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LA PINACOTECA SAN DOMENICO

DELLA FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO

DI FANO

219

Le origini della raccolta d’arte della Fondazione sono relativamente recenti: fu infatti nel 1969 che la Cas-sa di Risparmio di Fano, di cui la Fondazione è la diretta e legittima erede, poté acquisire la proprietà dello splendido Sposalizio della Vergine del Guercino già appartenuto alla famiglia Mariotti che lo aveva commissionato al celebre pittore emiliano nel 1649 collocandolo nell’altare di famiglia all’interno della Basilica di San Paterniano. Con questa acquisizione fu inaugurata la c. d. quadreria che si è arricchita nel tempo di altre importanti opere quali la Madon-na col Bambino attribuita a Giovanni Santi padre di Raff aello, la Madonna della Rosa e la suggestiva tela raffi gurante Agar e Ismaele di Simone Cantarini. Ma la svolta decisiva si ebbe nel 1999 con l’acqui-sto della Maddalena penitente e della Visione di San Carlo Borromeo di Giovanni Francesco Guerrieri, del quale peraltro recenti sono gli acquisti della Cleo-patra, del Miracolo dei pani e dei pesci e nell’ultimo anno della bellissima pala Madonna col Bambino e i Santi Francesco, Pietro e Giacomo proveniente da Arcevia. A parte la raccolta di tele a sfondo religioso che vanno ad arricchire la Pinacoteca San Domeni-co, la Fondazione possiede la più importante rac-colta al mondo delle nature morte (13) del fanese Carlo Magini, oltre ad una collezione di quadri di arte contemporanea dedicata agli artisti locali del ‘900 e di monete antiche, provenienti dalla Zecca di Fano, raccolte in teche funzionali e moderne per essere ammirate dai visitatori. Di seguito vengono riportati i dipinti pervenuti alla Fondazione a vario titolo, raggruppati per categoria di provenienza.

Categoria dipinti provenienti dalla Carifano spa, in forza di atto 1° luglio 1992:- Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Sposalizio della Vergine;- Simone Cantarini, Madonna con il Bambino e i Santi Tommaso e Girolamo;- Simone Cantarini, Agar e Ismaele;- Simone Cantarini, Madonna della rosa;- Sebastiano Ceccarini, Madonna del Rosario;- Lorenzo Garbieri, San Gerolamo e l’Angelo;- Ignoto di scuola romana, Madonna con il Bambino sulle nubi.

Categoria dipinti acquisiti a titolo oneroso dalla Fondazione nel periodo 1996 - 2006:- Sebastiano Ceccarini, Madonna in Gloria col Bambino, San Giuseppe e Angeli;- Sebastiano Ceccarini, Estasi di San Filippo Neri;- Simone De Magistris, Deposizione;- Giovanni Francesco Guerrieri, Il miracolo dei pani e dei pesci;- Giovanni Francesco Guerrieri, Santa Maria Maddalena penitente;- Giovanni Francesco Guerrieri, La visione di San Carlo Borromeo;- Giovanni Francesco Guerrieri, Madonna col Bambino e i Santi Francesco, Pietro e Giacomo;- Ignoto di scuola marchigiana, Il sogno di San Giuseppe;- Gaetano Lapis, San Giovanni da Capistrano;- Francesco Mancini, Sacra Famiglia;- Pompeo Morganti, Madonna con Bimbo in trono fra San Sebastiano e San Rocco;- Giovanni Giacomo Pandolfi , Annunciazione.

Categoria dipinti acquisiti il 17.7.2006, con-testualmente all’atto di acquisto della Chiesa, dall’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero:- Federico Barocci (copia da), Annunciazione;- Ignoto sec. XVI, Cena di Betania;- Gianandrea Lazzarini, San Vincenzo Ferreri restituisce la vista a un cieco;- Gianandrea Lazzarini, Vergine con Bambino, Santi e Sante domenicani; - Jacopo Negretti detto Palma il Giovane, San Tommaso d’Aquino adora il Crocifi sso;- Felice Torelli, Madonna del Rosario e Pio V;- Federico Zuccari, Nascita di San Giovanni Battista.

In occasione dell’acquisto da parte della Fonda-zione della Chiesa di San Domenico, sono state restituite a quest’ultima due coppie di angeli do-rati realizzati per i due altari centrali di raffi nata fattura, di epoca tardo barocca.

Mario L. Severini

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Figlio del pittore fanese Bartolomeo, si forma nella bottega del padre col quale collabora fi no alla sua morte avvenuta fra il 1536 e il 1538. Il primo documento che lo riguarda è un atto del 6 agosto 1527 nel quale Pompeo, testimone ad un battesimo, è detto “pictore”. Se ne ricava che nel 1527 Pompeo è già maggiorenne, in grado di accettare commesse e garantire in proprio. La sua data di nascita dovrebbe quindi collocarsi nei primi anni del Cinquecento. Le sue prime ope-re sono da riconoscere nella tavola raffi gurante la Vergine col Bambino, S. Sebastiano, S. Rocco, angeli e committente (Fano, Fondazione Cassa di Risparmio) e nella tela raffi gurante la Madon-na del Carmine (Fano, chiesa del Carmine). Nel 1532, insieme al padre, defi nisce con la Congre-gazione di S. Michele il contratto per la grande pala d’altare dell’omonima chiesa. E’ un contrat-to importante, per prestigio e per compenso. Nel ’32 cade probabilmente anche il matrimonio del pittore, visto che nell’aprile del ’33 viene bat-tezzato il suo primo fi glio, Francesco. Pompeo, grazie al suo stile accattivante e composto, mor-bido nelle linee e nei panneggi, atto a suscitare affl ato devozionale e sentimenti di preghiera, ha ormai consolidato la sua notorietà e numerose piovono le commesse. Le sue opere più prege-voli sono ad Orciano (PS) (Sposalizio mistico di Santa Caterina), a Corridonia (MC) (Cristo in gloria, Vergine e Santi), a Filottrano (AN) (Resur-rezione di Lazzaro), a Pesaro (Madonna con Bam-bino), a Montegridolfo (RN) (Apparizione della Vergine), a Pergola (PS), Candelara (PS), Sirolo (AN). Numerosi anche gli impegni sottoscritti ed eseguiti nella sua città, per la Cappella del Vescovado, per il conte Martinozzi, per la chiesa di Santa Maria del Ponte Metauro, la Scuola di San Michele, la Cattedrale, la Corte dei Priori, opere di cui non resta però traccia se non nei documenti d’archivio. Nel 1562 Pompeo abita a Pesaro, dove si è temporaneamente trasferito per l’esecuzione probabile di qualche lavoro. E’ l’ultimo documento che lo indica ancora in vita. La sua morte sarà di lì a poco registrata a Fano,

con la semplice annotazione “obiit” accanto al nome e senza precisazione di data, nella lista dei confrati che dal 1557 al 1564 fi gurano nel Libro della Congregazione di San Michele, nella cui chiesa un trentennio prima, con la grande tavola eseguita e fi rmata insieme al padre (Resurrezione di Lazzaro e San Michele che caccia Lucifero), era iniziata la sua fortuna di pittore.

Pompeo Morganti(Fano, inizi sec. XVI - 1562/64)

Particolare della fi gura di San Rocco

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LA CHIESA DI SAN DOMENICO A FANO

Madonna col Bambino, San Sebastiano, San Rocco, angeli e committente(tempera su tavola, cm 203,5x163,5)

Acquistata sul mercato antiquario di Parma da un amatore di cose urbinati convinto di ravvisare nell’opera assonanze con la pittura di Timoteo Viti (Urbino, 1465 – 1523), la tavola, che reca sul retro una iscrizione apocrifa settecentesca mirante ad assegnare il dipinto all’urbinate Al-fonso Patanazzi (DI …ONSO PAT …AZZI DA URBINO), è stata subito riconosciuta da chi scrive come una delle prime prove del pit-tore fanese Pompeo Morganti (Fano, XVI sec.; notizie dal 1527 al 1562/64), attribuzione poi confermata dal restauro che ha fatto riemergere, nella fronte del piedistallo, le iniziali del nome POMP(eius).

Il Becci (1783, p. 14), scrivendo della chiesa pesa-rese di San Rocco, riferisce che “L’altar maggiore ha un bellissimo quadro in tavola. Nel piedistallo ove sta sedente la Vergine Ss.ma in mezzo ai Santi Sebastiano e Rocco, leggesi come in una specie di bullettino Bartholomaeus …ensis, 1528”. A Pesa-ro dunque, nella chiesa di San Rocco non più

esistente, c’era un dipinto su tavola oggi perduto, eseguito nel 1528 da Bartholomaeus (fan)ensis, non altri che il fanese Bartolomeo Morganti, pa-dre di Pompeo.La presente tavola, che pure vede la Vergine se-duta sopra un piedistallo e affi ancata dai Santi Sebastiano e Rocco, risponde alla stessa icono-grafi a. Sul piedistallo però non c’è più il carti-glio (bullettino) con iscrizione e data, ma solo un’iscrizione direttamente posta sulla faccia del basamento, un’iscrizione che, per la frammenta-rietà del recupero, non mostra alcuna data, anche se quella del 1528, come si vedrà, le si attagli per-fettamente. Pompeo Morganti infatti, formatosi nella bottega del padre e suo collaboratore, nel 1527 è documentato come “pictore” (G. Boia-ni Tombari, 1994, p. 173); egli è dunque mag-giorenne - era nato verosimilmente agli inizi del Cinquecento - e in grado di accettare commesse e garantire in proprio, e lavora a strettissimo con-tatto col padre, sicuramente nella stessa bottega. L’opera è di certo una delle primissime prove del giovane Pompeo, ancora maldestro e ricco d’in-certezze. In essa però già convergono tanti temi che saranno oggetto di rivisitazione nel corso di tutta la vita del pittore. Nel suo iter non verranno mai meno anatomie incerte e traballanti, indul-genze a vezzosità un po’ androgine, fi sionomie di angeli, santi e madonne volutamente ‘grazio-se’, né verranno meno i basamenti in tralice su cui far sedere le vergini con bambini in braccio; ma proprio questo suo riproporre tracciati già percorsi consente di valutarne meglio il cammi-no, di recepire il suo defi nirsi all’interno di un clima culturale, quello fanese primocinquecen-tesco appunto, che aveva ancora davanti agli occhi Perugino, Giovanni Santi e Raff aello, gli intarsiatori senesi Barili e lo scultore Bernardino di Pietro da Carona, e che al supremo ordine di quello straordinario classico mondo si aggrappa-va come a un modello insuperabile del fare arte (i Presciutti), o da quello si distaccava nel tentativo di una proposta più libera e già manieristica (i Morganti). La modesta tavola è sì un punto di

Particolare della fronte del piedistallo con le iniziali del nome

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partenza, tale però da consentirci di cogliere da subito le diff erenze fra l’irrompere di una inne-gabile drammaticità nella concezione fi gurativa di Morganti padre (Bartolomeo) e la navigazione in acque indubbiamente più tranquille, al riparo da turbolenze e inquietudini religiose, di Mor-ganti fi glio (Pompeo). Di sicuro non un capola-voro, che anzi il dipinto non va esente da certa goff aggine propria di chi, non genio di nascita, ma coscienzioso artigiano della pittura, aff ronta i primi signifi cativi impegni, e tuttavia una te-stimonianza importante per comprendere e rico-struire gli esordi di una personalità artistica che ha avuto una sua particolare rilevanza e una sua precisa collocazione nel panorama pittorico alto-marchigiano della prima metà del Cinquecento, tant’è che Ottaviano Zuccari affi dava proprio al suo stimatissimo amico Pompeo Morganti l’edu-cazione del fi glio Taddeo (G.Vasari, 1568).Non sappiamo per quale chiesa del fanese, o del pesarese, o di quale altra località sia stata eseguita la tavola. Possiamo però ragionevolmente pensa-re che Pompeo Morganti la dipinga intorno al-l’anno 1528, in contemporanea cioè con quella eseguita dal padre per la chiesa pesarese. E ciò, oltre che per le ragioni già dette, anche per l’apo-tropaica presenza dei santi Sebastiano e Rocco che, invocati com’è noto quali protettori da epidemie e pestilenze, godono di particolari re-viviscenze devozionali in quei lassi di tempo resi nefasti dall’imperversare di tali morbi. Proprio nel 1527 s’era avuta l’ennesima ondata di peste. Il senso del dipinto ben si chiarisce allora se lo si colloca negli anni che immediatamente seguono al passaggio della peste, anni che vedono una va-sta fi oritura di opere che si connotano, data tal-volta anche la presenza del committente com’è nel nostro caso, quali autentici ex-voto commis-sionati con l’evidente intento di esprimere rin-graziamenti per lo scampato pericolo. Tali fl agelli si rincorrevano puntuali ogni venti-trent’anni, e questo spiega l’abbondanza incredibile di sogget-ti iconografi camente quasi sempre uguali lasciati in ogni epoca sulle pareti e sugli altari delle no-

stre chiese.Il momento storico in cui l’opera si cala fu sicu-ramente provvido di commesse per le tante bot-teghe di artisti del territorio. Limitandoci a Fano possiamo osservare che mentre Bartolomeo Mor-ganti è impegnato ad eseguire il “bellissimo qua-dro in tavola” per la chiesa pesarese di S. Rocco, il fi glio Pompeo, quasi certamente ricalcandone l’impianto compositivo, esegue il dipinto in ar-gomento che, s’è detto, è una delle sue primissi-me opere, coeva, per datazione e stile, alla piccola tela della Madonna del Carmine nell’omonima chiesa fanese, dipinto recentemente riconosciuto quale opera di Pompeo Morganti, anch’esso da ricondurre agli anni immediatamente anteceden-ti il 1530 (Ugolini, 2006, p. 23). Contempora-neamente i Presciutti, l’altra famiglia di pittori fanesi, licenziano opere di identico soggetto per alcune chiese di località vicine alla città (Bargni, Bellocchi). E va anche detto che un’analoga eufo-ria di commesse aveva tenuto dietro alla peste del 1505, come dimostrano il frammentario aff resco della chiesa di Santa Maria del Ponte Metauro, o la tela di piccolo formato di Bartolomeo Mor-ganti, oggi nel santuario di Cartoceto, con le im-magini ormai ben note e con l’iscrizione: VOTO PUBLICAE (leggi: PUBLICE) SUSCEPTO SUB ANNO MDVIIII MENSIS JUNII (per voto pubblicamente assunto nel mese di giugno dell’anno 1509). E’ questo il contesto storico e devozionale, il reticolo fattuale entro cui la tavola di Pompeo Morganti si colloca e di cui contribui-sce a defi nire i contorni.

(GU)

Bibliografi a: Vasari 1568; Becci 1783; Boiani Tombari 1994; Ugolini 2006.

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Simone De Magistris(Caldarola 1538 - dopo il 1611)

Si deve a Pietro Zampetti la prima ricostruzio-ne critica globale dell’attività dell’artista, verso il quale le ricerche di storici locali e l’interesse della Soprintendenza per i beni artistici e storici delle Marche si sono dirette soltanto tra l’Ottocento e la prima metà del Novecento.“Avviato all’esercizio della pittura dal padre Gio-vanni Andrea, quindicenne, Simone stette otto giorni a Loreto presso Lorenzo Lotto, da cui inspiegabilmente si separò. Ma in quel fugace soggiorno il giovane rimase certamente colpito dalla varietà di proposte fi gurative e plastiche che, nel fervido cantiere del Santuario mariano, si intrecciavano tra il V e il VI decennio del Cin-quecento. Il De Magistris fu attivo nella Marca di Ancona ed in quella Fermana per quasi un cinquantennio, al servizio di una committenza costituita per lo più da alti prelati, da Ordini re-ligiosi e monastici, da Comunità locali e Confra-ternite a giudizio dei quali la tematica sacra delle sue pitture assecondava le esigenze devozionali di una religiosità popolare semplice e schietta.” (Giannatiempo Lopez 1996)Del Lotto Simone coglie la tensione e il colo-rismo, ne è il vero continuatore esasperando la tecnica del colore luminoso accostato a colori puri, e sembra avvicinarsi anche a Domenico Th eotokopulos detto el Greco nell’annullamen-to del senso dello spazio e in un’esaltazione visio-naria delle immagini.L’autonomia del De Magistris si esprime con fantastica, talvolta allucinata deformazione fi sica e fi siognomica, dove gli infl ussi nordici si fondo-no in sorprendente modernità con quelli lotte-schi e, attraverso l’ambiente romano, con quelli della Controriforma spagnola.

Deposizione(olio su tela, cm 153 x 99)

La piccola tela, acquistata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano nel 2005, segna un momento di intensa qualità e di sintesi nel-la produzione prevalentemente religiosa del De Magistris.Il tema della Deposizione, così come tutte le sce-ne della Passione di Cristo, è particolarmente amato dal pittore che già da pale d’altare giova-nili, come quella della chiesa dei Cappuccini di Potenza Picena (1576) e come uno degli aff re-schi del santuario di Macereto di qualche anno dopo, aveva dimostrato una spiccata predilezio-ne per la scena d’insieme, vasta e movimentata, con continue punte di emotività violenta.Qui la discesa dalla croce è già avvenuta: prevale la pietà attorno al Cristo e a sua Madre. La luce batte sul primo piano, rivela particolari, inten-sifi ca toni anche grotteschi o quasi caricaturali. Nel secondo piano si intravedono fi gure in om-bra, quasi indefi nite, che fanno da preludio allo spettacolare paesaggio dietro la croce.Tipico del De Magistris (Adorazione dei Magi della chiesa di San Francesco a Matelica), ma qui protagonista della scena come il primo piano, il paesaggio dai profi li inquietanti tra colli e rude-ri si apre in una luminosità assoluta, gravata da enormi nuvole scure.Questo quadro è un piccolo capolavoro, con la ricerca di un diapason a poco a poco avvertibi-le, dalla greve pesantezza fi sica dei protagonisti a tutto quel chiarore all’infi nito, tenuto su note assolute.

(GC)

Bibliografi a: Giannatiempo Lopez 1996, p. 299.

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Natività del Battista(olio su tela, cm 341,5x221)

La grande tela centinata, ricca di fi gure, è, per la sua struttura narrativa e compositiva, opera di notevole complessità. Il registro inferiore mostra il primo bagnetto fat-to al neonato Giovannino, fi glio di Zaccaria e di Elisabetta, precursore e cugino di Gesù. Cinque donne (levatrici, parenti, vicine di casa, ancelle) sono visibilmente indaff arate nelle varie opera-zioni, mentre dalla sinistra una canefora reca proteici doni alla famiglia. Accudiscono diret-tamente il bambino l’ancella che gli sta imme-diatamente dietro e lo lava, e l’anziana gibbosa donna (levatrice?) che lo sta togliendo dall’ac-qua per darlo alla giovane seduta sulla destra, già pronta ad asciugarlo. In basso, agli angoli estremi della tela, ormai fuori campo e a mezza fi gura, i santi Domenico e Francesco, ricono-scibili l’uno dal giglio, dal rosario e dalla rossa fi ammella sul capo, l’altro dalle stimmate delle mani. Sono i fondatori dei due massimi ordini mendicanti, sempre appaiati, in omaggio a quel reciproco rispetto con cui Dante li ha cantati nel suo poema. Nella parte più alta, in una gloria di luci, angeli e nubi, fanno la loro apparizione l’Eterno Padre benedicente e lo Spirito Santo nelle sembianze della simbolica colomba. Nella zona centrale della tela, in secondo piano, è raffi gurato, come su un palcoscenico, ciò che sta avvenendo in un’altra parte della casa. A sini-stra, dietro una tavola imbandita con solo pane e vino, sta la neomamma Elisabetta, distesa a let-to e servita da un’ancella che, come d’uso, reca alla puerpera, in una scodella (desco da parto) protetta da coperchio, il primo brodino dopo il lieto evento; vicino ad Elisabetta c’è suo marito Zaccaria il quale, diventato muto nel tempio per aver dubitato delle parole dell’arcangelo Gabrie-le che annunciavano a lui, vecchio, la nascita di un fi glio dall’anziana moglie Elisabetta, sterile, riacquisterà la parola solo dopo aver indicato,

nella tavoletta che tiene in mano, il nome Gio-vanni da dare al bambino (Lc. 1, 5–66), nome estraneo alla tradizione di famiglia, e dunque inusuale e sorprendente. La gioia del momento pare recepita anche dal cane, membro lui pure della famiglia. A destra invece è situata una grande apertura (fi nestra o porta?), al di là della quale una donna, con in mano un canestro, si muove all’interno di una architettura conclusa sul fondo da una porta sovrastata da un oculo di bramantesca memoria e lontani, sullo sfondo, i torricini del noto palazzo urbinate.Benché citato da quasi tutte le guide fanesi, del dipinto non si conoscono né il committente, né l’autore, né l’anno di esecuzione. Il più antico e prezioso riferimento sull’opera sono ancora le parole di Stefano Tomani Amiani il quale, in-torno alla metà dell’Ottocento, scriveva (1981, p. 93): “Sovra la cantoria al destro lato è appeso al muro un altro quadro di grande dimensione, ove con composizione complicatissima è rappre-sentata la nascita di S. Giovanni Battista. Pur di questo dipinto s’ignora l’autore; ma però nei partiti, nei gruppi, nel colorito rammenta assais-simo lo stile di Federico Zuccari”. Quella sopra la cantoria non era di certo la collo-cazione originaria della grande tela. Essa doveva stare sicuramente sopra uno degli altari: quale? Provvidenziali i recenti lavori per la sistemazione della chiesa, grazie ai quali è tornato alla luce, nella conca di parete sopra il primo altare a de-stra, un aff resco tardogotico raffi gurante le Storie di San Giovanni Battista. Su questo altare sta-va la nostra tela, e non è diffi cile capirne il per-ché. Dedicato da subito al Battista l’altare viene ornato con lo stupendo aff resco che racconta, nella sequenza delle varie scene, i fatti salienti della vita di S. Giovanni. Verso la fi ne del ‘500 si procede ad una sua prima ristrutturazione, si nascondono i vecchi aff reschi, ormai antiquati e fors’anche sporchi e poco leggibili, ricopren-doli con una grande tela centinata di analogo soggetto, la Natività di San Giovanni Battista appunto, le cui dimensioni sono perfettamente

Ignoto zuccaresco(seconda metà sec. XVI)

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LA CHIESA DI SAN DOMENICO A FANO

sovrapponibili all’incavo contenente gli aff re-schi. In epoca neoclassica ha luogo un’ulteriore trasformazione, quella davvero imponente che vede la chiesa completamente ristrutturata nella ridistribuzione degli altari, nelle pareti, nella ri-pavimentazione, nella soffi ttatura, nella dotazio-ne delle grandi colonne laterali, quella che vede ormai la chiesa farsi apoteosi dell’ordine dome-nicano e dedicare i suoi altari alle più splendide fi gure dell’ordine medesimo. E’ adesso che la tela con la Natività del Battista, non più in linea col nuovo programma iconografi co della chiesa, vie-ne rimossa e collocata sopra la cantoria: bisogna infatti far posto a quella altrettanto grande, ma

di forma rettangolare come richiesto dal nuovo dossale d’altare, raffi gurante San Vincenzo Ferrer che risana un cieco. Ed è sopra la cantoria che la vede appunto Stefano Tomani Amiani.Quanto al fatto di rammentare “assaissimo lo stile di Federico Zuccari” è doveroso prendere atto che l’opera, databile all’ultimo quarto del XVI secolo, si cala in quel particolare momento della cultura fi gurativa alto-marchigiana defi nito da Luciano Arcangeli “manierismo metaurense” ed è senz’altro da ricondurre ad un pittore che individua nell’attività, soprattutto romana, di Federico Zuccari, di Perin del Vaga e delle loro botteghe i suoi modelli di riferimento. Un pit-

Particolare del registro inferiore raffi gurante il ba-gnetto di San Giovannino

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tore la cui mano è sicuramente riconoscibile, a Fano, anche nei frammentari aff reschi recente-mente recuperati a Palazzo de’ Petrucci ed il cui nome è altamente probabile risponda a quel-lo del durantino Luzio Dolci (Casteldurante, 1500/10 ca. - 1591), viste le non poche affi nità che corrono fra questa tela e quella della Natività della Vergine (1579) nella chiesa di Santa Chiara a Cagli, da lui fi rmata e datata. Un pittore stima-to e imitato, come dimostrano le citazioni che nel Seicento da quest’opera ancora si traggono - si veda un’altra Natività della Vergine, quella della chiesa di Santa Maria d’Antico in Valma-recchia -. Un pittore informato e attento ai con-tenuti della narrazione evangelica, in possesso dei mezzi atti ad esprimerne gli interrogativi e le celate verità che ogni cristiano deve saper leg-gere e scoprire. Nulla infatti parrebbe segnala-re fra le donne in primo piano la presenza della Vergine Maria, neanche un’aureola, che invece ruota attorno alle teste di S. Domenico e di S. Francesco. Eppure la Vergine c’è e deve essere riconosciuta, come suggerisce la Legenda aurea, nella giovane donna in veste rossa e manto blu umilmente seduta a terra, pronta ad adempiere, come sempre, al suo ruolo (nel caso specifi co: accogliere il bambino e asciugarlo). Solo dopo questo avvenuto riconoscimento si chiarisce il senso da dare all’interscambio di sguardi, così presaghi di doloroso futuro, con cui saldamente si legano l’infante Giovannino e la giovane don-na, la Madre del suo Signore; solo dopo questo avvenuto riconoscimento ci si rende conto per-ché soltanto a lei, a quella giovane donna, sia riservato il privilegio di avere, come assistente, un angelo. Così è per la gibbosa fi gura di anzia-na, la cui gobba null’altro parrebbe essere se non casuale accidente di natura, segno invece, nella verità del simbolo, dell’inquietudine che assale l’essere umano allorché viene a trovarsi in pre-senza di eventi anomali che lo sovrastano e di cui non sa cogliere i nessi (stranezza del nome dato al bambino, parto di una sterile in tarda età, voce riacquistata da un muto). Lo sguardo

della donna fi sso davanti a sé dice infatti che un improvviso pensiero attraversa la sua mente, una domanda, subito esplicitata dalla sua deformità fi sica (gobba), che segnala l’interrogarsi di chi, posto davanti a fatti inspiegabili, non sa deci-frarne il mistero, il disegno divino che in essi si nasconde. Il quesito della donna ci viene dalla narrazione evangelica: “che cosa diventerà mai questo bambino” per il quale accadono cose tanto inspiegabili? Nei dizionari iconografi ci leggiamo infatti che “ogni deformità è segno di mistero, malefi co o benefi co”, e che “l’anoma-lia esige, per essere capita, un superamento delle abituali norme di giudizio e può quindi intro-durre a una conoscenza più profonda dei misteri e della vita”.

(GU)

Bibliografi a: Tomani Amiani 1981; Cucco 1994; Pitture 1995; Asioli 1910; Vecchione Mascarin 2005.

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Ignoto scuola veneta (seconda metà sec. XVI)

La Cena di Betania (olio su tela, cm 283 x 560)

La grande tela era (ed è stata ricollocata dopo il restauro) sulla parete di contofacciata, nello spa-zio vuoto sottostante il fi nestrone centrale.Il grande stemma (affi ancato dalle sigle F.M.L. e L.C.P.) riprodotto sulla destra, nello zoccolo di un pilastro, è quello della famiglia Gisberti che in San Domenico disponeva di un sepolcro e un cui componente commissionò probabilmente l’opera.Trattandosi di un dipinto datato nello zoccolo sotto lo stemma MDXXXXIIII, non è nota la sua collocazione originaria, anteriore al rinnovo interno della chiesa ad opera del Gasparoli.La scena raffi gura l’episodio evangelico della cena di Betania in casa di Simone il lebbroso con Gesù seduto a un capo della tavola e Maria Maddalena ai suoi piedi intenta ad asciugargli un piede con i propri capelli. Al capo opposto della tavola siede Simone, in atteggiamento stu-pito per l’accaduto, circondato da una spirale di servi e ancelle (compreso un negro) intenti a recare piatti e vivande ai commensali, ordinata-mente diposti in fi la oltre la candita tovaglia che ricopre la tavola.All’estremità sinistra un cane bianco maculato contrappone il suo statico profi lo al pilastro con base stemmata del lato opposto da cui si diparte un tendaggio a copertura di un portico, aperto su uno sfondo campestre.Le condizioni di estremo degrado in cui l’opera versava prima del restauro non avevano consenti-to una giusta valutazione artistica della comples-sa composizione il cui autore, anche se ignoto, è da collocare fra quei validi pittori veneti, coevi del Pordenone e del Bassano, non ignari delle tematiche del Veronese care anche agli esponenti della scuola bresciana. (FB)

Relazione tecnica di restauro

L’opera si presentava in pessimo stato di conser-vazione per l’incuria a cui era stata abbandona-ta per decenni. L’acqua piovana aveva dilavato e consunto gran parte del dipinto. Macchie di umidità e gore biancastre erano presenti in tutta la superfi cie. Numerosissime le cadute di colore riscontrabili specialmente nella parte inferiore del dipinto e nella parte centrale che compren-de una zona ben distinta che parte dall’alto per giungere fi no alla parte più bassa.Il telaio portante, logoro e restaurato più volte, si presentava contorto e sbilenco con conseguen-ti cadute di colore e distacco della tela stessa.Una spessa patina di sporco dovuto a fumo di candele e vecchie vernici ossidate off uscavano la leggibilità della cromia originale.Dopo aver trasportato il dipinto in laboratorio con un mezzo idoneo date le dimensioni, si è provveduto al rifodero del dipinto ed alla sosti-tuzione del vecchio telaio con un nuovo telaio in abete autoestensibile. La cromia originale è stata in gran parte recuperata con una pulitura eseguita con solventi volatili (miste basiche).Le numerose lacune sono state stuccate con ges-so e colla animale.Il restauro pittorico ha interessato molte zone del dipinto ed è stato eseguito con colori acque-rello a campitura e velatura fi nali con colori a vernice. Il fi ssaggio fi nale eseguito con vernice mastice nebulizzata ha ridato compattezza a tut-ta la superfi cie cromatica.

(NP)

A fronteStemma della famiglia Gisberti con sotto-stante data del dipinto (MDXXXXIIII)

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Jacopo Negrettidetto Palma il Giovane(Venezia 1544 - Venezia 1628)

A giudizio di Edgardo Mottini: “Ben pochi fra i numerosi discepoli del Tintoretto eccelsero. Sul-le sue orme non si creava che della vuota retorica e della virtuosità tormentata. Si è già in pieno Seicento con l’arte enfatica di Jacopo Negretti, detto Palma il Giovane (1544-1628), pronipote di Palma il Vecchio”.Un giudizio, invero, alquanto ingeneroso e sbri-gativo, formulato quando ancora dell’artista ve-neziano nessuno si era seriamente occupato come fece poi Pietro Zampetti defi nendolo: “Grande continuatore della tradizione pittorica lagunare cinquecentesca, che con lui si concluse, scaval-cando il secolo”. Lo stesso non mancò inoltre di giustamente evidenziare che: “Questo artista era il vessillifero della pittura veneziana, anche quale allievo e continuatore di Tiziano”. E certamente tramite Tiziano il giovane Palma entrò nelle grazie di Guidubaldo II della Rovere che, dopo il trasferimento da Urbino a Pesaro della capitale del ducato, lo protesse e mandò a Roma, affi dandolo alla protezione del proprio rappresentante diplomatico.Tornato a Venezia, è noto che l’artista non ces-sò di ricorrere ai della Rovere, legandosi sempre più strettamente a Francesco Maria II che affi dò proprio a lui l’incarico di dipinere una pala d’al-tare per la piccola chiesa votiva di Sant’Ubaldo in Pesaro.Continuando la tradizione tizianesca, è provato che il Palma inviò diverse sue opere nelle Mar-che: ad Urbino (L’Iperatore Eraclio che porta la Croce), a Pesaro (Annunciazione e S.Orsola), a Pergola (Vergine con il Bambino e i Santi Andrea e Ubaldo), a Fano (S.Tommaso d’Aquino che adora il Crocifi sso), a Senigallia (Madonna col Bambino e Santi e Lot e le fi glie) e anche più a sud, a Re-canati (Resurrezione), a Sant’Elpidio a Mare (As-sunta e Santi) e a Potenza Picena dove nel 1599 lasciò uno dei suoi capolavori (Crocifi ssione).

San Tommaso d’Aquino che adora il Crocifi sso(olio su tela, cm 275,5 x 192,5)

Firmato in basso a destra: «IACOBUS PALMA VENETUS / F.», il dipinto raffi gura l’episodio della vita del Santo in cui Cristo gli appare di-cendo «Bene scripsisti de me Th omas».Collocato in San Domenico nel 1591, vi è rima-sto custodito fi no agli anni del secondo confl itto mondiale. Trasferito successivamente presso la Pinacoteca Civica, è stato oggi ricollocato all’in-terno della chiesa, sull’altare dove era stato collo-cato dopo il rifacimento interno settecentesco.Ricordata dal Serra e dal Venturi, la tela è stata più volte oggetto delle rifl essini di Pietro Zam-petti che delineano un Palma qui dimentico dei precedenti tizianeschi e tintoretteschi, rivolto invece a modelli provenienti dalla pittura di Federico Barocci e che defi niscono “un mondo espressivo, privo di magniloquenza” e una “iden-tità cromatica extra veneziana”.Lo stesso studioso ebbe inoltre ad intuire la cro-nologia dell’opera, datandola all’ultimo decen-no del secolo XVI, salvo spostarla poi ai primi anni del Seicento nel suo cotributo più recente, sulla scorta delle indicazioni che provenivano dalla monografi a sull’artista curata dalla Mason Rinaldi.Ad entrambi gli studiosi era sfuggito quanto già reso noto dalla Boiani Tombari nel testo di un suo studio relativo alla storia della chiesa di San Domenico in Fano: “È merito di Nicola Evan-gelisti se questa cappella si ornò del quadro fi r-mato Jacopo Palma (il Giovane) rappresentante S.Tommaso d’Aquino”.Costui, con diposizione testamentaria del 12 giugno 1590, ebbe infatti a stabilire che i suoi eredi: “Accipere debeant operam Divi Th ome de Aquino iam compitam in civitate Venetis iuxta ordinem illustrissimi domini Guidobaldi a mon-te et illam ponere debeant in altare S.Th ome eiustem domini testatoris existente in ecclesia S.Dominici de Fano”. Ciò che regolarmente av-venne in data 19 gennaio 1591.

234

LA CHIESA DI SAN DOMENICO A FANO

Il passaggio del dipinto dal committente mar-chese Guidubaldo dal Monte all’Evangelisti, come suggerito dall’Ambrosini Massari: “Induce a ipotizzare rapporti di scambi tra collezionisti e fa pensare al ruolo di consulenti di alcuni fra i più infl uenti e raffi nati di loro, quale appunto poteva essere un signore come Guidubaldo dal Monte”.Un particolare curioso è ricordato dalla Boiani Tombari, riprendendolo dal Nolfi : “Il quadro fu guasto da un pittore ignorante che d’ordine di un priore indiscreto ricoprì i piedi ignudi di detto santo con farvi le scarpe”. Un ritocco as-surdo quanto ridicolo, cancellato nel corso del restauro a cui l’opera è stata sottoposta nel 1979 in occasione dell’importante mostra urbinate dedicata ai pittori nelle Marche tra Cinquecento e Seicento.

(FB)

Bibliografi a: Serra 1925, p. 32; Venturi 1934, IX, VII, p. 237; Mottini 1949, II, p. 286; Zampetti 1979 pp. 62-64; Zampetti 1980, p. 537, n. 62; Boiani Tombari 1981, pp. 56-57; Mason Rinaldi 1984, n. 94, fi g. 375; Arcangeli 1988 p. 396; Zampetti 1990, III, pp. 14 e 256, tav. 9; Ambrosini Massari 1993 pp. 42-43; Battistelli 1993, pp. 350-352.

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Particolare del gruppo di angioletti che sovrasta il capo di San Tommaso d’Aquino

Particolare dei piedi nudi di San Tommaso d’Aquinodopo il restauro che ha rimosso le scarpe fatte dipingere da un “priore indiscreto”

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Ignoto baroccesco(fi ne sec. XVI - primi decenni sec. XVII)

Annunciazione (copia dal Barocci)(olio su tela, cm 285 x 205)

L’Annunciazione del terzo altare di destra è copia direttamente derivata dall’originale che Federico Fiori detto “Il Baroccio” (Urbino, 1535 - 1612) dipinse fra il 1582 e il 1584 per la Cappella di Francesco Maria II Della Rovere (Cappella dei Duchi di Urbino) nella basilica di Loreto e che oggi si trova a Roma, nella Pinacoteca vaticana. Il soggetto ebbe una straordinaria fortuna e fu replicato per almeno un secolo da tutta la scuo-la baroccesca con varianti più o meno evidenti, in una innumerevole quantità di esemplari. Alla rapida divulgazione dello straordinario tema iconografi co contribuì per primo lo stesso Ba-rocci il quale, tradotta subito in stampa la sua felicissima invenzione, ne agevolò oltremodo la diff usione e la conoscenza.In una guida settecentesca fanese, la prima (Gui-da A) delle tre pubblicate a cura di Franco Bat-tistelli (1995, p. 20), il dipinto è indicato come opera del Paoletti. La scarna indicazione è ripre-sa, senza nulla aggiungere alla sua stringatezza, dall’Asioli (1910, p. 19), il quale scrive: “…l’al-tare con una copia dell’Annunciazione fatta dal Paoletti”. Chi sia questo pittore, di cui non si dice neppure il nome, non è dato sapere. I ten-tativi di rintracciarlo tra la fi tta schiera di scolari del grande urbinate o di pittori comunque legati alla sua arte, per lo più marchigiani e operosi da-gli ultimi decenni del Cinquecento a tutto il Sei-cento, non hanno dato risultato alcuno. Anche il Lanzi (1831, p. 325), che pure non dimentica nessuno, non conosce seguaci del Barocci con questo cognome.Del suo autore, chiunque esso sia, possiamo però dire che, frapponendo fra le due fi gure spa-zi più ampi, egli le sottrae, almeno parzialmente, a quell’equilibrio di rapporti che è tanto intimo quanto intenso nel prototipo; lo scorcio vedu-tistico, che ripropone quello stesso del Barocci con i torricini dell’urbinate palazzo feltresco e, più lontano, il campanile della chiesa di San

Francesco, è sommario e confuso, come anneb-biato tra le caligini serotine; nonostante ciò il pittore si pone come buon copista, in grado di accostarsi con sicurezza e maestria alle morbi-dezze cromatiche, ai deliziosi incarnati, alle raf-fi natezze espressive del maestro.

(GU)

Relazione tecnica di restauro

Il dipinto eseguito su una tela fi nissima e quasi priva di preparazione si presentava in pessimo stato di conservazione sia per la sua fragilità che per le pesanti ridipinture ed ossidazioni presenti sulla superfi cie.Rifoderata forse agli inizi del secolo passato con colla forte e farina, l’opera presentava sbollature, allentamenti ed abrasioni. Numerose le lacune ed i sollevamenti presenti nonché cadute di colo-re sparse su tutta l’opera.Dopo aver rimosso la foderatura precedente asportando dal retro lo spesso strato di colla si è provveduto al nuovo rifodero con tela di lino e pasta da rifodero.Il dipinto è stato quindi posizionato su nuovo telaio in abete autoestensibile. La pulitura della superfi cie dipinta eseguita con solventi volatili ha permesso una nuova lettura della cromia origina-le. Le lacune stuccate con gesso e colla animale sono poi state reintegrate con colori acquerello e velature fi nali con colori a vernice e secondo la Direzione dei lavori. Il fi ssaggio fi nale con ver-nice mastice nebulizzata ha ridato omogeneità a tutta la superfi cie.

(NP)

Bibliografi a: Lanzi 1795-96; Asioli 1910; Pitture 1995.

239

Pittore attivissimo, infaticabile, spesso ripetiti-vo, incarna il prototipo dell’artista provinciale inquieto. L’iniziale formazione è divisa fra gli Zuccari e il Barocci, così com’era avvenuto per il padre Giovanni Antonio, anche lui pittore e suo primo maestro, che Giovan Giacomo segue a Foligno, Perugia e poi a Rieti, dove si stabilisce fi no al 1600.A partire dai primi anni del secolo inizia l’attività intensa tra Pesaro e il circondario, connotata an-che da particolari suggestioni di realismo fi am-mingo evidenti in molte pale d’altare distribuite in chiese delle valli del Metauro, del Marecchia, del Foglia, oppure della costa.A Fano è chiamato nel 1628 per dipingere episo-di relativi a san Giovanni Battista nella cappella Alavolini di San Pietro in Valle: le uniche ancora esistenti della sua attività in questa città.L’opera più impegnativa della sua carriera è co-stituita dalla chiesa pesarese della confraternita del Nome di Dio: il soffi tto (1617-19) e le pareti (1634-36), totalmente ricoperti di tele dipinte ad olio, inserite in grandi cornici che creano eff etti di teatralità suggestiva e ancora del tutto intatta.

Annunciazione(olio su tela, cm 155 x 87)

E’ una delle quattro Annunciazioni fi nora note del Pandolfi : si aggiunge cioé a quelle conserva-te nella sagrestia della cattedrale di Cagli, nella chiesa di Roncaglia presso Pesaro (altare mag-giore), nella chiesa del Nome di Dio (una delle grandi tele alle pareti).Di committenza forse privata, il piccolo dipinto, acquistato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano nel 2005, presenta caratteri stilistici che lo avvicinano ad opere eseguite tra il 1620 e il ‘25, e pur nell’oscillante linguaggio pandolfi ano, ripropone analogie con personaggi già noti.La Madonna, ad esempio, caratterizzata come l’Angelo da grande semplicità, ha un viso molto simile alla santa Apollonia della pala di Macerata Feltria (chiesa di Santa Chiara) datata 1623. I piccoli angeli che spargono fi ori si ritrovano in numerosi quadri; appare qui piuttosto rigido il Padre Eterno che sovrasta la colomba dello Spi-rito santo.Nell’esecuzione delle opere per San Pietro in Valle il Pandolfi comincerà a dimostrare un lin-guaggio più convulso e realisticamente racca-pricciante, così come nel Sant’Andrea della Pina-coteca Civica di Fano.“L’evidente, progressivo sganciamento dalle vecchie linee parallele Zuccari-Barocci sfocia in simpatie sempre più forti per il realismo di Giovan Francesco Guerrieri da Fossombrone e per le opere di alcuni artisti nordici...” (Calegari 2005)

(GC)

Bibliografi a: Calegari 2005, pp. 220-233.

Giovanni Giacomo Pandolfi (Pesaro 1567 - Pesaro post 1636)

241

Fedele discepolo di Ludovico Carracci, Lorenzo Garbieri ne accentua gli aspetti più commossi e drammatici, caricandoli sino all’esasperazione.Fin dagli esordi (Compianto su Cristo morto del-l’oratorio bolognese di San Colombano databile al 1600-1602) non mancò infatti di manifestare il proprio forte temperamento, accentuando con netti contrasti luminosi il robusto e drammatico linguaggio del suo maestro.In altre sue opere si individuano anche echi ca-ravaggeschi e lombardi, mentre per certa vena patetica (Storie della Vergine nella chiesa mode-nese di San Bartolomeo risalenti al 1613-1614) affi orano rifl essi della coeva pittura parmense (Lanfranco e Badalocchio).Fedele al suo stile, anche nelle opere più tarde il Garbieri non mostra rilevanti mutamenti, pre-diligendo quelle macabre invenzioni per le quali andò famoso nella cronaca della pittura bolo-gnese del suo tempo.Fu intorno al 1617-1620 che fornì la bella tela con San Paolo che resuscita Eutichio per l’altare della cappella Marcolini nella chiesa fanese di San Pietro in Valle: tela caratterizzata dall’ener-gica e compendiaria resa dei lumi in rapporto all’acceso cromatismo degli abiti e dei volti e alla scenografi ca ambientazione di fondo.

San Gerolamo e l’Angelo(olio su tela, cm 150 x 112)

Il dipinto, apparso nel 1983 sul mercato anti-quario di New York con attribuzione generica alla “cerchia” di Ludovico Carracci, dopo l’ac-quisto da parte della Cassa di Risparmio di Fano è stato attentamente esaminato da più di uno studioso, copreso Daniele Benati che ha ritenuto opportuno inserirlo nel catalogo delle opere gio-vanili (intorno ai primi anni del ‘600) di Lorenzo Garbieri, il noto artista bolognese di chiara im-pronta carraccesca e ludovichiana in particolare.In tal senso vanno quindi lette le affi nità lingui-stiche con le opere licenziate da Ludvico Car-racci nell’arco dell’ultimo decennio del ‘500: in particolare il gesto scomposto del vecchio San Gerolamo che con il braccio alzato tende a schermarsi dalla luce improvvisa proveniente dal messaggero celeste, come pure la conseguente fascia d’ombra che si proietta nettissima sul vol-to del Santo e anche l’intera tavolozza cromatica, tenuta su un notturno registro violetto.Eff etti luministici non dissimili da quelli im-piegati più tardi dal Garbieri nella ricordata tela del San Paolo che resuscita Eutichio, dipinta dopo il 1617 per la cappella Marcolini in S.Pietro in Valle.

(FB)

Bibliografi a: Zampetti 1990, p. 354 e 372; Benati 1991, pp. 32-33; Bacchi 1993, pp. 278-279 (scheda 507); Battistelli, 1999, pp. 10-12.

Lorenzo Garbieri(Bologna 1580 - Bologna 1654)

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Giovanni Francesco Guerrieri(Fossombrone 1589 - Pesaro 1657)

Pittore quasi sconosciuto fi no al 1958 quando Andrea Emiliani se ne occupò per la prima vol-ta, il Guerrieri ha visto gradualmente riscoperta la sua notevole personalità artistica, unitamente alla sue principali vicende biografi che.Dalla nativa Fossombrone, l’artista si trasferì venticinquenne a Roma, dove fu al servizio di Marcantonio Borghese dal 1614 al 1618. Qui maturò la sua formazione artistica attraverso la conoscenza diretta della pittura caravaggesca e di quella di Orazio Gentileschi in particolare, da cui ricavò soprattutto le novità luministiche e il forte realismo, mediandolo con il gusto orna-mentale dei fi orentini allora attivi nella capitale pontifi cia.Rientrato nelle Marche, operò in diversi centri maggiori e minori (Fabriano, Sassoferrato, Fos-sombrone, Fano, Mondolfo, Serrungarina, Per-gola, ecc.) per chiese e privati committenti.Nella sola Fano ha lasciato più di venti tele fra pale d’altare, quadri devozionali, fi gure allegori-che e ritratti.Il ruolo avuto dalla regione Marche, crocevia geografi co e culturale fra l’ambiente romano e quello bolognese, portò gradualmente il Guer-rieri anche a subire il fascino della pittura del Domenichino e del Guercino con palesi rimandi agli stessi in più di una sua opera dove le forme si fanno più precise e il registro chiaroscurale meno denso.Gli ultimi due decenni di vita li trascorse a Pe-saro dove ebbe come collaboratrice la fi glia Ca-milla.

Santa Maria Maddalena penitente(olio su tela, cm 185 x 90)

Si tratta della prima opera fi rmata dal Guerrieri e datata 1611, già conservata in casa Cappella-ni-Pace a Fossombrone e fi nita una quindicina di anni or sono sul mercato antiquario romano dove è stata acquistata dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1993.Si tratta dell’originale di cui è replica più tarda (non meno di un decennio) l’analoga tela dipin-ta per la chiesa fanese di Santa Maria Maddalena (o chiesa delle Orfanelle) e oggi esposta presso la Pinacoteca Civica.È quindi opera di un giovane artista ventiduen-ne, già consapevole delle proprie scelte estetiche, maturate prima in terra marchigiana sui testi del Barocci e del De Magistris e poi a Roma su quel-li del Caravaggio e dei caravaggeschi (e di Orazio Gentileschi in particolare).Quasi “un saggio - come è stato scritto da An-drea Emiliani - della propria acquisita abilità esecutiva, della propria perizia tecnica, giocando sul terreno sicuro di una composizione consa-crata al successo”.Una palese adesione al realismo naturalistico come dimostrano gli oggetti sparsi alla base del quadro (il vasetto, la catene, il nastrino) e la chiocciola che striscia sul terreno sassoso accanto alla pianticella a larghe foglie.Degno di paricolare nota soprattutto l’eff etto lu-ministico che pone in evidenza il braccio ignudo e la spalla della Santa, insieme con le candide mani, i capelli fl uenti e la bianca camicia ripie-gata.

(FB)

Bibliografi a: Vernarecci 1892, p. 31; Emiliani 1958, pp. 68-69; Zampetti 1990, p. 300; Emiliani 1991, pp. 4-6 (scheda 4); Papi 1991, pp. 147 e 151; Morselli 1993, pp. 281-282 (scheda 509); Emiliani 1997, pp. 46-48 (scheda 4); Pizzorusso 1997, pp. 76-77 (scheda 1); Battistelli 1999, pp. 13-15.

245

Giovanni Francesco Guerrieri(Fossombrone 1589 - Pesaro 1657)

Madonna col Bambino e i Santi Francesco, Pietro e Giacomo(olio su tela, cm 325 x 200)

Il dipinto, acquistato e fatto restaurare dalla Fon-dazione Cassa di Risparmio di Fano nel 2006, fu originariamente dipinto dal Guerrieri per l’alta-re maggiore della chiesa dei Santi Pietro e Giaco-mo di Rocca Contrada (oggi Arcevia) intorno al 1625; data in cui i frati Cappuccini portarono a termine la costruzione del loro tempio.A seguito delle soppressioni postunitarie, nel 1880 i Cappuccini dovettero lasciare il conven-to, mentre la chiesa fi nì sconsacrata e ridotta ad usi civili. Fu allora che il nobile Anselmo Ansel-mi, noto storico e conoscitore d’arte, provvide a preservare il dipinto da una sicura dispersione (o da una probabile distruzione), assicurandolo alla ricca raccolta del proprio palazzo di famiglia dove l’opera è rimasta poi custodita fi no al re-cente acquisto da parte della Fondazione.Come ha scritto Marina Cellini: “La tela si rivela esemplare di un accostamento al tema sacro che, nel proporre una dignità oratoria e un pathos trattenuto, pare appellarsi ad altri modelli cin-quecenteschi lombardi tra Moretto e Savoldo, ai quali, con antico retaggio e avita memoria, si aggiungono poi i fondamenti romani della sua [del Guerrieri] educazione di caravaggesco rifor-mato: il Gentileschi, il Turchi e in questo caso probabilmente il primo Guido romano ma so-prattutto il Lanfranchi”.La stessa, dopo aver ricordato la spiccata tenden-za al verticalismo delle fi gure dipinte dall’artista forsempronese non sempre bilanciate con una gestualità più orizzontalmente distesa, conclu-de: “Qui è invece un altro comporre. I due Santi in primo piano raggiungono non solo il livello di fi sica consistenza ma di pregnante ingombro - effi cacemente ribadito dal protendersi in fuo-ri del ginocchio di San Giacomo -, accampano aggetti di persuasiva e classica oratoria, forman-do plastici chiasmi di gesti; questa cadenza è superbamente restituita avendo alla mente i lar-

ghi impianti compositivi - seppur di piani più liberamente espansi o franti -, le attitudini delle fi gure e gli ampi panneggi contrastati da eff etti di piena luce, di riverbero o di controluce del Lanfranco”.Più avanti: “Suggestivo nell’asciutta individua-zione è il paesaggio, segnato al centro dalla folta chioma della quercia; la suggestione dei bruni e soprattutto dei verdi, cupi o vellutati, coagula lo sguardo dalla veste di San Pietro, al fondo natu-rale delle foglie fi no alla sommità nella morbida eleganza della tunica dell’angelo di destra”.Senza procedere oltre, pare suffi ciente concludere con l’aff ermazione che nel dipinto in questione: “non si potrà non vedere una delle più felici e or-ganicamente risolte composizioni di tema sacro del Guerrieri, secondo un registro espressivo che avrebbe di lì a poco aff ascinato un altro marchi-giano, Simone Cantarini, pervicacemente teso a conciliare retaggio di natura, franca e risoluta, con la coltivata idea di bellezza reniana”.

(FB)

Bibliografi a: Anselmi 1888, p. 43; Vernarecci 1892, p. 95; Santi-ni 1984, p. 218; Cellini in Emiliani 1997, pp. 98-99.

246

LA CHIESA DI SAN DOMENICO A FANO

Relazione tecnica di restauro

L’opera si presentava in un avanzato stato di de-grado riscontrabile dalla diff usa alterazione cro-matica dovuta a depositi incoerenti, ridipinture e ossidazioni e dall’indebolimento strutturle del supporto in tela.La perdita di tensionamento del supporto pit-torico dal telaio, ormai non più funzionale, ha facilitato la caduta in alcune parti della pellicola pittorica e la formazione di avallamenti e segni impressi nel telaio.Sul retro del dipinto, in corrispondenza di lace-razioni del supporto, si sono riscontrati rattoppi in tela incollati con colla forte.In laboratorio l’opera è stata sottoposta ad un’ac-curata indagine visiva a luce di Wood (Raggi UV) per evidenziarne lo sporco, la presenza di ridi-pinture e di vernici ingiallite applicate in epoche precedenti. In seguito si è indagata la presenza di sollevamenti della pellicola pittorica mediante l’osservazione dell’opera a luce radente.L’intervento è iniziato con una delicata aspor-tazione di tutti quei depositi incoerenti che si erano accumulati sia sulla superfi cie dipinta che sul retro, mediante pennelli a setola morbida e aspiratori a bassa pressione.La pulitura eseguita mediante l’utilizzo di sol-venti accuratamente testati è stata fi nalizzata al-l’asportazione delle vecchie ridipinture e vernici ingiallite che opacizzavano i colori e le lumeg-giature.Consolidata e protetta la superfi cie pittorica si è proceduto al posizionamento del dipinto in orizzontale su un piano di lavoro per poter più agevolmente operare sul retro al fi ne di elimina-re i vecchi rattoppi debordanti.Le lacerazioni sono state risanate mediante il ripristino dell’originale tramatura della tela, ri-collegando le estremità con resina termoplastica e l’utilizzo del termocauterio.Ristabilite le buone condizioni strutturali e fun-zionamli del supporto si è deciso di non eseguire la tradizionale foderatura a colla-pasta evitando

così di sottoporre il dipinto ad ulteriori stress.La tecnica dello streep-lining ha permesso di age-volare il tiraggio della tela sul nuovo telaio.Il vecchio telaio ormai sconnesso e indebolito non garantiva più una adeguata funzionalità per cui è stato sostituito con uno nuovo ad espan-sione angolare.Asportate meccanicamente le vecchie stuccatu-re sono state sostituite con delle nuove a colla e gesso oro e successivamente rasate rino a livello della superfi cie.L’intervento di restauro si è concluso con la reintegrazione pittorica delle lacune mediante la tecnica della selezione cromatica ad acquerello e velature con colori a vernice.La verniciatura fi nale a Retroucher ha assicurato la protezione della pellicola pittorica dagli agenti esterni. Una documentazione fotografi ca ha ac-compagnato tutte le fasi del restauro. Le deci-sioni sugli interventi sono state prese in comune accordo con la Direzione dei lavori.

(IB)

247

Particolare della Madonna con il Bambino su un trono di nuvole

Particolare della fi gura di San Giacomo adorante

249

Giovanni Francesco Guerrieri(Fossombrone 1589 - Pesaro 1657)

La visione di San Carlo Borromeo(olio su tela, cm 172 x 111)

Il dipinto, acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1993, è una replica autografa, ridotta nelle dimensioni, della nota tela già posta sull’al-tare della cappella Petrucci, nella chiesa fanese di San Pietro in Valle (oggi presso la Pinacoteca Civica).È databile, pertanto, intorno al 1630 e si trovava fi no ad una quindicina di anni or sono in una collezione privata di Foligno dove fu rintracciato e segnalato da Bruno Toscano nel 1980.Il suo arrivo nella città umbra è probabilmente da collegare al prelato folignate Sebastiano Gen-tili che fu Governatore di Fano nel 1627-28 e del quale il Guerrieri eseguì un ritratto tuttora conservato a Foligno presso il Palazzo Spinola Gentili.La replica in questione presenta caratteristiche assai vicine (o addirittura identiche) al model-lo originario e raffi gura San Carlo Borromeo, inginocchiato davanti al Crocifi sso, nell’atto di osservare la doppia visione di Gesù in preghiera nell’orto di Gethsemani e di Santa Maria Mad-dalena dormiente: quasi un’immagine virtuale, originalmente inquadrata dal telaio di una fi ne-stra.Degni di nota per il suo realismo gli oggetti riu-niti sul tavolo, compresa la candela accesa che illumina con la sua fi amma il volto e l’abito del Santo con un caravaggesco eff etto luministico che coinvolge anche le fi gure dei due Angeli che emergono dal buio ad avvalorare e sottolineare l’eccezionalità della visione, là dove il teschio è posto a ricordare la “vanitas vanitatum”.

(FB)

Bibliografi a: Toscano 1980, p. 72; Emiliani 1991, pp. 74-75 (scheda 57); Morselli 1993, p. 282 (scheda 510); Emiliani 1997, pp. 114-115 (scheda 57); Battistelli 1999, pp. 16-17.

251

Giovanni Francesco Guerrieri(Fossombrone 1589 - Pesaro 1657)

Il miracolo dei pani e dei pesci(olio su tela, cm 295 x 193)

La grande tela, acquistata dalla Fondazione Cas-sa di Risparmio di Fano nel 1996, costituisce un importante recupero per il patrimonio artistico fanese. La stessa fu infatti dipinta dal Guerrieri per l’altare maggiore della chiesa oggi scomparsa dei Santi Filippo e Giacomo: chiesa annessa al monastero delle Clarisse.Ricordata nelle guide del secolo XVIII, la tela in questione fu rimossa nel corso delle note re-quisizioni napoleoniche del 1811 e trasferita in Lombardia dove fi nì collocata nella Parrocchiale di Casorate Primo (Pavia).Di qui scomparve prima del 1894, riapparen-do sul mercato antiquario di Londra solo nel 1992, quando fu venduta ad un’asta con l’errata attribuzione al bergamasco Giovanni Paolo Ca-vagna.Riconosciuta da Marina Cellini per l’opera per-duta del Guerrieri, è fi nalmente ritornata a Fano dopo diciotto decenni e più di assenza.Il noto episodio evangelico è presentato sulla tela con una elaborazione piuttosto complessa, sia per numero di fi gure, sia per la scenografi ca apertura paesaggistica che ne caratterizza la parte superiore.È stata ipotizzata una realizzazione da parte del Guerrieri entro la seconda decade del secolo XVII, probabilmente dopo il suo soggiorno ro-mano, presentando il dipinto i caratteri espressi dall’artista in questa fase della sua attività: l’in-tenso naturalismo come la limpidezza della luce che richiama lo stile del Bongianni, del Gramati-ca e quello di opposto segno del Domenichino.

(FB)

Bibliografi a: Tomani Amiani 1853 (1981), p. 101; Vernarecci 1892, pp. 24-25 (nota 35) e pp. 97-98; Cellini 1992, pp. 169-172; Moro 1994, pp. 173-177; Baracchi 1995, p. 305; Battistelli 1996, pp. 81-83; Cellini 1997, pp. 100-190 (scheda A 5); Batti-stelli 1999, pp. 18-19; Battistini 2001, pp. 98-99.

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Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino(Cento 1591- Bologna 1666)

Inizialmente il celebre pittore emiliano fu allievo in patria del pittoce centese Benedetto Gennari. Passato poi a Bologna, completò la sua educazio-ne artistica presso la scuola di Ludovico Carrac-ci. In seguito fu a Roma per un triennio (1621-1623) dove ebbe modo di apprezzare le opere del Caravaggio, subendone una palese infl uenza.Ritiratosi succesivamente nella sua città natale, vi rimase per un ventennio circa producendovi numerose opere. Dopo la morte del suo rivale Guido Reni (1642), si trasferì infi ne a Bologna dove dominò il campo pittorico, eseguendo molti dipinti che del Reni riproposero più di un elemento stilistico.Pittore fecondissimo, il Guercino oscillò nelle sue opere fra le dolcezze sentimentali allora di moda e un istintivo gusto realistico che gli fece spesso inserire nelle composizioni vivaci fi gure ricavate dal vero. Predilesse anche i violenti gio-chi di luce e di ombre magistralmente chiaro-scurati.Merita ricordare che il Guercino per Fano, oltre alla Sposalzio della Vergine, eseguì altri due dipin-ti famosi: l’Angelo Custode (1641) per la cappella Nolfi in Sant’Agostino (oggi in deposito presso la Pinacoteca Civica) e il San Giovanni al fonte (1661) per la cappella Alavolini in San Pietro in Valle (dipinto asportato nel 1799 dalle truppe francesi e da tempo conservato al Musée Fabre di Montpellier).

Sposalizio della Vergine(olio su tela, cm 310 x 190)

È un dipinto famoso, eseguito dal Guercino nel 1649 per l’altare della famiglia Mariotti nella chiesa fanese di San Paterniano.Lì rimase fno al 1895 quando venne rubato e poco dopo recuperato in cattive condizioni per-ché malamente arrotolato dai ladri.Sostituito in chiesa da una buona copia fi rmata dal pittore fanese Giusto Cespi, venne da allora custodito presso il Palazzo Mariotti già lungo via Garibaldi.Dopo l’abbattimento di quest’ultimo, nel 1967 fu fi nalmente restaurato e subito dopo (1969) acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano che provvide a collocarlo nel proprio Salone di rap-presentanza dove è rimasto esposto fi no al suo recente trasferiento in San Domenico con tutti gli altri dipinti a soggetto sacro della Quadreria della Fondazione.Il Guercino off re in quest’opera abbastanza tar-da un raro esempio di composizione ‘classica’, perfettamente equilibrata e disposta frontalmen-te, con le tre magnifi che fi gure principali poste in primo piano.Magistrale è l’uso della luce e dei colori e splen-dida la resa dei drappeggi, solo in apparenza semplice e frutto invece di accurati studi docu-mentati da più di un disegno preparatorio.

(FB)

Bibliografi a: Malvasia 1658, p. 376 (ed. 1841, II, p. 267); To-mani Amiani 1853 (1981, p. 151); Mahon 1968, nn. 162, 163; Battistelli e Diotallevi 1982, pp. 109-110 e [134]; Salerno 1988, p. 310, n. 258; Stone 1991, p. 251, n. 241; Polverari 1991, pp. 45-49; Mahon 1991, pp. 312-313; Mahon 1993, pp. 279-281 (scheda 508); Battistelli 1999, pp. 22-24.

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Simone Cantarini(Pesaro 1612 - Verona 1648)

Artista solitario e drammatico, il pesarese Can-tarini occupa nel campo dell’arte barocca della prima metà del secolo XVII un ruolo che lo av-vicina per più di un aspetto al Caravaggio, sia per la vita stentata e vagabonda che per la morte precoce a soli trentasei anni.Inizialmente allievo del concittadino Gian Gia-como Pandolfi , dopo un viaggio a Venezia, tornò in patria per continuare la propria formazione alla scuola del veronese Claudio Ridolfi .Dopo il periodo tardobaroccesco e l’avvento in area marchgiana dei maggiori pittori bolognesi da un lato e dei caravaggeschi dall’altro, il Can-tarini trascorse un burrascoso periodo a contatto con Guido Reni di cui non accettava, pur suben-done l’infl usso, per superbia e in relazione alle proprie indubbie grandi capacità, la supremazia di Maestro.Fu un incontro-scontro fra due culture, con la tendenza nel Cantarini a sperimentarsi in liber-tà.A causa del suo carattere litigioso e per questioni di donne, attorno al 1635 aveva lasciato Pesaro per Bologna, ma già nel 1639 era di ritorno in patria da dove si trasferì a Roma, restandovi fi no al 1642.Dopo quest’ultima data, essendo morto il Reni, fu nuovamente a Bologna in un’atmosfera per lui più vivibile.Chiamato a Mantova nel 1647 da Carlo II Gon-zaga, vi trovò un ambiente ostile che lo umiliò profondamente, tanto da indurlo a trasferirsi a Verona: città dove trovò però una morte prema-tura non senza sospetti di venefi cio.Per Fano il Cantarini ha dipinto quello che viene oggi considerato il suo capolavoro, lo splendi-do San Pietro che risana lo storpio che ornava il presbiterio di San Pietro in Valle (oggi presso la Pinacoteca Civica) e le due pale della Madonna della Cintura e del San Tommaso da Villanova pure oggi conservate presso la Pinacoteca Civi-ca.

Madonna della rosa(olio su tela, cm 103 x 82)

È un progevole dipinto, acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1982 tramite il merca-to antiquario. Proviene da una collezione privata di ignota ubicazione ed è replica di un quadro analogo di cui si conosce più di una redazione autografa insieme a varie copie.La bellezza dei volti e dei particolari rendono molto probabile la paternità cantarinana del-l’opera o comunque una esecuzione all’interno della sua bottega.Certo è che il soggetto piacque ai contemporanei per l’originalità della composizine, con la Vergi-ne e il Bambino posti in primo piano, fronte a fronte, profi lo contro profi lo, così da giustifi care la richiesta di più di una replica.La rosa e la corona che il Bambino tiene nelle proprie mani alludono alle gioie e ai dolori pro-vati dalla Madre divina.La critica data l’originale di quest’opera al pe-riodo romano dell’artista (1639-1642) per le caratteristiche di pacato classicismo d’impronta raff aellesca, tutto pervaso di tenero intimismo che ne caratterizza fi gure e atmosfera.

(FB)

Bibliografi a: Battistelli e Diotallevi 1982, pp. 110 e [135]: Am-brosini Massari 1993, pp. 276-277 (scheda 504); Battistelli 1999, pp. 26-27.

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Simone Cantarini(Pesaro 1612 - Verona 1648)

L’Arcangelo Michele con Agar e Ismaele nel deserto(olio su tela, cm 59 x 77)

Il dipinto, acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano sul mercato antiquario nel 1984, è rife-ribile all’episodio biblico (Genesi, 21, 9-21) che narra come Abramo, dopo la nascita di Isacco da Sara, scacciò la prima moglie Agar con il fi glio Ismaele nel deserto di Betsabea.Mentre Agar si disperava piangendo per la pros-sima fi ne del fi glioletto a causa della mancanza d’acqua, l’Arcangelo Michele discese dal cielo a consolarla e a indicarle un pozzo che consentì alla donna e al fanciullo di salvarsi.È noto che un dipinto su rame con tale soggetto fu commissionato al Cantarini dal mercante ve-neziano Gaspare di Luca e che lo stesso soggetto venne poi replicato su tela dal Cantarini per la quadreria del bolognese Machiavelli.Alcuni critici hanno quindi supposto che pro-prio quest’ultimo dipinto possa essere identi-fi cato con questo acquistato dalla Cassa di Ri-sparmio, tenuto conto che “la tela risulta - come aff ermato dalla Ambrosini Massari - un piccolo gioiello di delicata poesia, dove il naturale di Si-mone costruisce un insieme di straordinaria ef-fi cacia nel trascorrere della luce sugli incarnati e sul paesaggio digradante sullo sfondo del cielo nuvoloso”.Circa la data dell’opera, la critica è propensa a riferirla al primo periodo bolognese del pittore (1635-1639), quindi anteriore al soggiorno ro-mano dello stesso (1639-1642).

(FB)

Bibliografi a: Ambrosini Massari 1993, p. 277 (scheda 505); Bat-tistelli 1999, pp. 28-29.

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Simone Cantarini(Pesaro 1612 - Verona 1648)

Madonna con il Bambino e i Santi Tommasoe Girolamo(olio su tela, cm 105 x 80)

Anche questa piccola tela, proveniente dalla col-lezione Menghi di Rimini, fu acquistata dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1984, mentre una tela analoga, già presso la collezione Cac-ciaguerra-Perticari di Sant’Angelo in Lizzola, fu invece acquistata dalla Cassa di Risparmio di Pesaro.In entrambi i casi si tratta di copie di piccolo for-mato (attribuite al Cantarini non senza giustifi -cate riserve) della celebre ‘Pala Olivieri’ di Guido Reni, così denominata dall’omonima famiglia che la commissionò per la propria cappella nel Duomo d Pesaro: cappella dove fu collocata nel 1632.Le fonti storiche ricordano che il Cantarini ri-mase folgorato dall’opera reniana, tanto da de-nunciarne l’infl usso nel suo stile successivo; ciò che d’altronde era già accaduto con le due tele eseguite dal Reni per la chiesa fanese di San Pie-tro in Valle (la Annunciazione nel 1621 e la Con-segna delle chiavi nel 1626).Tale infl usso è soprattutto evidente nella grande tela della Madonna della Cintura, eseguita dal Cantarini nel 1632-34 per la chiesa conventuale deli agostiniani di Brettino, oggi presso la Pina-coteca Civica di Fano.La piccola tela in questione può quindi far pen-sare ad una esercitazione scolastica di un Canta-rini ventenne, tutto preso dal giovanile desiderio di far proprio il celebre modello reniano.

(FB)

Bibliograifa: Mancigotti 1975, p. 75, fi gg. 11 e 12; Colombi Ferretti 1976, p. 1536; Zampetti 1990, p. 392, n. 35; Colombi Ferretti 1992, p. 130; Ambrosini Massari 1993, pp. 277-278 (scheda 506); Battistelli 1999, pp. 30-31.

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Ignoto scuola marchigiana(secolo XVII)

Il sogno di San Giuseppe(olio su tela, cm 141 x 118)

Acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1983, il dipinto è stato attribuito in passato a Simone Cantarini per i rapporti con l’opera can-tariniana di medesmo soggetto conservata nel Duomo di Camerino. Un’attribuzione respinta da Raff aella Morselli perché: “I forti accenti chia-roscurali, il taglio dato alla composizione, tutto concentrato sull’angelo e sul santo, la virtuosità pittorica di quel drappo nero a righe rosse pro-fondamente intriso di venetismo, porta lontano dalla cultura del pittore pesarese”.La stessa pone invece in evidenza la forte analo-gia con l’identico soggetto dipinto per la chiesa di San Benedetto a Fabriano dal vicentino, ma di cultura romana, Pasqualino Rossi: un pittore che ha lasciato una quindicina di opere in area marchigiana, esercitando un forte ascendente sui pittori locali.Sempre Raff aella Morselli conclude: “L’auto-re della tela fanese deve aver subito a tal punto queste suggestioni da assumere a modello la tela di Pasqualino Rossi, senza dimenticare la lezio-ne del Cantarini; la sua identità per ora rimane sconosciuta, ma in forza di queste considerazio-ni non si può escludere che si tratti dello stesso pittore veneto o di un pittore proveniente dal medesimo ambito”.

(FB)

Bibliografi a: Morselli 1993, p. 282 (scheda 512; Battistelli 1999, pp. 32-33.

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Ignoto scuola romana(secolo XVII)

Madonna con il Bambino sulle nubi(olio su tela, cm 101,5 x 71)

Acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1976 presso un privato, il dipinto costitui-sce la parte superiore di una pala d’altare andata smembrata e parzialmente distrutta; ciò che ri-sulta evidente dallo sguardo della Vergine e da quello del Bambino palesemente rivolti verso il basso, in direzione di uno o più Santi che, in de-voto raccoglimento, dovevano occupare la parte perduta del quadro.L’ignoto autore è da ricercare fra gli imitatori dei modelli seicenteschi romani, non lontano dallo stile di Andrea Sacchi.Gabriello Milantoni ha suggerito di confrontare le immagini della Madonna e del Bambino con quelle raffi gurate nel Riposo in Egitto del Sacchi, oggi presso la Gemäledgalerie di Dresda.Il Sacchi, d’altronde, ha lasciato propri dipinti in più di una chiesa machigiana, compresa la chiesa fanese (oggi scomparsa) dei Santi Filippo e Giacomo: chiesa da cui proviene la pala della Assunta, più tardi acquistata dal padre fi lippino Camillo di Montevecchio che la trasferì nella co-siddetta “chiesuola” di Santa Maria Assunta in Monteporzio dove è tuttora custodita.

(FB)

Bibliografi a; Morselli 1993, p. 282 (scheda 513); Battistelli 2002, pp. 63-65.

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Felice Torelli(Verona 1667 - Bologna 1748)

Nato a Verona, dove fu inizialmente allievo di Sante Prunati, il Torelli si trasferì ventenne a Bo-logna dove gli fu maestro Gioseff o Dal Sole di cui sviluppò il linguaggio in termini ancor più barocchi, mantenendo contemporaneamente costanti rapporti con Verona e il Veneto.Diverse sono le sue grande tele d’altare come lo stendardo della chiesa di San Domenico di Bo-logna, realizzato in occasione della canonizzazio-ne (1712) di San Pio V Papa, e come l’Assunta della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo di Roma (1716) o la Trinità e Santi dell’omonima chiesa di Bologna (1723).Altre sue più tarde grandi tele sono la Madonna e San Nicolò di Santa Maria in Organo di Verona (1727), il Miracolo di San Ranieri del Duomo di Pisa (1730), il Martirio di Sant’Aurelio del Duo-mo di Ferrara (1735) e il San Vincenzo Ferreri del Duomo di Faenza (1740).Più interessanti sono comunque ritenute altre sue opere come L’estasi di Santa Teresa oggi pres-so la Galleria di Monaco, i ritratti Malvezzi del Castello di Dozza Imolese e i due quadri della chiesa di Santa Maria delle Grazie di Bologna in cui la tradizione pittorica bolognese acquista una vivacità di ritmi compositivi che ne costi-tuiscono il metro di distinzione nei confronti di pittori suoi contemporanei come il Pasinelli e il Monti.È del Torelli anche la tela con I Santi Francesco di Sales e Ignazio della chiesa del Suff ragio di Ba-gnacavallo.

Madonna del Rosario(olio su tela, cm 374,6 x 225,6)

Dall’epoca della sua esecuzione (prima metà del sec. XVIII), la grande tela di Felice Torelli ha sempre fatto bella mostra di sé sul secondo altare laterale di sinistra della chiesa di San Domenico. Essa raffi gura la Madonna del Rosario, cioè l’im-magine della Vergine con il Bambino nell’atto di porgere il rosario a San Domenico; leggermente genufl esso quest’ultimo sulla destra, mentre sul-la sinistra è inginocchiato San Pio V Papa (Mi-chele Ghislieri).Esiste in una collezione privata un disegno a sanguigna (mm 317x250), autografo del Torelli, recante sul retro la seguente scritta: “Dissegno ap-prouato da’PP. di S.d.co di fano, acciò il S.Torelli Pittore in Bologna / facci un quadro alto piedi 10 elargo piedi 6 p la Chiesa di fano con questo patto che / il uolto di S.Pio sia copiato dal ritratto del med.S.° che si trova in casa Ghisilieri e, / quello del P.S. d.co dalla di lui effi gie più naturale, che si troui nel suo Con.to di / Bol.na ecché a’piedi di S.Pio vi sia il triregno, e apiedi di S.Dom.co il / cane colla facella in atto di brugiar il mondo, e la stella in fronte, e molte / galee distribuite in due meze lune in lontananza, una squadra / in atto di sommergersi sia segnata ne stendardi collamezzalu-na, l’altra vinci / trice colla croce di malta, o’rossa, o’coll’arma di S.Pio, o’di Spagna”.Raff rontato il disegno con il dipinto, risulta su-bito evidente che il primo ha tutti i caratteri di un abbozzo sommario rispetto alla composizio-ne defi nitiva; non peraltro tanto sommario da non contenere ‘in nuce’ gli elementi fondamen-tali del quadro.Anzitutto l’immagine della Vergine con il Bam-bino in grembo che porge il rosario a San Do-menico. Nel trapasso dal disegno al dipinto la fi gura ha però mutato del tutto l’atteggiamento del viso: volto al cielo, estatico e distaccato nel primo, maternamente e serenamente rivolto al Santo nel secondo. E inoltre più allungato que-st’ultimo, proteso a ricevere il rosario verso cui

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LA CHIESA DI SAN DOMENICO A FANO

rivolge lo sguardo, mentre nel disegno l’intera fi gura appare più tozza e insaccata.Decisamente più affi ni tra loro sono invece le due immagini di San Pio V, sia nel caratteristico profi lo evidenziato dalla lunga barba, sia nel ge-sto delle braccia allargate sotto il peso del grande manto papale. E così pure i due angioletti svo-lazzanti sul capo della Vergine in atto di reggere un’ampia corona.Va infi ne evidenziato che la costruzione dell’in-tero dipinto, pur mantenendo come nel disegno la distribuzione a triangolo delle fi gure, appare ben più articolata.Tutta la zona destra del quadro infatti è soggetta ad una palese levitazione lungo l’asse trasversale che, dalla fi gura di San Domenico, passa attra-verso quella della Vergine e culmina nel moto ascensionale dell’angioletto ignudo che, sulla sinistra, pare come risucchiato da un vortice ce-leste.Più statico il fronte opposto, quasi bloccato dal gesto del Bambino, ben diverso nella sua plastica nudità da quello incerto e malfermo del disegno, facendo da vertice destro con il capo ad un mi-nore triangolo rovesciato, avente come vertice inferiore la testa di San Pio V e, sulla sinistra, le teste accostate delle due fi gure angeliche, spetta-trici mute dell’intera scena.È anzi proprio la presenza di queste due fi gu-re, appena accennate nel disegno, a dare alla composizione pittorica un equilibrio diverso da quello inizialmente previsto: un equilibrio di cui appaiono elemento fondamentale anche i due putti in primo piano, a destra in basso e non presenti nel disegno, posti ai piedi di San Do-menico, quasi a volerne favorire ed evidenziare la spinta ascensionale.Ben evidente quest’ultima anche attraverso il contrasto prodotto dal fondale di orizzonte ma-rino che si spalanca sotto il trono di nuvole della Vergine e costituisce il punto di fuga dell’intera parte inferiore.Il dipinto, nonostante la chiesa di San Dome-nico sia rimasta seriamente danneggiata dagli

eventi bellici dell’agosto 1944 e da allora non più riaperta al culto, ha continuato ad occupare il suo posto fi no all’estate del 1978, allorché si è resa necessaria la sua rimozione e trasferimento in luogo più sicuro a seguito di un gesto vanda-lico che ha visto il dipinto gravemente sfi gurato e lacerato da un gruppo di ragazzi, penetrati fur-tivamente all’interno del tempio a far scempio di quanto ancora vi era conservato.Dopo il restauro e una provvisoria esposizione nella chiesa di Santa Maria del Suff ragio, la tela è ora stata riportata sull’altare originario; auten-tico capolavoro, quest’ultimo, dell’arte dell’inta-glio e della doratura barocchi, da cui sono pur-troppo scomparse le dodici telette ovali dedicate ai Misteri del Rosario che affi ancavano sui due lati, entro eleganti cartigli, il dipinto torelliano.Evidenziato tutto ciò, non resta che accennare al problema della datazione dell’opera. Tenuto conto che anche il disegno non è data-to, l’unica data ipotizzabile è da porsi dopo il rinnovo interno della chiesa operato dal Gaspa-roli (1703-1708) e prima della data di pubblica-zione della “Storia dell’Accademia Clementina di Bologna” dello Zanotti (1748) dove si legge: “Hanno i padri domenicani di Fano una bella tavola con san Pio V, quand’ebbe la visione di quella famosa battaglia navale, in cui sopra i tur-chi ebbero i cristiani vittoria”: la storica battaglia navale, quindi, di Lepanto (1571).

(FB)

Bibliografi a: Zanotti 1739, II, p. 84; Francolini 1883, p. 44; Asioli 1910, p. 18; Paolucci 1934, p. 501; Selvelli, 1943, p. 128; Miller 1964; Zander 1965, pp. 587-603; Battistelli 1979, pp. 89-92; Tomani Amiani 1981, Dizionario 1983, p. 116; p. 94; Battistelli 1995, p. 21.

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Particolare della Madonna del Rosario con il Bambino e San Domenico

Particolare di San Pio V Papa adorante

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Francesco Mancini(Sant’Angelo in Vado 1679 - Roma 1758)

Vadese (e quindi marchigiano) di nascita, Fran-cesco Mancini è documentato a Roma a parti-re dal 1725 dove ebbe bottega e dove addestrrò alla pittura più di un allievo, compresi il fanese Sebastiano Ceccarini e il pesarese Gianandrea Lazzarini. Sempre in Roma fu principe dell’Ac-cademia di San Luca.In gioventù, come precisato da Andrea Emiliani: “Incontrò in Forlì l’attività avanzata, ma sempre nobile, di Carlo Cignani, Principe dell’Accade-mia Clementina benché allontanatosi dalla na-tia Bologna. E poprio nella congiunzione che il Mancini opera tra la nobile accademia bologne-se, l’arcadia di Marcantonio Franceschini (altro maestro dell’Accademia Clementina) e infi ne in Roma, il formalismo sentimentale del marchi-giano Carlo Maratta, si apre un capitolo della pìittura italiana del XVIII secolo di autentica bellezza”.Merita ricordare che il Mancini ottenne nel 1726 la cittadinanza onoraria di Fano come riconosci-mento per i progressi conseguiti da Sebastiano Ceccarini presso la sua bottega romana.Per Fano il Mancini dipinse la grande tela d’alta-re della Madonna con il Bambino e i Santi Cristi-na, Francesco e Felice da Cantalice, già sull’altare maggiore della scomparsa chiesa di Santa Cristi-na e ora presso la Pinacoteca Civica, dove pure sono conservati un San Giovanni Battista e una Vergine Addolorata donati dal pittore al Comune di Fano a titolo di ringraziamento per la ricorda-ta cittadinanza onoraria.

Sacra Famiglia (Riposo durante la fuga in Egitto)(olio su tela, cm 125,2 x 93,3 )

La bella tela, acquistata dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano nel 2002 presso un colle-zionista privato, è replica autografa di un dipin-to conservato presso la Pinacoteca Vaticana di analoghe misure, ma accresciuto di tre immagini di angeli e ambientato in un Egitto classicheg-giante.Da un’iniziale attribuzione a Carlo Maratta, la replica in questione già nel 1924 è stata attri-buita al Mancini da Hermann Voss nel suo noto trattato sull’arte barocca a Roma.A giudizio del ricordato Emiliani: “Rispetto al-l’archetipo vaticano, privilegiato e tuttavia anche agghindato, caricato forse di tre fi gure angeliche di somma grazia, l’ovale oggi a Fano sospinge ancor più la freschezza dell’impronta ottica e cromatica sulle tre fi gure della Famiglia, carican-done visibilmente tono e valori, e circondando le forme viventi con un avvolgente ambiente di paesaggio rustico. Grazie a questa risoluzione il Riposo della Sacra Famiglia libera una sua quasi più moderna concezione formale profi ttando di un pittoricismo immerso in una freschissima lu-minosità”.

(FB)

Bibliografi a: Battistelli 2005, pp. 131-133.

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Sebastiano Ceccarini(Fano 1703 - Fano 1783)

Sebastiano Ceccarini fu il maggiore e più fe-condo pittore fanese del secolo XVIII. Allievo nella bottega romana del conterraneo Francesco Mancini di Sant’Angelo in Vado, collaborò con il maestro nella realizzazione di varie opere a Forlì, Perugia e Roma.In quest’ultima città, dopo un triennio di viaggi che lo portarono a Bologna, Venezia e Firenze, ebbe nel 1738 residenza e bottega proprie dove produsse opere nello stile dei maggiori maestri allora attivi nella capitale pontifi cia.Fra tali opere si annoverano alcune pale d’altare, soggetti sacri e profani, allegorie, nature morte e diversi ritratti per i quali ricevette importanti commissioni.Rientrò a Fano nel 1754 dove continuò ad ope-rare apprezzatissimo per chiese, comunità mo-nastiche e patriziato locale avendo come allievi-collaboratori i fi gli Nicola e Giuseppe, oltre al nipote Carlo Magini.Quando scomparve ottantenne, il numero del-le sue opere maggiori superava ormai il centi-naio così che diversi suoi dipinti sono ancora oggi visibili a Fano in Cattedrale e nelle chiese di San Paterniano e Sant’Antonio Abate, presso il nuovo Convento delle Carmelitane Scalze a Sant’Andrea in Villis e soprattutto nella Pinaco-teca Civica.Il suo è uno stile eclettico che privilegia forme e atteggiamenti di dolce e garbato realismo, senza rinunciare, soprattutto nei ritratti, al fasto or-namentale di ricchi abiti, gioielli, pizzi, nastri, parrucche e acconciature.

Madonna del Rosario(olio su tela, cm 254 x 137)

Il dipinto, acquistato dalla Cassa di Risparmio di Fano nel 1990, proviene dalla piccola cappella rurale sita al piano terreno della settecentesca ex Villa Rinalducci in località Rosciano: cappella di cui la tela in questione ornava la parete retro-stante l’altare.Storici e studiosi d’arte come Stefano Tomani Amiani (1853) e Luigi Servolini (1959) hanno attribuito in passato la tela a Sebastiano Ceccari-ni, ma più recentemente Bonita Cleri (1990) ha fatto anche il nome di Carlo Magini (Fano 1820 - Fano 1806).La stessa Cleri ha inoltre rilevato “chiare remine-scenze manciniane e romane riscontrabili parti-colarmente nel volto della Vergine e nel panneg-gio del manto enfaticamente gonfi ato”.Certo è che il dipinto, soprattutto nella corona di angioletti che circondano la Vergine, presenta decise affi nità con le opere più legate al gusto rococò di Francesco Mancini, di cui il Ceccarini fu allievo in Roma, ma anche con quelle di Giu-seppe Chiari e Sebastiano Conca.Accettabile, quindi, l’attribuzione al Ceccarini che avrebbe eseguito la tela intorno al 1740, ma con larghi interventi di bottega (e quindi anche del fi glio Giuseppe e dell’allievo e nipote Carlo Magini), individuabili in quelle parti dove il li-vello qualitativo dell’opera accusa difetti e incer-tezze varie.

(FB)

Bibliografi a: Tomani Amiani 1853 (1981), p. 199; Servolini 1959, p. 47; Cleri in Zampetti 1990, p. 131 (scheda 39); Battisti-ni 1993, p. 283 (scheda 515); Battistelli 1999, pp. 36 e 41-42.

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Sebastiano Ceccarini(Fano 1703 - Fano 1783)

Madonna in gloria con Bambino, San Giuseppe e Angeli(olio su tela, cm 125 x 100)

L’iconografi a rappresentata si colloca a metà stra-da tra la raffi gurazione della Madonna in gloria e quella della Sacra Familia data la presenza di San Giuseppe.La tela risulta, ad evidenza, tipica delle poetiche compositive di Sebastiano Ceccarini al passag-gio, o poco oltre, della metà del secolo XVIII - e quindi intorno al 1755 - qundo, avviato decisa-mente verso la maturità pittorica, l’artista fanese coniugava gli ottimi riusltati delle infl uenze bo-lognesi (coeve e precedenti) e quelle dell’appren-distato romano. Il dipinto può essere benissimo accostato, e parametrato, alle due realizzazioni presenti nella chiesa di Sant’Antonio Abate di Fano: Sacra Famiglia con i Santi Gioacchino ed Anna e Vergine con i Santi Liberata, Gaetano da Th iene e Antonio da Padova con il Bambino. Una replica in formato ridotto del primo di tali di-pinti è conservata nella chiesa di Santa Maria della Misericordia di Cartoceto e altro ancora presso una raccolta privata.L’opera, acquistata dalla Fondazione Cassa di Ri-sparmio di Fano nel 1999, è stata accuratamente rintelata e restaurata da Isidoro Bacchiocca.

(FB)

Bibliografi a: Cleri 1992, pp. 74-78; Battistelli e Deli 2001, pp. 55-57, 68-70 e 100.

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Sebastiano Ceccarini(Fano 1703 - Fano 1783)

Estasi di San Filippo Neri(olio su tela, cm 125 x 100)

San Filippo Neri è ritrattto nell’impostazione iconografi ca più canonica e conosciuta, anche se l’artista fanese pare, nel muovere i pennelli, più attento a realizzare l’immagine del santo tout court, piuttosto che addentrarsi nella visualiz-zazione dell’estasi durante la celebrazione della santa messa, in cui si dice incorresse San Filippo Neri (si veda per un confronto sul tema la prege-vole tela raffi gurante la Madonna con il Bambino che appare a San Filippo Neri di Luigi Garzi già in San Pietro in Valle e oggi presso la Pinacoteca Civica). Lo sgardo del Santo rivolto al cielo e la presenza degli angeli, comunque, saldano il con-to con lo spirito della Controriforma e così an-che la pianeta color rosa di una delle due dome-niche “in laetare”, come la presenza del messale, del giglio e del suo “grande” cuore. Va ricordato e segnalato che nella Collezione Pallavicini di Roma è presente un identico dipinto ad olio su tela (cm 55,6 x 38,5) - ridotto quindi di circa la metà rispetto alle misure della tela ceccariniana - con attribuzione a Simone Cantarini. Un’at-tribuzione che non si ritiene possa essere vali-damente sostenuta, mentre potrebbe trattarsi di un’anticipazione (un bozzetto) o una replica del dipinto in esame.La tela, acquistata dalla Fondazione Cassa di Ri-sparmio di Fano nel 1999, è stata accuratamente rintelata e restaurata da Isidoro Bacchiocca.

(FB)

Bibliografi a: Battistelli e Deli, pp. 58-60 e 101.

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Gaetano Lapis(Cagli 1709 - Roma 1773)

Allievo di Cristoforo Creo e di Sebastiano e Gio-vanni Conca, Gaetano Lapis operò soprattutto a Roma, entrando a far parte della congregazione dei Virtuosi del Pantheon (1739) e dell’Accade-mia di San Luca (1741).Numerose sono le opere realizzate da Lapis per le chiese e i palazzi di Roma, ma anche per vari centri dell’Umbria e delle Marche, in particolare per la nativa Cagli.Le sue opere, un po’ rigide negli impianti com-positivi, precise nel disegno e caratterizzate da colori freddi e talvolta stridenti, ne fanno un fe-dele seguace della tradizione classica del conter-raneo Carlo Maratta.Dolci e manierate sono considerate dalla critica le sue Madonne, non prive di grazia e di elegan-za.Fu, come ha scritto Claudi Strinati: “Un artista tra i maggiori del suo tempo, di mano notevole e di estrema sensibilità e cultura”.Fu anche uno degli artisti che per primi concepi-rono uno stile preludente alla compostezza for-male di quello che fu poi il neoclassicismo. Una compostezza, a detta di Alberto Mazzacchera: “già dotata di quei criteri di limpidezza, equili-brio e armonia destinati ad essere sviluppati da tutta una generazione di successivi artisti”.

San Giovanni da Capistrano(olio su tela, cm 135 x 98)

Il dipinto, acquistato dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Fano nel 1997, fu rinvenuto una decina di anni or sono in una casa irlandese da parte di un antiquario di Londra.Già attribuito al Lapis, fu giudicato opera auto-grafa del pittore cagliese anche dall’esperta Stella Rudolph.Alberto Mazzacchera lo giudica cronologica-mente accostabile a San Giuseppe Calasanzio che indica la Madonna ai fanciulli eseguito dal Lapis nel 1765 e conservato presso il santuario della Madonna di Frascati.Affi nità sono state inoltre notate anche con la tela raffi gurante L’estasi di San Giuseppe da Co-pertino dipinta nel 1762 per i francescani di Pe-rugia.Lo stile dell’opera, rispetto ad altri dipinti del Lapis, è decisamente più severo: ciò che accade-va in opere con committenze parrocchiali o di ordini pauperistici che richiedevano il ricorso ad un linguaggio semplice e senza troppi fronzoli.Il Santo, riprodotto al centro della composi-zione, nell’atto di arringare un gruppo di umi-li devoti (donne, giovani e bambini) distribuiti in varie pose sui due lati, è stato ipotizzato che raffi guri San Giovanni da Capistrano, mentre è stata scartata la proposta che possa invece raffi -gurare San Giacomo della Marca per mancanza di adeguati riscontri iconografi ci.

(FB)

Bibliografi a: Mazzacchera 1998, pp. 83-85; Battistelli 1999, pp. 44-46.

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Giovanni Andrea Lazzarini(Pesaro 1710 - Pesaro 1801)

Pittore, architetto, teorico, ceramologo, sacerdo-te, teologo, poeta, insegnante di catechismo e di belle arti, riassume in sé le tendenze eclettiche ed enciclopediche del tempo, in una dimensione provinciale non esclusa, comunque, da rapporti con personaggi della levatura di Francesco Alga-rotti o di Raff aello Mengs.La sua cultura vastissima si può sintetizzare, se-guendo la sola produzione pittorica, nel classici-smo appreso a Roma dal 1734 in poi alla scuola di Francesco Mancini, sulla linea di Carlo Ma-ratta, e culminante nelle tre pale d’altare per la chiesa di Santa Maria Maddalena a Pesaro.I grandi modelli sono quelli del classicismo ro-mano seicentesco tra Roma e Bologna (Poussin, i Carracci, Domenichino, Guido Reni, France-sco Albani, Simone Cantarini) e del colorismo veneziano e veneto (Tiziano, Paolo Veronese). Grande modello è sempre Raff aello, al vertice anche nelle cinque Dissertazioni (Invenzione, Composizione, Disegno, Colorito, Espressione) lette all’Accademia pesarese e poi stampate nel 1806.Dal 1749 torna a Pesaro, dove svolge la sua atti-vità di pittore e architetto, con vari spostamenti provvisori a Roma, Venezia, Macerata e altrove.Nel 1762 viene chiamato a Fano dal Ceccarini per dare consigli sul restauro degli aff reschi del Domenichino nella cappella Nolfi del Duomo.Dopo l’esecuzione delle due pale per San Do-menico, torna a lavorare a Fano in anni tardi, quando esegue per la chiesa dell’eremo di Monte Giove la Trasfi gurazione per l’altare maggiore e la Madonna con santi e l’arcangelo Michele (1793-94). Via via l’iniziale linguaggio classicista si appe-santisce con infl ussi tardobarocchi che ne inde-boliscono la forza ed enfatizzano soprattutto la componente emotiva.

San Vincenzo Ferrer(olio su tela, cm 360 x 290)

Nel primo altare a destra dell’ingresso della chie-sa di San Domenico era collocato questo grande quadro eseguito dal Lazzarini nel 1758; oggi tra-sferito sulla parete di sinistra del transetto.Dimensioni imponenti per esaltare un santo do-menicano tra i più amati: Vincenzo Ferrer, fi glio di un inglese trasferito in Spagna, nato a Valencia nel 1350 e proclamato santo nel 1455. Frate pre-dicatore, trascinava folle immense in giro per l’Eu-ropa (Francia, Spagna, Italia, Inghilterra, Scozia): convertiva al Cristianesimo ebrei e pagani, valdesi e catari, compiva miracoli come guarigioni e addi-rittura resurrezioni.E’ il crocifi sso sostenuto da un giovane accanto a san Vincenzo l’emblema religioso della scena, po-polata da “uomini, donne, fanciulli di ogni età, di ogni sesso” che implorano “chi la salute ad un infermo, chi la vita ad un defunto, taluno l’udi-to ad un sordo, tal altro l’uso delle gambe ad un ragazzo”.(Tomani Amiani)C’è un movimento teatrale e ricercatissimo, tra i tanti gesti che dovrebbero bilanciarsi nella con-citata concatenazione; le architetture a loro volta s’incastrano, allontanandosi secondo una tipica costruzione del Lazzarini, sospeso in quel giro di anni tra memorie romane classiciste ed enfasi tar-dobarocche.Figure femminili e bambini (dalle gambe piutto-sto goff e) si ritrovano coi loro tipici gesti allusivi in altre scene d’insieme dei decenni successivi.La tela, esposta in San Domenico fi no alla chiusu-ra della chiesa, passò poi nella chiesa di San Cristo-foro Martire (parete a sinistra dell’unica navata) e oggi torna nella sua ubicazione originaria. Costi-tuisce, assieme all’altra eseguita per i domenicani di Fano, una delle prove più alte e complesse del Lazzarini pittore e teologo.

(GC)

Bibliografi a: Calegari Franca 1974, p. 36; Vecchione Mascarin 2005, pp. 41-46.

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Madonna in trono col Bambino, santi e sante dell’ordine domenicano(olio su tela, cm 336 x 290)

Nel primo altare a sinistra dell’ingresso era collo-cata quest’altra tela dalle stesse dimensioni, ese-guita dal Lazzarini nel marzo 1759.“E se non siamo troppo arditi nell’istituire un raff ronto di questo quadro con l’altro che gli sta rimpetto rappresentante San Vincenzo Ferrerio, ci sia concesso l’asserire vincerlo questo d’assai per lo studio maggiore adoperato dall’autore nel far belle e variate le teste, nella leggiadria del-le movenze, nella delicatezza del colorito, nella perfezion del disegno, e fi nalmente per quella dotta e ricca vena d’invenzione da far pago il più esigente osservatore, e da raff ermare quella importantissima sentenza del Lanzi “essere note-volissima la diff erenza tra un pittore letterato, ed un pittore senza lettere”.”(Tomani Amiani)Il giudizio dello storico ottocentesco mi sembra del tutto accettabile, così come resta fondamen-tale per noi la sua dettagliata descrizione dei per-sonaggi, di cui cito i principali e il signifi cato dei gesti.La Vergine siede sull’alto trono: con la mano si-nistra coglie da un bacile sorretto da un angelo i diademi che il Bambino Gesù, ritto in piedi sopra un cuscino, distribuisce ai santi. A sinistra si distinguono Santa Maria Maddalena (appog-giata al trono) e più in basso, tra alti prelati, il domenicano San Pietro Martire che con l’indice destro addita la parola “CREDO” scritta in una grande tavola; in basso, sui gradini, si riconosco-no gli strumenti del martirio del santo, additati da due altri putti. A sinistra, appoggiata al trono, Santa Caterina martire prende per mano Santa Rosa da Lima, che nel corteo sta dietro Santa Caterina da Siena, riconoscibile anche per le stimmate evidenti sulle mani incrociate sul pet-to. Più in basso a destra un angelo adolescente inginocchiato sembra rivolgersi alle tre sante con i simboli della penitenza e della purezza (gigli), e conclude la complessa articolazione del santo

corteo entro l’emiciclo architettonico, esalta-to dalla circolarità del tempio retrostante e dal grande sfondo d’aria azzurra.Davvero una “summa” coltissima, umana e na-turale, della grandezza dell’ordine domenicano e della stessa fede, fatta di armonia e di intensità di aff etti: una delle opere più importanti e signi-fi cative del Lazzarini.

(GC)

Relazione tecnica di restauro

Il dipinto eseguito ad olio su tela preparata con gesso e colla si presentava in discreto stato di conservazione.Leggermente allentata sul vecchio telaio in abe-te, l’opera presentava piccole cadute di colore ed alcuni sollevamenti.La cromia originale invece off uscata dalle vec-chie vernici ossidate dalla povere e dal fumo del-le candele era poco leggibile.Sulla superfi cie dipinta inoltre erano presenti numerosissimi schizzi non ben identifi cati, ma sicuramente di origine organica.Dopo la velinatura del dipinto con colletta e car-ta riso, si è provveduto al rifodero con tela di lino e pasta idonea composta da farina, colletta, trementina veneta e acido fenico.Il dipinto è stato poi posizionato su nuovo te-laio in abete autoestensibile che ha sostituito il vecchio telaio logoro per l’azione degli insetti xilofagi.La pulitura della superfi cie è stata eseguita con mista basica (3A) neutralizzata con essenza di trementina.Le piccole lacune stuccate con gesso e colla ani-male sono state campite con colori a tempera e velature fi nali con colori a vernice.Il fi ssaggio fi nale è stato eseguito con vernice mastice nebulizzata.

(NP)

Bibliografi a: Calegari Franca 1974, p. 36.

Giovanni Andrea Lazzarini(Pesaro 1710 - Pesaro 1801)