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La produzione di armamenti nell’età giolittiana di Paolo Ferrari Le spese militari come problema storiogra- fico Negli studi sul primo quindicennio del secolo soltanto di rado1è stato affrontato il proble- ma della produzione degli strumenti bellici2, nonostante il generale consenso sull’impor- tanza della corsa agli armamenti nello scop- pio del conflitto mondiale3 e l’accresciuta in- cidenza delle spese militari sulle economie de- gli Stati contemporanei. Infatti il rapido muta- mento delle tecnologie militari, richiedendo un impegno finanziario sempre maggiore, anche indipendentemente dai conflitti e dalle ten- sioni internazionali, è divenuto un fattore di costante incremento della spesa pubblica. L’invenzione di nuove armi ed i processi produttivi che si affermarono in molte indu- strie contribuirono ad alimentare nell’età giolittiana un flusso di commesse, particolar- mente importante nei periodi di crisi4, che in- teressò le costruzioni navali, la meccanica, la siderurgia, ma anche l’industria tessile, ali- mentare ed altri settori. Dagli studi sulla finanza pubblica5, ai qua- li si deve ricorrere data la mancanza di anali- 1 L’eccezione principale è costituita dal noto contributo di Richard A. Webster, L ’imperialismo industriale italiano (1908-1915). Studio sul prefascismo, Torino, Einaudi, 1974. Su questo studio cfr. Paolo Favilli, L ’imperialismo ita- liano prefascista, in “Critica marxista”, 1975, n. 2-3 e soprattutto Giorgio Mori, Banche, industrie e imperialismo nell’“età giolittiana’’, in “Studi storici”, 1975, n. 3, ripubblicato in Id., Il capitalismo industriale in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 83-100. : Se per la prima guerra mondiale vi è una lunga tradizione di studi, manca ancora “una specifica distinta trattazione della storia economica d’Italia sotto il profilo delle spese militari”: cfr. Luigi De Rosa, Incidenza delle spese militari sullo sviluppo economico italiano, in Ministero della difesa (a cura di), A tti del primo convegno nazionale di storia militare (Roma, 17-19 marzo 1969), Roma, 1969, p. 184, ripubblicato in Ufficio storico dello stato maggiore dell’e- sercito (a cura di), L "esercito italiano dall’Unità alla grande guerra (1861-1918), Roma Ufficio storico Sme, 1980 e, con alcune varianti, in Luigi De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno, Bari, Laterza 1973 e Id., La rivoluzione industriale in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1980. 3 Cfr. ad es. Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in “Storia d’Italia”, vol. IV, Dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 1961 sgg.; Enzo Collotti, Introduzione a Karl Liebknecht, Contro l’Internazionale del capitale degli armamenti, in Scritti politici, a cura di Enzo Collotti, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 217. 4 Cfr. ad es. Riccardo Bachi, L ’Italia economica nel 1912, in “La Riforma Sociale”, supplemento, 1913, pp. 121 - 122, 126. Ragioneria generale dello Stato, Il bilancio dello Stato italiano dal 1862 al 1967, Roma, 4 voli., Poligrafico dello Stato, 1969; Francesco A. Repaci, La finanza pubblica italiana nel secolo 1861-1960, Bologna, Zanichelli, 1962; An- tonio Pedone, lì bilancio dello Stato, in Giorgio Fuà (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, vol. II, Milano, Angeli, 1974 (1a ed. 1969); Paolo Ercolani, Documentazione statistica di base, in Giorgio Fuà, cit., vol. III. La mi- gliore discussione di questi dati dal punto di vista delle spese militari è quella di Giorgio Rochat-Giulio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978, pp. 66-83. “Italia contemporanea”, marzo 1986, 162

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La produzione di armamenti nell’età giolittiana

di Paolo Ferrari

Le spese militari come problema storiogra­fico

Negli studi sul primo quindicennio del secolo soltanto di rado1 è stato affrontato il proble­ma della produzione degli strumenti bellici2, nonostante il generale consenso sull’impor­tanza della corsa agli armamenti nello scop­pio del conflitto mondiale3 e l’accresciuta in­cidenza delle spese militari sulle economie de­gli Stati contemporanei. Infatti il rapido muta­mento delle tecnologie militari, richiedendo un impegno finanziario sempre maggiore, anche

indipendentemente dai conflitti e dalle ten­sioni internazionali, è divenuto un fattore di costante incremento della spesa pubblica.

L’invenzione di nuove armi ed i processi produttivi che si affermarono in molte indu­strie contribuirono ad alimentare nell’età giolittiana un flusso di commesse, particolar­mente importante nei periodi di crisi4, che in­teressò le costruzioni navali, la meccanica, la siderurgia, ma anche l’industria tessile, ali­mentare ed altri settori.

Dagli studi sulla finanza pubblica5, ai qua­li si deve ricorrere data la mancanza di anali-

1 L’eccezione principale è costituita dal noto contributo di Richard A. Webster, L ’imperialismo industriale italiano (1908-1915). Studio sul prefascismo, Torino, Einaudi, 1974. Su questo studio cfr. Paolo Favilli, L ’imperialismo ita­liano prefascista, in “Critica marxista”, 1975, n. 2-3 e soprattutto Giorgio Mori, Banche, industrie e imperialismo nell’“età giolittiana’’, in “Studi storici”, 1975, n. 3, ripubblicato in Id., Il capitalismo industriale in Italia, Roma, Editori Riuniti, 1977, pp. 83-100.: Se per la prima guerra mondiale vi è una lunga tradizione di studi, manca ancora “una specifica distinta trattazione della storia economica d’Italia sotto il profilo delle spese militari” : cfr. Luigi De Rosa, Incidenza delle spese militari sullo sviluppo economico italiano, in Ministero della difesa (a cura di), A tti del primo convegno nazionale di storia militare (Roma, 17-19 marzo 1969), Roma, 1969, p. 184, ripubblicato in Ufficio storico dello stato maggiore dell’e­sercito (a cura di), L "esercito italiano dall’Unità alla grande guerra (1861-1918), Roma Ufficio storico Sme, 1980 e, con alcune varianti, in Luigi De Rosa, La rivoluzione industriale in Italia e il Mezzogiorno, Bari, Laterza 1973 e Id., La rivoluzione industriale in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1980.3 Cfr. ad es. Ernesto Ragionieri, La storia politica e sociale, in “Storia d’Italia”, vol. IV, Dall’Unità a oggi, Torino, Einaudi, 1976, pp. 1961 sgg.; Enzo Collotti, Introduzione a Karl Liebknecht, Contro l ’Internazionale del capitale degli armamenti, in Scritti politici, a cura di Enzo Collotti, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 217.4 Cfr. ad es. Riccardo Bachi, L ’Italia economica nel 1912, in “La Riforma Sociale”, supplemento, 1913, pp. 121 - 122, 126.

Ragioneria generale dello Stato, Il bilancio dello Stato italiano dal 1862 al 1967, Roma, 4 voli., Poligrafico dello Stato, 1969; Francesco A. Repaci, La finanza pubblica italiana nel secolo 1861-1960, Bologna, Zanichelli, 1962; An­tonio Pedone, lì bilancio dello Stato, in Giorgio Fuà (a cura di), Lo sviluppo economico in Italia, vol. II, Milano, Angeli, 1974 (1a ed. 1969); Paolo Ercolani, Documentazione statistica di base, in Giorgio Fuà, cit., vol. III. La mi­gliore discussione di questi dati dal punto di vista delle spese militari è quella di Giorgio Rochat-Giulio Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano dal 1861 al 1943, Torino, Einaudi, 1978, pp. 66-83.

“Italia contemporanea”, marzo 1986, 162

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si specifiche ed i limiti delle fonti ufficiali, è possibile ricavare l’entità complessiva delle spese militari, constatando così la continuità e la consistenza dell’impegno dello Stato in questo settore durante tutto il periodo post-unitario, pur nella spesso difficile situa­zione finanziaria. Tra la nascita dello Stato italiano e la prima guerra mondiale le spese militari rappresentarono la seconda voce di spesa dopo quella per l’amministrazione ge­nerale e gli interessi sul debito pubblico, che sono le spese necessarie al funzionamento dell’apparato statale6.

Secondo i dati forniti da Pedone, tra il 1897 ed il 1906 le spese per la difesa subirono una lieve diminuzione, assorbendo in media il 21% di quelle complessive, rispetto al pe­riodo 1862-1896, quando tale percentuale era stata del 24%. Tra il 1907 ed il 1912, invece, arrivarono a rappresentare in media il 27% delle spese statali.

In termini assoluti si passò da 356 milioni nell’esercizio 1899-1900 a 755 ed a 1.000 ri­spettivamente nel 1911-1912 e nel 1912-1913, compresi 832 milioni spesi soltanto in questi due esercizi per la spedizione in Libia.

Dagli osservatori coevi e dai protagonisti di queste vicende agli storici del secondo do­poguerra, il confronto tra le spese militari italiane e quelle degli altri Stati europei è sta­to spesso utilizzato per dimostrare che l’Ita­lia fu tra i paesi che, nell’“età dell’imperiali- smo”, destinarono minori risorse alle forze armate e che quindi alla classe dirigente va attribuita la diretta responsabilità delle ca­

renze manifestatesi al momento dell’entrata in guerra7. Occorrerebbe tuttavia prestare maggiore attenzione ai parametri utilizzati: infatti, anche se operati correttamente8, i confronti basati sulle cifre assolute, sulle spese militari in rapporto alla popolazione o al complesso delle spese statali, non conside­rando la struttura dei bilanci e, più in genera­le, le diverse realtà economico-sociali nazio­nali, risultano poco significativi per chi vo­lesse trarne indicazioni sull’incidenza delle spese militari nelle diverse economie. Chi ha tentato un approccio diverso9, rispondente alla necessità di mettere in relazione spese militari e livello di sviluppo dei vari paesi10, è arrivato — confrontando la situazione italia­na nel primo quarantennio post-unitario con quella di altri cinque paesi europei (Francia, Germania, Regno Unito, Danimarca e Nor­vegia) — ad una conclusione significativa. Secondo i dati elaborati da Maione, in Italia gli oneri finanziari in rapporto al reddito na­zionale rappresentavano una percentuale più alta che negli altri paesi europei e soltanto in Francia era maggiore il rapporto tra spese militari e reddito nazionale: “relativamente alle risorse disponibili l’Italia spende per le commesse belliche cifre che sono superiori o molto vicine a quelle di nazioni come l’In­ghilterra, che ha un vasto Impero da control­lare, o la Francia e la Germania che, per le note ragioni politiche, dispongono degli eser­citi più potenti del mondo”11.

Tralasciando per ora ogni considerazione sugli effetti economici delle spese militari

6 Cfr. G. Rochat-G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano, cit., pp. 68-69.7 Cfr. ad es. Massimo Mazzetti, Recenti studi italiani di storia militare, in “Storia contemporanea”, 1970, n. 1.8 Non mancano casi di falsificazione dei dati: cfr. G. Rochat-G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano, cit.,pp. 82, 168.9 Cfr. Giuseppe Maione, L'imperialismo straccione. Classi sociali e finanza di guerra dall’impresa etiopica al con­flitto mondiale (1935-1943), Bologna, Il Mulino, 1979, pp. 54-55 e, per il metodo seguito, pp. 297-299.10 Cfr. a questo proposito le indicazioni di Giustino Fortunato, Il Mezzogiorno e lo Stato italiano, Firenze, Vallec­chi, 1926, vol. I, p. 338 e quelle, utili anche se riferite ad un contesto storico diverso, di Seymour Melman, Capitali­smo militare. Il ruolo del Pentagono nell’economìa americana, Torino, Einaudi, 1972 (ed. orig. New York, 1970), p. 243.11 G. Maione, L ’imperialismo straccione, cit., p. 55.

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in Italia, è opportuno descrivere brevemente in termini quantitativi la politica delle com­messe seguita dalle amministrazioni militari.

Come si vedrà, tra l’inizio del secolo e la prima guerra mondiale l’aumento delle com­messe alle industrie private fu l’effetto di due fattori concomitanti: diminuirono infatti le ordinazioni affidate all’estero — delineando­si anche in questo caso un processo di “sosti­tuzione delle importazioni” — e, allo stesso tempo, le crescenti commesse furono indiriz­zate in prevalenza verso le industrie private piuttosto che verso le unità produttive dipen­denti dai ministeri militari12.

Per quanto riguarda i settori destinatari delle commesse militari, l’esposizione finan­ziaria presentata dal ministro del Tesoro Te­desco alla Camera dei deputati nel dicembre del 1912 fornisce alcuni dati per i sette eserci­zi dal 1905-1906 al 1911-1912. Le tabelle 1 e 2 sono state ottenute raggruppando le voci se­condo il tipo di spesa e permettono alcune

considerazioni anche se il documento dà in­dicazioni abbastanza generiche sui materiali acquistati13.

Si può anzitutto osservare che le forniture militari, pari a lire 1.279.198.150 in sette anni, alle quali si sommarono nello stesso periodo quelle ferroviarie dopo la naziona­lizzazione del 1905, costituirono un fattore costante di stimolo per il sistema industria­le, la cui importanza risulta più chiara con­siderando che le commesse aumentarono anche dopo la crisi mondiale di carattere congiunturale del 1907, che ebbe conseguen­ze strutturali sul sistema economico ita­liano. Inoltre le imprese nazionali se ne assi­curarono una parte notevole (quasi l’87%) e, nel complesso, crescente, anche se dalle tabelle non emerge la dipendenza delle in­dustrie belliche italiane nei confronti di quelle straniere, dalle quali ottenevano spes­so brevetti, parti di armi ed assistenza tec­nica.

12 Nitti notò alla fine del secolo queste due tendenze sottolineando come gran parte delle somme messe a disposizio­ne delle amministrazioni militari venissero spese nelle regioni settentrionali, contribuendo così ad aggravare il diva­rio Nord-Sud. L’esercito, infatti, era concentrato nel bacino del Po e l’attività degli arsenali della marina al Sud era stata continuamente diminuita poiché lo Stato aveva preferito passare le commesse alle industrie ed ai cantieri con­centrati nelle regioni settentrionali. Per lo stesso motivo si poteva notare alla fine del secolo la diminuzione delle commesse alle industrie estere, con il risultato complessivo di un ulteriore stimolo alle attività produttive nelle regio­ni più sviluppate del paese. Diversi storici hanno utilizzato queste analisi, mentre per il periodo successivo mancano studi anche su questo aspetto delle spese militari (cfr. Francesco Saverio Nitti, II bilancio dello Stato dal 1862 al 1896-97, Napoli, Cooperativa tipografica, 1898, nuova ed. Bari, Laterza, 1958).13 Cfr. Atti parlamentari, Camera dei deputati, Discussioni, Leg. XXIII, 1“ Sessione, 7 dicembre 1912, allegati n. 17-18-19-20. La tabella n. 1 è ricavata raggruppando le 21 voci di spesa nel seguente modo: la colonna “truppe” com­prende: corredo alle truppe, pane per le truppe, casermaggio per le truppe; la colonna “animali” comprende: forag­gio pei cavalli dell’esercito, rimonta, acquisto quadrupedi per le mitragliatrici; la colonna “strade, ferrovie ed opere militari” comprende: lavori, strade, ferrovie ed opere militari, lavori a difesa delle coste, forti di sbarramento, co­struzione di nuovi fabbricati; la colonna “materiali vari” comprende: lavori di mantenimento immobili militari e ma­teriali mobili del genio, approvvigionamenti di mobilitazione, materiali per la brigata ferrovieri, materiale sanitario, Istituto geografico militare, spese per esigenze di servizio di mobilitazione; infine la colonna “armi” comprende: ma­teriali e stabilimenti d’artiglieria, armi portatili, fabbricazione di materiali d’artiglieria campale, artiglieria a difesa delle coste, armamento delle fortificazioni. La tabella n. 2 raggruppa invece in cinque colonne le seguenti otto voci: materiale sanitario, materiale idrografico e radiotelegrafico, corpo r. equipaggi-vestiario, corpo r. equipaggi-viveri, casermaggio, carbone ed altri combustibili, costruzioni navali, artiglieria ed armamenti e siluri. Giulio Scagnetti (La siderurgia in Italia, Roma, Ind. tip. romana, 1923, p. 200) e più recentemente Vera Zamagni (Industrializzazione e squilibri regionali in Italia. Bilancio dell’età giolittiana, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 65-66) hanno pubblicato i dati riassuntivi per ogni anno attribuendo però erroneamente tutte le commesse alle industrie metalmeccaniche. Entram­bi gli autori indicano come fonte “La Metallurgia Italiana” (a. V, n. 2, 23 febbraio 1913), che riporta, però, i dati presentati alla Camera dal ministro del Tesoro.

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Diversi erano i settori destinatari delle commesse per le due amministrazioni milita­ri: la composizione della spesa effettuata dal ministero della Guerra evidenzia la struttura di un esercito che privilegiava il numero piut­tosto che l’armamento dei soldati. Ciò era dovuto, oltre che alle dinamiche proprie non soltanto dell’apparato burocratico militare, da un lato al fatto che l’ordinamento e l’enti­tà degli organici erano stati concepiti per una politica di grande potenza, dall’altro ai com­piti attribuiti all’esercito in politica interna, dalla tutela dell’ordine pubblico al fianco delle forze di polizia al tentativo di controllo e di integrazione delle nuove generazioni con la diffusione di valori e comportamenti du­rante il servizio di leva. Le spese per “trup­pe” e “animali” assorbivano quasi il 60% del totale, mentre alle industrie meccaniche e si­derurgiche andava (oltre, forse, ad una per­centuale minima delle spese destinate a “stra­de, ferrovie ed opere militari”) soltanto una parte delle somme relative all’acquisto di “materiali vari” e di “armi” , che comprende­vano però anche la maggior percentuale delle spese effettuate all’estero14. In un’altra pro­spettiva si inseriva il ministero della Marina: a fianco, infatti, di una minore quota delle forniture riservata al personale (il 12,7%) e di un notevole onere derivante dal consumo di combustibili (pari al 13% del totale), tale amministrazione destinò oltre il 74% delle

commesse all’acquisto di materiali (si vedano le colonne 3, 4, 5 della Tabella 2) prodotti principalmente da industrie meccaniche e si­derurgiche e dalla cantieristica, i cui rapporti col ministero divennero più stretti a partire dalla fine del secolo.

La ricostruzione delle vicende dell’indu­stria bellica va affrontata nel contesto delle scelte di politica economica compiute a par­tire dagli anni ottanta dell’Ottocento. Fin dal primo ventennio post-unitario lo Stato operò in modo tale da modificare il tipo di sviluppo e le possibilità di accumulazione, attraverso una politica finanziaria caratte­rizzata dallo spostamento di risorse dall’a­gricoltura ad altri settori e dal ricorso al cre­dito estero15. Con gli anni ottanta, nell’am­bito degli affari in diversi modi garanti­ti dallo Stato — che costituirono un terreno di crescita per cospicui settori della borghe­sia — emersero alcuni sviluppi che diedero una nuova connotazione agli investimenti legati alla spesa pubblica. In campo indu­striale, infatti, insieme al sostegno di settori ormai consolidati come i cotonieri, furono attuate iniziative legate ai nuovi indirizzi di politica estera e finalizzate allo sviluppo di un’industria bellica nazionale, nel conte­sto delle crescenti pressioni per ottenere una politica protezionistica, maggiori com­messe per le imprese nazionali ed una politi­ca estera volta alla ricerca di più ampi mer-

14 Sul netto predominio delle spese “per il combattere” rispetto a quelle “per le armi” e “per l’ambiente” (fino al­la prima guerra mondiale) cfr. anche la tabella di Fulvio Zugaro riprodotta in Alberto Caracciolo, La crescila e la trasformazione della grande industria durante la prima guerra mondiale, in G. Fuà, Lo sviluppo economico in Italia, cit., voi. Ili, pp. 225-226. Il ruolo affidato all’esercito nella politica interna emerge dalle modalità stesse del reclutamento, mentre le commesse alle industrie produttrici di armi erano diminuite anche dagli sprechi buro­cratici; cfr. Epicarmo Corbino, Annali dell’economia italiana 1861-1914, Città di Castello, tip. Leonardo da Vin­ci, vol. V, 1938, pp. 12, 337-38; Giorgio Rochat, L ’esercito italiano nell’estate 1914, in “Nuova Rivista Storica”, 1961, n. 2; Commissione d ’inchiesta per l ’esercito, Roma, Tipografia delle Mantellate, 1908-1910, IV Relazione, pp. 179 sgg.; V Relazione, pp. 8 sgg.; V ili Relazione, pp. 237, 333-335 (d’ora in poi citata come Inch. Esercito, seguita dal numero della relazione — in tutto sono otto — e da quello della pagina).15 Cfr. Franco Bonelli, Il capitalismo italiano. Linee generali d ’interpretazione, in “Storia d’Italia”; Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 1202 sgg. e Giuliano Amato, L ’interesse pubblico e le atti­vità economiche private, in “Politica del diritto”, 1970, n. 3 e Id., Introduzione a Id. (a cura di), Il governo del­l ’industria in Italia, Bologna, Il Mulino, 1972.

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cati16. D’altra parte, la classe industriale era ancora debole dal punto di vista economico e scarsamente rappresentata nelle istituzioni e le scelte di politica economica furono finaliz­zate al rafforzamento dei principali gruppi privati più che ad una complessiva trasfor­mazione industriale del paese. Per compren­dere quindi la maturazione degli indirizzi di governo e le convergenze di interessi fra gruppi bancari ed industriali ed istanze nate all’interno dell’apparato statale, occorre far riferimento alle alleanze stabilite con altri gruppi sociali ed anzitutto con gli agrari, protagonisti della svolta protezionistica del 1887.

Altrettanta importanza deve essere inoltre attribuita al ruolo svolto dalla corona e dal ministero della Marina, interessati allo svi­luppo dell’industria degli armamenti in quanto fattore condizionante la politica di potenza17. Le prerogative statutarie, infatti, garantendo un’influenza diretta, anche se non esclusiva, sulla politica estera e su quella militare — in un paese legato all’afflusso di capitali e di tecnologie straniere ed in cui le spese militari erano una delle principali usci­te del bilancio statale — assicurarono alla monarchia la possibilità di incidere sullo svi­luppo dei settori legati alla produzione di ar­mamenti. Tuttavia è stata riservata un’insuf­ficiente attenzione al ruolo della corona, alle strategie dei diversi centri di potere nei con­fronti dello sviluppo economico, nonché al­l’attuazione delle direttive da parte di appa­

rati burocratici spesso concepiti e strutturati in funzione di compiti più limitati. Occorre­rebbe quindi considerare in che misura e con quali conseguenze la monarchia e le ammini­strazioni militari continuarono ad esercitare il proprio potere pur nel mutare degli equili­bri economici e politici, in particolare dopo la svolta che si registrò col nuovo secolo.

Si può anzitutto notare che, come era ac­caduto dopo la sconfitta di Adua, quando Umberto I, pur dovendo accettare una svolta in politica estera in senso contrario alle av­venture coloniali e di riavvicinamento alla Francia, aveva difeso il livello delle spese mi­litari, anche all’inizio del secolo la corona af­fermò il proprio potere ottenendo l’assicura­zione di non intaccare le tradizionali prero­gative delle forze armate: “Vittorio Emanua- le [pose] come condizione esplicita per la chiamata al governo di Zanardelli e Giolit- ti... un preciso impegno a non ridurre le spe­se militari né gli organici e la conferma dei ministri della Guerra e della Marina del pre­cedente governo, in modo da sottolineare clamorosamente che la continuità della poli­tica militare non poteva essere condizionata dalle vicende parlamentari”18. L’impermea­bilità delle istituzioni militari ai mutamenti politici è anche confermata da altri elementi. Zanardelli tentò, con il decreto del 14 no­vembre 1901 n. 466, di rafforzare il nuovo corso politico estendendo i poteri del Consi­glio dei ministri in alcuni campi tradizional­mente di competenza della corona, “per in-

16 Cfr. Luigi De Rosa, Economia e nazionalismo in Italia (1861-1914), in Rudolf Lill-Franco Vaisecchi (a cura di), Il nazionalismo in Italia e in Germania fino alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 269-305.11 L’emergere dell’industrializzazione come “imperativo politico” connesso alla politica di potenza risale al pe­riodo immediatamente successivo alla rivoluzione industriale: cfr. David S. Landes, Cambiamenti tecnologici e sviluppo industriale nell’Europa occidentale, 1750-1914, in “Storia economica Cambridge”, vol. VI, t. I; La ri­voluzione industriale e i suoi sviluppi, Torino, Einaudi, 1974, pp. 397-398. Cfr. inoltre Enrico Guaita, Alle origi­ni del capitalismo industriale italiano: la nascita della “Terni", in “Studi storici” , 1970, n. 2; Valeria Sgambati, Il ruolo dello Stato nella fondazione della “Terni”: Benedetto Brin e la politica del riarmo in Italia, in “Anna­li della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Napoli” , vol. XIX, n.s., Vili (1977-1978), pp. 337- 362; Franco Bonelli, Lo sviluppo di una grande impresa in Italia. La Terni dal 1884 al 1962, Torino, Einaudi, 1975.18 G. Rochat-G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano, cit., p. 151.

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frangere l’assetto costituzionale che aveva reso possibile il conato reazionario di fine se­colo”19. I risultati furono però soltanto par­ziali, in quanto, come ha sottolineato Ragio­nieri, “l’estensione dei poteri del Consiglio dei ministri, se limitò l’interferenza quotidia­na della monarchia nella direzione della vita politica del paese, non ne eliminò le preroga­tive sui campi di competenza che aveva accu­mulato per lunga tradizione, come la politica estera e militare”20. Se, inoltre, il decreto sanciva il rafforzamento dell’autorità del presidente nei confronti del Consiglio dei mi­nistri21, nel corso dell’età giolittiana successi­vi decreti ampliarono le competenze del capo di stato maggiore dell’esercito e un’analoga trasformazione avvenne nel ministero della Marina, contribuendo così a sottrarre le isti­tuzioni militari al controllo dei rispettivi mi­nistri. E neppure le due commissioni d’in­chiesta (quella sulla marina fu istituita nel 1904 e quella sull’esercito nel 1907) e la no­mina di un ministro della Guerra non appar­tenente all’esercito servirono ad estendere il controllo parlamentare22. Più in generale, si è sottolineato che nell’età del decollo indu­striale importanti interessi economici soste­

nuti dallo Stato fin dagli ultimi decenni del­l’Ottocento attuarono una strategia tendente “a sottrarsi al controllo parlamentare e a sta­bilire un contatto diretto con gli organi del­l’Esecutivo, con la burocrazia” , rendendo sempre più rilevante “una seconda forma di direzione sul paese, accanto a quella tradi­zionale del parlamento”23.

Nella nuova situazione determinatasi con il decollo industriale, durante il quale la pro­mozione statale dei nuovi settori non com­portò la messa in discussione dell’appoggio a quelli più tradizionali, gli interessi industria­li, finanziari e commerciali più legati ai setto­ri dinamici dell’economia non aumentarono la propria rappresentanza nella compagine governativa e nel Parlamento24, attuando pe­rò al tempo stesso un crescente condiziona­mento dell’azione statale, fino alla scelta di campo e alla definizione dei limiti dell’inter­vento pubblico alla vigilia dell’entrata in guerra, entrambe largamente corrispondenti ai propri disegni espansionistici25. Così i rap­porti che si instaurarono tra Stato ed indu­stria attraverso le amministrazioni militari possono divenire un momento importante nella valutazione della strategia di Giolitti,

19 E. Ragionieri, cit., p. 1874. Sull’importanza del decreto cfr. anche Ettore Roteili, La presidenza de! consiglio dei ministri. Il problema del coordinamento dell'amministrazione centrale in Italia (1848-1948), Milano, Giuffrè, 1972, pp. 191 sgg.20 E. Ragionieri, cit., p. 1875.21 Cfr. E. Roteili, cit., pp. 208-209.22 Cfr. G. Rochat-G. Massobrio, Breve storia dell’esercito italiano, cit., pp. 149-172; Fabrizio Battistelli, Parlamen­to, governo e amministrazione: il caso del Ministero della Difesa italiano, dattiloscritto presentato al convegno II po­tere militare nelle società contemporanee, Torino, 12-16 dicembre 1983.23 Cfr. Giampiero Carocci (a cura di), Il Parlamento nella storia d ’Italia. Antologia storica della classe politica, Ba­ri, Laterza, 1964, p. IX; ed inoltre Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, voi. VII, La crisi di fine secolo e l ’età giolittiana 1896-1914, Milano, Feltrinelli, 1981 (1a ed. 1974), pp. 12, 16; Nicola Tranfaglia, Il deperimento del­lo stato liberale in Italia, in “Quaderni storici”, 1972, n. 20, ripubblicato in Id., Dallo stato liberale al regime fasci­sta. Problemi e ricerche, Milano, Feltrinelli, 1976, pp. 34-52.24 Le conclusioni di Farneti, come indica lo stesso autore, andrebbero tuttavia confermate da ricerche condotte in più direzioni: Paolo Farneti, Sistema politico e società civile. Saggi di teoria e ricerca politica, Torino, Giappichelli, 1971, pp. 179-191, 221 sgg., 249 sgg. Cfr. inoltre N. Tranfaglia, Dallo stato liberate..., cit., pp. 38 sgg.25 E. Ragionieri, La storia politica e sociale, cit., pp. 1962 sgg. e Luciano Segreto, Statalismo e antistatalismo nell’e­conomia bellica. Gli industriali e la Mobilitazione Industriale (1915-1918), in Peter Hertner-Giorgio Mori (a cura di), La transizione dall’economia di guerra all’economia di pace in Italia e in Germania dopo la prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1983, pp. 301-334.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 119

attuata attraverso l’ampliamento delle fun­zioni e lo stretto controllo di un’amministra­zione più indipendente rispetto al Parlamen­to26. In questo senso la politica di riarmo, spesso messa in secondo piano nell’interpre­tazione del periodo, trova la propria colloca­zione in rapporto alle scelte più complessive attuate dalla classe dirigente ed al contesto costituzionale (e si deve notare a questo pro­posito la mancanza di uno studio esauriente sui rapporti tra Giolitti e la corona, dalla qua­le dipendeva in buona misura la possibilità di controllare le amministrazioni militari). Le commesse belliche, decisive nello sviluppo di molte grandi imprese, erano d’altra parte connesse a quella ridefinizione — finalizzata anche alla ricerca di nuovi mercati per l’indu­stria — degli obiettivi di politica estera che si ebbe a partire dai primi anni del secolo. Non a caso è in questo periodo che vasti strati della borghesia abbandonarono l’opposizione tenu­ta à fine secolo nei confronti del colonialismo e delle spese militari, la cui entità contribuì al­l’abbandono di un punto qualificante del pro­

gramma giolittiano come la riforma tributa­ria27, peraltro resa meno urgente dal mutamen­to della situazione economica complessiva.

Lo spostamento del potere decisionale nel­le mani di ristretti gruppi industriali e finan­ziari legati alla burocrazia statale fu quindi accentuato dal riarmo e, in particolare, dalla guerra di Libia, occasione per un aumento delle commesse militari (con il consueto co­rollario di frodi ai danni dello Stato28): du­rante la guerra, nel gennaio 191229, fu istitui­ta presso il ministero del Tesoro una com­missione consultiva “allo scopo di predispor­re piani coordinati degli approvvigionamenti che occorrono alle amministrazioni dello Stato e si possono affidare all’industria na­zionale”30. L’obiettivo esplicito era di distri­buire opportunamente le commesse nel tem­po (molti industriali ne lamentavano, infatti, la discontinuità31 32) e nelle diverse regioni (ma ciò era impossibile data la distribuzione delle industrie sul territorio nazionale), concen­trandole soprattutto nei periodi di crisi, in analogia all’azione svolta dal ministero dei

26 Va tuttavia tenuto presente che “la genesi e la natura” della maggioranza parlamentare “attenuano il rilievo della discussione sul punto se l’età giolittiana segni l’affermazione del Parlamento ovvero la sua subordinazione al gover­no e alla amministrazione”: cfr. Ettore Roteili, Governo e amministrazione nell’età giolittiana-, in Id., Costituzione e amministrazione dell’Italia unita, Bologna, Il Mulino, 1981, p. 94.27 Cfr. R. A. Webster, L ’imperialismo industriale italiano, cit., p. 6.28 Cfr. ad. es. Guido Valabrega, Il servizio trasporti e tappe nella guerra libica (1911-1912), in “Africa. Rivista tri­mestrale di studi e documentazione dell’Istituto Italo-Africano”, 1984, n. 3. L’articolo documenta, oltre alle diffi­coltà nelle operazioni militari conseguenti al modo sommario nel quale venne organizzata la spedizione, gli alti gua­dagni che diverse imprese fornitrici delle forze armate riuscirono ad assicurarsi, vanificando gli sforzi degli ufficiali che tentavano di difendere gli interessi dell’amministrazione.29 Cfr. il R.D. 18 gennaio 1912, n. 56.30 Ivi, art. 1.31 Cfr. R. Bachi, cit., pp. 205-206 e, per i problemi creati dalla forte variazione annua delle commesse, Giorgio Pe- drocco, Le origini della moderna Navalmeccanica, in Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, La classe operaia durante il fascismo, Annali, a. XX; 1979-1980, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 957 e La Società italiana Ernesto Breda per co­struzioni meccaniche dalle sue origini ad oggi 1886-1936, Milano-Verona, Mondadori, 1936, pp. 22 sgg. Nel 1887 una commissione di tecnici segnalò al governo l’idoneità dell’impresa alla fabbricazione di proiettili, mentre l’indagi­ne condotta presso altre industrie meccaniche diede risultati negativi. Così il ministero della Guerra affidò la fornitu­ra di tutti i proiettili di cui aveva bisogno alla Breda che, come altre imprese meccaniche, anche in seguito ebbe come importante cliente le forze armate (cfr. ivi, pp. 11 sgg.).32 Sull’opera della commissione cfr. Riccardo Bachi, L ’Italia economica nel 1913, in “La Riforma Sociale”, supple­mento, 1914, p. 228. Agnelli nel settembre del 1912 entrò a far parte del Comitato per i rapporti con la R. Commis­sione per gli approvvigionamenti dello Stato (cfr. Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli, Torino, UTET, 1971, p. 80).

120 Paolo Ferrari

Lavori pubblici32. Il primo articolo del decre­to istitutivo, inoltre, garantiva speciali diritti ai ministeri militari: tra gli incarichi della commissione vi era, infatti, quello di “istrui­re sulle questioni che, a tenore delle disposi­zioni vigenti, richiedano deliberazioni del Consiglio dei ministri, salvo per gli acquisti occorrenti ai Ministeri della guerra e della marina ed aventi carattere di speciale urgen­za e di segretezza per la difesa dello Stato” .

Dai risultati delle due inchieste parlamen­tari alle quali si è accennato, si possono rica­vare elementi interessanti sulle procedure correnti in tali amministrazioni tra la fine del secolo e l’età giolittiana. Al contrario, i bi­lanci dei ministeri erano compilati in modo tale da non fornire, al di là dei dati comples­sivi nemmeno sempre attendibili33, che poche notizie sulla destinazione delle somme messe a disposizione dal Parlamento34. Oltre che nei confronti di quest’ultimo, tuttavia, l’au­tonomia nella gestione delle commesse era difesa anche nei confronti degli organi con­sultivi. Per il ministero della Marina le leggi e il regolamento di contabilità nazionale35 sta­bilivano sia la procedura da seguire per l’ag­giudicazione delle forniture, sia il ruolo dei “consessi consultivi o di riscontro” interni all’amministrazione ed esterni ad essa. Tut­

tavia tali disposizioni restavano spesso inos­servate: si ricorreva a tale scopo a vari espe­dienti, ai quali può essere utile accennare, o alla semplice violazione delle leggi. Venivano utilizzate come pretesto le possibilità di dero­ga previste nei casi di eccezionale urgenza36 e si abusava nell’uso di mandati di anticipazio­ne37. In altri casi i contratti erano modificati mentre ne era in corso l’esecuzione38 e si va­riavano i prezzi senza che fossero state intro­dotte modifiche nei materiali ordinati39 (a questo proposito va tenuto presente che vi erano contratti che prevedevano la revisione dei prezzi e che a volte i materiali ordinati di­venivano obsoleti prima che ne fosse iniziata la produzione). Accadeva inoltre che le mul­te non venissero previste nei contratti o fos­sero condonate40. La clausola del “quinto fa­coltativo” (che stabiliva la possibilità di estendere di 1/5 l’acquisto dei materiali pre­visti dai contratti) era utilizzata per oggetti diversi da quelli compresi nelle commesse originarie, evitando così ogni forma di con­trollo (le somme spese come quinto facoltati­vo per i soli cannoni prodotti dall’Armstrong tra il 1885 ed il 1905 ammontarono a lire 5.7 3 3.7 1 541). Spesso poi si ricorreva al fra­zionamento degli appalti per non superare l’importo oltre il quale la legge richiedeva il

33 Cfr. ad es. G. Rochat-G. Massobrio, Breve storia dell’esercito..., cit., p. 162; E. Corbino, Annali..., cit., p. 358. Sulla maggiore consistenza delle spese militari rispetto a quanto indicato nei bilanci cfr. anche le osservazioni di L. De Rosa in ministero della Difesa, cit., p. 226.34 Confondere spese diverse negli stessi capitoli rendeva assai difficile trarre indicazioni utili al loro controllo: cfr. Commissione di inchiesta sulla R. Marina, Roma, Bertero e C., 1906, voi. Ili, p. 6; vol. I, pp. 300-301, 307 sgg.. (d’ora in poi citata come Inch. Marina, seguita dal numero del volume e della pagina). La stessa amministrazione am­metteva l’inclusione nel consuntivo di cifre che si sapevano sbagliate e l’utilizzo di somme oltre i limiti posti dalla leg­ge di bilancio. Da ciò le proposte di riforma: cfr. ivi, III, pp. 1-7, 10-12, 18-19, 30. I dati presentati al Parlamento si fondavano su di una contabilità poco attendibile: ivi, I, pp. 264 sgg.; 297-307, 366-367, 398-399, 401-404. Sulla scarsa utilità del bilancio del ministero della Guerra ai fini del controllo parlamentare cfr. Inch. Esercito, IV, p. 160-67.35 Cfr. Inch. Marina, I, pp. 96-97; II, p. 1.36 Di solito, infatti, i corpi consultivi deliberavano con rapidità, mentre i ritardi erano per lo più imputabili ai forni­tori: cfr. ivi, I, pp. 110-111, 361-364; II, pp. 163-164, 166-168.37 Ivi, III, pp. 19-20,30-31.38 Ivi, I, pp. 107-108, 155-156, 163.39 Ivi, II, pp. 38-40, 42-43, 159, 176-177.40 Ivi, I, pp. 35-36, 38, 155, 166-171.41 Ivi, I, pp. 108-110, 115; II, pp. 161-163.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 121

parere del Consiglio di stato e, per lo stesso motivo, si elevava il limite per gli acquisti in economia42. Accadeva inoltre che l’ammini­strazione procedesse a distribuire le commes­se prima dell’approvazione dei relativi con­tratti43. Nel complesso, quindi, si osservava come fosse “dominante nella gestione relati­va alle forniture delle artiglierie, e non in quella sola, cotesta tendenza ad eliminare l’intervento dei corpi consultivi voluti dalla legge, a sottrarvisi in tutti i modi, sia eluden­do la legge ed i regolamenti, sia violandoli addirittura, quasiché l’opposizione d’interes­se non fosse fra lo Stato ed i suoi fornitori, ma fra l’Amministrazione della marina e i corpi consultivi, anche quando questi sono nel suo seno...”44. Né molto diversa era la si­tuazione nel ministero della Guerra45. Il mancato rispetto delle leggi e dei regolamen­ti, 1’esistenza di “un preconcetto sfavorevole ai procedimenti consuetudinari di una pub­blica azienda” e “l’isolamento dal Parlamen­to nel quale l’Amministrazione della marina si [era] costantemente mantenuta nel prende­re le sue risoluzioni”46, permettevano una ge­stione più autonoma delle commesse, deter­minanti nella fondazione di industrie come la Terni e l’Armstrong di Pozzuoli. Al contem­po, però, tale situazione accentuava la possi­

bilità di favoritismi ai danni della commit­tenza pubblica e, in generale, l’efficacia delle pressioni dei fornitori, incoraggiati così a stabilire contatti diretti con la burocrazia sta­tale.

Da questo punto di vista le norme intro­dotte all’inizio del conflitto mondiale non costituirono una svolta in senso assoluto nel funzionamento delle amministrazioni milita­ri. Il decreto del 4 agosto 1914 n. 770, proro­gato per tutta la guerra — e secondo il quale “per le provviste e le lavorazioni di generi e materiali, per l’acquisto e noleggio dei mezzi di trasporto e per l’imbarco e sbarco di mate­riali occorrenti d’urgenza in vista degli avve­nimenti internazionali, le Amministrazioni della guerra e della marina sono autorizzate a derogare da oggi fino al 31 ottobre 1914 al­le norme stabilite dalla legge di contabilità generale dello Stato e dal relativo regolamen­to, provvedendo mediante licitazione o trat­tativa privata o ad economia”47 — era infatti in continuità con gli orientamenti già presen­ti nel periodo precedente.

Nell’età giolittiana le industrie belliche tentarono in molti modi di influenzare la po­litica delle commesse. A questo proposito oc­correrebbe prestare maggiore attenzione al ruolo del personale dei ministeri militari in-

42 Ivi, I, pp. 108-109; II, pp. 2; 23-24, 161.43 Ivi, II, pp. 33-35, 160, 353-54. Sulle gestioni (come le officine dipendenti dalla marina) che si sottraevano ad ogni controllo, cfr. Ili, pp. 7-8, 33-38, 42-43, 50-72. Sui casi di recupero dei danni subiti dall’amministrazione effettuato senza interpellare la Corte dei Conti, cfr. ivi, III, pp. 21-28. La commissione d’inchiesta si dichiarò a favore d’una ri­forma delle leggi riguardanti la materia, per uno snellimento delle procedure e l’attribuzione di più ampi poteri alle autorità dipartimentali, sottolineando tuttavia la necessità di assicurare il rispetto delle leggi (ivi, I, pp. 97, 101, 115, 364-366, 369-371; II, pp. 1-2, 32, 58; III, pp. 45, 71-78, 235-236), in una situazione nella quale “i grossi fornitori e le Ditte più importanti trova[va]no presso il Ministero più facile ascolto e maggiore benevolenza che non i piccoli forni­tori” (II, p. 37).44 Ivi, I, p. 155.45 La Commissione parlamentare d’inchiesta sull’esercito, pur sottolineando la necessità di una riforma dei servizi amministrativi che ne snellisse il funzionamento (Inch. Esercito, V ili, pp. 136, 179 sgg., 334), denunciò la violazione delle procedure prescritte dalla legge (VI, pp. 86-88; 92, 109 sgg.; V ili, pp. 110, 133, 136-150). Sui principali metodi utilizzati, cfr. V ili, pp. 111-128.46 Inch. Marina, II, p. 192 e I, p. 134; cfr. anche II, pp. 15-18, 270,1, pp. 358-369.47 Su questo R.D. cfr. Camera dei deputati, Relazioni della Commissione parlamentare d ’inchiesta per le spese di guerra, Roma, Tipografia Camera dei deputati, 1923, vol. I, pp. 23, 475-476; vol. II, p. 65 (d’ora in poi citata come Inch. Spese, seguita dal numero del volume e della pagina).

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caricato di organizzare la produzione o, più in generale, di trattare con i fornitori48. Fre­quente era infatti il passaggio di ufficiali ad imprese legate da rapporti di affari con i mi­nisteri. Per valutare l’incidenza di questi fe­nomeni e stabilire se si tratti di episodi isolati oppure di un canale di influenza delle indu­

strie sulle amministrazioni militari, occorre­rebbero indagini empiriche del tipo di quelle disponibili per altri paesi49. Numerosi ele­menti50, tuttavia, fanno propendere per la se­conda ipotesi; eloquenti sono anche alcuni documenti raccolti dalla Commissione parla­mentare d’inchiesta sulla marina51, che mo-

48 Cfr. R.A. Webster, L ’imperialismo industriale italiano, cit., p. 8.49 Fabrizio Battistelli, Il complesso militare-industriale e il caso Italia. Cenni storici ed evidenze empiriche, in “La Critica Sociologica”, luglio-ottobre 1980, p. 67.50 In diverse pubblicazioni vi sono accenni al passaggio di dipendenti, in particolar modo tecnici, delle amministra­zioni militari ad imprese fornitrici delle forze armate. Per la Terni cfr. Inch. Marina, II, p. 240 e F. Bonelli, Lo svi­luppo, cit., pp. 92-93, 96. Per la Società Nazionale d’industrie Meccaniche, cfr. Luigi De Rosa, Iniziativa e capitale straniero nell'industria metalmeccanica del Mezzogiorno 1840-1904, Napoli, Giannini, 1968, p. 96. Per la Galileo cfr. Antonio Fossati, Lavoro e produzione in Italia dal secolo X V III alla seconda guerra mondiale, Torino, Giappi­chelli, 1951, pp. 425-26 e Giuliano Procacci-Giovanni Rindi, Storia di una fabbrica - Le “Officine Galileo ” di Firen­ze, in “Movimento operaio”, gennaio-febbraio 1954, p. 10. Cfr. inoltre Inch. Marina, I, pp. 230 sgg., 314, 390 sgg.; li, pp. 28, 152, 157. Fenomeni di corruzione e favoritismi si verificarono durante la guerra (si veda ad es. Inch. Spe­se, I, pp. 304-306, 509 sgg.; Il, pp. 34-37, 48-49, 58, 71-75, 87), facilitati dalla particolare situazione in cui avveniva­no le forniture, ma non erano sconosciuti nel periodo precedente. Un esempio fra i tanti: il capitano Bethel Abiel Re­velli collaborò con diverse ditte all’invenzione ed alla realizzazione di armi portatili di cui era poi chiesta l’adozione al ministero della Guerra dove egli poteva sfruttare il proprio incarico. La Fiat, ad es., acquistò la mitragliatrice au­tomatica di sua invenzione chiedendo quindi di presentarla al ministero. L’arma venne così esaminata dall’Ispettora­to delle costruzioni al quale era addetto lo stesso Revelli che prese parte alle trattative. Inoltre l’Ispettorato fece fare degli studi per perfezionare Tarma in uno stabilimento militare a spese del bilancio della guerra, mentre un diverso trattamento fu riservato alla mitragliatrice presentata dal capo tecnico d’artiglieria Perino. Cfr. Inch. Esercito, VI, pp. 117-125.51 Cfr. Archivio della Camera dei Deputati (Roma), Inchiesta Marina Militare, 28, Corazze e cannoni, Documen­ti-Cannoni dal n. 1 al 277, documenti nn. 6, 7, 8, 9. Il doc. n. 6 è un elenco di 17 ufficiali di vascello che, dopo aver lasciato la marina, passarono al servizio (come rappresentanti o con altri incarichi) di imprese private, in gran parte legate alle forniture militari (tra le quali TAnsaldo-Armstrong, il silurificio Schwartzkopff, la Metallurgica Brescia­na, la Maxim e la Fiat-Muggiano). Il doc. n. 7 riguarda il contrammiraglio Augusto Albini, il capitano di vascello Roberto De Luca e il tenente di vascello Michelangelo Cattori, i quali passarono al servizio della Armstrong dopo aver ricoperto incarichi d’importanza “strategica” nella distribuzione delle commesse militari. Albini al ministero della Marina era stato Direttore Generale di Artiglieria ed Armamenti (dal 1873 al 1885) e quindi Capo dell’Ufficio di stato maggiore fino al 1886; De Luca era stato comandato alla stessa Direzione Generale (ove restò tra il 1882 ed il 1886), della quale fu Capo Divisione tra il 1886 ed il 1887; Cattori, infine, aveva svolto diversi incarichi — tra i quali quello di segretario del ministro della Marina Acton dal 1879 al 1882 — prima di entrare al servizio di varie imprese oltre alla Armstrong. I documenti n. 8 e n. 9, infine, riguardano l’attività di 13 ufficiali ingegneri nel quinquennio precedente il loro passaggio (ad eccezione di uno che si dedicò all’insegnamento) ad incarichi — spesso direttivi, co­me si vedrà — in imprese private interessate agli stessi settori produttivi ai quali essi erano stati addetti all’interno del ministero. Il documento n. 8 indica la provenienza di tre direttori generali della Terni: Giuseppe Melisburgo, prima di dimettersi dalla marina nel 1890, era stato in missione in Francia presso lo Stabilimento Schneider e quindi a Terni presso lo stabilimento siderurgico. Ippolito Sigismondi, a riposo dal 1895, era stato Direttore delle Costruzioni Na­vali dell’arsenale di La Spezia e Direttore Generale delle Costruzioni Navali al ministero; Raffaele Bettini, dimessosi nel 1898, era stato Capo dell’Ufficio tecnico della marina a Terni dal 1893 al 1897, Vicedirettore delle Costruzioni dell’arsenale di La Spezia e Direttore delle Costruzioni di quello di Taranto. Due direttori della Ansaldo, Armstrong & C., Naborre Soliani e Baldovino Bigliati, avevano in precedenza svolto i seguenti incarichi: il primo era stato Sot­todirettore delle Costruzioni Navali nel cantiere di Castellamare; venne poi destinato presso il ministero al Comitato per i disegni delle navi e si dimise nel 1898; il secondo aveva svolto vari incarichi tra i quali una missione in Inghilter­ra ed era stato Sottodirettore delle Costruzioni Navali nel cantiere di Castellamare, prima di essere collocato a riposo nel 1887. Allo stabilimento Ansaldo di Sestri Ponente andarono Giacomo Petrini e Francesco Paolo Iacobitti. Il

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 123

strano come le industrie belliche abbiano rappresentato un punto d’arrivo per medi e alti ufficiali ed ufficiali ingegneri che si erano occupati da posti di responsabilità della pro­gettazione e della produzione di materiali (nei cantieri navali militari) oppure della di­stribuzione e dei collaudi delle forniture. A proposito di questi “percorsi professionali” , che suggeriscono inoltre l’utilità di studi sul contributo della burocrazia tecnica statale al­lo sviluppo industriale52, può ritenersi ridut­tivo parlare genericamente di corruzione: il fenomeno era tanto diffuso che il ministero della Marina dovette esplicitamente vietare (il 3 novembre 1903) “agli ufficiali in servizio ausiliario di esercitare gli uffici di direttore amministrativo o rappresentante di Società industriali o commerciali che abbiano rappor­

ti con la R. Marina, come pure di agire in ta­le qualità per conto di privati industriali o commercianti che si trovino in tali condizio­ni”53. Assumere ex-militari che in precedenza si erano occupati dell’acquisto o della produ­zione di armamenti significava per l’indu­stria avere a disposizione del personale al corrente delle caratteristiche dei materiali ri­chiesti dalle amministrazioni militari. Inoltre gli ex-ufficiali avevano una conoscenza “dal­l’interno” della struttura pubblica e poteva­no avere importanti rapporti personali; né si può escludere che in molti agisse la consape­volezza che un’accorta condotta avrebbe po­tuto portare a buone posizioni nell’industria privata, che attraeva anche per le migliori condizioni che generalmente era in grado di offrire54.

primo, dimessosi nel 1888, aveva svolto la propria attività nel cantiere di Castellamare, nell’arsenale di Napoli ed in quello di La Spezia, oltre ad essere stato incaricato di varie missioni. Il secondo, dimessosi nel 1889, era stato impiegato nel 2° Dipartimento Marittimo. Giuseppe Manaira, dimessosi nel 1883, divenne Direttore del Cantiere Navale a Muggiano dopo essere stato impiegato dalla marina nell’arsenale di La Spezia. Giovanni Mi- gliardi, oltre ad aver svolto altri incarichi, era stato assegnato agli arsenali di Napoli e di Venezia, al cantiere di Castellamare ed al Comitato per i disegni delle navi al ministero. Dopo le dimissioni, nel 1882, lavorò presso lo Stabilimento di Costruzioni Meccaniche Migliardi e Venè (Savona). Enrico Ruffini, dopo essere stato destinato agli arsenali di La Spezia e Venezia ed all’Accademia Navale di Livorno, si dimise nel 1904 ed entrò alle dipen­denze della Società Officine e Cantieri Napoletani Pattison. Luigi Quarleri, dopo esser stato destinato all’arse­nale di La Spezia e all’Accademia Navale, si dimise nel 1905 e prestò la propria attività nell’Officina Esercizio Bacini (Genova). Vittorio Malfatti, destinato al Ministero dal 1899 al 1906, si dimise in quell’anno ed entrò alle dipendenze della filiale di Napoli delle Officine meccaniche di Milano. Come si è detto, infine, soltanto un uf­ficiale ingegnere (Angelo Scribanti) dopo le dimissioni nel 1901 si dedicò all’insegnamento alla R. Scuola navale superiore di Genova.52 Come si vedrà, furono di vario tipo i rapporti tra le imprese private e le unità produttive dipendenti dalle ammini­strazioni militari. Il problema è connesso allo studio dei processi di “spin-off” , dell’impiego cioè a scopi “civili” di prodotti e di tecnologie destinati in origine ad usi bellici.53 II testo continuava stabilendo “per accettare qualunque altro impiego industriale o commeciale, gli ufficiali in ser­vizio ausiliario dovranno avere l’autorizzazione preventiva del Ministero” (cfr. Inch. Marina, I, pp. 104, 114-115). Sui rapporti tra personale politico, militare e industrie belliche si veda anche K. Liebknecht, Contro l ’Internaziona­le..., cit., p. 231 e William H. McNeil, Caccia a!potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Milano, Feltrinelli, 1984 (ed. orig. 1982), pp. 185 sgg. Dal capitolo relativo all’“intensificarsi dell’interazione fra mondo in­dustriale e mondo militare (1884-1914)” emergono diversi punti in comune con le vicende di altri paesi industrializza­ti, dagli stretti rapporti che si stabilirono tra ufficiali della marina (e più in generale amministrazioni militari) e indu- sriali fornitori, al crescente ruolo delle industrie belliche (le principali delle quali ebbero, rispetto alla maggior parte di quelle italiane, un legame più stretto con il mercato internazionale) sia nelle economie dei diversi Stati, sia rispetto agli arsenali statali. Le nuove tecnologie per la produzione dell’acciaio, infatti, contribuirono a confinare questi ulti­mi alle lavorazioni più tradizionali, mentre per dotarli dei macchinari più moderni sarebbero stati necessari enormi investimenti.54 Cfr. Inch. Marina, I, pp. 53, 349; Inch. Esercito, p. 34.

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Per quanto si può dedurre dalla stampa e dalle discussioni del Consiglio dell’industria e del commercio55, gli industriali non erano soddisfatti della gestione delle commesse mi­litari. Le loro richieste riguardavano anzitut­to una maggior protezione per le imprese na­zionali (spesso, a questo proposito, veniva indicata ad esempio la politica degli acquisti delle Ferrovie dello stato), anche se da tempo i due ministeri interessati si stavano muoven­do in questa direzione. La difesa nei con­fronti delle industrie straniere doveva anche servire ad annullare una serie di vantaggi di cui queste potevano usufruire, come la possi­bilità di sfuggire a varie imposte e controlli56. Alcune, per partecipare a gare riservate alle industrie italiane, ricorrevano alla creazione di filiali, continuando però ad effettuare al­l’estero una parte considerevole della produ­zione. Inoltre i rappresentanti di note indu­strie estere offrivano anche i prodotti — in­feriori per qualità e prezzo — di imprese mi­nori in gare dalle quali queste ultime erano state escluse. Gli industriali avanzarono nu­merose altre richieste per ottenere una mag­

giore tutela dei propri interessi attraverso sia una unificazione delle disposizioni riguardanti le commesse pubbliche, sia la modifica delle procedure (per esempio si chiedeva che fossero eliminati i ritardi nei pagamenti e che i collaudi fossero compiuti rapidamente, da personale più competente ed in presenza dei fornitori) o di specifiche norme contrattuali57.

Da tutto questo non si deve però conclude­re che lo Stato fosse uno strenuo difensore dei propri interessi, poiché le stesse carenze organizzative degli apparati burocratici più che danneggiare i fornitori contribuivano ad indebolire lo Stato nei loro confronti58. L’in­teresse diretto alle sorti di molte industrie de­stinatarie delle commesse rendeva anomalo il rapporto che si instaurava tra “venditore” e “cliente”; inoltre ciò contribuiva a spostare la concorrenza tra le imprese dal terreno tecnolo- gico-produttivo verso quello dei rapporti sta­biliti con il governo e l’amministrazione.

Volendo formulare un giudizio complessi­vo sul ruolo delle spese militari nel sistema economico, non si traggono molti suggeri­menti utili dalla storiografia59. Il lavoro cri-

55 Cfr. “La Finanza Italiana”, 23 e 30 marzo, 13 e 20 aprile, 21 settembre e 2 novembre 1912; Ministero di Agricoltu­ra, industria e commercio, Annali dell’industria e del commercio, Roma, Bertero e C., 1910, 1911, 1912-13, 1914. Alle discussioni del consiglio partecipavano i rappresentanti di vari rami dell’amministrazione statale e di diversi set­tori del mondo economico. Severino Casana ne divenne presidente nel gennaio 1907, nello stesso anno in cui Giolitti lo nominò membro della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’esercito e ministro della Guerra (era la prima volta che non occupava tale carica un militare). Casana, che aveva avuto la possibilità di conoscere dall’interno il mi­nistero della Guerra, entrava così in un consiglio, di cui fu riconfermato presidente nel 1910, nel quale erano rappre­sentati gli industriali interessati ad una revisione dei rapporti con le amministrazioni pubbliche. Sarebbe quindi inte­ressante approfondire questa parte dell’attività politica di Casana, nel contesto dei suoi rapporti con il mondo degli affari e le amministrazioni militari (cfr. Paola Casana Testore, Un notabile della terza Italia, in “Nuova Antologia”, aprile-giugno 1980, pp. 162-178 e ottobre-dicembre 1980, pp. 276-298).56 Cfr. ad es. Emmanuel Chadeau, L ’industria aeronautica francese e la politica interalleata, in “Italia contempora­nea”, 1982, n. 146-147,p. 122.57 Ministero di agricoltura, industria e commercio, cit., Roma, 1912, pp. 81 sgg.58 Le relazioni delle Commissioni d’inchiesta offrono diversi esempi dell’insufficienza dei collaudi anche di materiali di primaria importanza per la difesa (Inch. Esercito, V ili, pp. 150-157; Inch. Marina, I, pp. 112, 115-116, 141-142, 158 sgg., 169 sgg., 313-314, 179 sgg., II, pp. 45-57, 184 sgg., 244 sgg.; Ili, pp. 322 sgg.). Sulle frodi e, in generale, il “troppo frequente prevalere” degli interessi privati cfr. anche I, pp. 113; 249-250; II, pp. 28, 105-108. Sui danni con­seguenti alla compilazione dei capitolati cfr. I, pp. 99-102, 105, 114; Inch. Esercito, V ili, pp. 79 sgg.; 93, 95-97. Sul­la frequente inefficacia degli uffici tecnici di sorveglianza governativa presso le industrie private cfr. Inch. Marina, II, pp. 212, 186, 238 sgg.; Ili, pp. 312 sgg., 319 sgg.59 Cfr. ad es. A. Pedone, Il bilancio dello Stato, cit., p. 217 e 221; Giampiero Carocci, Contributo alla discussione sull’imperialismo, in “Il movimento di liberazione in Italia” , 1971, n. 2.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 125

tico60 fatto nei confronti delle tesi sostenute dai liberisti e riprese da molti storici offre co­munque numerose indicazioni per ricerche tendenti ad individuare i caratteri specifici della vicenda italiana, nella quale la scelta a favore della creazione di un’industria bellica nazionale fu determinante per lo sviluppo di un apparato industriale di base. In questo modo l’Italia si differenziò dai paesi nei qua­li le forti somme destinate alle forze armate finanziarono l’acquisto di armamenti presso imprese straniere, deprimendo quindi la pro­duzione interna61. I risultati dell’inchiesta parlamentare sulla marina indicano infatti come l’amministrazione anteponesse il soste­gno alle imprese nazionali rispetto ai vantag­gi, in termini di prezzo o di qualità, ottenibili acquistando i materiali all’estero62. Ed anche la mancanza di controlli efficaci sulle impre­se e della possibilità di stabilire confronti continui con le produzioni straniere era il ri­sultato di precise scelte che avevano contri­buito a concentrare una parte notevole delle commesse belliche nelle mani di pochi grup­

pi, sempre più in grado di imporsi sugli ap­parati pubblici63.

Se è evidente la funzione di sostegno svolta dalle spese militari nei confronti dei settori destinatari delle commesse, è anche innega­bile 1’esistenza di effetti di segno opposto. È stata sottolineata, tra i vari aspetti della fase di ristagno dell’attività industriale dopo il 1907, la difficoltà per le imprese di reperire mezzi finanziari di fronte al crescente assor­bimento di risparmio privato da parte dello Stato per operare nei nuovi settori d’inter­vento e finanziare il riarmo. In tale situazio­ne le industrie che non ottenevano commesse militari risentivano soltanto degli effetti ne­gativi delle scelte pubbliche64. Più in genera­le, il modello di sviluppo che si era imposto in Italia significò per le industrie produttrici di beni di consumo dover fare i conti con una situazione nella quale era “il conteni­mento della domanda” a consentire “di far funzionare i meccanismi finanziari di soste­gno dell’industria di base e, soprattutto, di finanziare la capacità di acquisto dello

60 Cfr., oltre agli studi già citati, Rosario Romeo, Aspetti storici dello sviluppo della grande impresa in Italia, in “Storia contemporanea” , 1970, n. 1; Giuseppe Are, La storiografia sullo sviluppo industriale italiano e le sue riper­cussioni politiche nell’età dell’imperialismo, in “Clio”, aprile-giugno 1974; Guido Baglioni, L ’ideologia della bor­ghesia industriale nell’Italia liberale, Torino, Einaudi, 1974.61 Cfr. G. Maione, L ’imperialismo straccione..., cit., p. 96.62 Le relazioni della Commissione forniscono molte informazioni non soltanto sui casi più noti della Terni e del- l’Armstrong. Non essendone possibile una discussione dettagliata in questa sede, si rimanda, anche per quanto ri­guarda la documentazione degli alti prezzi ottenuti dalle industrie fornitrici, ai capitoli AeWInch. Marina relativi alle corazze, ai materiali d ’artiglieria e alle costruzioni navali. Cfr. inoltre Inch. Spese, I, pp. 114-115. Va tenuto presente che le industrie italiane destinatarie delle commesse dovevano acquistare parte dei materiali all’estero (Inch. Marina, II, p. 43-45). Sul problema della dipendenza nei confronti dei gruppi industriali stranieri cfr. R. Webster, cit., pp. 172-174; Giorgio Molli, La politica industriale e gli armamenti navali, Milano, Sperling et Kupfer, 1913.63 Cfr. le affermazioni di Nitti: G. Carocci, Il Parlamento..., cit., pp. 395 sgg. Al centro dell’inchiesta sulla marina vi fu, com’è noto, il caso della Terni: è stato osservato che, se non era realistico pretendere di interrompere le com­messe o di avere standard qualitativi pari a quelli delle grandi industrie belliche straniere, si sarebbe potuto però sta­bilire a quali condizioni di prezzo e di qualità si dovevano preferire i prodotti nazionali. Inoltre non si cercò di appu­rare se i forti guadagni della società derivavano dalle produzioni commerciali o dalle commesse militari: in quest’ul­timo caso si sarebbero potuti rivedere gli accordi in senso più favorevole allo Stato (cfr. E. Corbino, Annali..., cit., pp. 115 sgg.; F. Bonelli, Lo sviluppo..., cit., p. 98).64 Lo Stato del 1906-1907 assunse insomma un ruolo che “da una parte lo portava a sottrarre capitali al fabbisogno delle imprese ma, per altro verso, lo portava a destinare uguali o maggiori somme — in qualità di cliente — proprio a quelle imprese che in maggior misura avevano tratto vantaggio dalla precedente sua condotta finanziaria” (cfr. Fran­co Bonelli, Osservazioni e dati sul finanziamento dell’industria italiana all’inizio del secolo X X , in “Annali della Fondazione Luigi Einaudi”, vol. II, 1968, p. 278).

126 Paolo Ferrari

Stato”65. Inoltre si dovrebbero considerare i casi in cui le spese militari influirono sull’or­ganizzazione del territorio in senso negativo per lo sviluppo economico66, e, più in gene­rale, analizzare il loro contributo all’aggra­vamento del divario tra Nord e Sud. Per un giudizio non generico occorrerebbero però maggiori conoscenze sulla destinazione delle commesse militari nei diversi settori: le osser­vazioni che seguono vogliono avere valore introduttivo per ricerche estese anche ai su­bappalti ed alle medie e piccole imprese. '

La gestione delle commesse militari tra Stato e industrie

Nel primo quindicennio del secolo gli eserciti dei paesi più sviluppati iniziarono ad utiliz­

zare, accanto ai quadrupedi ed alle ferro­vie, i mezzi di trasporto dotati di motore a scoppio67. In Italia la loro adozione fu all’i­nizio abbastanza contrastata. Tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del secolo si passò dall’acquisto, per lo più all’estero, di locomotive a vapore per il trasporto su stra­da68 a quello di autovetture prodotte in Ita­lia69. Fino agli anni 1904-1905 le autorità mi­litari non accordarono la propria preferenza ai veicoli mossi da un motore a benzina70, considerati, nonostante le proposte di indu­striali e dei militari più attenti ai progressi tecnici, un ripiego alla scarsità della produ­zione equina nazionale. Tali convinzioni era­no rafforzate dalla dipendenza dall’estero per varie parti e materie di consumo (dai car­buranti ai lubrificanti alle gomme)71; tutta­via, mentre il governo decideva di sovvenzio-

65 F. Bonelli, Il capitalismo..., cit., p. 1238. Bonelli sottolinea il fatto che “è tutta la fisiologia di intere sezioni del si­stema che è posta al servizio del meccanismo di mobilitazione delle risorse” (p. 1237). Nel finanziamento della spesa pubblica (e quindi delle spese militari) le imposte indirette ebbero un’importanza crescente nell’età giolittiana. An­drebbe quindi studiato in che misura il riarmo aggravò la ristrettezza del mercato interno. Sulle conseguenze econo­miche delle diverse forme di finanziamento delle spese militari cfr. Michal Kalecki, Il problema della domanda effet­tiva in Tugan-Baranowski e in Rosa Luxemburg, in Id., Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933- 1970, Torino, Einaudi, 1975 e Tadeusz-Kowalik, Crisi, in “Enciclopedia”, vol. IV, Torino, Einaudi, 1978. Utile ras­segna del dibattito sugli effetti economici delle spese militari è Battistelli, Il complesso..., cit. Sulla povertà del mer­cato interno cfr., fra gli articoli apparsi su “Lo Stato operaio”, quello di Angelo Tasca, L ’analisi leninista dell’impe­rialismo e l ’economia italiana, settembre 1927, in particolare pp. 773-774. Tra gli studi più recenti cfr. anche Giampiero Carocci, Giolitti e l ’età giolittiana, Torino, Einaudi, 1971, (1a ed. 1961), pp. 50, 71-72, 122-123; Antonio Pedone, La politica del commercio estero, in G. Fuà, cit., vol. II, p. 150; G. Baglioni, cit., p. 102; G. Maione, cit., pp. 48 sgg.66 Sulla costruzione di ferrovie cfr. le osservazioni di De Rosa in ministero della Difesa, cit., p. 226; E. Rocchi, Eser­cito-Fortezze-Ferrovie. Considerazioni di attualità, Roma, Armani & Stein, 1910, p. 26.67 Aristide Luria, I trasporti militari in relazione alle esigenze degli eserciti moderni ed ai progressi della meccanica, in “Rivista di artiglieria e genio”, aprile 1912. Sulla disponibilità di questi mezzi all’inizio della guerra mondiale cfr. il fascicolo del dicembre 1914, p. 503.68 Cfr. Angelo Pugnani, Storia della motorizzazione militare italiana, Torino, Roggero & Tortia, 1951, pp. 17 sgg. Angelo Pugnani seguì da vicino le diverse fasi dell’utilizzo a scopi bellici degli autoveicoli: col grado di tenente del genio ferrovieri venne addetto alla prima sezione automobilistica costituita nell’esercito e da allora operò in questo set­tore. Col grado di generale ebbe durante la prima guerra mondiale l’incarico di organizzare i trasporti automobilistici.69 II ministero della Guerra acquistò la prima autovettura Fiat, con motore a scoppio da 12 HP, nel 1903; iniziò così un rapporto d’affari che sarebbe divenuto determinante per lo sviluppo dell’azienda torinese. Cfr. A. Caracciolo, cit., pp. 239-241 ; Giorgio Mori, La Fiat dalle origini al 1918, in “Critica marxista”, 1970, n. 6, ripubblicato in Id., Il capitalismo industriale in Italia, cit., pp. 111-140; Aa.Vv., Cinquant’anni della Fiat 1899-1949-, Milano, Mondadori, 1950 e soprattutto Valerio Castronovo, Giovanni Agnelli, cit..70 Vennero sperimentate ferrovie da campo a scartamento ridotto. Tra i fautori dell’autotrasporto, oltre al maggiore del genio Andrea Maggiorotti, vi era Giulio Douhet, sulla cui figura cfr. R. Rochat-R. Massobrio, Breve storia del­l ’esercito italiano, cit., p. 233; R. Webster, cit., p. 100 e Inch. Spese, I, pp. 299-300.71 Cfr. A. Pugnani, Storia della motorizzazione, cit., p. 67.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 127

nare l’uso di automezzi nei servizi pubblici, anche le autorità militari promossero varie iniziative per favorirne la diffusione, allo scopo di aumentare il numero dei mezzi che avrebbero potuto essere requisiti per necessi­tà belliche. Furono i risultati delle grandi manovre che si svolsero dal 1905 in poi, ap­poggiati dalle conclusioni della Commissione parlamentare d’inchiesta sull’esercito72, a dissipare molti dei dubbi che si nutrivano nei confronti dei nuovi mezzi, che in un primo tempo si era pensato di utilizzare soltanto per le ricognizioni ed i collegamenti. Si arri­vò così al primo acquisto di un certo rilievo nel 1909, quando, in seguito al concorso vin­to dalle ditte Fiat, Isotta-Fraschini, Itala, Spa e Ziist, il ministero della Guerra acquistò 450 autotelai (cioè veicoli senza carrozzeria ed accessori, che sarebbero poi stati comple­tati durante la neutralità). Le commesse di mezzi meccanici di trasporto raggiunsero no­tevoli proporzioni durante la guerra di Libia, quando per la prima volta vennero usati ae­rei ed autocarri in operazioni militari73: il corpo di spedizione, sbarcato privo di auto­mezzi, arrivò in un anno ad averne più di duecento. Lo Stato si rivolse in quell’occa­sione alla Fiat, che stava attraversando un periodo di forte espansione, la quale fornì l’autorcarro 15-bis, poi trasformato nel mo­dello 15-ter di maggiore potenza74.Nel com­

plesso la produzione di autocarri, scarsa­mente richiesti sul mercato interno (nel 1913 vi erano in Italia 425 autocarri privati, men­tre il ministero della Guerra ne aveva a di­sposizione circa 70075), venne fortemente in­coraggiata dalle commesse militari. In parti­colare per la Fiat fu una costante, insieme al commercio d’esportazione, la fornitura — ricorrendo in alcuni casi al subappalto ad im­prese specializzate — di una vasta gamma di materiali alle forze armate76.

Nuovo impulso ebbe poi la produzione di automezzi durante la neutralità, quando agli acquisti delle nazioni belligeranti si somma­rono quelli del ministero della Guerra, anche per l’impossibilità di ottenere tramite la pre­cettazione un numero considerevole di auto­carri ed una sufficiente scorta di parti di ri­cambio.

La decisione di utilizzare l’autotrasporto per tutti i servizi generali dell’esercito portò all’acquisto di 2.400 autocarri, 1677 dei quali furono prodotti dalla Fiat77 (1.571 autocarri di vari tipi oltre a 106 autoambulanze pro­dotte dalla ditta Carosi di Roma e montate su autocarri 15-ter), mentre soltanto 298 dall’Isotta-Fraschini, 195 dalla Spa, 120 dal­l’Itala e 110 dalla Ziist. Tra i mezzi speciali vi erano 105 autocarri Fiat 15-ter dotati di proiettori costruiti dalla Galileo di Firenze78 e 270 trattrici — di cui 170 prodotte dalla

2 Cfr. Inch. Esercito, IV, pp. 319 sgg.; V ili, pp. 335-338.3 A. Pugnarli, cit., p. 57.

74 Cfr. G. Mori, La Fiat, cit., p. 87; A. Pugnani, cit., p. 61; V. Castronovo, cit., pp. 94 sgg.75 I dati del censimento automobilistico sono riportati da A. Pugnani, cit., p. 66.76 Sulle numerose forniture alle forze armate (dagli autocarri ai sommergibili alle mitragliatrici) e sulla presenza nel mercato internazionale cfr. i primi due capitoli del libro di. V. Castronovo, cit.7 I modelli ritenuti migliori in seguito ai risultati delle grandi manovre ed alla guerra di Libia furono il 15 ter e il 18

BL, che nel 1915 vennero adottati.8 Cfr. A. Pugnani, cit. Nel settore della meccanica di precisione, dominato dalle importazioni tedesche, la Galileo

costituiva un’eccezione (cfr. Pietro Lanino, La nuova Italia industriale, Roma, Società Editrice “L’Italiana”, 1916- 17, voi. 2, p. 40): entrambe le amministrazioni militari affidarono all’impresa, dal 1907 controllata dal trust siderur­gico, la fornitura di materiali ottici, di precisione, elettrici e radiotelegrafici. Le produzioni militari, presenti anche sui mercati esteri, costituivano nel 1907 la principale attività della Galileo ed anche lo sviluppo successivo, del quale importanti tappe furono la guerra di Libia e la collaborazione con la Fiat, fu in larga parte legato alle commesse bel­liche. Con l’intervento nella guerra mondiale, quindi, venne confermata una vocazione da tempo palese, che spiega

128 Paolo Ferrari

Fiat — destinate alle artiglierie. Nei primi mesi del 1915, tuttavia, si erano ormai dimo­strati irrealizzabili i progetti di sviluppo ba­sati sulle crescenti commesse statali e sul sod­disfacimento della domanda proveniente dai paesi in guerra, mentre emergevano con for­za crescente i condizionamenti del mercato internazionale che spingevano l’Italia verso una scelta di campo a fianco dell’Intesa79. La produzione dei 2.400 autocarri fu ostacolata, oltre che dalla carenza di molte materie pri­me, dai divieti che impedivano l’esportazio­ne dai paesi in guerra di diversi prodotti e se­milavorati per l’industria. Sempre più im­portante divenne allora per le imprese forni­trici dello Stato inserirsi nell’organizzazione delle commesse da posizioni di forza, stabi­lendo più stretti rapporti con la burocrazia ministeriale. In queta direzione, in effetti, già da tempo si era mossa la Fiat con risultati indiscutibili: su 3.281 autocarri complessiva­mente acquistati dal ministero della Guerra tra il 1910 ed i giugno del 1915, l’impresa to­rinese ne aveva infatti prodotti 2.296 (il 70%), mentre ne erano stati ordinati 320 alla

Zùst, 298 all’Isotta-Fraschini, 247 alla Spa e 120 all’Itala80.

Di minor rilievo furono le vicende dell’in­dustria aeronautica, che assunse notevoli di­mensioni soltanto nel corso del primo con­flitto mondiale81. Durante l’età giolittiana la posizione dell’Italia restò di forte dipenden­za nei confronti dell’estero e in modo parti­colare della Francia. Con l’eccezione della Caproni, infatti, tutte le società costruivano soltanto apparecchi su licenza: per limitarsi a quelle principali esistenti nell’immediato an­teguerra, la SA Costruzioni aeronautiche Sa­voia costruiva apparecchi Henry Farman e Maurice Farman, la SA Nieuport-Macchi ae­rei Nieuport, mentre la SIT (Società italiana transaerea) deteneva lé licenze Voisin ed i brevetti Blériot. La scarsità delle commesse impediva al settore di dotarsi di una solida struttura, con la conseguente incapacità di mantenere gli impegni assunti e di sviluppare un’autonomia tecnologico-produttiva. Così, ad esempio, quando nel 1912 il ministero del­la Guerra ordinò 84 velivoli, dei quali 70 ad imprese italiane82, due di esse — la Caproni e

la propensione della direzione dell’impresa verso una politica estera bellicista: cfr. G. Procacci-G. Rindi, Storia di una fabbrica, cit. ; Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, L ’esercito italiano nella grande guerra 1915-18, Roma, Ministero della Guerra (poi della Difesa), 1927 sgg., vol. 1 : Le forze belligeranti, p. 104; A. Pugnani, Storia della motorizzazione, cit., pp. 92-93. Anche per i mototocicli e le biciclette l’esercito si rivolse ad imprese nazionali; alla produzione di funicolari e teleferiche, molto utilizzate durante la guerra, si dedicarono aziende specializzate co­me la Ceretti e Tanfani. 1 primi autocarri per l’esercito erano dotati di cerchioni di ferro: le gomme, oltre a creare problemi di conservazione nei magazzini militari, erano per lo più prodotte all’estero. In seguito si adottarono gom­me piene, la cui importazione dalla Francia si interruppe però durante la neutralità, mentre la Pirelli, principale im­presa italiana del settore fornitrice anche del ministero della Marina, non era ancora in grado di produrre le gomme nelle quantità richieste (A. Pugnani, Storia della motorizzazione, cit., p. 75).79 Sull’evoluzione dell’atteggiamento degli ambienti economici nei confronti della guerra cfr. Valerio Castronovo, La storia economica, in “Storia d’Italia” , vol. IV, Torino, Einaudi, 1975; Id., Giovanni Agnelli, cit.; Id., Introdu­zione a Gerd Hardach, La prima guerra mondiale 1914-1918, Milano, Etas libri, 1982; F. Bonelli, Il capitalismo, cit., pp. 1224-1225.80 Cfr. Ufficio storico dello Stato maggiore del’esercito, L ’esercito italiano nella grande guerra, cit., vol. 1, allegato n. 1.81 Cfr. ivi, pp. 33 sgg.; 127-133 ed allegati n. 36, 37, 38, 39, 40, 41; di livello assai diverso, ma comunque utili, sono: Touring club italiano, Annuario dell’aeronautica 1914, Milano, Stamp, ed. Lombarda, 1914; G. Tortora-O. Toraldo-G. Costanzi, Esercito, marina e aeronautica nel 1914, Milano, Treves, 1915; Mario Cobianchi, Pionieri del­l ’aviazione in Italia, Roma, Editoriale Aeronautico, 1943; Rosario Abate, Storia dell’aeronautica italiana, Milano, Bietti, 1974; Angelo Lodi, Storia delle origini dell’aeronautica militare 1884-1915, 2 voli., Roma, Edizioni dell’Ate­neo & Bizzarri, 1976-77; Pietro Macchione, L ’aeronautica Macchi. Dalla leggenda alla storia, Milano, Angeli, 1985.82 A titolo di paragone si può ricordare che nel 1912 in Francia si costruirono 1.425 aeroplani, mentre la Germania

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 129

l’Asteria (Fabbrica italiana aeroplani ing. Darbesio e C.) — non riuscirono a portare a termine le produzioni83. Le difficoltà del set­tore furono anche confermate dall’esito ne­gativo dei concorsi indetti dal ministero della Guerra per incentivare la realizzazione di motori ed aerei interamente italiani. I motori più diffusi erano quelli Gnòme, prodotti su licenza della Gnòme - Fabbrica italiana di motori di Torino; vi erano poi quelli realiz­zati dalle ditte automobilistiche adattando i motori delle auto da corsa84. Né la spedizio­ne in Libia — quando l’uso di aerei in guerra suscitò l’attenzione di un’opione pubblica opportunamente condizionata -— né i proble­mi conseguenti allo scoppio del conflitto mondiale (daH’approvvigionamento delle materie prime al richiamo in patria delle maestranze francesi che svolgevano un’im­portante funzione direttiva) convinsero le autorità militari a promuovere in maniera più efficace la produzione di questi mezzi bellici85. In Italia l’unico caso di progettazio­ne e realizzazione autonoma di aeroplani re­stò la fabbrica che i fratelli Gianni e Federico Caproni impiantarono presso Milano tra la fine del 1909 e l’inizio del 1910. Quando però i risultati negativi della costruzione di aerei italiani si sommarono a quelli degli apparec­

chi Bristol fabbricati su licenza straniera, la situazione per la società divenne insostenibi­le, tanto che nel 1913 il ministero della Guer­ra, per evitare il fallimento e la conseguente scomparsa dell’importante iniziativa dei fra­telli Caproni, dovette rilevare l’impresa ed assumere Gianni Caproni come ingegnere straordinario per l’aviazione. Fautore di questa soluzione era stato Giulio Douhet, al­lora comandante del battaglione aviatori, che mantenne in seguito stretti rapporti con Caproni ed appoggiò la progettazione del­l’apparecchio da 300 HP da bombardamen­to, ben presto prodotto in serie, un biplano dotato di tre motori prodotti dalla Fiat86.

Soltanto alla fine del 1914 vennero stan­ziati mezzi finanziari adeguati alla prepara­zione di questo settore delle forze armate, mentre la Direzione tecnica di aviazione mili­tare, costituita nel gennaio del 1915 con sede a Torino, centro principale dell’industria au­tomobilistica, svolse un’efficace attività — in seguito oggetto di accuse e polemiche — di promozione della produzione di motori, di aeroplani (e del relativo armamento) e di ma­teriali fino ad allora importati dall’estero. Se in generale la domanda di prodotti bellici in­centivò lo sviluppo della meccanica di preci­sione, le difficoltà inerenti alla creazione di

disponeva nel 1913 di 20 fabbriche di aeroplani e 40 di motori (A. Lodi, cit., voi. 2, pp. 45-47; “Rivista di artiglieria e genio”, gennaio 1914, pp. 117-118).83 A. Lodi, Storia delle origini dell’aeronautica, cit., pp. 14-16.84 Modesto Panetti, Le attività tecniche della Fiat nel primo cinquantennio, in Aa.Vv., I cinquant’anni della Fiat, cit., pp. 165 sgg.85 Cfr. Inch. Spese, 1, pp. 119 sgg.; 250 e in generale, pp. 249-259.1 relatori sottolinearono la mancanza di compren­sione, da parte delle autorità militari, delle possibilità del nuovo mezzo. Il 1° agosto 1914 l’esercito italiano dispone­va di 37 apparecchi Blériot, 27 Nieuport e 24 Farman (tra cui due idrovolanti) e la marina di “una trentina di appa­recchi di vario tipo... in condizioni di efficienza assai scarse” (R. Abate, cit., p. 92).86 II modello — del quale le prime due squadriglie arrivarono al fronte nell’ottobre del 1915 — durante il conflitto venne anche adottato dagli alleati e fu quindi assai importante nello sviluppo dell’impresa, “il caso più fortemente le­gato alla congiuntura bellica e insieme il più discusso” (Caracciolo, La crescita e la trasformazione, cit., pp. 236 sgg.). Sul ruolo dei vertici dell’aeronautica militare nella vicenda che portò durante la neutralità alla scelta dei “Ca­proni 300 H P” e sull’intervento di importanti interessi economici legati alla Edison, al Credito italiano e alla Banca commerciale nella fondazione, nel maggio 1915, della Società per lo Sviluppo dell’Aviazione in Italia, che li avrebbe prodotti, cfr. Luciano Segreto, Arm i e munizioni. Lo sforzo bellico tra speculazione e progresso tecnico, in “Italia contemporanea”, 1980, n. 146-147, p. 55. Sui rapporti che, fin dalle origini, legarono l’industria aeronautica alle forze armate e che divennero più stretti nel corso del conflitto mondiale, cfr. anche Inch. Spese, I, pp. 304 sgg.

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una organizzazione complessa ed alla forma­zione di maestranze specializzate spiegano, non soltanto per gli aeroplani, la perdurante dipendenza dall’estero nel corso dell’età gio- littiana87.

Mentre l’industria affrontava con alterni risultati le difficoltà poste dalle nuove pro­duzioni belliche, si riproponeva dopo il de­collo industriale il problema dei compiti da assegnare agli stabilimenti gestiti direttamen­te dalle autorità militari.

Prima del 1861 l’arretratezza nello svilup­po industriale e le divisioni territoriali porta­rono gli stabilimenti militari degli Stati italia­ni ad occuparsi delle più diverse produzioni necessarie al rifornimento degli eserciti. Do­po l’Unità le autorità militari li riorganizza­rono chiudendo i meno efficienti e specializ­zando gli altri. Le principali attività produt­tive erano svolte negli stabilimenti d’artiglie­ria, ai quali inoltre erano affidate varie man­sioni — che avrebbero anche in seguito ca­ratterizzato la loro attività — le principali delle quali furono:

1) la sorveglianza dei processi produttivi, il controllo ed il collaudo dei materiali pro­dotti dalle industrie private: le prime com­missioni di collaudo presso le imprese furo­no istituite quando, con la guerra del 1866, il ministero affidò parte delle commesse ad imprese private poiché la produzione degli stabilimenti statali si era rivelata insuffi­ciente88.

2) La formazione, anche attraverso appo­siti corsi (i primi risalgono al 1868), di tecnici e maestranze specializzate che erano poi an­che impiegati nell’industria privata. Quan­

do, infatti, quest’ultima riceveva delle ordi­nazioni, gli stabilimenti militari spesso forni­vano, oltre ai progetti, il personale in grado di avviare la produzione. Tale collaborazio­ne era giustificata in base al desiderio di ri­durre la dipendenza dall’estero e di disporre di una struttura privata cui poter ricorrere qualora si fosse dimostrata insufficiente la capacità produttiva degli stabilimenti mili­tari89.

3) Lo studio e la realizzazione di nuovi materiali.

Per tutto l’Ottocento si ricorse soltanto ra­ramente all’industria privata per i riforni­menti destinati all’armamento dell’esercito, mentre nel corso dell’età giolittiana il quadro cambiò. Gli stabilimenti d’artiglieria (nei quali nel 1914 erano addette 10.280 persone, tra ufficiali, impiegati ed operai90), infatti, lasciarono sempre più spazio all’industria privata, soprattutto per quanto riguardava le produzioni tecnologicamente più complesse. Le officine militari svolsero un’attività com­plementare, riservandosi, oltre alle ripara­zioni, da un lato le produzioni nelle quali le industrie private erano meno interessate (so­prattutto carreggio, armi portatili, spolette, cartucce, esplosivi ed alcuni modelli di can­noni, obici e mortai) e, dall’altro, la proget­tazione di nuovi materiali, mentre il persona­le tecnico dovette svolgere una crescente atti­vità di controllo delle produzioni affidate ai privati. I maggiori incrementi produttivi si verificarono con la guerra di Libia e poi du­rante la neutralità91, ma nel complesso, no­nostante iniziative isolate in direzione di una maggiore specializzazione (come la creazione

s' E. Corbino, Annali, cit., vol. V, pp. 130 sgg.88 Cfr. Carlo Montù, Storia dell’artiglieria italiana, parte III, vol. V, edita a cura della “Rivista di artiglieria e ge­nio”, Roma, 1942, p. 2720.89 Cfr. ivi, voi. V ili, pp. 2299, 2303-2306.90 Cfr. Massimo Mazzetti, L ’industria italiana nella grande guerra, Roma, Ufficio storico SME, 1979, p. 65. Per la distribuzione regionale e le produzioni degli stabilimenti d’artiglieria cfr. anche C. Montù, cit., voi. Vili.91 Cfr. anche Ufficio storico dello stato maggiore italiano, L ’esercito italiano nella grande guerra, cit., pp. 117-119 e allegato n. 34.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 131

nel 1910 di un ruolo tecnico per gli ufficiali destinati ad occuparsi delle produzioni belli­che), crebbe il ruolo svolto dai privati nell’in­dustria degli armamenti. Questa situazione era stata studiata dalla Commissione parla­mentare d’inchiesta sull’esercito, che arrivò a conclusioni molto nette, notando che “an­che l’amministrazione della Guerra ebbe a ri­conoscere che lo stato di decadenza, nel qua­le si sono trovati gli stabilimenti militari al momento in cui doveva prendersi una deci­sione circa il rinnovamento delle artiglierie, era principalmente derivato dall’abbandono completo nel quale erano stati lasciati”; poco prima si era specificato come “gli stabilimen­ti militari non [fossero] in grado di allestire il materiale occorrente nel breve tempo neces­sario, essendo stati lasciati sprovvisti di loca­li capaci, di macchinario moderno, di forza motrice e di personale sufficiente”92. La ri­duzione della loro attività (e, come si vedrà, il processo fu analogo per i cantieri navali del ministero della Marina) rappresentò una for­ma di sostegno alPindustria privata da parte dell’amministrazione della guerra e se duran­te il conflitto mondiale tali stabilimenti ven­nero potenziati, ciò avvenne seguendo le li­nee di sviluppo che si erano affermate nel quindicennio precedente.

Nell’età giolittiana il rinnovamento delle dotazioni di artiglieria dell’esercito fu dovu­to ad una serie di innovazioni tecnologiche, la principale delle quali fu l’invenzione, nel­l’ultimo decennio dell’Ottocento, dell’affu­sto a deformazione, che permise un notevole aumento della rapidità del tiro. Le autorità militari italiane rimasero a lungo incerte, tut­tavia, sull’effettiva superiorità del nuovo materiale (rinviandone così l’adozione), oltre che sulle caratteristiche tecniche più adatte ai diversi compiti ai quali le artiglierie doveva­

no essere destinate. Finalmente nel 1906 si decise di adottare il materiale a deformazio­ne Krupp per l’artiglieria da campagna, ri­servando una parte delle lavorazioni agli sta­bilimenti militari ed all’industria nazionale. Quest’ultima, tuttavia, ottenne dal ministero della guerra una consistente commessa di ar­tiglierie soltanto nel 1911, quando la costru­zione del materiale francese Déport (l’affu­sto ideato dall’omonimo colonnello sostene­va una bocca da fuoco Krupp perfezionata rispetto al modello 1906) fu affidata ad un consorzio di 27 imprese guidato dalla Vi- ckers-Terni, produttrice dei cannoni con l’acciaio fornito dalla Terni. Le nuove com­messe — ulteriore conferma della tendenza dell’industria degli armamenti a gravitare verso l’area anglo-francese — presentavano però problemi di non facile soluzione non soltanto per gli stabilimenti militari, ma an­che per le imprese private che disponevano dell’assistenza tecnica delle indusrie belliche straniere: il consorzio, alle cui dipendenze vi erano 40.000 operai, riuniva le principali in­dustrie metalmeccaniche, ma, nonostante l’adesione anche della Fiat-San Giorgio e della Fossati, l’insufficienza di attrezzature e maestranze specializzate ritardò i lavori tan­to che allo scoppio della guerra mondiale la distribuzione del materiale era appena ini­ziata.

Secondo Rochat, “la lunga e travagliata sostituzione del materiale dell’artiglieria da campagna... è la più nota di una serie di di­mostrazioni dell’insufficienza delle autorità militari, che dopo anni di esperimenti... nel 1911 finalmente sceglievano l’ottimo mate­riale Déport, che la Francia impiegava con successo sin dal 1897, ma che prima, per ra­gioni mai precisate, era stato scartato ripetu­

92 Inch. Esercito, II, p. 119 e p. 106; cfr. inoltre pp. 90 sgg.; 109-115: V ili, p. 198-270. Sulle officine del genio e gli stabilimenti di minore importanza cfr. pp. 271 sgg. Per un confronto si veda K. Liebknecht, Contro l'internazionale, cit., pp. 223-224.

132 Paolo Ferrari

tamente dai competenti italiani”93. Da queste vicende, ma anche da quelle relative all’ado­zione degli altri tipi di artiglieria, emergono, oltre al diverso livello tecnologico dell’indu­stria italiana rispetto ai grandi complessi stranieri, le responsabilità dei comandi — che nelle scelte tecniche avevano completa autonomia — per le lacune negli armamenti coi quali l’esercito entrò in guerra, nonostan­te l’aumento delle commesse dopo l’agosto del 191494. Anche la vicenda dell’adozione delle mitragliatrici fornisce alcuni elementi per comprendere i criteri di scelta delle auto­rità militari. Dopo molti anni di prove, nel 1906 venne adottata la mitragliatrice inglese Maxim95, che ebbe un notevole successo sul mercato internazionale degli armamenti gra­zie all’ottima qualità dell’arma, in dotazio­ne, alla vigilia del conflitto mondiale, alle forze armate di molti paesi, indipendente­mente dagli schieramenti militari96. Allo sco­po, condiviso anche dalla Commissione par­lamentare d’inchiesta sull’esercito, di favori­re le produzioni nazionali, venne sperimenta­to ed adottato un modello di mitragliatrice Perino, prodotto nella fabbrica di armi di Terni (appartenente al ministero della Guer­ra), ma ben presto l’arma mostrò inconve­nienti tali da consigliarne l’assegnazione al­l’armamento secondario delle opere di dife­

sa. Anche la Fiat studiò vari modelli che ven­nero provati dalle autorità militari tra il 1909 ed il 1911, ma nel 1912 l’esercito adottò un nuovo modello di mitragliatrice Maxim97, evidente conseguenza del fatto che le armi studiate e prodotte in Italia non avevano ret­to al confronto con quelle realizzate dall’in­dustria inglese.

Allo scoppio del conflitto mondiale, tutta­via, soltanto una parte delle Maxim (mod. 1912) era stata consegnata all’esercito italia­no e così, alla fine del 1914, prevedendo che la Vickers non avrebbe fornito le armi richie­ste perché impegnata anzitutto a soddisfare la necessità delle forze armate britanniche, le autorità italiane decisero di adottare la mi­tragliatrice Fiat-Revelli, che in precedenza era stata ritenuta inadatta98. L’azienda tori­nese si impegnò a produrne cinquanta esem­plari al mese, per un totale di 500, ed a ini­ziarne le consegne nel maggio del 1915. Du­rante la neutralità il governo italiano rifiutò sia l’offerta di acquistare mitragliatrici ame­ricane Colt, sia l’offerta della Vickers di for­nire le Maxim non ancora consegnate facen­dole produrre negli Stati Uniti.

Da questa vicenda emergono le esigenze contrapposte di cui le autorità militari dove­vano tener conto: da un lato le pressioni dei fornitori e l’appoggio alla realizzazione da

93 Cfr. G. Rochat, L ’esercito italiano nell’estate 1914, cit., p. 302 e V. Castronovo, Giovanni Agnelli, cit., pp. 77-78. La seconda relazione dell’inchiesta sull’esercito contiene la storia dei contratti stipulati con la ditta Krupp dal gennaio 1899 al febbraio 1907 e fornisce elementi tali da mettere in dubbio la competenza dei responsabili tecnici nonché indicazioni sulla politica del ministero della Guerra volta ad assicurare parte delle commesse agli stabilimenti militari ed alle industrie nazionali, anche se era riconosciuta la migliore qualità dei materiali forniti dalla Krupp.94 Cfr. Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, L ’esercito italiano nella grande guerra, cit, p. 37-47; 89-113.95 Ivi, pp. 28-29.96 Cfr. “Rivista di artiglieria e genio” , ottobre 1914, pp. 179-182. Hiram Stevens Maxim realizzò il suo primo esem­plare di mitragliatrice nel 1884; l’impresa da lui fondata si fuse nel 1888 con la Nordenfeldt Company e quindi con la Vickers nel 1896 (cfr. Ettore Bravetta, L ’artiglieria e le sue meraviglie dalle origini ai nostri giorni, Milano, Treves, 1919, pp. 508 sgg.).97 Ufficio storico dello stato maggiore dell’esercito, L'esercito italiano nella grande guerra, cit., pp. 113-117 e alle­gato n. 31; Luigi Gucci, Armi portatili, Torino, Tipografia Cassone, 1912.98 Si veda a questo proposito anche la nota 50.

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parte dell’industria italiana di armi che sosti­tuissero quelle acquistate all’estero; dall’al­tro la scelta dei materiali migliori, esigenza che, se elevata ad unico criterio per l’asse­gnazione delle commesse, avrebbe compor­tato il ricorso continuo alle grandi imprese straniere, con evidenti effetti negativi sullo sviluppo industriale. Nel caso delle mitra­gliatrici, il rinvio per lungo tempo di scelte precise e l’interruzione degli acquisti presso l’industria inglese furono all’origine di una lacuna non secondaria nell’armamento delle truppe, considerando che l’esercito entrò in guerra disponendo di poco più di seicento mitragliatrici. Si può inoltre osservare che la scelta di favorire nella distribuzione delle commesse le industrie nazionali — soltanto saltuariamente in grado di reggere ad un con­fronto qualitativo con quelle straniere" — implicò spesso la subordinazione delle esi­genze della difesa, ma comportò anche la creazione di stretti vincoli tra forze armate e settori decisivi del mondo industriale, come anche le vicende successive avrebbero dimo­strato99 100.

Durante l’età giolittiana gli stanziamenti destinati alla marina aumentarono in con­fronto al quarantennio precedente sia in as­soluto, sia in rapporto al complesso delle spese militari, arrivando ad assorbirne nel

1911-1912 e nel 1912-1913 rispettivamente il 37,3% ed il 36,2%. All’origine di ciò vi sono da un lato le trasformazioni tecnologiche che avevano investito il settore delle costruzioni navali101 ed il suo crescente peso nell’econo­mia nazionale, dall’altro le mire espansioni­stiche sempre più diffuse all’interno della classe dirigente italiana. In questo periodo anche le commesse del ministero della Mari­na furono destinate soprattutto al settore privato, dominato da imprese in grado di in­tegrare attività cantieristiche, siderurgiche e meccaniche.

All’inizio del secolo, agli arsenali militari erano affidati i lavori di manutenzione e ri­parazione nonché la costruzione degli scafi delle grandi corazzate e di parte degli incro­ciatori102. L’industria privata — che produ­ceva la maggior parte delle navi, le piastre di corazzatura ed i macchinari di tutte le unità, buona parte delle artiglierie e numerosi altri materiali103 — era interessata direttamente a limitare l’attività degli arsenali statali alla manutenzione e alla custodia della flotta104, accelerando quel processo di decadenza che anche i tecnici del genio navale denunciava­no105. Mentre nel sistema industriale si regi­strava un aumento del consumo di energia, gli “opifici e servizi dipendenti dai ministeri della Guerra e della Marina” , che nel 1899

99 I limiti di molte imprese emergevano nell’affrontare produzioni in serie. Nel caso della pistola automatica adotta­ta dail’esercito nel 1907, alle difficoltà dovute all’insufficiente preparazione tecnica delle imprese — la Siderurgica d i ­senfi e la Metallurgica Bresciana poi — si sommarono gli errori commessi dal ministero (Inch. Esercito, VI, pp. 69-85).100 Cfr. Giorgio Rochat, L ’esercito italiano negli ultimi cento anni, in “Storia d’Italia”, vol. V, Idocumenti, Tori­no, Einaudi, 1973, pp. 1902.101 Cfr. Ettore Bravetta, Navi-artiglierie-corazze, “Rivista di artiglieria e genio”, settembre 1914 e soprattutto G. Pedrocco, Le origini della moderna navalmeccanica, cit. Sull’aumento del costo delle unità da guerra tedesche nello stesso periodo, cfr. George W.F. Hallgarten, Storia della corsa agli armamenti, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 37.102 Come i tecnici del ministero della Guerra, anche quelli della marina controllavano e collaudavano i materiali pro­dotti dalle industrie private: alla Terni, ad es., erano seguite tutte le fasi della lavorazione delle corazze (cfr. Ugo Gregoretti, Corazze per navi. Fabbricazione e collaudo, Rivista marittima, 1907).103 Cfr. Ippolito Sigismondi, Gli arsenali della Regia Marina, Roma-Torino, Roux e Viarengo, 1903, pp. 28-29. Gli arsenali — soprattutto quello di La Spezia — producevano qualche cannone di medio e quasi tutti quelli di piccolo calibro (Inch. Marina, III, pp. 226 sgg.).104 I. Sigismondi, cit., p. 7.105 Cfr., ad es., l’intervento di A. Calabretta, in ministero della Marina - Ufficio del capo di stato maggiore, Annali delta scuola navale di guerra -1908, Roma, 1908, pp. 196-205.

134 Paolo Ferrari

potevano disporre di 20.000 cavalli dinamici, nel 1904 ne utilizzarono soltanto 15.000106. Il personale degli arsenali militari, inoltre, con diverse leggi venne ridotto di quasi il 30%, passando da 17.186 a 12.208 addetti tra il 1900 ed il 1913107. Carenze organizzative e nel personale, sprechi e discontinuità nei la­vori, a volte intrapresi senza adeguati studi preliminari, frodi ed insufficienti collaudi dei materiali acquistati dai privati, mancato rinnovamento degli impianti e scarsa specia­lizzazione degli arsenali erano indicati dalla Commissione d’inchiesta come i motivi per i quali le potenzialità degli stabilimenti dipen­denti dal ministero della Marina erano utiliz­zate soltanto in parte108 e le costruzioni pro­cedevano a rilento109. Conseguente era il pas­saggio delle commesse ai privati, come nel caso dei sommergibili, prima costruiti nel­l’arsenale di Venezia e nel 1910 ordinati al­la Fiat-San Giorgio, che progettò e costruì quattro esemplari subappaltandone altret­tanti110. Gli arsenali statali mantennero ugual­mente una certa capacità produttiva, restan­do in grado di svolgere importanti lavori a costi competitivi rispetto a quelli delle impre­se private, a giudicare almeno da una lettera

riservata inviata in data 15 aprile 1913 dal ministro della Marina Pasquale Leonardi- Cattolica al presidente del Consiglio dei mi­nistri, nella quale si afferma che “dai compu­ti eseguiti tenendo conto del costo delle ulti­me nostre navi e dei vantaggiosi effetti di una opportuna concorrenza che si spera di poter raggiungere, risulta che il costo delle nuove navi sarebbe all’incirca:

— di 80 milioni per una nave con cannoni di ricambio, provveduta completa dall’indu­stria privata;

— di 74 milioni nel caso che lo scafo sia costruito nei cantieri dello stato;

— di 70 milioni per nave costruita ed ulti­mata nei RR Arsenali”111.

Nel primo quindicennio del secolo, di fronte alle acciaierie lombarde e piemontesi, che coprivano “prevalentemente la domanda locale di beni che potevano essere prodotti da impianti che non necessitavano di eccessi­vi immobilizzi di capitale”112, stava un ri­stretto numero di imprese alle quali andava la maggior parte delle commesse destinate al­la siderurgia bellica. La principale industria del settore, la Società alti forni, fonderie e acciaierie di Terni, è anche il caso finora più

106 Cfr. Atti Parlamentari, Camera dei Deputati, Documenti - Disegni di legge e relazioni, Leg. XXIII, Sessione 1909-12, doc. n. 985-A, allegato A, p. 30.107 Ivi, doc. n. 1234, allegato n. 37. Tale riduzione fu in parte compensata dall’impiego di operai avventizi (cfr. G. Pedrocco, cit., pp. 954-955).108 Cfr. Inch. Marina, I, pp. 19, 51, 386-389; III, pp. 303 sgg., 319 sgg., 384, 86-87. “L’eccedenza di operai è [...] la conseguenza inevitabile del sistema di affidare la costruzione di navi alTindustria privata mantenendo immutato il numero degli operai” (p. 17). Le proposte di riforma (cfr. ivi, I, PP- 286-321) erano ostacolate anche da resistenze corporative alla riduzione degli organici (cfr. I. Sigismondi, cit.).109 Sulla lentezza dei lavori in questo settore delle produzioni belliche cfr. Inch. Marina, I, pp. 345-351; III, pp. 259, 293 sgg.; Italo Zingarelli, La Marina nella guerra attuale, Milano, Treves, 1915, p. 23; Ufficio storico della regia ma­rina, La marina italiana nella grande guerra, Firenze, Vallecchi, 1935, vol. I, pp. 283 sgg.; Ettore Bravetta, Note su alcuni fa tti di politica navale nel 1914, in “Annuario navale 1915”, Roma, Armani e Stein, 1915, pp. 19-20.110 Le produzioni Fiat in questo settore (cfr., oltre a Castronovo, Giovanni Agnelli, cit.; Panetti, cit., pp. 150 sgg.) erano orientate anche all’esportazione che durante la neutralità continuò verso i paesi in guerra. Nell’ottobre 1914 si tentò, senza successo, di consegnare un sottomarino ordinato dalla Russia, del quale era vietata l’esportazione: cfr. Archivio centrale dello Stato (Roma), Prima guerra mondiale, b. 127, fase. 258.111 Cfr. Archivio centrale dello Stato (Roma), Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1913, fase. 6, prot. 422.112 Martino Pozzobon, L ’industria padana dell’acciaio nel primo trentennio del Novecento, in F. Bonelli (a cura di), Acciaio per l ’industrializzazione. Contributi allo studio del problema siderurgico italiano, Torino, Einaudi, 1982, p. 175.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 135

studiato113. Agli inizi degli anni novanta del­l’Ottocento essa era in grado di produrre tutti i tipi di acciaio ed aveva il monopolio di quelli utilizzati per le corazze delle navi, i cannoni ed i proiettili. Dalla fine del secolo, analogamente alle principali industrie estere del settore, mirò ad integrare la propria atti­vità con le costruzioni cantieristiche; all’ini­zio del 1904 fu raggiunto l’accordo che por­tò alla formazione di un gruppo che com­prendeva i cantieri Odero di Sestri Levante e di Genova-Foce e Orlando di Livorno. Ode­ro e Orlando assunsero così il controllo del gruppo che patrocinò la nascita dell’Ilva per produrre ghisa a Bagnoli sfruttando le age­volazioni previste dalla legge; con la combi­nazione Ilva-Elba-Terni veniva allargato il trust costituito nel 1903 in base agli accordi fra Elba, Savona e Terni. Integrate le attivi­tà siderurgiche e cantieristiche (partecipando anche al capitale della società Cantieri nava­li riuniti), la Terni fondò con l’inglese Vic­kers ed il concorso del ministero della Mari­na la Vikers-Terni, allo scopo di produrre direttamente le artiglierie114. In questo modo “si completò un’organizzazione industriale integrata, capace di fornire allo Stato, da sola, una nave da guerra pronta a combatte­re partendo dalla produzione dell’acciaio delle corazze”, rendendo così possibile — grazie alle crescenti commesse ed alla prote­zione doganale — lo sfruttamento al più al­to livello del mercato interno115. Se gli accor­di dell’inizio del secolo, finalizzati alla crea­zione di un grande centro di potere indu­striale e finanziario, non influirono sulla struttura tecnico-organizzativa delle singole

imprese, alla Terni l’adozione delle soluzioni impiantistiche fu d’altra parte legata non al­la possibilità di utilizzarne pienamente le ca­pacità produttive, ma al mantenimento della sua posizione privilegiata come fornitrice dello Stato.

Nello studio della politica industriale se­guita dallo Stato dagli ultimi decenni del­l’Ottocento si impone all’attenzione anche il caso dell’Armstrong di Pozzuoli, che agli inizi del Novecento rappresentava, insieme allo stabilimento dei Pattison ed a quello della Hawthorn-Guppy, la principale impre­sa metalmeccanica napoletana (e in questa sede vai la pena di accennare al fatto che anche lo sviluppo di queste imprese mecca­niche fu fortemente condizionato dai pro­grammi di spesa pubblica — e anzitutto da quelli gestiti dal ministero della Marina — come indica lo studio di De Rosa, che però non affronta in modo specifico il problema dei rapporti che attraverso le commesse si instaurarono tra Stato ed imprese116). La fi­liale della grande impresa inglese W.G. Armstrong, Mitchell & C. era stata fondata nel 1885 per produrre materiali bellici, in particolare artiglierie navali, destinati alla marina italiana. All’origine di questo inve­stimento diretto vi fu una precisa iniziativa del ministero che si inseriva nella politica volta a favorire lo sviluppo di un’industria bellica nazionale, alla quale si deve, nel cor­so degli anni ottanta, anche la fondazione della Terni (nel 1884) e del silurificio del­la ditta L. Schwartzkopff a Venezia (nel 1889).

113 Sulla Terni cfr. F. Bonelli, Lo sviluppo, cit., E. Guaita, Alle origini del capitalismo, cit.; V. Sgambati, Il ruo­lo dello Stato nella fondazione della “Terni”, cit.114 Cfr. anche R. Webster, L ’imperialismo industriale italiano, cit., p. 148.113 F. Bonelli, Lo sviluppo, cit. p. 89.116 Cfr. L. De Rosa, Iniziativa, cit. Anche queste imprese furono legate alla Gran Bretagna fin dalla fondazione. L’impresa meccanica Guppy divenne nel 1886 la Società industriale napoletana Hawthorn-Guppy in seguito al­l’accordo con la Hawthorn, Leslie & Co., alla quale andò la direzione tecnica e che fornì progetti, preventivi ed assistenza per i lavori di ingegneria meccanica navale; il cantiere e impresa meccanica C. e T.T. Pattison venne fondato nel 1864-65 dopo lo scioglimento del contratto decennale che aveva legato Guppy a Pattison.

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Allo stabilimento di Pozzuoli la marina, da anni in rapporti con la casa-madre di Newcastle-upon-Tyne, fornì gratuitamente il materiale di pietra per la costruzione dei moli e di opere di vario tipo, nonché la ma­nodopera costituita da detenuti e “a prezzo moderato o gratuitamente ... il diritto della spiaggia ed una sufficiente dotazione di acqua”117. Ma lo strumento principale adot­tato dal ministero della Marina per ottenere la fondazione della filiale fu l’ordinazione di materiali. La produzione doveva avvenire in buona parte presso la casa-madre, che con­temporaneamente s’impegnava a provvedere all’impianto dello stabilimento di Pozzuoli; era inoltre previsto un aumento di prezzo del 10% per i prodotti interamente realizzati in Italia e per i materiali ed i semilavorati di provenienza italiana che venivano utilizzati. Come per l’impresa siderurgica di Terni, quindi, le commesse militari furono lo stru­mento privilegiato per incentivare la fonda­zione di un’industria la cui gestione restò sempre nelle mani di privati, ma che era og­getto di particolari attenzioni in quanto giu­dicata d’importanza “strategica” per l’affer­mazione dell’Italia nel contesto internazio­nale. D’altra parte, considerando le motiva­zioni all’origine della decisione dell’Arm- strong di creare una filiale nel Napoletano, si può ritenere che vada attribuito maggior rilievo, piuttosto che ai diversi vantaggi of­ferti dal ministero ed al minor costo del la­voro rispetto alla Gran Bretagna ed a altre

regioni d’Italia118, ad altri due elementi, seb­bene soltanto ricerche d’archivio possano fornire risposte conclusive. Da un lato l’Arm­strong aveva la possibilità di assicurarsi il mercato costituito dalle commesse militari, che il ministero della Marina si orientava sem­pre più ad indirizzare verso l’industria nazio­nale (ed eloquente doveva apparire in questo senso la fondazione della Terni nel 1884); d’altra parte, l’industria inglese poteva sfrut­tare nel migliore dei modi il proprio patrimo­nio tecnologico-produttivo. Infatti la man­canza in Italia di concorrenti specializzati nel­la produzione degli stessi materiali poneva l’impresa, nei confronti dello Stato, in una condizione di particolare forza che si traduce­va nell’imposizione di prezzi sottratti ad una dinamica di mercato119. Anche da altri casi re­centemente studiati di imprese multinazionali operanti in Italia nel periodo precedente la prima guerra mondiale120 emerge che, se le so­cietà-figlie potevano operare sfruttando mol­teplici vantaggi, un motivo determinante nel­la loro fondazione fu la preoccupazione di non perdere un mercato di sbocco, in quanto lo Stato italiano attraverso il protezionismo doganale e la distribuzione delle commesse at­tuò una politica volta a riservare sempre più all’industria italiana le forniture previste dai programmi di spese pubbliche. È a tale politi­ca, quindi, che si deve far riferimento per spiegare sia il rafforzamento di molte indu­strie esistenti, sia la nascita di imprese spe­cializzate come la filiale di Saronno della Ma

117 Inch. Marina, II, pp. 155-156.118 A proposito della fondazione dell’Armstrong, L. De Rosa (Iniziativa, cit. p. 138) nota che “la costa meridionale si presentava come la più adatta, soprattutto perché, specie a Napoli e nelle cittadine vicine, avendo il colera semina­to nel 1884 lutti, paralisi commerciale e industriale, e quindi miseria, l’offerta di lavoro era più a buon mercato” .119 Inch. Marina, II, pp. 173 sgg.120 Cfr. Peter Hertner, La Società “Tubi Mannesmann” a Dalmine. Un esempio di investimento internazionale (1906-1917), in “Ricerche storiche”, 1978, pp. 105-124; Id., Capitale tedesco e industria meccanica in Italia: la Es- slingen a Saronno, 1887-1918, in “Società e storia”, 1982, pp. 583-621. Su questi due casi di società-figlie cfr. anche R.A. Webster, cit., pp. 193 sgg. Sulla fondazione di filiali in Italia e sullo studio delle imprese multinazionali cfr. il capitolo primo e le pp. 138 sgg. di Peter Hertner, Il capitale tedesco in Italia dall’Unità alla prima guerra mondiale, Bologna, Il Mulino, 1984.

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 137

schinenfabrik Esslingen e la società Tubi Mannesmann di Dalmine (alle quali si allu­deva prima) che arricchirono il patrimonio industriale italiano.

Nel corso dell’età giolittiana l’Armstrong di Pozzuoli ampliò la propria attività fornen­do artiglierie, oltre che alla marina italiana, a navi da guerra costruite in Italia e destinate ad altri paesi nonché alla casa-madre di Newca­stle-upon-Tyne; la produzione passò così da circa 1.000 tonnellate all’inizio del secolo a2.000 nel 1907 e a quasi 4.500 nel 1911, men­tre il personale impiegato crebbe da 1.000 uni­tà nel 1900 a circa 1.800 nel 1906 e a oltre 3.500 nel 1911121. Tuttavia l’appartenenza ad un gruppo multinazionale, operante in base ad una strategia decisa tenendo conto di un contesto più ampio, comportò precisi vincoli per lo sviluppo dell’impresa. Nel 1903 la fu­sione con l’Ansaldo, che intendeva indirizza­re la produzione verso gli armamenti (navali ed in seguito anche terrestri), sembrò dover aprire ottime prospettive conseguenti all’inte­grazione di due imprese specializzate nelle produzioni belliche. Non portò invece molti vantaggi all’azienda genovese, tanto che nove anni dopo il legame venne sciolto e l’Arm­strong “accusata non solo di aver intralciato il programma concordato ma anche di aver par­tecipato alle coalizioni siderurgico-cantieri­stiche in concorrenza con la ditta genove­se” 122. Una spiegazione di questa vicenda, che rimanda allo studio dei rapporti esistenti tra fi­liali e case-madri, è stata proposta da Webster, che attribuisce il fallimento della collaborazio­ne agli accordi esistenti tra l’Armstrong e l’al­

tra grande impresa bellica britannica Vickers, strettamente legata alla Terni, il cui dominio nel settore degli armamenti era minacciato dai programmi di espansione dell’Ansaldo123.

Quest’ultima, alla fine del secolo, si era spe­cializzata nelle costruzioni navali, riuscendo a sviluppare in misura notevole le esportazioni (tra il 1894 ed il 1903 quasi un terzo del navi­glio prodotto venne venduto all’estero) ed a ri­durre i tempi di costruzione124. Una nuova fa­se per l’impresa iniziò con l’entrata nel gruppo dirigente di Ferdinando Maria Perrone, che riuscì ad ottenere forti commesse estere ed in­dirizzò l’attività dell’Ansaldo verso le produ­zioni militari. A tale scopo furono finalizzate diverse iniziative quali la fusione con l’Arm­strong, l’acquisto nel 1906 della licenza di pro­duzione delle turbine Parsons, gli accordi del 1910 con la Schneider-Creusot per la produzio­ne di proiettili ed artiglierie per l’esercito e l’ac­quisto presso un’altra ditta estera di brevetti per la produzione di corazze navali. LAnsaldo svi­luppò anche nuovi stabilimenti, il principale dei quali fu quello di Cornigliano Ligure de­stinato alla produzione dell’acciaio, momen­to essenziale del programma mirante a scin­dere i vincoli di dipendenza dalla Terni. L’impresa ligure raggiunse così una poten­zialità produttiva tale da porla in grado di soddisfare le diverse esigenze delle ammini­strazioni militari e di produrre tutte le parti necessarie alla costruzione ed all’armamento di una nave da guerra, presentandosi così al­l’appuntamento bellico pronta a sfruttare l’eccezionale congiuntura.

Paolo Ferrari

121 Cfr. Lo stabilimento Armstrong di Pozzuoli, Bergamo, 1st. Arti Grafiche, 1911.122 Ernesto Galli Della Loggia, Problemi di sviluppo industriale e nuovi equilibri politici alta vigilia della prima guer­ra mondiale: la fondazione della Banca italiana di sconto, in “Rivista storica italiana”, 1970, n. 4, p. 834.123 R.A. Webster, L ’imperialismo industriale italiano..., cit., pp. 162-163.124 Sull’Ansaldo cfr. ivi, pp. 155-176; E. Galli Della Loggia, cit.; Emanuele Gazzo, I Cento anni dell’Ansaldo 1853- 1953, Genova, Società per l’industria grafica e lavorazioni affini, 1953.

138 Paolo Ferrari

Tabella 1. Pagamenti effettuati dal ministero della Guerra negli esercizi finanziari dal 1905-1906 al 1911-1912 per forniture in Italia ed all’estero (lire correnti)

1T r u p p e

2A n i m a l i

3S t r a d e , f e r r o v ie

e d o p e r e m i l i t a r i

4M a te r i a l i

v a r i

5A r m i T o t a l e

Italia

1905-1906 24.826.960 21.189.906 65.600 2.139.662 5.541.500 53.763.628

1906-1907 20.527.039 12.218.834 415.800 2.803.500 8.435.900 44.401.073

1907-1908 18.045.389 7.125.599 558.800 4.084.228 11.545.100 41.359.116

1908-1909 30.341.499 13.071.160 782.400 7.957.503 11.250.800 63.403.362

1909-1910 30.022.231 24.979.382 1.189.500 7.978.361 16.062.000 80.231.474

1910-1911 34.630.285 27.107.221 765.380 14.086.840 28.062.970 104.652.696

1911-1912 42.532.367 31.210.968 459.381 7.488.830 37.234.000 118.925.546

Totale 200.925.770 136.903.070 4.236.861 46.538.924 118.132.270 506.736.895

Estero

1905-1906 — — — 420.300 2.062.800 2.483.100

1906-1907 — 339.920 — 42.900 11.824.300 12.207.120

1907-1908 — 1.765.000 — 6.450 7.980.970 9.752.420

1908-1909 — 2.490.384 — 880.633 2.399.247 5.770.264

1909-1910 — 2.878.172 — 874.230 10.470.700 14.223.102

1910-1911 — 2.982.717 — 896.401 17.675.400 21.554.518

1911-1912 — 2.947.000 — 6.563.117 6.078.000 15.588.117

Totale 13.403.193 _ 9.684.031 58.591.417 81.578.641

La produzione di armamenti nell’età giolittiana 139

Tabella 2. Pagamenti effettuati dal ministero della Marina negli esercizi finanziari dal 1905-1906 al 1911-1912 per forniture in Italia e all’estero (lire correnti)

1V e s t i a r io , v iv e r i

c a s e r m a g g i o

2C a r b o n e e d a l t r i

c o m b u s t ib i l i

3M a te r i a l e s a n i t a r i o ,

i d r o g r a f i c o e r a d i o t e l e g r a f i c o

4A r t ig l i e r i a

e d a r m a m e n t i e s i l u r i

5C o s t r u z i o n i

n a v a l iT o t a l e

Italia

1905-1906 9.125.169 6.775.676 943.214 9.407.929 23.820.669 50.072.6571906-1907 10.063.768 2.936.846 1.050.966 10.681.839 27.445.005 52.178.4241907-1908 10.847.907 3.913.679 1.143.245 20.575.889 29.178.583 65.659.3031908-1909 11.629.033 5.844.799 973.959 18.942.575 34.864.383 72.254.7491909-1910 13.229.423 7.004.416 909.468 22.146.699 46.769.324 90.059.3301910-1911 13.696.998 7.363.898 1.656.260 32.644.381 62.041.413 117.402.9501911-1912 15.853.682 20.657.539 2.135.210 33.768.418 85.859.756 158.274.605

Totale 84.445.980 54.496.853 8.812.322 148.167.730 309.979.133 605.902.018

Estero

1905-1906 391.002 5.357.823 33.129 4.111.451 2.607.477 12.500.8821906-1907 382.028 4.467.305 67.846 7.075.361 4.282.207 16.274.7471907-1908 651.426 5.397.796 64.885 346.300 6.483.831 12.944.2381908-1909 683.212 6.723.993 34.884 3.168.600 3.746.586 14.357.2751909-1910 406.958 3.010.291 295.572 4.501.900 2.486.857 10.701.5781910-1911 440.913 3.802.538 50.183 918.000 3.371.029 8.582.6631911-1912 591.009 6.655.899 53.490 1.291.767 1.027.048 9.619.213

Totale 3.546.548 35.415.645 599.989 21.413.379 24.005.035 84.980.596