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SYRIE JAMES LA SPOSA VAMPIRO Traduzione di ROBERTA SCARABELLI

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SYRIE JAMES

LA SPOSA VAMPIRO

Traduzione di

ROBERTA SCARABELLI

I Edizione 2011

© 2011 - EDIZIONI PIEMME Spa20145 Milano - Via Tiziano, [email protected] - www.edizpiemme.it

Stampa: Mondadori Printing S.p.A. - Stabilimento NSM - Cles (Trento)

Titolo originale: Dracula, My Love© 2010 Syrie JamesAll rights reserved

Questo romanzo è un’opera di fantasia. Personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore o hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione e sono quindi utilizzati in modo fi ttizio. Qualsiasi analogia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

Cap. 14, p. 288: Vi sono in cielo e in terra, Orazio, assai più cose di quante ne sogna la tua fi losofi a (W. SHAKESPEARE, Amleto, Atto I, Scena V [vv. 166-167], trad. di Eugenio Montale, Meridiani Mondadori, Milano 1977).

Cap. 15, p. 314: Non c’è arte che insegni a scoprire nel volto la costruzione della mente; stelle, nascondete i vostri fuochi! La luce non veda i miei oscuri e segreti desideri; p. 315: Appari come il fi ore innocente ma sei la serpe che vi si cela sotto! (W. SHAKESPEARE, Macbeth, Atto I, Scene IV e V, trad. di Agostino Lombardo, Meridiani Mondadori, Milano 1976).

Cap. 23, p. 477, versi del Sonetto 71 di Shakespeare: Più a lungo non piangermi, quando sarò morto, / del tempo che tu udrai la tetra lugubre campana / avvertire il mondo che io sono fuggito / da questo vile mondo ad abitare con i più vili vermi (W. SHAKESPEARE, Sonetti, trad. di Alessandro Serpieri, BUR, Milano 2004).

Cap. 24, p. 494: Il nostro spettacolo è fi nito [...] Questi nostri attori erano tutti spiriti e si sono dissolti nell’aria, nell’aria sottile. [...] come la scena priva di sostanza ora svanita tutto svanirà senza lasciare traccia (W. SHAKESPEARE, La tempesta, Atto IV, Scena I, trad. di Agostino Lombardo, Garzanti 1976).

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Prologo1897

Sono passati sette lunghi anni dalla prima notte in cui entrò nella mia camera, sette lunghi anni dalla catena di fatti inquietanti, incredibili e pericolosi ai quali, sono cer-ta, nessun altro crederà, anche se ne abbiamo fatto un accurato resoconto scritto. Sono proprio le trascrizioni dei nostri diari – miei e di altri – che consulto di tanto in tanto per ricordare a me stessa che tutto è successo dav-vero e non me lo sono semplicemente sognato.

Capita ancora, quando scorgo una bruma bianca ad-densarsi nel giardino sotto casa, o un’ombra passare su una parete di notte, o un mulinello di pulviscolo vorticare in un raggio di luna, che mi ritrovi a sobbalzare piena di speranza e apprensione. Jonathan, allora, mi stringe la mano e mi lancia uno sguardo rassicurante, come per far-mi sapere che lui capisce, che siamo ormai in salvo. Ma quando torna alle sue letture davanti al camino, il cuore continua a battermi forte in petto e sono sopraffatta non solo dal senso di inquietudine di cui Jonathan è ben con-sapevole, ma anche da qualcos’altro... dal desiderio.

Sì, desiderio.I miei resoconti – il diario che ho stenografato con tan-

ta cura e poi battuto a macchina perché gli altri potes-sero leggerlo – non riportano tutta la verità; non la mia verità. Alcuni pensieri ed esperienze sono troppo intimi

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per essere esposti agli occhi altrui; alcuni desideri sono troppo scioccanti per essere ammessi, persino a se stessi. Se dovessi rivelare tutto a Jonathan, so che lo perderei per sempre, così come sicuramente perderei per sempre la considerazione della società intera.

So cosa vuole mio marito... cosa vogliono tutti gli uo-mini. Se una donna – nubile o sposata – desidera essere amata e rispettata, deve essere innocente: assolutamente pura nella mente, nel corpo e nell’anima. E così io ero una volta, fi nché lui non è entrato nella mia vita. A volte ne ho avuto paura. Altre volte l’ho disprezzato. Eppure, ben sapendo cos’era e cosa voleva, non ho potuto fare a meno di amarlo.

Non dimenticherò mai la magia di essere stretta nel suo abbraccio, il magnetismo irresistibile dei suoi occhi quan-do mi guardava, né la sensazione che provavo danzando fra le sue braccia. Rabbrividisco ancora quando ripenso all’emozione vertiginosa di viaggiare con lui alla velocità della luce, e a come esser solo sfi orata da lui mi lasciasse senza fi ato dal piacere e dal desiderio, indescrivibili. Ma i momenti più belli sono stati le interminabili ore di conver-sazione, incontri rubati nei quali ci si rivelava l’un l’altra, e scoprivamo tutto ciò che avevamo in comune.

Lo amavo. Lo amavo disperatamente, con passione, dal profondo del mio essere e con ogni battito del mio cuore. C’è stato un tempo in cui avrei potuto rinunciare senza rimpianti a questa vita umana per stare con lui per sempre.

Eppure...Per tutti questi anni, la verità di quel che è successo mi

è pesata enormemente, togliendo piacere alle cose quoti-diane, togliendomi l’appetito e il sonno. Sento di non riu-scire più a sopportare dentro di me il fardello di questa colpa. Devo mettere tutto nero su bianco, sulla carta, che mai dovrà essere letta da occhi altrui. Ma sono certa che solo scrivendo sarò fi nalmente libera di dimenticare.

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Quando scesi dal treno a Whitby, quel luminoso pome-riggio di luglio del 1890, non avevo il minimo sentore che la mia vita, e la vita di tutti coloro che conoscevo e amavo, sarebbero state ben presto esposte a un gravissimo peri-colo dal quale noi – coloro fra noi che sono sopravvissu-ti – saremmo emersi cambiati per sempre. Quando misi piede sulla banchina della stazione, quel giorno, non fui sopraffatta da un brivido improvviso, né ebbi la premoni-zione soprannaturale che sarebbero successi fatti impen-sabili. In effetti nulla lasciava presagire che quella vacanza al mare sarebbe stata diversa da tutti i piacevoli soggiorni passati.

All’epoca avevo ventidue anni e, dopo quattro anni felici, avevo appena lasciato il lavoro come insegnante per prepararmi alle nozze imminenti. Benché fossi profonda-mente preoccupata per il mio fi danzato, Jonathan Harker, che non era ancora tornato da un viaggio d’affari in Tran-silvania, ero molto contenta alla prospettiva di trascorrere un mese o due in una bella località con l’amica migliore che avessi al mondo, a chiacchierare insieme liberamente e a costruire i nostri castelli in aria.

Scorsi Lucy sulla banchina, più graziosa che mai nel suo abito bianco di batista, i riccioli scuri che spuntava-no discretamente dall’elegante cappello a fi ori. Mi cercava

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scrutando in mezzo alla folla, i nostri occhi si incontrarono e il suo viso si illuminò.

«Mina!» gridò Lucy e ci corremmo incontro.«Come mi sei mancata!» risposi abbracciandola. «Sem-

bra passato un anno, invece di mesi, dall’ultima volta che ci siamo viste. Sono successe così tante cose...»

«È vero. La primavera scorsa eravamo entrambe don-ne libere, e adesso...»

«...siamo entrambe fi danzate!» Sorridemmo felici e ci abbracciammo di nuovo.

Io e Lucy Westenra eravamo amiche dal giorno in cui ci eravamo conosciute alla Upton Hall School, quando io avevo quattordici anni e lei dodici. Malgrado fossimo d’estrazione sociale completamente diversa – Lucy ave-va genitori ricchi e affettuosi che la adoravano, mentre io non avevo mai conosciuto i miei e potevo permettermi un’istruzione decente solo grazie a una borsa di studio –, diventammo inseparabili. Eravamo l’una l’opposto dell’al-tra: io ero una ragazza bionda con guance rosee e occhi verdi, di altezza media, che a quanto pareva gli altri consi-deravano attraente; Lucy era di una bellezza straordinaria, con un fi sico minuto e perfetto, luminosi occhi azzurri, pelle d’avorio e una corona di splendidi riccioli castano scuro. A Lucy piaceva cavalcare e giocare a palla e a ten-nis, io, al contrario, ero da sempre più felice con il naso fra le pagine di un libro; eppure, per altri aspetti, avevamo molto in comune.

Durante tutti gli anni di scuola abbiamo dormito, gioca-to, studiato, passeggiato, riso e pianto insieme, e ci siamo raccontate a vicenda tutti i nostri segreti. Dal momento che non avevo una vera casa a cui fare ritorno quando la scuola era chiusa, avevo spesso – e con gratitudine – trascorso le vacanze con la famiglia di Lucy, nella loro abitazione di Lon-dra o in quella di campagna, o in qualsiasi località marittima di villeggiatura di cui si fosse infatuata la signora Westenra

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in quel periodo. Quando in seguito iniziai a insegnare nella nostra stessa scuola, la nostra amicizia continuò incrollabi-le; dopo che Lucy si fu diplomata ed era tornata ad abitare a Londra con la madre, rimasta vedova, restammo comun-que in contatto attraverso lettere e visite regolari.

«Dov’è tua madre?» le chiesi, guardandomi attorno in cerca della signora Westenra.

«È rientrata a casa, per riposare. Cosa ne pensi del mio nuovo abito da passeggio e del cappello? Mamma insiste nel dire che sono l’ultima moda da indossare al mare, ma mi ha fatto una testa tale che mi hanno già stancato.»

Assicurai a Lucy che il suo vestito era incantevole e che l’unica ragione per cui lei trovava la moda noiosa era per-ché non ne aveva mai sentito la mancanza. «Se tu posse-dessi solo quattro abiti e due completi come me, Lucy, ti ritroveresti all’improvviso a desiderare alla follia gli stessi vestiti che ora disdegni.»

«Quello che a te manca in quantità, cara Mina, lo com-pensi con la qualità, perché non ci sono dubbi che hai sempre un aspetto attraente e grazioso. Adoro il tuo abito estivo! Andiamo adesso? C’è una carrozza a nolo che ci aspetta. Di’ al facchino di portare fuori dalla stazione il tuo bagaglio. Non vedo l’ora di mostrarti questo posto. Whitby è stupenda!»

In effetti, mentre ci allontanavamo dalla stazione in carrozza, mi meravigliai della bella vista che si godeva dal fi nestrino aperto. Una brezza leggera trasportava l’odore salmastro del mare e sulle nostre teste risuonavano le stri-da rauche dei gabbiani. Proprio sotto di noi il fi ume Esk si era scavato un letto fra due verdi pendii e, nella sua cor-sa verso il mare, scorreva accanto a un porto animato. Il cielo di un azzurro intenso e gonfi e nuvole bianche face-vano un bel contrasto con le case dai tetti rossi della città vecchia, ammassate le une sulle altre sul ripido versante della collina. «Che bella cittadina!»

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«Vero? Sono così contenta che la mamma abbia scelto un posto nuovo questa estate. Mi ero abbastanza stancata di Brighton e Sidmouth.»

«E siete state così gentili a invitarmi anche stavolta.» Presi fra le mie una mano guantata di Lucy e gliela strinsi con affetto. «Ora che ho smesso di insegnare e ho lasciato per sempre la mia stanza a scuola, non avrei saputo pro-prio dove andare questa estate.»

«Non mi sognerei mai di trascorrere l’estate con qual-cun altro, cara Mina. Ci divertiremo un mondo! Dicono che vi siano bellissime passeggiate nei dintorni, e si può noleggiare una barca per uscire sul fi ume.»

«Oh! Mi è sempre piaciuto andare in barca.»«E guarda un po’ dall’altra parte del fi ume: vedi quel-

la lunga scalinata che compie una curva? A quanto pare porta alla chiesa e a quell’abbazia in rovina in cima al colle. Sto morendo dalla voglia di andare in esplorazione, ma da quando siamo arrivate qui, ieri, la mamma non se l’è sentita di allontanarsi dalla nostra pensione per tentare di risalire la collina, è troppo stanca. Adesso che ci sei tu, potremo fare lunghe passeggiate insieme e visitare tutto.»

«Tua mamma è malata?»«No. Almeno, non credo. Sembra solo che negli ultimi

tempi si affatichi facilmente e le salite ripide la lasciano senza fi ato. Spero che l’aria del mare le faccia bene. Be’,» aggiunse poi tutta eccitata «cosa ne pensi del mio anello di fi danzamento?» Si tolse un guanto e mi mise la mano sotto il naso.

A bocca aperta per lo stupore, esaminai la fi ne fascet-ta dorata con perle incastonate che le adornava l’anulare sottile. «È bellissimo, Lucy.»

«Fammi vedere il tuo.»«Non ce l’ho ancora,» ammisi «ma, poco prima di par-

tire per il suo viaggio nel Continente, Jonathan ha saputo di avere superato gli esami. Non è più un semplice impie-

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gato, ma un vero e proprio avvocato! Ha promesso di comprarmi un anello appena torna.»

«Vi siete almeno scambiati una ciocca di capelli?»«Certo! Per il momento le teniamo in due bustine.»«Arthur e io abbiamo messo le nostre in due medaglio-

ni d’oro uguali; il suo, lo ha appeso alla catena dell’oro-logio. Il mio, invece, non lo porto spesso da quando mi ha regalato questo.» Con un sorriso felice, Lucy sfi orò il nastro di velluto nero che aveva intorno al collo, ornato da un fermaglio di diamanti.

«È da quando sono scesa dal treno che ammiro il tuo girocollo. È davvero delizioso.»

«Il fermaglio di diamanti apparteneva alla madre di Arthur. Mi piace così tanto che non lo tolgo quasi mai, tranne quando vado a dormire.»

La carrozza si fermò davanti a una bella, curiosa vec-chia casa al Royal Crescent. Era gestita dalla vedova di un capitano di lungo corso, e lì Lucy e sua madre aveva-no affi ttato delle stanze. Feci portare il mio bagaglio di sopra, nella camera che avrei condiviso con Lucy. Dato che la signora Westenra stava ancora riposando ed era troppo presto per cenare, noi due prendemmo cappelli e parasole e uscimmo per andare a esplorare Whitby.

«Che notizie hai di Jonathan?» mi chiese Lucy mentre ci incamminavamo lungo il North Terrace, godendoci la vista del mare e la piacevole brezza estiva. «Hai ricevuto un’altra lettera?»

Io sospirai turbata. «Non ho sue notizie da un mese intero. In effetti sono molto preoccupata.»

«Un mese non è un periodo lunghissimo fra una lettera e l’altra.»

«Lo è per Jonathan.»Negli ultimi cinque anni Jonathan aveva lavorato come

impiegato presso un procuratore legale di Exeter, mol-to amico della sua famiglia, l’avvocato Peter Hawkins, la

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stessa persona che aveva fi nanziato la sua istruzione. Alla fi ne di aprile il signor Hawkins aveva inviato Jonathan come suo rappresentante in un paese dell’Europa orien-tale, la Transilvania, per incontrare un nobile, il conte Dracula, in nome del quale avevano condotto una tran-sazione immobiliare. Jonathan era molto eccitato all’idea, dato che aveva sempre desiderato viaggiare, ma prima di allora non aveva mai avuto i mezzi per lasciare l’Inghil-terra.

«In tutti questi anni Jonathan e io ci siamo scritti con regolarità, talvolta anche due volte la settimana. All’inizio del suo viaggio, ricevevo lettere in cui mi dava molte noti-zie sul tragitto, su tutte le cose che vedeva, la gente che incontrava e i cibi nuovi che gustava. Poi, all’improvviso, la comunicazione si è interrotta. Non sapevo neanche se fosse giunto in Transilvania e temevo che gli fosse succes-so qualcosa di brutto. Allora mi sono fatta dare l’indiriz-zo del conte Dracula dal signor Hawkins e ho scritto a Jonathan là. Finalmente ho ricevuto un biglietto... ma era brevissimo e frettoloso, per niente nello stile di Jonathan, e non accennava affatto alla lettera che gli avevo spedi-to... Erano solo poche righe, nelle quali diceva che aveva quasi fi nito il lavoro per cui era andato là e che nel giro di qualche giorno sarebbe ripartito per tornare a casa. Gli ho risposto immediatamente, informandolo dei miei pro-grammi di viaggio, in modo che potesse scrivermi qui a Whitby. Ma adesso è passato un altro mese senza che io abbia ricevuto nulla. Cosa gli sarà successo?»

«Forse si è trattenuto in Transilvania più a lungo di quanto avesse previsto, o magari ha deciso di visitare qualche località sulla via del ritorno.»

«Se così fosse, perché non mi ha scritto per dirmelo? Per quale motivo non ha risposto alla mia ultima lettera?»

«La posta a volte va smarrita, Mina, e ci possono volere secoli perché arrivi, se è stata spedita da un paese straniero.

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Dai retta a me: Jonathan sta bene. Riceverai sue notizie da un giorno all’altro. Lui non vorrebbe certo che tu ti preoc-cupassi. Vorrebbe che ti godessi la vacanza.»

Sospirai. «Immagino che tu abbia ragione.»Scendemmo una lunga scalinata che portava al molo e

proseguimmo oltrepassando il mercato del pesce. I pesca-tori e le loro mogli sostavano vicino alla prua delle barche all’ancora, intenti a vendere l’ultimo pescato della giorna-ta a persone vestite semplicemente, in cerca di buoni affari. L’aria era piena dei richiami acuti degli uccelli di mare, dello sciabordio delle onde e del frusciare delle vele al vento; ed era così frizzante di salsedine e carica dell’odore di pesce fresco e di canapa ammuffi ta che mi sembrava di riuscire quasi ad assaporarla.

«Ah, come mi piace il mare» esclamai, rinvigorita dal connubio felice di vedute, suoni e profumi intorno a me. «Senti un po’, Lucy, adesso mi devi raccontare tutto. Come sta il tuo signor Holmwood? O forse dovrei chiamarlo il futuro lord Godalming?»

«Oh, Arthur è un tale tesoro! Mi ha promesso di venir-mi a trovare a Whitby. Mi manca così tanto quando siamo lontani.»

«Avete già fi ssato la data delle nozze?»«No, ma la mamma sta facendo pressioni perché ci spo-

siamo presto, forse addirittura a settembre. Devo ammet-tere... spero di potermi confi dare con te, Mina... che set-tembre mi sembra davvero troppo presto. Sono passati solo due mesi da quando ho accettato la proposta di matri-monio di Arthur. Non mi sono ancora abituata all’idea di essere fi danzata che già mi devo sposare.»

Lanciai un’occhiata sorpresa a Lucy. «Nelle tue lettere mi scrivevi che eri innamorata pazza di Arthur e felice di esserti fi danzata.»

«Ma è così! Io amo davvero Arthur. È alto e attraen-te, e ha dei bellissimi capelli ricci. Abbiamo tantissimo in

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comune, e la mamma semplicemente lo adora. Lo so che è l’uomo perfetto per me e sono molto felice.»

Avevamo attraversato il ponte sul fi ume, l’unico modo per raggiungere il versante orientale della scogliera. Giun-te dall’altra parte, iniziammo la nostra ascesa per un’altra scalinata lunghissima – quella che Lucy aveva indicato dalla carrozza – che risaliva lungo il pendio formando una leggera curva dalla città fi no alle rovine dell’abbazia e alla chiesa più in alto.

«Se sei felice, Lucy,» le chiesi mentre salivamo «allora perché appari così preoccupata?»

«Davvero sembro preoccupata?» Lucy aggrottò la fron-te in quell’amabile espressione corrucciata che ormai cono-scevo bene. «Non volevo! È solo che mi rattrista un po’ il pensiero che questa, Mina, sarà la nostra ultima vacanza insieme, solo io e te, e che prestissimo non verrò più consi-derata una giovane da corteggiare, bensì una vecchia e sag-gia donna sposata. Mi piaceva così tanto quel brivido che provavo a essere giovane, ammirata e desiderata da molti uomini! E pensare che è già tutto fi nito, e non ho ancora compiuto vent’anni!»

Notai l’espressione affl itta sul bel viso di Lucy e trat-tenni a stento una risata. «Cara, carissima Lucy,» le dissi prendendola sottobraccio «vorrei tanto poter condivide-re la tua angoscia, ma temo di non avere mai provato il “brivido” di cui parli. Io ho avuto solo un corteggiatore: Jonathan. Non è da tutte ricevere tre proposte di matri-monio da ben tre uomini diversi nello stesso giorno.»

Lucy scosse la testa con un’aria perplessa. «Mi sento ancora sconvolta e incredula ogni volta che ripenso a quella giornata! Davvero, piove sempre sul bagnato. Non avevo mai ricevuto domande di matrimonio prima di quel 24 maggio... per lo meno non una vera proposta, perché non conta quella volta che William Russell ha infi lato un anello nella mia fetta di torta glassata quando avevamo

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solo nove anni, e neanche il giorno in cui Richard Spencer mi ha baciato nel campo dietro la Upton Hall School e mi ha fatto promettere che l’avrei sposato. Ero solo una bambina all’epoca, e loro dei ragazzini stupidi. Ho avuto un sacco di ammiratori da quando mi sono trasferita a Londra, ma nessuno era mai arrivato al punto di farmi la fatidica domanda: e poi, all’improvviso, tre proposte in un colpo solo!»

Lucy mi aveva raccontato in una lettera i particolari di quella giornata straordinaria. Il dottor John Seward, un eccellente giovane medico, era passato da lei in mat-tinata per dichiararle il suo amore e chiederla in moglie. Era stata poi la volta di un secondo spasimante – un facoltoso americano del Texas che si chiamava Quincey P. Morris ed era un grande amico sia del dottor Seward sia del signor Holmwood –, che le aveva fatto la stessa franca richiesta subito dopo pranzo. Lucy, sopraffatta dal rammarico, era stata costretta a spiegare che doveva rifi u-tare le loro proposte perché era innamorata di un altro uomo. Quello stesso pomeriggio, Arthur Holmwood era riuscito a trovare un momento di tranquillità per fare la sua romantica dichiarazione, che Lucy aveva accolto con entusiasmo.

«Dev’essere stata una sensazione stupenda» dissi «sco-prire che eri adorata da tanti uomini buoni, nobili e meri-tevoli.»

«Sì, è stato davvero stupendo... e al tempo stesso ter-ribile. Non riesco proprio a capire come abbiano fatto il dottor Seward e il signor Morris a decidere di essersi inna-morati di me; perché ogni volta che venivano a farmi visita ero obbligata a restarmene lì seduta come un animaletto muto, a sorridere come una scolaretta e ad arrossire pudi-camente a ogni parola che dicevano, mentre la mamma continuava a parlare. Ogni tanto mi veniva la tentazione di mettermi a gridare per la frustrazione, era una situa-

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zione troppo stupida. Eppure mi piacevano tutti, e alla fi ne siamo riusciti anche a rimanere soli, e tutti e tre mi hanno aperto il loro cuore e la loro anima. E a quel punto ho dovuto congedarne due, con il cappello in mano, ben sapendo che stavano uscendo per sempre dalla mia vita! Sono scoppiata a piangere quando ho visto l’espressione sul viso del dottor Seward, perché aveva proprio l’aria tri-ste e sembrava che gli avessi spezzato il cuore. Quando ho detto al signor Morris che c’era un altro uomo, lui mi ha risposto, con il suo affascinante accento texano: “Bam-bina, la vostra onestà e il vostro coraggio mi hanno reso vostro amico, più diffi cile da trovare di un amante”. Ha detto molte cose belle e nobili sul suo “rivale”, non imma-ginando minimamente che fosse Arthur... il suo migliore amico. Poi... te l’ho scritto nella lettera che cosa mi ha chiesto di fare il signor Morris prima di andarsene?»

«Sì! Ti ha chiesto di baciarlo, per aiutarlo ad attuti-re il colpo, immagino... e tu l’hai fatto!» Ci fermammo a metà della scalinata per riprendere fi ato e io la guardai. «Ammetto di esserne rimasta un po’ sorpresa.»

«Perché?»«Lucy, non puoi andartene in giro a baciare tutti gli

uomini che chiedono la tua mano, solo perché ti dispiace per loro!»

«È stato solo un bacio. Oh, Mina! Perché una ragazza non può sposare tre uomini, o quanti ne vuole? Ci rispar-mieremmo tutti questi problemi!»

Scoppiai a ridere e abbracciai Lucy. «Sei proprio una sciocchina. Sposare tre uomini? Che idea assurda!»

«Mi rincresce davvero rendere infelici due di loro.»«Se fossi in te, non perderei un altro istante a preoc-

cuparmi per il dottor Seward e il signor Morris» le dissi mentre ricominciavamo a salire. «Si riprenderanno presto dalla delusione e troveranno altre donne pronte a baciare la terra su cui loro camminano.»

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«Lo spero davvero, perché sono convinta che tutti si meritino di provare la felicità che io ho trovato con Arthur e tu con Jonathan.»

«Anch’io lo spero. Fare la moglie... la moglie di Jona-than... trascorrere la vita insieme, aiutarlo nel suo lavoro, diventare madre: è tutto ciò che desidero.»

Lucy tacque per un momento, poi mi chiese: «Mina, hai sempre provato questi sentimenti?».

«In che senso?»«So che tu e Jonathan siete amici da sempre... ma è

solo da poco che lo consideri un corteggiatore. Hai mai pensato a un altro uomo, prima di Jonathan?»

«No. Mai.»«Mai? Di certo da quando sono venuta via da Upton

Hall deve pur esserci stato qualche ragazzo o qualche uomo che ti è piaciuto, e a cui tu piacevi... qualcuno di cui non mi hai mai parlato.»

«Se ci fosse stato, saresti stata la prima a saperlo, Lucy. Ti ho sempre detto tutto.»

«Questo non va bene. Una ragazza deve avere dei segreti.» Lucy batté le palpebre per gioco, poi rise e aggiunse: «Spero tu capisca che sto scherzando, Mina. Anch’io non ti ho mai tenuto nascosto niente... e nemme-no ad Arthur. La mamma dice che la sincerità e il rispetto sono le cose più importanti in un matrimonio, anche più dell’amore, e io sono d’accordo con lei. Anche tu?».

«Certo. Io e Jonathan detestiamo i segreti e le reticenze. Abbiamo stretto un patto solenne, molto tempo fa, e cioè che saremmo sempre stati aperti l’uno con l’altra... una promessa che ritengo ancora più importante, ora che stia-mo per diventare marito e moglie.»

«È giusto che sia così.»Avevamo nel frattempo raggiunto la sommità della

scalinata e stavamo passeggiando davanti alla chiesa di St Mary, un edifi cio in pietra simile a una fortezza, con

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una grande torre e i muri merlati, il cui aspetto massiccio sembrava progettato apposta per sopravvivere agli assalti del clima burrascoso del Mare del Nord. La nostra perlu-strazione ci portò poi alle rovine dell’abbazia di Whitby, lì accanto: un immenso rudere spoglio, imponente e gran-dioso, che si ergeva su un prato verde incolto circondato da campi punteggiati di pecore. Non potemmo fare a meno di rimanere a fi ssare a bocca aperta tanta bellezza, ammi-rando la grande navata senza soffi tto, l’altissimo transetto meridionale e i raffi nati archi a sesto acuto all’estremità orientale dell’antica abbazia.

«Esiste una bellissima leggenda su questa abbazia, che ho letto prima di venire qui» dissi. «Si narra che in certi pomeriggi estivi, quando il sole colpisce la parte setten-trionale del coro con una particolare angolazione, a una fi nestra si può vedere una dama in bianco.»

«Una dama in bianco? E chi può mai essere?»«Alcuni sostengono che si tratti del fantasma di santa

Ilda, la principessa sassone che nel sesto secolo fondò l’ab-bazia, allora un monastero, la quale vuole vendicarsi dei Vichinghi che saccheggiarono il suo sacro edifi cio.»

«Un fantasma!» esclamò Lucy ridendo. «Credi nei fan-tasmi?»

«Certo che no. Non ci sono dubbi che la “visione” non sia altro che un rifl esso causato dai raggi del sole.»

«Be’, comunque preferisco la leggenda. È molto più romantica.»

Ci allontanammo dall’abbazia e tornammo indietro ver-so la chiesa, affacciandoci su un’ampia area, situata fra la chiesa e la scogliera, disseminata di lapidi consumate dalle intemperie. «Santo cielo» dissi. «Che cimitero immenso... e che vista!»

In effetti il cimitero intorno alla chiesa era molto gran-de e in una bella posizione. Situato in cima all’alta sco-gliera, in un punto impressionante, dava sulla cittadina e

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sul porto da un lato, e sul mare dall’altro... e pareva pro-prio essere un posto frequentato. Almeno una ventina di persone passeggiavano infatti lungo diversi sentieri che si incrociavano nel cimitero oppure sedevano sulle panchi-ne che fi ancheggiavano i vialetti, ammirando il paesaggio e godendosi la brezza.

Il panorama ci attirò come una calamita. Ci dirigem-mo subito verso il punto più elevato, dove trovammo una panchina di ferro dipinta di verde, situata proprio vicino all’orlo del dirupo. Ci sedemmo. Da quel punto si godeva una stupenda veduta: la cittadina e il porto sotto di noi, il mare dai riverberi infi niti, gli argini, due fari e la lunga spiaggia sabbiosa che arrivava fi no alla baia, dove la ter-raferma si protendeva nel mare. Accanto a noi, due artisti stavano lavorando dietro i loro cavalletti; alle nostre spal-le pecore e agnelli belavano nei campi. Udii lo scalpiccio di un asino che risaliva lungo la strada lastricata sotto di noi e il mormorio delle conversazioni dei passanti; per il resto, c’erano solo pace e silenzio.

«Penso che questo sia il punto più bello di Whitby» affermai.

«Non potrei essere più d’accordo» convenne Lucy «e questa è la panchina migliore. La dichiaro nostra da que-sto momento.»

«Credo che verrò quassù molto spesso,» aggiunsi sor-ridendo «per leggere o scrivere.»

Fossi stata a conoscenza, allora, di cosa sarebbe suc-cesso in quel punto esatto, di ciò che avrebbe cambia-to tragicamente il destino di Lucy e infl uenzato in modo drammatico e inesorabile il mio, avrei fatto dietrofront e insistito perché ce ne andassimo subito da Whitby. O per lo meno... mi piace pensare che avrei avuto il coraggio di comportarmi così. Ma come si può immaginare l’inimma-ginabile? Tanto più che tutto era cominciato in maniera così innocente?

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Durante la mia prima notte a Whitby, Lucy cominciò a camminare nel sonno.

La serata era trascorsa in modo abbastanza piacevole. Dopo la passeggiata, Lucy e io eravamo tornate a casa al Royal Crescent, dove avevamo consumato presto una cena leggera con la signora Westenra. Quella brava don-na era di ottimo umore e mi aveva accolto con calore. Più tardi, mentre Lucy e sua madre uscivano per fare una visita di cortesia a conoscenti della zona, ero sgattaiolata via di nuovo alla scogliera orientale da sola, dove avevo trascorso una bella oretta seduta sulla “nostra panchina” a scrivere nel mio diario.

Quella notte, però, non molto tempo dopo che Lucy e io ci eravamo ritirate in camera e ci eravamo addormenta-te, fui svegliata da un fruscio. Era una notte calda e aveva-mo lasciato le persiane e le fi nestre aperte. Mentre aprivo gli occhi assonnata, avvertii che Lucy si era alzata dal letto e si stava vestendo.

«Lucy? Cosa c’è? Perché ti sei alzata?»La mia amica non rispose e continuò ad abbottonarsi la

sottoveste. Aveva gli occhi fi ssi e sbarrati, con un’espres-sione vacua; prese una gonna dall’armadio e cominciò a infi larla.

«Lucy!» A quel punto mi alzai e attraversai la stanza a piedi scalzi, avvicinandomi a lei. «Perché ti vesti?» Di nuovo, nessuna risposta; Lucy non sembrava neppure consapevole della mia presenza. Tutt’a un tratto capii cosa stava succedendo.

Ero stata testimone di questo strano comportamento di Lucy in diverse occasioni in passato, anni prima, quan-do eravamo a scuola. Una notte in cui nevicava, lei si era alzata dal letto in cui dormivamo insieme ed era uscita, scalza e in camicia da notte; per fortuna una domestica l’aveva trovata prima che morisse di freddo, l’aveva fatta

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riscaldare davanti al camino acceso e l’aveva riaccompa-gnata a letto. Un’altra volta Lucy si era messa l’abito e il cappello della festa ed era scesa in cucina, dove si era mangiata una grossa fetta di torta di mele e aveva bevuto un bicchiere di latte prima di essere scoperta. La mattina seguente aveva solo un vago ricordo, o addirittura nessu-no, di questi episodi.

«Lucy cara,» le dissi ora, posandole le mani sulle spal-le e fi ssandola negli occhi assenti «siamo nel cuore della notte. Devi tornare a letto. Lascia che ti aiuti a spogliarti.»

Con mio grande sollievo, non oppose resistenza. Sen-tendo la mia voce, o forse il tocco delle mie mani, tutti i suoi propositi svanirono e si affi dò docilmente alle mie cure. Riuscii in qualche modo a spogliarla, a infi larle la camicia da notte e metterla di nuovo a letto, senza sve-gliarla.

A colazione, la mattina dopo, Lucy era la solita ragazza solare di sempre, che chiacchierava allegramente come se la notte prima non fosse successo niente. Ridendo, rac-contai a lei e a sua madre che cosa era accaduto.

«Un episodio di sonnambulismo?» rispose Lucy con una risata sorpresa, mentre spalmava burro e marmellata sul pane tostato. «È passato tanto tempo dall’ultima volta che mi è capitato.»

La signora Westenra non accolse la notizia con altret-tanto divertimento. «Santo cielo» esclamò preoccupata aggrottando la fronte pallida e tormentando la sua colla-na di perle. «Mi ha sempre angosciato questa tua vecchia abitudine, Lucy. Strano che si sia ripresentata adesso, in questo posto nuovo e singolare.»

La signora Westenra era una donna di cinquantaquat-tro anni, piccola di corporatura ma ben formata. Era faci-le capire da chi avesse preso la sua bellezza Lucy, poiché entrambe avevano gli stessi lineamenti attraenti, gli stessi occhi azzurri e profondi, i capelli ricci e la pelle liscia ed

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eburnea. Rivolgendosi a me, la signora Westenra aggiun-se: «Ha ereditato questa tendenza da suo padre. Edward si alzava spesso di notte e, se non facevo in tempo a sve-gliarlo o a fermarlo, si vestiva e usciva. Una notte, a Lon-dra, un poliziotto lo ha trovato che vagava in St James’s Park nel suo completo della domenica. Un’altra volta, in campagna, è sceso al fi ume alle due di notte con tutta l’at-trezzatura e si è messo a pescare».

Lucy scoppiò a ridere. «Me lo ricordo. Che matto, papà.» A quelle parole il suo sorriso svanì e le si velò lo sguardo mentre sorseggiava la cioccolata. «Oh, come mi manca.»

«Tuo padre era un uomo meraviglioso» convenni.La signora Westenra scosse tristemente la testa. «Non

avevo mai pensato che sarei potuta rimanere sola, in que-sto modo. Ho sempre creduto che me ne sarei andata pri-ma io. Caro, carissimo Edward.» D’un tratto le si riempi-rono gli occhi di lacrime; allungò la mano sul tavolo per afferrare quella di Lucy. «Grazie al cielo Lucy è rimasta a casa con me in questo ultimo anno e mezzo. Non so pro-prio come farò dopo che si sarà sposata.»

Lucy posò l’altra mano su quella della madre e la guar-dò negli occhi. «Mamma, te la caverai benissimo. Arthur e io non andremo ad abitare lontano e verremo a farti visita così spesso che non ti accorgerai neanche che me ne sono andata di casa.»

La signora Westenra si asciugò gli occhi con il tova-gliolo. «Lo spero proprio, mia cara. Sono molto felice per te, Lucy, e spero che anche tu lo sarai.»

Le due donne si scambiarono un sorriso amorevole. Io provai un’ondata calda di affetto nei confronti di entram-be... e al tempo stesso, mio malgrado, una piccola fi tta di invidia. Era uno dei miei più grandi rimpianti non avere mai conosciuto la gioia dell’amore di una madre e di un padre. L’oscuro stigma del mio passato era stato fonte di

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umiliazione per me fi n da quando ne ero venuta a cono-scenza, da bambina, e tuttora arrossivo di vergogna ogni volta che ci pensavo.

«Ora parliamo un po’ delle nozze» disse la signora Westenra ritrovando il suo solito buonumore mentre pren-deva uno squisito boccone di uova strapazzate. «Penso che tu e Arthur dobbiate sposarvi il prima possibile.»

«Perché tutta questa fretta, mamma? I fi danzamenti lunghi sono molto comuni. Persino tu e papà avete aspet-tato un anno prima di sposarvi, no?»

«Sì, ma le circostanze erano molto diverse. Tuo padre stava cercando di intraprendere un’attività bancaria e vole-va che fosse già avviata prima che ci sposassimo. Arthur non ha questi problemi fi nanziari. Lui è molto ricco e, essendo fi glio unico, un giorno erediterà Ring Manor e tutti i beni e i possedimenti di suo padre. Non c’è nessuna ragione al mondo per cui dobbiate aspettare.» La signora Westenra parlò con una tale ansia che percepii che doves-sero esserci altri motivi dietro il suo desiderio di vedere Lucy sposata tanto presto; ma lei si limitò ad aggiungere: «In ogni caso, settembre è un mese stupendo per celebra-re un matrimonio».

«Be’, aspetterò di vedere cosa ne pensa Arthur quando arriva» commentò Lucy con dolcezza.

«E tu, Mina?» mi chiese la signora Westenra. «Quando e dove avete intenzione di sposarvi tu e Jonathan? Avete già fatto dei progetti?»

Esitai un attimo, poi risposi: «Avevamo parlato di spo-sarci a Exeter alla fi ne dell’estate. Una cerimonia molto semplice, naturalmente... ma adesso non so proprio». Le raccontai del viaggio di lavoro di Jonathan in Transilva-nia, di quanto tardasse a tornare e da quanto tempo non ricevessi notizie da lui. «C’è qualcosa nella sua ultima let-tera che non mi convince. È la sua calligrafi a, eppure non sembrano parole sue.»

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«Hai scritto al suo principale?» mi domandò la signora Westenra.

«Sì. Anche il signor Hawkins non ne ha più saputo nulla.»

Lucy e la signora Westenra fecero del loro meglio per alleviare le mie paure ma, date le circostanze, c’era ben poco che potessero dire. Finita la colazione, Lucy propose di fare un’altra passeggiata fi no alla scogliera orientale. Sua madre, che sembrava affaticarsi solo a spostarsi dalla sala da pranzo al salotto, ci pregò di scusarla se non ci accompagnava.

Prima che io e Lucy uscissimo, però, la signora Westen-ra mi prese da parte e mi disse, a voce bassa e in un tono ansioso: «Mina, non volevo parlartene davanti a Lucy, ma sono molto preoccupata per lei».

«Come mai?»«Per questa sua vecchia abitudine di camminare nel

sonno. Può essere molto pericolosa. Non dirle niente, ma devi promettermi di tenerla d’occhio e di chiudere a chia-ve la porta della vostra stanza tutte le sere, in modo che non esca.»

Glielo promisi solennemente, sicura che sarei riuscita a proteggere Lucy da ogni pericolo. Oh, come i fatti avrebbe-ro dimostrato quanto mi sbagliavo a esserne così convinta!

Quel pomeriggio Lucy e io tornammo alla chiesa in cima alla scogliera orientale, dove chiacchierammo con un vecchio marinaio dal viso rugoso che si chiamava Swales e sosteneva di avere quasi cent’anni. Lui e i suoi due anziani amici rimasero così affascinati da Lucy che, non appena prendemmo posto sulla nostra panchina preferita, si se-dettero accanto a lei. Lucy li interrogò a lungo sulle loro avventure in mare con la fl otta di pescherecci groenlandesi e all’epoca gloriosa della battaglia di Waterloo.

Io ero più interessata alle leggende del posto ma, quan-do cercai di indirizzare la conversazione in tal senso, il

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vecchio marinaio Swales insistette nel dire che tutte quel-le storie sulla Dama Bianca alla fi nestra dell’abbazia e via discorrendo non erano altro che stupidaggini.

«Sono solo sciocche chiacchiere per i villeggianti e gente del genere» se ne fece beffe l’anziano. «Non datevi retta, signorina. Se vi piacciono le storie, però, ve ne rac-conterò qualcuna vera.»

E si mise a narrare diversi aneddoti pittoreschi sul-la cittadina e sul cimitero. Lucy rimase turbata quando ci disse che la lapide ai nostri piedi, su cui era posata la nostra panchina preferita, era la tomba di un suicida. Il signor Swales le assicurò di essersi seduto spesso lì per più di vent’anni, senza che gli fosse mai successo niente di male.

Quando tornammo alla pensione, la padrona di casa, la signora Abernathy, ci avvisò che c’era una lettera per me. Mi balzò il cuore in gola per l’emozione. Riconob-bi subito la calligrafi a: era del principale di Jonathan, il signor Peter Hawkins. Non riuscii ad aspettare di arriva-re in camera e strappai subito la busta. Con mio grande sollievo, vidi che quel brav’uomo mi aveva trasmesso una lettera che aveva ricevuto da Jonathan.

«Vedi?» esclamò Lucy, cercando di dare una sbirciati-na alla lettera allegata mentre la leggevo. «Te l’avevo detto che Jonathan avrebbe scritto. Cosa dice?»

Mi sentii mancare. Era sì la calligrafi a di Jonathan, ma avevo sperato in qualche parola rassicurante e in una spiegazione per il suo lungo silenzio. Invece la lettera, indirizzata al suo principale, fu una tremenda delusione:

Castello di Dracula, 19 giugno 1890

Egregio signore,vi scrivo per comunicarvi che ho portato a termine con successo l’incarico che mi era stato affi dato e intendo

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ripartire domani, ma probabilmente mi fermerò per una vacanza da qualche parte lungo la via del ritorno.

Distinti salutiJ. Harker

«Qualche riga» dissi piano mentre passavo la lette-ra a Lucy. «Solo qualche riga. Non è proprio da Jona-than.»

«Perché no? La lettera era per il signor Hawkins, non per te; mi sembra piuttosto succinta e professionale.»

«Appunto. Il signor Hawkins è più un padre che un datore di lavoro per Jonathan. Lo conosciamo entrambi fi n da bambini. Jonathan non si rivolgerebbe mai a lui in un tono così distaccato.»

«Forse era di fretta. E guarda qui: dice di avere inten-zione di fermarsi per una vacanza sulla via del ritorno.»

«Anche se avesse fatto una tappa da qualche parte, ormai dovrebbe essere già arrivato da un pezzo. E per-ché ha scritto al signor Hawkins invece che a me? Gli ho pur mandato il mio indirizzo qui a Whitby.» Una paura improvvisa mi serrò lo stomaco e mi annebbiò a tal punto i sensi che mi accasciai su una sedia lì vicino. «Pensi che sia possibile... non può essere che Jonathan abbia cono-sciuto un’altra donna durante il viaggio? Sarà questo il motivo del suo silenzio?»

«Un’altra donna?» esclamò Lucy scioccata. «Mai! Jo-nathan è fedele quanto te, Mina Murray. Ti ama tantissi-mo e voi due siete le persone più sincere che io abbia mai incontrato. Non guarderebbe mai un’altra, te lo posso assicurare.»

«Lo pensi davvero?»«Lo so per certo. Tu sposerai Jonathan, Mina. Sono

sicura che c’è una ragione per il suo silenzio, e a tempo debito la scoprirai. Tornerà a casa da te, te lo prometto.»

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Trascorsero quasi due settimane senza altre notizie da Jonathan, e ciò mi teneva in uno stato di agitazione davve-ro terribile. Lucy, invece, ricevette notizie da Arthur. Con grande delusione della mia amica, era costretto a riman-dare la sua visita, poiché il padre si era ammalato... e ciò signifi cava posticipare la nostra escursione in barca sul fi ume, una gita che non vedevamo l’ora di fare.

Come se non bastasse, Lucy continuava ad avere spo-radici episodi di sonnambulismo. Ogni volta mi svegliavo sentendola aggirarsi per la stanza, mentre cercava a tutti i costi un modo per uscire. Ormai dormivo con la chia-ve legata stretta al polso. Nonostante tutti questi incon-venienti, ci godemmo quelle giornate insieme, trascorse a passeggiare in città o sulla scogliera orientale, oppure facendo lunghe camminate fi no ai pittoreschi villaggi della zona. Benché avessimo cura di portare sempre il cappello, la signora Westenra ci fece notare con soddisfazione che le guance di Lucy, prima pallide, stavano prendendo un bel colorito roseo.

Il 6 agosto il tempo cambiò. Il sole era nascosto dietro dense nubi, il mare si rovesciava mugghiando sulle distese sabbiose e ogni cosa era avvolta da una fi tta nebbia grigia.

«È in arrivo una tempesta, mia cara, e bella grossa, date retta a me» disse l’anziano marinaio Swales seden-dosi accanto a me nel cimitero quel pomeriggio. Era un vecchietto adorabile ma quel giorno, mentre continuava a divagare, pareva completamente fi ssato sul tema della morte. Osservando il mare aperto, disse in un tono inquie-tante: «Forse è quel vento là in mare aperto che sta por-tando con sé lutti e disgrazie, gravi dolori e cuori infelici... Guardate! Ha lo stesso suono, aspetto, gusto e odore della morte!».

Le sue parole mi innervosirono. Benché sapessi che non intendeva ferirmi, fui sollevata quando se ne andò.

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Per un po’ scrissi sul mio diario e guardai i pescherec-ci tornare sani e salvi in porto. Ma la mia attenzione fu catturata ben presto da una nave al largo. Era un vascel-lo di notevoli dimensioni, diretto a ovest verso le nostre coste a vele spiegate, ma era sballottato qua e là in un modo assurdo, come se cambiasse direzione a ogni colpo di vento.

La guardia costiera, con il suo cannocchiale, mi passò accanto e si fermò a parlare con me, continuando a osser-vare la nave. «Sembra russa, da quanto riesco a vedere,» commentò «ma non sa bene dove andare ed è governata in modo piuttosto maldestro. È come se vedesse l’avvici-narsi della tempesta, però non sapesse decidere se punta-re verso nord o attraccare nel nostro porto.»

Il giorno seguente era di nuovo freddo e grigio, e lo strano bastimento era sempre là, a rollare dolcemente sul mare mosso, le vele che svolazzavano pigramente. Quel pomeriggio, dopo il tè, Lucy e io tornammo in cima alla scogliera e ci unimmo a un nutrito gruppo di persone che osservavano incuriosite la nave, e al tempo stesso il crepuscolo: una vista bellissima. Le masse di nubi rifl et-tevano tutte le sfumature dei colori del tramonto, dal rosso al viola, al rosa, al verde, al giallo e all’oro. Sembra-va impossibile che fosse imminente un’ondata di brutto tempo.

Verso sera, però, l’aria si fece stranamente immobile. A mezzanotte, quando Lucy e io eravamo ormai al sicuro sotto le coperte, dal mare aperto giunse un debole tuo-nare cupo e l’uragano scoppiò all’improvviso. La pioggia scrosciava violenta, tempestando con furia il tetto, i ve-tri delle fi nestre e i comignoli. Ogni fragore di tuono mi sembrava un colpo di pistola in lontananza e mi faceva sobbalzare. Ero troppo inquieta per dormire e per molte ore sentii Lucy agitarsi nel letto. Finalmente sprofondai in un dormiveglia intermittente e feci uno strano sogno.

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Forse ho un’immaginazione troppo vivida, forse ce l’ho nel sangue, in ogni caso tendo a fare sogni molto realisti-ci... e ho sognato ogni singola notte, per tutta la notte, da quando ero bambina. In qualunque momento mi svegli, riesco a ricordare tutti i dettagli del sogno che stavo facen-do, e mi ci vuole sempre qualche minuto per rassicurarmi che non sia vero. Talvolta sono fantasie sciocche, roman-tiche e intricate, che includono episodi vissuti durante il giorno; altre volte, invece, sono incubi, spaventose mani-festazioni delle mie più oscure paure. A volte, addirittura, si sono rivelati presagi e segnali premonitori, che mi indi-cavano cosa avesse in serbo per me il futuro.

Quella notte sognai di essere ancora nella mia stanza al collegio, solo che non era la scuola dove avevo vissuto e lavorato: era un posto che non riconoscevo. Nel cuo-re della notte, al chiarore di una luna luminosa, vagavo per un lungo corridoio freddo, in cerca di qualcosa, ma non sapevo cosa. Fuori un vento forte scuoteva le cime degli alberi, facendo gemere e scricchiolare le grondaie dell’edifi cio e gettando ombre paurose sulle pareti. Le assi del pavimento erano gelide sotto i miei piedi nudi e io rabbrividivo nella camicia da notte leggera. Volevo tornare al calore e alla sicurezza del mio letto, ma non ce la facevo. Riuscivo solo ad avanzare, un passo alla volta, spinta da una forza a cui non riuscivo a dare un nome.

Tutto a un tratto dall’oscurità giungeva una voce pro-fonda che mi sussurrava: «Amore mio!».

Era Jonathan che mi chiamava? Era arrivato, fi nalmente? «Dove sei, Jonat han?» gridavo correndo lungo l’intermi-nabile corridoio tortuoso, passando davanti a molte porte chiuse.

«Amore mio!» udivo di nuovo.All’improvviso mi rendevo conto che non era affatto

Jonathan, ma una voce che non avevo mai sentito prima. Correvo senza fi ato svoltando un angolo e mi bloccavo di

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colpo vedendo una porta che si apriva davanti a me. Da quella porta usciva una fi gura alta e scura. Era un uomo o una bestia? Non ne ero certa. In quel corridoio buio non riuscivo a distinguere i lineamenti di quell’essere, solo due occhi rossi e scintillanti: una visione che mi faceva trattenere il respiro, terrorizzata.

L’uomo – o la bestia – si avvicinava e si fermava di fronte a me, pronunciando in un tono basso delle parole che, pur facendomi venire i brividi sulla schiena, erano al tempo stesso seducenti e irresistibili: «Sto venendo a prenderti».