa?Il calcio gioca un ruolo impor-tante. L’ho notato seguendo al-cune partite delle nazionali afri-cane: sortisce un effetto coagu-lante delle masse. Quando giocala nazionale camerunense, adesempio, tutti i gruppi etnicidel Camerun si sentono cameru-nensi. Ma per chi conosce l’Afri-ca il grosso elemento di speran-za è rappresentato dalla crescitadella società civile. Quando par-lo di società civile mi riferiscofondamentalmente a due catego-rie: giovani e donne. Le donnein Africa producono il 67% delreddito continentale. Lavoranopiù degli uomini, dunque, enon solo in Africa. Giocano unruolo notevole nella società civi-le, nei gruppi per la promozionedella democrazia e dei dirittiumani, possono ricoprire unruolo non indifferente. C’è undetto africano che dice: «Quan-do educhi un bambino in pro-

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spettiva educhi un uomo. Quan-do educhi una bambina, educhiun popolo». Il ruolo dei giovani è altrettantoimportante. Internet è arrivato inAfrica, seppure con standard tec-nici diversi rispetto ai nostri. Mai giovani africani navigano, ecco-me. E ascoltano la radio. Si è in-nescato un meccanismo di conta-minazione che ha fatto capire loroquanto contano la democrazia e idiritti. Un certo spirito fatalista edi rassegnazione che ha contrad-distinto l’Africa nei decenni pas-sati sta gradualmente sparendo. E poi c’è anche un’Africa che ècapace di sorridere, di realizzareoperazioni di tipo culturale chemagari in Italia non conosciamoperché il giornalismo è provin-ciale e casareccio. Ci sono eventiche andrebbero seguiti, così co-me fa la stampa internazionale.Ad esempio il Festival del cine-ma africano di Ouagadougou(Burkina Faso), che si svolgeogni due anni e rappresenta or-mai la Hollywood africana. L’Africa, insomma, può daretanto sotto tanti punti di vista.Dobbiamo solo cambiare pro-spettiva. Non dobbiamo crederedi essere i benefattori degli afri-cani. Tra debito, privatizzazioniselvagge (che in Africa sono si-nonimo di svendita), deprezza-mento delle materie prime, sonopiù i soldi che gli africani dannoa noi che quelli che noi diamo aloro. L’Africa ha una sua dignitàche va riconosciuta. E, come hadetto recentemente il Sinodoafricano, soprattutto dagli stessiafricani.

L’INTERVISTAGiulio Albanese

padre giulio albanese

Membro della Congregazione dei missionari

comboniani, ha diretto il New People Media

Centre di Nairobi e fondato la Missionary Ser-

vice News Agency (Misna). Attualmente colla-

bora su temi legati all’Africa e al sud del mon-

do con varie testate giornalistiche tra cui Avve-

nire, Vita e il Giornale Radio Rai. Dal febbraio

del 2007 insegna giornalismo missionario/gior-

nalismo alternativo presso la Pontificia Univer-

sità Gregoriana di Roma ed è direttore delle ri-

viste missionarie delle Pontificie Opere Missio-

narie. È anche autore di alcuni libri tra cui Ma

io che c'entro? – Il bene comune in tempi di

crisi" (Ed. Messaggero Padova 2009), Hic sunt

leones (Ed. Paoline 2006), Soldatini di Piombo

(Feltrinelli, Milano 2005), Il Mondo Capovolto

(Einaudi, Torino 2003) e Ibrahim, Amico Mio

(Emi, Bologna 1997) e Sudan: solo la speran-

za non muore (1994).

L’Intervistato

domenico naso

Giornalista, si occupa di cinema, televisione

e cultura pop. Ha lavorato per la rivista Idea-

zione. Collabora con Il Secolo d’Italia e Gaz-

zetta del Sud. Cura la rubrica di critica televi-

siva Television Republic per Ffwebmagazine.

L’Autore

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DI PAOLO QUERCIA

Al Qaeda è alla ricerca di nuove basi

La sicurezza globalepassa dall’Africa

Da tanti punti di vista l’Africarappresenta un continente croce-via. Crocevia tra il nord Africa eil Sahara, tra l’Oceano indiano eil Mediterraneo, tra islam e cri-stianesimo, tra sviluppo e sotto-sviluppo, tra modernità e tribali-smo, tra ricchezza e povertà, ri-

sorse e scarsità, tra guerra e pace,tra regimi autoritari post-colo-niali e democrazia. E nel contestodelle problematiche della sicu-rezza globale l’Africa rappresentaanche un importante crocevia diquella che – a torto o a ragione –è stata chiamata la guerra globale

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al terrorismo. Tuttavia, affrontarela questione della sicurezza inAfrica dallo stretto pertugio delleinfiltrazioni terroristiche rischiadi essere fuorviante, o quantomeno non sufficiente a spiegarela cronica instabilità politica el’impossibilità di costruire mo-delli statali minimi efficienti, le-gittimi e sostenibili. La condizio-ne di failing States è difatti unadelle caratteristiche che sembracaratterizzare tutt’oggi un nume-ro estremamente ampio di Statidel continente e, ad oltre quaran-t’anni dall’avvio della decoloniz-zazione della regione, rappresen-tare la principaleminaccia per lastabilità regionalee per la sicurezzainternazionale. Ilfallimento nellacostruzione di sta-bili cornici statalicapaci di contene-re tanto il boomdemografico quanto soddisfare icrescenti bisogni di good governan-ce e di fruizione di beni e servizi,rappresenta la principale minac-cia alla sicurezza per tutto il con-t inente . L ’ in s e r imento d iun’Africa in buona parte pre-mo-derna e pre-statuale nei circuitidella globalizzazione demograficaed economica mondiale ha creatoil paradosso dell’abbinamento diuna rapida crescita economica sufragilissime basi politiche e so-ciali. La conflittualità interna eregionale è tutt’oggi il fattorepredominante in un’ampia fasciadi Stati dell’Africa subsaharianatradizionalmente instabili che

vanno dal Sudan al Chad, al Con-go all’Uganda. Ma preoccupantiesplosioni di conflittualità sonoavvenute anche in paesi come ilKenia e l’Etiopia, che pure aveva-no conosciuto progressi nei siste-mi politici. Nel corso degli anniNovanta il continente africano havisto affermarsi un proprio tu-multuoso ma fragile modello disviluppo, in parte guidato dal-l’esterno in funzione dell’ingressonel più ampio sistema di divisio-ne del lavoro su scala globale, inparte originato dall’aumento divalore di scambio nell’economiaglobale delle materie prime di

cui è ricco il conti-nente. Questi po-sitivi sviluppi eco-nomici non sonostati, in buonaparte, il frutto diun efficientamentodei sistemi-paese,del la r iduzionedella corruzione o

della creazione di infrastrutturepubbliche efficienti e di modernipubblic goods, bensì dei dividendidella globalizzazione economicamondiale (di cui le rimesse degliemigrati costituiscono una com-ponente particolarmente rilevan-te) e della competizione interna-zionale per le risorse africane, cheha visto bussare alla porta dei re-gimi africani, con notevoli dispo-nibilità economiche, potenzeemergenti come la Cina e il Bra-sile o potenze di ritorno come laRussia. Questo sviluppo su fragi-li basi ha reso possibile il para-dosso di crescite sostenute dei Pilin un continente in cui sono an-

La conflittualità internae regionale è il fattore dominante di un’ampiafascia di Stati dell’Africa subsahariana

TERRORISMOPaolo Quercia

cora presenti drammatiche vul-nerabilità legate a fenomeni na-turali come inondazioni e siccitào alla drammatica esplosione del-l’Hiv che in alcuni paesi della re-gione produrrà negli anni a veni-re enormi conseguenze demogra-fiche. Un paese come il Botswa-na, ad esempio, che è consideratouna delle storie di maggior suc-cesso della decolonizzazione afri-cana, che ha raggiunto un Pil procapite più alto di quello del Su-dafrica e viaggia ad un tasso dicrescita economica del 5% ed hanotevolmente ridotto il suo tassodi povertà, si tro-va oggi ad affron-tare una cadutadella vita mediaridotta a 40 anni(contro i 65 deglianni Ottanta) acausa del flagellodell’Hiv. Si stimache l’intera forza lavoro del con-tinente potrebbe ridursi del 30%nel prossimo decennio a causadell’esplodere di questa malattia.È in questo mix di sviluppo e ar-retratezza, urbanizzazione e neo-pauperismo rurale, tribalismo eglobalizzazione, modernismo edestrutturazione dei sistemi so-ciali tradizionali che si celanomolte delle nuove sfide per la si-curezza del continente africanoper i prossimi decenni. Dallo svi-luppo di una forte criminalitàtransfrontaliera africana basatasul traffico di armi e di droga alrischio che i numerosissimi mo-vimenti armati del continente, distampo etnico, sociale, religiosoo territoriale possano saldare i

propri interessi con le reti econo-miche e militari di Al Qaeda,sempre più alla ricerca di nuovebasi territoriali operative dopo irovesci militari subiti in Iraq,Afghanistan e Pakistan. Movi-menti terroristici armati sonosempre esistiti nella storia politi-ca dell’Africa del Novecento mala forma che essi hanno preso apartire dagli anni Novanta harappresentato una peculiare evo-luzione del fenomeno. L’Algeriarappresenta un caso storico di ta-le evoluzione, con una violenta esanguinosa guerra civile esplosa

negli anni Novan-ta in seguito allavittoria elettoraledel partito islami-sta del Fis e al col-po di Stato milita-re con cui vennesospeso il meccani-smo democratico.

La guerra civile interna ha pro-gressivamente assunto formesempre più internazionali; ciò èavvenuto inizialmente attraversoil coinvolgimento di combattentireduci dal fronte afgano e daquello bosniaco e successivamen-te con la creazione di gruppi ter-roristici sempre più orientati aspostare la propria azione dallalotta contingente ad un determi-nato regime nazionale reputatoillegittimo ad un disegno di lot-ta permanente globale ai regimiarabi e all’Occidente in generale.All’interno del panorama deigruppi terroristici algerini è pro-gressivamente emerso il “GruppoSalafita per la preghiera e il com-battimento”, divenuto a partire

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Al Qaeda è alla ricercadi nuovi santuaridi arretratezza sociale edi sottosviluppo stataledove diffondersi meglio

dal 2007 “Al Qaeda nella terradel Maghreb islamico” (Aqlim).Negli ultimi anni questo gruppoha ripreso le proprie operazioniterroristiche in Algeria passandoa metodi operativi sempre più“stragisti” facendo un sempremaggiore ricorso alle autobombesuicide che lasciano intenderel’abbandono di una strategia po-litica in nome di una più globalestrategia terrorista dal profilo in-ternazionale. Nonostante i lega-mi reali di questa struttura conla rete quadesita siano tutt’altroche certi, è evidente nelle attivitàrecenti del Aqlim un tentativo disuperare i confini algerini, utiliz-zando la propria predominanzanumerica e militare per attrarrenel proprio raggio d’azione le va-rie cellule islamiste che operanoin una vasta area comprendenteil Marocco, la Mauritania, il Ma-li, il Chad e il Niger. Paesi limi-trofi in cui la porosità dei confinie la povertà generale delle zoneinterne forniscono tanto la possi-

bilità di facili spostamenti per icampi d’addestramento quantouna possibilità di reclutamento edi collegamenti con i gruppi de-diti ad attività criminali e al bri-gantaggio. In particolare il se-questro di turisti occidentali si èrivelato essere una facile e lucrosaattività che produce anche unfondamentale ritorno mediaticoper il gruppo. Sebbene di pro-porzioni ancora globalmente mo-deste e con una dubbia capacitàdi portare avanti operazioni si-gnificative fuori dall’Algeria, ilgruppo terroristico Aqlim rap-presenta sicuramente un pericolocrescente per il continente, so-prattutto in quanto l’area del-l’Africa centrale ed occidentaleoffre un contesto di failed Statesin cui gli interessi di warlords,gruppi criminali e gruppi terro-ristici possono saldarsi per la ge-stione delle attività economichetransnazionali, come per il mer-cato di diamanti e altre risorsenaturali. Infine non può essere

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TERRORISMOPaolo Quercia

trascurato il pericolo di un’ulte-riore espansione di questi gruppiterroristici verso quelle areedell’Africa orientale che già sonostate in passato interessate da at-tacchi terroristici negli anni No-vanta, come il Kenya e la Tanza-nia. A questo scenario è necessa-rio aggiungere la situazione diSudan e Corno d’Africa, Somaliain particolare, aree in cui l’attivi-tà di formazioni islamiste radica-li, potenzialmente già contigue agruppi qaedisti provenienti dallavicina penisola arabica e dalloYemen, si mescolano a contrastiinterni e guerre civili all’internodi uno scenario di dissoluzionestatale e di creazione de facto dinuovi soggetti politici. Il rischioche dal dissolvimento statalepossano emergere nuove leader-ship islamiste legate ad Al Qaedaha portato la comunità interna-zionale ad intervenire tanto nellasituazione interna sudanesequanto in quella somala. Il Su-dan già in passato ha dimostratodi poter divenire una porta di in-gresso di movimenti quaedistinell’Africa subsahariana ed inpassato ha ospitato lo stesso Osa-ma bin Laden. La Somalia, conalle spalle venti anni di guerracivile, ha visto negli ultimi annil’emergere del fenomeno dellecorti islamiche, lo svilupparsidella pirateria al largo delle costesomale e la creazione del movi-mento Shabaab, che ha recente-mente dichiarato la propria affi-liazione qaedista e la volontà diestendere la propria azione all’in-tera Africa orientale, rappresentasicuramente il maggiore focolaio

di incubazione di terrorismo intutta la regione africana, anche acausa delle infiltrazioni di mili-tanti di Al Qaeda dallo Yemen eda altre regioni in cui i movi-menti filo qaedisti sono sottopressione per via dell’intensifi-carsi della guerra al terrorismo inPakistan e per i successi registra-tisi in Iraq e in Afghanistan.Nello scorso decennio l’Africa sista sviluppando e progredendocome non avveniva da decenni.Tuttavia, il modello di sviluppo èin molti paesi privo di una garan-zia di capacità politica di gestio-ne dello sviluppo, a causa delladebolezze degli Stati, della diffu-sa corruzione della pubblica am-ministrazione e della mancanzadi un concetto condiviso di benecomune che trascenda l’identitàtribale, etnica, religiosa o sempli-cemente geografica. In questocontesto nasce la minaccia terro-ristica africana, che unisce fattoridi violenza politica interna con lapresenza di movimenti islamistiradicali dediti al proselitismo econ l’infiltrazione di gruppi lega-ti ad Al Qaeda, oggi più che maialla ricerca di nuovi santuari diarretratezza sociale e di sottosvi-luppo statale in cui diffondere ilproprio messaggio di odio e di ri-volta.

paolo quercia

Analista di relazioni internazionali ed esperto di

questioni di sicurezza. Consulente del Centro

alti studi di difesa, è responsabile degli Affari

internazionali della fondazione Farefuturo.

L’Autore

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Una strategia italianaal serviziodel continente nero

DI ROBERTO PASCA DI MAGLIANO E DANIELE TERRIARCA

Nell’ambito del Piano per l’Africa subsaharianail nostro paese offre strumenti e opportunità per uno sviluppo sostenibile. E per rafforzare la sua presenza in aree e comparti nevralgici.

L’attenzione del nostro paese neiconfronti dell’Africa subsaharianaè motivata non solo dal dinami-smo di diversi paesi dell’area intermini di saggio di crescita, maanche dal crescente interesse chemostra la Cina verso quei mercati. Le potenzialità del continenteafricano, anche della sua partemeno sviluppata, sono ampia-mente note e si inseriscono nonsolo nell’intensificazione dei rap-porti economici e commercialinord-sud ma anche nelle interes-santi potenzialità di crescita deiflussi lungo la direttrice sud-sud,attraverso cui en-trano in contattoeconomie caratte-r i z z a t e da unastruttura produtti-va similare. Le prospettive disviluppo dell’Afri-ca subsahariana nelmedio-lungo periodo sono legatea due fattori di importanza stra-tegica: l’elevata disponibilità difonti di approvvigionamentoenergetico1 da un lato e le im-portanti opportunità di nuovi in-vestimenti dall’altro.Prima della bolla finanziaria, trail 2005 ed il 2008 la regionesubsahariana aveva registrato untasso di crescita medio annuo delPil pari al 6,3%, nettamente su-periore alla media mondiale e in-feriore solamente a quello degli“emergenti asiatici” e delle ex re-pubbliche sovietiche. Il rallenta-mento dell’attività economicanel 2009 e il previsto rimbalzonel 2010 sono attribuibili allatenuta della domanda interna

grazie ai repentini interventi go-vernativi di natura fiscale e mo-netaria2. La regione presenta pe-rò una forte sperequazione neitassi di sviluppo dovuta alla dif-ferente struttura economica deinumerosi Stati che la compongo-no. Gli effetti della crisi si riper-cuotono, infatti, sugli esportatoridi petrolio3 e sui paesi a medioreddito perché maggiormente in-tegrati nel sistema finanziario ecommerciale mondiale. Al con-trario, quelli a basso reddito ri-sultano meno colpiti dalle turbo-lenze economiche e potranno be-

neficiare degli in-terventi di rico-struzione conse-guenti alle varieguerre civili.La fase di recessio-ne ha permesso dievidenziare alcunielementi di rifles-

sione. Nonostante il migliora-mento nella gestione politica edeconomica4 da parte di alcunipaesi, permangono delle vulnera-bilità legate alla struttura delleesportazioni e ai flussi di capitaleprovenienti dall’estero. Sui flussidelle esportazioni hanno contri-buito in modo negativo sia la ri-duzione delle quotazioni dei mi-nerali energetici5, sia la forte con-trazione della domanda nei mer-cati di riferimento (l’Unione eu-ropea e l’America settentrionale,aree colpite duramente dalla crisi,ricevono circa i due terzi dellemerci in uscita). Prendendo inve-ce in considerazione il mercatodei capitali, lo scorso anno la bi-lancia dei pagamenti dei singoli

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Prima della crisi l’area subsaharianaaveva registratoun tasso di crescitaannuo del 6,3%

ITALIA-AFRICARoberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

paesi è stata colpita nettamentedalla contrazione degli aiuti pub-blici allo sviluppo, dei flussi diinvestimenti diretti esteri e dellerimesse degli emigrati6.

Il ruolo della CinaLa Cina è la nazione che si è mos-sa con maggiore attenzione versol’Africa, fin dagli anni Cinquan-ta, spinta dalla necessità di creareuna sorta di cooperazione sud-sud. Nel tempo tali relazioni sisono rafforzate, come testimonial’istituzione nel 2000 del Forumdella cooperazione sino-africana(Focac) con l’obiettivo di indivi-duare punti di interesse comunitra le due aree e trasformare ilcontinente africano nel principalepartner commerciale della Cina7. Le varie attività di investimentonei territori africani sono stateaccelerate anche dalla presenzadelle zone economiche speciali.Si tratta di aree caratterizzate daregimi fiscali e doganali agevola-ti, nelle quali le imprese cinesihanno portato avanti attività diinsediamento produttivo con ri-cadute sul territorio locale, qualila creazione di opere infrastrut-turali e la diffusione di know how.La Cina si è confermata nei primicinque mesi del 2009 il princi-pale mercato di origine delle im-portazioni subsahariane, seguitadagli Stati Uniti e dalla Francia.L’Italia si colloca solamente al12esimo posto con una quota dimercato particolarmente ridotta(2,4% rispetto al 12% cinese).La maggiore presenza cinese al-l’interno del territorio è confer-mata anche dall’orientamento

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IL LIBRO

Con questo libro, l’autore, consulenteaziendale nell'area del global busi-ness, presenta il continente africanocome un mercato straordinario conenormi bisogni e un sorprendentepotere d’acquisto. Mahajan illustra lestorie degli imprenditori africani, deimanager d'azienda e delle impreseche stanno scoprendo mercati rigo-gliosi; mostra come le aziende globalisi stiano affermando, nonostantel’eccezionalità delle sfide politiche,economiche e in termini di risorse;presenta gli imprenditori locali e gliinvestitori stranieri che stanno crean-do una vasta gamma di opportunitàdi business sostenibili e profittevolipersino nelle località più problemati-che; rivela come India e Cina si stianoassicurando posizioni redditizie intutto il continente e infine dimostra lacapacità della diaspora di agire comemotore dello sviluppo e degli investi-menti. In un’epoca in cui la crescitadiventa una meta sempre più difficileda raggiungere, questo libro mostraquale potrebbe essere la più grandeopportunità di business non ancoraesplorata.

Imprenditoriamade in Africa

geografico8 delle sue esportazio-ni: a partire dal 2005, il pesopercentuale dell’area sulle espor-tazioni della Cina è aumentatonotevolmente mentre quello de-gli Stati Uniti e dell’Italia mo-stra un’evoluzione più lenta.I motivi di questo crescente inte-resse economico e politico daparte della Cina possono esserecosì riassunti: necessità di ap-provvigionamento di materieprime. La Cina si è trasformatain importatore di materie primeenergetiche per poter soddisfarein modo adeguato il crescentefabbisogno dell’in-dustria nazionale. Sicurezza alimen-tare: di un certo ri-lievo sono anche leiniziative di Pechi-no per favorirel’acquisto di terre-ni agricoli da partedi imprese nazionali9. Il fine ul-timo è quello di garantire il co-stante approvvigionamento dibeni agricoli colmando così ladomanda derivante dalla fortecrescita demografica.Nuovi mercati di sbocco: con ilrallentamento della domandadelle economie avanzate, la Cinaha la necessità di insediarsi innuovi mercati dove esportarel’eccesso di produzione. I prodot-ti tessili (12,6% del totale), glistrumenti di precisione (11,2%)e i macchinari (10%) rappresen-tano i beni cinesi maggiormenterichiesti. In alcuni casi si potreb-be trattare anche di beni assem-blati in Africa e successivamenteindirizzati verso altri mercati.

Gli effetti positivi positivi sulleeconomie africane sono: gli inve-stimenti cinesi interessano setto-ri capital intensive, come quelloestrattivo, con rendimenti nonsempre assicurati nel breve pe-riodo. I prodotti a basso costo ci-nese si adattano ai gusti e alle di-sponibilità economiche del mer-cato locale.La progressiva attenzione alle in-frastrutture produrrà ricadutepositive nel medio-lungo perio-do, in particolare per quanto ri-guarda la rete dei trasporti e ilrafforzamento dei servizi sanitari.

Questo, invece,quelli negativi:possibile ritorno afenomeni di colo-nialismo. Eccessi-vo sfruttamentodelle risorse ener-ge t i che qua l eostacolo alla cre-

scita dell’apparato produttivo lo-cale. Pressione competitiva dellemerci cinesi nei mercati naziona-li e conseguenti ripercussionisulle aziende africane “nascenti”.

Il piano per l’Africa subsaharianaLa presenza in Africa dei finan-ziatori emergenti rappresentaper l’Italia uno stimolo a megliofinalizzare le proprie azioni percogliere le opportunità di ungraduale accesso delle impreseitaliane in aree e comparti, stra-tegici per il nostro paese ma spe-cialmente per gli stessi paesidella parte meno sviluppatadell’Africa che dovrebbe essereinteressata ad uno sviluppo au-

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I flussi di beni italianinell’Africa subsaharianasono molto inferioria quelli dei principalipaesi europei

ITALIA-AFRICARoberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

tonomo, non dominato da inte-ressi sovranazionali.Nonostante la vicinanza geogra-fica e le antiche tradizioni, lapresenza italiana in Africa subsa-hariana è molto limitata. Gli in-vestimenti italiani hanno un pe-so molto marginale, circa lo0,2% degli Ide (investimenti di-retti esteri) in entrata10, così co-me sono contenuti al di sottodelle potenzialità gli scambicommerciali. Le esportazioni ita-liane, in crescita dall’inizio delnuovo millennio, alla fine del2009 hanno raggiunto un valoresuperiore ai 4 mi-liardi di euro conun avanzo com-merciale per l’Ita-lia. Questo legge-ro attivo che deri-va principalmentedalla contrazionedelle importazioni(-40% rispetto al 2008), netta-mente maggiore del calo regi-strato dalle esportazioni. Sull’an-damento al ribasso delle esporta-zioni italiane ha contribuito inmodo rilevante la flessione delladomanda del Sudafrica (primomercato di sbocco) che non è sta-ta sufficientemente ammortizza-ta dai risultati positivi registratiin altri paesi quali la Nigeria,l’Angola e il Congo. I flussi italiani di beni direttiall’interno di tale area geograficasi collocano comunque su valorinotevolmente inferiori rispetto aquelli dei principali paesi euro-pei: nel 2009, l’ammontare delleesportazioni francesi nell’Africasubsahariana è stato di circa 13

miliardi di euro mentre quelletedesche hanno superato i 10 mi-liardi. Nel dettaglio settoriale, imacchinari e i prodotti alimenta-ri confermano la loro maggiorepenetrazione nel mercato mo-strando, anche nel difficile 2009,un tasso di crescita positivo. In questo contesto di maggioreattenzione verso l’area, il Pianoper l’Africa subsahariana vuolerappresentare uno strumento con-creto per rinnovare l’attenzioneche l’Italia ha sempre mostrato alcontinente e presentarlo come unpartner alla pari con cui intrapren-

dere attività di bu-siness. Il piano haanche l’obiettivo distimolare l’interes-se degli operatoriitaliani verso ilcontinente africanoevidenziando leopportunità d i

commercio e di investimento inuna visione di partenariato.L’Italia metterà a disposizione ilproprio know how in settori fon-damentali per la crescita locale(quali la logistica, le infrastrut-ture e l’agroindustriale) e soprat-tutto la propria esperienza nellacostruzione e gestione di sistemidi sviluppo basato sulla crescitadelle Pmi. Un modello questoche, tra l’altro, corrisponde pie-namente all’esigenza di diversifi-cazione delle economie africane,ove il settore privato è ancora po-co sviluppato per mancanza diuna cultura industriale e di spiri-to associativo laddove, invece, sa-rebbe auspicabile e possibile va-lorizzare le opportunità nascoste

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L’Italia metteràa disposizione il proprioknow how in settorifondamentali perla crescita locale

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ITALIA-AFRICARoberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

in un capitale umano poco for-mato e in risorse fisiche ampia-mente sottoutilizzate. Un’attenzione specifica all’inter-no del Piano per l’Africa subsa-hariana è riservata alla promozio-ne di investimenti che non puòcerto affidarsi ai canali tradizio-nali di finanziamento internazio-nale a causa delle grandi difficol-tà strutturali di questi paesi11. Ilpiano individua, quindi, nelcounter trade la tipologia contrat-tuale più appropriata a spianarela strada per investimenti in areeparticolarmente difficili. Il coun-ter trade, più voltesperimentato daa l t r i pae s i pe rstringere accordidi partnership stra-tegica, è un con-tratto internazio-nale con cui le par-ti regolano i termi-ni della fornitura di beni e servi-zi, attribuendo un ruolo margi-nale al pagamento in denaro.Questa forma contrattuale è nataper sopperire alla limitata dispo-nibilità finanziaria di uno deicontraenti, ed è per ciò adatta aipaesi in via di sviluppo. Diversi sono i sotto-tipi contrat-tuali che possono essere presi inconsiderazione: il barter, lo switchtrading, il counter purchase, il buyback e l’offset. In particolare, que-st’ultima rappresenta la tipologiadi contratto adatta per migliora-re le relazioni italiane con la re-gione subsahariana. Tale accordosi utilizza generalmente per l’ap-provvigionamento di beni ad al-to contenuto tecnologico e di

know how (sopratutto nel campomilitare) sia la promozione d’in-vestimenti e l’accesso facilitato adeterminati mercati. Il ricorso aquesta metodologia è auspicabileanche per far emergere i realifabbisogni di opere infrastruttu-rali da parte dei singoli paesiafricani intercettando la loro do-manda effettiva senza che questisiano costretti ad accettare inter-venti di tipo top-down. Tali ini-ziative hanno spesso il difetto dinon trovare adeguate coperturefinanziarie e, soprattutto, di nonavere impatti significativi all’in-

terno delle realtàconsiderate.All’interno delpiano sono anchepresentate inizia-tive collegate almicrocredito, unostrumento parti-colarmente valido

in quanto non richiede di per sésostegno finanziario pubblico masolamente la messa a punto di unsistema di regolamentazionedell’offerta di credito a piccoliproduttori fondato sulla fiducia enon sulla garanzia reale, che pe-raltro le popolazioni povere nonsarebbero in grado di offrire. Conla microfinanza, si capovolge an-che la tradizionale impostazionedelle politiche di aiuto, multila-terali o bilaterali, che si basanosulla realizzazione di progetti ca-lati su realtà locali impreparate,spesso poco attrezzate sul pianoprofessionale e dotate di un bassolivello di capitale umano. Perraggiungere questo obiettivo so-no state avviate importanti ini-

La promozione degli investimenti devecontare su tipologiecontrattuali ad hoccome il counter trading

ziative che prevedono la collabo-razione tra banche italiane e loca-li per la creazione di fondi di ga-ranzia ad hoc. Allo stesso modo,l’Italia si impegnerà a organizza-re un valido sistema sia legal fra-mework sia di gestione operativacon l’obiettivo di canalizzare inmodo efficiente le risorse a di-sposizione. Assieme ad interventidi natura commerciale e finan-ziaria, un’altra qualificante del-l’iniziativa del governo italiano èquella di favorire lo sviluppo delcapitale umano attraverso oppor-tune attività di formazione. Lenuove teorie della crescita endo-gena, infatti, evidenziano comele capacità professionali degli in-dividui siano uno dei fattori pro-duttivi più importanti per unpercorso di crescita sostenibile.Per favorire tale processo, si pre-vede la realizzazione di una seriedi specifici corsi di alta formazio-ne, gestiti dalle principali Uni-versità italiane, fruibili anche on-line. Se da un lato il Piano perl’Africa subsahariana nasce perstimolare le iniziative imprendi-toriali italiane dall’altro mira allarealizzazione di iniziative paralle-le dirette a sorreggere le econo-mie locali attraverso la diffusionedi know how e il consolidamentodel capitale umano locale.

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Note e Fonti

1 Nello specifico sia la Cina che gliStati Uniti necessitano di un accessodiretto a tali risorse, la prima per ga-rantire un processo di crescita soste-nuta al proprio apparato industriale,i secondi per ridurre l’eccessiva di-pendenza energetica dai paesi me-dio-orientali.2 Le stime del Fmi, nel RegionalEconomic Outlook (ottobre 2009)dedicato all’Africa subsahariana, in-dicano un peggioramento dei contipubblici. Si passerà infatti da unavanzo fiscale dell’1,3% del Pil nel2008 ad un deficit del -4,8% nel2009 e del -2,4% nel 2010. 3 All’interno di questi paesi si è veri-ficato un duplice impatto negativo.Il crollo delle quotazioni del greggionon solo ha contratto il valore delleesportazioni ma ha prodotto ancheuna minore disponibilità di risorseeconomiche nelle mani degli Statiper portare avanti politiche di stabi-lizzazione.4 Sono state infatti avviate tempesti-ve misure a sostegno dell’economiareale alle quali deve essere anche ag-giunta la progressiva attenzione daparte delle autorità nazionali al finedi eliminare, o ridurre, tutte le inef-ficienze di mercato.5 L’elevata disponibilità di materieprime ha infatti impedito lo sviluppodi un apparato produttivo modernoe, di conseguenza, ha aumentato lavulnerabilità della regione alle flut-tuazioni dei prezzi delle commodities.6 P. Draper e G. Biacuana, Africaand the trade crisis, The great TradeCollapse: Causes, Consequences and Pro-spects (2009).

roberto pasca di magliano

Professore Ordinario all’Università La Sapien-

za di Roma.

daniele terriaca

PhD Student Università La Sapienza di Roma

L’Autore

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ITALIA-AFRICARoberto Pasca Di Magliano e Daniele Terriarca

7 Nel mese di novembre 2009, in occa-sione della quarta edizione del Forum,il governo cinese ha affrontato anche laquestione del cambiamento climaticolungo due linee di intervento: la primariguarda la realizzazione, a spese di Pe-chino, di progetti per lo sviluppo diforme di energia pulita, la seconda in-vece prevede la realizzazione congiuntadi progetti di carattere scientifico-tec-nologico.8 Espresso come il peso percentuale del-le esportazioni dirette verso l’Africa sub-sahariana sul totale dei flussi in uscita.9 Da segnalare le attività di joint venturein Gabon e Namibia (industria dellapesca) e le acquisizioni di terreni colti-vabili in Zambia, Tanzania e Zimbawe.10 Nell’area considerata sono presenti250 aziende partecipate da imprese ita-liane con circa 22.000 addetti ed unfatturato di 5,4 miliardi di euro.11 La maggior parte dei paesi dell’areaconsiderata infatti non ha la capacitàeconomica per poter onorare i finan-ziamenti ottenuti in ambito interna-zionale. L’accesso ad ulteriori fondi ri-sulta quindi una strada non più per-corribile e, di conseguenza, appare ne-cessario individuare delle soluzione al-ternative con un basso impatto sulleeconomie locali.

African Development Bank, Africaand the Global Economic Crisis: Strate-gies for Preserving the Foundations ofLong-term Growth, (May 2009)

R. Baldwin, The Great Trade Collapse:Causes, Consequences and Prospects (No-vember 2009)

I.Cingottini e E.Mazzeo, PrimaveraAfricana? - Commercio e investimentinell’Africa sub-sahariana, L’Italia nel-l’economia internazionale, Rapporto Ice2007-2008

A. Ferrari, Africa Gialla: l'invasioneeconomica cinese nel continente africano,Utet (2008)

S. Gardelli, L’Africa cinese: gli interesseasiatici nel Continente Nero, Egea(2009)

L. Iapadre & F. Lucchetti, Trade regio-nalisation and openness in Africa(2009)

Ice-Prometeia, Le opportunità per le im-prese italiane sui mercati esteri, Evolu-zione del commercio con l’estero peraree e settori (2010)

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R. Rotberg et all., China into Africa:trade, aid and influence, Brooking In-stitution Press (2008)

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Unctad, World Investment Report(2009, 2008)

Note e Fonti

Allorché si parla di cooperazio-ne allo sviluppo e settore priva-to è opportuno richiamare quel-lo che ritengo un postulato: nonvi è sviluppo umano sostenibilesenza sviluppo economico chelo sostenga e non vi è sviluppoeconomico autosostenuto e dif-fuso senza una partecipazionerobusta ed attiva delle impresedel settore privato.La stretta correlazione tra svi-luppo umano e sviluppo econo-mico risulta evidente dal con-fronto tra l’indice di sviluppoumano – proposto dall’economi-sta indiano premio NobelAmartya Sen ed ora calcolatoper 177 paesi dall’Undp – el’indice di sviluppo economicodi quegli stessi paesi rappresen-tato dal Pil. Non solo il con-

fronto evidenzia questa strettacorrelazione, ma le cause degliscostamenti maggiori sono facil-mente identificabili: il miglio-ramento delle condizioni di vitafavorisce l’apertura, la tolleran-za, la democrazia. L’idea paupe-rista ed estetizzante che vi siaun conflitto tra la ricchezza e losviluppo umano nonché tra laricchezza e la capacità di supera-re conflitti, difficoltà morali eristrettezze culturali è un’ideafalsa e dannosa.Ciò premesso, va altrettantofrancamente ammesso che gliaiuti pubblici allo sviluppo di-retti al settore privato dei paesiin via di sviluppo sono stati, esono, inadeguati e quasi timidi.I motivi di tale inadeguatezzasono di due ordini: ragioni ideo-

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La rinascitaafricana passaanche per le impreseL’idea che tra la ricchezza e lo sviluppo umano vi sia un conflitto è falsa e dannosa. In Africa bisogna incentivare gli aiuti pubblici al settore privato.

DI GIOVANNANGELO MONTECCHI PALAZZI

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logiche, mai del tutto superate,cui si sommano obiettive diffi-coltà tecniche.Quanto alle ragioni ideologiche,permettetemi di fare un rapidocenno al caso italiano. La Bancamondiale già nel 1956 si “sdop-piò” creando, accanto alla Ibrdche presta ai governi, la Ifc (Inter-national Finance Corp.) destinataa promuovere gli investimentiprivati. In Italia un primo timidotentativo in tal senso fu introdot-to solo 31 anni dopo all’art. 7della attuale legge sulla coopera-zione al lo sviluppo ( legge28.2.1987 n.49). Come se nonbastasse, i volumi di investimentipromossi ex art. 7 furono sempremodestissimi (dell’ordine di 15milioni di dollari annui) per poicessare del tutto. Solo negli ulti-

mi mesi il Comitato interministe-riale per la programmazione eco-nomica ha approvato una nuovadirettiva, tuttora non operativa,che dovrebbe consentire un certorilancio.Eppure è molto probabile che al-lo sviluppo della Tunisia, intesonel senso più lato, abbiano con-tribuito più le 672 imprese ita-liane che vi si sono installate coni loro 54.000 dipendenti degliinterventi della Cooperazione ita-liana che, pure, ha a lungo consi-derato i paesi della riva sud delMediterraneo area prioritaria.Le difficoltà tecniche risiedono so-stanzialmente nel fatto che è in-dubbiamente più difficile e assor-be molto più lavoro “fare volumi”con molti interventi frazionati infavore di imprese, specie se Pmi,

IMPRESAGiovannangelo Montecchi Palazzi

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che non mediante interventi in fa-vore di grandi infrastrutture oprogrammi statali. La stessa Ifc,l’organizzazione maggiore e “de-cana” nel sostegno al settore pri-vato che opera quasi esclusiva-mente con grandi imprese, realiz-za volumi di attività che non arri-vano ad un terzo del totale dell’at-tività del gruppo della Bancamondiale.A livello europeo, il decimo pro-gramma Fes, dotato di uno stan-ziamento di 22.682 milioni dieuro, destina al settore privatosolo il 5% circa di tale importo. Vi sono poi curio-si intrecci di ra-gioni ideologiche,tecniche e buro-cratiche che nonsono razionalmen-te difendibili.Mi limito al casopiù eclatante. Go-verni e organismi finanziari in-ternazionali cancellano regolar-mente, e per importi rilevanti, icrediti concessi a governi. Talicancellazioni sono totali se av-vengono in un contesto di aiutoallo sviluppo come nel caso del-l’iniziativa Hipc (High IndebtedPoor Countries1), ma sono so-stanziali anche nel caso di accor-di di ristrutturazione che riguar-dano crediti commerciali. Orbe-ne gli stessi governi ed organi-smi diventano pavidissimi se nondel tutto reticenti quando si trat-ta di affrontare la prospettivadelle inevitabili, ancorché benpiù contenute, perdite risultantida interventi diretti in favore delsettore privato.

Quasi che la mala gestio dell’eco-nomia e delle finanze pubbliche ela corruzione che stanno a montedelle cancellazioni totali o parzia-li fossero un fatto inevitabile e,tutto sommato, condonabile,mentre il fallimento di un’impre-sa fosse inaccettabile. Quasi checattiva gestione e corruzione,purtroppo sempre in agguato,fossero caratteristiche esclusivedel settore privato, mentre l’espe-rienza dimostra che allignanopiuttosto laddove l’invadenzadello Stato nell’economia è piùpervasiva, quando il rischio non è

di stampo com-merciale, ma poli-tico.A tale storturacontribuisce ancheun atteggiamentoburocratico difen-sivo: se gli aiutivengono mal uti-

lizzati o sono oggetto di malver-sazioni da parte di enti pubblicidei paesi in via di sviluppo, aiquali sono stati concessi per ra-gioni essenzialmente politiche, ifunzionari degli enti erogatorinon potranno essere perseguiti senon per negligenze o colpe gravi.Viceversa l’investimento direttoin un’impresa di un Pvs richiedevalutazioni economiche non sem-plici che comportano la respon-sabilità diretta di chi le effettua2.Per i motivi sopra accennati, glienti donatori tendono a preferireinterventi indiretti che aggiranol’ostacolo della valutazione delrischio d’impresa. La Cooperazio-ne italiana, ad esempio, concedead entità pubbliche dei Pvs le li-

Corruzione e cattiva gestione proliferanodove l’invadenza delloStato nell’economia è più pervasiva

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nee di credito a condizioni diaiuto destinate a finanziare im-portazioni delle Pmi dei paesi inquestione, cosicché a suo caricorimane solo il rischio politicomentre quello commerciale ri-mane in capo alle entità pubbli-che intermediarie. Paradossal-mente, nell’esperienza italiana, èben più “coraggioso” o, se vo-gliamo, avanzato il ministerodello Sviluppo economico-dipar-timento Commercio estero ilquale, nel caso dei fondi di ventu-re capital da esso dati in ammini-strazione alla Simest, Società ita-liana per le impre-se all’estero (che haper scopo istitu-zionale la promo-zione economica,non la cooperazio-ne allo sviluppo),non richiede le ga-ranzie bancarie chedi norma Simest assume a frontedegli investimenti effettuati coisuoi mezzi propri.Fatta questa lunga premessa, re-sta da illustrare perché mai go-verni ed istituzioni finanziarie in-ternazionali dovrebbero affronta-re il notevole sforzo organizzativorichiesto da forme più avanzate diintervento in favore delle impre-se, specie delle Pmi. Sforzo checomporta l’accumulo di cono-scenze specifiche, la creazione diorganismi di valutazione e dicontrollo e, laddove possibile,l’assunzione di garanzie aziendali,consortili o altre. E, ovviamente,quanto minore è la dimensioneaziendale tanto maggiori sono ilfrazionamento degli interventi, le

difficoltà di valutazione ed i ri-schi connessi. Tuttavia è proprio sul fronte del-le Pmi e delle microimprese chea mio parere si gioca il futurodello sviluppo economico e so-ciale dei paesi meno avanzati. Edè proprio su questo terreno, delcapitalismo democratico perchédiffuso, che l’Italia può fornireun suo contributo originale.L’Italia è, tra i paesi avanzati,quello che ha la maggiore inci-denza di Pmi: l’80% del totale.Ma anche in paesi come Giappo-ne, Danimarca e Irlanda esse rap-

p r e s en t ano i l60%, la stessapercentuale dellaCina, ove 30 annifa non potevanoneppure legal-mente esistere edora producono il68% dell’export.

L’importanza delle Pmi nei pae-si in via di sviluppo è dunqueintuitiva. Purtroppo, come haevidenziato l’economista zam-biana Dambisa Moyo nel suo be-stseller fortemente critico del-l’impostazione tradizionale de-gli aiuti allo sviluppo, significa-tivamente intitolato Dead aid –in Zambia le Pmi rappresentanosolo il 40% del settore formale,in Camerun il 20%. Come senon bastasse, un recente rappor-to della Banca mondiale ha evi-denziato come, in relazione alnumero di adulti, in Africa e nelMedio Oriente la creazione dinuove imprese sia un decimo diquella dei paesi Ocse.Eppure anche chi abbia mini-

Sul fronte delle Pmi si gioca il futuro dellosviluppo economico e sociale dei paesi meno avanzati

IMPRESAGiovannangelo Montecchi Palazzi

mamente viaggiato in tali paesisi è reso conto che non è certo lospirito di iniziativa che manca,anzi. Purtroppo esso resta confi-nato nel settore informale, nelcosiddetto “lavoro nero”. Nei paesi sviluppati il lavoro ne-ro viene biasimato soprattuttoper l’evasione fiscale. Sarebbe op-portuno ricordarne altri aspettisocialmente ben più deleteri: sa-lari infimi, nessuna sicurezza diimpiego, condizioni e sicurezzasul lavoro esecrabili, maggioreesposizione alla concussione daparte dei funzionari pubblici.Far uscire la stragrande maggio-ranza dei lavoratori dei Pvs dalsettore informale, dal lavoro ne-ro, è in primo luogo un impera-tivo morale a mio avviso nonadeguatamente considerato. Né, credo, sia corretto obiettareche, nonostante la crisi, nel 2008

gli investimenti diretti nei Pvs,secondo le stime dell’Unctad, so-no addirittura cresciuti del 17%raggiungendo 621 miliardi didollari e che, pertanto, il settoreprivato può cavarsela da solo. Il fatto è che tale rispettabilissi-ma cifra comprende realtà moltodiversificate: l’insieme dei paesimeno avanzati ha ricevuto inve-stimenti per complessivi 33 mi-liardi di dollari, contro i 108della Cina, i 63 di Hong Kong,i 45 del Brasile.Se si considera, poi, che gli inve-stimenti diretti esteri non appor-tano solo capitali ed occupazione,ma anche nuovi e più avanzati si-stemi produttivi e collegamentia reti internazionali di distribu-zione (tra l’altro ormai più di unterzo del commercio internazio-nale si svolge in house), risultaevidente che, in un mondo sem-

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pre più globalizzato i paesi chenon ricevono investimenti direttiesteri rischiano di essere ancorpiù marginalizzati.Il successo del microcredito inanni recenti dimostra come ideeinnovative basate su una effetti-va conoscenza diretta della real-tà verso la quale si indirizzanopossono produrre risultati note-voli con mezzi tutto sommatomodesti.Il microcredito si fonda, in ultimaanalisi, sulla felice intuizione delpremio Nobel Muhammad Yunusriguardante lo spirito di corre-sponsabilità dei beneficiari. Ma sesi supera la dimensione micro iprofili tecnici si fanno più com-plessi ed articolati. Si possonotuttavia porre in essere intere pa-noplie di soluzioni: aiuti a banchelocali perché finanzino capitalecircolante e non solo acquisti al-

l’estero, si può chiedere ai governiche beneficiano di cancellazioni dicrediti che il controvalore in mo-neta locale sia destinato a tal fine(invece di tradursi in un genericosostegno al bilancio statale come,di fatto, finisce sempre per avve-nire per ignavia), si possono au-mentare i fondi destinati all’assi-stenza tecnica, si possono favorirenon solo gli investimenti diretti,ma anche i cosiddetti non-equityinvestments, particolarmente adattiall’operatività delle Pmi, si posso-no costituire fondi di garanzia esimili.Ma soprattutto occorre convincersiche non c’è sviluppo umano senzasviluppo economico né sviluppoeconomico senza impresa, che svi-luppare un tessuto di piccole im-prese è un obiettivo umano e so-ciale prima ancora che economico.Di conseguenza bisogna aumen-

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IMPRESAGiovannangelo Montecchi Palazzi

tare decisamente gli sforzi e glistanziamenti a dono e a credito.Nel caso di crediti accettare leinevitabili perdite connesse coni rischi di impresa (che comun-que, in percentuale, saranno in-feriori alle cancellazioni dei de-biti pubblici degli ultimi anni)e di cambio (salvo in caso diprestiti a grandi imprese espor-tatrici). Anche se è frutto diestrapolazioni assai complesse,si può affermare senza timore dismentite sostanziali che la per-centuale degli aiuti pubblici al-lo sviluppo destinati al settoreprivato è inferioreal 10%.L’accento andreb-be posto sui paesimeno avanzati,intesi come queipaesi nei quali,come spesso av-viene, bassi livel-li di reddito si accompagnano abassi livelli dell’indice di svi-luppo umano. Sono i paesi cherischiano più fortemente di es-sere esclusi ed emarginati daifenomeni di globalizzazionedell’economia. La maggior par-te di essi si trova in Africa.Vi è poi, a livello globale, a ca-vallo tra le microimprese e lepiccole imprese, un fenomenonon necessariamente nuovo (noiitaliani lo abbiamo conosciuto evissuto fino agli anni Sessantadel secolo scorso) ma che sta as-sumendo dimensioni sempre piùrilevanti: quello delle rimesse de-gli emigrati.Le rimesse dirette verso i Pvs tra-mite canali formali hanno rag-

giunto nel 2008 l’ammontare di305 miliardi, più di tre volte iflussi netti di aiuti ufficiali allosviluppo al netto delle cancella-zioni dei debiti. Nello stesso anno, secondo datidella Banca d’Italia, le rimesse inuscita dal nostro paese verso tuttele destinazioni sono ammontate a5.979 milioni di euro. Per incisonel 2008 lo stanziamento com-plessivo italiano per aiuti pubbliciallo sviluppo era pari a 4.443,59milioni di dollari, pressapoco lametà.Si stima che circa il 70% delle

rimesse sia indiriz-zato a fini di puraassistenza familia-re, ma che il 30%,circa 100 miliardidi dollari (pari altotale dei flussi uf-ficiali di aiuto) siainvestito in piccole

iniziative produttive agricole, in-dustriali e commerciali.Ai fini di uno sviluppo capillaree bottom-up sarebbe estremamenteinteressante incentivare tali ri-messe a fini produttivi.Sarebbe anche un modo di con-tribuire all’integrazione degliimmigrati e, in qualche modo,ad un “rientro” non delle loropersone, ma delle loro capacitàacquisite, contribuendo così almitigare anche il grave problemadel drenaggio delle migliori ri-sorse umane dai Pvs.Tentativi in tal senso sono allostudio o in fase incipiente pressoistituzioni internazionali (adesempio l’Ifad a Roma), ma nes-suno si è ancora affermato. La

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Occorre convincersi che non c’è sviluppoumano senza sviluppoeconomico e nulla puòesistere senza impresa

Francia ha avviato un sistema dicrediti di imposta che pare trop-po farraginoso da gestire.Un’idea, promossa da Assafrica &Mediterraneo e recepita da Fare-futuro nella sua recente pubblica-zione Fare Italia nel mondo, puòessere quella di abbinare le ri-messe al microcredito medianteincentivi concessi dalla Coopera-zione italiana allo sviluppo.Si tratta di una proposta che riu-nisce semplicità operativa, bassicosti ed elevati livelli di sicurez-za contro abusi. Si consideri che BancoPosta(9.000 sportelli in Italia) ha unaccordo con Gramm Transfer(110.000 sportelli al mondo) cheprevede rimesse a partire da cifremodestissime a costi minimi. Siconsideri altresì che le modernetelecomunicazioni offrono com-provate tecniche di codificazione.Ciò premesso, in termini banali:se un immigrato volesse contri-buire con le sue rimesse al rim-borso di un microcredito conces-so ad un suo famigliare nel paesedi origine, invece di indirizzarleal parente in questione potrebbeindirizzarle direttamente all’en-tità di microcredito concedenteed il codice attribuito alle rimes-se potrebbe attivare automatica-mente un contributo della nostraCooperazione allo sviluppo.Escludendo, per ovvi motivi, ipaesi maggiori beneficiari comeCina e Romania e limitandosi aimicrocrediti dei paesi menoavanzati, le cifre in gioco sareb-bero alla portata anche delle scar-se risorse della nostra Coopera-zione.

In compenso, se l’Italia riuscissead avviare per prima un sistemafunzionante di tal genere ne rica-verebbe un notevole ritorno diimmagine in sede internazionale,mentre all’interno darebbe unaprova tangibile della volontà divenire incontro ai bisogni degliimmigrati e delle famiglie diprovenienza contribuendo all’in-tegrazione di coloro che sono ve-nuti nel nostro paese con un au-tentico progetto di lavoro e divita, così come un tempo avveni-va per i nostri emigrati.

1 Per l’insieme dei paesi Ocse i debiticancellati in tale contesto nel 2005hanno superato 20 miliardi di dollariper poi calare sensibilmente. Comun-que nel 2008 sono ammontati a 8.687milioni di dollari, di cui 813 milioniprovenienti dalla cooperazione italiana(18% degli stanziamenti disponibili).2 Questo fattore ha contribuito a che,da Tangentopoli in poi, la Cooperazioneitaliana tenda a delegare le sue funzioni.Nel 2008 ha affidato il 68% dei suoifondi al canale multilaterale gestendo,quindi, direttamente solo il rimanente32%. In media i paesi Ocse indirizzanoal canale multilaterale solo il 30% deifondi. La visibilità internazionale dellaCooperazione italiana ne risulta, quin-di, fortemente sminuita.

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giovannangelo montecchi palazzi

Vicepresidente Assafrica&Mediterraneo-Con-

findustria.

L’Autore

IMPRESAGiovannangelo Montecchi Palazzi

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DI FRANCESCO CROCENZI

Servono investimentiper diventare adulti

Per riuscire a innescare un meccanismoeconomico virtuoso, è essenziale chel’Africa sia parte attiva delle decisioni

economiche che la riguardano. In un mondoeconomico globalizzato, se un soggetto nondecide saranno altri a farlo per lui. La caritàbuonista occidentale e lo sfruttamento cinesestanno danneggiando l’intero continente.

La soluzione più efficace peraiutare l’Africa e mostrarle con ifatti il rispetto che merita non èquella delle donazioni a cascata,ma un deciso cambio di approc-cio verso il Continente nero, chedovremmo smettere una voltaper tutte di vezzeggiare comeun bambino che non cresce mai,ed in quanto tale sempre biso-gnoso di aiuti e di carità, maconsiderare finalmente un adul-to nel concerto dell’economiaglobale e globalizzata.

L’Africa non deve ricevere ele-mosine ma attrarre investimenti.Solo i secondi possono infatti ga-rantire uno sviluppo sostenibile1,solido e su larga scala, perché leelemosine, espressione di una at-titudine mentale innaturale, purse lodevole, dell’homo oeconomicus– poiché questi cerca per sua in-dole il profitto – non potrannoche avere una incidenza limitatarispetto ai bisogni di intere po-polazioni, che non devono népossono assuefarsi a vivere di ca-

rità, mentre iniziative basate suscelte economiche, a loro voltadettate da criteri di mercato edella legge domanda-offerta, pos-sono ottenere quei risultati di al-locazione ottimale delle risorse suscala macroeconomica che assicu-rano il relativo benessere delle so-cietà del Primo mondo. In questo contesto è essenzialeche l’Africa sia parte attiva delledecisioni economiche che la ri-guardano e non può restarne fuo-ri perché in un mondo globaliz-

zato, in cui cioè la scelta di doveallocare i fattori della produzionenon ha più confini, se un sogget-to non decide saranno altri a farloper lui, volente o nolente, ed èquello che sta succedendo ora conl’Africa: debole, se non inesisten-te da un punto di vista commer-ciale e finanziario, ma ricca di ri-sorse, è sempre stata oggetto emai soggetto delle decisioni sucome usare queste ricchezze na-turali, per cui non sono gli afri-cani a trarre profitto dalla loro

Servono investimentiper diventare adulti

MACROECONOMIAFrancesco Crocenzi

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terra. Questo processo va sempredi più degenerando nello sfrutta-mento dell’Africa da parte di po-tenze a loro volta emergenti edaffamate di materie prime, comei cinesi, che non hanno né la sen-sibilità per i diritti umani né isensi di colpa per il passato colo-niale di noi europei. E così, senoi occidentali ci siamo “limita-ti” negli anni del postcoloniali-smo a sfruttare e speculare sullerisorse naturali dell’Africa, i neo-colonialisti del Far east fannomolto di peggio, invadendo fisi-camente il suolo dell’Africa perdepredarlo: comenoto infatti moltiStati asiatici han-no o t t enuto estanno ottenendoin conces s ioneampie porzioni diterre coltivabili dipaesi africani percoltivarli o sfruttarli in altro mo-do a proprio esclusivo vantaggio.Essere travolti dalla globalizza-zione senza esserne minimamen-te parte attiva comporta lo sna-turamento delle economie nazio-nali che si trovano in questo sta-to di soggezione, perché il fattodi asservirle a dei meccanismi didomanda e offerta su scala plane-taria, che prescindono quindicompletamente dalla domandanazionale, porterà delle economiepiccole ad essere monotematichee quindi drammaticamente vul-nerabili ad oscillazioni dei prezzidel solo bene o risorsa che produ-cono e su cui basano la totalitàdei loro redditi e sostentamento.Risultato di ciò è la sconfortante

situazione dei mercati di moltipaesi africani di oggi: costretti aprodurre ciò che non consumanoe quindi a consumare ciò che nonproducono. Per porre rimedio a questo gravestato di cose in cui sembrano esi-stere i soli due estremi dell’ele-mosina da un lato e del selvaggiosfruttamento dall’altro, occorreun deciso cambio di atteggia-mento verso l’Africa, che poi ri-flette quanto noi occidentali fac-ciamo da sempre e si sintetizzanel sacro principio del do ut des. Infatti, per quanto strano, carità

buonista e sfrutta-mento cinese han-no un punto in co-mune, che è lamancanza di sinal-lagma tra quantosi dà e quanto siriceve dall’Africa,ovviamente in sen-

so opposto nell’uno e nell’altrocaso. Un approccio sinceramentecapitalista, invece, comportereb-be che, al pari di quanto succedein ogni altra parte del mondo, ioricavo profitti, ma come ritornodi quanto ho investito. Gli investimenti comportanomovimenti di capitali, e i capita-li si reperiscono in vario modofavorendo l’incontro della do-manda e dell’offerta di risorse fi-nanziarie. Questo incontro di do-manda e di offerta di capitali haluogo in due modi principali. Nel primo, vi è uno stesso sog-getto che si pone come “prendi-tore” e “fornitore” di capitali, ac-quisendo da un lato i mezzi fi-nanziari da chi intende impiegar-

Serve un approcciocapitalista così da poter favorirel’incontro tra domandae offerta

IL LIBRO

Lo scopo dichiarato di Dambisa Moyo èdistruggere il falso mito della efficaciadegli aiuti ai paesi poveri. Questa è latesi della studiosa di economia, già con-sulente della Banca mondiale e dellaGoldman Sachs, autrice di Dead Aid. Inrealtà, sostiene la studiosa nativa delloZambia, inondare di soldi le fragili na-zioni africane serve solo ad arricchire glispeculatori e a tacitare le coscienze deibenefattori. I sempre più numerosi so-stenitori della politica degli aiuti riten-gono, spesso in assoluta buona fede, cheil problema dei paesi sottosviluppati siala mancanza di denaro, e che, quindi,basti sopperire a tale mancanza per ri-solvere tutto. per fare un esempio, tra imolti citati dettagliatamente nel libro, ilPil di numerose nazioni africane, tra cuiMalawi, Burundi e Burkina Faso, neglianni Ottanta superava quello della Cina.L’autrice mette in discussione anche lanascita dei regimi democratici. Siamo si-curi – si chiede la studiosa africana –che che i regimi democratici siano la so-luzione adatta a paesi giovani, fragili edivisi in etnie in continuo contrasto fraloro? No, è la risposta, perché quella cheè stata in Occidente una sofferta e lungaconquista durata secoli, non può diven-tare la panacea per risolvere situazionitotalmente diverse; anzi, parafrasandoKarl Kraus su Freud, può addirittura di-ventare il male di cui pretende di esserela cura. La ricchezza è una maledizione,e se la disponibilità di materie prime èun dato di fatto, che ha fatalmente atti-rato l’interesse di individui e governisenza scrupoli, l’abbondanza di denaroproveniente dagli aiuti non è altrettantoinevitabile, e può quindi essere messa indiscussione. Il problema è che, continuala Moyo, nessuno si è preso la briga dicoinvolgere i diretti interessati.

Africa, gli aiutiche fanno male

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li o, più frequentemente, solo de-positarli, e, dall’altro lato, met-tendoli a disposizione di chi neha bisogno. Dare a qualcuno lapossibilità di disporre di capitaliè un servizio per il quale vienepagato un prezzo, che nel nostrocaso si chiama interesse; ciò det-to il soggetto di cui sopra, che sipone come intermediario tra chidispone di capitali e chi intendeprenderli in prestito, è evidente-mente il sistema bancario, chelucra un aggio fra quanto paga atitolo di retribuzione dei deposi-ti e quanto preleva come interes-se sui mezzi finanziari che conce-de in prestito. Il secondo modo è quello di isti-tuire dei sistemi organizzati discambi, tra i quali i principalisono detti “borse”, in cui far in-contrare senza interposizioni ladomanda e l’offerta di strumentie risorse finanziarie. Nei mercatiregolamentati viene trattato tut-to ciò che abbia un valore econo-mico, dalle merci ai metalli pre-ziosi ai titoli di debito (le obbli-gazioni), per finire alla categoriaprincipale, e cioè i titoli di parte-cipazione al capitale delle impre-se, che sono le azioni. La funzio-ne della borsa è quindi moltoimportante perché offre alle im-prese un sistema di finanziamen-to, alternativo al sistema banca-rio, che fa direttamente appelloal risparmio offrendo in cambioagli investitori una partecipazio-ne al capitale dell’impresa stessa. Dal lato degli investitori, la pre-senza di una borsa evoluta ed ef-ficiente permette di impiegare ilrisparmio scommettendo sullo

MACROECONOMIAFrancesco Crocenzi

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sviluppo del sistema economico.In questo contesto, uno dei me-todi con cui il risparmio degliinvestitori, soprattutto quellipiccoli, viene convogliato nelleborse è attraverso i fondi di inve-stimento. Questi, come noto, so-no degli organismi costituiti sot-to varia forma da un promotoreal fine di accumulare un insiemedi risorse (e cioè denaro) da ge-stire “in monte”, risorse che sa-ranno impiegate in conformità apolitiche e obiettivi di investi-mento preventivamente dichiara-ti agli investitori in un docu-mento che si chia-ma prospetto o re-golamento di ge-stione. Un adeguato svi-luppo delle borselocali può quindidare modo alle im-prese africane direperire i capitali di cui hanno bi-sogno per sviluppare le loro attivi-tà, ed agli investitori, tra cui i fon-di ed i risparmiatori che li acqui-stano, di diversificare le opportu-nità di profitto. Investire in azioni comporta tut-tavia dei rischi perché l’anda-mento del loro prezzo sarà legatoalle vicende dell’impresa; inve-stire in azioni di alcuni paesicomporta poi dei rischi supple-mentari perché oltre al rischiorelativo all’impresa – noto comerischio “emittente” – vi sarà an-che il rischio legato alle vicendepolitiche di un certo paese. Per comprendere come tali rischisiano percepiti dai grandi inve-stitori internazionali, è utile ri-

portare una sezione del capitolosui fattori di rischio connessi agliinvestimenti nei mercati emer-genti, contenuto nel prospetto diuno dei più grandi fondi di inve-stimento europei, il MorganStanley Investment Fund: «In al-cuni Stati vi è la possibilità diesproprio delle attività, di tassa-zioni aventi il carattere di unaconfisca, di instabilità politicae/o sociale, e di sviluppi diplo-matici che potrebbero influenza-re gli investimenti in tale Stato.Potrebbe esservi un accesso piùlimitato di quanto solitamente

avviene alle infor-mazioni relativeagli strumenti fi-nanziari, ed entitàfinanziarie in alcu-ni Stati potrebberonon essere sogget-te a certi standarddi contabilità, re-

visione e rapporti finanziari para-gonabili a quelli ai quali alcuniinvestitori sono abituati. […] Isistemi di regolamento nei mer-cati emergenti potrebbero nonessere organizzati quanto quellidei mercati evoluti. Potrebbequindi esservi il rischio che unpagamento venga ritardato e chela liquidità od i titoli di un com-parto possano per questo esserecompromessi per le mancanze o idifetti nel sistema dei pagamen-ti. In particolare, la pratica deimercati potrebbe richiedere ilpagamento prima della ricezionedei valori mobiliari da partedell’acquirente o che il valoremobiliare venga rilasciato primadella riscossione del pagamento.

Un corretto sviluppodelle borse localipermetterebbe alle imprese africane di reperire i capitali

[…] Altri rischi potrebberocomprendere, a titolo di esem-pio, controlli sugli investimentistranieri e restrizioni sul rimpa-trio dei capitali e sul cambio del-le valute locali con il dollaro sta-tunitense, l’impatto sull’econo-mia di disordini religiosi o di na-tura etnica».I rischi di tipo politico sono atutt’oggi propri di molti Statiafricani, nei quali si riscontranocasi di corruzione e di scarsa tu-tela degli investitori esteri, aiquali in casi estremi può essereimpedito di rimpatriare i profittiottenuti nello Sta-to in questione.Dal momento chespingere per l’eli-minazione dei ri-schi politici va atoccare le preroga-tive sovrane delpaese interessato,la materia è molto delicata e de-ve essere affidata a processi dimoral suasion a livello internazio-nale. A tal fine, un ottimo puntodi partenza per un percorso diadeguamento della legislazioneeconomica e finanziaria dei paesiemergenti a standard idonei a ras-sicurare gli investitori interna-zionali potrebbero essere i legalstandard elaborati dalla presiden-za italiana del G8 nel 2009 conla collaborazione dell’Ocse. I le-gal standard nascono all’apicedel la cr i s i f inanziar ia del2008/2009 sulla base di una con-statazione molto semplice, e cioèche i disastri che si sono verifica-ti nelle economie di tutto ilmondo sono stati in gran parte

dovuti ad un eccesso di deregula-tion: nessun limite all’uso di de-rivati sempre più spinti, nessunlimite alle retribuzioni dei diri-genti, nessun limite all’indebita-mento di grandi conglomerati fi-nanziari. Se invece vi fosse statauna sorta di “costituzione econo-mica” a guida dei legislatori edelle autorità di vigilanza, speciedei paesi alfieri della deregulation,è probabile che le cose sarebberoandate diversamente. Anche se i giuristi italiani edell’Ocse hanno elaborato i legalstandard rivolti a Usa e Regno

Unito, nei cui si-stemi si è incubatoil virus della crisi,gli stessi prin cipipossono essere usa-ti come modelloanche per le legi-slazioni economi-che de i pae s i

emergenti, una sor ta di “bollinoblu” di una giurisdizione che at-testi che essa si adopera per crearecondizioni di correttezza e buonaamministrazione a beneficio (an-che) degli investitori. I legal standard sono i seguenti:1. alla base del mercato vi deveessere integrità e trasparenza; 2.al centro del sistema, comunquebasato sul mercato, vi devono es-sere i bisogni dei cittadini; 3.non si deve consentire di ridurrele spese per il lavoro e la tuteladell’ambiente al fine di ridurre icosti delle imprese; 4. l’evasionefiscale, ma anche l’elusione, sonodannose per l’intera società; 5. irapporti tra governi e impresedevono essere bilanciati e traspa-

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Per adeguare la legislazione finanziaria si devepartire dai legal standardelaborati dall’Italia

MACROECONOMIAFrancesco Crocenzi

renti (si pensi all’attività di lob-bying); 6. vi deve essere responsa-bilità e chiarezza nei rapporti traamministratori ed azionisti delleimprese; 7. l’informazione sullostato di salute delle imprese e laloro proprietà e situazione finan-ziaria deve essere tempestiva; 8. ipagamenti e i compensi (e cioègli stipendi dei manager) devonoessere sostenibili – e cioè non ec-cessivi per le possibilità econo-miche dell’impresa – e coerenticon i suoi obiettivi di lungo ter-mine; 9. la corruzione, interna einternazionale, è un crimine edeve essere efficacemente punita;10. il riciclaggio di denaro vaperseguito con decisione; 11. le

pratiche protezionistiche sonoincompatibili con il libero mer-cato e per questo vanno vietate;12. il segreto bancario non puòessere un ostacolo all’applicazio-ne dei principi che precedono.Non sfugge, quindi, che un paeseemergente che attuasse in pieno il“dodecalogo” sopra enunciato po-trebbe diminuire il rischio di tipopolitico descritto nel prospetto diMorgan Stanley sopra citato. Un altro elemento fondamentaleper il buon funzionamento diuna borsa è la sua liquidità. Li-quidità significa in ultima anali-si che in un mercato devono cir-colare abbastanza denaro ed ope-ratori da evitare agli investitori

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di dover svendere pur di trovareun acquirente e, parimenti, chese un’impresa decide di venderein borsa parte delle sue azioni,possa farlo a condizioni soddisfa-cienti. Perché il mercato sia fre-quentato dagli investitori, è ne-cessario che vi siano molteplicipossibilità di impiego dei lorocapitali, e cioè che il numero disocietà quotate sia relativamentecospicuo, perché altrimenti ilmercato langue. In concretoquindi, saranno ben pochi i fre-quentatori di un mercato in cuisono quotate meno di dieci so-cietà, gli scambi saranno quindirarefatti e in ultima analisi ilprezzo delle azioni di questo

sparuto gruppo di imprese saràfalsato, perché sarà determinatonon dal loro valore intrinseco –dato da utili e prospettive dicrescita – ma da quanto i rarifrequentatori del mercato sonodisposti a pagarle, prendere o la-sciare in mancanza di una garatra compratori per acquistarequel titolo, che invece, ove vifosse, ne aumenterebbe la do-manda e quindi il prezzo. Il problema della rarefazione de-gli scambi e quindi della liquidi-tà è molto concreto per i paesidell’Africa subsahariana, le cuieconomie, prese singolarmente,non sono capaci di formare mer-cati con masse critiche tali da at-trarre gli investitori. Per ovviarea questo limite, un gruppo diStati dell’Africa occidentale hacreato da ormai svariati anni unaborsa sovranazionale per avere ununico listino che raggruppasse leloro società quotate: si tratta del-la Bourse régionale des valeursmobilières (Brvm), costituita nel1998 da Benin, Burkina Faso,Guinea Bissau, Costa d’Avorio(nella cui capitale Abidjan è si-tuata la Brvm), Mali, Niger, Se-negal e Togo, che conta una qua-rantina di titoli quotati. Anchese la capitalizzazione della Brvmnon è a tutt’oggi molto significa-tiva, l’esperienza potrebbe essereripetuta in altre regioni del-l’Africa con la creazione di ulte-riori borse regionali nel caso incui i mercati nazionali, presi sin-golarmente, non fossero in gradodi assicurare una liquidità suffi-ciente; nel far ciò aiuta il fattoche le barriere linguistiche sono

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MACROECONOMIAFrancesco Crocenzi

ridotte dato che l’inglese o ilfrancese sono di uso corrente inAfrica (i paesi membri dellaBrvm sono tutti francofoni tran-ne uno). In tale contesto, sonostati avviati contatti tra Kenya,Tanzania e Uganda (paesi anglo-foni) per la creazione di una Bor-sa regionale dell’Africa orientale,che a tutt’oggi non ha iniziato adoperare, mentre non sono arrivatia buon fine i tentativi di costi-tuire una borsa centrafricana conCamerun, Repubblica Centrafri-cana, Ciad, Repubblica del Con-go e Gabon.Ad oggi, vi è solouna grande borsain Africa parago-nabile per dimen-sioni a quelle deipaesi del nord delmondo, quella delSudafrica, che ha425 società quota-te2 e una capitalizzazione di borsadi 549 miliardi di dollari3. Se-guono a grande distanza la Borsaegiziana, con 373 società quotateed una capitalizzazione di 85 mi-liardi di dollari, quella della Ni-geria (213 titoli, 80 miliardi didollari di capitalizzazione), quelladella Namibia (29 società per 79miliardi di dollari di capitalizza-zione) e, distanziata di molto, laBorsa del Ghana con quasi quin-dici miliardi di dollari di capita-lizzazione e 35 società quotate.Da questa classifica delle borsedel continente nero si nota chequelle della fascia subsaharianasono decisamente marginali da-to che le più importanti si tro-vano o nella parte mediterranea

o nell’Africa australe. Da partesua la Borsa della Nigeria, chepotrebbe avere una liquiditàsufficiente, sconta il rischio po-litico di un paese con un fortegrado di corruzione – che nongarantisce un quadro normativocerto per gli investitori interna-zionali – ed una conflittualitàmolto forte, che se prima era li-mitata al movimento del Mendsi sta ora pericolosamente trasfor-mando in un conflitto religiosotra cristiani e musulmani. Considerando l’Africa subsaha-riana, vi sono quin di delle criti-

cità date dal fattoche le borse dipaesi relativamen-te stabili (Ghana,Brvm) non hannolivelli di liquiditàadeguati, mentrequelle più grandihanno forti rischi

politici. Quali soluzioni? Una la abbiamogià citata a proposito del rischiopolitico, ed è quella di adottare ilegal standard dove oggi essi sonodisattesi, magari facendone certi-ficare l’effettiva attuazione daparte di organismi internaziona-li. La seconda è ovviamente quel-la di cercare di aumentare la li-quidità dei mercati ancora asfit-tici per renderli attraenti per gliinvestitori internazionali. Ciòpuò verificarsi quotando non solole società locali, ma anche le fi-liali africane di società europee ostatunitensi ivi costituite per“delocalizzare” (e cioè stabilirsidove i fattori della produzionesono meno cari), che in tal modo

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Bisogna aumentarela liquidità dei mercatie renderli attraenti agliocchi degli investitoriinternazionali

potrebbero reperire altri capitaliper le loro operazioni ma dovreb-bero impegnarsi a reinvestire al-meno una parte degli utili nelpaese di quotazione; inoltre, lecomunità della diaspora che ri-siedono fuori dall’Africa potreb-bero essere sensibilizzate ad inve-stire i loro risparmi in societàdella madrepatria per favorirnelo sviluppo tramite, ad esempio,fondi di investimento dedicati. La delocalizzazione, se attuatacon delle cautele e senso dellamisura per evitare il rischio giàpaventato che un paese debbaprodurre solo ciò che non consu-ma (importando quindi ciò checonsuma), porta dei benefici per-ché un accordo di produzione dibeni fra un’impresa di un paeseemergente e quella di un paesesviluppato dà molta più tran-quillità alla prima, che avrà ga-rantiti sbocchi di mercato anchenei paesi più ricchi e non dovràfare affidamento sulla sola do-manda del proprio mercato do-mestico (e cioè quello emergen-te), di per sé ancora debole e for-temente ciclica, e ciò si ripercuo-terà sul valore della filiale. Una borsa sviluppata aiuta leimprese a trovare mezzi finan-ziari. Se le imprese sono in buo-ne condizioni, ne risentirà anchel’occupazione, e ciò, specie neimercati emergenti, significa fa-vorire la pace sociale. Un mag-giore benessere economico atte-nua la spinta a lasciare un paesepovero e contribuisce a spegnerefocolai di estremismo antiocci-dentale il cui combustibile mol-to spesso è la povertà e l’animo-

sità verso un sistema economicoe sociale di cui si percepisconosolo gli elementi di iniquità inquanto si è esclusi da ogni bene-ficio. La formazione di un cetosociale intermedio che veda sod-disfatti per la prima volta inmaniera stabile ed irreversibile isuoi bisogni primari è di fonda-mentale importanza per l’Africa,che potrà quindi vedere l’Occi-dente non come uno sfruttatoreche ogni tanto, graziosamente,elargisce carità, ma come unpartner commerciale da trattare eda cui essere trattati alla pari.

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francesco crocenzi

Avvocato specialista in diritto finanziario, ha in-

segnato diritto comunitario all’Università Luiss

Guido Carli. Collabora con la rivista Imperi. È

autore dei libri Onu, la sfida italiana (Nuove

idee, 2005) e The Italian Hub (Rubbettino,

2009).

L’Autore

MACROECONOMIAFrancesco Crocenzi

1 Per evitare equivoci, il termine “so-stenibile” è qui usato non nel significatodi “compatibile con criteri ambientali”,di per sé determinati in modo affattosoggettivo, ma nel senso di attitudine diun fenomeno a mantenersi nel tempo.2 Tutti i dati sulle borse africane sonoal 2008 – Fonte: African securities ex-changes association – Asea.3 “Capitalizzazione di borsa” indica lasomma del valore dei titoli trattati inuna certa borsa.

Il colonialismodel Terzo Millenio

DI FEDERICO BRUSADELLI

La presenza cinese in Africa viene da lontano e ha origine nel Quattrocento. Oggi, però, l’invasività di Pechino negli affari economici e politici del continente preoccupa l’Occidente, che rischiadi perdere per sempre un rapporto fondamentale.

Nel 1415 l’ammiraglio del Cele-ste Impero Zheng He sbarcavasulle coste della Somalia. L’ordi-ne di Yongle, terzo sovrano delladinastia Ming, era chiaro: espan-dere la luce dell’Impero di mez-zo, costruire una “sfera d’influen-za” globale d’ispirazione confu-ciana che lambisse quasi tutto ilmondo conosciuto, realizzare unanello di civiltà che consacrassela Cina come fulcro del mondo.La visione ambiziosa di un impe-ratore ambizioso (per intenderci,fu lo stesso che spostò la capitalea Pechino, avviò la costruzionedella Città proibita, riaprì il Ca-nale imperiale, fermò i mongolialle frontiere e ordinò la compi-lazione di una delle più straordi-narie enciclopedie che la storiaumana ricordi), consegnata nellemani di un uomo altrettanto am-bizioso e visionario. Un uomoche, secondo qualche storico “co-raggioso”, avrebbe spinto le navicinesi fino in America, antici-pando lo sbarco di Colombo. Al

di là delle ipotesi più o menofantasiose, è certo che Zheng Hecompì sette viaggi tra il 1405 eil 1433, tra l’Oceano indiano, laPenisola arabica e l’Africa.Un’impresa interrotta dai suc-cessori dell’imperatore “illumi-nato” per motivi economici. Unascelta, questa, che segnò il desti-no della Cina: mentre l’Imperodi mezzo si chiudeva, orgoglio-so, dietro la Grande muraglia,l’Occidente si apriva e gettava lebasi per il suo futuro da “con-quistatore”. Nel novembre del 2009, in un al-bergo di lusso sulle rive del MarRosso, per l’esattezza a Sharm-el-Sheik, arriva il chiaro segnale chela Cina, a quasi sei secoli dalla fi-ne del sogno di Yongle, forte or-mai di una crescita economicatanto inattesa quanto impetuosae di una stabilità politica all’ap-parenza ferrea, ha deciso di ri-prendere quel filo interrotto.L’immagine parlava da sé: eranoin cinquanta, tra capi di Stato e

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di governo africani (più di quantine raccolgano, di solito, i verticidell’Unione africana), ad attende-re Wen Jiabao. In cinquanta perstringere la mano al primo mini-stro cinese, uno degli architettidella crescita economica della Re-pubblica popolare e della suaespansione. Un appuntamentoche ha mostrato definitivamenteal mondo (e a chi per troppotempo ha finto di non accorgerse-

ne) il potere cinese nel continen-te nero. Perché Pechino consideral’Africa una sua “sfera di influen-za”, ormai. E lo fa impostando unnuovo metodo di colonizzazione,una occupazione “da Terzo Mil-lennio”, spregiudicata, rapida,pragmatica. Senza coloritureideologiche, senza velleità diesportazione della democrazia,senza interesse alcuno per impic-ci come i “diritti umani” o le “li-

CINA E AFRICAFederico Brusadelli

bertà politiche”. Soldi, scambi,investimenti. Con dittatori opresidenti eletti, fa poca differen-za. L’importante è garantirsi lematerie prime e ricambiare coninfrastrutture costruite da impre-se cinesi. Strade e ponti in cam-bio di petrolio. Ospedali in cam-bio di rame e cobalto. La Cina sista comprando l’Africa pezzo apezzo, e lo sta facendo sotto gliocchi del resto del mondo.Affamata di materie prime epronta a cucirsi addosso un nuo-vo ruolo globale, la Cina noncompra soltanto. Pechino coltival’ambizione, oramai sempre piùapertamente, di diventare lanuova portavoce di tutto il mon-do in via di sviluppo. Un’opera-zione che si riallaccia all’intui-zione di quella Conferenza diBandung che nel 1955, in pienaGuerra Fredda – grazie alla lun-gimiranza e al genio politico diZhou Enlai, uno dei veri padridella Repubblica popolare cinese– aveva dato vita al gruppo dei“non allineati”. Un progetto poifallito. Ma, come i viaggi diZheng He, sono storie che sipossono riprendere. C’è dunque, nella “neocolonizza-zione” africana, un doppio benefi-cio per Pechino. C’è uno sfogo po-tenzialmente enorme per il suoflusso crescente di produzioni (daivestiti ai telefonini). Ma c’è, quelche più conta, una fonte preziosae quasi vergine di fonti di energia:cibo necessario per un gigante inmarcia sulla strada di uno svilup-po che, a lungo termine, pare in-sostenibile. Un’occasione da nonfarsi sfuggire, insomma. E i capi

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La Somalia liberafa sentire la sua voce

Erano gli anni Sessanta e dal mare Ra-dio Rock lottava con l’austero (e bac-chettone) governo britannico per  farsuonare il rock and roll. Un po’ pirati eun po’ rivoluzionari, un po’ ribelli e unpo’ dj, i protagonisti del film I love Ra-dio Rock di Richard Curtis salpano purdi non farsi imbavagliare e infiammanogli animi degli spettatori. Giri l’angolo epoco lontano da dove chiunque può di-re più o meno tutto quello che vuolescopri che esiste chi quotidianamentelotta per non fare morire la libertà, intrincea per far sopravvivere l’informa-zione. Non è un film. Accade in Soma-lia che ogni giorno l’ultima radio liberadel paese rimasta in piedi lotti per re-stare in vita. Giornalisti autoctoni vesti-ti all’occidentale (già questo dettagliosarebbe sufficiente per far rischiare lo-ro la pelle qualora si avventurasseroper le vie della città) trasmettono le no-tizie tra le macerie di un angolo dellacittà raso al suolo e diventato il loroquartier generale. Il presidente SheikSharif che predica la riconciliazione inuna moschea, studiosi islamici che par-lano del gruppo di guerriglieri Shababresponsabile di mutilazioni alle mani, ilprezzo delle capre sul mercato: i gior-nalisti raccontano quello che c’è da diree da far sapere. Senza partigianeria, citengono a ribadire: «Se il governo faqualcosa di sbagliato, noi lo raccontia-mo», afferma orgogliosamente AbdiAziz Mahamoud Africa, corrispondentepolitico della radio. Il New York Times,ripreso da Repubblica, racconta la gior-nata tipo di questi coraggiosi operatori

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della comunicazione che hanno abdicatodalla propria esistenza per fare il loro la-voro. I ribelli li considerano vicini al go-verno e la loro vita è minacciata costan-temente. Dagli anni Settanta il territoriosomalo non trova pace ed è cannibaliz-zato a morte: dal ’91 non ha governo edè lacerato da una guerra civile connotatada logiche di clan, estremismo islamico einteressi nazionali. Appena nell’ottobrescorso una radio islamica somala pro-metteva ai vincitori di un suo quiz comepremio bombe a mano, fucili automatici,esplosivi. Ma lo stillicidio non si può rac-contare e chiunque cerchi di denunciarloal mondo o informarne i protagonistideve essere disposto a pagare con la vi-ta. Solo dal 2007 in Somalia sono statiuccisi  oltre venti  giornalisti, gravementecolpevoli di aver fatto il loro mestiere. «Ireporter che lavorano a Mogadiscio vivo-no in uno stato di allerta continuo.Spesso non sospettano di essere staticondannati a morte fino a quando lasentenza non viene eseguita. Bisognaimparare a essere paranoici» spiegavaAbdi Rahman, editor-in-chief di RadioShabelle, all’indomani dell’uccisione diMokhtar Mohamed Hirabe, direttoredella stessa emittente freddato con cin-que colpi di pistola nel mercato cittadi-no. Nell’ultima settimana gli Shabaab (ilbraccio armato di Al Qaeda in Somalia)hanno preso il controllo delle stazioniradio nelle città che presidiano, come ledue sud-occidentali di Chisimaio e Bay-dhaba. «Un giro di vite per la libertà diespressione e di stampa», riferisce OmarFaruk Osman, segretario generale del-l’Unione nazionale dei giornalisti somali,che denuncia anche  il rapimento di al-meno sei giornalisti solo negli ultimi

giorni. Ma da questo mattatoio a cieloaperto le antenne alte trenta metri diRadio Mogadiscio resistono. E continua-no a trasmettere e a difendere la loro li-bertà di farlo, oltre la paura e il perico-lo. Dal loro edificio segnato dai bom-bardamenti, con i mezzi appena indi-spensabili per fare di una radio una ra-dio, i 100 dipendenti circa dell’ultimaemittente libera di Mogadiscio lavoranoblindati. E per questo lavoro hanno do-vuto praticamente posticipare la lorovita a tempi migliori (se arriveranno):un plotone di soldati ugandesi dellamissione di pace dell’African union aproteggerli un po’, materassini spessipochi centimetri di gommapiuma perfarli dormire, l’ombra scura della morteper chi di loro voglia azzardarsi ad av-venturarsi per le strade della città. Incosa si rischia di incorrere lo mima conspaventosa semplicità Musa Osman,giornalista dell’emittente che il suo no-me vero spiega di averlo dimenticato daun pezzo: un dito che scorre sulla gola epoi silenzio. Tra le piastre vecchie e glialtoparlanti rotti con i cavi che fuorie-scono non è leggero il clima che si re-spira, ma gli scaffali di oltre tre metripieni di registrazioni ordinatamente eti-chettate lasciano un po’ di speranza.Vecchi discorsi, canti popolari, canzonipatriottiche, interviste con nomadi: chi-lometri e chilometri di storia e culturasomala sottratta alla distruzione deifondamentalisti. Un angolo spoglio didemocrazia che resiste, tenendo in vitaancora un po’ di speranza per questopaese martoriato. Almeno finché anchequesta voce libera non verrà soffocata. 

di Cecila Morettiripreso da Ffwebmagazine

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del Partito comunista cinese losanno benissimo. Meno evidenti sono le ricadutepositive per l’Africa. Certo, baste-rebbero i grattacieli di Luanda, lacapitale dell’Angola (che è il prin-cipale partner cinese nel continen-te), a testimoniare la concretezzadegli aiuti di Pechino. Ma il pun-to, in sostanza, è se il gioco valgala candela. Conviene avere unostadio all’avanguardia, sapendoche le merci a basso costo prodot-te in Cina inondano il paese e sof-focano le produzioni locali? Valela pena farsi costruire un’autostra-da nel deserto, eintanto farsi pro-sciugare le miniereper dare lo sprint aun’economia stra-niera? Provando asfuggire dagli op-posti estremi delcinismo e del ter-zomondismo di maniera, se lo èchiesto di recente anche AngeloFerrari, giornalista dell’AgenziaItalia, con Africa gialla. Un libroin cui racconta il suo viaggio inAngola, paese uscito da vent’annidi guerra civile per imboccare lastrada di questa nuova forma dicolonizzazione. E quello che escedalle pagine del libro, è un rac-conto da incubo. Bambini mina-tori che grattano il cobalto a maninude. Città in cui i pochi ricchisono separati, da un abisso semprepiù profondo, dall’assoluta mise-ria. Detenuti cinesi esportati co-me operai, non pagati e poi lascia-ti lì, con una nuova casa e un po’di terra regalata dalle autorità lo-cali, per farsi una nuova vita da

“stranieri”. Terra di conquista,frontiera da occupare. Così si pre-senta l’Africa agli occhi dei cinesi.Così la stanno trasformando. C’è un termine sempre più usatoper definire questo nuovo animalemitologico, protagonista presentema soprattutto futuro della storiaglobale: Cinafrica. Ed è anche iltitolo di un reportage di Serge Mi-chel e Michel Beuret che, accom-pagnati dal fotografo Paolo Wo-ods, hanno percorso quindici pae-si di questo “Far west del ventu-nesimo secolo”. Un’altra testimo-nianza che non lascia molto spazio

alla speranza, cheassottiglia le illu-sioni di chi consi-dera quello cineseun modello possi-bile per l’Africa.Sono immagini diun’epopea il cuiepilogo pare essere,

sempre e comunque, quello dellapovertà: un destino scritto, perchi proviene dalle remote campa-gne (o dalle prigioni) cinesi comeper chi nasce nelle bidonville dellemetropoli africane. Il racconto diun Far west che però non ha nes-suna libertà da regalare, nessunaopportunità da sognare. Nel 2007 il presidente cinese,Hu Jintao, progettò un ambizio-so grand tour africano. Come ilpiù recente vertice di Sharm elSheik, e come l’elefantiaco sum-mit sino-africano organizzato nelcuore della Città proibita pochimesi prima, doveva essere unmodo simbolico (e pienamentecinese, dunque) di mostrare almondo il nuovo ruolo di grande

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Nella neocolonizzazionecinese c’è un doppiobeneficio per Pechino:esportazioni e fonti preziose di energia

sponsor, protettore e alleatodell’Africa. Doveva essere unviaggio condito dagli applausi diun continente grato. Ma Hu, do-po essere passato in Sudan – fir-mando fascicoli di accordi e ta-cendo sugli orrori che si consu-mavano intanto in Darfur – adattenderlo in Zambia trovò, piùche gli applausi sperati, fischi eproteste. Voci di lavoratori la-sciati senza garanzie di sicurezza(decine e decine di morti in po-chi mesi), indignazione per i sin-dacati disciolti, rabbia per glispari su chi aveva provato a chie-dere qualcosa in più di due dol-lari al giorno (perché “non ciconsiderano neanche esseri uma-ni”). Un incidente di percorso,certamente. La penetrazione ci-nese in Africa non può ridursi aquesto. E l’Occidente ha colpestoriche, più o meno recenti, diportata enorme nei confronti del-l’intero continente. Eppure la viacinese non pare promettere mira-coli. O almeno non permette ilsilenzio. L’Occidente, l’Europa inparticolare, ha fondati motivi dipreoccupazione, in effetti. E nonsolo per motivi strategici e geo-politici, perché l’Africa ce l’ab-biamo di fronte. Non solo perevidenti ragioni commerciali edeconomiche. Ma anche per un al-tro aspetto, culturale e forse an-cora più fondamentale. I dirittiumani, per i cinesi, sono un in-tralcio in patria, figuriamoci inun altro continente. E fare affaricon tutti, come fa Pechino, fini-sce per vanificare il pur minimoeffetto delle (sempre troppo fle-bili) voci che da Occidente tal-

volta si alzano contro i tirannigrandi e piccoli – da Mugabe adAl Bashir – che hanno infestato oancora infestano l’Africa. Chi di-fende Pechino, accusa l’Europa el’America di “ipocrisia”, rispol-vera le tragedie del colonialismoe sottolinea le colpe del capitali-smo, del mercatismo e della glo-balizzazione. Ci sono buone ra-gioni per farlo, certo. Ma non èun argomento convincente. LaCina, forse, è molto peggio. E gliafricani probabilmente lo hannocapito più di noi.Ma intanto le università di Pe-chino sono piene di ragazzi afri-cani che vogliono imparare il ci-nese. Gli ideogrammi invece del-l’inglese. Il modello capital-co-munista invece delle liberalde-mocrazie classiche. È un dato,questo, che vale più di mille sta-tistiche, che pesa più di tantepercentuali di import/export. Èun’immagine che ci racconta chel’Occidente non solo non ha sa-puto risolvere i nodi dell’Africa,ma non ha saputo guadagnarsi lafiducia e la stima di un continen-te “chiave” per il futuro delmondo. E davanti a una Cina af-famata di riscossa e intenzionataa chiudere i conti con gli erroridella storia, è una disattenzioneche potrebbe costarci molto.

CINA E AFRICAFederico Brusadelli

federico brusadelli

Scrive per Ffwebmagazine e collabora con il

Secolo d’Italia. Laureato in Lingue e civiltà

orientali.

L’Autore

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Sono sceso con un vecchio tur-boelica a Tamanrasset, la capitaledel mondo Tuareg, nel suddell’Algeria, verso mezzanotte;mi aspettavano due guide, unnero alto e forte e un vecchio ma-grebino dalla barbetta bianca.Poche parole in bel francese:«Benvenuto, adesso possiamo an-dare», come se il ritardo fossecolpa mia. «Dove andiamo?».«All’Hotel des Etoiles», rispose-ro all’unisono con un sorriso am-biguo. Salimmo su una vecchiapolverosa Toyota, vroom e via ver-

so il deserto del Sahara. Un’oradi viaggio in un buio profondoche si aprì alla luce delle stelle.Stop davanti a un’acacia gigante-sca, scaricarono dall’auto tende esacchi a pelo: «Siamo arrivatiall’Hotel des Etoiles, monsieur. Èfortunato, le stelle ci sono». Duepadelle, un tegame e una teieradi ferro, quattro legnetti per farfuoco, un piatto di indefinibilicrepes, un denso tè verde e buona-notte. Si fa per dire: l’assoluto si-lenzio era opprimente, pauroso,mi cresceva in petto il pentimen-

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Storia calcistica di un continente

Quando il calciofa miracoliTra geopolitica e sport, speranze e disillusioni, in un viaggio tra deserti e savane a rincorrere quel pallone che muove le montagne e abbatte le frontiere.

DI ITALO CUCCI

to. Mi risvegliai nell’alba assolatama fresca, l’acacia popolata di uc-celli, tutto il contrario di quelche m’aspettavo dal Sahara sino-nimo di sabbia e calore. Misteropresto risolto: eravamo a mille-quattrocento metri e fummo pre-sto ai piedi del massicciodell’Hoggar, nel deserto di pietratagliato da canyon, da rughe scuredi basalto, da rugginose monta-gne rocciose già viste in un altromondo, fra l’Arizona e il Nevada.Piccoli roditori correvano senzatregua per sfuggire alle picchiate

dei falchi. Una natura integra eamica, serena come i miei accom-pagnatori coi quali le poche pa-role in francese diventarono pre-sto fluenti chiacchiere per soddi-sfare vicendevoli curiosità. Mi al-lontanai per salire su un massoaffondato nella sabbia per la pri-ma foto. E recitai il primo titolo:La mia Africa. Pardon, dovete sa-pere che a girare il mondo si fastrage di luoghi comuni, sco-prendo quel che già tanti hannoscoperto, rivisitando antichi sa-peri (e sapori), rileggendo glorio-

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SPORTItalo Cucci

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se pagine; e quando ti trovi inluoghi selvaggi – deserti o fore-ste non importa – t’aspetti sem-pre l’apparizione di un baffutoStanley: «Dr. Cucci, I presume».Ma era davvero il mio primoviaggio nel cuore dell’Africa pro-fonda dopo anni di Africa medi-terranea, Egitto, Libia, Tunisia,Algeria, Senegal, paesi già calci-stizzati dagli europei e nei quali,di volta in volta, son finito rego-larmente in chiacchiere da barsport, senza sapere che un giornoavrei addirittura fatto il visto perun Mondiale in Sudafrica. Il miodecimo Mondiale, dopo Germa-nia, Argentina, Spa-gna, Messico, Italia,Stati Uniti, Corea eGiappone, Germa-nia. Con due titoliriportati a casa,nell’82 e nel 2006,e la voglia del terzo,per fare il bis cheriuscì al grande Vittorio Pozzonel ’34 e nel ’38. Il gioco del pal-lone muove le montagne, abbattele frontiere, mortifica i regimiassolutisti, appiana contrasti an-tichi, raffredda gli estremismi eferma le guerriglie. Violenti edementi a parte – e in quote as-solutamente minoritarie – è que-sto il vero Partito dell’amore. Entrai in Libia la prima volta nel’79 invitato da Gheddafi – nonsapevo perché – ai festeggiamentidel primo decennale della rivolu-zione: non incontrai la Guida su-prema ma Abdel Salaam Jalloudche mi consegnò una copia del Li-bro verde, vangelo gheddafiano,che conteneva anche una predica

sportiva contro il calcio e gli sport“seduti”. Nel frattempo, come miera successo nella Cina rossa nel1981, mi si chiedevano lumisull’organizzazione calcistica ita-liana, una delle migliori al mon-do. E infatti nel 1982 vi tornaicon Enzo Bearzot per spiare il Ca-merun impegnato nella focosissi-ma Coppa d’Africa poi vinta dalGhana nella stadio di Tripoli ap-pena edificato dai bulgari e dotatodi un innovativo tappeto d’erbasintetica. Fui fortunato perché nelsuk di Tripoli trovai un anzianopilota di taxi (le evoluzioni eranoquasi aeree) che parlava un bel-

l’italiano, rim-piangeva il miovecchio amicoMedeo Biavati(“mondiale” del’38, inventore deldoppio passo) giàallenatore dellanazionale di re

Idris, e mi portò a visitare Sabratae Leptis Magna, le più belle e in-tegre città romane. Arrivai in Tunisia dal mare conun vecchio aliscafo che partiva daPantelleria, e a Kelibia, sotto unsole assassino, i gendarmi mi fe-cero transitare da un passaggioriservato alle autorità inchinan-dosi al frequentatore del “pro-ciessò du lunedì”. Di Biscardì,naturalmente. All’Hilton di Tu-nisi si parlava solo di Inter e Ju-ve. E per fortuna non c’era ancoraBerlusconì. Ad Algeri sbarcai in-vece dal cielo con l’amatissimaAlitalia (l’unica azienda occiden-tale rimasta in Algeria negli annidella sanguinosa rivoluzione gra-

Il gioco del pallonemuove le montagne,abbatte le frontiere,mortifica i regimi assolutisti

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FOCUS

GRUPPO A: il Sudafrica era una delle dueteste di serie “di diritto” e non per rankingFifa. Francia e Sudafrica si sono fin’ora in-contrate in un primo turno mondiale sola-mente quando una delle due nazionali erapadrona di casa. L’unica e ultima volta fuinfatti nel 1998, con i bleus padroni di ca-sa e vincitori per 3-0. Al campionatomondiale nippo-coreano del 2002, Fran-cia e Uruguay erano nello stesso gruppo es’incontrarono nella seconda giornata pa-reggiando per zero a zero. Curiosamentein quel gruppo sia la Francia che l’Uruguayfurono poi eliminate. Francia e Messico in-vece si sono incrociate in una delle duepartite d’esordio del primo campionatomondiale in assoluto, con la Francia vin-cente per 4-1.GRUPPO B: nella sua unica partecipazionea un campionato mondiale (1994), la Gre-cia si è trovata anche allora in un gruppocon Argentina e Nigeria. In tale occasioneMaradona fece la sua ultima partecipazio-ne da calciatore mentre in questa edizionesarà alla sua prima volta da CommissarioTecnico. Oltre a essersi incrociate a Usa1994, Argentina e Nigeria condividevanolo stesso gruppo anche nel 2002, dove fu-rono poi entrambe eliminate.GRUPPO C: lo scontro tra i due Paesi an-glofoni per eccellenza (Inghilterra e StatiUniti d’America) si verificò solo nel 1950con la vittoria degli Stati Uniti per uno azero. A parte quest’unica partita, le quat-tro squadre del gruppo non si sono maiaffrontate in un campionato mondiale.GRUPPO D: il destino dell’Australia comesquadra qualificata s’intreccia sempre conla Germania: nel 1974 il campionato mon-diale si giocò in Germania Ovest e nel pro-prio gruppo i “canguri” si trovarono afronteggiare sia Germania Ovest che Ger-mania Est; nel 2006 il campionato mon-diale si disputò nuovamente in Germania

Le curiosità del mondiale 2010e ora invece che non si svolgeranno interra tedesca, gli australiani si trovano laGermania come avversaria. Questo èinoltre l’unico degli otto gruppi che ècomposto interamente da squadre chehanno partecipato anche alla precedenteedizione del campionato mondiale.GRUPPO E: queste quattro squadre nonsi sono mai incontrate in un campionatomondiale e, più in generale, tra di loro,escludendo le numerose partite disputa-te tra Olanda e Danimarca nei campio-nati europei e in qualificazioni varie.GRUPPO F: in questo gruppo c’è l’esor-diente Slovacchia e ritorna la Nuova Ze-landa dopo la manifestazione del 1982.Le quattro squadre non si sono mai af-frontate in un campionato mondiale sal-vo che in un incontro tra Italia e Paraguaydel 1950 finito due a zero.GRUPPO G: l’unica altra apparizionedella Corea del Nord a un campionatomondiale è avvenuta nel 1966. Il Porto-gallo ha incontrato Brasile e Corea delNord in un campionato mondiale unica-mente in quella stessa edizione. Perquanto riguarda la Costa d’Avorio, vi èda sottolineare come anche nel 2006questa compagine si sia trovata nel pro-prio gruppo una testa di serie sudameri-cana, una “seconda fascia” europea di al-to livello e una nazione “scissa”. Di que-sto gruppo, tre nazionali su quattro era-no presenti anche al campionato mon-diale del 2006.GRUPPO H: l’Honduras torna al campio-nato mondiale dopo ventotto anni di as-senza. Il gruppo conta tre nazioni suquattro di madrelingua spagnola, cosagià avvenuta solo nel campionato mon-diale del 1930 organizzato in Uruguay eche comprendeva sette squadre ameri-cane e ispanofone sulle tredici parteci-panti complessive.

SPORTItalo Cucci

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zie all’amico Enrico Mattei) invi-tato al Balon d’Or d’Afrique or-ganizzato da El Heddaf, il GuerinSportivo locale: l’idolo calcisticoera Zinedine Zidane, algerino,ma il Santo Pedatore era RobiBaggio, il cui coraggio, esibitonel combattere la sfortuna che loperseguitava, veniva reclamizzatoin tivù per incoraggiare i ragazziscampati fortunosamente allestragi dei fondamentalisti islami-ci. In Senegal la giovane e affer-mata scrittrice Fatou Diom haavuto grande successo con il ro-manzo Sognando Maldini ambien-tato in un villaggio di Niodior,isoletta senegalese:il protagonista, ilpiccolo Madickè, siproietta verso unfuturo europeo sce-gliendo come guidail capitano dellaNazionale azzurraPaolo Maldini, ilpiù ammirato nella partita Ita-lia-Olanda agli Europei del2000, finita ai rigori, lasciapas-sare per la finale poi vinta dallaFrancia con l’amaro golden gol diTrezeguet. Ne leggiamo una pa-gina esemplare.«Ha segnato? Dimmi, ha segna-to?»«Sì, ha segnato e...»«E poi, forza, poi?»«Poi ha tirato il capitano olande-se, ma per fortuna Toldo ha de-collato come se avesse le ali...»«Toldo ha parato. Poi?»«Un giocatore dell’Olanda, sai, ilnumero...»«No, dimmi solo dei giocatoriitaliani»

«Pessotto, si vedeva negli occhiche voleva dar la sveglia allaporta olandese, lo spazio di unbaleno...»«Ha segnato? Dimmi, ha segna-to?»«Sì, anche Totti, ha messo a se-gno la terza rete. Gli striscioniitaliani sventolavano in tutto lostadio, i tifosi si ringalluzziva-no...»«E Maldini? Ha tirato Maldini?Dimmelo»«Sì, ha tirato, un capitano degnodi esserlo non può mandare alfronte le truppe senza di lui. An-che se avesse impartito direttive

che poi si eranorivelate giudizio-se, lo stesso Mal-dini doveva met-terle in pratica eprovare così...»«Ha segnato?Dimmelo!»«Ma smet t i l a

d’interrompermi...»«Sì, scusami! Allora, ha segna-to?»«No, ha sbagliato il rigore!»«Oh cazzo! Ma abbiamo vinto?Dimmi, hanno vinto?»«Se mi avessi lasciato dire nellostesso tempo i rigori dei giocato-ri olandesi, lo avresti già saputo,ma sei così impaziente che...»«Dimmi, hanno vinto lo stesso?»«Sì!»«Quanto? Che punteggio? Perfavore!»«Tre a uno»Pensate un po’ a come il popolosublima il gioco del pallone a ri-sorsa sociologica. Lo stesso an-nuncio del Mondiale in Sudafri-

In Senegal la giovanescrittrice Fatou Diomha avuto grande successo con il romanzoSognando Maldini

ca – dopo le rivoluzionaria escur-sione in Giappone e Corea – èstato accolto come un passoavanti del continente nero versol’integrazione globale, un pre-zioso dono dell’abile Sepp Blat-ter, presidente della Fifa, a Nel-son Mandela, il presidente deipresidenti, oggi immortalato daMorgan Freeman nel film Invic-tus prodotto e diretto da ClintEastwood. E pazienza se l’erededi Mandela, il primo ministrosudafricano Jacob Zuma, visto inprima linea ai sorteggi mondiali,è un potente nababbo che ha ap-pena festeggiato ilquinto sontuosomatrimonio in unpaese sconvoltodalle imprese dellamalavita che sispera sconfitta dal-la nazionale deigialloverdi, i “Ba-fana Bafana” che nella recenteConfederation Cup hanno osatomettere in crisi Brasile e Spagna.Ho atteso lunghi anni, da quan-do conobbi i campioni e le im-prese del Camerun e della Nige-ria, duri avversari dell’Italianell’82 in Spagna e nel ’94 negliStati Uniti, che il calcio portassei suoi campioni in Africa dopoaverle rapito decine di fuoriclas-se ormai punti di forza delle mi-gliori squadre d’Europa. Eppurec’è chi fa del catastrofismo e ad-dirittura chiede – dopo il tragicoincidente che ha costretto il To-go a rinunciare alla Coppad’Africa per la mortale aggres-sione subìta l’8 gennaio nell’en-clave angolana di Cabinda – di

togliere il mondiale ai sudafrica-ni per trasferirlo, guarda un po’,in Europa, precisamente in Ger-mania, già designata paese di ri-serva dalla Fifa per la sua impor-tante attrezzatura sportiva. Tan-to per cambiare, si denuncia nonsolo lo strapotere malavitoso masoprattutto la piaga della prosti-tuzione e dell’Aids, come se là siorganizzassero non i Mondiali dicalcio ma i Mondiali del sesso.Nelle pagine del cosiddetto dis-senso si legge fin troppo facil-mente, in fondo, lo sfruttamentoideologico (e non solo) dell’Afri-

ca, cantata dai si-gnori del rock ,della cultura, del-la politica (ehm,ehm) che la so-gnano, la invoca-no, son pronti atuffarsi nella suaspesso dolorosa

realtà eppoi se la squagliano,magari tuffandosi nelle oasi feli-ci del Kenia, della Tanzania edelle Seychelles. La loro Africa.Ritorno nella “mia Africa”, nelSahara algerino, per un ulterioreapprofondimento della realtà cal-cistica. Ho viaggiato per un gior-no – attraversando la suggestivacatena montuosa dell’Hoggar,più estesa dell’Italia – fino al ri-fugio dell’Assekrem, a 2700 me-tri, dove sorge l’eremo di PèreCharles de Foucauld, studiosodella civiltà tuareg. Grazie aimiei sempre più amichevolicompagni di viaggio ho appro-fondito i temi dell’eterna sfidafra nord e sud, fra l’Africa medi-terranea di cultura araba e l’Afri-

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I mondiali sudafricanirappresentano un passo avanti delcontinente nero verso l’integrazione globale

SPORTItalo Cucci

ca nera subsahariana sulla cuimappa i due algerini avrebberopotuto scrivere “Hic sunt leones”.Gli stessi tuareg – popolo nobile– son considerati meridionali ar-retrati che godono di una forma-le presenza nel Parlamento alge-rino dominato, guarda un po’,dai berberi e dai “leghisti” del-

l’ovest. Ancheil calcio è diver-so, fra le dueAfriche: i paesidella costa me-diterranea – co-

me dicevo – son di cultura euro-pea, anche se la recente guerradiplomatica fra Egitto e Algeriaalla Coppa d’Africa ha rivelatoforti divisioni tribali. Mi confer-marono le varie sfaccettature po-

litiche, sociali e sportive dei DueMondi alcuni italiani giunti al-l’improvviso nel rifugio di Asse-krem e più tardi compagni d’av-ventura in un’altra passeggiatasahariana prima del ritorno a Ta-manrasset. Italiani speciali, tutticon una cert’aria da HarrisonFord alla ricerca dell’Arca Perdu-ta: erano, in realtà, sterminatoridi cavallette provenienti dai con-finanti Mali e Nigeria dove prov-vedevano alle disinfestazioni ae-ree per conto di un’azienda vene-ta. Un paio di giorni di riposoassoluto nel silenzio, poi l’aereoda Tamanrasset a Algeri, da Al-geri a Roma, fine della festa. Eanche loro a dirmi peste e cornadell’Africa verde, nido di dittato-ri, guerriglieri e predatori. Il di-

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Anche calcisticamente l’Africa mediterranea e quella subsaharianasono due mondi diversi

scorso finì presto sul calcio di ca-sa nostra: chiedevano aggiorna-menti di mercato, gossip pallona-ro da aggiungere alle poche noti-zie che avevano, risultati e nientepiù. E sui predatori di calciatori,nuova forma di colonialismo eschiavismo escogitata da europeisenza scrupoli fin dai primi Set-tanta. La tecnica d’abbordaggio,molto semplice, e basata sulleambizioni dei dittatorelli via viasuccedutesi nei numerosi Stati diun’Africa politicamente fram-mentata dopo l’estromissione deicolonialisti: la Nazionale di cal-cio spesso è il primo soggetto dipropaganda e, in attesa di far cre-scere in patria soggetti tecniciadeguati, ci si rivolge ad allena-tori europei possibilmente di lin-

gua coloniale, dunque spessofrancesi, pochi inglesi, molti sla-vi che parlano bene tutte le lin-gue e qualche tedesco. I nuoviselezionatori aprono delle vere eproprie scuole, addestrano preda-tori indigeni,li portano alleprime manife-stazioni calci-stiche conti-nentali, addi-rittura alla Coppa d’Africa e aiMondiali, prima segnalandoli aimercanti d’Italia, Spagna, Ger-mania, Inghilterra e Francia poilucrando sulle loro “scoperte” eavviando un fiorente mercato dipotenziali campioni e di bufale.Si arriva addirittura alla tratta digiovanissimi calciatori africanifino a quando non intervengonoprima le autorità dei singoli pae-si d’importazione, poi le istitu-zioni calcistiche. Un rapido gironei paesi dell’Africa centrale esudorientale permette di abboz-zare un elenco di campioni adot-tati dall’Italia e da altri paesi eu-ropei in tempi in cui stanno mo-dificandosi i costumi ladreschidei maneggioni, forse anche peril maggior rispetto ottenuto daipaesi africanidall’Uefa e dal-la Fifa. ll Maliè rappresentatodallo juventinoS i s s oko , l aGuinea da Karamoko Cissè appe-na passato dall’Atalanta all’Albi-no Leffe bergamasco; il Ghana daEssien del Chelsea, il migliore,da Appiah del Bologna, Asamo-ah dell’Udinese e Muntari del-

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La Nazionale di calcioin Africa è spesso

il primo soggetto dipropaganda per i regimi

I predatori di calciatorisono un nuova forma

di colonialismoescogitata dagli europei

SPORTItalo Cucci

l’Inter; il Togo da Adebayor delManchester City , il Camerundall’interista Eto’o, la Nigeria daMakinwa della Lazio e Obododell’Udinese; è del Kenya il neointerista Mariga, del Congo Mu-dingayi del Bologna, dell’AngolaPedro Montorras del Benfica; loZambia ha dovuto ricostruire lanazionale dopo averla perduta inun disastro aereo; del Mozambicoricordo gli interisti Martins eObinna e – ovviamente – Euse-bio, la mitica Pantera nera delBenfica; ha giocato nel Milan,con poca gloria, il più noto cal-ciatore del Gabon, Catilina Au-bameyang, così come il grandeGeorge Weah, oggi politico diprimo piano in Liberia. La Costad’Avorio è rappresentata da cam-pionissimi come Didier Drogbadel Chelsea, Yaya Touré del Bar-cellona, Bakayoko già di Livornoe Messina, oggi in Grecia, e Mar-co André Zoro Kpolo che oggigioca in Portogallo ma ha lascia-to un segno preciso in Italia:quando giocava nel Messina ebbeil coraggio – unico fra tanti cal-ciatori neri – di minacciare l’au-toespulsione perché i tifosi inte-risti lo insultavano per il coloredella pelle; l’Inter allora mini-mizzò, mentre oggi conduce unaforte battaglia antirazzista in di-fesa di Balotelli. Forse perchè èitaliano, nato a Palermo e cre-sciuto nel bresciano, non ganesecome i genitori naturali. E tutta-via, nonostante appena ventennesia già diventato un campione dilivello internazionale, il Super-mario difficilmente metterà pie-de negli stadi sudafricani. Perché

il Ct azzurro non lo vuole, para-dossalmente in sintonia con JosèMourinho (i due si detestano)che non sopporta la geniale mairritante giovinezza di Balotelli,un classico, anarchico “poeta delgol”. Chiudo l’elenco – per cu-riosità – con un buon giocatoredella Tanzania, Nadir Haroub,che nel suo paese è fra i più fortidifensori: e infatti ha un nomed’arte significativo, lo chiamanoCannavaro. Questi ragazzid’Africa saranno sicuramenteprotagonisti del prossimo Mon-diale: difficilmente li vedremonella finale di Johannesburg –che personalmente m’auguro fraItalia e Inghilterra, fra MarcelloLippi e Fabio Capello – ma sa-ranno tutti e comunque vincitoriper un continente che deve alzarela testa e aprirsi al benessere e al-la pace. Io ci credo. Il calcio famiracoli.

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italo cucci

Direttore editoriale dell’agenzia di stampa Ital-

press. È anche curatore delle pagine sportive

del quotidiano Il Roma di Napoli e editorialista

della Gazzetta di Parma, di Avvenire e del set-

timanale Napolissimo.

L’Autore

SUDAFRICA: UNO

Nel corso del mese di febbraio èuscito nelle sale cinematografi-che italiane un bel film, Invictus,diretto ottimamente dalla saggiamano dell’immortale Clint Ea-stwood ed interpretato dai premiOscar Morgan Freeman e MattDamon. Il film narra la storia deimondiali di rugby del 1995 che sigiocarono in Sudafrica e ripropo-ne quindi quel momento storicoche quei mondiali hanno rappre-sentato, ovvero le attese relativealla fine dell’apartheid nel paese.Nel 1995, Nelson Mandela eraappena stato eletto presidente ela volontà era quella di realizzarein quella terra africana, martoria-ta da anni di separazione e diviolenza razziale, il sogno diMartin Luther King: un mondosenza odio razziale e senza divi-sioni. Il Sudafrica voleva essereun’isola felice in un continentedevastato da violenze etniche e

guerre civili. Ecco, il film in sémette in risalto quel momentostorico dove una squadra da sem-pre forte in campo rugbystico,composta unicamente da bian-chi, è riuscita a unire tutto il po-polo sudafricano nella vittoria,nonostante le difficoltà e le di-stanze legate ovviamente agli an-ni di divisioni precedenti.A distanza di quindici anni daquella vittoria non solo rugbysti-ca, la situazione nella Repubblicadel Sudafrica si è evoluta, ma disicuro non nel senso che ci siaspettava nel 1994. Le differenzedell’epoca sono mutate e, anzi, sisono moltiplicate. All’approcciodel prossimo grande eventomondiale che avrà luogo que-st’estate in Sudafrica (i mondialidi calcio), si possono tirare lesomme per quanto riguarda la si-tuazione politica, economica edella sicurezza nel paese.

DI ERIC MOLLE

SUDAFRICAEric Molle

Aquindici anni dall’esordio del nuovoStato democratico voluto da Mandela,non tutti i problemi sono stati risolti.

E oggi, alla vigilia dei mondiali di calcio, si puòprovare a tirare le somme di una esperienzacomplessa, tra luci e ombre.

STATO A DUE FACCE

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L’African National Congress(Anc), lo storico partito di cuiMandela è stato il leader nel pe-riodo post apartheid, è sin dal1994 al potere e ha sempre avutodei risultati elettorali al di sopradel 60%. Ciò ha garantito al-l’Anc di governare per più diquindici anni, ma negli ultimitempi ha anche suscitato nei suoiranghi del malcontento. Questedifficoltà, di cui si discuterà inmaniera più specifica in seguito,sono legate essenzialmente all’in-capacità di realizzare riformeconcrete in diversi campi, allelotte interne al partito e a unadifficile situazione economica edi sicurezza. C’è di certo però che il Sudafricagode di un’esperienza democrati-ca consolidata rispetto al resto delcontinente africano, visto chel’Anc governa sì il paese da ormaiquindici anni (come spesso avvie-ne in Africa), ma a seguito di ele-zioni libere, pacifiche e democra-tiche. Secondo la costituzione ap-provata nel 1996, il Parlamento,liberamente eletto, elegge al suointerno il presidente della Re-pubblica, generalmente il leaderdello schieramento vincente alleelezioni, posto egli stesso a capodel governo. Così, a seguito delleprime elezioni del 1994, Madiba(il titolo onorifico di NelsonMandela) fu eletto primo presi-dente nero in Sudafrica e rimasein carica fino al 1999. Le elezioni del 1999 furono vintenuovamente dall’Anc, capeggiatoquesta volta da Thabo Mbeki, giàsegretario e poi presidente del-l’Anc dal 1993, che è stato la vo-

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Il termine apartheid è stato usato insenso politico per la prima volta nel1917 dal primo ministro sudafricanoJan Smuts, ma, solo dopo la vittoria delNational Party alle elezioni del 1948,l’idea venne trasformata in un sistemalegislativo compiuto. I principali ideolo-gi dell’apartheid furono i primi ministriDaniel François Malan, Johannes Ger-hardus Strijdom e Hendrik FrenschVerwoerd (vero e proprio “architettodell’apartheid”, in carica dal 1958 finoal suo assassinio nel 1966). Quest’ulti-mo, definiva l’apartheid come “una po-litica di buon vicinato”. L’apartheidaveva due manifestazioni: la separazio-ne dei bianchi dai neri nelle zone abita-te da entrambi; l’istituzione dei bantu-stan, i territori semi-indipendenti in cuimolti neri furono costretti a trasferirsi.In Sudafrica, mentre i neri e i meticcicostituivano l’80% circa della popola-zione, i bianchi si dividevano in colonidi origine inglese ed afrikaner. Gli afri-kaner, che costituivano la maggioranzadella popolazione bianca, erano dasempre favorevoli ad una politica razzi-sta; mentre i sudafricani di origine in-glese, malgrado il sostanziale appoggiodell’apartheid, erano più concilianti neiconfronti dei connazionali neri. Duran-te la seconda guerra mondiale un grup-po di intellettuali afrikaner influenzatidal nazismo completò la teorizzazionedel progetto dell’apartheid. La filosofiadell’apartheid affermava di voler dareai vari gruppi razziali la possibilità dicondurre il proprio sviluppo sociale inarmonia con le proprie tradizioni.

FOCUS

LE ORIGINI DELL’APARTHEID

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ce del partito all’estero durantegran parte del periodo di prigio-nia del Madiba. Mbeki in effetti èdovuto fuggire dal Sudafrica acausa della sua attività politicanell’Anc al momento dell’arrestodi Mandela ed è rimasto soprat-tutto nel Regno Unito. Mbeki èstato poi rieletto a seguito delleelezioni del 2004 e nel corso diquesto suo secondo mandato sononate le divergenze, poi duri con-trasti, con Jacob Zuma. Jacob Zuma è un altro politicosudafricano, eletto presidentedell’Anc nel 2007, quindi presi-dente del Sudafricanel 2009 dopo leelezioni. Il contra-sto tra Zuma eMbeki è stato sen-za esclusione dicolpi, su un pianoe s s en z i a lmen t egiuridico. SecondoZuma, Mbeki ha fatto pressionisulle autorità giuridiche al finedi screditarlo e intaccare la sualeadership in seno all’Anc tramitevari processi. Secondo Mbeki,queste sarebbero tutte invenzionidi Zuma per arrivare a capo delprimo partito del paese, anche sedi fatto Zuma ha avuto problemigiudiziari che la sua elezione hain un certo senso annullato. Perquesto motivo e a causa della for-za politica di Zuma, i vertici del-l’Anc hanno richiesto le dimis-sioni di Thabo Mbeki, che si èdimesso da presidente nel 2008.Kgalema Motlanthe è stato elet-to presidente ad interim sino alleelezioni del gennaio 2009.Di fatto, alle ultime elezioni del

2009, l’Anc è stato confermato algoverno con una maggioranza dioltre il 65% e il suo leader JacobZuma è stato eletto presidente.Questo ha sollevato alcune per-plessità negli ambiti politologi-ci, poiché, se nel passato si è giàparlato di un partito al potere dapiù di quindici anni senza grida-re allo scandalo, questa volta ilpresidente uscito dalle elezionisuscita alcune perplessità. I parti-ti di opposizione hanno sottoli-neato come Zuma abbia avutosulle spalle diverse accuse di cor-ruzione e di avere alcune macchie

di moralità (adesempio: Zuma,sieropositivo, hadichiarato di averfatto sesso cong iovan i donnesenza protezione,quando nel paesedilaga l’Aids, an-

dando contro tutte le politichedel governo).Bisogna però sottolineare chenelle ultime elezioni si sono no-tate alcune differenze rispetto al-le precedenti tornate elettorali.Se lo score dell’Anc è rimastopressoché invariato, è cambiatolo scenario politico attorno aquesto gigante. Il New NationalParty, il partito dei bianchi natodal National Party che aveva in-trodotto l’apartheid, si è scioltonel 2005 ed è confluito nell’Anc.Il principale oppositore dell’Ancè la Democratic Alliance di He-len Zille, che ha ricevuto il16,66% delle preferenze alle ul-time elezioni. Gli altri partitimaggiori sono l’Inkhata Freedom

Il Sudafrica godedi un’esperienzademocratica consolidata rispetto al resto del continente

SUDAFRICAEric Molle

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Party, che rappresenta in granparte l’etnia Zulu (4,55% dei vo-ti), e il Congress of the People,Cope (7,42%), nato dalla volontàpolitica di Thabo Mbeki nel2008 e il cui presidente è Mo-siuoa Lekota, ex ministro dellaDifesa di Mbeki e imprigionatoanche lui durante gli anni del-l’apartheid. Nelle prossime com-petizioni elettorali, quest’ultimopartito potrà essere uno dei mag-giori contendenti dell’Anc poi-ché gran parte dei suoi quadri edei suoi componenti provengonoproprio dallo storico partito su-dafricano. Bastipensare al risulta-to che questo par-tito ha avuto alleultime elezioni,che si sono svoltepochi mesi dopola sua creazione.Questa situazionepolitica fa da scenario ad una si-tuazione contrastata nel paese. Ineffetti, se da una parte il Sudafri-ca ha un’economia stabile (mal-grado la crisi) e gode di una posi-zione di leader regionale sotto di-versi punti di vista, dall’altra loStato deve risolvere delle proble-matiche non di poco conto, qualiil dilagare dell’Aids, i difetti del-la riforma sanitaria, la riformadell’agricoltura e i problemi dirazzismo e di sicurezza.L’economia sudafricana è di sicu-ro l’economia più sviluppata estabile dell’Africa, nonostante ilcalo del 1,9% del Pil nel corsodel 2009 quale conseguenza en-demica della crisi internazionale.Come ogni economia dei paesi

sviluppati, la forza economica delSudafrica si concentra nel settoredei servizi, mantenendo, seppurcon difficoltà, una certa presenzanel settore industriale (soprattut-to nel settore minerario) e, inminima parte, agricolo. Ci sonoalcuni dati (della fine del 2009)che indicano qualche difficoltà inambito economico i cui riflessisociali sono importanti e che ilgoverno dovrà risolvere: negli ul-timi anni la disoccupazione è ar-rivata al 24% (22% nel 2008); ildebito pubblico è salito al35,7% del Pil rispetto al 31%

del 2008 ed è sti-mato in crescita;ma soprattutto,circa metà dellapopolazione si tro-va al di sotto dellasoglia di povertà.Una gran parte deldebito pubblico

sudafricano è legato alla riformasanitaria che è stata impostataagli inizi del decennio scorso. Ta-le riforma doveva arginare alme-no in parte il dilagare del virusdell’Aids e migliorare le condi-zioni sanitarie dei cittadini in ge-nerale. Però, in poco meno didieci anni di gestione del paeseda parte di Mbeki, del suo gover-no, ma soprattutto del suo parti-to, la piaga dell’Aids è aumenta-ta. Bisogna inoltre sottolineareche dalla presa di potere di Zu-ma, formalmente nel 2007, la si-tuazione è peggiorata e negli ul-timi anni non solo il virus ha ri-preso la sua marcia mortale, ma ildebito pubblico ha continuato asalire ad un ritmo del 5% annuo.

Da quando Zuma è presidente, il debitopubblico del Sudafricaè cresciuto ad un ritmodel 5% annuo

Questo aumento è dovuto essen-zialmente all’aumento della spesasanitaria, che di fatto non ha por-tato i risultati attesi.La crisi sanitaria va di pari passocon la crisi della sicurezza nelpaese. Disoccupazione al 24%,forte immigrazione dagli altripaesi, microcriminalità dilagantee bidonville che a volte sono abi-tate da milioni di persone: questisono i criteri posti alla base delproblema della sicurezza. A que-sti criteri si aggiungono poi ilrazzismo interno e il risentimen-to dei bianchi che si vedono toltele terre che coltivano da secoliper poi vederle bruciate.In effetti, negli ultimi anni è sta-ta posta in avanzato stato di rea-

lizzazione una politica agricolaper la redistribuzione del 30%delle terre. Spesso e volentierimolte delle terre agricole sonocoltivate dai bianche, ma l’Ancha dichiarato di voler sottrarre edistribuire ai neri queste terrecoltivabili. Alcuni specialisti in-ternazionali del settore sono ri-masti perplessi per un certo nu-mero di ragioni. In primo luogo,a differenza delle grandi città, lapopolazione agricola rimane ingran parte di etnia afrikaner,quindi ridistribuire le terre si-gnificherebbe spostare gran partedelle popolazioni che già lavora-no su quelle terre. In secondoluogo, nonostante il governo ab-bia assicurato un mantenimento

SUDAFRICAEric Molle

della produzione, gran parte del-la popolazione nera è stata esclu-sa dall’apartheid dall’agricolturae manca quindi completamentedi capacità produttive, di espe-rienza in materia. Questa riformaha già dato i suoi primi frutti: laproduzione è calata sensibilmen-te. Inoltre molti contadini bian-

chi sono perse-guitati e a voltedevono fare del-le ronde per di-fendere le pro-prie terre. Di

fronte alle espropriazioni forzateche il governo vuole realizzare,molti contadini bianchi stannoritirando investimenti dal Suda-frica per andare a comprare terrecoltivabili in altri paesi africani.

Il governo sudafricano non sem-bra aver preso in considerazione idrammatici risultati politici del-la riforma agricola in Zimbabwedegli inizi del secolo. Certo, laRepubblica del Sudafrica gode diuna situazione economica di granlunga più stabile rispetto al vici-no Zimbabwe, ma il governo diZuma non deve sottovalutare leconseguenze sociali di una talepolitica.Il paese deve altresì risolvere ul-teriori problematiche sociali chegià da diversi anni si sviluppanoin Sudafrica. La problematicaprincipale riguarda il razzismodei sudafricani nei confronti de-gli altri africani presenti sul pro-prio territorio, che si ripercuotein diverse maniere: violenze raz-

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Molti contadini bianchisono perseguitatie devono fare le rondeper difendere le terre

ziali, criminalità e situazioni didegrado sociale. In Sudafrica sonopresenti diverse migliaia di rifu-giati provenienti essenzialmentedal vicino Zimbabwe, dalla Re-pubblica Democratica del Congo,dalla Somalia o dal Burundi.Queste persone generalmente siraggruppano nelle già citate bi-donville la cui popolazione a voltesale a diversi milioni (nei dintor-ni di Johannesburg la bidonvilleconcentra più di dieci milioni diabitanti). Generalmente gli im-migrati in Sudafrica, quando nonsi dedicano ad attività di micro-criminalità, si offrono come manod’opera a basso costo rispetto aglistessi sudafricani. Visto l’alto tasso di disoccupazio-ne, i sudafricani hanno dimostra-

to, anche con violenza, la propriacontrarietà alla presenza degliimmigrati che in tal modo pren-derebbero i loro posti di lavoro.Nel 2008 queste rivendicazionisociali sono esplose in settimanedi violenze interetniche: da partedei sudafricani nei confronti de-gli immigrati e da parte degliimmigrati ingenera le perprotestare con-tro la situazio-ne nelle barac-copoli. La poli-zia dovette richiedere l’interven-to dell’esercito per sedare, dopodiverse settimane, le violenze.Inoltre, alla fine del 2009, circa2mila rifugiati dello Zimbabwesono fuggiti dal paese per paura

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Oltre 2mila rifugiatidello Zimbabwe sono

fuggiti dal Sudafricaper paura delle violenze

SUDAFRICAEric Molle

eric molle

Dottore in Relazioni internazionali, è analista

specializzato in geopolitica, in particolare del-

l’Africa e della difesa.

L’Autore

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delle violenze dei sudafricani. Leforze di sicurezza hanno dimo-strato la propria incapacità nelgestire questo tipo di problema.Nonostante le dichiarazioni delgoverno, la sicurezza in generaleè una problematica non di pococonto poiché le frange più giova-ni della popolazione, disoccupatemalgrado le continue promessedi lavoro del governo, general-mente si dedicano anch’esse adattività di microcriminalità. Undato su tutti permette di com-prendere quanto sia delicata lasituazione: cinquanta morti algiorno nell’area di Johannesburg.Solo a partire dal 2009 i gover-nanti sudafricani hanno deciso diprendere di petto la situazionenel paese, addestrando nuove for-ze di polizia. In vista dei Mon-diali di calcio 2010, e a seguitodelle diverse preoccupazioni in-dicate dai paesi che hanno parte-cipato alla Confederation Cup, ilgoverno sudafricano ha aumenta-to notevolmente le proprie unitàdi sicurezza e ha chiamato agentiesteri, in particolare israeliani, adaddestrarli. Alcune perplessitàperò permangono.Il Sudafrica ha alcune difficoltàsociali e di sicurezza legate allasua frammentazione etnica e al-cune problematiche economi-che, come tutto il pianeta da al-cuni anni a questa parte. Se ci siastrae dal contesto nel quale ilSudafrica è inserito, di certo lasituazione è tutt’altro che roseae il paese sarebbe classificatoquale un paese a rischio crisi in-terna. In realtà, si coglie nel Su-dafrica una sorta di eccezione ri-

spetto al resto del continente: èun paese democratico, integratoe leader nel suo contesto regio-nale tramite diverse organizza-zioni regionali che ha creato (co-me la South African Develop-ment Countries) e con una suastabilità economica interna. Difatto il Sudafrica ha bisogno deisuoi vicini per continuare a cre-scere economicamente e i suoivicini sono aggrappati al Suda-frica perché non hanno nessunaltro appiglio. Peraltro, la co-munità economica mondiale hasottolineato l’importanza delSudafrica invitando il paese a farparte del G20 in quanto rappre-sentante del continente africanonell’organizzazione. Il Sudafricacontinua quindi ad impersonarele due facce di una stessa meda-glia: da una parte una democra-zia, economicamente stabile, in-serita nel G20, ovvero una soli-da realtà a guida della regione;dall’altra un paese con diversedifficoltà interne che in quindi-ci anni il governo sudafricanonon è riuscito a risolvere.

Un giorno a Kayalitcha, l’infernoalle porte di Città del CapoIn una città ultramoderna, che si prepara ad ospitare i Mondiali di calcio, una vera e propria bidonville ospitapoveri, emarginati e malati. Solo la presenza di Medicisenza frontiere è riuscita a ridare speranza a centinaiadi migliaia di persone, ai margini di una società caratterizzata ancora da troppe contraddizioni.

DI SILVIA ANTONIOLI

Viaggio nel cuore malato del Sudafrica

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All’ombra della costa assolata edegli alti palazzi dalle pareti spec-chiate stile anni Sessanta, palpitauna comunità inaspettata, distan-te anni luce dalle comodità e dallaspensieratezza di Città del Capo.A pochi chilometri dallo sfavil-lante stadio nuovo di zecca che siappresta a ospitare per i prossimimondiali migliaia di tifosi ingor-di di calcio e di allegria, brulicanocentinaia di migliaia di persone.Camminano, passeggiano, corro-no, si affannano per le stradine e ivicoli intrecciati ed insidiosi dellatownship di Kayalitcha. È allegra,Kayalitcha, ma povera. È animatama violenta. È viva ma malata, af-flitta dalle malattie.Le township sono bidonville limitro-

fe alle aree metropolitane, costrui-te negli anni non troppo lontanidell’apartheid, per ospitare i lavo-ratori non bianchi, o meglio pertenerli ad una certa distanza dallacittà “bianca”. Sono tutt’altro cheabbandonate, ora che regna alme-no formalmente una certa demo-crazia. Sono tuttora piene zeppedi persone che non possono per-mettersi un altro tipo di residen-za. Kayalitcha è la più grande del-le township nelle vicinanze dell’as-solata Città del Capo e raccogliecentinaia di migliaia di persone.Più di un milione, secondo alcunestime non ufficiali.Molti tra loro sono immigrati.Arrivano dal capo est del paesecon la speranza di trovare un mez-zo di sussistenza. Vivono a pochichilometri da spiagge, turisti, pa-lazzi e sfarzo, eppure il mare nonlo vedono mai. I più fortunati,pochi considerando il tasso di oc-cupazione spaventosamente basso,viaggiano un’ora o più, ogni gior-no, per arrivare in città, dovesvolgono i mestieri più umili. Es-sere un autista o una colf è un pri-vilegio non da poco nella comuni-tà di Kayalitcha. L’autista che miaccompagna da Città del Capo vi-ve lì anche lui, e mi racconta cheil figlio si sta ribellando alla scuo-la: «Mi dice che non serve a nullaandare a scuola per poi lavorarecome autista. Ed io non so cosa ri-spondergli», mi spiega allargandole braccia e sospirando. «La spe-ranza di trovare un lavoro per i ra-gazzi di Kayalitcha è molto bas-sa». Partendo dal centro della città perla mia “avventura”, scorgo dal fi-

REPORTAGESilvia Antonioli

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Un giorno a Kayalitcha, l’infernoalle porte di Città del Capo

nestrino della macchina da un la-to il nuovo stadio e dall’altro ilmare, blu, sereno e profondo. Miviene da pensare alle belle ripreseche verranno trasmesse in tutto ilmondo la prossima estate. Cosavedrà invece Kayalitcha? Difficilesaperlo, e per questo ho deciso diandare perlomeno a dare un’oc-chiata di persona. Il mio amicoNathan lavora da dieci anni perMedici senza frontiere, l’associa-zione umanitaria per medici e pa-ramedici che opera in paesi delTerzo mondo. È di base in Suda-frica, tra Città del Capo e Johan-nesburg, due città estremamentediverse ma ugualmente afflitte daproblemi. Uno dei più gravi èl’Hiv. I medici di Msf a Kayalit-cha curano i malati di Hiv e tu-bercolosi. Una persona su tre, lì, èaffetta dal virus, uno dei tassi piùalti al mondo. Non so cosa aspet-tarmi. Non ne ho conosciuta ne-anche una di persona sieropositivafino ad ora. Dopo un lungo viag-gio tra le strade asciutte e polve-rose che conducono alla township,capisco di essere quasi arrivata. Laprima cosa che stupisce è la di-mensione. Sembra una vera e pro-pria città. Con migliaia di case,tutte diverse, tutte raccolte in dif-ferenti quartieri. E poi i colori,brillanti, violenti, sfrontati. Dan-no allegria ad abitazioni tutt’altroche invidiabili. E poi le persone,tante, e tanti giovani che cammi-nano ai bordi delle strade. Chissàdove vanno. Tanti ragazzini con ledivise delle scuole camminano ingruppetti. Ogni gruppo una divi-sa differente.Arrivata nella piazza dove c’è l’uf-

ficio di Medici senza frontiere, c’èancora più movimento: musica al-ta, gente che vende gli oggetti e icibi più disparati. Per un momen-to, un intenso e pesante odore difrittura si mischia all’aria caldaestiva. Nell’ufficio tutti sono ami-ci anche se si sono appena cono-sciuti. Ma dopo qualche chiac-chiera, giusto il tempo di un caf-fè, si torna tutti a lavoro. Ognunoal proprio posto: medici, infer-mieri, staff dell’amministrazione,autisti. «Pronti a salvare il mon-do?», dice una ragazza carina emagra, forse una dottoressa spe-ranzosa. Il suo tono, in realtà, haun pizzico di sarcasmo perché, co-me mi comunicano i medici diKayalitcha, i casi da trattare au-mentano e le risorse scarseggiano.Gilles, giovane direttore dellamissione, mi fa una sorta di brie-fing. Mi spiega che il governo su-dafricano ha iniziato ad affrontarel’Hiv solo da pochissimo. E co-munque ancora ci sono poca con-vinzione e pochi mezzi. «Uno deiministri del governo ha continua-re a dichiarare fino a qualche tem-po fa che l’Aids non esiste», mispiega. «Altri consigliavano delleerbe per curare il virus». Ascoltoincredula le parole dell’attualepresidente Zuma. Accusato e pro-cessato per violenza sessuale neiconfronti di una giovane, a qual-cuno che gli ricordava che la ra-gazza in questione era sieropositi-va, avrebbe risposto: «Mi sonofatto una doccia subito dopo ilrapporto». E così, con mezzi epersonale che scarseggiano, i me-dici senza frontiere cercano di bar-camenarsi come meglio possono.

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Scelta da Ban Ki Moon nel 2007 per rico-prire il delicato ruolo di inviato specialedelle Nazioni Unite per l’Aids in Africa,Elizabeth Makata racconta i problemi, ipassi avanti, le speranze e le difficoltà in-contrati in quasi due anni di operato. Ma-taka critica duramente i prezzi proibitiviimposti dalle case farmaceutiche, sottoli-nea l’immoralità di un differente accessoalle cure mediche per i pazienti in Africarispetto a chi risiede nei paesi industria-lizzati e invita i leader occidentali a man-tenere gli impegni presi: «I nuovi contagisono in calo, ma i farmaci sono ancoratroppo cari. Poi, i pazienti in Africa ven-gono trattati diversamente da quelli eu-ropei». Insomma, secondo Mataka, il Glo-bal Fund deve fare di più.

Quali risultati raggiunti sinora nella lottacontro l’Aids?Il numero dei nuovi contagi è in diminu-zione. Questo dato è incoraggiante manon è abbastanza. Uno degli obiettivi

principali in Africa al momento, per esem-pio, è eliminare il contagio da madre a fi-glio. Il Botswana rappresenta un esempiopositivo in questo senso. Ma bisognaestendere questo successo agli altri paesi.È fattibile. Abbiamo la conoscenza, i mez-zi e i farmaci per farlo. Ora manca solouna volontà forte, e la cooperazione deigovernanti per raggiungere questo e altritraguardi.

A livello di cure mediche disponibili, qua-li sono le differenze per un paziente sie-ropositivo in Europa e uno affetto dal vi-rus in Africa? Esistono attualmente 25 antiretroviraliper tenere sotto controllo il virus e altri15 sono in fase di sviluppo. In Occidenteè possibile avere accesso a molti di que-sti medicinali, ma in Africa i governi pos-sono permettersi di acquistare solo dueo tre tra questi medicinali, quelli più da-tati, più tossici e più economici. La man-canza di varietà nel mix di farmaci pre-

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FFWEBMAGAZINE

REPORTAGESilvia Antonioli

Mataka: «Aids, bisogna fare molto di più»

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scritto ai pazienti causa alti tassi di resi-stenza ai farmaci, con gravi conseguenzeper la vita dei pazienti. Accumuli di gras-so in zone inusuali e guance incavate so-no solo i sintomi esteriori del danno pro-vocato da un mix di  farmaci non adatto.È profondamente immorale che ci sia di-verso accesso a cure mediche in base allato dell’oceano in cui si ha la fortuna, osfortuna, di nascere.

Chi dovrebbe intervenire per metterpressione sull’industria farmaceutica?Le agenzie quali il Global Fund e Pepfar(United States President’s EmergencyPlan of Aids Relief). Queste agenzie de-vono negoziare prezzi migliori per i far-maci. Questi fondi acquistano i medici-nali e dovrebbero far pesare il loro pote-re di negoziazione per spingere le casefarmaceutiche ad abbassare i prezzi. Soche il Global Fund sta tentando di farequalcosa in questo senso. C’è uno sforzoin quella direzione ma non è ancora statoraggiunto alcun risultato.

Con l’attenzione dei media puntata sutemi quali l’ambiente e il riscaldamentoglobale, crede che alcuni dei finanzia-menti promessi per la lotta contro l’Aidspossano venire meno? Temi quali il riscaldamento globale el’ambiente, sebbene fondamentali, nonpossono e non devono risucchiare i fondipreviamente promessi per altri cause, co-me l’Hiv. Capisco anche che la crisi finan-ziaria sta mettendo a dura prova le eco-nomie di molti paesi, ma mi aspetto chegli impegni presi vengano rispettati. Sen-za fondi non si va avanti. Mi aspetto che ileader dei paesi sviluppati rispettino ogniimpegno preso.

Alcuni mesi fa, i risultati di uno studio ef-fettuato in Thailandia su un vaccino con-tro l’Hiv hanno fatto sussultare la comu-nità internazionale. Medici e virologi di li-vello internazionale ne hanno però in se-guito contestato i risultati. Che valore ha

esattamente questa sperimentazione? Sono stata una delle prime a sobbalzareal sentire i primi risultati di quello studio.Ho pensato davvero si fosse vicini allascoperta di un vaccino. Effettivamenteperò l’eco della stampa internazionale èstata eccessiva e prematura. Pareri dieminenti studiosi hanno ridimensionatofortemente i valori dello studio. Il vaccinotestato ha provato di avere effetto solosul 30% dei pazienti e statisticamente inumeri del campione sono troppo picco-li, hanno detto gli esperti. Le critiche so-no fondate, ma penso comunque che siaun importante passo avanti su cui basarele future ricerche. 

Tre obiettivi che vorrebbe vedere centratientro il l’Hiv-day 2010.Primo: vorrei l’implementazione di stra-tegie che rafforzino l’indipendenza eco-nomica e sociale della donna. Soprattut-to nei paesi in via di sviluppo, la donna èspesso dipendente dal suo/suoi partnere  per questo non in grado di negoziarel’uso di preservativi e sesso sicuro. Mag-giori sforzi per garantire l’accesso aglistudi per le donne, per esempio, aumen-terebbero la loro indipendenza e possibi-lità di scelta. Secondo: vorrei vedere cambiare alcuniaspetti tipici di culture come quelle afri-cane. Tra le maggiori cause di trasmissio-ni del virus ci sono il mancato uso di pre-servativi, sesso con molteplici partner e ilmancato potere di scelta della donna.Vorrei che noi africani diventassimo co-raggiosi abbastanza da affrontare e cam-biare questi aspetti radicati nella nostracultura che ci stanno causando immensodanno. Terzo: vorrei maggiore prevenzione so-prattutto tra i giovani. Vorrei che l’Hivdiventasse non solo materia di studio,ma anche tema esaminabile, con relati-vi voti.

*Inviato speciale delle Nazioni Unite per l’Aids in Africa

di S.A.

L’intervista

E lo fanno da anni, ben prima cheil governo riconoscesse l’esistenzadi un problema da affrontare. Lofanno cercando di istruire il perso-nale paramedico (i medici scarseg-giano) e investire in piccole unitàdecentralizzate, così che un nu-mero maggiore di pazienti possaessere trattato. Visito due ospedalispecializzati nella cura di Hiv etubercolosi. I miei “Virgilio” sonoSaed e Carolina, entrambi medici.Saed è sudafricano, di chiare ori-gini islamiche, ma nato e cresciu-to a Città del Capo. Da decennilavora a Kayalitcha. Cura pazien-ti, organizza il per-sonale ed i rappor-ti con il governo.«Questa parte del- l’ospedale è statacostruita grazie aisoldi di un donato-re italiano», mi di-ce. «Dopo aver vi-sitato Kayalitcha la famiglia hadeciso di fare qualcosa per aiuta-re». Un altro medico, invece, midice che anche Angelina Jolie eBrad Pitt hanno aiutato genero-samente Msf. L’organizzazione vive con i soldielargiti da privati. Accettare fondida un governo piuttosto che daun altro metterebbe pressioni po-litiche che si cercano di evitare:lavorando in zone politicamentecalde, essere visti come vicini aduna fazione piuttosto che a un’al-tra sarebbe deleterio. L’ospedale èpieno di persone ma ordinato.Tante piccole stanze, una piccolafarmacia. Non mi capacito delfatto che tutte quelle persone sia-no affette dal virus. Giovani, vec-

chi, persino bambini. Vanno lìmensilmente per visite di control-lo e per ritirare i loro antivirali(purtroppo pochi a disposizionein Sudafrica) che tengono a badail virus. Constato la mia ignoran-za in materia quando mi diconoche gli individui affetti da Hiv,se sotto trattamento, non posso-no trasmetterlo. L’atmosfera ècordiale e di massimo rispetto. Imedici sono vestiti come i pa-zienti, li trattano da pari. Moltitra i paramedici e tra i membridello staff erano e sono pazienti,ed hanno imparato a convivere

con la malattia.Anzi, a vivere unavita normale.L’autista mi portaverso il secondoospedale, venti oforse trenta minutidi macchina. Ep-pure siamo ancora

dentro Kayalitcha. L’ospedale èpiccolo e colorato. C’è un giardi-netto ed i bambini in attesa si di-vertono lì. La struttura sembrauna piccola scuola fuori città.Aspetto Carolina, che sta visitan-do un paziente. Mi siedo e nescruto alcuni: mi chiedo se hannocontratto tutti il virus e quanti diloro hanno anche la tubercolosi.Tre fratellini giocano e ridono e,come scopro poco dopo, sì, sonotutti sieropositivi e uno di loro èanche affetto da una serissima for-ma di tubercolosi. Ridono, scher-zano e ho voglia di scattare qual-che foto. La mamma mi dà il per-messo con un sorriso ed uno di lo-ro gioca con la mia macchina fo-tografica. I segni sul volto della

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Medici senza frontierevive con i soldi elargitidai privati perché si vogliono evitare le pressioni politiche

REPORTAGESilvia Antonioli

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madre sono chiari: le guance sonoscavate e ha dei rigonfiamenti sulcollo. Sono proprio i sintomi deipazienti che sviluppano resistenzaagli antivirali di prima linea. Pec-cato che per il Sudafrica gli anti-virali di seconda linea siano trop-po costosi. Non siamo mica inEuropa o negli Stati Uniti!Un signore inizia a prendermi ingiro per richiamare la mia atten-zione. È incuriosito un po’ dal co-lore della pelle, un po’ perché so-no straniera. Dei ragazzi suivent’anni ridacchiano e allora miavvicino a loro per cercare alleaticontro le attenzioni dell’uomo.Iniziamo a parlare. Musica, calcioe siamo subito amici. Mostro lefoto che ho in memoria sulla miamacchina fotografica. In alcune cisono anche io. «Sei bella», mi di-ce uno di loro. «Una volta erobello anch’io». Gli chiedo cosa in-tende dire e mi mostra il capo epoi scopre il torace. È pieno di ci-catrici, di sfregi. Ferite profonde elunghe che fanno rabbia. La vistaè disgustosa e irritante, non tantoper la deformazione fisica quantoper il pensiero dell’orrenda vio-lenza dietro quelle cicatrici. Mispiega che Kayalitcha di sera è unposto violento; puoi fare bruttiincontri per i vicoli. I suoi occhi ele sue parole sono senza speranza:«Sai, basta uscire di casa per an-dare a comprare il latte per tuamadre per essere aggrediti concoltelli», mi racconta, «per pochispiccioli o per uno stupido cellu-lare». Di colpo Kayalitcha misembra meno allegra e più spieta-ta. Non so che dire ma cerco dinon tradire lo stupore. Incontro

Carolina. È giovane, brasiliana ebella. Assisto ad alcune delle suevisite e scopro che è anche appas-sionata al suo lavoro. Indossa unamaschera per evitare il contagioda tubercolosi. Finite le visite lainvito a mangiare qualcosa, madice che non ha fame; sta pren-dendo degli antivirali che riduco-no l’appetito: «Sai, ho avuto unproblema durante una visita». E così mi avvio ad incontrarel’autista, pronta a tornare a Cittàdel Capo. Penso alla gente di Ka-yalitcha che ho conosciuto e concui ho parlato. Conosco così pocoeppure mi ha stupito la grandis-sima dignità di queste persone.Sono lì, aspettano. Vogliono es-sere aiutati. Si mettono in filaper ricevere cure. Do un ultimo sguardo alla con-fusione, ai colori e alla polvere diKayalitcha e penso che ci torneròprima o poi, magari a visitarequell’ostello che hanno costruitoda poco e di cui mi parlava ilmio amico. Che bella idea, alme-no è un mezzo per portare un po’di ricchezza (materiale e menta-le) e un po’ di lavoro. Magaritanti tra giornalisti e viaggiatorivorranno sperimentare un’espe-rienza così diversa dalla Città delCapo che ti aspetti, ma probabil-mente più reale.

silvia antonioli

Esperta di politica e cultura dell’America

Latina, attualmente lavora come commodi-

ties’ markets reporter per la casa editrice

Euromoney.

L’Autore

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Quel pezzo di Africache parlava italiano

DI ALFREDO MANTICA

Dopo più di un secolo di rapportistrettissimi, di errori, conquistee incomprensioni, l’Italia sta

riconquistando il proprio ruolo naturale di interlocutore privilegiato con i paesi del Corno d’Africa. Dal regno axumita alle tensioni postcoloniali, questa zona ha sempre occupato un ruolo fondamentale negli equilibri continentali. Ecco come il nostro paese può operare in una regione dalle potenzialità immense, ma soffocate da guerre intestine e infiltrazioni integraliste.

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II Corno d’Africa, quella puntaorientale dell’Africa che sembraabbracciare la penisola arabica, èstoricamente una delle aree geo-politiche più delicate del mon-do. Si trova sulla rotta maritti-ma tra Asia ed Africa e verso ilCapo di Buona Speranza, si af-faccia sul Mar Rosso e, quindi,controlla il Canale di Suez, vita-le per l’economia europea, pe-

trolio compreso. È un territoriopovero di materie prime, conun’agricoltura di sopravvivenza,ampie aree di sottosviluppo e dipovertà, aree desertiche come ladepressione dancala, ma vedeanche zone ricche di acqua sullafaglia della Rift Valley.La collocazione geografica dellaregione del Corno d’Africa, cheattualmente comprende gli Stati

CORNO D’AFRICAAlfredo Mantica

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di Etiopia, Eritrea, Somalia e Gi-buti, ha fatto sì che abbia sempreavuto un ruolo da protagonistanella storia dell’Africa. In Etio-pia, il regno di Axum al massi-mo della sua potenza si era estesosino allo Yemen e alla penisolaarabica e, tranne che nel brevissi-mo periodo della presenza colo-niale italiana, questo Stato è

sempre rimastoindipendente.L’area del Cor-no d’Africa èun’area con unamillenaria pre-

senza cristiana, tale da renderlauna specificità rispetto al restodell’Africa anche dal punto di vi-sta sociale e politico; la diffusio-ne della religione copta, soprat-tutto nei territori dell’Eritrea e

dell’Etiopia, ha visto la conse-guente adozione non solo dell’al-fabeto e della lingua ma anchedel calendario copto. L’Italia entrò con decisione nellastoria del Corno d’Africa nel1882, quando il governo acqui-stò la città portuale di Assab, inEritrea, punto di partenza dellanuova politica espansionistadell’Italia unita, determinata acercare uno spazio coloniale chela mettesse al pari delle altre po-tenze europee, con le quali si sa-rebbe poi incontrata a Berlinonel 1884-85 per dividere le zonedi influenza in Africa. In Eritreaarrivammo con l’accordo degliinglesi, che volevano impedirealla Francia e alla Germania diallargare le loro aree; ci arrivam-mo con la solita generosità e im-

L’Italia entrò nel Cornod’Africa nel 1882,quando acquistò la città di Assab

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provvisazione che costò lutti edisastri militari ma la costruim-mo, dandole nome e confini, cit-tà, strade, porti, ferrovie, un tes-suto economico e sociale, linguae cultura.L’Italia in Eritrea non fu mai po-tenza coloniale in senso stretto.Fu nel nord dell’Africa, inun’area geopoliticamente più sen-sibile, contesa fra Francia e In-ghilterra per il controllo del Me-diterraneo, che diventammo unapotenza coloniale, usando i meto-di e i sistemi allora in voga: ap-profittammo del crollo dell’Im-pero Ottomano, occupammo Ci-renaica e Tripolitania e ne facem-mo la Libia, che come tale nonera mai esistita. Siamo diventatipotenza coloniale nel 1911, con“Tripoli bel suol d’amore’’.

Dopo la prima guerra mondialeriprendemmo il controllo delterritorio libico stroncando inCirenaica la rivolta guidata daOrnar El Muktar, l’eroe della ri-volta anti-italiana. Un’Italia cheper anni hapervicacemen-te ignorato enascosto i latioscuri del lasua avventuracoloniale, senza assumersi le pro-prie responsabilità e finendo,fatta pace con la Libia, per offen-dere ed umiliare solo quegli ita-liani che andarono in Libia perlavorare, che furono cacciati dalcolonnello Gheddafi e che anco-ra oggi aspettano dall’Italia unrisarcimento morale, prima an-cora che economico.La differenza si misura ancoraoggi incontrando gli “asmarini”,gli italiani di Eritrea, che sonostati anch’essi costretti daglieventi a lasciare quella terra, mache si sentono ancora “eritrei”.Esattamente come gli eritrei che,invece, parlano italiano e conser-vano gelosamente tutto ciò chel’Italia ha lasciato; crea un certoimbarazzo ancora oggi andare adAsmara, pren-dere una bibitaai caffè Roma oal bar Naziona-le, magari conun vecchio eri-treo orgoglioso di essere stato uncarabiniere. Un legame talmenteprofondo che ha conosciuto soloun momento veramente difficilenel rapporto tra i due popoli: du-rante la lotta per l’indipendenza

Gli eritrei parlano italiano e conservanogelosamente tutto ciòche l’Italia ha lasciato

Il nostro paese in Eritrea non fu mai

potenza coloniale in senso stretto

CORNO D’AFRICAAlfredo Mantica

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RAPPORTI BILATERALI

La Somalia è sempre sotto osservazioneIl nostro paese è fortemente impegnatoa favore della pace in Somalia sotto iltriplice profilo del sostegno alle attualiistituzioni federali transitorie ed al pro-cesso politico di riconciliazione nazio-nale, sotto quello del miglioramentodelle condizioni di sicurezza e sottoquello umanitario. L’impegno su questitre fonti è valso negli ultimi anni oltretrenta milioni di euro, tredici dei qualinel 20091. Il processo politico di pacificazione deveessere inclusivo, aperto cioè a tuttequelle forze disposte a collaborare con ilgoverno legittimo ed a rinunciare allaviolenza ed al terrorismo. Una politicainiziata alla Conferenza di Eldoret e pro-seguita per anni con il nostro rappresen-tante speciale per la Somalia, l’onorevo-le Mario Raffaelli, l’appoggio dell’Ue einfine anche degli Stati Uniti. Il sostegnoal legittimo governo transitorio devecondurre a sostanziali progressi nelloscenario somalo in termini di stabilità edi consolidamento dello stesso anche alfine di evitare che i gruppi armati del-l’estremismo islamico possano trasfor-mare la Somalia in un santuario del ter-rorismo internazionale. Sotto il profilo della sicurezza l’Italia ri-tiene necessario il rafforzamento dellamissione di peace supporter Amisom2 edelle strutture di sicurezza somale, nonsolo attraverso l’addestramento delletruppe somale, ma anche attraverso lafornitura di mezzi ed equipaggiamentied il pagamento dei salari delle truppeaddestrate.L’Italia mantiene la Somalia all’attenzio-ne dei competenti forum internazionali.A New York, ad una sessione straordina-ria del Gruppo internazionale di contatto(Icg), l’Italia ha presentato un Position

paper sulla Somalia, che ribadisce la no-stra convinzione dell’urgenza di sostene-re concretamente il governo di Mogadi-scio. In ambito europeo, come altri par-tners, siamo pienamente favorevoli aduno sforzo accresciuto dell’Unione euro-pea per la stabilizzazione della Somalia.La nostra presenza in fora internazionalisi sostanzia inoltre nella partecipazioneal Gruppo internazionale di contattosulla Somalia ed allo specifico Gruppo dicontatto sulla pirateria al largo delle co-ste somale. Partecipiamo altresì all’ope-razione navale anti-pirateria “Atalanta”,di cui abbiamo assunto il comando diturno. Tutto ciò nel quadro di un rilanciodella politica italiana verso la Somalia,che lo stesso governo somalo ha ricono-sciuto con numerosi incontri e contattibilaterali degli ultimi mesi e con la ria-pertura dell’Ambasciata a Roma.

dall’Etiopia, condotta dal Fple(forze popolari di liberazione eri-trea) guidato da Isayas Afterwor-ki, attuale presidente eritreo,quando l’Italia democristiananon sostenne gli eritrei, appiat-tendosi sulle posizioni etiopi diMenghistu, dittatore filo-sovieti-co. La Somalia, per definizione,era di area socialista.Se il popolo eritreo era e restaitalofono, la politica italiana de-gli anni Ottanta ha creato unaclasse dirigente eritrea in granparte italofoba: da qui i difficilirapporti politici dopo l’indipen-denza, sancita nel 1993, che havisto l’allontanamento dal paesedi un ambasciatore e di un diplo-matico italiani, nonostante l’aiu-to e la cooperazione che l’Italia,impegnata a non isolare l’Eritreadal contesto internazionale, hasempre fornito. Un’azione di so-stegno che continua, dopo lostallo dal 2006 al 2009 delle re-lazioni bilaterali, ma con un’Eri-trea che sta scivolando semprepiù nell’area degli interessi ira-niani e non certo per problemireligiosi, visto che la maggioran-za della popolazione è cristiana.Il grande leader della lotta perl’indipendenza, Isayas Afterwor-ki, che si alleò con gli anticomu-nisti etiopi di Meles Zenawi,l’attuale primo ministro etiope, eche liberò Addis Abeba dal co-mando delle forze rivoluzionarie,ha scelto dopo la vittoria la stra-da dello scontro con gli ex allea-ti, che pure avevano mantenuto ipatti e, cioè, la concessione del-l’indipendenza all’Eritrea. In unaprima fase lo scontro fu di tipo

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CORNO D’AFRICAAlfredo Mantica

RAPPORTI BILATERALI

1 Dal 2008 il nostro impegno finanziario è valso asostenere: il processo politico di riconciliazione, ilconsolidamento dell’apparato istituzionale e lagovernance (circa € 8 milioni); il settore della si-curezza, d’intesa e tramite l’Unione africana, siaper la sua missione di pace Amisom e la suacomponente civile che per le forze di sicurezzasomale (circa € 12 milioni); e il settore umanitarioe dell’emergenza (quasi € 14 milioni).2 Tuttora composta da 3 battaglioni dell’Ugandae 3 del Burundi, Amisom continua a contare solosu 5.200 unità, rispetto alle 8mila previste in ori-gine per un suo completo spiegamento e per unasua efficace operatività.

militare, e l’Eritrea fu salvatadall’intervento della comunitàinternazionale con truppe Onu,che ancora oggi stazionano aiconfini tra Eritrea ed Etiopia. Inseguito, lo scontro si trasferì sulpiano politico per la definizionedei confini dopo gli accordi diAlgeri, definizione mai realizzatasul territorio, ed ancora oggi loscontro vede l’Eritrea appoggiarepalesemente tutti i movimentiantietiopi del Corno d’Africa,nella speranza che la destabiliz-zazione dell’area porti all’implo-sione della Repubblica federaledell’Etiopia. L’Eritrea oggi sup-porta i somali inte-gral ist i i s lamicicontro il governotransitorio di Moga-discio, i ribelli delsud del Sudan perrendere instabili iconfini etiopi-suda-nesi e i guerriglieriOromo all’interno dell’Etiopia,ed è diventata il terminale inAfrica delle forniture di armi ira-niane a tutti i movimenti inte-gralisti islamici fino ad Hamas,nella striscia di Gaza.Un’Eritrea dove non si vota dapiù di dieci anni, con un regimedittatoriale poliziesco che vedein carcere, o scomparsi, alcunidei capi della lotta per l’indipen-denza, ove sono calpestati quoti-dianamente i diritti umani, dovela leva è obbligatoria fino a 40anni e dove la maggioranza dellapopolazione vive con meno di undollaro al giorno in un regime difame e di miseria. L’Eritrea costi-tuisce un fattore di forte instabi-

lità politica del Corno d’Africa, esegue una logica politica al difuori dalle regole dettate dallacomunità internazionale, che neha comportato l’isolamento al-l’interno delle stesse organizza-zioni africane, dall’Igad all’Unio-ne africana, e che ha fatto venirmeno anche l’appoggio della Li-bia, la quale aveva sorretto peranni l’economia eritrea fornendopetrolio a prezzo politico.Tuttavia, all’interno dell’area delCorno d’Africa, se pure è certoche l’Eritrea costituisce il primoe piu gravoso elemento d’instabi-lità politica, l’attenzione del-

l’opinione pub-blica internazio-nale è concentra-ta sulla Somalia,che vive una si-tuazione da “Sta-to fallito” da al-meno 20 anni.La Somalia, per

verità storica, non è mai stataunita se non all’epoca “italiana”,fino al periodo della nostra am-ministrazione negli anni Cin-quanta, o forse fu unita solo nel‘36, quando la colonna Grazianimarciò su Addis Abeba alla testadelle truppe coloniali somale. In-fatti, l’unico elemento di unitàdei somali, oltre alla religioneislamica, è l’odio feroce verso glietiopi. E proprio di questo ap-profittò anche Siad Barre quandodecise di intraprendere l’avven-tura della “grande Somalia”, sca-tenando la guerra nell’Ogadencontro l’Etiopia. La frantumazio-ne in clan è l’unica realtà dellasocietà somala, ed ogni tentativo

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L’Eritrea costituisceun fattore di forte instabilità politica ed è isolata dalle stesseorganizzazioni africane

di pacificazione e di unità dellaSomalia che non rispetti questoprincipio appare uno sforzo vano.Quando alla Conferenza di Eldo-ret si decise la costituzione di unParlamento somalo non vi furonoelezioni, ma l’assegnazione pro-porzionale dei seggi del parla-mento in base alla forza numeri-ca dei clan e dei sottoclan. QuelParlamento rimane l’unica legit-tima istituzione somala; riuscì adeleggere un presidente della Re-pubblica, e rimane ancora oggi,nel caos, un punto di riferimen-to. Non è certo un modello didemocrazia occidentale, ma vaaccettato per quel-lo che rappresenta:il clan come legit-timo elemento dirappresentazionedella popolazionesomala.Per anni il proces-so di pace in que-sto paese è continuato, con qual-che timido successo, ma con ladebolezza di una classe dirigentevecchia ed usurata, coinvolta nel-la guerra civile del dopo SiadBarre, nello scontro con le forzedi Restore Hope, e condizionatadagli affari economici che i busi-nessmen somali controllano dagliEmirati e che abbisognano dimiliziani per difenderne i flussi.Le corti islamiche hanno spazza-to via il vecchio e sono state in-nanzitutto una rivolta contro isignori della guerra somali, chegli americani hanno difeso e ali-mentato fino all’ultimo. Il prezzopolitico è stato pesantissimo: èarrivato in Somalia l’integrali-

smo e gli Shabaab, giovani vici-no ad Al Qaeda, hanno introdot-to la Sharia in un paese da sem-pre islamico, ma da sempre laico.Occorreva in quel momento, co-me capirono le strutture diplo-matiche e politiche italiane, co-gliere il “nuovo” che si presen-tava con le corti islamiche (unodei primi atti a Mogadiscio fu laripresa del servizio raccolta ri-fiuti, segno di una volontà pre-cisa di riportare l’ordine e i ser-vizi alla popolazione nel caosdegli scontri tra clan). Bisogna-va puntare sulla nuova classe di-rigente che stava emergendo se-

guendo un prin-cipio di inclusio-ne, imponendo lapace con le trup-pe di Amisomdell’Unione afri-cana di cui nonavrebbero dovutofar parte truppe

dei paesi confinanti.Tutto poi è avvenuto, ma con unritardo che ha favorito il mante-nimento dell’instabilità profon-da: oggi il capo del governo tran-sitorio è Sheik Sharif Sheik Ah-med, ex portavoce delle cortiislamiche, mentre sul piano mili-tare Amisom è presente con sei-mila uomini, ma solo dopo cheper due anni quel compito è sta-to affidato alle truppe etiopi, po-liticamente lasciate sole ad af-frontare lo scontro in Somalia, fi-no a costringerle al ritiro.Ma tant’è, la strada è segnata, oc-corre rinforzare la capacità mili-tare del governo provvisorio, lasua capacità di risposta ai bisogni

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L’opinione pubblicaè concentrata sulla Somalia che vive una situazione di “Stato fallito”

CORNO D’AFRICAAlfredo Mantica

di una popolazione con grandis-simi problemi umanitari, e cerca-re di aumentare le truppe diAmisom almeno fino agli otto-mila uomini promessi. Con que-sti obiettivi va, tuttavia, prestatagrande attenzione ai due fenome-ni che stanno emergendo nellarealtà somala: la pirateria da unlato e gli Shabaab dall’altro. Latecnica somala è sempre quella diaffidare a terzi la soluzione deiproblemi del proprio paese, el’estremizzazione dei due feno-meni sopra indicati può ancheevidenziare un tentativo di coin-volgere in maniera diretta gliStati Uniti o la co-munità internazio-na le , in quantol’estremismo isla-mico, se non accop-piato ad una lottacontro un nemicocomune, può esauri-re la sua spinta, co-me è già avvenuto nelle aree con-trollate dal sufismo somalo e dal-le recenti dimostrazioni in piazzaa Mogadiscio. E il fenomeno del-la pirateria potrebbe non esseresolo un fenomeno somalo ma digrande criminalità organizzata,all’interno della quale i somalicostituiscono una sorta di bracciooperativo, senza che questo abbiaalcun significato politico, marappresenti unicamente lo sfrut-tamento su vasta scala di un fe-nomeno criminale purtroppo ca-ratteristico delle coste somale.La Somalia potrà trovare una solu-zione alla sola condizione chel’Unione europea, la Lega araba,l’Unione africana e gli Stati Uniti

maturino una comune convinzio-ne e un comune progetto di pacee di stabilità, ricordando un vec-chio motto di chi conosce bene isomali: «Non credere mai a quel-lo che dice un somalo, ma soprat-tutto non credere mai al contrariodi quello che dice». Oppure guar-dando alle realtà claniche esclusi-ve, cioè nelle quali vi è la nettaprevalenza di un clan sugli altri,come nel Puntland, nel Somali-land o nella stessa Gibuti; tuttearee, o Stati, abitati e governati dasomali, ma che conoscono da anniuna stabilità sconosciuta al suddella Somalia e a Mogadiscio. So-

prattutto nellacapitale, città digrandi migrazio-ni, l’unica urba-nizzata, si regi-strano continuiscontri, quartiereper quartiere, viaper via, tra clan e

sottoclan, per il controllo del por-to e degli aeroporti e dei trafficida questi controllati. L’altro grande porto abitato e ge-stito da clan somali è Gibuti, cit-tà-Stato di antica indipendenzarispetto alla Somalia, il più gran-de porto del Corno d’Africa, ge-stito dalla Dubai Port Aurthori-ty, e, in qualche modo, il portodell’Etiopia, che non ha sbocchial mare e vive nell’incubo del-l’accerchiamento e del soffoca-mento della sua economia.Gibuti costituisce ormai unagrande realtà portuale internazio-nale, collegata al sistema logisti-co arabo, ma è anche sede diqualche migliaio di uomini della

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Per la Somalia serveun comune progettodi pace di Unione europea, Lega araba,Unione africana e Usa

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RAPPORTI BILATERALI

Quel legame fortetra Roma e AsmaraItalia ed Eritrea condividono un le-game che affonda le proprie radicinella storia e che risulta tuttoraevidente e vivo in diversi ambiti:dal patrimonio artistico e culturaleeritreo (di chiara impronta italiana)al primato del nostro paese tra ipartner economici di Asmara (sia-mo il naturale mercato di approvvi-gionamento eritreo); dall’eccellen-za delle istituzioni scolastiche ita-liane presenti in loco al ruolo dipunto di riferimento nell’Occiden-te riconosciutoci da Asmara.I rapporti politici con l’Eritrea so-no, dall’indipendenza, molto diffi-cili anche se l’Italia mantiene unalto livello di cooperazione neltentativo di non accentuare l’iso-lamento dell’Eritrea, con l’obiettivo di unaiuto costante alla popolazione che nellamaggioranza vive sotto la soglia dellapovertà.L’Italia è fra i principali partners commer-ciali del paese – primo fra i paesi Ue.Benché modesto, l’interscambio ha mo-strato sensibili segnali di ripresa nel pri-mo semestre del 2009: confrontate conlo stesso periodo dell’anno precedente,le nostre esportazioni hanno registratoun incremento del 20% (oltre 13 milionidi euro contro i 10 del 2008). In leggeroaumento anche le importazioni dall’Eri-trea. L’interscambio aveva registrato, nel2008, un leggero calo rispetto al 2007,passando da poco più di 30 milioni di eu-ro a circa 28 milioni di euro (con un nettoavanzo per parte italiana).Nel campo della Cooperazione allo svilup-po sono attive alcune regioni italiane –soprattutto, Toscana, Marche e Lombar-dia – con progetti di cooperazione decen-

trata. Inoltre, nel settembre 2009, la de-legazione della Commissione europea hafirmato con la controparte eritrea il Coun-try Strategy Paper relativo al decimo Fon-do europeo per lo sviluppo (quinquennio2009-2013). A favore dell’Eritrea, sonostati stanziati 122 milioni di euro. A fineottobre, i competenti organismi europeihanno approvato il Pianoannuale Eritrea2009 con un portafoglio di 53,7 milioni.Nel paese vivono circa 900 connazionali,di cui oltre 300 con doppia cittadinanza.Ventidue sono i religiosi italiani, principal-mente comboniani, operanti nell’area del-la capitale. Una delle sette Ong straniereattive nel paese è italiana (Gruppo mis-sione Asmara).Ad Asmara esiste una scuola italiana (ele-mentare, media e liceo) che conta all’in-circa 1100 alunni. La scuola materna, checonta circa 300 alunni, invece, non è pub-blica, ma “con presa d’atto”, comporta,cioè, per lo Stato italiano un potere-dove-re di vigilanza.

CORNO D’AFRICAAlfredo Mantica

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RAPPORTI BILATERALI

L’Etiopia è un partner prioritario del-l’Italia nell’Africa subsahariana, per lasua rilevanza demografica (circa 80 mi-lioni di abitanti), per i tassi di crescitaconsiderevoli (intorno all’11% negli ulti-mi 5 anni, ridottisi al 7% in seguito allacrisi economica globale), e per il ruolopreminente che il paese gioca in ambitoafricano (è sede dell’Ua e dell’Uneca) enell’area per noi prioritaria del Cornod’Africa. Le relazioni bilaterali sono dialto livello, come testimonia la frequen-za degli incontri tra i rappresentanti po-litici dei due Stati e si sono rafforzatedopo il riposizionamento dell’obeliscoad Axum da parte dell’Italia e per operadi tecnici e maestranze italiane. Un attodovuto in base ai trattati internazionali,

ma fortemente voluto dal governo Ber-lusconi secondo il principio che il raffor-zamento delle identità nazionali è ele-mento di stabilità e i simboli della storiapolitica e religiosa dei popoli sono ele-menti fondanti delle identitàLa collettività italiana conta oggi 1.594iscritti all’anagrafe consolare, 400 deiquali nati in Italia, cui si aggiungono altri600/700 italiani solo temporaneamenteresidenti. Il numero dei missionari italianisi aggira attorno alle 130 unità. Si trattasoprattutto di comboniani e salesiani di-slocati principalmente nell’area della ca-pitale. Una cinquantina sono i cooperantie volontari italiani. Tre sono le missioniarcheologiche che ricevono finanziamen-ti. Ad Addis Abeba hanno sede l’Istituto

Etiopia, un partner indispensabile per l’Italia

Legione straniera e di 1800 ma-rines di Africom, il comandoamericano per l’Africa, una basedeterminante nel sistema strate-gico per il controllo del Cornod’Africa che gli Usa ritengonosufficiente per controllare il ter-ritorio, soprattutto somalo. Gli “Stati falliti”, come la Soma-lia, o in fallimento, come l’Eri-trea, non sono mai di grande aiu-to nella lotta al terrorismo inter-nazionale e i grandi territori noncontrollati o di difficile controllo– si pensi al Sahara – sono oggil’incubo di tutti i sistemi di intel-ligence. Proprio da una valutazio-ne sul ruolo di Gibuti può ripar-tire una più attenta analisi di pre-senza dei sistemi di sicurezza eu-ropei ed americani, escludendo apriori che quell’area sia solo unproblema militare o da affidare aqualche generale in pensione. Unatteggiamento coerente solo daparte di chi non ha da anni unastrategia per l’Africa e al massi-mo pensa di delegare il ruolo aqualche paese della regione, comeavviene, a corrente alternata, conl’Etiopia, salvo poi portarla sulbanco degli imputati per presun-to mancato rispetto di dirittiumani di minoranze etniche, o distandard elettorali non adeguatiagli standard “norvegesi”.L’Italia conosce molto benel’Etiopia, da 150 anni, e non èmai stato un rapporto né facile,né pacifico. Abbiamo subito lepiù grandi sconfitte militari permano etiope, si pensi ad Adua;abbiamo mobilitato il più gran-de e il più moderno esercito co-loniale che si sia mai visto in

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CORNO D’AFRICAAlfredo Mantica

RAPPORTI BILATERALI

di cultura e la scuola italiana, operantefin dal 1956 e costituita da una scuolamaterna (privata), da una scuola ele-mentare e media e da due scuole supe-riori (istituto tecnico-commerciale e pergeometri e liceo scientifico sperimenta-le). Essa conta circa 700 alunni, l’80%dei quali cittadini etiopi.L’Etiopia è fra i primi beneficiari del-l’aiuto italiano in Africa e, in termini as-soluti, siamo il quarto donatore delpaese. Lo scorso aprile abbiamo firma-to un nuovo programma di cooperazio-ne bilaterale per il triennio 2009-2011,che ci impegna per 46 milioni di euro.Abbiamo inoltre cancellato totalmenteil debito etiopico e finanziato la realiz-zazione dell’impianto idroelettrico Gil-gel Gibe II, con un credito d’aiuto di220 milioni di euro.

alfredo mantica

Sottosegretario di Stato per gli Affari esteri e

senatore.

L’Autore

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Africa nel 1936, per arrivare adAddis Abeba ed imporre l’impe-ro di Roma. Abbiamo traccheg-giato cinquant’anni per rispetta-re il trattato di pace che avevamofirmato, pensando, forse, chel’Etiopia fosse ancora una coloniacomunque importante, tanto chefu delegata alla competenza de-mocristiana.Solo il governo Berlusconi trattòalla pari con l’Etiopia, capendoche l’Italia aveva avuto comun-que un ruolo positivo, ricono-sciuto dall’imperatore e dai suoieredi politici: era stato il mecca-nismo di avvio della modernizza-zione del paese. Avevamo vintocon un esercito moderno e conun’altissima tecnologia; avevamocostruito strade e ferrovie, chesono ancora oggi le infrastruttureprincipali in Etiopia; avevamoaperto scuole e ospedali, lasciatouna struttura e un tessuto di pic-cola e media impresa e non gran-di latifondi da sfruttamento omultinazionali. L’Etiopia post imperiale e postdittatura che si è rifondata inuna Repubblica federale con unsistema elettorale di standardeuropeo, aveva bisogno innanzi-tutto di una partnership conl’Italia per riprendere sulla stra-da della modernizzazione. FuAxum, poi la visita del presi-dente etiope in Italia, furono gliaccordi sottoscritti, politici,economici e culturali; fu lagrande attenzione posta sul-l’Etiopia da parte del mondoimprenditoriale italiano. Nonsufficiente, certo, di fronte allapresenza cinese, ma è un dato

che l’Etiopia sta cambiando, sista modernizzando, può diven-tare esportatrice di energia, puòarrivare all’autosufficienza ali-mentare.La stabilità ai confini, la carenzadi un accesso al mare, non si saper quanto basteranno Gibuti eBosaso, l’equilibrio fra le aree re-gionali, che è anche un equili-brio etnico, il rispetto delle rego-le democratiche che gli etiopi sisono dati, sono le sfide politico-strategiche dell’Etiopia, nellequali il paese deve essere accom-pagnato perché da sfide diventi-no vittorie, a garanzia di una sta-bilità dell’area che dell’Etiopiaha assoluta necessità.Sudan, Kenya, Uganda e i gran-di laghi hanno bisogno che ilCorno d’Africa conosca una nuo-va epoca di stabilità e di pace.Ed è inutile illudersi che sianosolo problemi umanitari o diaiuto nella lotta alle malattie:quando guardi negli occhi unbambino africano non ti chiedesolo del pane. Vuole vivere cometutti gli altri bambini del mon-do. E la risposta a questo biso-gno essenziale la può dare solo lapolitica e nel Corno d’Africa an-che un po’ di politica italiana.

Nel novembre del 1970 HailèSelassié, ultimo negus etiopico,secondo la tradizione duecento-venticinquesimo discendente diMenelik, il figlio leggendariodella regina di Saba e di re Salo-mone, venne finalmente in visitaufficiale in Italia, invitato dal-l’allora ministro degli Esteri, Al-do Moro. Il negus neghesti, il redei re, era ospite al Quirinale,dove allora risiedeva GiuseppeSaragat. Il percorso che dall’aero-porto di Ciampino, luogo di arri-vo di Selassié, porta alla presi-denza della Repubblica, passaquasi necessariamente da piazzadi Porta Capena, l’attuale sededella Fao, dove fino a vent’anniprima c’era il ministero delle Co-lonie. Proprio in quella piazza,fra il Circo Massimo e le Terme

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La stele venuta da lontanoDopo una contesapluridecennale tra Roma e Addis Abeba, l’obelisco è finalmente tornato ad Axum, città sacra del cristianesimo copto e culla di una civiltà millenaria.

DI BARBARA MENNITTI

La stele venuta da lontano

AXUMBarbara Mennitti

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di Caracalla, si stagliavano i 23metri e mezzo dell’obelisco diAxum, la stele portata a Romanel 1937 per volere di BenitoMussolini, quando l’Etiopia eracolonia italiana.Per riguardo al negus, il percorsodel corteo reale fu deviato e fattopassare dall’Aventino, in mododa evitare piazza di Porta Cape-na, giungendo direttamente alQuirinale, dove si svolse una so-lenne cerimonia di ricevimentodell’ospite. Hailé Selassiè assolsediligentemente a tutti i doveriprevisti dal cerimoniale, ma allafine della lunga serata espresseun desiderio: chiese di essere por-tato a vedere la stele di Axum. Siracconta che, arrivato al cospettodel monumento dei suoi avi, ilnegus scese dall’auto, si raccolsein preghiera e pianse a lungo e insilenzio, avvolto dal buio dellanotte romana. È un aneddoto, forse anche unpo’ romanzato, che rivela l’im-portanza della lunga vicenda del-l’obelisco di Axum, che – comericordato – arrivò a Roma come“bottino di guerra” nel 1937 e virimase per 65 anni, per poi esseresmontato fra mille polemiche nel2002 e infine rieretto ad Axum,nel suo luogo originario, il 4 set-tembre del 2008 al cospetto delprimo ministro etiopico MelesZenawi e del sottosegretario ita-liano agli Esteri, Alfredo Manti-ca. Uno che aveva militatonell’Msi, la forza politica del-l’Italia repubblicana in qualchemodo più vicina al fascismo. La storia di questa porzioned’Africa si perde nelle origini

Debre Zeit, cinquanta chilometri daAddis Abeba, 1987: una grande fami-glia patriarcale; un legame speciale trail vecchio Yacob e Mahlet, la più piccoladi casa. Lui la conosce meglio di chiun-que altro: la guarda negli occhi, mentrelei divora le storie che lui le narra. Così,un giorno si mette a raccontarle deltempo degli italiani, venuti ad occupa-re quella terra, e degli arbegnà, i fieriguerrieri che li hanno combattuti. Quelgiorno, Mahlet fa una promessa: dagrande andrà nella terra degli italiani esi metterà a raccontare...Un lungo viaggio nel tempo e nellospazio, in cui scorrono la vita e le vicis-situdini di una famiglia etiope nel pe-riodo della dittatura di Menghistu, enel decennio successivo dell’emigra-zione. Un romanzo che percorre oltrecento anni di storia, dal tempo di Me-nelik ai giorni nostri. Una narrazioneche, come scrive Cristina Lombardi-Diop nella postfazione, «non riguardasolo la dimensione del passato etiopi-co, ma è anche un modo di interrogarsisull’identità della memoria colonialeitaliana».Regina di fiori e di perle Gabriella GhermandiDonzelli Editore, 2007

La storia colonialevista dall’Etiopia

IL LIBRO

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dell’umanità. Qui, infatti, nel1972 vennero alla luce i restidell’Australopithecus afarensisLucy e sempre qui, nella valledel fiume Awash, nel 1992, ilpaleontologo giapponese GenSuwa trovo i resti dell’Australo-pitecus ramidus, ritenuto l’anellodi congiunzione fra la scimmiae l’uomo, vissuto circa 4 milio-ni e mezzo di anni fa. Traccedell’Etiopia, crocevia di migra-zioni fra Mediterraneo, Africanera e Penisola arabica, si trova-no già nei classici dei greci enei geroglifici egiziani. Il regnoaxumita crebbe a partire dal VIsecolo a.C. e nel III secolo d.C.iniziò a battere moneta tanto daessere considerato il terzo impe-ro più potente del mondo, dopoRoma e la Persia.Anche le origini della stirpe realedei negus si intrecciano con ilmito e la leggenda. Il Corano, ilVecchio e il Nuovo Testamentoraccontano di come la regina diSaba organizzò un viaggio allacorte di re Salomone, incuriositadai racconti sulla magnificenzadel regno. Salomone accolsetrionfalmente la regina che, alsuo ritorno ad Axum, partorìMenelik, figlio dell’amore con ilre di Israele. Da lui, secondo latradizione etiope, discendono inegus etiopici.Diventato adulto, Menelik si re-cò dal padre Salomone e conobbei rappresentanti delle dodici tri-bù di Israele e così nacque in luiil sogno di fondare ad Axum unanuova Sion. Per questo Meneliktrafugò l’Arca dell’Alleanza, lacassa contenente le Tavole della

AXUMBarbara Mennitti

Tra il gennaio e l’aprile del 1939 CurzioMalaparte attraversò l’Etiopia per con-to del Corriere della Sera. Sbarcato aMassaua, visitò l’Eritrea e puntò versoAddis Abeba, attraversando il territo-rio Amara e il Goggiam. Nel corso dellungo viaggio ebbe anche modo di par-tecipare alle operazioni militari controla resistenza anti-italiana, guadagnan-dosi, nella caccia ad Abebè Aregai, ilpiù celebre patriota dell’Etiopia cen-trale, una croce di guerra al valor mili-tare. Nei progetti dello scrittore il viag-gio avrebbe dovuto documentare lacreazione di un “impero bianco” in un“paese nero”, gli straordinari effetti,cioè, dell’imperialismo fascista in Etio-pia. In realtà il piano di lavoro ipotizza-to fu ben presto abbandonato e l’at-tenzione del giornalista-scrittore, su-perate “le frontiere della tradizionebianca”, fu catturata dalla scoperta diun’Africa inattesa e inedita e dalle vi-cende militari di cui fu testimone eprotagonista. Cinque articoli di argo-mento africano accompagnano il re-portage malapartiano, corredato da unampio saggio introduttivo.Viaggio in Etiopia e altri scritti africaniCurzio MalaparteVallecchi, 2006

IL LIBRO

Un viaggio nell’Africa inattesa

Legge su cui sono scritti i diecicomandamenti dettati da Dio aMosè, e la portò con sé ad Axum.Secondo la chiesa ortodossa etio-pica, l’Arca si trova tuttora cu-stodita nella Chiesa di Santa Ma-ria di Sion, nei pressi del parcoarcheologico degli obelischi.Nessuno può vederla, nemmeno isuoi custodi, che infatti per svol-gere questo sacro ruolo devonoessere ciechi.Il primo sovrano axumita a con-vertirsi al cristianesimo fu Ezana,che nel IV secolo si fece battezza-re con il nome di Abriha, se-gnando il momento ufficiale del-la cristianizzazione del regno.Questa è l’origine della città diAxum, capitale di un regno anti-

chissimo. Curzio Malaparte, chenel 1939 attraversò l’Etiopia perconto del Corriere della Sera, ladescrive con queste parole poeti-che: «Una città più antica di Pa-rigi, di Londra, di Berlino, diVienna, di Madrid, di Mosca: la“madre delle città”, la patriad’elezione dei Nove Santi diRom, la Gerusalemme dell’Afri-ca, la sedia di Maria, la nuovaNazaret, la nuova Betlemme, do-v’è nato il Cristo dei popoli “ros-si”, il Dio della Nubia Christia-norum, il Cristo etiopico dal visoscarlatto, dai capelli neri e crespi,dai piedi punteggiati di pulcipenetranti, esperto di magie, didecotti, di unzioni, che i pretinel deserto delle chiese nutrono142

di angera e zighinì. Il Cristo dal-la fronte purpurea, cui le sciar-mutte recano in dono mascald’argento, vasi di miele, corni dibue colmi di tellà, bottiglie dilatte fermentato e sacchetti diberberè. Il Cristo degli Amara, ilCristo della nuova Bisanzio, doveil Vangelo dei primi secoli so-pravvive sotto la crosta delle im-mondizie, dello sterco di vacca,della muffa nerastra odorosad’incenso». E non si potrebberotrovare parole migliori.Qui, nella città santa della cri-stianità copta dell’Etiopia, si tro-vano le gigantesche steli axumi-te, decorate con porte e finestre,imponenti testimoni di anticamagnificenza. Qui si trovano la

Grande stele, 33 metri di pietrabasaltica crollati al suolo proba-bilmente già durante la costru-zione, e la stele di re Ezana, an-cora eretta invece nei suoi 24metri. Qui si trovava anche la“nostra” stele, quella che trovaro-no i soldati italiani, venuti inEtiopia a combattere una sangui-nosa guerra di occupazione e aipiedi della quale piangeva, a Ro-ma, una notte del novembre del1970, Hailè Selassié. Riportarla ad Axum è stataun’impresa tutt’altro che facile.Finalmente, dopo alcuni trac-cheggiamenti e polemiche, nel2002 la stele viene prima restau-rata e poi smontata in previsionedel trasferimento. Che fu una ve- 143

AXUMBarbara Mennitti

barbara menniti

Direttore responsabile di Charta minuta.

Giornalista, è stata direttore del quotidiano

online Ideazione.com, collabora con Ffweb-

magazine.

L’Autore

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ra sfida visto che passare per laSomalia non era pensabile el’Etiopia aveva espressamente ri-chiesto di non attraversare l’Eri-trea. Insomma, la via terrestrenon era praticabile e non rimane-va che la via aerea che, per unmonolite di 152 tonnellate, pre-senta qualche difficoltà. L’unico aereo al mondo in gradodi trasportare l’obelisco, sebbenediviso in quattro pezzi, è l’Anto-nov 124, un colosso volante. Allacloche c’era un pilota ucraino, unex dell’Armata rossa, che effettuòquattro voli (e, si racconta, quat-tro rocamboleschi atterraggi) perl’aeroporto di Axum, che esistevaperché i sovietici lo usavano perportare le armi a Menghistu. An-che i lavori di ricostruzione dellastele, finanziati grazie a un fondoitaliano, sono stati difficili. Lastele, quando i soldati italiani latrovarono, era crollata – proba-bilmente in seguito a un terre-moto accaduto molti secoli pri-ma – e la sua struttura era statarinforzata con cunei di metallo.Per smontarla senza causare dan-ni sono state usate tecniche sofi-sticatissime, mentre in fase di ri-costruzione, ad Axum, è statonecessario costruire una torre inacciaio per impilare i blocchi epoi collegarli fra loro con barredi fibre di carbonio per renderel’obelisco antisismico e poi re-staurarne la superficie esterna. È bene ricordare che l’Italia èstato il primo paese a cercare diporre in qualche modo rimedioal suo passato coloniale, anche seAlfredo Mantica, che si è impe-gnato molto perché si compisse

questo passo e ha rappresentato ilnostro governo alla cerimonia diinaugurazione della stele, nonvuole metterla in termini di re-stituzione, ma parla di rialloca-zione. «Noi siamo una destra at-tenta – ci ha detto – che vuole ilrispetto della sua identità nazio-nale e si rende conto che deve ri-spettare anche quella degli altri.L’Etiopia è stato un paese indi-pendente per un sacco di tempoe noi abbiamo contribuito a raf-forzare questa identità nazionalee quindi la stabilità e la pace inEtiopia attraverso la riallocazionedell’obelisco di Axum». E comeun dono degli italiani è stato, in-fatti, accolto dalle autorità etio-piche il monumento, che durantela cerimonia di inaugurazione eracoperto appunto dalla bandieraitaliana, mentre i bambini sven-tolavano le bandiere italiane edetiopi e un grande striscionereci-tava “I popoli di Italia e Etiopiavivranno sempre in amicizia”.Un degno epilogo per il lungoviaggio della stele di Axum.

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Il businessdelle navi pirata

DI PIERO BONADEO

In molti Stati del Corno d’Africa mancano le leggiper contrastare questo fenomeno e quindi si preferisce pagare il riscatto. In questo modo le organizzazioni criminali guadagnano milioni di dollari utili a reclutare nuovi pirati.

Servono soluzioni a lungo termine

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L’Africa dell’est è un mosaicocomplesso nel quale estrema po-vertà, guerre, governi corrotti,mancanza di governance, in dueparole instabilità e crisi, hannolasciato molti paesi dell’area, 180milioni di persone circa, in unacondizione di costante lotta perla sopravvivenza.Incastrata tra la regione dell’Afri-ca, orientale – idealmente com-posta da Kenya, Tanzania, Ugan-da, Burundi e Ruanda –, e le iso-le dell’Oceano indiano (Seychel-les, Comore, Mauritius e Mada-gascar), il Corno d’Africa (Gibu-ti, Eritrea, Etiopia e Somalia) ver-sa nella situazione peggiore. Nonstupisce che in quest’ambiente didiffusa debolezza istituzionale,sociale ed economica, trovino fa-cile terreno organizzazioni crimi-nali con respiro transnazionale,come sono quelle che alimentanoe praticano la pirateria. Che siconcentra nel paese costiero piùdebole della regione: la Somalia.Divisa in una pletora di autoritàlocali, tra due principali territori– Somaliland e Puntland –, èlungo i suoi 3000 chilometri dicoste che i pirati hanno le lorobasi. Nessuna forza militare nava-le sarebbe capace di controllare lalinea costiera più lunga del conti-nente, caratterizzate da piccoliporti, villaggi di pescatori ed in-senature. Lo scoppio della guerracivile nel 1991 ha lasciato moltigiovani somali nella disperazione.Negli ultimi 18 anni le cose sonoandate ancor peggio: il paese haconosciuto l’alternarsi di livellipiù o meno gravi di anarchia.Un’intera generazione di somali è

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PIRATERIAPiero Bonadeo

stata educata alla violenza in no-me di una fittizia libertà assicura-ta dai signori della guerra locali,pirati, criminali ed estremisti.Invece la comunità internaziona-le ha guardato questi avvenimen-ti cercando il minimo coinvolgi-mento possibile garantendo,cioé, la dovuta assistenza umani-taria. Il più recente conflitto in-terno, durato dal 2006 al 2009,ha visto il ruolo attivo dell’Etio-pia, dell’Eritrea nonché degliUsa. Ed è terminato con un fra-gile patto nazionale tra il gover-no federale somalo di transizionee parte delle forze islamiste chesono entrate in parlamento.Mentre la fazione islamista Sha-bab attiva nel sud del paese hascelto di continuare la lotta ar-mata. La crescita delle azioni dipirateria ha riportato l’attenzione

del mondo sul Corno d’Africa, esulla Somalia in particolare,aprendo una nuova prospettivadi stabilità per la regione. Come contrastare e vincere il fe-nomeno della pirateria? Vi sonomisure di breve periodo necessa-rie a ridurre il pericolo e possi-bilmente stabilizzare la sicurez-za delle rotte marine, delle ac-que territoriali e misure ben piùimportanti, più impegnative edi lungo periodo che vanno pre-se a terra.La sicurezza marittima richiedemezzi e capacità di farli funzio-nare, presenza di leggi adatte ecertezza del dirirtto. Bisogna,quindi, colmare il vuoto legisla-tivo in Somalia come in altripaesi della regione che non han-no leggi sulla pirateria. Poi è ne-cessario far funzionare in maniera

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I pirati del Terzo MillennioLa pirateria sta vivendo una nuova e sorprendente fase di vitalità in alcuni snodi maritti-mi cruciali, dal Golfo di Aden allo Stretto di Malacca, dal Mare cinese meridionale al Gol-fo di Guinea. La battaglia per contrastarla è ancora lontana dall’essere vinta, i pirati han-no vita facile nei troppi paesi del mondo la cui instabilità interna influenza le vicende delmare. Eppure oggi le prospettive sono migliori rispetto al recente passato. Le missioniinternazionali di pattugliamento al largo della Somalia indicano come la pirateria sia unfenomeno ormai stabilmente al centro dell’agenda mondiale. Con un attento sguardoalla pirateria caraibica e asiatica dei secoli scorsi e con i contributi di esperti della Marinaitaliana, questo libro fa il punto della situazione fornendo i dati più aggiornati, e inqua-dra il contesto in cui la pirateria contemporanea è rifiorita. Infine, nel delineare i possibiliscenari futuri, analizza le contromosse messe in campo dall’Onu, dall'Organizzazionemarittima internazionale, dalla Nato, dall’Ue e dai maggiori paesi mediorientali e asiatici.I nuovi pirati

Raffaele Cazzola Hofmann

Mursia editore, 2009

IL LIBRO

efficace i principali strumentigiuridici internazionali che rego-lano i principi e le azioni per lacooperazione internazionale con-tro la pirateria, ovvero la Con-venzione delle Nazioni Unite suldiritto del mare, la Convenzioneper la repressione degli atti ille-citi contro la sicurezza della na-vigazione marittima, integratidalla Convezione delle NazioniUnite contro il crimine transna-zionale organizzato e la Conven-zione sulla presa degli ostaggi.Come? Superando i limiti perl’applicazione delle convenzioni.Non tutti i paesi della regione lihanno fatti propri mentre persi-stono anche differenze legislativenegli ordinamenti interni deipaesi costieri. Insomma le larghemaglie della rete di accordi inter-nazionali, seppure il tentativo di

stringerle sia in atto, finisconoper prediligere misure di meraprevenzione della pirateria, la-sciando ancora alto l’indice diimpunità dei cosiddetti pirati. Le misure di prevenzione sonostate rese realtà grazie al supera-mento dei limiti giuridici legatialla possibilità di operare nelleacque territoriali della Somaliatramite la Risoluzione 1816 (esuccessive) del Consiglio di sicu-rezza delle Nazioni Unite cheestende la legge contro la pirate-ria alle acque territoriali dellaSomalia. Tale legge, può essereinvocata solo dai paesi che hannoaccordi di cooperazione con ilgoverno federale di transizionesomalo (Canada, Stati Uniti, Da-nimarca, Francia, Federazionerussa e Spagna) e per una duratadi tempo limitata. Poi ci sonostati gli accordi cosidetti di shi-priders che prevedevano di imbar-care elementi della polizia o dellaguardia costiera di un paese dellaregione che avesse nel proprio or-dinamento una legge antipirate-ria, su navi militari di paesi occi-dentali che provvedevano al fer-mo della nave pirata. Mentrel’arresto dei sospetti pirati venivarealizzato dalla polizia del paesedella regione applicando la leggedel proprio Stato.In questo modo si sono rese pos-sibili operazioni di pattuglia-mento e protezione dei naviglinelle acque territoriali somale,assicurate da forze navali interna-zionali (nell’area operano la ma-rina statunitense, quella russa,quella giapponese, quella corea-na, quella cinese, quella indiana)

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PIRATERIAPiero Bonadeo

in coordinamento con quelle del-l’Unione europea – sette paesimembri dell’Unione europea vipartecipano attivamente conmezzi, altri con personale – rac-

colte nell’ope-razione Ata-lanta. A livelloregionale, leiniziative pre-

viste dall’accordo di Gibuti e re-lativo codice di condotta preve-dono una maggiore cooperazionetra i paesi per la prevenzione e larisposta agli attacchi dei pirati,attraverso la formazione di guar-die costiere preparate, la creazio-ne di un centro di sorveglianzaed allerta marittima regionalesul modello creato nello strettodi Malacca che ha debellato lapirateria in Asia.Nonostante gli accordi sopra-menzionati, gli ostacoli giuridi-ci relativi, al processo ed al-l’eventuale incarcerazione deisospetti pirati permangono.Spesso vi è la difficoltà di racco-gliere e produrre prove da usarein fase processuale.Solo il Kenya ha acconsentitotramite accordi bilaterali conpaesi occidentali e con l’Unione

europea ad arre-stare, processareed eventua l -mente deteneresospetti pirati(sette condan-

nati nel 2010). Mentre le Sey-chelles, hanno firmato accordicon l’Unione europea e alcunipaesi occidentali per consentirealle forze navali straniere di fer-mare ed arrestare presunti pirati

nelle proprie acque territoriali.Le diplomazie, le organizzazioniregionali, ma soprattutto a livel-lo multilaterale le Nazioni Uni-te, sono al lavoro per portareTanzania, Mauritius, Oman, Gi-buti sulla stessa linea di coopera-zione del Kenya. La realtà è ancora diversa: anchequando vengono colti in flagran-te, molti pirati non vengonotrattenuti. La volontà politica dimolte nazioni è ancora orientataverso il non coinvolgimento nel-la fase di giudizio: troppo com-plicato, troppo costoso ed inoltrec’è il forte timore che, anche secondannati, molti pirati possanoappellarsi al sacrosanto diritto diasilo. Naufragati anche i tentati-vi di avviare procedimenti negliStati di bandiera del vascello cheha proceduto all’arresto.I dati parlano chiaro: le misuredi prevenzione qualche risultato

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Solo il Kenya ha acconsentito ad arrestare e processare i pirati

Molti paesi non vogliono essere coinvolti perché i costisono troppo alti

lo hanno sortito. Nonostantel’aumento del numero di attacchipassati da 111 nel 2008 a 217nel 2009, la percentuale di navisequestrate è calata. Solo un at-tacco su 20 va a segno – la ratioera 1 a 3 nel 2008 – totalizzando42 navi sequestrate nel 2009.Come risposta i pirati, messi allestrette nelle acque territoriali so-male, hanno allargato la zonadelle operazioni all’Oceano In-diano arrivando anche a 1300chilometri dalla costa somala edanticipando il bisogno di unacontrorisposta basata sulla coope-razione regionale che, seppurprevista, ancora manca.Secondo alcune stime che si basa-no sui pagamenti fatti alla lucedel sole, il business della pirateria –riscatti tra 1 e 3 milioni di dollaria sequestro – porta nelle casse del-le organizzazioni criminali più di100 milioni di dollari all’anno

(30 volte il bilancio annuale delloStato–regione del Puntland dove ipirati prendono il mare ed ancora-no le navi sequestrate in attesa delriscatto). Altre stime riportano ci-fre ben più alte, fino ai 600 milio-ni di dollaris t a tuni tens il’anno (2008).Sulle coste so-male, accantoalla dignitosapovertà dei pescatori, sfilano pic-cole colonne di Suv, spuntano pa-rabole satellitari. I soldi per paga-re gli equipaggi passano di manoin mano o sono distribuiti con ilmeccanismo “hawala”, che con-sente di trasferire denaro – senzaspostarlo – attraverso una rete diintermediari , normalmentemembri della stessa famiglia,fuori da ogni circuito bancario ofinanziario legale. Ma il resto deiproventi, le cifre grosse, vengonotrattate da intermediari fuori dal-la Somalia, basati, cioè, in paesinon molto lontani che negozianoanche il valore del riscatto e lecondizioni del rilascio. Interes-sante notare come il mercato im-mobiliare di alcuni paesi limitro-fi sia improvvisamente cresciutonegli scorsi an-ni. La comunitàinternazionaledo vrebbe ancheseguire le trac-ce di questo de-naro, provvedere a sequestrarlo.Perché fino a quando i sequestri“pagheranno”, ci sarà un incenti-vo per giovani disperati e sarà fa-cile il loro reclutamento.Intanto si conoscono i luoghi

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Fino a quando i sequestri

“pagheranno” sarà facile reclutare i giovani

La pirateria porta nelle casse dei criminali

oltre 100 milioni di dollari all’anno

PIRATERIAPiero Bonadeo

L’Autore

piero bonadeo

Rappresentante dell’Ufficio delle Nazioni Uni-

te sulla droga e il crimine presso l’Unione eu-

ropea.

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della pirateria, città come Haa-dheere, ma i governi occidentali– e non solo – non intervengonoper il timore che i loro attacchirinforzino la milizia islamistaShabab che controlla il centro-sud della Somalia ed i suoi lega-mi con Al Qaeda. Inoltre c’è chicalcola il potenziale valore anti-Shabab giocato dai pirati. E poi c’è la corruzione – Transpa-rency International segnala la So-malia come il paese più corrottoal mondo – a tutti i livelli. Sicalcola che un membro di unequipaggio pirata riceva almeno20mila dollari come compensoannuale. Tanto da consentirgli dicomprare l’impunità.Il maggior vantaggio per i pirati,rimane l’assoluta debolezza delleistituzioni somale. In questocontesto sono necessarie misuredi lungo periodo volte a creareun solido Stato somalo capace dicreare sviluppo economico, socia-le e garantire sicurezza. La comu-nità internazionale si è movi-mentata mettendo a disposizionedella Somalia, tramite le NazioniUnite, circa 250 milioni di dol-lari. Serviranno a mettere in mo-to ambiziosi progetti per creare esostenere lo Stato somalo in tuttoil suo funzionamento, formarnela polizia, formare giudici, apriree rinforzare carceri, creare unaguardia costiera, avviare progettidi sviluppo economico delle zonecostiere creando un mercato perla pesca ed incentivando l’educa-zione. Ma la strada è lunga ed èminata dal continuo stato diguerriglia in cui versa il paese acui cerca di rimediare una mis-

sione di peacekeeping composta inmaggioranza da truppe ugandesiin rappresentanza dell’Unioneafricana.E le grandi società marittime, gliarmatori? Pagano. Conviene an-cora affrontare l’aumento deipremi di assicurazione piuttostoche pagare i costi aggiuntivi perpassare al largo del Capo di Buo-na Speranza. Secondo l’Ufficiomarittimo internazionale di Lon-dra sono 22mila le navi transita-te nelle acque infestate dai piratinel 2009. Molti armatori si sonoorganizzati: chi può permetterse-lo ingaggia ed imbarca contractordi società di sicurezza privata, al-tri formano convogli che naviga-no di notte a tutta forza. Occorre quindi lasciare soluzionidi breve periodo, seppur necessa-rie, per impegnarsi nella costru-zione di un forte e sano Stato so-malo. Sviluppo, governance e sicu-rezza qui, vanno di pari passo enon possono essere disgiunte inapprocci separati. Le NazioniUnite devono trovare maggiorcoordinamento tra le tre realtàcon cui operano in Somalia: laparte politica, quella di sviluppoe quella di peacekeeping.Questa è la vera sfida della So-malia, delle Nazioni Unite e del-la comunità internazionale.

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LA RUSSIADOPO IL MURO

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La linea rossa che squarcial’area subsaharianaDal Darfur allo Zimbabwe, passandoper la regione dei Grandi Laghi, la spina dorsaledel continente nero è percorsa da guerrepluridecennali, crisi umanitarie e governi autoritari

DI DOMENICO NASO

C’è una linea rossa, nemmenotroppo sottile, che percorre verti-calmente quasi tutto il continen-te, una linea di sangue e disputepluridecennali che ha bloccato losviluppo africano in zone poten-zialmente ricchissime, vere epropri forzieri a cielo aperto diun’Africa che potrebbe volare al-to e invece è sempre lì, china suse stessa, in balia di guerre etni-che, governi autoritari e disputedi confine. Parte dal martoriatoSudan, questa linea, attraversa lazona dei Grandi Laghi e si con-clude in Zimbabwe.

SUDANIl Sudan, da qual-che anno, è il pro-tagonista incon-trastato delle cro-nache internazio-nali dall’Africa.Giornalisti di ogninazionalità hanno raccontato ilgenocidio peggiore dai tempi diquelli bosniaco e ruandese, peral-tro contemporanei e ugualmenteraccapriccianti. Eppure in Sudanla pace non l’hanno mai cono-sciuta da quando, nel 1955, ven-ne proclamata l’indipendenzadall’Impero britannico. Trenta-quattro lunghi anni di conflittiinterni e carestie, di giunte mili-tari ed eserciti ribelli, intervallatida accordi di pace frequentiquanto inutili. Il problema eraed è di semplice comprensione: ilSudan del nord, musulmano, hadi fatto creato fin dalla nascitauna nazione fortemente islamica,anche e soprattutto nelle leggi.La parte meridionale del paese,

abitata da animisti e da una radi-cata minoranza cristiana, ovvia-mente non ha mai riconosciutol’imposizione della maggioranzamusulmana, dando vita a unacinquantennale guerra di libera-zione che avrebbe dovuto con-durre il Sudan del sud verso l’in-dipendenza da Khartoum. In pri-ma fila, ieri come oggi, l’Splm, ilMovimento di liberazione delSudan. Nel 1989, con il colpo diStato di Omar al-Bashir, se pos-sibile la situazione divenne anco-ra più difficile. All’Splm, infatti,si unirono anche le opposizioni

no rd - sudane s i ,creando un cortocircuito militare,etnico e religiosoche ancora oggi ri-schia di non trova-re soluzione. Ilmondo si accorsedella vicenda con

molto ritardo, come sempre acca-de. E solo la risonanza mediaticadella crisi del Darfur (regione oc-cidentale al confine con il Ciad),dal 2004 in poi, è riuscita a por-re l’attenzione della comunità in-ternazionale sulla situazione su-danese. Quella che Kofi Annanha definito “la più grande trage-dia umanitaria esistente”, infatti,ha origini remote e risale agliscontri fra le popolazioni noma-di arabe e le popolazioni stanzialiafricane per le risorse vitali cometerra e acqua. Una guerra tra po-veri, dunque, per l’approvvigio-namento di risorse che a noisembrano essenziali e per quellepopolazioni rappresentano quasiun miraggio. Ci sono molte delle

SUDAN, GRANDI LAGHI E ZIMBABWEDomenico Naso

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La guerra del Darfurrisale agli scontrifra le popolazioninomadi arabe e quellestanziali africane

La linea rossa che squarcial’area subsahariana

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È morta come è vissuta: sul palco e lot-tando contro ingiustizie e soprusi. Quan-do, il 9 novembre 2008, Miriam Makebaè stata stroncata da un infarto dopo es-sersi esibita a Castel Volturno contro lacamorra e a favore di Roberto Saviano, ilcommento più sentito è stato questo.Perché Miriam Makeba, classe 1932, hasempre incarnato il simbolo dell’Africacoraggiosa e ribelle, oltre che incredibil-mente talentuosa. Una vita spesa a com-battere il regime dell’apartheid in Suda-frica. Un impegno che viene da lontano,già dal 1960, quando la Makeba parteci-pò al documentario anti-apartheid Comeback, Africa, presentato a Venezia, e chediede l’opportunità alla cantante di rima-nere in Europa e non tornare nel suopaese.È da quel momento che inizia la famamondiale, che arrivano i Grammy è unimpegno politico sempre più convinto ecostante. Nel 1963 viene ascoltata dallacommissione anti-apartheid delle Nazio-ni Unite e il regime di Johannesburg ri-sponde con l’unica arma che ha: la cen-sura e l’anatema. Vengono banditi tutti isuoi dischi, come nella peggiore tradizio-ne dei regimi autoritari, e la cantante vie-ne condannata all’esislio. Poi l’importan-te ruolo di delegata alle Nazioni Uniteper conto della Guinea, le tournée mon-diali che toccavano ogni angolo del glo-bo. Il fenomeno Makeba era ormai globa-le. Tutto il mondo la venerava tranne,scherzi del destino, il suo Sudafrica, seb-bene a Soweto le sue canzoni erano innidi libertà e ribellione da cantare a squar-ciagola.Quando il regime segregazionista crollasotto i colpi del riformismo illuminato diFrederik De Klerk e con la spinta decisivadell’eroe nazionale Nelson Mandela, laMakeba torna in patria, convinta proprio

dal nuovo presidente. Gli ultimi anni del-la sua vita sono stati costellati da premi,riconoscimenti internazionali, altre tour-née da tutto esaurito. E finalmente nellavita di Miriam Makeba non mancava nes-sun tassello, non si sentiva più esule, po-teva finalmnete assistere alla rinascita,pur difficile e piena di ostacoli, della suanazione. E quella sera di novembre,quando nella difficile provincia dell’Italiameridionale si cantava contro la camorra,Miriam Makeba c’era, perché non si eradomenticata di quanto sia importantelottare per cambiare il mondo. O almenoprovarci. È morta lì, enon poteva esserealtrimenti.

IL PERSONAGGIO

Miriam Makeba, il simbolo dell’Africa libera

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contraddizioni africane nellaguerra in Darfur, a cominciaredallo scontro millenario tra ledue anime principali del conti-nente: quella araba e quella piùspiccatamente africana. Razzismotra disperati, con gli arabi filogo-vernativi (i terribili Janjawid,letteralmente “demoni a caval-lo”) che hanno massacrato mi-gliaia di Fur, l’etnia prevalentenella regione. Una guerra polve-rosa e affamata che ha causato400mila vittime e una situazionedi indigenza alimentare che forsenon ha eguali nella storia recentedel mondo. Negliultimi anni qual-cosa si è mosso, al-cuni movimentiribelli hanno de-posto le armi e lasituazione bellicaè decisamente mi-gliorata. Non èper niente finita, però, l’emer-genza umanitaria. Ancora centi-naia di migliaia di persone nonhanno di che sfamarsi, mentre al-Bashir, presidente del Sudan eaccusato di genocidio dalla Cortepenale internazionale, ha da pocofesteggiato i vent’anni di domi-nio incontrastato. Per quanto riguarda lo status del-la parte meridionale del paese,invece, le prime elezioni libere diaprile 2010 e il successivo refe-rendum per l’autodeterminazio-ne fissato per il 2011 dovrebberotrovare una via d’uscita. Il Com-prehensive peace agreement del 2005scade il primo gennaio 2011. Daquel momento in poi i sudanesidovranno decidere se continuare

a vivere uniti, con presuppostidecisamente diversi dal passato,o se separarsi definitivamente,chiudendo una pagina sanguino-sa che, come spesso accade, è av-venuta nel silenzio a volte colpe-vole del mondo cosiddetto civi-lizzato. La posizione italiana sul-la guerra civile sudanese è chiara:pieno appoggio al negoziatorecongiunto Bassolé e fiducia nel-l’intervento diplomatico di im-portanti attori globali (Usa) e re-gionali (Libia e Qatar). Con unocchio attento rivolto anche alleimplicazioni del terrorismo isla-

mico nel regimedi Bashir.

RUANDAE GRANDI LAGHIC’ha pensato ilfilm Hotel Rwan-da, pochi anni fa,a ricordarci l’orro-

re che quindici anni fa ha inon-dato i teleschermi di tutto ilmondo. La furia degli Hutu con-tro i Tutsi (almeno 800mila levittime in soli sei mesi di massa-cri nel 1994) ha fatto il paio,all’epoca, con il martirio dei bo-sniaci e di Sarajevo. Poi tutto sirisolse, almeno formalmente, edal 1997 cominciarono i proces-si, la rabbiosa caccia al genocidae i regolamenti di conti. Unareazione che avrebbe potuto pro-vocare danni di ben altra portata,se i Tutsi avessero scelto la stradadi una vendetta cieca e umana-mente quasi comprensibile. In-vece nel 2002 il nuovo Ruandaha firmato un accordo di pacecon la Repubblica democratica

SUDAN, GRANDI LAGHI E ZIMBABWEDomenico Naso

Entro il 2011 il Sudandovrà deciderese separarsidefinitivamenteo restare unito

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del Congo, paese entro i cui con-fini continuano ad operare frangedi Hutu ribelli che non hannosmesso di combattere contro ilgoverno legittimo di Kigali, in-stallatosi dopo il genocidio. Lavolontà di smobilitare le trupperibelli presenti nel territoriodell’ex Zaire pare sempre più so-lida. Pochi mesi fa si sono incon-trati a Goma i presidenti di Re-pubblica democratica del Congoe Ruanda, dopo ben undici annidalla rottura ufficiale dei rappor-ti diplomatici. Ma il problema,anche nell’area dei Grandi Laghi,è soprattutto economico. Si trat-ta di una delle zone africane piùricche di risorse naturali, che secoscientemente e pacificamentesfruttate rappresenterebbero unvolano di incredibile rilevanzaper l’intero continente. Propriocontro l’utilizzo illegale di que-ste risorse si sta muovendo condecisione la comunità internazio-nale, conscia che solo in questomodo si potrà mettere fine a unostato di perenne tensione tra ipaesi dell’area. Solo Kenya e Tan-zania, economicamente e istitu-zionalmente più solide, sembra-no aver sofferto poco di questoquindicennio di instabilità. Il re-sto della zona attende di poter ri-partire, mentre gli orribili stuprietnici continuano e gli eserciti diRepubblica democratica delCongo e Uganda hanno iniziatouna campagna congiunta controle milizie ribelli Hutu.

ZIMBABWEUno dei paesi africani che piùpreoccupano la comunità inter-

nazionale è senza dubbio lo Zim-babwe di Robert Mugabe, padrepadrone di una nazione storica-mente difficile e protagonista diuna delle pagine più nere dellapresenza bianca in Africa. Un ve-ro e proprio regime di apartheid,simile in tutto e per tutto al“modello” sudafricano, venne in-fatti instaurato nel 1965, quandola minoranza anglosassone di-chiarò l’indipendenza da Londradi quella che allora era chiamataRhodesia. Più di dieci anni disegregazionismo spinto, dunque,per uno Stato che non venne mairiconosciuto dalla comunità in-ternazionale (ad eccezione di Por-togallo e ovviamente Sudafrica) eche ciononostante era riuscito araggiungere standard economicicosì alti da essere definito la“Svizzera d’Africa”. Ma la popo-lazione di etnia shona aveva ini-ziato una vera e propria guerracivile a partire dalla fine deglianni Sessanta, fino a quando, nel1980, dopo gli accordi di pacestimolati da un proficuo inter-vento diplomatico inglese, le pri-me elezioni libere portarono algoverno i neri e la nuova nazio-ne, lo Zimbabwe, venne ricono-sciuta a livello internazionale. Èin quell’anno che inizia l’era Mu-gabe, con un rovescio della me-daglia che si dimostrerà nefastoquanto il periodo di apartheidvoluto dai bianchi. Il nuovo go-verno Mugabe era di stampomarxista-leninista e si impegnòsoprattutto in una guerra senzaquartiere (e senza motivi, ci sa-rebbe da aggiungere) ai neri dietnica ndebele. Il conflitto civile

del 1983, con migliaia di vitti-me, ha segnato la vittoria di Mu-gabe e l’accentramento totale etotalitario del potere nelle suemani. Oggi esiste una opposizio-ne organizzata e unita sotto le in-segne del Movement for demo-cratic change. Morgan Tsvangi-rai, leader della coalizione che sioppone a Mugabe, è stato battu-to alle ultime elezioni del 2008,provocando una serie di violenzedovute ai consueti brogli utiliz-zati dal presidente per assicurarsila vittoria elettorale. Grazie an-che a una notevole risonanza me-diatica internazionale, Mugabe siè visto successivamente costrettoa scendere a patti con il rivale,promettendo di ripristinare lacarica di capo del governo e diaffidarla proprio a Tsvangirai.L’accordo di power sharing ha vi-sto la sua realizzazione concretanel febbraio 2009 e il nuovo pri-mo ministro si è speso, nell’ulti-mo anno, in un difficile cammi-no di riconciliazione con i paesioccidentali (Usa e Unione euro-pea in primis). Compito piuttostodifficile, vista la vicinanza ormaitradizionale tra Mugabe e la Ci-na, interessata alle materie primedel paese africano e quindi sup-porter convinto del presidente-dittatore. Restano molte questio-ni aperte tra Mugabe e l’opposi-zione, prima fra tutte la gestionecongiunta delle Forze armate, ri-chiesta principale del Mdc e maiaccolta dal presidente. E conti-nuano anche i soprusi e le violen-ze nei confronti della minoranzabianca, ormai quasi completa-mente privata con la forza dei

terreni agricoli che possedeva. Lasituazione non pare poter avereuno sbocco completamente de-mocratico nel breve periodo, ra-gione per la quale l’Unione euro-pea si appresta a rinnovare lesanzioni economiche a dannodello Zimbabwe approvate per laprima volta nel 2002.

domenico naso

Giornalista, si occupa di cinema, televisione

e cultura pop. Ha lavorato per la rivista Idea-

zione. Collabora con il Secolo d’Italia e Gaz-

zetta del Sud. Cura la rubrica di critica televi-

siva Television Republic per Ffwebmagazine.

L’Autore

SUDAN, GRANDI LAGHI E ZIMBABWEDomenico Naso

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Dal deserto del Sahel ha fisica-mente inzio la cosiddetta Africasubsahariana. Il territorio del Sa-hel, infatti, taglia l’Africa in dueparti e si estende dall’OceanoAtlantico fino al Corno d’Africa,passando dagli Stati dell’Africacentrosettentrionale quali: Mau-ritania, Mali, Burkina Faso, Ni-ger, Ciad, Sudan. E in questa im-pervia zona che Al Qaeda, negliultimi anni, si sta ramificandocon lo scopo di unire in una solalinea immaginaria l’Afghanistanal golfo di Guinea, dove ci sonopaesi che convivono quotidiana-mente con i colpi di Stato equindi sono facile preda delle or-ganizzazioni criminali. Dall’Asiaislamica all’Africa. Senza dimen-ticare che alcuni Stati del Sahelconfinano con la ricca Nigeria, ilpiù grande Stato africano per po-polazione e per risorse energeti-che come il petrolio, ma è ancheil paese dell’interminabile con-flitto tra religione cristiana e re-ligione mussulmana.

NIGERIALa Nigeria divenne una repub-blica nel 1963 con una costitu-zione i cui fondamenti si basava-no su quella britannica, garan-tendo, almeno sulla carta, egualidiritti anche ai gruppi etnici mi-nori. Nonostante l’indipendenza,le divisioni tribali e la pesanteeredità coloniale fecero piombarela nascente democrazia in uncontinuo di colpi di Stato, rivol-te locali e devastanti carestie. Il primo rivolgimento politico siebbe il 15 gennaio 1966, quandoun gruppo di ufficiali Ibo ucciseil primo ministro, Abubakar Ta-fawa Balewa. Capo della nazionedivenne Aguiyi-Ironsi, spodesta-to dopo solo sei mesi dal genera-le maggiore Yakubu Gowon. Durante il regime di Gowonvennero massacrati centinaia dimigliaia di Ibo che, in risposta,si organizzarono in gruppi para-militari. Un anno dopo, il 6 lu-glio 1967, infatti, la regione Ibodel Biafra si proclamò repubblica

DI PIETRO URSO

Dalla grande Nigeria agli Stati del Sahel,questa zona dell’Africa vive da sempretra sommovimenti, ribellioni

e guerre per la conquista dell’oro nero.

Tra petrolio e colpi di Stato

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indipendente, facendo precipitareil paese nell’ennesima guerra ci-vile, durata fino al 13 gennaio1970. Gli anni di guerriglia tral’esercito nigeriano e i secessioni-sti portarono il paese alla rovina,causando epidemie e carestie nel-le quali morirono circa 3 milionidi persone. Nonostante la fine del conflittoin Biafra, la pace e la stabilità po-litica non durano a lungo, anzi,dal 1975 si susseguirono altridue colpi di Stato, interrotti daun breve spiraglio di democraziacon le elezioni del 1979, e poi dinuovo, nel 1983 un ennesimocolpo di Stato, nel quale salì alpotere il generale Sani Abacha.Gli anni di Abacha furono duris-simi. Tanto che nel 1995 la Ni-geria fu espulsa dal Commonwe-alth, a causa della condanna amorte inflitta al famoso comme-diografo Ken Saro-Wiwa, colpe-vole di aver denunciato la corru-zione dell’industria petrolifera. Solo alla morte di Abacha, nel

1998, il paese poté riprendere ilfaticoso cammino verso la demo-crazia. Un anno dopo, furono in-dette le elezioni vinte da Oluse-gun Obasanjo, ex capo militareYoruba, che governò la Nigeriafino al 2007, ponendo fine atrent’anni di sanguinosi regimimilitare. Le elezioni del 2007, duramen-te criticate dagli osservatori in-ternazionali per sospetto di bro-gli, sono state vinte da UmaruYar’Adua, attuale presidentenigeriano. Yar’Adua è il leader del Partitodemocratico del popolo, con trequarti dei seggi sia nel governocentrale che nelle amministrazio-ni federali. Sebbene molti deiprincipi della costituzione nige-riana derivino da quella britanni-ca, la strada verso la democrazia èancora lunga. Infatti, come sotto-linea il settimanale inglese Econo-mist, il largo consenso del Pdp«in parte riflette la mancanza didistinzione ideologica fra i tre

NIGERIA, SAHEL E GUINEAPietro Urso

maggiori partiti nigeriani, i qua-li vennero formati nel 1998, perlo più per creare alleanze tra po-litici influenti al fine di assicu-rarsi una posizione di potere». IlPdp mette assieme veterani dellapolitica, che hanno ricopertoruoli importanti durante la Se-conda Repubblica (1979-83) enella fallita Terza Repubblica(1989-93), e alcuni ufficiali mi-liari in pensione. Nonostante da dieci anni la Nige-ria non sia più sotto un regimemilitare e pare finita la tragica al-talena dei colpi di Stato, la stabi-lità è costante-mente minacciatadalla guerriglia in-terna e dai movi-menti paramilita-ri. Nel 2000, vi fuuna violenta rea-zione all’introdu-zione della Sharia,la legge islamica, sfociata anchequesta volta in un bagno di san-gue con migliaia di vittime. In ef-fetti, l’apparato militare nigerianogode di uno status particolare.Dopo aver governato per trent’an-ni, l’esercito può essere ancoraconsiderato la maggiore forza po-litica del paese, anche se qualcosasta cambiando. Dopo le numeroseguerre intestine e i ripetuti colpidi Stato (spesso culminati in cla-morosi insuccessi), le forze armatestanno perdendo sempre più con-senso, soprattutto tra i giovani. In tal senso, il governo di Ya-r’Adua sta intraprendendo la viadelle riforme anche in materiamilitare, cercando di diminuirnela valenza politica.

L’economia nigeriana, ricca gra-zie al petrolio ma dipendente daesso, per lungo tempo intralciatadall’instabilità politica e dallacorruzione, sta ora subendo so-stanziali riforme da parte dellanuova amministrazione civile so-stituitasi ai governi militari. Iprecedenti governanti (militari)della Nigeria non hanno perse-guito la via della diversificazionedell’economia che resta, quindi,dipendente dal settore petrolife-ro, che fornisce il 30% del Pil el’85% delle esportazioni.Sull’economia nigeriana gravava

un pesante debitoestero che, grazieal lavoro diploma-tico, nel 2005, furidotto del 60%.Un anno dopo, at-tingendo ai profit-ti del settore pe-trolifero, la Nige-

ria è stata la prima nazione afri-cana a onorare interamente ildebito, stimato attorno ai 30miliardi di dollari.Grazie alla ricchezza del suolo,nonostante le altalenanti vicissi-tudini politiche, la Nigeria hasempre goduto di una certa at-tenzione da parte dei paesi esteri,in particolar modo dagli StatiUniti mentre negli ultimi annianche la Cina si sta avvicinandoal governo di Abuja in cerca dinuovi accordi commerciali. La Nigeria entrò a far partedell’Opec nel 1971, mantenen-do, anche negli anni bui delle ri-volte militari, lo status di unodei maggiori produttori al mon-do di oro nero. Pochi riescono a

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Pochi anni fa la Nigeriaè riuscita a onorare interamente il debitoestero che ammontavaa 30 miliardi di dollari

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beneficiare delle molteplici ri-sorse naturali del paese (oltre alpetrolio, sono presenti minieredi carbone e stagno), mentre il60% dei nigeriani è ancora im-piegato nel settore agricolo. Dal2006 nella zone a maggior con-centrazione di giacimenti, ilMovimento per l’emancipazionedel delta del Niger (Mend) hacompiuto diversi attacchi terro-ristici, distruggendo oleodotti esequestrando tecnici stranieri (inparticolar modo italiani). Scopodel Mend è ottenere un’equa di-stribuzione delle ricchezze deri-vate dal petrolio.

SAHELIl termine Saheltrae origine dallaparola araba, s�hil,che indica la “rivadel mare”, ed èpertanto stato usa-to per designare regioni costiere,soprattutto soprattutto nell’Afri-ca settentrionale e permane anco-ra oggi. Da qui ebbe originel’uso, da parte delle popolazionidell’interno, di definire sahel una“direzione”, di solito corrispon-dente grosso modo al nord.Il territorio del Sahel consiste,prevalentemente, in deserto e siestende dall’Oceano atlantico fi-no al Corno d’Africa, passandodagli stati quali: Mauritania,Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad,Sudan. Il Sahel, nel corso dellastoria, è stata la terra in cui si so-no sviluppati alcuni dei piùavanzati e potenti regni del con-tinente africano, indicati spessocome regni saheliani.

Le popolazioni che abitano il Sa-hel si trovano a fronteggiare leemergenze alimentari connesse al-l’approvvigionamento idrico dellazona, molto carente a causa dellaperenne siccità. La principale cau-sa dell’elevato rischio di desertifi-cazione è la costante mancanzad’acqua, per cui la terra, comple-tamente secca, erosa e mossa dalvento, si trasforma in sabbia, maanche l’opera dell’uomo con le suecoltivazioni intensive ha contri-buito al fenomeno.Da anni però studiosi, analisti egoverni guardano con crescente

preoccupazione aquanto accade inquesta zona del-l’Africa centrale,non per motivi cli-matici o economi-ci, ma perché è quiche si teme che AlQaeda possa esser-

si infiltrata o possa ancora infil-trarsi. Complici il deserto, territo-ri vastissimi e spesso difficilmenteraggiungibili, lontani dai centridi potere ma confinanti con i pae-si nordafricani (Marocco, Algeria,Egitto) che già sono stati colpitidal terrorismo islamico, confiniestremamente porosi e rotte caro-vaniere transnazionali, potrebbenon essere difficile per le celluledi Al Qaida trovare rifugio nelleregioni settentrionali di Maurita-nia, Mali, Niger e Ciad. A fare da trait d’union tra questetre regioni, c’è il Sudan, il paesepiù grande dell’Africa, durantetutti gli anni Novanta sponsor ri-conosciuto del terrorismo inter-nazionale e rifugio ufficiale, fino

Il territorio del Sahel si estende dall’Atlanticoal Corno d’Africa e haospitato alcuni dei piùavanzati regni africani

NIGERIA, SAHEL E GUINEAPietro Urso

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al 1996 e al suo trasferimento inAfghanistan, di Osama bin La-den. Più recente è invece la paurache Al Qaeda sia penetrata anchenel Sahel. È stato dopo l’11 set-tembre e nel quadro della guerraglobale al terrorismo che ancheMauritania, Mali, Niger e Ciadsono diventati terreno di scontrocon la rete di bin Laden. Ad alza-re la soglia di allarme sono statesoprattutto le attività dell’algeri-no gruppo salafita per la predica-zione e il combattimento (Gspc),che alla fine del gennaio 2007 haannunciato di aver cambiato ilsuo nome in “AlQaida nel Ma-ghreb islamico”.Pur essendo essen-z i a lmente ungruppo nazionale,negli anni passatiil Gspc ha cercatodi estendere il pro-prio raggio d’azione nei paesi checonfinano a sud con l’Algeria, inprimis Mauritania e Mali. Le atti-vità del Gspc nel Sahara e nellaregione saheliana si sono intensifi-cate dal 2003 in poi.Particolarmente degno di nota edi copertura mediatica è stato ilrapimento, a inizio 2003, di 32turisti europei, in larga parte te-deschi, spariti nel sud dell’Alge-ria e ricomparsi dopo mesi e ilpagamento di un riscatto da seimilioni di dollari. Qualche mesedopo il rilascio dei turisti, ungruppo di membri del Gspc haavuto uno scontro a fuoco entro iconfini del Ciad con truppe nige-riane e ciadiane sostenute dalleforze speciali Usa. Più di quaran-

ta terroristi sono rimasti sul ter-reno. Tra questi, cittadini di Al-geria, Mali, Niger e Nigeria, aconferma della potenziale dimen-sione regionale del Gspc.Al Qaeda nel Maghreb islamico èdi fatto l’unico gruppo che pareessersi effettivamente affiliato alnetwork di bin Laden.Sempre nel 2003 era stata avviatal’Iniziativa pan-saheliana (Psi), unprogramma rivolto a Mauritania,Mali, Niger e Ciad che, con unbudget di soli 8 milioni di dollari,forniva a governi saheliani assi-stenza e addestramento. Adde-

stratori delle forzespeciali Usa, di-pendenti dall’Eu-com, il Comandoeuropeo dell’eserci-to statunitense,hanno affiancato leforze di sicurezzadei paesi interessa-

ti, partecipando anche a operazio-ni dirette essenzialmente contro ilGspc. Visto il successo del pro-gramma, nel 2005 la Psi è statatrasformata in Iniziativa antiterro-ristica transahariana (Tscti), conun finanziamento di 500 milionidi dollari su cinque anni e l’inclu-sione di Algeria e Senegal e, comeosservatori, di Tunisia, Marocco eNigeria. L’attenzione sempremaggiore che gli Stati Uniti pre-stano all’Africa come possibileterreno di prossimo scontro con ilterrorismo internazionale islamicoè confermata anche dalla decisio-ne di Bush, ribadita a inizio feb-braio 2007, di creare un comandoafricano che abbia la responsabili-tà per tutto il continente.

La Guinea Bissau, sestopaese più povero al mondo, rappresenta il tipico esempio di emergenza silenziosa

GUINEA BISSAULa Guinea Bissau rappresenta iltipico esempio di “emergenzasilenziosa”. È il sesto paese piùpovero del mondo, l’88% dellapopolazione vive con meno di 1dollaro al giorno, la mortalitàinfantile è intorno al 203 permille, la mortalità da parto è al-tissima. Alta è anche la diffusio-ne di malattie contagiose comediarrea batterica e protozoica,epatite, febbre tifoide, malaria,febbre gialla ed Aids. La qualitàdell’istruzione è scarsa e pocoaccessibile alle bambine. Situata nell’Africa occidentaletra Senegal e Guinea, con i suoi1,5 milioni di abitanti è uno deipaesi africani meno popolosi.Nel XVIII secolo la Guinea Bis-sau, col regno di Gabù, era partedel grande Impero del Mali. Lacolonizzazione portoghese si in-sediò per secoli solo nelle areecostiere, e solo nel XIX secolofu colonizzato anche l’internodel paese. Ottenuta l’indipendenza il 24settembre 1973, al termine di

una devastante guerra durataundici anni, sotto la guida diAmilcar Cabral, fino al 1991 ilpaese è guidato dal Paigc, il Par-tito africano per l’indipendenzadella Guinea e di Capo Verde,storico promotore del processodi indipendenza. Con il Paigc alpotere le tensioni non diminui-scono e gli ultimi tre decennisono caratterizzati da una seque-la di colpi di Stato, riusciti e fal-liti. Nel novembre del 1980, Jo-ão Bernardo Vieira guida una ri-volta militare che lo porta al po-tere per 19 anni, caratterizzatida una gestione spregiudicatadell’economia nazionale e da unelevato tasso di corruzione. Unalternarsi di governi militari ecivili innesca nel 1998 una san-guinosa guerra civile che portaalla caduta del presidente Vieira.Dopo un periodo di governo mi-litare e vari passaggi di potere,nel 2005 si sono svolte delle li-bere elezioni che hanno riportatoal potere Vieira, elezioni conte-state dai candidati sconfitti magiudicate regolari dagli osserva-

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NIGERIA, SAHEL E GUINEAPietro Urso

tori internazionali. Ma negli ul-timi anni la situazione, nel pic-colo Stato africano, è precipitata,infatti il 2 marzo 2009 il presi-dente Vieira è stato ucciso in unattentato da militari vicini al ca-po di Stato maggiore dell’eserci-to Tagmè Na Waiè, precedente-mente morto in un attentato di-namitardo che i militari avevanoimputato allo stesso presidente.Infine, è notizia di poche setti-mane fa, esattamente il primoaprile 2010, dell’ennesimo colpodi Stato nel quale è stato depo-sto il primo ministro Carlos Go-mes Junior e ha portato all’arre-sto del capo di Stato maggioredell’esercito, il generale Jose Za-mora Induta, oltre a una quaran-tina di ufficiali a lui fedeli. Inmolti ritengono che dietro aquesto ennesimo golpe ci sia ilricchissimo mercato della droga,infatti la Guinea Bissau negli ul-timi decenni è diventato il cen-

tro dello smistamento della co-caina proveniente dal Sud Ame-rica e diretta in Europa. Nei mesi precedenti al colpo diStato, Carlos Gomes Junior si eraimpegnato con l’Unione europeaa fermare il continuo flusso didroga dalla Colombia e dal Vene-zuela e diretta in Europa. In que-sta operazione era supportato dalgenerale José Zamora Induta e dadiversi altri ufficiali. In pochesettimane furono intercettati di-versi carichi di droga mettendo aserio rischio l’approvvigionamen-to delle cosche e infliggendo pe-santissime perdite in denaro aicartelli colombiani e venezuelani.Carlos Gomes Junior era ancheriuscito ad avere importanti aiutieconomici per rilanciare la pro-duzione e la commercializzazionedegli anacardi, principale fontedi guadagno per gli abitanti del-le zone rurali. Oltre a questo sta-va contrattando con diverse com-pagnie petrolifere alcune prospe-zioni per individuare i ricchissi-mi giacimenti di petrolio di cui,si dice, sia ricco il sottosuolo del-la Guinea Bissau. Aveva ancherilanciato l’idea di sfruttare i ric-chi giacimenti di bauxite e disolfati, il tutto per rilanciarel’economia locale e svincolare ilpaese proprio dal giogo dei car-telli sudamericani.

GUINEALa Repubblica di Guinea, dettaanche Guinea-Conakry per di-stinguerla dalla vicina Guinea-Bissau, ottenne l’indipendenzadalla Francia con il referendumindetto da de Gaulle nel 1958.

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Il nuovo capo dello Stato, Ah-med Sékou Tourè, mise imme-diatamente fine al pluralismopolitico, alle libertà civili e al ri-spetto per i diritti umani. Allamorte di Tourè nel 1984 un col-po di Stato militare portò al po-tere Lansana Contè, che per isuccessivi venticinque anni go-vernò la Guinea-Conakry con lostesso stile dittatoriale del suopredecessore.Gli oltre cinquant’anni di gover-no autoritario non hanno certoaiutato la popolazione guineana asollevarsi dalla povertà. Nono-stante le vaste risorse mineraie –la Guinea è il maggior esportato-re di bauxite al mondo – el’enorme potenziale idroelettricoi guineiani sono estremamentepoveri: quasi nove persone sudieci vivono con meno di duedollari al giorno, oltre il 70%della popolazione è analfabeta esolo il 18% ha accesso a strutturesanitarie adeguate.E purtroppo il futuro è molto in-certo. Due anni fa la storia si èripetuta: a poche ore dalla mortedel presidente Contè i militarihanno attuato un altro golpe, po-nendo a capo dello Stato il capi-tano Moussa Dadis Camara. Lasperanza che Camara guidasse ungoverno meno violento del pre-cedente si è infranta a settembredel 2009, quando nella capitaleConakry una manifestazionedell’opposizione è stata soffocatanel sangue: la notizia delle circa110 donne violentate e degli ol-tre 150 uomini uccisi dalla poli-zia e dai soldati ha fatto il girodel mondo, provocando l’imme-

diata reazione della comunità in-ternazionale.Camara stesso è stato vittima diun attentato lo scorso 3 dicem-bre, che lo ha costretto a lasciareil paese e a recarsi in Marocco perun mese di convalescenza. At-tualmente si trova in BurkinaFaso, dove ha preso parte ai ne-goziati con l’opposizione sul fu-turo della Guinea: il piano haportato a nominare un governodi transizione di trentaquattroelementi. I nuovi membri sonostati scelti tra dirigenti civili emilitari dal veterano dell’opposi-zione e nuovo primo ministro adinterim Jean Marie Dore.Il Dore, nominato dal generalein carica Sékouba Konate nelgennaio 2010, ha il compito diorganizzare le elezioni presiden-ziali entro luglio. La prossimatornata elettorale sarà quindi laprima democratica nel paese do-po decenni di travaglio politicoe governo dei militari. Al termi-ne di questo periodo di transi-zione si cercherà di riformare leforze armate e spingere la nazio-ne alla ripresa economica.

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pietro urso

Redattore di Charta minuta. È esperto di co-

municazione e storia del giornalismo italiano

ed europeo.

L’Autore

NIGERIA, SAHEL E GUINEAPietro Urso

Quando l’Africa FUNZIONA

DI DANIELE CRISTALLINI

Nonostante grandi sacche di arretratezza e povertà,una parte del continente sta riuscendo, attraversoriforme mirate ed efficaci, a raggiungere standardsocioeconomici che fanno ben sperare per il futuro.

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SVILUPPODaniele Cristallini

“Africa works” – l’Africa lavora –era lo slogan di una campagna dicomunicazione lanciata dal grup-po italiano Benetton per sostene-re un progetto di microcreditopromosso dal cantante senegaleseYoussou N’Dour. Era l’inizio del2008 e l’Africa subsahariana vi-veva da oltre un decennio la suafase migliore dall’epoca della co-siddetta “decolonizzazione”. Gliingredienti: una crescita mediadel 5,5% l’anno (dietro cui si na-scondevano alcuni casi di crescitaa due cifre, come l’Angola), uncostante afflusso di investimentidiretti esteri e unagenerale stabilizza-z i one po l i t i c a ,orientata in sensodemocratico.Erano gli anni, èvero, in cui il mon-do – o almenoquella parte dimondo cui interessava qualcosa –assisteva sgomento allo scoppiodi una guerra da cinque milionidi vittime proprio nella “demo-cratica” Repubblica del Congo(Kinshasa), alla devastazione –presto degenerata in catastrofeumanitaria – dei signori dellaguerra e delle corti islamiche inSomalia, alla tremenda crisi delDarfur in Sudan, alla tragediadello Zimbabwe di Mugabe, percitare solo alcuni dei maggiori fo-colai di tensione nel continente. Ma erano anche – anzi soprattut-to – gli anni del grande boomafricano, trainato dall’aumentodel prezzo delle materie prime edagli investimenti esteri, oltreche da efficaci politiche di rifor-

ma macroeconomica. Erano glianni della nuova “corsa all’Afri-ca”; quelli in cui l’equazioneclassica Africa=marginalizzazio-ne+dipendenza veniva sostituitada quella, di miglior auspicio,Africa=crescita, che sembravatracciare una parabola ascendenteche avrebbe finalmente portato ilcontinente fuori dal quadrantedel sottosviluppo, facendoloemergere nel gruppo dei playersche contano, quelli che decidonola governance mondiale. Erano, insomma, gli anni prece-denti alla crisi economica globale.

Prima che la bom-ba a orologeria deimutui subprimedeflagrasse in Oc-cidente investen-do con la sua ondad’urto tutte leeconomie del pia-neta. Prima, cioè,

che un ennesimo virus – quellofinanziario – dilagasse, conta-giando anche il continente nero. Un virus inoculato nel sistemacircolatorio dell’economia africa-na attraverso almeno quattro vet-tori: innanzitutto l’improvvisaflessione dei flussi di capitali pri-vati, che nel 2007 per la primavolta erano riusciti a superare gliaiuti allo sviluppo (Aps); in se-condo luogo la drammatica ridu-zione degli stessi Aps, soprattut-to sul canale bilaterale; in terzoluogo la drastica diminuzionedelle rimesse degli emigranti; in-fine – elemento forse più gravedi tutti – il crollo dei prezzi del-le materie prime indotto dallarecessione globale.

Prima della crisi globalel’Africa aveva vissutoun boom economicotrainato dal prezzo delle materie prime

Questo elenco di fattori esogenidella crisi ha prodotto nel conti-nente risultati diversi, a secondadei modi in cui si è combinatocon le debolezze strutturali checiascuno Stato africano continua-va a scontare, nonostante la ge-nerale ripresa degli ultimi anni.Una miscela talvolta esplosivache ha ridisegnato, almeno inparte, la mappa geoeconomicadell’Africa. Ad avvertire per pri-mi i contraccolpi della crisi nelbreve periodo sono stati i paesiesportatori di petrolio, insieme aquelli a medio reddito, come ilSudafrica, e quelli maggiormenteintegrati nel mercato finanziarioglobale, come il Ghana, il Kenyae la Nigeria.Tuttavia la ripresa africana è ini-ziata più in fretta di quanto nonfosse avvenuto in passato. Fortidelle riforme macroeconomichedegli ultimi anni, i governi han-no potuto implementare politi-che fiscali e monetarie anticicli-che senza rischiare di far schizza-re alle stelle l’inflazione. La mappa geoeconomica del-l’Africa, dunque, è stata solo inparte ridisegnata dalla crisi, per-ché i paesi che oggi reagisconomeglio sono spesso gli stessi cheieri avevano saputo investire neiprocessi di riforma, con l’obietti-vo di garantire la libertà dei mer-cati in un clima di stabilità poli-tica. Prendiamo Mauritius adesempio, dove è possibile regi-strare una società in soli tre gior-ni e avviare un’attività con menodi 10mila dollari. Il paese si col-loca oggi al dodicesimo postonell’indice di libertà economica1,

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La resistenza dei vinti

Le classi dirigenti dell’Africa subsaha-riana postcoloniale hanno tenacemen-te perseguito la modernizzazione del-l’agricoltura e dell’allevamento. Il pro-gramma comune, al di là delle differen-ze tra i regimi politici, è stato quello dispazzare via l’economia di sussistenzae di far passare rapidamente contadinie pastori all’economia di mercato opianificata. La cooperazione interna-zionale allo sviluppo ha alimentato, fi-nanziato e sostenuto questa visionecon progetti costosi e a volte inutili,che hanno contribuito alla disgregazio-ne degli equilibri delle società tradizio-nali e al mantenimento di una classepolitica e burocratica parassitaria. Ilmondo agricolo-pastorale è statoquindi oggetto di un nuovo sfrutta-mento, al quale ha cercato di resisterecome ha potuto, per poi rassegnarsi al-l’emigrazione all’estero o nelle cittàafricane. Sivini ripercorre i processistorici precedenti il colonialismo colle-gati al bisogno di modernizzazione im-plicito nel rapporto di sfruttamento in-staurato dal colonialismo e diventato,dopo l’indipendenza, funzionale allarendita dei ceti urbani. Affronta il pro-blema del rapporto tra sviluppo e sot-tosviluppo e quello della cooperazioneallo sviluppo, delle sue carenze e dellemalefatte che ha prodotto. Il libro ècostruito come un grande viaggio sullerotte di Senegal, Mali, Burkina Faso,Etiopia, Tanzania e Angola.

Giordano Sivini, La resistenza dei vinti.

Percorsi nell’Africa contadina, Feltrinelli (2008)

IL LIBRO

e dopo la crisi ha varato un pac-chetto di stimoli fiscali che com-prendono la sospensione tempo-ranea della tassazione in alcunisettori strategici, come il turi-smo e il tessile, e una formula disussidi alle imprese che integra iprestiti delle banche con finan-ziamenti pubblici. Nell’Indice diHeritage, davanti all’Italia(74esimo posto) si trovano anchealtri tre paesi dell’Africa subsa-hariana: Botswana (28esimo),Madagascar (69esimo) e Sudafri-ca (72esimo). Africa works, dunque: “l’Africa la-vora”. Ma anche“l’Africa funziona”,nonostante la reces-sione mondiale.Per certi versi, an-zi, la crisi sembraoperare come uncatalizzatore dellosviluppo. Se nonaltro perché costituisce per alcunigoverni lo stimolo a proseguiresulla strada delle riforme interne esu quella dell’integrazione regio-nale. Un esempio: ad aprile saràfirmato il Protocollo di mercatocomune per i paesi dell’East Afri-ca Community (Eac), su cui i pre-sidenti di Ruanda, Uganda, Bu-rundi, Tanzania e Kenya hanno fi-nalmente raggiunto un accordo loscorso novembre ad Arusha, dopomesi di trattative. Tra questi pae-si, danneggiati dal calo dell’export,ve ne sono alcuni, come il Kenyae la Tanzania, che promettono dimantenere una buona performancedi crescita anche nel 2010 (rispet-tivamente il 4 e il 5,5% secondoil Fondo monetario) grazie alla te-

nuta dei settori del turismo edell’agricoltura.Proseguendo verso sud lungo lostesso meridiano, tra i paesi chegodono di buona salute va certa-mente incluso il Mozambico che,grazie ad una pesante iniezionedi capitali – perlopiù sotto formadi investimenti diretti esteri neisettori del carbone e delle costru-zioni – e ad un’ottima performanceagricola, continuerà a cresceredel 6% nel 2010.Nella mappa dell’“Africa chefunziona”, troviamo infine queipaesi che negli anni del boom eco-

nomico avevanoiniziato a investirenelle infrastruttu-re – vero nodocentrale per lo svi-luppo del conti-nente –, e ad av-viare quei processidi diversificazione

che oggi gli consentono di di-pendere un po’ di meno dai prez-zi delle materie prime, drastica-mente crollati nei mesi caldi del-la crisi. È questo il caso dell’An-gola, il cui Pil è cresciuto tra il2004 e il 2008 ad un tasso me-dio del 17,4%; il che significa,in termini reali, che la ricchezzadel paese è raddoppiata in solicinque anni. Tutto merito delleentrate petrolifere, certo. Ma an-che delle imprese cinesi, che inAngola sono sbarcate un istantedopo la riconciliazione nazionale,intercettando le opportunità of-ferte dall’enorme fabbisogno in-frastrutturale di un paese cheusciva da quasi tre decenni diguerra civile.

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Molti paesi che hannoinvestito sulle riformee sulle infrastrutturenon risentono della crisi economica

SVILUPPODaniele Cristallini

I cinesi hanno in sostanza rico-struito l’Angola, almeno dalpunto di vista delle infrastruttu-re, spesso in cambio di un acces-so privilegiato alle risorse delpaese. Pechino ha accordato aLuanda una linea di credito, ga-rantita dal petrolio, di oltre 6miliardi di dollari, utilizzata perla riabilitazione di gran partedella rete ferroviaria angolana.Con modalità simili il governoangolano ha potuto costruire oricostruire migliaia di chilometridi strade e realizzare una rete diproduzione e distribuzione di

energia elettrica, innescando unadinamica di sviluppo non priva,per la verità, di alcune singolariasimmetrie. Luanda è oggi la cit-tà più costosa al mondo per i la-voratori stranieri: un apparta-mento nella capitale può costarefino a 15 mila dollari al mese eun pasto sfiora i 100 dollari,mentre due terzi della popolazio-ne locale vive ancora sotto la so-glia di povertà assoluta, cioè conmeno di 2 dollari al giorno.Il caso angolano è comunque unesempio eloquente di come ilproblema delle infrastrutture

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rappresenti la priorità numerouno in Africa. È un fatto che ipaesi con i migliori collegamentirealizzano migliori performanceeconomiche. Il Camerun – che èuno dei pochi Stati africani adaver elaborato una visione di svi-luppo a lungo termine conl’obiettivo di diventare, entro il2035, un paese emergente – pre-senta un enorme potenziale nelsettore del legno (non a casol’Italia ne è il principale importa-tore) e tuttavia non riesce adesportare nel grande mercato ni-geriano che si trova appena die-tro l’angolo, a cau-sa dei collegamen-ti disagiati e dellestrade pressochéinesistenti. Al contrario, i vo-lumi di commer-cio dell’Ugandacon i paesi limitro-fi sono tornati negli ultimi mesiai livelli di prima della crisi. Equesto solo perchè il presidenteMuseveni ha una vera e propriafissazione per la costruzione distrade, autostrade e ponti.La Banca africana di sviluppo(Afdb) ha stimato che l’attualefabbisogno d’infrastrutture delcontinente africano richiedereb-be una spesa di circa 380 mi-liardi di dollari per i prossimidieci anni. Un impegno tanto gravoso diffi-cilmente potrà prescindere dalsostegno delle istituzioni finan-ziarie internazionali. La Bancamondiale nel 2009 ha incre-mentato il volume complessivodei prestiti del 54%, raggiun-

gendo la cifra record di 59 mi-liardi di dollari. Tuttavia, afronte di questo aumento, l’im-pegno della banca in Africa ècresciuto soltanto del 45% con-tro il 201% in America Latina eil 124% in Europa. La sfida delle infrastrutture inAfrica ricade, quindi, quasiesclusivamente sulle spalle deisingoli governi. La situazione po-trebbe rappresentare una grandeopportunità per le imprese italia-ne ed europee alla ricerca di nuo-vi mercati in cui approdare persalvarsi dal naufragio dopo la

tempesta finanzia-ria. Ma la lentezzadei nostri tempidi reazione, lascarsa propensionedelle nostre im-prese al rischio,specialmente intempi di ristret-

tezze economiche come quelloche stiamo attraversando, e lapoca conoscenza delle opportuni-tà e dei mercati, finiscono perspingere gli Stati africani drittitra le braccia degli investitori ci-nesi, indiani e brasiliani.Nel corso di una tavola rotondadedicata alle infrastrutture, nel-l’ambito di un Forum sull’Africaorganizzato dal governo italianolo scorso giugno, il ministroghanese dell’Industria e del com-mercio Hannah Tetteh risponde-va così alla domanda se nel suopaese fossero già presenti investi-tori cinesi: «Sì, in Ghana ci sonoinvestitori cinesi: per prenderedecisioni non impiegano anni maa volte mesi o addirittura poche

SVILUPPODaniele Cristallini

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In Africa la sfida delle infrastrutturericade esclusivamentesulle spalle dei singoligoverni nazionali

settimane. Hanno le risorse perinvestire nei progetti infrastrut-turali. Non ci chiedono se rispet-tiamo i diritti umani, se stiamocombattendo la povertà o cosastiamo facendo per affrontarequesto o quel problema. Consi-derano l’Africa come un partnercommerciale, valutando di voltain volta cosa è meglio per loro fa-re, valutando il loro utile sul ca-pitale investito. Se vedono cheesiste una possibilità di guada-gno non si pongono troppi pro-blemi e decidono di procedere.L’atteggiamento che negli ultimianni l’Europa ha avuto riguardoallo sviluppo dell’Africa è, congrande rispetto, paternalistico»2.Certamente nessun paese europeopotrebbe operare in Africa re-stando completamente indiffe-rente a come nel continente ven-gono gestiti il tema dei dirittiumani e il problema della pover-tà. Ma è anche vero che la coope-razione allo sviluppo, che pertroppi anni ha rappresentatol’unica lente attraverso cui l’Eu-ropa guardava all’Africa, spessoha finito per incoraggiare pro-prio quei meccanismi perversiche cercava di scardinare. L’eco-nomista zambiana Dambisa Mo-yo, nel suo libro Dead Aid, de-nuncia gli aiuti stranieri comecausa del malgoverno in Africa.Fa notare che durante la GuerraFredda si è prestato incondizio-natamente aiuto a personaggi co-me Mobutu nello Zaire, che ac-compagnò la figlia alle nozze vo-lando su un Concorde propriomentre i donatori occidentali ac-consentivano a rinegoziare un

prestito. Troppo spesso gli Apsnon hanno fatto altro che ali-mentare la macchina clientelare econtribuito alla permanenza alpotere di leader corrotti in paesicome la Somalia e la GuineaEquatoriale.La sensazione, difficile da ignora-re, è quindi che dietro le paroledel ministro Tetteh si nascondaun’importante lezione di prag-matismo per l’Italia e per l’Euro-pa. Se riuscissimo ad impararla ea farne tesoro, forse saremmo noi,non solo l’Africa, i primi a trarnequalche vantaggio.

1 Cfr. 2010 Index of Economic Freedom,una classifica stilata da Heritage Foun-dation e Wall Street Journal: www.heri-tage.org/Index/ 2 Forum “Italy & Africa Partners in Bu-siness”, Atti del convegno, dicembre2009.

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daniele cristallini

Specializzato in studi arabi e dottorando in

studi sul Vicino Oriente e il Maghreb presso

l’Università degli studi di Napoli L’Orientale,

collabora con alcune riviste di attualità politi-

ca. Attualmente svolge l’attività di consulente

esperto di Africa e Medio Oriente presso il

ministero dello Sviluppo economico.

L’Autore

In questi ultimi anni il Maghrebè stato unicamente ed esclusiva-mente associato alla presenza delgruppo terroristico Al Qaeda peril Maghreb islamico (Aqmi), sor-to nel 2007 dalla unificazionedelle cellule jihadiste attive dalungo tempo in Algeria, Maroccoe Tunisia. Superando questo pro-blema, che resta comunque aper-

to, è necessario sottolineare comequesti tre paesi rappresentino in-sieme all’Egitto i partner più im-portanti nelle attività di coopera-zione e partnership economiche tral’Unione europea, il Nord Africae quindi l’intero bacino del Medi-terraneo. Si tratta di una politicadi obiettivi comuni che ha mossoi primi passi con il Processo di

DI ANTONIO PICASSO

Alla ricerca della stabilità

I difficili equilibridel Maghreb

NORD AFRICAAntonio Picasso

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Barcellona, il cui accordo è statofirmato nel 1995, fra gli Statimembri dell’Ue e tutti i paesimediorientali e nordafricani, fattaeccezione per la Libia, che in que-gli anni era ancora soggetta al re-

gime di sanzio-ni internaziona-li e di isola-mento diplo-matico. L’obiet-tivo del summit

di 15 anni fa era chiudere positi-vamente il capitolo dei frainten-dimenti e degli scontri che aveva-no caratterizzato le relazioni in-tergovernative del Mediterraneonei decenni passati. Oggi quelladichiarazione di intenti si è con-cretizzata in una partnership poli-tica, economica, di sicurezza e inuno scambio culturale costante.Un passo importante è stato rag-giunto il 14 luglio 2008 a Pari-gi, con la firma del trattato perl’Unione per il Mediterraneo, cheha visti coinvolti 43 paesi. Nellafattispecie l’Italia si presenta co-me uno degli interlocutori privi-legiati di fronte a tutti i governinordafricani, insieme ovviamentealla Francia e alla Spagna, graziealla loro posizione geografica. L’assetto strategico e la stabilità

i s t i tu z i ona l ehanno permessoagli Stati delMaghreb il con-solidamento deiloro rapporti

con l’Ue, la definizione di undialogo politico amichevole el’incremento degli scambi com-merciali navali all’interno delMediterraneo. Il caso particolare

del Marocco permette una proie-zione di questi sulle rotte del-l’Oceano atlantico. Algeria e Tu-nisia a loro volta costituisconol’approdo dei prodotti europeisulla terraferma africana, per poipenetrare all’interno del conti-nente. L’Algeria inoltre offre unavastità di risorse energetiche, intermini di petrolio e gas, che fi-nora non ha trovato paragoni nelquadrante africano. Rispetto alpaese maghrebino, infatti, i suoidue maggiori competitor del setto-re, Libia e Nigeria, non hannoancora raggiunto uno sviluppoinfrastrutturale sufficientementeavanzato. Questi elementi positivi fannoda contrasto con il mancato ac-cordo per il controllo dei flussimigratori. A questo viene asso-ciata la difficoltà di convivenzamultirazziale e multireligiosa inEuropa. Sulla base di vecchi pre-giudizi, le comunità algerine,marocchine e tunisine presentinelle grandi città europee, so-prattutto di Francia, Spagna edel nostro paese, non possono de-finirsi pienamente integrate neisingoli tessuti sociali nazionali. Icasi di razzismo, violenza e sfrut-tamento restano troppo elevati.Spesso inoltre non si tratta digruppi di persone che raggiun-gono le coste europee che sianooriginarie unicamente dal nordAfrica in generale e dal Maghrebin particolare. Anzi, i paesi inquestione, ma nel fenomeno me-ritano di essere inclusi Libia edEgitto, sono divenuti l’ultimatappa di una traversata del deser-to del Sahara da parte di cittadini

La stabilità politica hapermesso alla regioneun proficuo e solidodialogo con l’Europa

Marocco, Tunisia e Algeria sono indispensabili per il commercio dell’Ue

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NORD AFRICAAntonio Picasso

provenienti da altre aree, dove lesituazioni di instabilità induconoalla fuga, per esempio la Somalia.In tutti i casi, lo sfruttamentocriminale dei flussi migratori haraggiunto condizioni di vera pro-pria disumani-tà. Si tratta diun punto debo-le su cui tutti igoverni sonoimpegnati, magli accordi concreti per debellarloe per facilitare lo sviluppo dellesocietà locali non sono ancora sta-ti raggiunti.Proprio in relazione alla necessitàdi intervenire su questo proble-ma, si è recentemente espresso ilpresidente della Camera dei de-putati, Gianfranco Fini. In occa-sione di una sua visita a Maltaall’inizio di febbraio, Fini ha sot-tolineato come troppo spesso ilproblema dell’immigrazioneclandestina venga affrontato insede bilaterale, per esempio fraItalia e Libia oppure tra Maroccoe Spagna, senza la partecipazionedelle organizzazioni transnaziona-li, quali l’Ue e l’Unione per ilMediterraneo. Con l’inizio dimarzo, l’Italia ha assunto la presi-denza di turnodell’Assembleaparlamentareeuro-mediterra-nea. «In questasede – ha dettoancora Fini – chiederemo a tutti ipaesi idee e progetti per evitareche quelle riunioni si riducano anobili dichiarazioni di intenti acui poi non fanno seguito i fatticoncreti che sono indispensabili».

L’Algeria offreuna vastità di risorse

energetiche che non hanessun paese africano

Lo sfruttamentocriminale dei flussi

migratori ha raggiuntocondizioni disumane

A questo problema si aggiungeil “caso Aqmi”. Da una parte glisforzi dei governi locali hannoportato a un suo contenimento.Dall’altra il fenomeno, nel ri-spetto delle modalità operative edi intervento dei gruppi terrori-stici affiliati ad Al Queda, si ri-presenta a fasi alterne e nei mo-menti meno attesi. Nel 2009 ilnumero di attentati nei tre paesimaghrebini è diminuito signifi-cativamente. Lo stesso non sipuò dire però dei casi di seque-stri, le cui vittime sono spessotecnici stranieri impegnati nelsettore energetico.I numeri, in que-sto senso, appaio-no in controten-denza. Aqmi in-fatti risulta essereoperativa non sol-t anto ne l Ma-ghreb, ma anchenegli Stati del Sahel, principal-mente in Mali, Mauritania e Ni-ger. Nei primi giorni di febbra-io, la cellula algerina dell’orga-nizzazione si è rivolta “ai musul-mani della Nigeria”, con l’evi-dente scopo di coinvolgerlinell’attività jihadista in corso.Gli schemi operativi dell’orga-nizzazione sono stati messi allascoperto grazie alla cooperazionetra tutte le forze di sicurezza e diintelligence dei governi che rien-trano nell’Unione per il Medi-terraneo. Il traffico di droga, ar-mi e immigrati clandestini co-stituiscono le fonti di guadagnopiù rilevanti nel “bilancio”dell’organizzazione, che agiscegrazie anche alla collaborazione

di alcune tribù tuareg che abita-no nel cuore del Sahara. Osservando il quadrante maghre-bino, è possibile ragionare sullabase di una metodologia “deicerchi concentrici”. Algeria, Ma-rocco e Tunisia sono tutti paesiafricani, membri della Lega arabae abitati da una società a mag-gioranza musulmana. Elementicomuni, questi, che rappresenta-no una potenziale concertazionetra i governi della regione. Difatto però gli attriti interni e iproblemi di ogni singolo Statoimpediscono al Maghreb il pas-

saggio da una zonae s c lu s i v amentegeografica a un at-tore politico uni-co, capace di con-frontarsi come talecon l’Ue e in sededell’Unione per ilMediterraneo.

In questo senso, probabilmente il“caso algerino” presenta le mag-giori criticità, sia interne sia rela-tive ai rapporti con i suoi poten-ziali partner locali. Le risorse digas e petrolio costituisconoun’opportunità di concreto svi-luppo economico. L’Algeria èmembro dell’Opec e vanta par-tnership consolidate nei campidella ricerca, dell’estrazione e del-la fornitura sia con l’Unione eu-ropea sia con la Russia. È inoltrel’ottavo paese al mondo in termi-ni di risorse di gas naturale e ilquarto nella classifica degli espor-tatori. Nel 2009, il settore degliidrocarburi ha prodotto un incomenazionale pari a circa 150 miliar-di di dollari. Questo costituisce

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I problemi di ogni singolo Stato impediscono al Maghrebdi diventare un attore politico affidabile

un punto di forza per la politicalocale del governo presieduto daAbdelaziz Bouteflika. L’Algeriasi considera infatti una potenzaregionale a tutti gli effetti, capacedi confrontarsi sullo stesso pianocon l’Egitto e la Libia, suoi primicompetitor nordafricani e in senoall’organizzazione degli Stati ara-bo-islamici. Un esempio recentedi questa ambizione è la pressio-ne che il governo Bouteflika haesercitato in seno all’Unione afri-cana per un intervento di peacekee-ping in Somalia. L’Algeria vorreb-be che l’instabilità del Cornod’Africa fosse risol-ta con le sole risor-se economiche emilitari continen-tali, escludendoquindi le NazioniUnite. Il progettoperò si scontra conla mancanza diuna visione comune e di una vo-lontà di cooperazione tra tutti igoverni africani. Si è spesso parlato inoltre dellapartnership tra Algeri e Il Cairo.Questa avrebbe obiettivi pura-mente tattici. I due paesi appaio-no somiglianti per evidenti ra-gioni di establishment nazionale. Ilpresidente Bouteflika, e quelloegiziano, Hosni Mubarak – ri-spettivamente 73 e 82 anni – so-no due “grandi vecchi” che de-tengono la leadership saldamentenelle proprie mani. Soprattuttosembra che non intendano lascia-re lo scettro del potere a sistemidemocratici più trasparenti. Altempo stesso si muoverebbero al- l’unisono per isolare la Libia di

Gheddafi, anch’egli da decenni alpotere. Tuttavia se questa coinci-denza di vedute è riscontrabile inambito nordafricano, non si puòaffermare lo stesso in seno alla Le-ga araba. Dalla fine della guerracivile l’Algeria preferisce mante-nere un atteggiamento di bassoprofilo, rispetto al protagonismoche il governo del Cairo assumenelle tante criticità che coinvol-gono paesi arabi. Per quanto ri-guarda il processo di pace israelo-palestinese, l’instabilità libanese iproblemi del Golfo persico, l’Al-geria ha scelto di non esporsi in

iniziative indivi-duali, bensì di at-tenersi alle deci-sioni adottate inseno all’organizza-zione. Le debolezze delgoverno di Algericoinvolgono diret-

tamente il presidente Bouteflika,al potere dal 1999, la cui salutemalferma e la mancanza di un“erede”, come c’é invece in Egittoe in Libia, lascia aperto il discorsosulla continuità politica nel futu-ro prossimo del paese. L’Algeriain questo senso non presenta an-cora una struttura democraticaconsolidata. Nel rapporto del2009 l’organizzazione umanitariaHuman Right Watch (Hrw) haparlato di una situazione “moltograve” in relazione alla libertà distampa. L’osservatorio internazio-nale non nasconde i progressi ac-quisiti proprio grazie all’attualecapo di Stato. Un risultato con-creto è riscontrabile nella lotta al-l’analfabetismo, il quale è sceso

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L’Algeria si considerauna potenza regionalecapace di confrontarsicon l’Egitto e la Libia,i suoi veri competitor

NORD AFRICAAntonio Picasso

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dal 43,6% del 1990 al 22% at-tuale. Il governo Bouteflika hapresentato un piano di scolarizza-zione per il 2010 che prevede lostanziamento di 500 milioni dieuro. Hrw sottolinea però quantosia ancora lungo il percorso da fa-re e si domanda cosa potrebbe ac-cadere se Bouteflika fosse costret-to ad abbandonare la leadershipper impedimenti fisici.Un altro motivo di preoccupa-zione emerge dal fatto che l’Al-geria è l’epicentro di attività diAqmi, che ha saputo trovare ilsostegno di molte tribù tuaregnel sud del paese,lungo gli instabilie d i somogene iconf in i con l aMaur i t an i a , i lMali e il Niger.Per contrastare ilfenomeno, le forzedi sicurezza di Al-geri dispongono dell’appoggiodell’intera comunità internazio-nale. Alla fine di gennaio, ègiunta da Washington la dispo-nibilità per definire una pienacollaborazione con il paese nor-dafricano, ma anche con Maroc-co e Tunisia. «Gli Usa apprezza-no il ruolo da leader regionaleche l’Algeria ha assunto in mate-ria di sicurezza e lotta al terrori-smo», ha detto il comandantedelle forze aeree Usa dislocatesul continente africano, il gene-rale Ronald Ladnier, sottolinean-do che il suo paese «è pronto alavorare con Algeri per garantirela stabilità e affrontare questeminacce». In questo senso tutta-via manca ancora un efficace

coinvolgimento degli altri go-verni del Maghreb e del Sahel,con i quali Algeri ha maturatospesso frizioni, e soprattutto ildialogo con i tuareg per percepi-re la loro eventuale disponibilitàcon le istituzioni locali, abban-donando così l’alleanza con Aq-mi.Se ne deduce che, in ambito ma-ghrebino, il Marocco sia il solopaese dotato degli strumenti po-litici sufficientemente consi-stenti per fronteggiare le ambi-zioni egemoniche di Algeri.Non è un caso che proprio fra i

due governi in-tercorrano attritidi diversa tipolo-gia. La posizionegeogra f i c a de lMarocco, all’im-boccatura de l -l’Oceano atlanti-co costituisce un

evidente impedimento per unaproiezione atlantica dell’Alge-ria. La questione del Sahara oc-cidentale, l’ex colonia spagnolaabitata dal popolo Saharawi cherivendica una propria indipen-denza e per il quale vent’anni fale Nazioni Unite indissero unreferendum che mai si è svolto.Il caso appare oggi strumenta-lizzato sia dal governo di Algerisia da quello di Rabat. Quest’ul-timo non sembra voler cedere equindi paga le spese della suaintransigenza di fronte a tutti igoverni africani. Il Marocco in-fatti è l’unico paese del conti-nente che non è membro del-l’Unione africana. L’Algeria ve-de nella popolazione Saharawi

Il Marocco è l’unico paese dotato deglistrumenti politici perarginare le ambizioniegemoniche di Algeri

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un motivo tattico per mantenerealta la tensione e giustificare lascarsità di dialogo con la monar-chia marocchina. L’atteggia-mento dell’Onu, la cui missionedi peacekeeping Minurso è opera-tiva dal 1991, induce a favorireuno staus quo precario, onde evi-tare la messa in discusssione deidelicati equilibri regionali.L’inoperosità politica interna-zionale e l’assoluta chiusura al

dialogo tra le parti non ha per-messo di trovare una soluzioneaccettabile da tutti. A farne lespese è prima di tutto il popoloSaharawi, vittima della presenzamarocchina e della strumenta-lizzazione algerina dall’altraparte della frontiera. Il proble-ma tuttavia si pone di traversoaffinché l’intero Maghreb possaimmettersi su una strada di pie-no sviluppo.

NORD AFRICAAntonio Picasso

Preso nella sua individualità, ilMarocco si presenta come unodei paesi politicamente più sta-bili dell’intero contesto africano.Il passaggio da Hassan II al fi-glio Mohammed VI, avvenutoormai 11 anni fa, è stato portatoavanti all’insegna della più chia-ra continuità. Anzi, sul lungoperiodo si può rilevare l’innestodi un sistema di riforme volutefermamente dall’attuale sovrano,che hanno permesso al paese divantare uno sviluppo sociale edeconomico riconosciuto a livellointernazionale. Durante la pre-sentazione a Rabat del rapporto2009 sui diritti umani in Ma-rocco di Human Right Watch èemersa la dinamicità della socie-tà civile nazionale, che si espri-me nella conquistata liberà distampa. «La sfida che si trova difronte il governo di Rabat – hadetto la responsabile di Hrw, Sa-rah Leah Whitson – riguarda lariforma della giustizia». Il setto-re infatti si presenta ancora ec-cessivamente arretrato, rispettoai parametri degli interlocutorieuropei. La condizione carcerariain generale, ma soprattutto lapena di morte tuttora in vigore,non permettono ai ministri dellaGiustizia degli Stati membridell’Ue di interfacciarsi con unsistema giudiziario avanzato.La stabilità politica, i buoni rap-porti con l’Europa e la crescitaeconomica sono caratteristicheproprie anche della Tunisia.Questi tre elementi fanno delpiccolo paese maghrebino l’inter-locutore più affidabile nella con-tinuità delle relazioni all’interno

dell’Unione per il Mediterraneo.D’altra parte, la mancanza diun’alternativa al presidente BenAli, 74 anni e al potere ormai da23 anni, costituisce una fonte dipreoccupazione pari a quella re-lativa al futuro dell’Algeria senzaBouteflika. La Tunisia in questosenso non è ancora riuscita aesprimere una classe dirigentenazionale di stampo democrati-co, capace di effettuare un turnover interno, ma al tempo stessogarantire la continuità nelle rela-zioni diplomatiche ed economi-che. Il processo di riforme avvia-to dal governo tunisino non èstato portato ancora a termine.Ciò significa che l’Ue deve fareaffidamento su una figura cari-smatica com’è Ben Ali, ma altempo stesso egli resta un leadersenza erede.

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antonio picasso

Giornalista di politica estera, sicurezza e ri-

sorse energetiche. Segue le vicende interna-

zionali in presa diretta, negli “scenari caldi”.

Scrive per Liberal, Avvenire, Risk e la Rivista

Militare. È curatore del blog World on focus

(http://worldonfocus.wordpress.com).

L’Autore

In Africa si parlano oltre millelingue diverse e i confini tra i di-versi paesi sono spesso stati dise-gnati in modo arbitrario duranteil periodo coloniale. Non c’èquindi da meravigliarsi se glisforzi per arrivare a una maggioreunità economica e politica tra gliStati africani hanno accompagna-to la storia del continente fin dal-la prima ondata di dichiarazionidi indipendenza dalle potenze co-

loniali nel 1960. Intorno al presi-dente del Ghana, Kwame Nkru-mah, grande fautore del panafri-canismo, s’era formato il “gruppodi Casablanca” (Ghana, il Mali diModibo Keita, la Guinea di Ah-med Sékou Touré, l’Egitto di Ga-mal Abdel Nasser, Algeria, Libiae inizialmente il Marocco). Que-sti Stati puntavano ad arrivare intempi brevi a una federazione po-litica, gli Stati Uniti d’Africa.

ORGANIZZAZIONIBruno Tiozzo

DI BRUNO TIOZZO

Una galassia di organizzazioni

Verso l’unità africana

Dall’altro lato c’era il più prag-matico “blocco di Monrovia” (ilSenegal di Léopold Senghor, la Li-beria di William Tubman, la Co-sta d’Avorio di Félix Houphouët-Boigny, la Tunisia di Habib Bour-guiba, Nigeria, Etiopia, Somalia,Sierra Leone, Togo e l’ex Congobelga) secondo cui il camminoverso una maggiore unità sarebbedovuto partire da una gradualecooperazione economica e conti-nuare ad avere stretti rapporti conl’Europa. Vicine a questa posizio-ne erano anche la maggior partedelle ex colonie francesi riunitenel gruppo di Brazzaville, compo-sto da 12 Stati. L’Imperatore d’Etiopia, Hailé Se-

lassié, si fece mediatore tra le duecostellazioni panafricane e sullasua iniziativa fu convocata unaconferenza ad Addis Abeba, che il25 maggio del 1963 diede vita al-l’Organizzazione dell’Unità Afri-cana (Oua).L’Oua si poneva come obiettivi diliberare il continente dal colonia-lismo e dall’apartheid, di pro-muovere l’unità e la solidarietà tragli Stati africani, di coordinare edintensificare la cooperazione perlo sviluppo, di salvaguardare lasovranità e l’integrità territorialedegli Stati membri e di promuo-vere la cooperazione internaziona-le in seno alle Nazioni Unite.All’organizzazione, che aveva la

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propria sede nella capitale etiope,aderivano inizialmente 32 Stati.Arrivò a comprendere 53 su 54Stati africani. Il Marocco uscì in-fatti nel 1984 per protesta control’ammissione all’Oua della Re-pubblica Sahrawi (il Sahara Occi-dentale). La presidenza dell’Ouaera a rotazione su base annua, trai capi di Stato dei paesi aderenti.Braccio esecutivo era invece il Se-gretario generale, incarico di soli-to ricoperto da un diplomatico.Benché l’Oua abbia svolto unruolo positivo nel coordinamentodell’azione degli Stati africanicontro le ultime sacche di gover-no minoritario bianco (le colonieportoghesi e spagnole, Rhodesia,Namibia, Sud Africa) e contri-buito a creare la Banca africanadi sviluppo (Bafs) con sede adAbidjan, deluse la maggior partedelle aspettative che erano stateriposte in essa. Il principio dinon ingerenza negli affari internidegli Stati membri si rivelò in-fatti un impedimento insormon-tabile per creare una posizionecomune sui tanti conflitti arma-ti, colpi di Stato ed emergenzeumanitarie che hanno tormenta-to il continente africano. La scar-sa democraticità di gran partedei governanti fece inoltre defi-nire l’organizzazione come “ilclub dei dittatori”.

L’Unione africanaLa rifondazione dell’Oua prese ilvia con la dichiarazione di Sirte(in Libia) il 9 settembre del1999, quando i leader africanidecisero di sostituirla con un or-ganismo intergovernativo più

integrato ed efficace denominatoUnione africana. Tra i massimipromotori della svolta c’erano illeader libico Muammar Gheddafie il presidente sudafricano Tha-bo Mbeki. L’Unione africana (Ua) vide fi-nalmente la luce il 9 luglio del2002 con un vertice a Durban inSudafrica. La sede è ad AddisAbeba (come ai tempi dell’Oua)e inizialmente aderivano al nuo-vo organismo tutti gli Statimembri dell’Oua. Il modello è quello dell’Unioneeuropea (Ue), ma con poteri ri-dotti. L’Ua si pone come obietti-vo lo sviluppo dell’Africa attra-verso il rafforzamento della pace,della sicurezza e della stabilità ela promozione del buon governoe dei diritti umani. In questosenso si differenzia dal predeces-sore e Stati come Guinea, Mauri-tania e Madagascar sono stati so-spesi dall’Unione a causa del ro-vesciamento dei governi costitu-zionali. L’Eritrea ha invece decisodi non partecipare più ai lavori,in seguito al conflitto con l’Etio-pia. (Sito: http://www.africa-union.org).Gli organi principali dell’Ua so-no i seguenti: l’Assemblea deicapi di Stato e di governo è il su-premo organo decisionale del-l’Unione e si riunisce almeno unavolta l’anno. Il presidente del-l’Assemblea ha un ruolo preva-lentemente rappresentativo e vie-ne scelto per un anno tra i leaderdegli Stati membri. Il 31 genna-io, il presidente del Malawi, Bin-gu wa Mutharika, è stato elettopresidente dell’Assemblea per il

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2010. L’Assemblea determina lepriorità dell’Unione e approval’annuale programma di lavoro.Le risoluzioni necessitano di unamaggioranza di almeno due ter-zi. L’Assemblea ricorda quindi ilConsiglio europeo dell’Ue. Il Consiglio esecutivo è formatodai ministri degli Stati membricompetenti per un determinatoargomento. Attualmente il Con-siglio si riunisce in cinque com-missioni diverse ed è responsabi-le dinnanzi all’Assemblea. È pa-ragonabile ai diversi Consigli deiministri dell’Ue.La Commissione è il braccio ese-cutivo dell’Ua. È formata da unpresidente, un vicepresidente eotto commissari con determinateresponsabilità tecniche. Presi-dente della Commissione dal pri-mo febbraio 2008 è il diplomati-co Jean Ping del Gabon. Resteràin carica per cinque anni fino al2013. Ping è di padre cinese eviene considerato un importanteinterlocutore di Pechino sulloscacchiere africano.Il Parlamento panafricano è statoinaugurato il 18 marzo 2004 eha la propria sede a Midrand,fuori Johannesburg, in Sudafrica.Al momento il Parlamento hasolo un ruolo consultivo e i 265deputati vengono eletti dai par-lamenti nazionali. L’obiettivo ècomunque di coinvolgere anche ipopoli degli Stati membri nellagovernance panafricana. La legisla-tura dura cinque anni e presiden-te, dal maggio 2009, è IdrissNdele Moussa del Ciad. (Sito:http://www.pan-african-parliament.org/).

Il Consiglio per la pace e la sicu-rezza, entrato in vigore nel 2004,ha il compito di gestire conflitti esituazioni di crisi. Sovraintende al-la creazione di forze permanenti diintervento rapido. L’Ua ha attual-mente in corso due missioni dipeacekeeping: una in Somalia, l’altra,congiunta con l’Onu, in Darfur.Si prevede anche la creazione diuna Corte di giustizia, dei dirittiumani e dei popoli, e l’avvio diun mercato comune africano conuna singola valuta entro il 2023.Nel campo economico è statalanciata la New partnership forAfrica’s development (Nepad),un programma per lo sviluppoeconomico del continente. (Si-to: http://www.nepad.org/ho-me/lang/en).

Le Comunità economiche regionaliEsistono anche diverse organizza-zioni che lavorano per l’integra-zione economica tra gli Stati ade-renti su base regionale. Otto diqueste sono riconosciute dall’Uacon il nome di Comunità econo-miche regionali (Cer). Il Trattatodi Abuja del 1991, che gettò lebasi per una Comunità economi-ca africana (progetto che adessoviene portato avanti dall’Ua) ri-conosceva l’importanza delle or-ganizzazioni regionali nel cam-mino verso un futuro mercatocomune. La contemporanea ap-partenenza a più organismi sub-regionali ha però reso necessariauna razionalizzazione del quadroe l’argomento fu oggetto di di-scussione al vertice Ua nel luglio2006 a Banjul in Gambia.

Le otto comunità economiche re-gionali riconosciute dall’Ua so-no: Ecowas, Sadc, Igad, Eac,Uma, Comesa, Cen-Sad e Ceeac.

La Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale(Ecowas)L’Ecowas è stata costituita nel1975, ha la propria sede ad Abu-ja (capitale della Nigeria) e com-prende 15 Stati: Benin, BurkinaFaso, Capo Verde, Costa d’Avo-rio, Gambia, Ghana, Guinea,Guinea-Bissau, Liberia, Mali,Niger, Nigeria, Senegal, Sierra

Leone e Togo. Fino al 2000 ade-riva anche la Mauritania. L’annoscorso sono stati sospesi Guineae Niger. L’obiettivo primario è di pro-muovere l’integrazione in tutti icampi dell’attività economica, inparticolare nei settori industria,trasporti, telecomunicazioni,energia, agricoltura, risorse so-ciali, questioni monetarie e fi-nanziarie e problemi di naturasociale. Il ruolo dominante èsvolto dalla Nigeria e intercorro-no stretti rapporti con il RegnoUnito e la Francia.

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ORGANIZZAZIONIBruno Tiozzo

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Il presidente nigeriano UmaruYar’Adua ricopre attualmente lapresidenza di turno. A partiredal 2007 il segretariato esecutivoEcowas si chiama Commissione ealla sua presidenza è stato eletto,per un mandato di quattro anni,il diplomatico Mohamed IbnChambas del Ghana.Cinque degli Stati membri an-glofoni, tra cui la Nigeria, pro-gettano di introdurre una mone-ta comune (Eco) entro il 2015.L’Ecowas dispone inoltre di unapropria Banca, una Corte di giu-stizia e una forza militare a soste-gno di operazioni di pace con unapposito fondo di finanziamento.(Sito: http://www.ecowas.int/).

La Comunità di sviluppo dell’Africa Meridionale (Sadc) La Sadc è stata istituita il 17agosto 1992 a Windhoek (Na-mibia) in sostituzione dellaConferenza di coordinamentoper lo sviluppo dell’Africa me-ridionale (Sadcc) che era statacreata nel 1981. La Sadcc, a suavolta, traeva origine dalla coo-perazione, in corso fin dagli an-ni Settanta, tra i cosiddetti“Stati di prima linea” intorno alSudafrica governato dai supre-matisti bianchi. Ne fanno parte 15 Stati: Angola,Botswana, Lesotho, Malawi,Mauritius, Madagascar (al mo-mento sospeso), Mozambico, Na-mibia, Repubblica democraticadel Congo, Seychelles, Sudafrica(dal 1994), Swaziland, Tanzania,Zambia e Zimbabwe. Lo scopo della Sadc è l’integra-zione economica attraverso la

creazione di un mercato unicoregionale. Nell’ottobre del2008 è stata avviata un’area dilibero scambio (Aftz) con duealtri organismi sub-regionali(Comesa ed Eac). Si prevedeinoltre la creazione di un’unio-ne doganale e di una tariffa co-mune esterna (dal 2012); unmercato comune (a partire dal2015); una banca centrale eduna moneta unica (dal 2016). IlSudafrica, principale esportato-re di beni e servizi nell’area,detiene de facto la leadership del-l’organizzazione.La presidenza della Sadc è eserci-tata a rotazione annuale, dal set-tembre 2009 viene ricoperta daJoseph Kabila, presidente dellaRepubblica democratica delCongo. Segretario esecutivo,eletto nel 2005, è Tomaz Salo-mão, economista mozambicano.La sede della Sadc si trova a Ga-borone, capitale del Botswana.(Sito: http://www.sadc.int/).

L’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) L’Igad, nata nel 1986 come Au-torità intergovernativa sulla sic-cità e lo sviluppo (Igadd), rag-gruppa gli Stati intorno al Cornod’Africa: Etiopia, Gibuti, Kenya,Somalia, Sudan, Uganda ed Eri-trea. Quest’ultima ha sospeso lapropria partecipazione nel 2007,in seguito all’ennesimo conflittocon l’Etiopia, di fatto egemonein seno all’organizzazione. L’obiettivo iniziale dell’Igad eradi affrontare insieme la siccità e ladesertificazione a cui è soggetta laregione. Nel 1996, grazie anche

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all’impulso dell’Italia, l’organizza-zione è stata rifondata sotto l’at-tuale nome con l’ambizione diestendere la cooperazione anchead altri settori. Il rilancio è tutta-via stato ostacolato dalle forti ri-valità tra molti degli Stati aderen-ti insieme alla mancanza di unfunzionante governo centrale inSomalia. L’Igad è comunque riu-scita a svolgere un importanteruolo per la conclusione dell’ac-cordo di pace in Sudan nel 2005ed è attualmente membro delGruppo internazionale di contattosulla Somalia. La sede dell’Igad si trova a Gibu-ti. Il primo ministro etiope Me-les Zenawi è presidente di turnodell’organizzazione dal giugno2008. Nella stessa occasione èstato eletto segretario esecutivo,per un mandato di quattro anni,Mahboub Maalim, alto funziona-rio del ministero dell’Acqua edell’irrigazione del Kenya. L’Ita-lia è sempre molto presente nelsostegno, anche economico, alleazioni dell’Igad. (Sito: http: //www.igad.org/)

La Comunità dell’Africa orientale(Eac)La cooperazione economica traKenya, Tanzania ed Uganda, tut-te all’epoca sotto dominio bri-tannico, risale al 1917. Nel 1967vide la luce la prima Eac, ma sifrantumò già nel 1977 in seguitoa una serie di incomprensioni tragli Stati aderenti.Il progetto di una comunità eco-nomica dell’Africa orientale furipreso con un vertice nel no-vembre 1993 tra i presidenti dei

tre Stati. Il trattato istitutivodell’attuale Eac risale al 7 luglio2000, e nel 2007 hanno aderitoalla nuova comunità ancheRuanda e Burundi. L’obiettivoprincipale dell’Eac è di approfon-dire ed ampliare la cooperazionefra i paesi membri in molteplicicampi (politica, economia, affarisociali, cultura, sanità, educazio-ne, difesa, cooperazione giudizia-ria, ricerca e tecnologia). Dal pri-mo gennaio 2005 è entrata in vi-gore un’unione doganale tra gliStati membri che, dall’ottobredel 2008, fa parte, insieme aSadc e Comesa, dell’Area di libe-ro scambio africana (Aftz). I pro-getti futuri comprendono un vi-sto turistico comune, una singolavaluta e – infine – un’unione po-litica. Gli organi principali dell’Eac so-no: il summit dei capi di Stato edi governo, che si riunisce unavolta l’anno, il Consiglio dei mi-nistri, composto dal ministro re-sponsabile per la cooperazione inogni paese, la Corte di giustizia,con competenza in materia di ap-plicazione del Trattato istitutivoe l’Assemblea legislativa. L’Eac ha la sede ad Arusha inTanzania, paese che attualmentedetiene una notevole influenzaall’interno dell’organizzazione.Segretario generale, scelto nel2006 per un mandato di cinqueanni, è il diplomatico Juma Vol-ter Mwapachu della Tanzania.Dal novembre 2009 il summit deicapi di Stato e di governo vienepresieduto da Jakaya MrishoKikwete, presidente della Tanza-nia. (Sito: http://www.eac.int).

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L’Unione del Maghreb arabo(Uma)Il 17 febbraio 1989, con il Trat-tato di Marrakech, è nata l’Umacon l’adesione di Algeria, Libia,Marocco, Tunisia e Mauritania.La richiesta d’ingresso da partedell’Egitto non è ancora stata ac-colta, anche perché il Consigliodei capi di Stato non si riuniscedal 1994. Le forti rivalità tra al-cuni degli Stati membri (peresempio tra Marocco e Algeriasul Sahara occidentale) ha impe-dito all’organismo di decollare.L’Uma ha la propria sede a Rabatin Marocco e l’ex ministro degliEsteri tunisino Habib Ben Yahiane è segretario dal febbraio2006. (Sito: http://www.maghre-barabe.org).

Il Mercato comune dell’Africaorientale e meridionale (Comesa)Il Comesa è un’area di commerciopreferenziale creata nel dicembre1994 che sostituisce una coopera-zione formalizzata nel 1981. Leorigini risalgono a un incontroministeriale convocato a Lusakanel 1965, su iniziativa dell’Onucon l’obiettivo di far decollare unmercato comune africano.Attualmente aderiscono 19 Stati:Burundi, Comore, Repubblicademocratica del Congo, Egitto(dal 1999), Eritrea, Etiopia, Gi-buti, Kenya, Libia (dal 2005),Madagascar, Malawi, Mauritius,Ruanda, Seychelles, Sudan, Swa-ziland, Uganda, Zambia e Zim-babwe. In passato hanno fattoparte dell’organizzazione ancheAngola, Lesotho, Mozambico,Namibia e Tanzania.

Il trattato istitutivo prevede an-che un patto di non aggressionetra gli Stati membri. Dall’otto-bre del 2008 il Comesa aderisceall’Aftz insieme a Sadc ed Eac. La sede del Comesa è a Lusaka,capitale dello Zambia. SindisoNdema Ngwenya dello Zimbab-we, con una lunga esperienza al-l’interno dell’organizzazione, ri-veste l’incarico di segretario ge-nerale dal 2008. L’autorità supre-ma del Comesa, composta dai ca-pi di Stato e di governo, è dal2007 presieduta da Mwai Kiba-ki, Presidente del Kenya. (Sito: http://www.comesa.int).

La Comunità degli Stati del Sahele del Sahara (Cen-Sad)La Cen-Sad nacque il 4 febbraio1998 in un vertice a Tripoli suiniziativa del leader libicoMuammar Gheddafi. Gli Statifondatori, oltre alla Libia, furonoBurkina Faso, Ciad, Mali, Nigere Sudan. In seguito, l’organizza-zione è diventata la più numero-sa delle comunità economiche re-gionali con l’adesione di 22 altriStati (Repubblica Centrafricana,Eritrea, Gambia, Gibuti, Sene-gal, Egitto, Marocco, Nigeria,Somalia, Tunisia, Benin, Togo,Costa d’Avorio, Guinea-Bissau,Liberia, Ghana, Sierra Leone, Co-more, Guinea, Kenya, Maurita-nia e São Tomé e Príncipe).L’obiettivo è di arrivare a un’areadi libero scambio, ma la coopera-zione finora non è molto struttu-rata. Nel febbraio del 2009 sonotuttavia state organizzate delleolimpiadi della comunità a Nia-mey, capitale del Niger, con la

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partecipazione di atleti prove-nienti da 13 dei paesi membri. La sede del Cen-Sad è a Tripoli.Segretario generale è il libico Mo-hamed Al-Madani Al-Azhari. Lapresidenza dell’organizzazione vie-ne attualmente ricoperta dal presi-dente del Benin, Yayi Boni. La co-munità dispone anche di un brac-cio finanziario: la Banca sahelo-sa-haraiana per l’investimento e ilcommercio, finanziata quasi inte-ramente dalla Libia. In molti ve-dono infatti nella stessa Cen-Sadinnanzitutto uno strumento diGheddafi per estendere la propriainfluenza nel resto del continente. (Sito: http://www.cen-sad.org).

La Comunità economica degliStati dell’Africa centrale (Ceeac)Successore dell’Unione doganaleed economica dell’Africa centrale(Udeac) istituita con il Trattato diBrazzaville nel 1966. Si trattava diun’area di libero scambio preva-lentemente tra Stati francofonidell’Africa centrale. Già nei primianni Ottanta fu deciso di passare auna cooperazione ancora più stret-ta tra i paesi aderenti, ma l’organi-smo subì un durissimo colpo neglianni Novanta a causa del conflittonell’area dei Grandi Laghi. Il rilancio avvenne nel giugno1999 e l’attuale Ceeac ha indivi-duato nel mantenimento dellapace e nell’integrazione economi-ca, monetaria ed umanitaria al-cune delle sue priorità. Oltre aun patto di non aggressione, èstato creato un Consiglio per lapace e la sicurezza nell’Africacentrale, dotato di una forzad’intervento multinazionale.

Aderiscono al Ceeac: Angola,Burundi, Camerun, RepubblicaCentrafricana, Ciad, Congo, Re-pubblica democratica del Congo,Gabon, Guinea Equatoriale e SãoTomé e Príncipe. La sede si trova a Libreville, capi-tale del Gabon. Segretario gene-rale dal 1999 è Louis Sylvain-Goma, già primo ministro delCongo. Idriss Déby Itno, presi-dente del Ciad, detiene la presi-denza di turno dall’ottobre 2009.(Sito: http://www.ceeac-eccas.org)

Collaborazione tra partiti politiciAnche alcune delle organizzazioniper la collaborazione internaziona-le tra partiti politici si sono dota-te di strutture regionali africane.L’Unione democratica interna-zionale (Idu) che raggruppa par-titi conservatori e di centrodestraha dato vita all’Unione democra-tica africana (Dua). FreemanMbowe, del partito Chadema delTanzania, è segretario generaledal 2006 mentre Peter Mac Ma-nu, del Nnp ghanese, ne è presi-dente. Tra membri a titolo pienoe osservatori aderiscono 14 parti-ti di 13 Stati (Costa d’Avorio,Ghana, Mozambico, Namibia,Seychelles, Sierra Leone, Tanza-nia, Uganda, Angola, Repubbli-ca democratica del Congo, Leso-tho, Liberia e Niger). Tutti i par-titi sono all’opposizione tranne imovimenti aderenti di Niger(Mnsd), Liberia (Up) e SierraLeone (Apc). Fino a qualche tem-po fa erano al governo anche ipartiti membri di Ghana (Nnp) eCosta d’Avorio (Pdci-Rda).(Sito: http://www.du-africa.org)

ORGANIZZAZIONIBruno Tiozzo

L’Internazionale liberale (Li) con-tiene fin dal 2003 al suo internouna Rete liberale africana (Aln).Presidente del network dall’agostodel 2008 è Mamadou Lamine Bâdel Partito democratico del Sene-gal. Aderiscono 24 partiti di 19Stati (Angola, Burkina Faso, Bu-rundi, Repubblica democraticadel Congo, Costa d’Avorio, Gui-nea, Guinea Equatoriale, Mada-gascar, Malawi, Mali, Marocco,Mozambico, Senegal, Seychelles,Sud Africa, Sudan, Tanzania, Tu-nisia e Zambia). L’unico partitoche governa da solo è il Pd delSenegal, mentre Arc (Repubblicademocratica del Congo) e Pcr(Mali) fanno parte delle coalizio-ni di governo nei rispettivi paesi. (Sito: http://www.africaliberal-network.org).Anche l’Internazionale di centro(Idc) e l’Internazionale socialista(Si) contano dei partiti africanitra i propri aderenti, ma non han-no delle apposite strutture regio-nali. All’Idc, l’ex Internazionale cristia-no democratica, aderiscono partitipolitici di 12 Stati africani (CapoVerde, Congo, Repubblica demo-cratica del Congo, Guinea Equa-toriale, Mauritania, Mauritius,Marocco, Mozambico, Nigeria,Uganda, Camerun e Madagascar).Governativi i partiti del Marocco(Istiqlal) e della Nigeria (Pdp). Ai lavori dell’Internazionale so-cialista partecipano, a diverso ti-tolo, partiti politici di ben 29Stati (Algeria, Angola, Benin,Burkina Faso, Camerun, CapoVerde, Costa d’Avorio, Egitto,Ghana, Guinea, Guinea Equato-

riale, Mali, Marocco, Mauritania,Mauritius, Mozambico, Nami-bia, Niger, Senegal, Sud Africa,Tunisia, Zimbabwe, Burundi,Gabon, Togo, Botswana, Repub-blica Centrafricana, Repubblicademocratica del Congo e SaharaOccidentale). Molto alta la fre-quenza di partiti al potere nei ri-spettivi paesi e in questi gruppisi ritrovano alcune delle sigle piùconosciute nella lotta contro ilcolonialismo: Mpla (Angola),Paicv (Capo Verde), Fpi (Costad’Avorio), Ndp (Egitto), Ndc(Ghana), Adema-Pasj (Mali), Pt(Mauritius), Usfp (Marocco), Fre-limo (Mozambico), Swapo (Na-mibia), Anc (Sud Africa), Rcd(Tunisia) e Mdc (Zimbabwe).Gli argomenti sull’agenda politi-ca non sono tuttavia gli stessi diEuropa o America e ciò vieneevidenziato dal fatto che il movi-mento d’opposizione Udps gui-dato da Étienne Tshisekedi (expremier della Repubblica demo-cratica del Congo, quando sichiamava Zaire), aderisce in vestedi osservatore contemporanea-mente all’Internazionale sociali-sta e all’Idu di centrodestra.

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bruno tiozzo

Socio della fondazione Farefuturo. Autore di

numerosi articoli per riviste come Charta mi-

nuta, Con, Imperi e Millennio. Già collabora-

tore parlamentare, dal 2008 lavora come

esperto per il ministro per le Politiche europee.

L’Autore