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La penultima sfida, a NapoliIl ceto politico del maggioritario
Ottorino Cappelli
Che il deputato sia eletto dalla maggioranza degli elettori è una supposizione legale, che per quanto formi la base del nostro sistema di Governo, per quanto sia ciecamente accettata da tutti, pure si trova in perfetta contraddizione col fatto reale... Chiunque abbia assistito ad una elezione sa benissimo che non son gli elettori che eleggono il Deputato, ma ordinariamente è il Deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che sono i suoi amici che lo fanno eleggere.
(Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica)
Uno degli effetti più rilevanti delle prime elezioni maggioritarie svoltesi in Italia il 27 e 28 marzo 1994 è indubbiamente quello di aver favorito, o comunque messo in luce, due tendenze destinate ad avere un impatto profondo sul sistema politico italiano. Da un lato, la polarizzazione del conflitto lungo l’asse destra-sinistra, dove però entrambi i poli, e segnatamente il primo, presentano un alto grado di disomogeneità interna. Dall’altro lato, la divisione del paese in distinte aree geopolitiche. Queste due tendenze si sono intersecate producendo un quadro politi
co nuovo ed un ceto politico parlamentare, di governo e di opposizione, molto differenziato sia in termini sociologici, politici e culturali, sia in termini di radicamento territoriale.
Qui analizziamo il profilo sociopolitico, i valori e le opinioni di una sezione territorialmente definita di questo ceto politico: i candidati e gli eletti dei collegi uninominali di Camera e Senato nell’area di Napoli e provincia. Lo studio è basato su un questionario fatto compilare durante la campagna elettorale. Una parte del questionario utiliz-
Questo saggio presenta i primi risultati di una ricerca condotta durante la campagna elettorale del marzo 1994. Una monografia più estesa è in via di pubblicazione. Un ringraziamento non formale va a Rita Di Leo, titolare della cattedra di Politica comparata presso l’Istituto universitario orientale, che ha creduto fin dall’inizio alla realizzabilità di un progetto che poteva apparire fin troppo ambizioso; e ad Aris Accornero, che ha contribuito con preziosi suggerimenti alla costruzione del questrionario. Robert D. Putnam, Percy Allum, Mauro Calise, Annarita Crisci- tiello, Guido D ’Agostino, Gianni Riccamboni e Salvatore Vassallo mi hanno variamente incoraggiato con critiche e suggerimenti. Ma il contributo essenziale, senza il quale nulla sarebbe stato possibile, è venuto dai circa venti studenti, laureandi e collaboratori della cattedra di Politica comparata, che con grande entusiasmo e determinazione hanno inseguito, rintracciato e intervistato decine di candidati durante una campagna elettorale particolarmente tesa e difficile. Da questa esperienza sul campo hanno imparato in un mese più di quanto noi saremmo riusciti ad insegnar loro nell’intero anno accademico. Un particolare ringraziamento, per la loro cortese disponibilità, va anche ai responsabili degli uffici elettorali del Pds e del Msi, dottori Tarantino e De Marco.
“Italia contemporanea”, dicembre 1994, n. 197
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za domande elaborate dal Comparative Elites Project sponsorizzato dalla Michigan University nei primi anni settanta, e fa riferimento, in particolare, alla sezione su Italia, Gran Bretagna e Germania occidentale diretta da Robert D. Putnam. Ciò consente di inserire il caso Italia, e in particolare il case study sub-regionale di cui ci occupiamo, in un quadro comparato di più ampio respiro. Abbiamo scelto di studiare gli uomini piuttosto che i partiti perché mai come nelle ultime elezioni essi apparivano tanto in crisi. Travolti dal clima antipartitocratico innescato dalle campagne referendarie e dalle indagini giudiziarie, emarginati dalla personalizzazione del confronto politico veicolata dai media, simboli, appartenenze, strutture organizzative che per mezzo secolo avevano dominato la scena politica italiana sembravano doversi dissolvere nel nulla. “Votare il candidato non il partito” era lo slogan del Grande Cambiamento1. Poteva la ricerca non adeguarsi? Studiamo dunque il candidato, non il partito. La nostra attenzione esclusiva va ai collegi uninominali poiché è precisamente da quegli scontri elettorali, che la retorica della riforma voleva ad alto tasso di novità, che ci si attendeva l’emergere di un nuovo ceto politico, di un nuovo stile politico e, in prospettiva, di un diverso sistema politico. Ci interessa dunque capire che tipo di persone si sono schierate sul fronte della battaglia uninominale, e quali siano le caratteristiche di quelli che tra loro sono risultati eletti.
Infine, la scelta del napoletano come case study è giustificata, in prima battuta da due fattori. Innanzitutto il voto nel napoletano, apparentemente in “controtendenza” se comparato al dato complessivo nazionale, è in realtà piuttosto rappresentativo di ciò che
è avvenuto nella maggior parte dei collegi uninominali del Mezzogiorno peninsulare: vittoria della sinistra, sia pur di misura; scomparsa quasi totale delle forze politiche di centro a livello di seggi (ma non di voti); e nettissima affermazione, alTinterno della coalizione di destra, dei candidati di Alleanza nazionale-Msi. In secondo luogo, vi sono una serie di elementi che fanno ritenere che la competizione elettorale appena conclusasi abbia rappresentato, in particolare nell’Italia meridionale, solo la “penultima sfida” : qui non vi è stata quella affermazione nettissima che ha caratterizzato la vittoria della destra in gran parte del Nord o della sinistra nelle tradizionali zone rosse dell’Italia centrale2. Il relativo equilibrio delle forze in quest’area geopolitica, e in particolare in Campania e nel napoletano, lascia ritenere che qui si svolgerà una parte cruciale della prossima sfida, quella decisiva per consolidare o per ribaltare gli attuali rapporti di forza nel paese. Se è così, il ceto politico emerso qui dalla competizione elettorale si troverà a svolgere un ruolo di grande rilievo nei prossimi anni, sia che faccia parte della maggioranza sia che si trovi schierato all’opposizione.
In relazione a questo quadro complessivo, e con particolare riferimento allo scenario meridionale e napoletano, la nostra ricerca individua tre cruciali nodi problematici.
Le caratteristiche dell’offerta. Secondo le aspettative di molti riformatori, la “modernizzazione maggioritaria” avrebbe dovuto sospingere il nostro sistema politico verso un tipo di competizione bipartitica ad andamento centripeto. In questo contesto le forze in campo si sarebbero tendenzialmente omologate al modello del catch-ali party, re
1 Una esposizione lucida e articolata di questo argomento riformatore si trova in Gianfranco Pasquino (a cura di), Votare un solo candidato, Bologna, Il Mulino, 1992.
Per una prima analisi dell’andamento del voto rimandiamo a Ilvo Diamanti, Renato Mannheimer, Milano a Roma. Guida all’Italia elettorale del 1994, Roma, Donzelli, 1994.
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clutando un ceto politico sostanzialmente omogeneo, inteso alla conquista indiscriminata dei voti su un mercato elettorale fluido e aperto. Si tratterebbe di uno scenario “americano” , con partiti deboli e poco differenziati e una competizione elettorale altamente personalizzata, ma priva di forti e chiari contenuti politici o ideologici. La stessa contrapposizione destra/sinistra sarebbe così una vecchia botte senza vino, una rituale e sterile riproposizione di steccati ormai superati3. Anticipiamo qui che i nostri dati mostrano che, al contrario, i candidati e gli eletti dei diversi schieramenti presentano forti differenze di fondo, secondo quasi tutti gli indicatori utilizzati. Ciò suggerisce che le strategie di reclutamento, e dunque l’offerta politica, riflettono la natura per nulla omogenea delle forze politiche e forse, si potrebbe aggiungere, rispondono a diversi tipi di domanda politica, si rivolgono cioè a bacini elettorali di riferimento tra loro molto diversificati.
La logica della rappresentanza. Nella transizione ad un sistema maggioritario, cambiando le regole in base alle quali si compete e si vince, dovrebbero cambiare la logica della rappresentanza, le strategie elettorali, lo stesso codice operativo della politica. Dovrebbe risultare privilegiato il localismo, la capacità individuale dei candidati di dar voce alle esigenze di specifiche realtà locali a scapito di tutto ciò che ne trascenda i confini, e penalizzato invece lo spirito di partito, con tutti i suoi connotati organizzativi e ideologici di coesione, di appartenenza e di identificazione. Sarebbe ancora una volta
uno scenario “americano” , poiché in altri sistemi maggioritari ciò non avviene. In Gran Bretagna, ad esempio, il maggioritario convive con partiti nazionali forti e strutturati, divisi da chiare linee di demarcazione ideologica e da una profonda, storica frattura sociale. Questo tema del “localismo” contro lo “spirito di partito” sarà uno dei filoni portanti della nostra analisi. In che misura il cambiamento del sistema elettorale sta effettivamente contribuendo a mutare la natura e il codice operativo dei soggetti della rappresentanza dei partiti e del loro ceto politico? E quale scenario idealtipico si profila all’orizzonte del nostro sistema politico, quello americano o quello britannico? Per quanto è dato di vedere dal nostro osservatorio, nessuna delle due alternative si è ancora chiaramente delineata. Questo è un altro dei motivi per cui parliamo di queste prime elezioni maggioritarie come della “penultima sfida” .
La destra del Sud. Nell’Italia del 1994, il maggioritario ha sgretolato il centro, rimettendo in campo la destra, e al tempo stesso ha spaccato politicamente il paese. Questo è macroscopicamente evidente a livello nazionale, poiché è sostanzialmente la vittoria plebiscitaria della destra al Nord che determina gli attuali equilibri politici: la maggior parte dei parlamentari eletti nel Centro-Sud, infatti, appartengono all’opposizione4. Ma la frattura è visibile anche all’interno delle stesse forze governative, nella contrapposizione tra la Lega, che esprime il gruppo più folto di parlamentari eletti nei collegi del Nord, e Alleanza nazionale, che è largamen-
3 Una appassionata disamina critica di questo tipo di argomentazioni è in Norberto Bobbio, Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica, Roma, Donzelli, 1994.4 Si considerino i seguenti dati. Su un totale di 630 deputati, 367 (il 58,2 per cento) appartengono ai gruppi parlamentari che sostengono l’attuale maggioranza. Ma dei 241 deputati eletti nelle regioni settentrionali, l’attuale maggioranza ne conta 191 (il 79,2 per cento): mentre dei rimanenti 389 provenienti dalle altre regioni, appartengono alla maggioranza solo 176 deputati (il 45,2 per cento). Di questi 176, ben 100 (il 57 per cento) sono di Alleanza nazionale.
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te egemone tra i parlamentari di destra eletti nel Mezzogiorno. Nei collegi di Napoli e del Sud, infatti, destra significa quasi esclusiva- mente Alleanza nazionale. E d’altronde sono rarissimi i parlamentari di An eletti a nord del Lazio5. Da ciò discendono due considerazioni. Primo, è che il Mezzogiorno, dove la destra è stata sconfitta solo di misura, sarà nel prossimo futuro un luogo cruciale della lotta politica: se infatti gli equilibri si ribalteranno qui in favore della destra, la frattura Nord-Sud si potrà “ricucire” , almeno sul piano dei numeri parlamentari. Secondo, che il Mezzogiorno è il luogo dove si delineerà la futura fisionomia ideologica e politica della destra italiana: se continuerà la sua avanzata al Sud, Alleanza nazionale riuscirà a imporre una forte ipoteca al resto di questo schieramento. Per An dunque conquistare il Sud sarà un obiettivo assoluta- mente prioritario. Se ciò è vero, allora è molto importante conoscere meglio il ceto politico di questa “Destra del Sud” , sia pure, per il momento, attraverso l’osservatorio napoletano. Quali sono i suoi peculiari tratti distintivi? E sono effettivamente giustificati i timori espressi da molti osservatori, in Italia e all’estero, all’indomani delle elezioni? Quel che possiamo dire alla luce della nostra indagine è che la destra napoletana presenta un profilo al tempo stesso fortemente elitista e marcatamente populista, e mostra una accentuata diffidenza, quando non ostilità,
verso le regole e le istituzioni della democrazia parlamentare. Sono atteggiamenti politici assai diversi da quelli tipici di una destra “modello Tory” , di ispirazione liberista e di sicuro orientamento liberaldemocratico, di cui tanti auspicavano la nascita6.
In ultimo, converrà avvertire che non è nostro primario obiettivo cercare di spiegare i motivi della vittoria elettorale di uno schieramento e della sconfitta dell’altro. Meno che mai intendiamo farlo considerando come variabile indipendente gli orientamenti e le preferenze politiche dell’elettorato. Ci interessa l’offerta più che la domanda, e la nostra variabile indipendente non è chi sceglie, ma chi cerca di farsi scegliere. Comparando perciò le caratteristiche dei due sottogruppi del nostro campione (i candidati e gli eletti), cercheremo di mettere in luce per ciascuno schieramento quelle caratteristiche che si associano con maggiore regolarità alla “ fortuna elettorale” dei rispettivi candidati. Ovvero, per dirla con Gaetano Mosca, quei tratti che qualificano chi è capace di “ farsi eleggere” dai propri elettori.
Il campione e il questionario
Il nostro campione abbraccia esattamente la metà dell’intero universo dei candidati presentatisi nei 37 collegi uninominali del napoletano (87 individui), e il 64 per cento degli
5 Dei 109 deputati di An, ad esempio, 94 vengono dal Mezzogiorno o dal Lazio e solo 15 dalle altre regioni dell’Italia centrale o settentrionale. Si noti anche che dei 17 membri di An presenti nell’esecutivo ben tre sono stati eletti in collegi del napoletano: i sottosegretari Antonio Parlato, Antonio Rastrelli e Francesco Pontone. Altri 3 sottosegretari vengono dall’Italia centrale: Maurizio Gasparri (Lazio), Giulio Conti (Marche), Filippo Berselli (Emilia); 1 dalla Calabria (Fortunato Aloi); e 5 dalle isole: Carmelo Porcu e Gian Franco Anedda (Sardegna); Guido Lo Porto, Domenico Nania e Vincenzo Trantino (Sicilia). Dei 5 ministri di An, 1 è stato eletto in Toscana (Altero Matteoli), 2 nel Lazio (Publio Fiori e Domenico Fisichella) e 2 in Puglia (Giuseppe Tarantella e Adriana Poli Bortone).6 Esistono a tutt’oggi pochissimi studi politologici che affrontino in modo sistematico il tema dell’identità storica, politica e culturale del Msi. Cfr. per tutti Piero Ignazi, Il polo escluso. Profilo del Movimento sociale italiano, Bologna, Il Mulino, 1987. Questo grave ritardo va probabilmente attribuito alla previsione, inopinatamente contraddetta dagli eventi recenti, che “senza una ‘Bad Godesberg’ che ridefinisca in maniera definitiva, visibile e traumatica il problema del rapporto tra Movimento sociale e democrazia, il polo di destra del sistema politico italiano è destinato a rimanere escluso da ogni ipotesi coalizionale” (P. Ignazi, Il polo escluso, cit., p. 414).
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eletti, inclusi gli eletti con il recupero proporzionale (29 individui). Tutti sono stati intervistati prima della conclusione della campagna elettorale. Dei tre schieramenti principali, gli unici che hanno ottenuto seggi, abbiamo sempre raggiunto almeno il 50 per cento dei candidati. Tra gli eletti, la proporzione degli intervistati è del 57 per cento per la Destra e supera il 68 per cento per la Sinistra (l’unico eletto del centro, pure rientra nel nostro campione). Meno coperte, invece, le 13 liste minori “fuori schieramento” , che non hanno espresso alcun vincitore. Le 16 persone intervistate (che comunque costituiscono il 25 per cento di questo gruppo di complessivi 65 candidati), sono concentrate nelle liste più numerose e visibili: l’Ucr e la Lista Pannella, di cui è stato intervistato il 45 per cento dei candidati7.
Per le interviste abbiamo adoperato il metodo del questionario strutturato chiuso, autocompilato alla presenza di un nostro collaboratore che spiegava le finalità della ricerca. Il questionario era composto di due parti: la prima volta a fornire una “sociologia politica” dei candidati; la seconda intesa alla rilevazione dei loro valori fondamentali, delle motivazioni, della percezione del ruolo e delTatteggiamento verso alcuni cruciali principi democratici. Un gruppo di domande di quest’ultima parte sono state tratte da quelle elaborate per il Comparative Elites Project8. Non accade spesso nelle scienze sociali che alcuni ricercatori adottino strumen
ti elaborati da altri, con il risultato che troppo spesso il patrimonio di conoscenze acquisito è difficilmente cumulabile e soprattutto la comparazione diacronica diventa impossibile. La nostra scelta è andata nella direzione contraria. È bene sottolineare, tuttavia, che sotto alcuni aspetti il nostro campione non può considerarsi immediatamente comparabile con quelli utilizzati dal Comparative Elites Project. Le difficoltà sorgono da tre fattori: in primo luogo il nostro campione è su base regionale anziché nazionale; in secondo luogo esso include non solo parlamentari in carica ma anche candidati che sono poi risultati non eletti, e per di più le interviste sono avvenute nel corso della campagna elettorale; infine, diversamente dal nostro, il progetto statunitense su alcuni temi si rivolgeva sia ad élite parlamentari che burocratiche (tuttavia, quando possibile abbiamo scorporato i dati relativi ai soli parlamentari). Nonostante queste difficoltà, non abbiamo voluto perdere la suggestiva occasione di offrire una base di confronto tra le risposte date ad alcune domande-chiave dagli intervistati del nostro campione e dai parlamentari italiani (e stranieri) intervistati da Putnam e altri un quarto di secolo fa.
Sociologia di un ceto politico
L’analisi del profilo sociologico del nostro campione dovrà aiutarci a rispondere a due
7 Visto lo scarso peso politico oggettivo di queste liste nella campagna elettorale, non riteniamo che ciò costituisca un serio handicap per la ricerca. Abbiamo anzi ritenuto di non dedicare una elaborazione separata alle caratteristiche e agli atteggiamenti di questo gruppo di individui, come facciamo invece per i principali schiera- menti. I dati ad essi relativi compaiono solo in forma aggregata nelle colonne “totale candidati” delle nostre tabelle.8 II Comparative Elites Project della University o f Michigan durò 13 anni, dal 1968 al 1980. Oltre a Robert Putnam ne erano responsabili Joel D. Aberbach e Bert A. Rockman (per la sezione sugli Stati Uniti); Ronald Inglehart e Thomas Anton (rispettivamente per la Francia e la Svezia); la sezione sui Paesi Bassi fu curata da Samuel J. El- dersveld, che era anche il coordinatore generale del progetto. I risultati di questi studi furono pubblicati in numerosi saggi e volumi. Quelli qui utilizzati sono: R.D. Putnam, The Beliefs o f Politicians: Ideology, Conflict and Democracy in Britain and Italy, New Haven, Yale Uiversity Press, 1973; R.D. Putnam, The Comparative Study o f Political Elites, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1976; R.D. Putnam et al., Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1981.
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quesiti. Il primo riguarda le strategie di reclutamento. I diversi schieramenti, ci chiediamo, presentavano nelle proprie liste un personale politico omogeneo o difforme quanto a caratteristiche sociologiche? In altre parole, ci sono e quali sono i tratti che distinguono il ceto politico (o aspirante tale) di destra, di sinistra e di centro? Il secondo quesito è se vi sia una correlazione tra queste caratteristiche dei candidati e la loro fortuna elettorale. Non si tratta di fare qui l’ipotesi semplicistica che gli elettori privilegiano nelle loro scelte certi “tipi” di candidati piuttosto che altri. Non diamo per scontata la mitologia del supermercato elettorale dove un “utente” indifferenziato si reca di volta in volta a scegliere il candidato che più lo convince, magari considerandone l’età, il sesso, il profilo professionale, eccetera. Troppi indizi suggeriscono che gli schiera- menti si siano rivolti soprattutto a quello che consideravano il proprio “elettorato di riferimento” . E, siccome gli elettori votavano in collegi uninominali, non potevano neanche scegliere, all’interno del “proprio” schieramento, questo o quel candidato. Tuttavia, se apparisse con una certa regolarità che ciascuno schieramento riesce a fare eleggere un particolare tipo di candidato, questo andrebbe registrato. Come andrebbe registrata una eventuale difformità tra la composizione sociologica degli eletti e quella delle liste. Si tratterebbe di indizi che mostrano come, sia pure in relazione ai diversi elettorati di riferimento in cui ciascuno schieramento tende soprattutto a pescare i propri voti, c’è un particolare tipo di candidato che riesce più facilmente di altri ad essere eletto, e su cui dunque conviene puntare: è questo che ci interessa capire, ed è questo ciò che intendiamo per “fortuna” (o “capacità di riuscita”) elettorale.
Il genere. Solo 15 donne (il 9 per cento del totale dei candidati) hanno partecipato alla competizione elettorale nei collegi uninomi
nali di Napoli e provincia; e solo nel caso del collegio Napoli 1 per la Camera, dove correvano Alessandra Mussolini e Maria Fortuna Incostante, la principale competizione (quella destra-sinistra) avveniva tra due donne. Quasi la metà delle candidate (sette) erano nello schieramento di sinistra, due in quello di destra e una in quello di centro. Dunque la lista della sinistra era composta per il 19 per cento da donne: una proporzione quasi quadrupla rispetto alla destra e sei volte maggiore rispetto al centro. Ciò vuol dire che solo i progressisti hanno orientato la propria strategia di reclutamento in favore della componente femminile, e anch’essi in misura tutto sommato limitata. Di queste 15 candidate, solo 4 sono giunte in parlamento, e dunque le donne sono circa il 10 per cento del totale degli eletti nei collegi uninominali. Si tratta di Alessandra Mussolini (che, nata nel 1962, è la più giovane) per la destra; e di Ersilia Salvato, Maria Grazia Pagano e Anna Maria Procacci per la sinistra (tutte nella fascia d ’età compresa tra i 40 e i 49 anni). Si noti anche che tutte e quattro erano parlamentari uscenti e dirigenti politici di notevole rilievo.
Si può dunque dire che, almeno sul terreno del genere, il “nuovo” non sembra aver trionfato. È vero che l’offerta dei partiti era limitata, ma è anche vero che l’essere donna non si è rivelata una variabile indipendente e forse nemmeno una componente decisiva della fortuna elettorale di un candidato. Sembrerebbe anzi che più del genere possa aver pesato, in favore delle poche elette, l’autorevolezza di una posizione politico-istituzionale già conquistata precedente- mente.
L ’età. Solo tre i candidati “giovanissimi” (con meno di trent’anni), uno dei quali è il neosindaco De di Calvizzano, Giuseppe Sa- latiello, ventisette anni. Nonostante che in tutti gli schieramenti la maggior parte dei candidati si concentri nelle fasce di età 40-49
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e 50-59 anni, le liste più “giovani” sono decisamente quelle della destra, dove circa un quinto di candidati hanno tra i 30 e i 39 anni, mentre le liste più “anziane” sono quelle della sinistra. Per prendere una data simbolica: il 57 per cento dei candidati di destra è nato dopo la Liberazione, contro il 53 per cento dei candidati del centro e il 49 per cento di quelli di sinistra. Appare evidente che destra e sinistra hanno due strategie di reclutamento diverse quanto all’età dei propri candidati.
La composizione generazionale degli eletti dei due schieramenti però non riflette, anzi contraddice la composizione delle rispettive liste. La sinistra porta in parlamento più tentenni e quarantenni della destra, e gli eletti di destra comprendono proporzionalmente più cinquantenni e sessantenni. Si potrebbe suggerire che su questo punto in entrambi gli schieramenti le strategie di reclutamento non sono in sintonia con ciò che, in relazione ai rispettivi elettorati di riferimento, risulta associato alla fortuna elettorale di un candidato. Noi non abbiamo fondati elementi per sostenere che chi vota a destra tende a preferire i candidati anziani nonostante l’offerta relativamente alta di giovani, mentre l’opposto accade per chi vota a sinistra. Se così fosse, se cioè l’età dei candidati avesse una qualsiasi influenza sull’esito del voto, la sinistra avrebbe dovuto puntare maggiormente sui giovani e la destra maggiormente sui più anziani: esattamente il contrario di ciò che è avvenuto. Ciò che è certo, però, è che per un giovane aspirante parlamentare è comparativamente più facile ottenere una candidatura nelle liste della destra, ma è più facile ottenere l’elezione in una lista di sinistra. Un’età relativamente giovane risulta frequentemente in relazione con la fortuna elettorale di un candidato di sinistra; a destra questo è più raro.
L ’estrazione sociale. Come si vede dalla Tabella La, sono i candidati del centro ad ave
re maggiormente una estrazione “popolare”: quasi un terzo di loro dichiara di essere figlio di operai e, soprattutto, di coltivatori diretti o imprenditori agricoli, contro I’ll per cento dei candidati di destra e appena l’8 per cento di quelli di sinistra. I settori di occupazione paterna più ricorrenti tra i candidati della destra sono invece il commercio e l’imprenditoria (16,6 per cento), mentre a sinistra prevalgono le professioni medica e forense e l’insegnamento. Curiosamente nelle liste della sinistra è anche proporzionalmente più facile trovare candidati il cui padre fosse un militare. I candidati di centro e di destra, dunque, hanno entrambi una estrazione più popolare di quelli di sinistra, con una prevalenza al centro di origini contadine. È interessante riassumere soprattutto la differenza tra destra e sinistra: vi sono più figli di medici, avvocati, insegnanti e professori universitari tra i candidati di sinistra (ciò che chiamiamo origine “borghese-intellettuale”), e più figli di commercianti, imprenditori, operai e “contadini” tra i candidati di destra (ciò che chiamiamo origine “popolare e piccolo-borghese”). Queste differenze si riproducono, e anzi si accentuano, se si considerano gli eletti di questi due schieramenti. Sia che guardiamo al reclutamento sia che consideriamo la fortuna elettorale di un candidato, la differenza tra destra e sinistra appare dunque piuttosto netta: un personale politico di estrazione sociale comparativamente più borghese-intellettuale, trova più spazio nelle liste di sinistra ed è qui che ha maggiori probabilità di essere eletto. Queste considerazioni sul background familiare possono essere completate da un rapido accenno alla condizione delle madri e delle mogli dei nostri intervistati (Tabella l.b). Innanzitutto notiamo come, comprensibilmente, i candidati di sinistra, provenienti da famiglie più “intellettualizzate” o se si vuole “borghesi”, presentino il minor numero di madri casalinghe (60 per cento) rispetto ai candidati di estrazione più
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Tabella 1. - Il profilo sociologico
Candidati Elettia) Occupazione del padre
T otale Sin Des Cen Totale Sin Des
Professionisti e lavoratori autonomi 26.4 28.0 33.3 17.8 22.2 16.6 25.0— Medici e avvocati 14.9 5.7 3.4 3.4 11.1 11.1 0.0— Commercianti e imprenditori 11.5 8.0 16.6 7.0 1.1 5.5 25.0
Insegnanti e professori universitari 8.0 8.0 5.5 10.7 7.4 11.1 0.0
Operai e contadini 14.9 8.0 11.1 28.5 14.2 11.1 25.0— Operai 6.8 4.0 5.5 10.7 7.4 5.5 12.5— Coltivatori diretti e imprenditori
agricoli 8.0 4.0 5.5 17.8 7.4 5.5 12.5
Militari 10.3 12.0 5.5 7.0 14.2 16.6 12.5
b) Madri e mogli casalinghe Totale Sin Des Cen Totale Sin Des
Madri casalinghe 68.9 60.0 66.6 75.0 70.3 55.5 100.0Mogli casalinghe-1- 25.0 10.0 33.3 33.3 20.0 6.2 50.0
c) Livello di istruzione Totale Sin Des Cen Totale Sin Des
Liceo classico* 48.2 52.0 38.8 60.7 51.8 55.5 37.5Liceo scientifico* 18.3 16.0 16.6 21.4 11.1 11.1 12.5Istituti professionali* 13.7 20.0 11.1 10.7 22.2 22.2 25.0
Non laureati 17.3 20.0 27.8 14.3 26.0 22.3 37.5Laureati 82.7 80.0 72.2 85.7 74.0 77.7 62.5Laurea in :— Giurisprudenza 29.8 24.0 38.8 32.1 33.3 27.7 37.5— Medicina 21.8 12.0 22.2 21.4 14.8 11.1 25.0— Lettere 9.1 20.0 0.0 10.7 14.8 22.2 0.0— Economia, Sociologia, Scienze
Politiche 9.1 8.0 5.5 10.7 3.7 5.5 0.0— Ingegneria 4.5 4.0 5.5 7.1 3.7 5.5 0.0
d) Professione Totale Sin Des Cen Totale Sin Des
Medici 21.8 12.0 22.2 21.4 14.8 11.1 25.0Avvocati 16.0 4.0 27.7 17.8 18.5 5.5 37.5Insegnanti 13.7 28.0 5.5 10.7 14.8 22.2 0.0Professori universitari 6.8 12.0 0.0 10.7 11.1 16.6 0.0Funzionari medio-alto livello 10.3 16.0 5.5 10.7 11.1 16.6 0.0+ Dati relativi al solo campione maschile.* Solo l’80 per cento degli intervistati ha risposto a questa domanda.
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popolare della destra (67 per cento) e soprattutto del centro (75 per cento) dove all’interno della componente popolare è prevalente l’origine contadina. Se dalla “tradizione” familiare di origine si passa poi ad esaminare la situazione nella famiglia attuale dei candidati maschi, le differenze si fanno ancora più stridenti. Solo il 10 per cento dei candidati di sinistra ha una moglie casalinga, contro un terzo dei candidati degli altri due schiera- menti. In tutti i casi, dunque, vi è stata una notevole “modernizzazione” socio-culturale nelle famiglie: la gran parte dei candidati di tutti gli schieramenti non assomigliano ai propri padri nel pretendere, o nel tollerare, che le proprie compagne si dedichino esclusivamente al lavoro domestico. Ma questo “progresso” è notevolmente più visibile tra i progressisti che altrove. Infine, guardando agli eletti, notiamo che a sinistra si riduce ulteriormente la percentuale di uomini con mogli non inserite nel mercato del lavoro. Ciò può anche essere messo in relazione con il già notato abbattimento dell’età media degli eletti di sinistra rispetto ai candidati del medesimo schieramento: infatti un solo individuo tra gli eletti di sinistra intervistati, Aldo Masullo, nato nel 1923, ha una moglie casalinga. Lo stesso non si può dire per gli eletti di destra, poiché quelli con moglie casalinga sono quarantenni e cinquantenni.
Il livello di istruzione. Coerentemente con la loro più marcata origine popolare, i curricula studiorum dei candidati della destra presentano la minore incidenza della maturità classica (39 per cento contro il 52 per cento della sinistra e il 61 per cento del centro) e la maggiore incidenza di non laureati: 28 per cento, contro il 20 per cento della sinistra e il 14 per cento del centro (cfr. Tabella l.c). Sono i candidati del centro a presentare la più alta percentuale di laureati e ad aver frequentato più degli altri il liceo (classico o scientifico), mentre nelle liste di sinistra si trova una percentuale doppia di persone che
hanno frequentato istituti tecnici, industriali, commerciali e magistrali (20 per cento). Mentre dunque sia i candidati di destra che di centro presentano caratteristiche marcata- mente popolari e “non intellettuali” riguardo all’origine sociale, quelli del centro sembrerebbero aver poi sperimentato una più forte mobilità sociale verticale, almeno a giudicare dai livelli di istruzione. Si noti infine che la differenza tra destra e sinistra si ripropone perfino accresciuta tra gli eletti, soprattutto per quanto riguarda la minore incidenza a destra della maturità classica e la maggiore proporzione di non laureati. Se ne può dedurre che il non avere un livello di scolarizzazione particolarmente alto non danneggia in termini elettorali il candidato di destra, almeno nei confronti del proprio elettorato di riferimento.
Tra i laureati, le discipline decisamente più diffuse a destra e al centro sono, nell’ordine, giurisprudenza e medicina. I laureati in giurisprudenza sono in maggioranza anche nelle liste di sinistra (sebbene con percentuali notevolmente più basse), seguiti però dai laureati in lettere e filosofia. Su quest’ultimo punto la differenza è veramente notevole: mentre il 20 per cento dei candidati di sinistra è laureato in lettere, nessuno lo è tra i candidati di destra intervistati e solo il 10,7 per cento tra quelli del centro. Se si guarda agli eletti, si nota come i neoparlamentari di destra risultino laureati esclusiva- mente in giurisprudenza e medicina, e con percentuali notevolmente più alte rispetto ai colleghi di sinistra, tra i quali aumenta ancora il peso della laurea in lettere.
Il profilo professionale. Non meraviglierà dunque che, passando al profilo professionale del nostro campione di candidati (Tabella l.d), la sinistra schieri nelle sue liste la percentuale di gran lunga più alta di insegnanti e professori universitari (esclusi i docenti in medicina, qui compresi nella categoria “medici”), mentre la destra non presenta
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alcun professore e solo il 5,5 per cento dei suoi candidati sono insegnanti (nessuno tra gli eletti). Di contro, avvocati e medici sono molto presenti nelle liste di centro e soprattutto di destra, e sembra particolarmente notevole che gli avvocati siano in una proporzione sette volte maggiore a destra che a sinistra, con il centro in una posizione più o meno intermedia, ma più vicina alla destra. (Una curiosità riguarda i “funzionari di medio-alto livello”: coloro che si sono autodefiniti funzionari o dirigenti, e non impiegati: il 16 per cento nelle liste della sinistra, 1*11 per cento in quelle di centro e appena il 5,5 per cento in quelle di destra, e nessuno tra gli eletti di quest’ultimo schieramento).
Per riassumere ciò che si è trovato finora: nelle liste di sinistra vi sono proporzionalmente più donne ma anche meno giovani; l’estrazione sociale prevalente è il ceto medio; oltre la metà dei candidati di sinistra ha fatto studi classici e l’80 per cento si è laureato; la professione di gran lunga più diffusa è l’insegnamento, scolastico o universitario. Nelle liste di destra, invece, accade esattamente il contrario. Vi sono meno donne ma più giovani; vi è una maggiore incidenza di estrazione sociale popolare e piccolo-borghese; meno del 40 per cento dei candidati di destra ha fatto studi classici e meno di due terzi si è laureato; le professioni più diffuse sono avvocatura e medicina. Il centro infine assomiglia alla destra per ciò che concerne la ridotta presenza di donne e la maggiore presenza di giovani nelle sue liste. Anche al centro (e in misura ancora maggiore che a destra) l’estrazione sociale popolare è assai comune; e anche qui le professioni forense e medica sono prevalenti. Solo su un punto i candidati del centro assomigliano di più a quelli di sinistra: per l’alta percentuale di essi che hanno frequentato il liceo classico e si sono laureati. Questo dà un quadro piuttosto completo delle differenze sociologiche tra il personale politico che viene reclutato nei diversi schieramenti. Si tratta di
differenze piuttosto visibili e che per lo più si ripropongono tra gli eletti, sembrano cioè ricevere una sanzione positiva dal corpo elettorale (sotto un solo aspetto, quello generazionale, ciò non è vero: il voto ha infatti restituito ai rispettivi schieramenti un corpo di eletti la cui composizione generazionale era diversa da quella delle liste di provenienza).
Sulla base di questi dati, non si può certo sostenere che sinistra, destra e centro siano distinzioni artificiali. Le forze politiche che queste etichette contraddistinguono si percepiscono e si costruiscono come universi distinti, spesso opposti, anche sul terreno dei referenti sociali. Il profilo sociologico del rispettivo ceto politico lo mostra chiaramente. Sono diversi i candidati, e dunque le scelte e le strategie dei reclutatori che determinano la qualità dell’offerta politica di ciascuno schieramento. E diversi sono gli eletti, e dunque le caratteristiche che troviamo associate alla fortuna elettorale di un candidato, alla sua capacità di farsi eleggere. Che poi questo rifletta anche una diversità di orientamenti e preferenze nei rispettivi elettorati di riferimento, dunque sul lato della domanda, possiamo indirettamente ipotizzarlo, anche se non è nostro compito dimostrarlo.
Tutto ciò premesso, possiamo cercare ora di capire se e in che misura queste diversità riguardino anche l’universo valoriale, la percezione del ruolo, gli stili e gli orientamenti politici e culturali, e la visione della democrazia che questo ceto politico esprime.
I valori, le motivazioni, i ruoli: una prospettiva comparata
I “valori fondamentali”: incerte frontiere. Nei primi anni settanta, Robert D. Putnam e i ricercatori del Comparative Elites Project intervistarono, tra gli altri, un campione di 79 parlamentari inglesi e 82 italiani. Partendo dall’assunto che “il tessuto della politica
La penultima sfida, a Napoli 663
in ogni età è costituito dall’interazione tra visioni configgenti della società buona”, the good society, essi rivolsero al loro campione una domanda che doveva servire a catturare l’universo valoriale di quei parlamentari: “Sotto quali aspetti la società che lei desidererebbe per i suoi figli e i suoi nipoti differisce da quella della Gran Bretagna (o dell’Italia) di oggi?” Dai risultati ottenuti essi conclusero che, sebbene taluni valori fossero ampiamente comuni sia ai parlamentari di destra che di sinistra, un tessuto di differenze ideologiche rimaneva molto evidente. Si riscontrarono infatti “definizioni diverse del progresso sociale [che] inevitabilmente condizionano le scelte politiche quotidiane dei leaders” . In termini secchi: “i politici della sinistra si preoccupano di più ddVeguaglianza sociale e politica, mentre i rappresentanti del centro e della destra danno invece priorità alla libertà” (termine che qui va inteso nel senso di libertà economica di mercato)9.
Putnam non mancava però di rilevare come altre differenze fossero da ricondursi ai diversi contesti politico-culturali delle due nazioni. La distanza tra destra e sinistra in termini di valori fondamentali, o “visioni della società buona”, è infatti molto chiara e netta se si guarda ai dati inglesi, lo è meno se si guarda a quelli italiani. In Gran Bretagna la grande maggioranza dei deputati di entrambi i partiti maggiori, laburisti e conservatori, dichiarava di desiderare “migliori standard di vita” : in entrambi i casi questo valore si presentava al secondo posto tra quelli scelti. Ma sul valore da mettere al primo posto la differenza destra/sinistra diventava assai netta: per oltre i due terzi dei la
buristi si trattava di “maggiore giustizia sociale” , scelta invece da appena il 37 per cento dei conservatori. Diversamente, l’80 per cento dei conservatori, contro un mero 6 per cento dei laburisti, indicavano “maggiore libertà”. Il caso britannico sembra dunque proporsi come un caso da manuale per illustrare la distanza ideologica tra destra e sinistra (vedi Tabella 2). Lo stesso non può dedursi, però, dalle risposte dei parlamentari italiani dell’epoca. Al di là di differenze che si spiegano facilmente con i diversi contesti politico-istituzionali dei due paesi (ad esempio era molto più marcata e diffusa in Italia rispetto alla Gran Bretagna la richiesta di un diverso sistema politico, mentre era meno pressante l’attenzione per la “moralità pubblica”) altre e più interessanti differenze tra i due paesi vanno notate. Sottolineiamo soprattutto che spesso le distanze tra centro- destra e sinistra si presentavano meno drammatiche in Italia che in Inghilterra; e che gli orientamenti del centro-destra in Italia spesso non coincidevano con quelli dei conserva- tori inglesi10. Posto che anche in Italia l’obiettivo di “migliori standard di vita” era al secondo posto per i parlamentari di entrambi i versanti, questo apparente accordo tra destra e sinistra riguardava anche altri ambiti in cui in Inghilterra v’era invece grande contrasto. Ad esempio, era certamente la sinistra a chiedere con più forza una maggiore giustizia sociale, ma ciononostante il 56 per cento dei deputati italiani di centro e destra menzionavano questo come un obiettivo importante per costruire un mondo migliore: una percentuale assai alta per questa parte politica, circa il 20 per cento in più rispetto
9 R.D. Putnam, The Comparative Study of Political Elites, Englewood Cliffs, Prentice-Hall, 1976, p. 82. In un successivo lavoro, commentando gli stessi dati, Putnam specifica che “the value of liberty, as expressed in these answers, represents the free-market ideology of a modern conservatism that grew out o f the nineteenth-century liberalism”. Cfr. R.D. Putnam et al., Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, cit., p. 139.10 Putnam divise i parlamentari italiani in tre classi: 1) centro e destra; 2) sinistra non comunista; 3) comunisti. Noi abbiamo invece riaggregato quegli stessi dati in due classi (“riunendo” la sinistra), soprattutto per permettere una più agevole comparazione con i dati del nostro campione.
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Tabella 2. - 1 valori dei parlamentari in Gran Bretagna e in Italia nei p rim i anni settanta.
Risposte alla domanda: “Sotto quali aspetti la società che lei desidererebbe per i suoi figli e i suoi nipoti differisce da quella della Gran Bretagna (o dell’Italia) di oggi?”
Gran Bretagna Italia
Totale Labu- Conser- risti vatori Totale Sinistra Centro
e destra
Più giustizia sociale 61.0Migliori standard di vita 68.0Un diverso sistema politico 11.0Maggiore libertà 34.0Maggiore moralità pubblica 42.0Più senso della comunità e sicurezza 33.0
76.0 37.0 77.0 93.0 56.065.0 73.0 66.0 72.0 58.016.0 3.0 62.0 63.0 61.06.0 80.0 46.0 41.0 53.0
47.0 33.0 35.0 24.0 50.039.0 23.0 27.0 26.0 28.0
Fonte: Robert Putnam, The Comparative Study o f Political Elites, Englewood Cliffs. Prentice-Hall, 1976, p. 83.
Tabella 3. - 1 valori dei candidati e degli eletti
Risposte alla domanda: “Quali obiettivi ritiene prioritari per costruire un mondo migliore per i suoi figli?”
Candidati Eletti
Totale Sin Des Cen Totale Sin Des
Più giustizia sociale 67.8 88.0 61.1 57.1 81.4 94.4 62.5Più senso della comunità e della solidarietà civile 59.7 64.0 50.0 64.2 59.2 61.1 50.0Maggiore moralità pubblica 58.6 64.0 55.5 64.2 66.6 61.1 75.0Un diverso sistema politico 29.8 32.0 44.4 7.1 29.6 27.7 37.5Più libertà civili per il cittadino 22.9 16.0 22.2 17.8 11.1 16.6 0.0Migliori standard di vita 14.9 24.0 5.5 14.2 18.5 22.2 0.0Più ordine pubblico 6.8 4.0 27.7 0.0 11.1 5.5 25.0Maggiore libertà d’impresa 5.7 0.0 5.5 10.7 0.0 0.0 0.0
Tabella 4. - Le m otivazioni alla politica dei candidati e degli eletti
Risposte alla domanda: “Nella sua decisione di candidarsi, quali delle seguenti motivazioni hanno pesato di più?”
Candidati Eletti
Totale Sin Des Cen Totale Sin Des
— Dare risposte concrete aiproblemi della gente 71.2 84.0 72.2 60.7 85.1 88.8 87.5
— Identificazione con una causa 45.9 76.0 38.8 32.1 66.6 77.7 50.0— Assolvere un dovere civico 35.6 16.0 22.2 57.1 7.4 5.5 0.0— Rappresentare gli interessi del
proprio collegio 27.5 8.0 50.0 25.0 25.9 11.1 50.0
La penultima sfida, a Napoli 665
ai conservatori britannici. Né si tratta dell’unico caso in cui gli orientamenti dei parlamentari italiani di centro e destra apparivano piuttosto diversi da quelli dei loro colleghi d’oltremanica e, paradossalmente, più simili a quelli della sinistra italiana. Sembra cruciale, ad esempio, che solo il 53 per cento di loro indicasse l’obiettivo di una “maggiore libertà” contro l’80 per cento dei parlamentari conservatori. Inoltre, sulla desiderabilità di questo valore la distanza tra centro- destra e sinistra in Italia era di soli 10 punti percentuali, mentre in Inghilterra oltre 70 punti separavano i conservatori dai laburisti.
Queste peculiarità italiane risultano ancor più accentuate nell’analisi del nostro campione, cui abbiamo posto la domanda, che parafrasa quella di Putnam: “Quali obiettivi ritiene prioritari per costruire un mondo migliore per i suoi figli?” I candidati da noi intervistati avevano la possibilità di scegliere non più di tre opzioni tra le otto che offrivamo. Alcune delle opzioni offerte ricalcano quelle elaborate per il Comparative Elites Project: “Più giustizia sociale”; “Migliori standard di vita”; “Maggiore moralità pubblica”; “Un diverso sistema politico” . Altre, invece, sono state modificate o introdotte ex novo. L’opzione che suonava in inglese greater freedom è stata sdoppiata in “Maggiore libertà d’impresa” e “Più libertà civili per il cittadino” per non ingenerare confusioni circa i possibili significati, economico e politico, del termine libertà. L’opzione “Security and a sense of community” è stata modificata in “Più senso della comunità e della solidarietà civile” . Introdurre il termine, oggi tanto controverso nel dibattito italiano, di solidarietà, ci fa perdere naturalmente su questo punto la comparabilità tra i dati dei due questionari, ma era utile per noi pesare l’opzione favorevole alla solidarietà contro quella favorevole ad una maggiore libertà di mercato (la nostra aspettativa, che la prima caratterizzasse la sinistra e la secon
da la destra, è andata però delusa). Infine, abbiamo aggiunto ex novo l’opzione “Più ordine pubblico”, che insieme a “Maggiore libertà d’impresa” ci attendevamo dovesse catalizzare la gran parte dei favori a destra (aspettativa che i dati hanno dimostrato, di nuovo, errata).
Il risultato più notevole di questo test va espresso in termini negativi: non è possibile costruire una vera e propria tipologia dei nostri candidati in base ai valori (almeno ai valori identificati da queste opzioni). La grande maggioranza sia dei candidati che degli eletti di tutte e tre gli schieramenti concentra il proprio universo valoriale sulle prime tre opzioni: “Più giustizia sociale”, “Più senso della comunità e della solidarietà sociale”, e “Maggiore moralità pubblica” superano il 50 per cento delle menzioni da parte di tutti gli intervistati. Mentre le altre cinque opzioni si collocano, nella grande maggioranza dei casi, al di sotto del 30 per cento (vedi Tabella 3).
Cominciando dalle opzioni meno gettonate, è innanzitutto interessante notare quanto scarsa sia l’attenzione per un miglioramento degli standard di vita: solo tra i candidati e gli eletti della sinistra essa viene menzionata con una frequenza maggiore del 20 per cento. Lo stesso dicasi dell’opzione di valore in favore di “maggiore libertà” : sia sotto l’aspetto delle “libertà civili” che sotto quello della “libertà d’impresa” . Poco più di un quinto dei candidati (e del 10 per cento degli eletti) usa una delle tre possibilità a propria disposizione per scegliere “maggiori libertà civili per il cittadino”; e solo il 5,7 per cento dei candidati (nessuno dei quali eletto) fa riferimento a “maggiore libertà d’impresa” per raffigurarsi un “mondo migliore per i propri figli” . Non può non colpire quanto poco sensibili siano gli aspiranti parlamentari napoletani, del centro e soprattutto della destra, al fascino discreto del libero mercato.
Al contrario, è molto alta la sensibilità dei candidati di tutti gli schieramenti per il vaio-
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re “moralità pubblica”, e comprensibilmente, dato il clima moralista e giustizialista che ha pervaso il paese negli ultimi anni, e in particolare la campagna elettorale del 1994. Si noti però che in particolare per gli eletti della destra, che lo menzionano nei due terzi dei casi, l’argomento moralistico sembra essere stato un vero e proprio cavallo vincente.
Per quanto riguarda la disposizione favorevole verso un “maggior senso della comunità e della solidarietà civile”, scelto da circa il 60 per cento dei nostri intervistati, la comparazione con i dati dello studio di Putnam, come abbiamo detto, non è possibile. In compenso, i dati da noi raccolti aumentano un poco le nostre conoscenze sull’universo valoriale della classe politica Italiana (meridionale) di oggi. Se non meraviglia che i candidati della destra scelgano con frequenza relativamente minore degli altri i valori della comunità e della solidarietà, si noti però che una proporzione del 50 per cento è molto più alta di quanto sarebbe lecito attendersi da una destra “normale” . E va anche notato che tali valori sono scelti in identica proporzione (64 per cento) dai candidati di sinistra e dagli ex democristiani del centro. Si dovrebbe aprire qui un lungo discorso sui complessi rapporti culturali e politici tra solidarismo cattolico, comuniSmo Italian style e statalismo assistenziale, specie nel Mezzogiorno, ma qui possiamo limitarci solo ad un accenno.
Infine, si consideri che l’opzione in assoluto più gettonata è quella di una maggiore giustizia sociale. I candidati e gli eletti di destra e di centro la scelgono, in media, nel 60 per cento dei casi, mentre fanno riferimento ad essa l’88 per cento dei candidati e il 94 per cento degli eletti nella coalizione di sinistra. Se si guarda alla tabella di Putnam, si può dedurre che, sotto questo aspetto, è cambiato ben poco in un quarto di secolo. Da un lato, l’aspirazione ad una “società più giusta” si conferma indubbiamente co
me parte integrante del patrimonio di valori che accomuna la sinistra in ogni tempo ed in ogni paese (si compari ad esempio nella tabella l’atteggiamento dei laburisti inglesi su questo punto: 76 per cento). Dall’altro lato, però, si conferma anche una nota peculiarità delle culture di centro e di destra in Italia, che rispetto ai conservatori inglesi si mostrano notevolmente più inclini a valori comunitari, solidaristici e di equità sociale. L’obiettivo di una maggiore giustizia sociale pesava meno del 40 per cento per i conservatori inglesi mentre per gli uomini politici italiani di centro e di destra esso era, e rimane, intorno al 60 per cento.
Che cosa si deve dedurre da questi dati? Innanzitutto che, come abbiamo detto all’inizio, non è possibile evidenziare una netta distinzione tra i nostri candidati di destra, centro e sinistra in base alle opzioni di valore proposte, mentre invece questo è possibile in Gran Bretagna. In secondo luogo, che l’universo valoriale della destra e del centro in Italia, e segnatamente nell’Italia meridionale, appare diverso da quello di un “normale” partito conservatore di tipo anglosassone.
Proviamo a suffragare ulteriormente queste conclusioni con un esercizio di manipolazione dei nostri dati (Tabella 5). Consideriamo cioè la frequenza con cui alcune opzioni di valore vengono accoppiate dagli intervistati. Definiamo ad esempio chi sceglie insieme “Più giustizia sociale” e “Maggiore moralità pubblica” come moralista-, consideriamo che l’accoppiata di “Più giustizia sociale” e “Più senso della comunità e della solidarietà civile” identifichi un socialista-, e che chi sceglie “Maggiore moralità pubblica” insieme a “Più senso della comunità e della solidarietà civile” possa dirsi un solidarista. Il risultato di questo esercizio tipologico è evidenziato nella Tabella 5. Come si vede, non vi è una linea netta di demarcazione: i candidati dei diversi schieramenti si dispongono un po’ in tutte le caselle, anche se c’è
La penultima sfida, a Napoli 667
Tabella 5. - Un tentativo di tipologia dei candidati in base ai valoriRisposte alla domanda: “Quali obiettivi ritiene prioritari per costruire un mondo migliore per i suoi figli?”
(Accoppiamenti più frequenti tra le opzioni scelte dagli intervistati: valori assoluti)
APiù giustizia
sociale
BMaggioremoralitàpubblica
CPiù senso
della comunità e della solidarietà
civile
A Più giustizia sociale 100% (n = 59)
Moralista Sin = 14 Cen = 9 Des = 7
Socialista Sin = 15 Cen = 13 Des = 5
B Maggiore moralità pubblica n = 36
8
h ^
G
Solidarietà Sin = 9
Cen = 13 Des = 3
D Più senso della comunità e della solidarietà civile n = 39 n = 30 100%
(n = 52)
Tabella 6. - Tipologia dei candidati in base alle motivazioniRisposte alla domanda: “Nella sua decisione di candidarsi, quali delle seguenti motivazioni hanno pesato di più?”
(Accoppiamenti più frequenti tra le opzioni scelte dagli intervistati: valori assoluti)
A B C DDare risposte Identificazione Assolvere Servire gliconcrete ai con una a un interessi delproblemi
della gente“causa” dovere civico proprio
collegio
Progettuale Responsabile NotabileA Dare risposte concrete ai
problemi della gente S _
-Il
8 Sin = 15 Cen = 4
Sin = 1 Cen = 11
Sin = 2 Cen = 2
Des = 3 Des = 1 Des = 7
B Identificazione con una “causa” n = 23
100% (n = 40)
Sin = 3 Cen = 2 Des = 2
Sin = 0 Cen = 1 Des = 3
C Assolvere un dovere civico n = 19 n = 7 100% (n = 31)
Sin = 0 Cen = 3 Des = 0
D Servire gli interessi del proprio collegio
n = 14 n = 7 n = 3 100% (n = 24)
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qualche differenza. I candidati del centro, ad esempio, sono in maggioranza social-so- lidaristi, piuttosto che moralisti. I candidati di destra sono prevalentemente social-moralisti, piuttosto che solidaristi. E la definizione di social-moralisti si adatta bene anche alla maggioranza dei candidati di sinistra, sebbene ce ne siano diversi anche nella casella dedicata al solidarismo.
Possiamo dunque ribadire il nostro punto iniziale. Se in base al tipo di opzioni di valore proposte in una “normale democrazia occidentale” si possono distinguere nettamente destra e sinistra, questo non è così semplice in Italia, e particolarmente nel Meridione d’Italia. L’impressione è che qui il solidarismo del centro cattolico, il tradizionale paternalismo della destra, e i valori più propriamente socialistici della sinistra, finiscano per sovrapporsi in un confuso amalgama che ha il sapore antico del populismo.
Questo giudizio andrà in seguito meglio definito e qualificato. Ma ora dobbiamo chiederci: questo quadro di apparente indifferenziazione sul piano dei “valori fonda- mentali” non contraddice le nostre precedenti conclusioni sull’esistenza di tre mondi socio-politici separati che si identificano con i politici di sinistra, di centro e di destra? Nelle prossime pagine vedremo che le cose non stanno così. Quelle differenze che non sono visibili guardando all’aspetto astratta- mente valoriale di questo nostro spezzone del ceto politico meridionale, tornano invece quando trattiamo delle motivazioni all’attività politica, della percezione del ruolo che un parlamentare deve svolgere, degli orientamenti rispetto alla democrazia politica e alle sue istituzioni.
Le motivazioni: il progettuale, il responsabile, il notabile. Nel nostro questionario la domanda che doveva servire ad individuare le motivazioni o gli incentivi all’attività politica era: “Nella sua decisione di candidarsi, quali delle seguenti motivazioni hanno pesa
to di più?” (vedi Tabella 4). A questa domanda seguivano sei opzioni tra cui era possibile sceglierne non più di due. Sulla base di queste risposte abbiamo costruito una tipologia dei candidati articolata in tre tipi: “progettuale” , “responsabile” e “notabile” .
L’opzione più gettonata è stata: “Dare risposte concrete ai problemi della gente” , che noi abbiamo formulato in modo da sottolineare quel sapore “efficientista-tecnocrati- co” (capacità di dare risposte concrete) e vagamente “populista” (il riferimento alla categoria debole e indifferenziata di gente) che ha così tanto caratterizzato il discorso pubblico in Italia negli ultimi anni. Si noti che questa è la motivazione più cara ai candidati di tutti gli schieramenti, ma soprattutto alla sinistra (84 per cento), meno al centro (60 per cento), con la destra in una posizione esattamente intermedia (72 per cento). Ma è anche assai notevole che tra gli eletti sia di destra che di sinistra la percentuale di coloro che hanno fatto questa scelta cresce e raggiunge un livello praticamente identico, intorno all’88 per cento. Dobbiamo dedurne che enfatizzare questo punto piace a tutti i candidati, indipendentemente dall’ideologia, e fa premio nei confronti dell’intero corpo elettorale, indipendentemente dalla fede politica? Di certo dobbiamo registrare che, da qualunque parte provenga, l’aspirante parlamentare del napoletano ritiene indispensabile impegnarsi pubblicamente su questo terreno: e se pensa che questo impegno contribuirà a fare le sue fortune elettorali, non trova di certo nell’esito del voto elementi che contraddicano tale convinzione.
Ma posto che questa motivazione è comune quasi a tutti, con quali altre motivazioni essa si intreccia? E può questo dato contribuire a caratterizzare “tipi” diversi di uomini politici (o aspiranti tali)? E, infine, questi diversi tipi coincidono con i tre schieramenti politici che si sono scontrati nelle elezioni appena svoltesi? La risposta è indubbiamente sì. La Tabella 6 mostra in modo evidente
La penultima sfida, a Napoli 669
come vi siano tre altre motivazioni che si distribuiscono in modo tale da caratterizzare nettamente i candidati e gli eletti dei diversi schieramenti. I due terzi dei candidati della sinistra (in una proporzione più che doppia rispetto a quelli degli altri schieramenti) dichiarano che nella propria decisione di candidarsi ha pesato molto l’identificazione con una “causa” . Oltre il 57 per cento dei candidati del centro menzionano la volontà di assolvere ad un dovere civico (più del doppio rispetto alla destra e oltre tre volte rispetto alla sinistra). La metà dei candidati della destra, infine, dichiara apertamente di voler rappresentare gli interessi del proprio collegio: appena l’8 per cento dei candidati di sinistra e un quarto di quelli di centro fanno altrettanto11. Queste proporzioni si rispecchiano sostanzialmente tra gli eletti, anche se va notato che qui la proporzione dei parlamentari di destra che dichiara di identificarsi con una causa cresce di oltre dieci punti percentuali.
Questi primi dati, seppure già molto significativi, sono ulteriormente confermati se guardiamo agli accoppiamenti più frequenti tra questi tipi di motivazioni alla politica. Si ricordi che un simile esercizio era risultato infruttuoso nel caso precedente, quando gli accoppiamenti riguardavano generici “valori” come giustizia sociale, solidarietà e moralità pubblica che risultavano condivisi un po’ da tutti e in proporzioni analoghe: il che impediva qualsiasi netta differenziazione tipologica. In questo caso, invece, avviene il contrario (Tabella 6).
Definiamo la casella di chi entra in politica per dare risposte concrete ai problemi della gente, ma nel contempo si identifica con una “causa” , come “politico progettua
le” (o, si potrebbe anche dire, un “servitore della causa”): la troveremo affollata soprattutto da uomini di sinistra, assai meno presenti nelle altre caselle. Chi dice di considerare la politica una attività che, oltre ad essere indirizzata a risolvere i problemi della gente, si caratterizza come un “dovere civico”, l’abbiamo definito un “politico responsabile” (o, se si vuole, un “servitore dello stato”): la casella corrispondente è popolata quasi esclusivamente da candidati del centro. Se infine la spinta a risolvere i problemi concreti della gente si accoppia con l’intenzione di rappresentare gli interessi del proprio collegio, abbiamo ciò che si può definire un “notabile” (o un “servitore del collegio”): sono i candidati della destra a collocarsi in maggioranza in questa casella.
Tutto questo ci conferma che esiste una linea di demarcazione tra i tre schieramenti piuttosto netta: se non sul piano un po’ astratto dei valori come prima definiti, di certo su quello dell’atteggiamento verso la politica pratica. A sinistra, al centro, a destra si decide di entrare nell’arena politica per motivi diversi. Dobbiamo supporre che vi si entri, anche, per fare cose diverse e che, in ogni caso, nel “fare” si agirà in modo diverso, con diversi stili. È quello che cerchiamo di capire ora.
La percezione del ruolo: il mediatore, il lo- calista, l’uomo di partito. Si ritiene da più parti che a diversi tipi di motivazioni ad entrare nell’arena politica debbano corrispondere diversi comportamenti o stili di azione da parte di una élite politica12, o almeno diverse visioni del processo politico e del ruolo che il rappresentante eletto deve svolgervi. Cerchiamo dunque di capire se e in che mi-
11 Nessuno invece dichiara di sentirsi motivato dal desiderio soggettivo di fare 1 esperienza di una carriera politica. Quasi nessuno, ben curiosamente, cita la rappresentanza degli interessi di un gruppo sociale, solo tre dei nostri intervistati lo fanno, e sono equamente distribuiti fra tre schieramenti.12 Cfr. ad esempio Oliver H. Woshinsky, The French Deputy: Incentives and Behavior in the National Assembly, Lexington, D.C. Heath, 1973.
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sura i nostri tre tipi di motivazioni siano in relazione con le seguenti visioni della politica: la politica come organizzata e disciplinata attività di partito; la politica come ricerca della mediazione e del compromesso; la politica come rappresentanza di interessi e clientele locali. A queste diverse visioni facciamo corrispondere, in base alla percezione del proprio ruolo, tre tipi di uomo politico: l’uomo di partito, il mediatore, il localista. Premettiamo, come argomenteremo subito, che la politica italiana nella prima repubblica è stata caratterizzata da una peculiare combinazione di questi tre elementi rispetto ad altri paesi; si può ipotizzare l’esistenza di una correlazione tra questi elementi e il sistema elettorale (il maggioritario tende a favorire le spinte localistiche, a rendere meno rilevanti le capacità mediatone, e — da più parti si sostiene — a indebolire le caratteristiche pratiche). Sarebbe dunque di grande interesse sapere se e in che misura il mutamento del sistema elettorale in Italia abbia contribuito al declino di un tipo di uomo politico e all’emergere di un altro.
Partiamo innanzitutto da un quadro comparato. La Tabella 7 mostra la diffusione dei nostri tre tipi di politici in Italia e in altri paesi occidentali nei primi anni settanta, così come riportata dai ricercatori del Comparative Elites Project13. Si noti, innanzitutto, come la situazione appaia per molti versi in relazione diretta con il tipo di sistema elettorale allora vigente in quei paesi: maggioritario puro in Usa e Gran Bretagna, “misto” nella Repubblica federale tedesca e proporzionale puro in Italia. I parlamentari che percepivano il proprio ruolo come volto soprattutto ad una attività di mediazione erano due volte più diffusi nei paesi dove vigeva una qualche forma di si
stema proporzionale (e governi di coalizione). Nel contempo, nei paesi a sistema elettorale maggioritario era da due a tre volte più facile trovare parlamentari che facessero soprattutto riferimento alla rappresentanza di specifici interessi clientelari nei propri collegi.
Ma si noti anche che per quanto riguarda il partisan, il parlamentare che si ritiene soprattutto un “uomo di partito” , non vi è una relazione diretta e visibile con il sistema elettorale. Qui vale l’osservazione, esposta con particolare chiarezza, ad esempio, da Giovanni Sartori, che il sistema elettorale può favorire certe tendenze presenti nel sistema politico, ma non crearle14. Sicché in un sistema politico a partiti assai deboli (Usa), in presenza di un sistema elettorale maggioritario puro si ha una bassissima percentuale di partisans-, mentre accade esattamente il contrario in Gran Bretagna, che pure ha un sistema maggioritario puro ma ha anche, tradizionalmente, partiti politici molto solidi. D’altronde, dove ci sono forti e strutturati sistemi partitici la percentuale in parlamento di “uomini di partito” è forte anche in presenza di un sistema proporzionale misto (Germania occidentale) o puro (Italia). Se però non tutti ritengono di attribuire al sistema elettorale una influenza causale decisiva, pochi negherebbero che esso può facilitare le spinte localistiche e l’indebolimento dello spirito partitico se questo trend già esiste. E dunque possiamo ipotizzare che nell’Italia del 1994, già caratterizzata dal disgregarsi del sistema partitico (e, bisognerebbe aggiungere, dell’unità nazionale), il passaggio ad un sistema elettorale maggioritario “aiuti” i candidati a proporsi come rappresentanti di interessi locali, e li renda meno inclini a presentarsi
13 In questo studio i tre tipi di politici sono definiti come Broker (“focuses on mediating and resolving conflicts of interests and political conflicts”); Facilitator (“focuses on protecting the interests o f specific clientele groups or constituents”) e Partisan (“focuses on partisan politics”).14 Cfr. a questo proposito Giovanni Sartori, Elementi di teoria politica, Bologna, Il Mulino, 1987.
La penultima sfida, a Napoli 671
Tabella 7. - Tre tipi d i parlam entari in Europa e Usa nei prim i anni settanta
Usa GB Rft Ita
Mediatore 23.0 27.0 47.0 40.0Localista 89.0 62.0 32.0 27.0Uomo di partito 13.0 83.0 74.0 75.0
Fonte: J.D. Aberbach, R.D. Putman, B.A. Rockman, Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, Cam-bridge, Mass., Harvard University Press, 1981, p. 97.
Tabella 8. - N orm e democratiche e orientam enti elitisti. Valori percentuali = som m a delle risposte po -sitive ( “<d ’accordo” e “d ’accordo con riserva”)
Campione “Comparative Elites Project”. Tre paesi europei, primi anni settanta: élite burocratiche e parlamentari
Burocrati + politici Solopolitici
GB Rft Ita Totale Totale
Poche persone sono in grado di individuare i proprireali interessi nel lungo periodo 48.0 60.0 84.0 64.0 59.0
Certe persone sono maggiormente qualificate a guidare il paese a causa di superiori competenze (') (20.0) (23.0) (37.0) (26.6) (22.0)
In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo dei comuni cittadini sull’attività legislativa e di governo 36.0 27.0 53.0 38.6 n.n.
Campione “Napoli 1994”. Napoli e provincia, 1994: candidati ed eletti al parlamento
Candidati Eletti
Totale Sin Des Cen Totale Sin Des
Poche persone sono in grado di individuare i propri reali interessi nel lungo periodo 82.1 72.0 88.8 86.0 85.7 72.0 100.0
Certe persone sono maggiormente qualificate a guidare il paese a causa di superiori competenze 69.8 64.0 77.0 77.0 67.8 66.6 87.5
In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo da parte dei comuni cittadini sull’attività legislativa e di governo 27.5 8.0 38.8 27.7 35.7 5.5 50.0
(*) Al campione del Comparative Elites Project questa domanda fu posta diversamente: essa faceva riferimento non a “superiori competenze”, ma a “tradizioni e background familiare”. Data la sostanziale differenza qualitativa tra le domande, dunque, le risposte non sono comparabili. Riportiamo i dati del Comparative Elites Project tra parentesi solo per completezza informativa.
672 Ottorino Cappelli
come uomini di partito e anche meno disposti alla mediazione e al compromesso. Prima di vedere se e fino a che punto ciò è vero, facciamo delle ipotesi preliminari su come, nella prima repubblica, i nostri tre tipi di politici si disponevano nei diversi schiera- menti.
La sinistra e in particolare il Pei, che pure non era certo alieno al compromesso politico, vantava probabilmente la più forte e solida identità di partito, mentre si può ben dire che fosse estranea alla sua Weltanschauung, la rappresentanza localistica. Il parlamentare di sinistra, più di altri leale e disciplinato membro del proprio gruppo parlamentare, dovrebbe fornire l’idealtipo dell’uomo di partito. Una visione della politica come mediazione prevaleva invece al centro più che altrove, ed era anzi alla base della centralità democristiana. Nel contempo una inclinazione al clientelismo su base localistica non mancava certo di caratterizzare le forze di centro. L’identità partitica e la coesione in parlamento di queste forze politiche erano invece andate negli anni progressivamente indebolendosi. Il parlamentare di centro dovrebbe dunque essere soprattutto un mediatore, sebbene anche un numero non indifferente di localisti dovrebbe trovare qui facile collocazione. Infine, la destra è sempre apparsa poco incline alla mediazione (anche per mancanza di concrete opportunità, vista la lunga esclusione dai circuiti del potere), ma caratterizzata da un senso piuttosto forte dello spirito di partito e, certamente nel Sud ed in particolare a Napoli, da una discreta capacità di articolare gli interessi di specifiche clientele locali. La tipica figura del parlamentare di destra dovrebbe dunque dividersi tra l’idealtipo del localista
e quello dell’uomo di partito. Come vedremo subito, questa situazione è mutata solo sotto alcuni aspetti, e anche in questi casi il cambiamento può solo in parte essere ricondotto all’effetto del mutato sistema elettorale.
Abbiamo chiesto ai nostri candidati quali fossero a loro giudizio le caratteristiche concrete che un parlamentare dovrebbe avere. Le risposte a questa domanda delineano i contorni di ciò che si può definire “percezione del ruolo” . Il nostro questionario proponeva sei diverse caratteristiche, ognuna delle quali poteva essere considerata indispensabile, piuttosto importante o non molto rilevante. Due indicavano qualità piuttosto che un ruolo (“capacità e competenza per risolvere i problemi concreti” , e “onestà e integrità personale”) ed erano state inserite come “domande di controllo”. Ben oltre il 90 per cento sia dei candidati che degli eletti, indipendentemente dallo schieramento, ha risposto che queste qualità sono indispensabili o piuttosto importanti. È dunque confermato pienamente ciò che ci si poteva facilmente attendere: chi oggi cerca di entrare in politica, o di rimanervi, condivide o in ogni caso si adegua al clima prevalente nell’opinione pubblica, e tende a presentare di se stesso una immagine fortemente connotata in senso tecnocratico e moralistico15. Altre quattro caratteristiche invece identificano più propriamente la visione o la percezione del ruolo di un parlamentare: capacità di mediare e persuadere, di conciliare i conflitti e raggiungere compromessi; attaccamento al proprio partito; disciplina di voto nel proprio gruppo parlamentare; capacità di soddisfare le richieste provenienti dal proprio collegio. I risultati sono presentati, in forma
Ciò del resto è congruente con le alte percentuali di adesione che, come abbiamo visto sopra, vengono raggiunte dal valore “moralità pubblica” e dalla motivazione “risolvere i concreti problemi della gente” (cfr. le Tabelle 3 e 4). Sulla diffusione nell’odierno dibattito politico italiano delle categorie antipolitiche del moralismo e del tecnicismo si vedano le acute osservazioni di Angelo Panebianco, Fare a meno della politica?, “Il Mulino”, 1993, n. 348, pp. 637-645.
La penultima sfida, a Napoli 673
grafica, nella Figura 1. Se consideriamo la somma degli atteggiamenti positivi (“indispensabile” e “piuttosto importante”), vediamo come in tutti gli schieramenti sia prevalente il tipo di politico localista, seguito al centro e a sinistra dal mediatore, mentre a destra al secondo posto si colloca l'uomo di partito. Si tratta, già a questo livello dell’osservazione, di un dato notevole; la tendenza al localismo sembra essere molto più alta rispetto al campione intervistato da Putnam, mentre lo “spirito di partito” è sempre molto più basso, tranne che a destra. Sarebbe arduo escludere che differenze così notevoli dipendano, almeno in parte, dal mutamento del sistema elettorale. Ma guardiamo ai dati più in dettaglio, considerando solo gli atteggiamenti decisamente positivi (“indispensabile”), e mettendo in relazione la percezione che gli intervistati hanno del ruolo di un parlamentare, con le motivazioni alla politica analizzate sopra (cfr. Tabella 4 e Figura 1).
La sorte del politico mediatore è di certo grama. Non solo il nuovo sistema elettorale che privilegia lo scontro muro contro muro, ma anche l’ovvia identificazione dei termini mediazione e compromesso con il tanto vituperato consociativismo, fa sì che pochi candidati si autodefiniscano esplicitamente in questo modo. Ma dove si trova, soprattutto, il politico mediatore? Lo troviamo, come potevamo attenderci, soprattutto tra i candidati dello schieramento di centro, nessuno dei quali è uscito vincitore dalle battaglie nei collegi uninominali. I candidati del centro corrispondono più di altri al tipo del politico mediatore: e questa è anzi la loro caratteristica distintiva, mentre i meno inclini alla mediazione sono gli eletti della destra. Questo atteggiamento politico culturale, quindi, rimane caratteristico degli uomini del centro anche se per diversi motivi può apparire penalizzante sul piano elettorale. Ma va anche
ricordato che la maggioranza dei candidati del centro hanno dichiarato tra le proprie principali motivazioni alla politica il desiderio di “assolvere ad un dovere civico”, e noi abbiamo definito questo tipo di risposta come caratteristica di un politico “responsabile”, un “servitore dello stato” . Ora, v’è una tendenza nella letteratura politologica a ritenere che un uomo politico che si dichiara spinto da obbligazione morale e da senso del dovere civico, dovrebbe risultare anche “avverso alla politica in generale e al compromesso in particolare”16. Evidentemente non è così, o non è così nel contesto italiano. Come mostrano i nostri dati, infatti, da noi avviene esattamente il contrario. Gli ex demo- cristiani erano e rimangono candidamente inconsapevoli della supposta incompatibilità tra servire responsabilmente lo stato e concepire la politica come una attività volta soprattutto alla mediazione e al compromesso. E la loro sconfitta è la sconfitta di uno stile politico, di un codice operativo profondamente radicato nell’universo politico culturale del centro. Di certo la sconfitta di questo schieramento porta in parlamento uomini assai meno inclini alla conciliazione dei conflitti: una virtù che d’altra parte non è molto richiesta ai politici di un sistema maggioritario.
Per quanto concerne il politico localista l’ipotesi è più semplice da formulare e quasi tautologica: in quello schieramento politico dove prevale chi indica tra le principali motivazioni alla politica il rappresentare gli interessi del proprio collegio, dovrebbero anche prevalere coloro che considerano indispensabile per un parlamentare la “capacità di soddisfare le richieste provenienti dal proprio collegio”. Dovremmo cioè aspettarci che il politico localista si collochi soprattutto a destra. E infatti è così. Questa caratteristica, che è indispensabile per il 40 per cento
16 J.L. Payne, O.H. Woshinsky, Incentives for Political Participation, “World Politics”, 1972, n. 4, pp. 518-546.
La penultima sfida, a Napoli 675
di tutti i candidati e per il 30 per cento di tutti gli eletti, lo è particolarmente per i candidati e gli eletti della destra (rispettivamente 67 e 75 per cento). I valori più bassi si riscontrano invece tra i candidati e gli eletti di sinistra (20 e 17 per cento), con i candidati del centro in posizione intermedia (32 per cento).
Chi invece, rispondendo sulle proprie motivazioni alla politica ha sostenuto di identificarsi con una causa, e come abbiamo visto si tratta soprattutto dei candidati di sinistra (ma anche di una buona parte degli eletti di destra), dovrebbe più facilmente di altri definirsi un uomo di partito. Non si può negare che in una realtà come quella italiana, dove la lotta politica è stata fino a ieri fortemente ideologizzata e nel contempo monopolizzata dai partiti, identificarsi con una “causa” era una caratteristica fondamentale per un uomo politico “di partito”, e viceversa. Ora, in base al nostro questionario un uomo di partito è uno che considera indispensabile caratteristica di un parlamentare “l’attaccamento al proprio partito” e la “disciplina di voto nel proprio gruppo parlamentare” . Ci attenderemmo dunque che questi tratti siano soprattutto caratteristici degli uomini di sinistra, quelli appunto più votati ad una “causa” , e, in misura un po’ minore, in quelli di destra. Ma in realtà le cose non stanno affatto così. Per quanto possa apparire paradossale, è proprio a sinistra che lo spirito di partito raggiunge i valori più bassi, specialmente l’opzione “disciplina di voto nel proprio gruppo parlamentare” , indicata come indispensabile dall’8
per cento dei candidati e da nessuno degli eletti di sinistra che abbiamo intervistato. E ciò nonostante il fatto che le liste di sinistra fossero numericamente dominate da membri dell’ex Pei e contenessero un’alta percentuale di politici “vecchi”, o comunque non certo alle prime armi. Solo a destra, sembrerebbe, e soprattutto tra gli eletti di destra, si trova ancora qualche vero uomo di partito (il 50 per cento degli eletti di destra ritiene indispensabile l’attaccamento al proprio partito e il 38 per cento la disciplina di voto in parlamento). E ciò nonostante il fatto che la destra risulti soprattutto orientata al localismo. Evidentemente, in certe condizioni, non v’è necessariamente contraddizione tra party ness e localism. Queste osservazioni naturalmente valgono soprattutto per il Msi: tra gli intervistati di Forza Italia lo spirito di partito è, come ci si può attendere, bassissimo. Ciò è d’altronde perfettamente congruente con l’esempio inglese, dove in presenza di un sistema elettorale maggioritario si riscontrano alti valori sia di localismo che di spirito di partito. Ma perché allora tale situazione non riguarda anche la sinistra, che presenta valori molto bassi di localismo ma anche e soprattutto di spirito di partito?17 Il fatto è che le alterne fortune del politico lo- calista e dell’uomo di partito non possono essere spiegate solo in base al cambiamento del sistema elettorale. Bisogna anche considerare che la crisi del sistema partitico italiano non ha quasi per nulla colpito il Msi, tanto a lungo estraneo alle stanze del potere, e dunque i missini hanno potuto brandire l’argomento antipartitocratico pur continuando
17 Si noti per inciso che la forte differenza di “spirito partitico” tra destra e sinistra non può attribuirsi solo al fatto che gli eletti di destra da noi intervistati provengono tutti da un solo partito, il Msi, mentre gli eletti di sinistra hanno una provenienza partitica più differenziata: in realtà anche comparando gli eletti del Msi con quelli del solo Pds, il risultato non cambia. È vero che considerando i candidati di tutte le formazioni politiche della coalizione progressista solo tra quelli del Pds si trovano “uomini di partito” (come da noi definiti). Ma rimane il fatto che solo uno degli eletti del Pds da noi intervistati cita come caratteristica indispensabile di un parlamentare l’attaccamento al proprio partito, e nessuno la disciplina di voto in parlamento. Tra gli eletti del Msi che rientrano nel nostro campione, invece, quattro ritengono indispensabile l’attaccamento al partito e tre la disciplina di voto.
676 Ottorino Cappelli
ad esprimere con orgoglio la propria appartenenza partitica. E non solo i candidati del Msi possono presentarsi apertamente come uomini di partito, ma l’elettorato di riferimento di quest’area mostra di apprezzare questa scelta, o almeno non la considera un motivo sufficiente per non votarli, e magari per scegliere il centro, dove l’identità partitica è molto più bassa. Infine, siccome d’altra parte la destra si presenta anche come fortemente incline alla rappresentanza loca- listica, essa appare complessivamente ben attrezzata alla battaglia politica in un sistema maggioritario — nonostante che da questa “penultima sfida” sia uscita sconfitta. Al contrario, a sinistra, il clima antipartitocratico dominante a livello di opinione pubblica e, soprattutto per l’ex Pei, anche le vicissitudini del comuniSmo internazionale hanno in parte accompagnato e in parte causato un indebolimento complessivo dell’identità partitica e dell’orgoglio di partito. Di conseguenza, i candidati di sinistra non si presentano volentieri come uomini di partito. D’altra parte, però, poiché nella maggioranza dei collegi in cui si presentavano essi hanno vinto, bisogna anche dedurne che l’elettorato ha apprezzato o almeno ha ben tollerato questa scelta. Inoltre, se un elettore era disposto a votare a sinistra, questa decisione non è stata scalfita dal basso grado di localismo mostrato dai “suoi” candidati.
Per riassumere: il vero cambiamento in questo campo è avvenuto a sinistra. Al centro e a destra, infatti, troviamo solo ciò che ci aspettavamo di trovare: una prevalenza, rispettivamente, del tipo mediatore e del tipo localista. E troviamo anche che lo schieramento dove prevale il tipo localista vince rispetto all’altro. A sinistra, invece, dove ci attendevamo di trovare una prevalenza del- l’uomo di partito, ciò non avviene. E, soprattutto, anche in presenza di una bassissima offerta di rappresentanza localistica, la sinistra ha vinto le elezioni nel napoletano.
Si può dunque dire che l’impatto del sistema elettorale, se v’è stato, è stato diverso a seconda delle forze politiche che il cambiamento ha investito. Dove le identità partitiche erano già indebolite, un sistema elettorale che di per sé tende a mettere l’accento più sulle persone che sui partiti ha favorito chi si è presentato con una identità partitica debole (la sinistra), anche in presenza di un basso appeal localistico. D’altra parte, però, i candidati del centro, la cui identità partitica era bassa, hanno perso rovinosamente anche avendo un grado di localismo piuttosto alto, almeno rispetto alla sinistra. Contro di essi la polarizzazione ideologica e le indagini giudiziarie devono aver pesato almeno quanto le nuove regole elettorali. Chi infine (come la destra) aveva una forte identità partitica e un forte appeal localistico con il maggioritario ha potuto fare il pieno dei voti in relazione al proprio elettorato di riferimento, ma non vincere le elezioni. In questo, la forte identità partitica dei candidati del Msi non ha penalizzato loro direttamente, anche se può aver reso più difficile alla coalizione di destra espandere i propri consensi molto al di fuori del proprio bacino elettorale “naturale” . In questo senso si può ipotizzare che l’orgoglio di partito sia un elemento importante della fortuna elettorale dei candidati del Msi, ma che al tempo stesso sia elettoralmente penalizzante per la destra nel suo complesso.
Tra elitismo e populismo
L ’elitismo del ceto politico. Un altro gruppo di domande era destinato a far emergere gli orientamenti “elitisti” dei nostri intervistati. Il questionario chiedeva di indicare se si fosse d ’accordo, d ’accordo con riserva, o contrari con le seguenti proposizioni:
1) Poche persone sono in grado di individuare i propri reali interessi nel lungo periodo.
2) Certe persone sono maggiormente qualifica
La penultima sfida, a Napoli 677
te a guidare il paese a causa di superiori competenze.
3) In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo da parte dei comuni cittadini sull’attività legislativa e di governo.
Queste domande sono tratte dal lavoro del Comparative Elites Project, ma la seconda è stata adattata per rispondere a esigenze diverse; nella ricerca americana si chiedeva se alcune persone fossero maggiormente qualificate di altre a governare il paese a causa delle loro “tradizioni e background familiare”: l’intento era qui di fare emergere gli atteggiamenti “aristocratici” delle élite. Noi intendevamo invece misurarne gli atteggiamenti “tecnocratici” e abbiamo fatto riferimento a “superiori competenze”. Data la sostanziale differenza qualitativa tra le domande, dunque, le risposte su questo punto non sono comparabili (nella Tabella 8 riportiamo i dati del Comparative Elites Project tra parentesi solo per completezza informativa.) Inoltre il campione del Comparative Elites Project si rivolgeva sia alle élite burocratiche che a quelle politiche, e i dati riguardanti le risposte fornite dalle sole élite politiche non sono disponibili paese per paese ma solo in forma aggregata (e per una delle tre domande, la terza, non sono disponibili neanche in questa forma). Va infine tenuto presente che, come avverte Putnam, in tutti i paesi gli orientamenti elitisti caratterizzano maggiormente le élite burocratiche rispetto a quelle politiche (e le élite burocratiche italiane in particolar modo)18. Nonostante queste limitazioni, la Tabella 8, derivata dallo studio statunitense, presenta una situazione di inequivoca lettura e che possiamo almeno usare come immagine di contrasto per leggere poi i nostri dati. Il grado di elitismo che emerge dalle risposte del campione italiano è di gran lunga superiore ri
spetto a quello tedesco-occidentale e britannico, ed è anzi sempre molto più elevato della media.
Se guardiamo ora al nostro campione, notiamo alcune differenze. Vi è una leggera flessione sul primo punto (l’incapacità dei cittadini di individuare i propri reali interessi) tra in candidati intervistati, ma non tra gli eletti. E vi è una flessione notevole sul terzo punto: poco più del 27 per cento dei candidati e degli eletti da noi intervistati sono disposti a dichiarare che il mondo attuale è troppo complesso perché si possa parlare di un maggiore controllo popolare sull’attività politica. Nei primi anni settanta le risposte positive erano state il 53 per cento: anche considerando che allora il campione comprendeva una parte di alti burocrati, la differenza è molto alta. Complessivamente, dunque, la situazione appare “migliorata” . Ciò nonostante, il grado di elitismo del nostro campione rimane incomparabilmente più alto di quello dei parlamentari inglesi e tedeschi. Inoltre, è generalmente più basso a sinistra e molto più alto al centro e soprattutto a destra. In particolare sulla domanda più esplicita, quella che esclude decisamente l’opportunità di un controllo popolare, rispondono positivamente il 5,5 per cento degli eletti di sinistra e il 50 per cento degli eletti di destra.
Un diverso modo di aggregare questi dati è esposto nella Figura 2, che presenta quello che chiamiamo 1’“indice di elitismo” (una media dei valori percentuali delle risposte “d’accordo” e “d’accordo con riserva” a tutte e tre le domande). La distanza tra destra e sinistra è evidentissima (82 per cento contro 48 per cento), e lo è anche se si considerano solo gli atteggiamenti più decisamente elitistici, cioè i valori corrispondenti solo alla risposta “d’accordo” (49 per cento contro 24 per cento). Si noti che gli eletti di de-
18 R.D. Putnam et al., Bureaucrats and Politicians in Western Democracies, cit., p. 176.
678 Ottorino Cappelli
Media dei valori percentuali delle risposte “d’accordo” e “d’accordo con riserva” ad ognuna delle domande che identificano atteggiamenti elitistici:
1) Poche persone sono in grado di individuare i propri reali interessi nel lungo periodo. 2) Certe persone sono maggiormente qualificate a guidare il paese a causa di superiori competenze. 3) In un mondo così complesso come l’attuale non ha molto senso parlare di un maggiore controllo da parte dei comuni cittadini sull’attività legislativa e di governo.
100
87.5
75
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50
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CANDIDATI
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SINISTRA CENTRO DESTRA SINISTRA DESTRA
D'accordo m Contrario
Ü D'accordo con riserva □ Non risponde
Figura 2. - Indice di elitismo
La penultima sfida, a Napoli 679
stra presentano complessivamente valori molto più alti dei candidati del medesimo schieramento, cosa che non avviene a sinistra. Dunque un tale atteggiamento si associa con grande frequenza alla “fortuna elettorale” di un candidato di destra, mentre per un candidato di sinistra vale semmai il contrario. Che a destra siano molto più diffusi che altrove atteggiamenti elitisti può apparire scontato. Può sembrare tautologico che un politico di destra consideri il cittadino comune incapace di individuare i propri reali interessi, che ritenga insensato parlare di controllo popolare sulla politica, e che sostenga con decisione l’affidamento della guida del paese a poche persone dotate di superiori competenze. Il quadro però diviene più complesso e interessante se si passa a considerare ciò che abbiamo chiamato 1’“indice di populismo”.
La sindrome populista. Per populismo qui intendiamo una visione della politica e della democrazia fondata su una lettura radicale ed enormemente semplificata (se non semplicistica) del principio della sovranità popolare. Portata all’estremo, essa sostiene che l’unica “vera democrazia” è la democrazia diretta. Questa visione implica l’esigenza di una estesa e capillare partecipazione del popolo all’attività decisionale-legislativa, e di un forte, pervasivo e continuo controllo popolare sull’attività dei rappresentanti eletti. Niente delega fiduciaria, niente mandati in bianco, niente zone di segretezza: il popolo sovrano può e deve conoscere tutto, e decidere di tutto e su tutto. È intrinseca a questa visione una profonda e radicale diffidenza verso le regole e gli istituti della democrazia
rappresentativa. Si tratta di una vera e propria “sindrome”, che potremmo definire “sindrome della diffidenza democratica” : in nome del popolo sovrano essa spinge a guardare con sospetto, indifferenziatamente, all’intera classe politica, a tutti i partiti, al parlamento. Questa visione populista della politica democratica ha le sue “istituzioni”. Innanzitutto il mandato imperativo, il diritto di revoca di un parlamentare prima della scadenza della legislatura, e il referendum (un uso estensivo del referendum, sia su scala nazionale che regionale e locale; sia abrogativo che propositivo; e su ogni questione che possa interessare il popolo, incluse le questioni fiscali). Ha anche, come dire, le sue “contro-istituzioni” . Non contempla alcun tipo di privilegi per i rappresentanti del popolo eletti in parlamento, e dunque aborrisce l’istituto dell’immunità parlamentare e anche quello del voto segreto, poiché “la gente” deve sempre sapere come agiscono e come votano i suoi rappresentanti19. Per misurare la presenza di questo atteggiamento populista abbiamo sottoposto ai nostri candidati una complessa batteria di sette proposte di “riforma istituzionale” che toccavano tutti i punti sopra menzionati. Su ognuna di queste gli intervistati potevano dichiararsi favorevoli-, disposti a discuterne-, o contrari. Abbiamo scelto però di non presentare i risultati in forma disaggregata, domanda per domanda, anche per rendere più agevole uno sguardo d’insieme sui dati. Abbiamo dunque in primo luogo calcolato la media dei valori percentuali corrispondenti alle risposte favorevoli (senza distinguere cioè tra i “sì” e i “se ne può discutere”). In realtà queste “proposte” sono quasi tutte così dirom-
19 Quella di populismo è una delle categorie oggi più abusate e al tempo stesso peggio definite concettualmente e politicamente. L’adoperiamo dunque qui con grande cautela e circospezione. Tra le tante esperienze storiche che fanno variamente riferimento a questo filone, quella che più ha ispirato l’uso di questa categoria nel presente lavoro è l’esperienza del populismo statunitense. Devo riconoscere un particolare debito intellettuale al volume di Thomas E. Cronin, Direct Democracy. The Politics o f Initiative, Referendum and Recall, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1989.
680 Ottorino Cappelli
penti rispetto al quadro costituzionale di una democrazia liberale rappresentativa, che anche il solo essere disposti a discuterne è già di per sé molto significativo. In secondo luogo abbiamo accorpato i sette items in tre grandi blocchi tematici: il primo si riferisce al rapporto tra cittadini e rappresentanti (mandato imperativo e diritto di revoca); il secondo riguarda le proposte di modificare alcuni aspetti dello status dei parlamentari (l’abolizione deH’immunità parlamentare e del voto segreto); il terzo fa riferimento all’esercizio diretto della sovranità popolare (l’uso estensivo dei referendum, incluso quello propositivo e quello fiscale). Ne risulta quello che chiamiamo “indice di populismo”, esposto in forma grafica nella Figura 3.
Notiamo immediatamente che l’indice del populismo è sempre molto alto: non scende mai al di sotto del 60 per cento. Notiamo anche che esso raggiunge i valori minimi tra i candidati e soprattutto tra gli eletti di sinistra (rispettivamente 64 per cento e 60 per cento), mentre raggiunge i valori massimi tra i candidati di destra (76 per cento) e soprattutto tra gli eletti di destra (87,5 per cento). Qui i candidati di centro si collocano in una posizione intermedia (ma più vicini alla sinistra che alla destra). Si consideri che i dati disaggregati per ciascuno dei sette items mostrano che in generale i maggiori consensi si ottengono sull’introduzione del referendum propositivo (91 per cento di risposte favorevoli tra i candidati e 92,5 per cento tra gli eletti). Il livello minore di consenso si riscontra sulla proposta del mandato imperativo, che comunque si mantiene tra il 39 per cento (per i candidati) e il 48 per cento (per gli eletti). Coloro che risulteranno eletti avevano scelto in misura addirittura superiore alla media dei candidati di introdurre il referendum anche a livello locale e di abolire completamente l’immunità parlamentare. Si erano invece tenuti più cauti (ma sempre con valori complessivi
molto alti) sul referendum fiscale, sul diritto di revoca e sull’abolizione del voto segreto in parlamento.
Per quanto riguarda le differenze tra i candidati dei tre schieramenti, è a sinistra che si riscontrano quasi sempre i valori più bassi di “populismo” , benché su alcune questioni, e in particolare sul mandato imperativo, questi siano ancora più bassi al centro. I candidati di destra presentano invece quasi sempre i valori più alti, leggermente superati dai candidati di sinistra e del centro solo sull’abolizione dell’immunità parlamentare, e dai soli candidati del centro sull’introduzione del referendum propositivo. Ma è tra gli eletti che la contrapposizione più significativa, quella tra destra e sinistra, emerge con maggiore nettezza. Nella maggior parte dei casi gli eletti di sinistra presentano valori più bassi rispetto ai candidati del medesimo schieramento, e talvolta notevolmente più bassi. Ma presentano valori sempre molto più bassi rispetto agli eletti della destra. La distanza maggiore tra destra e sinistra si riscontra sul diritto di revoca dei parlamentari (54 punti percentuali), mentre tra i due schieramenti vi è apparentemente un forte accordo sull’introduzione del referendum propositivo (100 per cento a destra e 89 per cento a sinistra). Infine gli eletti di destra sono unanimemente favorevoli (al cento per cento) nel privare i parlamentari dell’immunità e del voto segreto e nel promuovere l’uso estensivo del referendum, anche propositivo; la metà di loro sono anche favorevoli al referendum fiscale, i due terzi accetterebbero il mandato imperativo e circa il 90 per cento guarderebbe con favore all’introduzione del diritto di revoca.
Emerge da questi dati, dunque, che la destra napoletana è caratterizzata da una fortissima componente populista, e che anche il populismo può essere annoverato tra gli elementi costitutivi della capacità di riuscita di un candidato di destra nei confronti del proprio elettorato di riferimento.
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Rimane da chiedersi se tutto ciò non sia in contraddizione con quanto notato precedentemente: che a destra vi sono altissimi valori di elitismo. Non è contraddittorio ritenere il popolo incapace di individuare i propri reali interessi e di controllare l’attività del governo, che andrebbe demandata a pochi competenti, e poi invocare a gran voce il mandato imperativo, l’uso estensivo dei referendum e una “gabbia di vetro” per i parlamentari, sempre esposti alla sorveglianza degli occhi vigili del popolo? Non lo è. C’è infatti un filo rosso che collega elitismo e populismo: è lo stesso che collega, almeno sin dagli anni venti e trenta di questo secolo, la democrazia plebiscitaria ad esiti autoritari. La base di partenza di questo connubio è una confusa aspirazione ad un esercizio diretto della sovranità popolare, non mediato da partiti, elezioni, parlamenti. Il suo opposto speculare è l’accettazione della delega rappresentativa, che si invera in quel fragile e imperfetto equilibrio poliarchico che chiamiamo “democrazia liberale”20. Si tratta in entrambi i casi di forme estreme, idealtipi- che, che in questo secolo hanno ispirato soluzioni opposte al problema del governo della società di massa. Entrambe possono produrre esiti non previsti. Nell’una il popolo e il suo capo (o una oligarchia, magari selezionata in base ad “oggettive superiori competenze”), sono uniti da un idem sentire profondo che riceve la sua sanzione in grandi adunate pubbliche, dove la volontà popolare si esprime per acclamazione — in tempi più moderni ci sono tecniche più sofisticate: le piazze teletrasmesse, i sondaggi, i referen
dum. L’aspirazione alla democrazia diretta porta nel proprio patrimonio genetico dei tratti plebiscitari e carismatici che possono sfociare nell’autoritarismo e finanche nel totalitarismo, se la sovranità del popolo diviene dittatura della maggioranza e poi dittatura del capo, dei suoi luogotenenti e dei suoi esperti21. Nell’altra, tra popolo e capi stanno gli istituti e le regole della rappresentanza politica: la delega elettorale; quei “privilegi” che servono a proteggere i rappresentanti elettivi non solo dall’arbitrio dell’esecutivo, ma anche da quello del popolo, o in ogni caso della maggioranza di questo; il parlamento come sede istituzionale attraverso cui soprattutto deve esprimersi la sovranità popolare. Ma la democrazia rappresentativa si fonda su presupposti liberali ottocenteschi che possono essere facilmente travolti qualora la sovranità popolare, delegata al parlamento, venga poi monopolizzata da chi organizza e domina quell’assemblea, trasformando le immunità parlamentari in impunità politica. Come si determini, nell’impatto con la società di massa, la trasformazione di una democrazia liberale in partitocrazia, e anche come e perché questo regime crolli, l’abbiamo visto in questi anni in Italia22. Ma ciò che oggi deve soprattutto preoccupare è il riemergere di quel filo rosso che unisce nel Giano bifronte della destra elitismo e populismo. Dal nostro studio emerge una destra sociale e popolare, capace di affiancare ad un messaggio centralista e presidenzialista uno stile politico notabiliare e localista. Una forza politica che ha come cavalli di battaglia gli argomenti dell’antipolitica, soprat-
20 II riferimento classico su questi temi è naturalmente ai tanti luoghi in cui Max Weber e Cari Schmitt analizzano, da opposte angolazioni, i rapporti tra democrazia liberale, democrazia plebiscitaria e potere carismatico. Più recenti, sistematiche analisi teoriche dei “dilemmi della democrazia moderna” sono in G. Sartori, The Theory o f Democracy Revisited, Chatham, Chatham House, 1987; e Robert H. Dahl, Democracy and its Critics, New Haven, Yale University Press, 1989.21 L’espressione “democrazia totalitaria” non è un ossimoro più di quanto non lo sia la nozione di “democrazia liberale”. Cfr. per tutti Jacob L. Talmon, The Origins o f Totalitarian Democracy, London, Seeker & Warburg, 1952 (ed. it. Bologna, Il Mulino, 1967).2“ Rimandiamo su questo punto al recente saggio di M. Calise, Dopo la partitocrazia, Torino, Einaudi, 1994.
La penultima sfida, a Napoli 683
tutto il moralismo e il tecnicismo; una forza parlamentare disciplinata e coesa che fa però della diffidenza contro il parlamento e le sue regole la propria bandiera; un partito ben organizzato e orgoglioso di esserlo, che agita però con disinvoltura il popolare vessillo antipartitocratico. Quali fortune attendono questa destra che, a Napoli e nel Sud, ha perso di misura questa “penultima sfida” , ma appare ben attrezzata a vincere la prossima, quella decisiva, specialmente in un sistema maggioritario? Eppoi: sono queste caratteristiche della sola vecchia destra missina napoletana, o possono estendersi all’intero ceto politico di Alleanza nazionale, che è oggi nella sua grandissima maggioranza di estrazione meridionale? E fino a che punto quei “nuovi” ceti produttivi e imprenditoriali del Nord che esprimono le altre anime dell’attuale maggioranza, possono, o intendono, contenere il fiume in piena della “vecchia” destra? E infine, come possono le opposizioni impedire che il fiume straripi alla prossima sfida? Destra e sinistra appaiono da questo studio diverse sotto molti aspetti cruciali: primo tra tutti quello relativo alla concezione elitista e tendenzialmente autoritaria della politica, che la sinistra mostra di condividere in misura assai inferiore alla destra. Ma abbiamo anche notato che
l’intero ceto politico napoletano cresce immerso in un medesimo humus valoriale confusamente condito di moralismo, paternalismo e populismo. E abbiamo visto che la condivisione di questi valori, molto diffusi tra la stessa popolazione, è strettamente associata con la fortuna elettorale dei candidati di qualunque schieramento. E sappiamo dalla nostra storia recente che anche la sinistra ha finito per cavalcare la tigre anticonsociativa e antipartitocratica che era stata a lungo allevata dalla polemica antiregime della destra. L’aver flirtato per due anni con la democrazia referendaria è un indicatore della serietà di questa situazione. Sebbene molto meno che a destra, tuttavia anche a sinistra riscontriamo una certa ambiguità nei confronti dei principi liberali della democrazia rappresentativa, una certa inclinazione ad alimentare la sindrome populista della diffidenza verso i partiti, la classe politica, il parlamento. Quanto tempo dovrà ancora trascorrere prima di riconoscere come tutto questo non potesse, non potrà che favorire la destra?
A questo punto, abbiamo ormai posto più domande di quante risposte siamo riusciti a dare. Speriamo, almeno, che siano le domande giuste.
Ottorino Cappelli
O ttorino C appelli è dottore di ricerca in Scienza della politica e ricercatore di Politica comparata dell’Istituto universitario orientale di Napoli. Ha pubblicato Governare Napoli. Le sinistre alla prova nella capitale del Mezzogiorno (Bari, De Donato, 1978). Negli ultimi dieci anni ha condotto ricerche in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Urss, occupandosi soprattutto del sistema politico sovietico. Tra le pubblicazioni più recenti il volume, curato insieme a Stephen White e Rita di Leo, The Soviet Transition (London, Frank Cass, 1993).