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79 Alessandro Bianchi LA PAURA NEL BELLUM CIVILE DI LUCANO: UN PERCORSO DI STUDIO La paura, nelle sue varie forme, manifestazioni e denominazioni, L tra i sentimenti che pervadono piø diffusamente il poema lucaneo, a tal punto che il rapporto con essa (il subirla, causarla, rifiutarla) diventa e- lemento caratterizzante tanto dei singoli protagonisti quanto delle mas- se, la cui psicologia Lucano indaga con peculiare e continuativa at- tenzione 1 . La sua presenza, come quella di altre passioni dominanti quali lira o il furor, L certo avvertibile a qualsiasi livello di lettura, ma pu rivelarsi oggetto di studio particolarmente fecondo quando ci si concentri su di essa come elemento ricorrente, con il quale gli attori della guerra civile si confrontano a piø riprese. Un tale approccio, di cui si vuole offrire qui un primo saggio, consente infatti di inquadrare piø nitidamente personaggi e situazioni del mondo lucaneo, ora con- fermando tratti gi messi in rilievo dalla letteratura critica, ora at- tenuandoli o rendendoli piø problematici. ¨ indubbio che la prima difficolt di unanalisi del genere sia quel- la di dover operare una scelta, inevitabilmente arbitraria, fra i termini pertinenti al problema. Molti sono i vocaboli che suggeriscono in sen- so lato unidea di paura, se teniamo conto della diversit delle accezioni e dei contesti; e, daltra parte, si possono dare casi in cui una passione 1 Cfr. E. MALCOVATI, M. Anneo Lucano, Brescia 1940, p. 89: «Soprattutto va- lente L Lucano nel ritrarre i movimenti e gli affetti delle moltitudini: e questo tratto di psicologia della folla avvicina larte sua a quella di Tacito».

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Page 1: LA PAURA NEL DI LUCANO: UN PERCORSO DI STUDIO · La paura nel Bellum Civile di Lucano: un percorso di studio . 81. 1. I. L LESSICO DELLA PAURA . Attenendomi ai criteri appena espressi,

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Alessandro Bianchi

LA PAURA NEL BELLUM CIVILE DI LUCANO: UN PERCORSO DI STUDIO

La paura, nelle sue varie forme, manifestazioni e denominazioni, è tra i sentimenti che pervadono più diffusamente il poema lucaneo, a tal punto che il rapporto con essa (il subirla, causarla, rifiutarla) diventa e-lemento caratterizzante tanto dei singoli protagonisti quanto delle mas-se, la cui psicologia Lucano indaga con peculiare e continuativa at-tenzione 1. La sua presenza, come quella di altre passioni dominanti quali l�ira o il furor, è certo avvertibile a qualsiasi livello di lettura, ma può rivelarsi oggetto di studio particolarmente fecondo quando ci si concentri su di essa come elemento ricorrente, con il quale gli attori della guerra civile si confrontano a più riprese. Un tale approccio, di cui si vuole offrire qui un primo saggio, consente infatti di inquadrare più nitidamente personaggi e situazioni del mondo lucaneo, ora con-fermando tratti già messi in rilievo dalla letteratura critica, ora at-tenuandoli o rendendoli più problematici. È indubbio che la prima difficoltà di un�analisi del genere sia quel-la di dover operare una scelta, inevitabilmente arbitraria, fra i termini pertinenti al problema. Molti sono i vocaboli che suggeriscono in sen-so lato un�idea di paura, se teniamo conto della diversità delle accezioni e dei contesti; e, d�altra parte, si possono dare casi in cui una passione ����������

1 Cfr. E. MALCOVATI, M. Anneo Lucano, Brescia 1940, p. 89: «Soprattutto va-lente è Lucano nel ritrarre i movimenti e gli affetti delle moltitudini: e questo tratto � di psicologia della folla � avvicina l�arte sua a quella di Tacito».

Gioseffi M.
Il dilettoso monte
Queste pagine sono tratte da un volume pubblicato da LED Edizioni Universitarie. Cliccando su questa pagina si accede alla pagina web dedicata al volume.
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o un sentimento caratterizzino una situazione anche in mancanza di ri-chiami lessicali espliciti. Una proposta prudente può essere allora la se-lezione di un numero piuttosto ristretto di termini, che abbiano però una valenza inequivocabile. Ho scelto perciò di prendere in esame an-zitutto i verbi metuo, terreo, timeo, paveo, formido (con i sostantivi e gli ag-gettivi derivati), in quanto deputati a veicolare invariabilmente un�idea di paura; andranno poi considerati almeno horreo, trepido, tremo, lessemi che, se pure non esclusivamente attinenti a questo sentimento, sono spesso indicatori della sua presenza; mi riservo infine la possibilità di spostare l�attenzione su altri vocaboli quando il loro utilizzo appaia particolarmente significativo 2. Se da un lato non pretendo di restituire un�immagine di Lucano del tutto nuova rispetto a quella tradizionale, dall�altro spero però di riusci-re a dimostrare come si renda talvolta necessaria una certa prudenza nei confronti di un approccio critico che miri a interpretazioni troppo lineari ed univoche del poema e dei suoi protagonisti. La narrazione lucanea rivela, in sostanza, una coesione meno pronunciata di quella che sovente le si è attribuita, spingendo così a diffidare di ogni ritratto eccessivamente schematico, nel quale gli elementi del testo rischiano di venire piegati più o meno consciamente all�assunto di partenza. Non pretendo certo di avere esaurito l�indagine: ma la strada qui tracciata potrà cercare auspicabile conferma in un�ulteriore ricerca, che si al-larghi a comprendere anche altre passioni-chiave di questo epos. Si do-vrebbero così delineare più nitidamente sia i caratteri del poetare di Lucano, sia il sistema etico entro il quale il poeta si muove: sistema che, com�è noto, si pone in un rapporto spesso problematico con il re-troterra culturale stoico in cui Lucano ricevette la propria formazione, e che un esame dei vari motus animi (intorno alla cui legittimità, per lo più negata, lo Stoicismo si interrogava) potrà forse tratteggiare con maggior precisione.

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2 Naturalmente, non è questa la sola scelta possibile: J. DION, Les passions dans l��uvre de Virgile: poétique et philosophie, Nancy 1993, p. 19, prende in considera-zione per Virgilio metus, piger, pudor, terror, timor, pavor, exanimis, formido, più tutti i termini a questi correlati; L.A. MACKAY, The Vocabulary of Fear in Latin Epic Poetry, «TAPhA» 92, 1961, p. 310, opta per «dirus, formido, horreo, metuo, palleo, paveo, pericu-lum, terreo, timeo, tremo, trepido, vereor, and their derivatives».

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1. IL LESSICO DELLA PAURA

Attenendomi ai criteri appena espressi, ecco allora che timeo conta ben ottantatré occorrenze contro le trentasei di metuo, le ventidue di paveo, le dieci di terreo; meno marcate risultano le differenze tra i sostantivi (timor ventitré, metus trentasette, pavor undici, terror undici) 3. Il particolare non fa meraviglia: si tratta infatti del verbo più generico e meno caratteriz-zante, adatto alle più disparate situazioni. La frequenza del suo impiego si connota però come un tratto specifico di Lucano: nell�Eneide, il ter-mine di confronto più naturale, le presenze di timeo sono soltanto quindici, meno di un quinto 4. Nel Bellum Civile le centosei attestazioni complessive di verbo e sostantivo si ripartono fra molteplici occasioni e personaggi: a provare timor è Pompeo alla vista dei nemici prima del-lo scontro a Farsalo (tantoque duci sic arma timere / omen erat, 7.340-341), o dopo di esso (trepidum laterique timentem, 8.7); Cesare attaccato dagli Egiziani (et timet incursus indignaturque timere, 10.444) 5; le truppe dell�uno e dell�altro (i Pompeiani a Farsalo: semel ortus in omnis / it timor, 7.543-544; i Cesariani a Durazzo: Caesaris � miles � / caeci trepidus sub nube timoris, 6.296-297); il popolo romano nel suo insieme (fuit haec mensura timoris: / [Caesarem] velle putant quaecumque potest, 3.100-101); persino gli dei, soggiogati dall�arte di Erittone (prima iam voce precantis / concedunt carmenque timent audire secundum, 6.527-528). Timor non gode di iuncturae particolarmente innovative: al più si può notare caecus timor di 6.297, dove, rispetto a impieghi più generici 6, l�aggettivo assume peculiare concretezza (i Cesariani restano disorientati dal polverone sollevato dalle truppe nemiche).

Metuo e metus (settantatré occorrenze, tra sostantivo e verbo) si ritrovano anch�essi in situazioni diversificate. Spesso esprimono le pau-re del popolo davanti alla gravità della situazione in generale, e a Cesare in particolare: le città che il condottiero attraversa sono tacitae � metu (3.81) � e per contrasto Marsiglia è non impulsa nec ipso / strata metu (3.389-390); al suo arrivo i Riminesi deriguere metu (1.246); la maesta senec-����������

3 I dati, in questo caso e negli altri analoghi, sono tratti da M. WACHT, Con-cordantia in Lucanum, Hildesheim 1992.

4 Cfr. MACKAY, Vocabulary cit., p. 314, che raccoglie anche le occorrenze presenti nelle Metamorfosi (54) e nella Tebaide (43).

5 La paura in Cesare è però sentimento rarissimo, come si vedrà in seguito. 6 Cfr., e. g., Verg. Aen. 12.617-618 attulit hunc illi [scil. Turno] caecis terroribus au-

ra / commixtum clamorem.

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tus romana praeteritique memor flebat metuensque futuri (2.233); degener metus è, nelle parole di Cotta, l�atteggiamento di Roma verso il nuovo padro-ne (3.149); Cesare stesso giunge a esclamare: «Desint mihi busta rogusque / dum metuar semper terraque expecter ab omni» (5.670-671) 7, mostrandosi invece, da par suo, non metuens davanti ai soldati ribelli (5.318); il giorno della battaglia di Farsalo il mondo intero percepisce la gravità di quanto sta per accadere e lymphato trepidat metu (7.186). Metuo non manca poi di apparire in contesti strategico-militari: Giuba si mette in marcia hoc so-lum metuens incauto ex hoste, timeri (4.719); Curione è stato invano pregato ut Lybicas metuat fraudes (4.736); Potino e Achilla esitano ad attaccare di notte perché metuunt belli trepidos in nocte tumultus (10.425). La paura è il solo motivo che spinga a consultare un oracolo, cosa che Sesto Pom-peo fa stimulante metu (6.423), mentre Appio solus in ancipites metuit descen-dere Martis � eventus (5.67-68) 8. Il figlio di Pompeo dichiara poi che ciò che lo spaventa è l�incertezza: la sua mens è parata ferre metus a patto che questi siano resi certos dalla scienza divinatoria (6.596-597) e quindi perdano, di fatto, la caratteristica che li definisce come metus. In effetti metus sembra designare, nel complesso, più che una reazione di spaven-to per un pericolo che si presenti improvviso, una condizione di timo-re per circostanze al di fuori delle proprie possibilità di intervento e che verosimilmente produrranno effetti negativi. Metus si qualifichereb-be così come concetto antitetico rispetto a spes, cui è contrapposto più volte 9. Tra le iuncturae, da segnalare lymphatus � metus di 7.186, già cita-to, a indicare un terrore frenetico e irrazionale, ai limiti del furor 10. ����������

7 Su questo tratto della personalità di Cesare cfr. anche 3.82-83 gaudet tamen esse timori / tam magno populis et se non mallet amari.

8 Cfr. J.F. MAKOWSKI, Oracula mortis in the Pharsalia, «CPh» 72, 1977, p. 193: «The key word here is metuit. Appius� motive in consulting Delphi is fear». Appare perciò condivisibile solo in parte quanto scrive F.M. AHL, Appius Claudius and Sex-tus Pompey in Lucan, «C&M» 30, 1969/1974, p. 339: è vero che il disprezzo di Luca-no per Sesto è più manifesto che nel caso di Appio, ma il motivo del loro agire è identico (metus); la differenza tra loro sta solo nel fatto che sulla pavidità di Sesto si insiste anche in seguito, mentre di Appio viene messa in luce soprattutto l�arro-ganza.

9 Cfr. 6.418-419 ad dubios pauci praesumpto robore casus / spemque metumque fe-runt; 7.386, a Farsalo metus hos regni, spes excitat illos; 7.211 spesque metusque agiteranno chi leggerà il resoconto della battaglia, pur conscio dell�esito di essa.

10 Lymphatus è participio che riporta a contesti bacchici e che faceva già parte del vocabolario di Catullo (le Menadi quae lymphata mente furebant di 64.254), di Ora-zio (la mens lymphata Mareotico [scil. vino] di Cleopatra, carm. 1.37.14, dove fa coppia con il furor del v. 12), di Virgilio (la regina Amata morsa dal serpente immensam sine

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Pavere, da parte sua, conta ventidue presenze, equivalenti a quelle dell�aggettivo pavidus, e il doppio di quelle del sostantivo pavor 11. Anche in questo caso l�impiego del verbo è piuttosto variegato; vi si evidenzia soprattutto un consistente coinvolgimento delle masse (nove occor-renze: 1.487, 1.153, 3.300, 3.349, 4.474, 4.523, 6.298, 7.40, 9.406). Pavor descrive più spesso un timore collettivo, in otto casi su undici, di cui due per bocca di un personaggio del poema: Sceva che richiama i com-pagni, «Quo vos pavor» inquit «adegit / impius?», 6.150-151; e Cesare che accusa di viltà le truppe di Domizio, «Non satis est muris latebras quaesisse pavori?», 2.494. Il disprezzo traspare dalle parole di entrambi: Sceva si spinge fino a definire impius il pavor che impedisce di ottemperare ai doveri verso Cesare, forma distorta, la sua, di una pietas resa esplicita ai vv. 155-156 («Non ira saltem, iuvenes, pietate remota / stabitis?»); Cesare si serve anche dell�aggettivo, pavidus, per mostrare il suo spregio verso gli avversari («Nec liceat pavidis ignava occumbere morte» dice a 4.165) e il loro dux («Habenti / tam pavidum tibi, Roma, ducem Fortuna pepercit / quod bellum civile fuit», 3.95-97). Il pavidus si contrappone, nella contingenza della morte, al fortis nelle parole di Catone («Pavido fortique cadendum est», 9.583), e all�uomo provvisto di virtus in quelle di Lucano stesso (Mors, utinam pavidos vitae subducere nolles / sed virtus te sola daret, 4.580-581: è il commento al suicidio collettivo delle truppe di Vulteio). Pavor, pavere, pavidus sono, come si vede, termini più volte designanti una paura che nasce dallo scontro armato, ma trovano abbondante impiego anche nella descrizione della Pizia spaventata, uno dei passi più ricchi di vo-caboli indicanti paura (Illa pavens adyti penetrale remoti / fatidicum, 5.146-147; pavida vates a 5.124; nunc vultu pavido, nunc torva minaci / stat numquam facies, 5.213-214) 12. Infine, pavidi magistri di 2.696 recupera la stessa iun-ctura di Aen. 12.717, ma si tratta qui di piloti che salpano in un pruden-te silenzio, là di bovari che assistono a uno scontro fra tori.

Le masse hanno peso anche maggiore nell�uso di terror, impiega-

���������� more furit lymphata per urbem, 7.377 � e si comporterà poi da Menade, simulato numine Bacchi, 7.385), di Ovidio (ancora le Menadi, che stanno per assalire Orfeo, met. 11.3-4: ecce nurus Ciconum, tectae lymphata ferinis / pectora velleribus). Cfr. anche, nello stesso poema lucaneo, la turba lymphata di cittadini che, inconsulta, fugge da Roma terrorizzata dalle dicerie sull�avanzata di Cesare (1.495-498).

11 MACKAY, Vocabulary cit., p. 313, rileva la rarità di questo gruppo semanti-co in Virgilio: paveo zero, pavor quattro, pavidus nove.

12 Lucano tende spesso a rinforzare l�idea di timore tramite l�uso ravvicinato dei vocaboli pertinenti: cfr. MACKAY, Vocabulary cit., p. 310.

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to per un singolo uomo solo una volta su undici occorrenze comples-sive, e oltretutto in senso negativo (at non magnanimi percussit pectora Bruti / terror, 2.234-235). Terrere (dieci occorrenze) si rivela parola ricorrente nel lessico di Pompeo (discorso alle truppe, 2.560: «Ne vos mea terreat ae-tas», e 2.572: «Territa quaesitis [Caesar] ostendit terga Britannis»; reazione al-l�apparizione di Giulia, 3.38: «Quid» ait «vani terremur imagine visus?»). Nei celebri versi proemiali che paragonano Cesare al fulmine, Lucano dice di quest�ultimo che populos � paventes / terruit obliqua praestringens lumina flamma (1.153-154): l�accostamento tra paveo e terreo suggerisce per il se-condo un significato di maggiore intensità, e ne contrappone l�aspetto momentaneo a quello durativo di paventes; si veda al proposito anche 1.673, terruerant satis haec pavidam presagia plebem, dove le parole di Nigi-dio Figulo ingenerano un terror determinato nel popolo, che prima era più genericamente pavidus 13. Terror è la reazione che accompagna (o dovrebbe accompagnare) la sinistra apparizione di un�imago, come quel-la di Giulia a Pompeo nel già citato verso 3.38, o quelle dei concittadini e parenti massacrati a Farsalo, che tormentano i superstiti: sua quemque premit terroris imago, 7.773 14. Terribilis (sette occorrenze) è usato perlopiù per sostantivi astratti o entità inanimate (Anteo, terribilis partus, 4.594; le terribiles cautes che proteggono Durazzo, 6.26; il terribilis pallor sul volto della Pizia, 5.216), ad eccezione di Achilla (10.523) e delle Furie, desi-gnate, tramite perifrasi, terribilis � deos scelerum, 2.80; da notare che l�ag-gettivo è sempre collocato in una posizione di particolare rilievo, al-l�inizio di verso 15. Terrificus, parola della lingua poetica 16, compare nel-l�episodio della consultazione della Pizia da parte di Appio (5.128), rin-forzato poco dopo dal verbo corradicale absterrere (5.129), e un po� più

���������� 13 Cfr. anche Verg. Aen. 12.875 (Giuturna): «Ne me terrete timentem». 14 Così Verg. Aen. 4.351-353 (Enea): «Me patris Anchisae � admonet in somnis

et turbida terret imago». 15 La stessa osservazione vale per Virgilio e Stazio, il che porta MACKAY,

Vocabulary cit., p. 313, a concludere che «all these poets apparently considered terri-bilis a particularly effective word».

16 Già Lucrezio ne fa uso per descrivere le spaventose criniere dei Cureti (2.632) e dei leoni (5.1315), seguito da Virgilio (i terrifici vates di Aen 5.524; i terrifici fulgores forgiati dai Ciclopi, 8.431; i terrifici mugitus emessi dal toro che si appresta a combattere, 12.104), Ovidio (terrificam capitis concussit [Iuppiter] terque quaterque / caesa-riem, in met. 1.179-180), Seneca («Tellus gigante Doris excusso tremens / supposita monstri colla terrifici levet» dice Giunone, cercando ostacoli che possano vincere Ercole, in Herc. Fur. 81-82; «Quid ista sacri signa terrifici ferant / exprome» è l�esortazione che E-dipo rivolge a Tiresia dopo uno spaventoso extispicium, in Oed. 384-385).

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oltre da conterrere 17: e il contesto divinatorio avvicina questa occorrenza lucanea ai terrifici vates di Virgilio e al terrificum sacrum di Seneca citati in nota 18. Fra gli altri composti di terreo, Lucano utilizza i già ricordati con-terreo e absterreo, rispettivamente tre e due volte; oltre agli esempi suc-citati, conterreo descrive l�effetto dei parti mostruosi sulle madri (matrem-que suus conterruit infans, 1.563) o il timore di bere a una fonte forse av-velenata (Catone: «Vana specie conterrite leti / ne dubita, miles, tutos haurire liquores», 9.612-613); absterreo, col valore di «distogliere tramite la paura», trova impiego nella descrizione che Cornelia dà di sé come «comes [scil. Magni] nullis absterrita fatis» (8.649) 19.

Horreo e horror (con, rispettivamente, nove e sette occorrenze), sono, com�è noto, vocaboli dalla duplice accezione: o strettamente fisi-ca, nel senso di «essere irto», «rizzarsi» ecc. (horrentia terga suum, Verg. Aen. 1.634), o, per estensione, psicologica («spaventarsi», «inorridire»). Lucano trascura la prima di esse nell�uso di horreo, verbo che mai ha per soggetto uno dei personaggi cardine del poema, ed è riservato invece � in forma a volte negativa, o dubitativa � a popoli stranieri (7.248, 8.342; cfr. anche 3.322-323, 6.293, 9.907), a Ercole (1.577), ad Achilla e Potino (10.389-390), a soggetti indefiniti o non specificati (Lentulo: «Quis nominis umbram / horreat?», 8.449-450; si quis [scil. infans] tactos non horruit angues, 9.907). In 1.445, a proposito di una divinità gallica (horrens � feris altaribus Esus), troviamo un impiego postclassico del verbo, che assume un aspetto causativo (horrorem facere) di cui questa pare tra le prime, se non addirittura la prima testimonianza inequivocabile 20. Hor-rere non indica soltanto l�azione conseguente al vedere qualcosa, come avviene ad esempio in 1.577 (horruit Alcides viso iam Dite Megaeran); può derivare dall�udito (8.342, il Parto si spaventa a sentire il nome di Pompeo), dal tatto (9.907, l�incontro coi serpenti), da un�idea astratta (8.450, non può far paura il pensiero di Tolomeo, umbra nominis; e, di

���������� 17 La Pizia è infatti conterrita virgo a 5.161. 18 MACKAY, loc. cit.: «In all these poets [scil. Virgilio, Lucano, Stazio, Ovidio

epico], incidentally, adjectives in -ficus have a strong affinity for situations involving the supernatural», come avviene nel presente caso. Anche conterrita esprime senz�al-tro il terrore del soprannaturale, cui però si aggiunge quello, più terreno, provocato da Appio.

19 Si tratta comunque di vocabolo infrequente nella lingua poetica (è assente in Catullo, Tibullo, Properzio, Virgilio, Ovidio, Stazio; lo troviamo tre volte in Lu-crezio � 4.1064, 4.1234, 5.846 � e due in Orazio, serm. 1.4.129 e 2.5.83).

20 Cfr. ThLl VI.3, 1940, col. 2978.64-65 [W. EHLERS].

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rimando, neppure agli Egiziani fanno paura nomi come Pompeo e Ce-sare, 10.390). Horror può invece descrivere l�incresparsi del mare (5.446, 5.564), il rizzarsi dei capelli (5.154) o l�agitarsi delle foglie nel bosco sacro di Marsiglia (3.411), il rabbrividire del corpo (Cesare all�ap-parizione della Patria: perculit horror / membra ducis, 1.192-193 � ma il contesto rende difficile percepire l�horror come fatto esclusivamente fi-sico, anche se in effetti l�oggetto dichiarato è membra e non, per esem-pio, mens o animus). In due casi soltanto horror assume valenza sicura-mente psicologica: l�apparizione a Pompeo di Giulia morta, diri � ple-na horroris imago (3.9), e il discorso di Cesare ai soldati ribelli, definiti «orbis Hiberi / horror et Arctoi» (5.343-344). Va specificato però che, in passi come quello del bosco marsigliese (non ulli frondem praebentibus au-rae / arboribus suus horror inest, 3.410-411), della tempesta di mare (niger � horror, 5.564) o, come s�è detto, dell�apparizione della Patria a Cesare (1.192-193), il sostantivo possiede una risonanza semantica che va oltre il senso strettamente fisico, per attingere alla sfera della paura, come suggerisce il contesto stesso 21. Horridus trova nel poema tre at-testazioni; Lucano si serve poi del virgiliano horrisonus (Aen. 6.573-574, 9.54-55) 22 per i soffi del vento Austro (2.454-455), e di horrificus per la chioma di Catone: nec horrificam sancto dimovit ab ore / caesariem, 2.372-373. È questa (horrifica caesaries) una iunctura peculiare che sembrerebbe piegare l�aggettivo al significato di horrens, hispidus, alterandone così il senso letterale di horrorem faciens, horribilis, horrendus 23. Non è però da escludere (anche per mancanza di testimonianze analoghe) che Lucano abbia inteso horrificus nella sua valenza più tradizionale, quando si con-sideri il contesto particolarmente lugubre in cui si svolgono le nozze tra Catone e Marcia (cfr. ad esempio 2.365: sicut [Marcia] erat, maesti ser-vat lugubria cultus; 2.367: obsita funerea celatur purpura lana), il rilievo dato all�austerità e severità del volto di Catone (sanctum os, 2.372; durus vultus, 2.373), il fatto che l�aspetto di esso sia diretta conseguenza della tragici-tà del momento storico (ut primum tolli feralia viderat arma / intonsos rigi-dam in frontem descendere canos / passus erat maestamque genis increscere bar-����������

21 La descrizione del bosco occupa ventisei versi sovraccarichi di termini in-dicanti un�idea del genere: metuere e timere appaiono due volte ciascuno, e in più ci sono ancora pavere, terror, horror.

22 E. FANTHAM, Lucan. De Bello Civili, Book II, Cambridge 1992, richiama anche Lucrezio 5.109, e osserva che «it is an epic compound, such as L[ucan] re-serves for descriptive passages and similes».

23 ThLl cit., col. 2996.39-40.

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bam, 2.374-376); senza dimenticare che sulla iunctura può aver agito il ricordo ovidiano della terrifica caesaries di Giove (met. 1.179-180), la cui veneranda maestà è qui trasfigurata in senso più luttuoso, coerente-mente con il tono di fondo del poema.

Al pari di horror, anche trepidare e trepidus presentano, a seconda della situazione, un significato più o meno fisico. Emerge come iunctura prediletta trepidus tumultus, che troviamo a 1.297-298 (trepidum turba co-eunte tumultum / [Caesar] composuit vultu), 5.530-531 (nullo trepidare tumultu / Caesarea pulsante manu), 7.127-128 (trepido confusa tumultu / castra fre-munt), 10.425 (metuunt belli trepidos in nocte tumultos); a 5.160 i due voca-boli si trovano assai vicini, anche se non sono grammaticalmente legati (de � orbis trepidi tanto consulta tumultu), a testimoniare la ricorrenza di una associazione di idee nell�immaginario lucaneo, sebbene non ne manchino, naturalmente, gli antecedenti 24. Dagli esempi riportati risul-ta anche la tendenza del poeta a sfruttare ampiamente la sonorità della parola, tramite l�inserimento in contesti densamente intessuti di dentali e liquide 25; si potrebbero aggiungere versi come 1.186 (ingens � patriae trepidantis imago), 5.568 (tum rector trepidae fatur ratis), 8.7-8 (qui post terga redit trepidum laterique timentem / exanimat). Ad essere trepida è più volte Roma: anzitutto quando compare, personificata, a Cesare sulle sponde del Rubicone (1.186); poi al tempo di Silla (2.160), oppure quando Ce-sare la occupa (3.298) e quando vi ritorna per essere proclamato con-sole (5.381). La condanna morale per l�atteggiamento dell�Urbe, un in-sieme di viltà, paura repressa e servilismo, già esplicita nel succitato doc-ta servire togam, trova conferma nel lessico: Marsiglia, non Roma, si me-rita la qualifica di urbs haud trepida (3.373) 26. Trepidus può indicare uno

���������� 24 Lucr. 3.834-835 omnia cum belli trepido concussa tumultu / horrida contremuere;

Verg. Aen. 8.4-5 simul omne tumultu / coniurat trepido Latium; cfr. anche Hor. carm. 3.27.17-18 sed vides, quanto trepidet tumultu / pronus Orion, e, in generale, Enc. Virg. V, Roma 1990, p. 264, s. v. �trepido� (G. CREVATIN), dove si osserva come trepidus sa-rebbe entrato di prepotenza nel linguaggio poetico grazie a Virgilio, prima del qua-le conobbe fortuna nella prosa di Sallustio, ma non in poesia (due occorrenze in Lucrezio, ma non in quel «senso interiore-psicologico [�], che è peculiarità virgi-liana»).

25 D. GAGLIARDI, M. Annaei Lucani Belli Civilis liber septimus, Firenze 1975, commenta a margine del v. 127: «trepido � tumultu: il gioco fonico sembra accre-scere la concitata agitazione che si determina nell�accampamento».

26 V. HUNINK, M. Annaeus Lucanus. Bellum Civile, Book III. A Commentary, Amsterdam 1992, p. 144, rileva l�intenzionalità del contrasto tra queste parole e i trepidantis moenia Romae del v. 298.

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stato non tanto di autentica paura, quanto di inquietudine ed esitazio-ne: quando Curione è incerto sul da farsi parla a se stesso trepida � mente (4.701). L�intrepidus per eccellenza è, secondo tutte le aspettative, Cesare, dapprima nel fronteggiare le truppe ribelli (in una situazione che avrebbe atterrito qualsiasi altro duce, cfr. 5.300), provocando paura anziché subirla, conscio del proprio status superumano, così da permet-tersi l�ira (stetit � intrepidus vultu meruitque timeri / non metuens, atque haec ira dictante profatur �, 5.316-318) 27; poi è egli stesso a dichiararsi intrepi-dus di fronte alla morte, in mezzo alla tempesta che affronta insieme ad Amiclate («intrepidus quamcumque datis mihi numina mortem / accipiam», 5.658-659); infine, intrepidus è il suo aspetto anche quando, ec-cezionalmente, il pavor si fa strada in lui: giunto ad Alessandria e resosi conto che il favore del popolo egiziano non è dalla sua, egli rimane vul-tu semper celante pavorem / intrepidus, 10.14-15.

Formidare è invece assente dal Bellum Civile; il sostantivo formido vi compare solo sei volte, una cifra modesta se paragonata alle diciannove virgiliane. Il caso è sempre l�ablativo, così come invariata è la posizione all�interno dell�esametro (formidine segue sempre la cesura eftemimera). È un termine che in Lucano sembra riferirsi ad uno stato d�animo de-rivante non dalla percezione sensoriale di qualcosa di specifico, ma da una situazione di pericolo e di ansia più generale, come nel caso di Bruto, che [non] in tanta pavidi formidine motus / pars populi lugentis erat (2.235-236), o di Cesare, che ha un attimo di esitazione prima di parla-re ai suoi a Farsalo, e può cominciare solo formidine mersa (7.248). For-mido è anche l�angoscia notturna che turba con visioni le menti scon-volte dei superstiti dello scontro (7.769-770) e quella di Cornelia, già afflitta di giorno dai presagi (8.44). Allo strumento venatorio (corde ornate di piume) utilizzato per la cattura degli animali selvatici si riferi-sce infine il poeta in 4.437-438, dum [venator] pavidos formidine cervos / claudat odoratae metuentis aera pinnae, una ripresa del virgiliano (georg. 3.371-372) hos non immissis canibus, non cassibus ullis / puniceaeve agitant pa-vidos formidine pinnae. Non sembra perciò ingiustificato supporre che formido possa essere inteso in quest�accezione anche a 10.536-537, al-lorché Cesare tota subitus formidine belli / cingitur: lo fanno pensare la concretezza di cingere e la spiegazione che segue, che è la descrizione di ����������

27 Cfr. quanto dice a 5.342-343: «Procerum motus haec cuncta secuntur; / humanum paucis vivit genus». Coerentemente con questa visione degli uomini e della storia, la sua ira non è disgiunta da un sincero disprezzo per i sediziosi (5.322-323).

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un accerchiamento (hinc densae praetexunt litora classes, / hinc tergo insultant pedites, 10.537-538). La similitudine col mondo animale resterebbe così implicita, e vedrebbe Cesare in difficoltà e sulla difensiva, laddove ben altra era la situazione quando Lucano lo paragonava al leone che si prepara all�attacco (1.205 ss.) o al destriero incitato dalle grida degli spettatori a Olimpia (1.291 ss.). Per parte sua, tremo appare diciotto vol-te, di cui però solo undici con riferimento alla paura. Tra queste ve-diamo, nel corso della rievocazione del regime di terrore di Mario, i versi 2.113-114 spes una salutis / oscula pollutae fixisse trementia dextrae [scil. Marii], dove evidente è il richiamo ad Aen. 2.354 una salus victis nullam sperare salutem: con la differenza che lì si raccoglievano le forze del-l�animo in un ultimo atto di disperato eroismo, qui la «salvezza» è un atto degradante e umiliante. Poi ci sono il terrore del sacro tra i Cesa-riani, davanti all�ordine di abbattere il bosco di Marsiglia, a 3.429 (fortes tremuere manus); la Pizia che finge l�invasamento profetico, ma emette non rupta trementi / verba sono a 5.152-153; Atena che guida il colpo di Perseo contro la Gorgone: Ipsa regit trepidum [scil. Persea] Pallas, dextraque trementem / Perseos aversi Cyllenida derigit harpen, 9.675-676. In esempi co-me questi il verbo denota una compresenza di paura a livello psicologi-co e di tremito che la traduce sul piano corporeo; in 7.63-64 (cuius [scil. Ciceronis] sub iure togaque / pacificas saevos tremuit Catilina securis) tremuit in-dica verosimilmente solo l�atto di aver paura, tramite un�immagine pri-va di referente fisico � da notare in proposito la diatesi transitiva, che implica «l�interiorizzazione del tremito nel timore» 28; in 7.562 Cesare, nel mezzo della battaglia, ispeziona le truppe notando tra le altre cose quae presso tremat ense manus: il tremito qui non sembra riconducibile alla semplice paura, ma più in generale allo stato di eccitazione nervosa che accompagna situazioni estreme come uno scontro armato, e che rende spasmodica la stretta delle mani intorno all�impugnatura della spada.

2. LA PAURA IN CESARE E POMPEO

Una volta passati in rassegna i principali strumenti linguistici di cui Lu-cano si è servito per rappresentare il concetto di paura e le varie moda-lità con cui essa si presenta all�animo umano (dall�esitazione al terrore, ����������

28 Così A. TRAINA, in Enc. Virg. V cit., p. 261, s. v. �tremo�.

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dal timoroso rispetto al panico), sarà ora conveniente organizzare la varietà delle occorrenze lessicali ponendole in relazione con i diversi soggetti letterari del poema, al fine di determinarne meglio profili e ruoli. Delle tre figure maggiori del Bellum Civile, Catone, Cesare e Pom-peo, le prime due, ciascuna a suo modo, hanno poca familiarità con la paura. Catone la ignora; Cesare, se non può permettersi altrettanto, la respinge e dissimula, come si vedrà in seguito. Si prenda invece il caso di Pompeo. La prima volta che Lucano lo nomina esplicitamente nel poema è proprio per associarlo alla paura: Tu, nova ne veteres obscurent acta triumphos / et victis cedat piratica laurea Gallis, / Magne, times (1.121-123). Qui il verbo timere � che, lo si è visto, gode degli impieghi più diversifi-cati � è deputato ad esprimere un�ansia derivante dai motivi di risenti-mento più personali nei confronti di Cesare, il vedere il proprio nome messo in ombra dai successi dell�altro 29. Si tratta solo della prima oc-casione in cui si manifesta un confronto, quello tra Pompeo e le sue paure, che accompagnerà con esiti alterni il personaggio fino alla sua uscita di scena; e questo accenno contiene già in nuce un Leitmotiv su cui Lucano insisterà in modi non sempre univocamente interpretabili: la vanità di Pompeo, il suo anelito alla gloria, la sua preoccupazione per la fama � fattori, questi, di non poco rilievo nella discussa evoluzione del suo personaggio. 2.1. � Prima di pronunciarsi su tali complesse problematiche, sarà op-portuno seguire fino in fondo i vari momenti del rapporto tra Pompeo e la paura, il che ci porta al secondo libro e al primo discorso che egli tiene ai suoi soldati. Lucano non è prodigo di informazioni sulle circo-stanze: non viene specificato né il luogo né il tempo dell�evento, se non che esso si verifica dopo la resa di Lucio Domizio Enobarbo, assediato da Cesare a Corfinio (febbraio del 49). Lo scopo è invece esplicitamen-te dichiarato (2.529): Pompeo parla temptandas ratus moturi militis iras, in-tenzione che denota da subito una fiducia già incrinata nei propri mez-zi e nel futuro corso degli eventi; le cohortes, che si predispongono al-����������

29 Questo particolare tipo di timor troverà espressione nel discorso di Pom-peo alle truppe nel secondo libro, in cui, come si vedrà subito di seguito, egli cerca di sminuire i successi del suo antagonista (2.568-572). Del resto, che Lucano faccia cenno fin dall�inizio alle motivazioni meno nobilitanti, anzi più meschine, dell�agire di Pompeo depone a favore dell�idea che, più che uno sviluppo in positivo del per-sonaggio nel corso del poema, vi sia stato un graduale modificarsi dell�atteggia-mento del poeta verso di esso.

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l�ascolto della sua veneranda vox restando tacitae (2.530), tali rimarranno anche alla fine (2.596), non più per rispetto al comandante, ma per ti-more e perplessità 30. In ogni modo, Pompeo esordisce ricordando agli astanti che la legittimità si trova soltanto dalla loro parte e che l�ira del-la Patria si abbatterà su Cesare, vero erede di Catilina: «O scelerum ultores melioraque signa secuti, / o vere Romana manus, quibus arma senatus / non pri-vata dedit, votis deposcite pugnam» (2.531-533); «Neque enim ista vocari / proe-lia iusta decet, patriae sed vindicis iram; / nec magis hoc bellum est, quam cum Catilina paravit / arsuras in tecta faces �» (2.539-542). A questo punto fa di sé il perno del discorso, e si mostra così cattivo oratore: mentre Ce-sare, di fronte ai suoi soldati (1.299-351), poneva l�enfasi sul «noi», ser-vendosi diffusamente della prima persona plurale, e arrivando a dichia-rare « Mihi si merces erepta laborum est, / his saltem longi non cum duce praemia belli / reddantur; miles sub quolibet iste triumphet» (1.340-342), Pompeo cer-ca di reagire al timore che si è ormai insediato in lui col magnificare le proprie imprese e la propria importanza 31. Non prova paura, a suo di-re, ma la suscita: nei pirati (2.578), nei popoli dell�Occidente (2.588), in quelli orientali (2.590-593); è Cesare, invece, ad essersi mostrato pavido in Britannia (2.572). Dopo aver raggiunto il culmine con due scoperte iperboli («Heu demens [scil. Caesar], non te fugiunt, me cuncta secuntur», ����������

30 M. LAUSBERG, Lucan und Homer, in ANRW II 32.3, 1985 p. 1575, ravvisa un possibile modello in Il. 2.110-141: Agamennone vuole far prova della volontà degli Achei e annuncia falsamente la fine dell�assedio e il ritorno in patria; contro ogni aspettativa, l�idea suscita immediato entusiasmo. Osserva però FANTHAM, op. cit., p. 179: «[�] The parallel is only partial; certainly Pompey�s troops are unwilling to fight, but his speech is a sincere attempt to stir them to action».

31 Si può osservare come il punto focale del discorso si sposti gradualmente dagli ascoltatori verso Pompeo stesso. Dopo aver cominciato con un�invocazione all�uditorio («O scelerum ultores melioraque signa secuti / o vere Romana manus �», 2.531-532), l�oratore fa causa comune con esso nel ricordare le perdite inflitte dalla guer-ra («Di melius, belli tulimus quod damna priores», 2.537). Ma è questo il solo momento in cui Pompeo si serve di un�autentica prima persona plurale: quando nomina Car-bone (2.547-548) nostras � securis passus, in effetti sta parlando di una condanna a morte inflitta da lui soltanto a un seguace di Mario nell�82 a.C.; quando dice «His te quoque iungere, Caesar, / invideo nostrasque manus quod Roma furenti / opposuit» (2.550-552), passa da una prima persona singolare a un plurale che è in realtà maiestatis, come viene riconfermato pochi versi dopo: «Te quoque si superi titulis accedere nostris / iusserunt �», (2.555-556), dove i tituli appartengono presumibilmente al solo Pom-peo. Dai vv. 559-560 («Licet ille solutum / defectumque vocet, ne vos mea terreat aetas») in poi, l�attenzione è spostata interamente e senza ambiguità sull�unica persona del parlante. Osserva giustamente FANTHAM, op. cit., p. 181, che quello di Pompeo è in fondo un soliloquio, e che egli mira sostanzialmente a convincere se stesso.

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2.575; «Pars mundi mihi nulla vacat», 2.583), Pompeo non termina con la parenesi che ci si aspetterebbe, ma chiude l�elenco delle res gestae con una domanda: «Quod socero bellum praeter civile reliqui?» (2.595). Si tratta, insomma, di un mal riuscito bluff, che non convince né l�uditorio né l�oratore stesso, e conferma piuttosto le preoccupazioni di entrambi. Lo sguardo del narratore torna a rivolgersi verso le truppe: verba ducis nullo partes clamore secuntur / nec matura petunt promissae classica pugnae (2.596-597). I soldati restano chiusi nel silenzio che aveva ac-compagnato l�inizio del discorso: a questo punto sensit et ipse metum Ma-gnus (2.598). È questo un metus dai contorni ancora indistinti; lo stesso predicato verbale di cui è oggetto, sensit, ne indica una generica perce-zione più che una comprensione razionale, ma ciò è sufficiente, per Pompeo, a suggerire una deliberazione strategica: ci si ritira verso Brindisi.

I primi sette versi del libro successivo ritraggono il personaggio, ingens � exul (2.730), nell�atto di abbandonare l�Italia; solus (3.4), men-tre il resto dell�equipaggio guarda avanti, ne segue con lo sguardo i contorni fino al loro svanire 32. Poi, stanco, scivola nel sonno; ma subi-to, con un repentino mutamento di questa «atmosfera di pacato strug-gimento» 33, gli appare l�ombra di Giulia, diri � plena horroris imago (3.9), che scaglia una maledizione contro l�uomo che fu suo marito e nello stesso tempo contro la sua nuova compagna, Cornelia, definita con di-sprezzo paelex (3.23). Giulia aggiunge poi una profezia di sventura, anzi di morte: «Abscidis frustra ferro tua pignora: bellum / te faciet civile meum» (3.33-34). A sorprendere il lettore è ora la reazione di Pompeo: sic fata refugit / umbra per amplexus trepidi dilapsa mariti (3.34-35). Che Pompeo sia trepidus è comprensibile, dopo una visione del genere; meno chiara è la motivazione del tentato abbraccio: difficile pensare che Giulia, così come gli è apparsa, susciti in lui un moto di affetto. Più facile è indivi-duare gli antecedenti letterari del gesto: si può risalire sino a Omero, Il. 23.99-101 (Achille e l�ombra di Patroclo), passando per Virgilio, Aen. 2.792-793 (Enea e Creusa) e 6.700-702 (Enea e Anchise), Properzio, ����������

32 Su questa scena, spesso messa a confronto col passo virgiliano in cui E-nea e i suoi compagni scorgono all�alba la costa dell�Italia (Aen. 3.521-548), cfr. E. NARDUCCI, La provvidenza crudele. Lucano e la distruzione dei miti augustei, Pisa 1979, pp. 114-115; L. THOMPSON, A Lucanian Contradiction of Virgilian pietas: Pompey�s amor, «CJ» 79, 1983/1984, pp. 207-215; U. HÜBNER, Episches und Elegisches am Anfang des dritten Buches der Pharsalia, «Hermes» 112, 1984, pp. 227-239.

33 E. NARDUCCI, Lucano. Un�epica contro l�impero, Roma - Bari 2002, p. 287.

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4.7.96 (Cinzia e il poeta), Ovidio, met. 11.674-675 (Alcione cerca, nel sonno, di abbracciare Morfeo che ha preso l�aspetto del marito Ceì-ce) 34. Vi è chi ha tentato una spiegazione facendo rientrare il gesto nel-la categoria � ben rappresentata in Lucano � dell�amor mortis 35; ma è possibile supporre che la scelta lucanea di rivisitare il topos abbia preval-so sull�esigenza di verosimiglianza psicologica (che invece si può ri-scontrare in tutti i raffronti citati), specie se si tiene conto, con Werner Rutz 36, del fatto che l�intera scena è irrilevante per i successivi sviluppi della narrazione e per l�evoluzione del personaggio/Pompeo, così co-me i due versi che descrivono l�effetto del sogno: ille, dei quamvis cladem manesque minentur, / maior in arma ruit certa cum mente malorum (3.36-37). Anche se quel maior (che parrebbe gioco di parole con Magnus) lascia presagire una sicurezza di cui poi non abbiamo riconferme, vediamo come quella che nel secondo libro era ancora una preoccupazione in-definita si affacci ora alla sfera della coscienza (mens), e ritroviamo la dicotomia tra il reale stato d�animo di Pompeo e le parole e gli atteg-giamenti che mirano a contrastarlo, come si era visto nel discorso alle truppe. Qui egli si sforza di razionalizzare l�accaduto: «Quid» ait «vani terremur imagine visus? / Aut nihil est sensus animis a morte relictum / aut mors ipsa nihil» (3.38-40) 37. Ossia: o dopo la morte l�anima non ha più per-cezioni (e quindi non c�è motivo di temere alcunché) oppure continua ad averne (e quindi la morte è nulla, perché la vita prosegue). Ma l�impressione è che Pompeo, ormai certa cum mente malorum, non faccia

���������� 34 Sono forse i versi di Properzio quelli cui Lucano si avvicina maggiormen-

te: le parole di Cinzia non sono più indulgenti di quelle di Giulia nei confronti della nuova compagna del poeta e contengono parimenti una profezia di morte; ma il discorso di Cinzia manca, nel complesso, del livore di quello di Giulia («Non tamen insector, quamvis mereare, Properti», 4.7.49), risultando così meno incompatibile col tentato abbraccio finale.

35 HÜBNER, Episches cit., p. 233. 36 W. RUTZ, Die Träume des Pompeius in Lucans Pharsalia, «Hermes» 91, 1963,

p. 343; cfr. anche NARDUCCI, Lucano cit., p. 290. Per quanto riguarda specificamen-te l�abbraccio, però, anche Rutz tenta una sommaria spiegazione (ibid., p. 343). Ri-tengo invece più probabile che, se conveniamo sul fatto che l�intera scena è un epi-sodio a sé stante all�interno del poema, si debba accettare l�incongruenza del gesto come facente parte di una situazione letteraria topica. Appare dunque corretta l�osservazione di HUNINK, op. cit., p. 46: «Pathos and rhetoric are more important to Lucan than consistency and integrity of his characters: he does not even attempt to reconcile conflicting elements; this goes for Pompey in particular [�]».

37 Il senso di questi versi è discusso esaurientemente in NARDUCCI, Lucano cit., pp. 289-290.

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che ripercorrere meccanicamente tra sé «quello che, almeno a partire dall�Apologia platonica, era da secoli un luogo comune della letteratura consolatoria» 38.

Lucano riprenderà a occuparsi di Pompeo al termine del quinto libro: la scena dell�addio a Cornelia, che viene fatta partire per Lesbo al fine di salvaguardarne l�incolumità, è � coerentemente col suo carattere pa-tetico � densa di riferimenti a passioni come dolor e amor, e la paura vi gioca un ruolo piuttosto marginale, concentrandosi nella seconda parte del discorso della donna. «Ignosce fatenti: / posse pati timeo» 39, dichiara a 5.777-778: ciò che Cornelia teme è che il marito, separandosi da lei prima dello scontro decisivo, possa in qualche modo renderla assuefat-ta al dolore della sua assenza. È chiaro che il pensiero sotteso a quest�idea è quello della sicura sconfitta e conseguente morte di Pom-peo, che emerge neanche troppo velatamente, mescolandosi con im-provvisi e irrazionali accenni a una possibile vittoria: se da un lato la donna si vede già pronta a un suicidio che appare inevitabile (5.773-774), dall�altro l�attenzione si sposta sullo stato di apprensione costante che accompagnerà il suo esilio, anche in caso di vittoria: «Sollicitam rupes iam te victore tenebunt, / et puppem quae fata feret tam laeta timebo. / Nec sol-vent audita metus mihi prospera belli» (5.780-782). Il timor ricompare nella chiusa del libro, amaramente paradossale: [Cornelia] caruisse timebat / Pompeio; sed non superi tam laeta parabant: / instabat miserae, Magnum quae redderet, hora (5.813-815); non sarà, cioè, tanto fortunata da mancare per sempre del marito, ma la sorte glielo restituirà sconfitto, e lo farà uc-cidere davanti ai suoi occhi.

Il timor diventa argomento di discussione nel libro settimo. A Farsalo, la mattina della battaglia, i Pompeiani sono preda di una dira rabies (7.51) che li spinge a volere lo scontro; Pompeo segnis pavidusque vocatur (7.52), ed è anche accusato di timere (7.55) la pace conseguente alla battaglia decisiva in quanto, tornando privato cittadino, perderebbe

���������� 38 NARDUCCI, Lucano cit., p. 290. Quello di Pompeo è, insomma, un tentati-

vo di farsi coraggio, come lascia intendere il contrasto tra la spavalderia delle sue parole («Quid � vani terremur imagine visus?», 3.38) e quanto ci dice di lui il poeta: cer-ta cum mente malorum, 3.37.

39 G. VIANSINO, nel suo commento (Lucano. La guerra civile [Farsaglia], 2 voll., Milano 1995), richiama (I, p. 487) Ovidio, met. 10.25 «posse pati volui»: parole di Or-feo, che � potendolo � avrebbe voluto sopportare il dolore per la morte di Euridi-ce.

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il potere sulle molte genti che ha ora sotto di sé. È Cicerone (com�è noto, storicamente non presente a Farsalo) 40 a farsi interprete della volontà dei senatori e a sferrare l�attacco contro Pompeo: «De superis, ingrate, times causamque senatus / credere dis dubitas?» (7.76-77). La paura in questione non è il terrore del sacro o l�usuale riverenza dovuta agli dèi: Pompeo è accusato di dubitare che la stessa volontà dei superi sia ri-volta, in ultima analisi, al bene, e ne viene esplicitamente rimproverato; sarà invece la fiducia di cui Cicerone si fa portavoce ad essere smentita tragicamente dai fatti 41. Il condottiero, nella sua risposta, si rimette, ormai rassegnato, alla volontà del suo schieramento (7.85-86) e ribatte l�accusa di timor col suggerire che esso sia la radice del comportamento di chi, come gli astanti, decide di gettarsi a capofitto nei pericoli: «Mul-tos in summa pericula misit / venturi timor ipse mali. Fortissimus ille est / qui, promptus metuenda pati, si comminus instent, / et differre potest» (7.104-107) 42. Se pure è vero che, sulla base di quanto è stato detto finora, fortissimus non appare la qualifica più adatta a Pompeo, che neanche in seguito si dimostrerà sempre tale, il suo discorso è però lontano dall�inconclu-dente e inefficace vanagloria che permeava quello del secondo libro, caratterizzandosi come il momento in cui emerge l�avvenuta presa di coscienza del personaggio. La sua risposta all�ottimismo filosofico di Cicerone è quanto mai esplicita, e giunge in forma di apostrofe a Cesa-re: «Vincis apud superos votis me, Caesar, iniquis: / pugnatur» (7.113-114). È evidente che la consapevolezza di quanto sta per accadere, cioè la ro-vina propria e dello stato, si è ormai fatta strada nel personaggio, se egli ritiene che i superi possano essere piegati alla volontà perversa di un

���������� 40 Cfr. E. MALCOVATI, Lucano e Cicerone, «Athenaeum» NS 31, 1953, pp. 288-

297; F.M. AHL, The Pivot of the Pharsalia, «Hermes» 102, 1974, pp. 310-311. Le tesi della Malcovati sono ampliate da R.C. LOUNSBURY, History and Motive in Book Seven of Lucan�s Pharsalia, «Hermes» 104, 1976, pp. 210-239.

41 Non è questo il solo caso in cui le aspettative rivolte al destino vengono brutalmente disattese: cfr. il dubbio sentimento di pudor che Pompeo attribuiva alla Fortuna nel suo discorso del secondo libro («Non tam caeco trahis omnia cursu / teque nihil, Fortuna, pudet», 2.567-568), o la fallace induzione in quello del settimo («Si [su-peri] socero dare regna meo mundumque pararent, / praecipitare meam fatis potuere senectam: / non iratorum populis urbique deorum est / Pompeium servare ducem», 7.352-355). Da tutto ciò Lucano trarrà la conclusione che mortalia nulli / sunt curata deo (7.454-455). La questione attiene al complesso e dibattuto problema dell�ortodossia dello stoicismo lucaneo, ben inquadrato nelle sue linee essenziali già da R. PICHON, Les sources de Lucain, Paris 1912, pp. 165-216.

42 Cfr. AHL, The Pivot cit., p. 311.

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uomo come Cesare, del quale in tal modo si renderebbero complici 43. Tale consapevolezza, però, non è garanzia di un�atteggiamento

atarattico nei confronti di quanto sta per accadere, e lo vediamo al principio della battaglia. Appena scorge le masse di nemici che scen-dono in campo, la persuasione di cui s�è detto viene definitivamente confermata (vidit � superis placuisse diem, 7.337-339) 44, ma la reazione è assai distante dallo stoico distacco di cui si fanno manifesto le parole di Catone, «Quo fata trahunt, virtus secura sequetur» (2.287). Pompeo infatti, umanamente e comprensibilmente, stat corde gelato / attonitus; tantoque du-ci sic arma timere / omen erat (7.339-341). Nell�accingersi a parlare ai sol-dati, si trova nella necessità di recuperare il controllo e premit inde metus (7.341): tale atteggiamento (da cui emerge il doloroso isolamento di chi, trovandosi in una posizione di comando, ha la responsabilità di dissimulare i tentennamenti del proprio animo) lo accomuna da un lato ad Enea, che, mentre incoraggia i compagni sfuggiti alla tempesta e ap-prodati a una terra ignota, spem vultu simulat, premit altum corde dolorem (Aen. 1.209); dall�altro, curiosamente, a Cesare, il quale pure aveva mo-strato, per un momento, una certa esitazione prima dello scontro, e a-veva potuto dare inizio alla sua arringa soltanto formidine mersa (7.248). Ma se il discorso di Cesare, come si vedrà, è perfettamente architettato e tagliato su misura per l�uditorio e la situazione, non altrettanto si può dire, ancora una volta, di quello di Pompeo. Anzitutto, la posizione del parlante è già in sé stessa contraddittoria: si trova infatti, lui che poco prima si era mostrato riluttante alla guerra e che aveva concluso la sua risposta a Cicerone affermando «Omne nefas victoris erit» (7.123) 45, ad ����������

43 Viene così oltrepassata, nella coscienza di Pompeo, anche la posizione di stampo epicureo che vuole gli dèi indifferenti alle vicende umane (espressa dal poeta a 7.445 ss.), in favore di una visione più radicalmente negativa, che li vede in-tenti alla rovina di Roma; cfr. l�invida fatorum series di 1.70, che attribuisce ai fata un�intenzionalità umana, o le irae deum di 2.1. Si tenga presente, poi, che in Lucano Roma è figura del mondo intero, e le sue vicende assurgono a paradigma di quelle dell�universo tutto (cfr. l�ekpyrosis di 1.72 ss., che segna la transizione dal Cosmo al Caos): così già NARDUCCI, Lucano cit., pp. 42-46.

44 Anche l�elemento che, al limite, avrebbe potuto in parte rassicurare Pom-peo sulle sorti della battaglia, cioè il fatto che i Cesariani si facciano avanti ordine nullo, / arte ducis nulla (7.332-333: si tratta naturalmente di invenzione lucanea) ot-tiene l�effetto opposto: egli comprende infatti che, così facendo, gli avversari per-mittunt omnia fatis proprio perché possono permetterselo, essendo i fata dalla loro parte.

45 Da notare l�opposta visione etica di Pompeo e Cesare su vincitori e vinti: Cesare diceva che le colpe ricadono sugli sconfitti (cfr. 7.260 «Haec acies victum factu-

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esortare ad essa chi già la invocava come evento risolutore. È chiaro che da una simile premessa difficilmente potrà scaturire una adhortatio efficace: è vero che al termine del discorso, pronunciato maesta voce, gli animi si infiammano (7.382-383), ma è solo perché il furor scelerum (7.95) si era impadronito di loro in precedenza. Cesare, pur consapevo-le che i suoi uomini sono uno strumento nelle mani di chi, come lui, determina il corso della storia 46, sa blandirli al momento opportuno («O domitor mundi, rerum fortuna mearum, / miles», 7.250-251), farsi inter-prete delle loro pulsioni («Non mihi res agitur, sed vos ut libera sitis / turba precor, gentes ut ius habeatis in omnes», 7.264-265), esaltare il legame perso-nale tra comandante e soldato («Cuius non militis ensem / agnoscam?», 7.287-288) 47. Pompeo, di contro, sembra voler esorcizzare il presagio della sconfitta col ricordare, forse più a se stesso che agli altri, che tutto ciò che poteva garantire la vittoria è dalla sua parte (7.355-356): la giu-stezza della causa («Causa iubet melior superos sperare secundos», 7.349, con una tripla allitterazione che funge da spia del carattere retorico dell�af-fermazione) 48, l�essere egli ancora vivo (7.354-355), il poter annoverare uomini illustri tra le fila dei suoi (7.356-357), l�abbondanza di milizie (7.362).

Segue l�immagine delle madri pendentes e summis moenibus urbis / crinibus effusis (7.369-370), dei senatori che prosternano le chiome canu-te ai piedi dei combattenti (7.371-372), di Roma personificata e domini metuens (7.373): un appello all�emotività che può far presa solo su chi, tra i presenti, si trovi effettivamente ad essere cittadino romano. La ���������� ra nocentem est»; 7.263 «Nulla manus, belli mutato iudice, pura est»).

46 Cfr. quanto diceva a 5.342-343: «Procerum motus haec cuncta secuntur; / huma-num paucis vivit genus».

47 Il nesso tra Cesare e i suoi si rivela stretto anche nel corso della battaglia (7.557 ss.): egli ispeziona le armi, prende nota delle diverse condizioni fisiche e psi-cologiche dei soldati, ne comprime le ferite, li incita in continuazione. Un simile comportamento, documentato dallo stesso Cesare e tendente ad avvicinare i ruoli di comandante e soldato (cfr. NARDUCCI, Lucano cit., p. 221), viene interpretato negativamente da P. ESPOSITO, Il racconto della strage. Le battaglie nella Pharsalia, Na-poli 1987, p. 90, che vi ravvisa un�eco del Catilina sallustiano.

48 Cfr. VIANSINO, op. cit., II, p. 678, in nota al v. 349: «È un paradosso che Pompeo creda ancora negli dei (capirà a 647)». Rileggendo i vv. 647-649 (Iam Ma-gnus transisse deos Romanaque fata / senserat infelix, tota vix clade coactus / fortunam damna-re suam) verrebbe da pensare che la psicologia del personaggio sia costruita tramite giustapposizione di scene coerenti al loro interno ma non sempre fra di loro (Pompeo aveva già raggiunto la consapevolezza in questione: senz�altro al momen-to della replica a Cicerone, e, in apparenza, anche dopo l�apparizione di Giulia).

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chiusa reintroduce la figura dell�oratore (già cardine del discorso pro-nunciato nel secondo libro) con tonalità patetiche e querule che, se ri-chiamano quelle di un «appello finale alla pietà dei giudici da parte del-l�avvocato difensore» 49, risultano però abbastanza incongrue al conte-sto reale: si tratta pur sempre di un comandante davanti ai suoi soldati, e quale comandante terminerebbe una adhortatio con una supplica di ca-rattere personale come «ultima fata / deprecor ac turpes extremi cardinis an-nos, / ne discam servire senex» (7.380-382)? 50

Pompeo, è noto, fuggirà dal campo di battaglia: un gesto dif-ficilmente scusabile (così in Cesare, Appiano, Floro, Plutarco, Cassio Dione) per cui Lucano trova, in un�ottica scopertamente apologetica, delle possibili motivazioni esposte in forma alternativa 51: sarebbe, cioè, o un tentativo di risparmiare le vite dei suoi soldati che, sapendo-lo morto, continuerebbero a farsi massacrare fino all�ultimo (7.672), oppure, meno altruisticamente, egli Caesaris � oculis voluit subducere mor-tem (7.673). Ma questo Pompeo, che vediamo allontanarsi a cavallo non tergo tela pavens (7.678), con un atteggiamento di virile dignità (non gemi-tus, non fletus erat, 7.680) che gli vale un�ammirata apostrofe del poeta (v. 681 ss.), non è lo stesso che ritroviamo al principio del libro succes-sivo, prima spaventato dai fruscii delle foglie (pavet ille fragorem / moto-rum ventis nemorum, 8.5-6), poi trepidus laterique timens, 8.7 52, e poco più avanti vector pavidus (8.39) nell�atto di imbarcarsi per Lesbo � a riprova di un problematico rapporto di continuità fra le varie sequenze nar-rative che si riflette sulla coesione interna di un personaggio definito non molti versi prima pondere fati / deposito securus (7.686-687) 53. A ciò si ����������

49 NARDUCCI, Lucano cit., p. 311. 50 Cfr. AHL, The Pivot cit., p. 312. 51 Procedimento caratteristico di Lucano è fornire un elenco di spiegazioni

alternative per un fatto variamente interpretabile: cfr. il problema della provviden-zialità o meno degli eventi storici (2.7-15), il mistero dell�oracolo di Delfi (5.86 ss.), il sogno di Pompeo (7.19-24). Frequente il ricorso alla forma seu � seu, come nota RUTZ, Die Träume cit., p. 337.

52 K. SEITZ, Der patetische Erzählstil Lucans, «Hermes» 93, 1965, p. 230 n. 5: «Vgl. [�] die Versschlüsse: Aen 2,729: onerique timentem und Luc. 8,7: laterique timen-tem: Aeneas fürchtet für den Vater, Pompeius für sich».

53 Da notare che l�attenzione di Pompeo � il quale pure assume tratti stoi-cheggianti � è rivolta in modo quasi esclusivo a se stesso, contrariamente a Catone (davvero securus sui, 2.241): egli infatti riserva per la propria figura il finale dell�orazione (7.376 ss.), è convinto di essere il solo motivo per cui i suoi combat-tono (7.669), e perfino nell�anomala devotio (7.659-666) fa apparire la rovina di Ro-ma come un effetto collaterale della propria, che sarebbe quella cui il Destino � in

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aggiunga che, prima di essere ucciso, Pompeo (ora in Cilicia, dopo aver recuperato la moglie a Lesbo) si rende autore di una proposta strategi-ca, l�alleanza coi Parti in funzione anticesariana, che, lungi dal delineare l�immagine di un uomo che ha conseguito la saggezza, ne compromet-te perfino la dignità: si tratta del vano tentativo di un «colpo di coda», il cui prezzo sarebbe l�asservimento morale di Roma a popoli indegni. Naturale, quindi, che la reazione dei senatori sia un rifiuto durissimo, di cui si fa portavoce Lentulo 54.

Su suggerimento di Lentulo, Pompeo si avvia quindi in Egitto, dove, appena sbarcato, troverà la morte per mano di un suo ex soldato. L�episodio, i cui reali dettagli storici sono poco noti 55, presenta nel re-soconto lucaneo aspetti di non facile interpretazione. Pompeo scende dalla nave, ed è questo il momento in cui l�esaurirsi di ogni speranza porta con sé anche l�estinzione del suo contrario, la paura. La coscien-za di ciò che lo attende si fa qui davvero inequivocabile, consentendo al contempo di respingere da sé ogni timor in favore della più definitiva e radicale delle alternative, la morte: sed cedit fatis classemque relinquere ius-sus / obsequitur, letumque iuvat praeferri timori (8.575-576). La paura non è più in lui, ma intorno a lui: Lucano crea un parallelismo assai stretto fra Cornelia, anxia e preda di un attonitus metus, e la flotta, parimenti anxia e metuens che Pompeo si prostri davanti allo scettro di Tolomeo (8.590-���������� primo luogo! � mirava: «Parcite» ait «superi, cunctas prosternere gentes. / Stante potest mundo Romaque superstite Magnus / esse miser» (7.659-661). Un simile punto di vista trova conferma nella domanda finale: «Iam nihil est, Fortuna, meum?» (7.666). Si di-rebbe sfuggire a Pompeo che le vere forze in gioco sono ora Caesar (inteso non so-lo come individuo, ma come idea del principato) e Libertas, par quod semper habemus (7.695): cfr. AHL, The Pivot cit., pp. 312-313.

54 Il discorso di Pompeo, oltre a un�idea di fondo inaccettabile, contiene an-che, com�è tipico della sua oratoria, una svalutazione della gravità dalla situazione («Non omnis in arvis / Emathiis cecidi, nec sic mea fata premuntur / ut nequeam relevare caput �», 8.266-268), l�enfatizzazione della propria fama e dei successi passati («Sed me vel sola tueri / fama potest rerum toto quas gessimus orbe / et nomen quod mundus amat», 8.274-276 � si noti il plurale di maestà), un�esagerazione e mistificazione dei dati storici («� Semper venerabilis illa / orbis parte fui, quantus Maeotida supra, / quantus apud Tanain toto conspectus in ortu! / Quas magis in terras nostrum felicibus actis / nomen abit, aut unde redit maiore triumpho?», 8.317-321). Va detto però che, contrariamente a Lentu-lo, Pompeo non si inganna circa Tolomeo: «Aetas Niliaci nobis suspecta tyranni est», 8.281.

55 Le fonti preferiscono concentrarsi sull�emblematicità della vicenda, tratta-ta come esempio della reversibilità delle sorti umane: cfr. A.A. BELL JR., Fact and Exemplum in Accounts of the Deaths of Pompey and Caesar, «Latomus» 53, 1994, pp. 824-836.

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595). Pompeo sa che sta per essere ucciso, ma reprime ogni reazione: né voces né fletus, allo scopo di non aeternam � corrumpere famam (8.615-617), ed è proprio questa la preoccupazione che attraversa i suoi ultimi pensieri: egli si sente osservato da un lato (concretamente) da moglie e figlio, dall�altro (virtualmente) dalle generazioni future. La risoluzione da prendere appare quindi chiara: «Nunc consule famae» (8.624), comanda a se stesso � e infatti i testimoni garantiscono che permansisse decus sacrae venerabile formae / iratamque deis faciem (8.664-665).

Il problema posto da questi versi è, naturalmente, quanto peso e quale incidenza abbia sull�immagine che il poeta vuole offrire del per-sonaggio quest�ultimo pensiero, rivolto, come tanti che l�hanno prece-duto, a gloria e fama: la scena ha potuto essere considerata sia il coro-namento del percorso di Pompeo verso la saggezza, sia una parodia della morte stoica e delle virtù che dovrebbero informarla 56. Se da un lato risulta difficile aderire a questa seconda tesi, indebolita dal fatto che né quanto precede (il modo partecipe in cui Lucano tratta le vi-cende del personaggio), né quanto segue (i commenti ammirati e ad-dolorati del poeta e il catasterismo di Pompeo nel libro successivo), au-

���������� 56 Un approccio come quello di B.M. MARTI, The Meaning of the Pharsalia,

«AJPh» 66, 1945, pp. 352-376, fondato sulla visione di Pompeo come proficiens stoi-co, non rileva particolari problematiche nell�episodio della sua morte (p. 372). NARDUCCI, La provvidenza cit., p. 128, molto più cauto, ritiene necessario operare delle distinzioni: «La redenzione è compiuta: la fama cui vanno i pensieri di Pom-peo nel momento di abbandonare la scena del poema è qualcosa di profondamente diverso da quella fama di cui, al suo primo apparire, si era rivelato petitor (I 131): è la fama più vera, che deriva [�] dalla costanza nel fronteggiare le avversità. La glo-ria di Pompeo è ormai quella che presto sarà di Catone». Più o meno lo stesso si legge in D.C. FEENEY, «Stat Magni nominis umbra». Lucan on the Greatness of Pompeius Magnus, «CQ» NS 36, 1986, p. 241, mentre radicalmente diverso appare il parere di W.R. JOHNSON, Momentary Monsters. Lucan and his Heroes, Ithaca - London 1987, che considera la scena «a serious parody of the conventional Stoic last moment in which autarkeia [�] illumines the perfectus», e aggiunge che «Pompey, in this last moment of his life, is still completely dependent upon the verifications of fame and glory» (p. 81). Una tesi analoga è in S. BARTSCH, Ideology in Cold Blood. A Reading of Lucan�s Civil War, Cambridge Mass. - London 1997, pp. 83 ss.; la replica arriva dallo stesso NARDUCCI, Deconstructing Lucan, ovvero le nozze (coi fichi secchi) di Ermete Trismegisto e di Filologia, in L. NICASTRI - P. ESPOSITO (edd.), Interpretare Lucano. Mi-scellanea di studi, Napoli 1999, pp. 39-83 (e già in «Maia» NS 51, 1999, pp. 349-387), che richiama, p. 47, «le parole di commento con le quali il poeta introduce e con-clude la �citazione� dei pensieri di Pompeo, mostrando di approvare senza riserve il suo atteggiamento: 8, 621, seque probat moriens; 8, 635 s., talis custodia Magno / mentis erat; ius hoc animi morientis habebat».

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torizzano a pensare ad un trattamento parodistico, ironico o comun-que irrispettoso, dall�altro va respinta pure l�idea di una lineare e coe-rente evoluzione della figura di Pompeo nel corso del poema, evolu-zione di cui una tale morte costituirebbe il culmine e la conclusione 57. Nel ripercorrere le azioni e i pensieri del personaggio assumendo, co-me s�è fatto, la paura quale tema conduttore e unificatore, si rilevano alternativamente momenti di terrore e di coraggio, di consapevolezza e di illusione, di reboante vanagloria e di composta dignità: e non è facile vedervi una progressione lineare verso l�ideale stoico di saggezza libera dalle passioni, che nel Bellum Civile trova la sua personificazione sem-mai in Catone. Se di progresso si vuole parlare, quello di Pompeo sembra seguire piuttosto un percorso, per così dire, a spirale ascenden-te 58, non privo di ricadute quindi nelle perturbationes animi di cui egli si sarebbe dovuto liberare; ma, invece di cercare un preciso e meditato progetto attraverso un succedersi di scene che � seppure singolarmente compiute e a volte finemente tratteggiate � mancano in ultima analisi di coesione sistematica, bisognerà forse pensare di riconoscere l�unitarietà del personaggio proprio in questa permanente instabilità � ����������

57 È la tesi di Pompeo proficiens stoico, esposta dalla Marti nell�articolo citato alla nota precedente. La studiosa vi proponeva uno stretto parallelo tra il progredi-re di Pompeo e i tre gruppi in cui Seneca (epist. 75) divideva i proficientes a seconda del loro stadio d�avanzamento verso la virtù. Se non l�idea di un�evoluzione del personaggio, almeno il riferimento a Seneca è stato definitivamente confutato da A.W. LINTOTT, Lucan and the History of the Civil War, «CQ» NS 21, 1971, che a p. 505 scrive: «Marti�s argument assumes that the grades of advance to sapientia are described by Seneca in ascending order, but close inspection reveals the opposite [�]. Thus, if the parallel she sees between Seneca and Lucan in this matter were valid, Pompey�s character would, in Lucan�s view, have deteriorated». L�osservazio-ne non può essere materia di contesa, dal momento che, anche senza la dimostra-zione che ne fa Lintott, Seneca stesso dice che sarebbe meglio, possibilmente, rien-trare nel secondo gruppo piuttosto che nel terzo (epist. 75.15).

58 Con questa espressione intendo fornire una sorta di rappresentazione gra-fica che sintetizzi, con buona approssimazione, il complesso percorso che Lucano fa compiere al suo Pompeo; un simile concetto, seppure in forma più discorsiva, è espresso anche da NARDUCCI, che rileva «la tendenza di Lucano a costruire i suoi personaggi più in base alle loro 'momentanee' risposte a situazioni contingenti che non in base a una coerente �evoluzione� psicologica [�]. Fatte queste riserve, resta indubbio che il poeta ha inteso mostrare come Pompeo [�] si allontani dai falsi valori che avevano segnato la sua precedente esistenza di potente ambizioso, per avvicinarsi a quella saggezza della quale Catone rappresenta la più compiuta incar-nazione» (Lucano cit., p. 291). Si ricordi del resto, come di non trascurabile peso, la prassi di recitare in pubblico singoli episodi autonomi, richiamata da O.A.W. DILKE, M. Annaei Lucani, De Bello Civili, Liber VII, Cambridge 1960, p. 38.

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che, in contrasto con la monolitica coerenza di Cesare e di Catone, ne fa il soggetto più umano del poema.

2.2. � Le passioni che determinano l�agire di Cesare si trovano già tutte insieme nei primi versi che il poeta dedica al personaggio, cioè il ritrat-to di 1.143-157, che si chiude con la nota immagine del fulmine: vi tro-viamo spes e ira (quo spes quoque ira vocasset, 1.146), il gaudium del distrug-gere (gaudensque viam fecisse ruina, 1.150), il furor irrazionale che ac-comuna il condottiero appunto al fulmen (in sua templa furit, 1.155); e si può ben dire che tali passioni, nel complesso, rendono ragione della quasi totalità degli atti, delle parole, dei pensieri di Cesare, o meglio del Cesare che Lucano ha voluto dipingerci. Vi appare anche la paura, ma � emblematicamente � è quella da lui suscitata e provata da altri, in questo caso i populi paventes di 1.153; come s�è accennato, essa si qualifi-ca come sentimento raro in Cesare, episodico e di breve durata, e so-prattutto fortemente combattuto o, al limite, dissimulato. Per determi-narne i tratti essenziali il primo passo su cui sarà opportuno sof-fermarsi è allora quello relativo all�apparizione dell�ingens � patriae tre-pidantis imago (1.186) sulle sponde del Rubicone. Lucano descrive la re-azione del comandante alle angosciate parole della Patria: Tum perculit horror / membra ducis, riguere comas gressumque coercens / languor in extrema tenuit vestigia ripa (1.192-194). Qui il vocabolo horror attiene primaria-mente alla sfera fisica (membra), ma senza dubbio è la paura a dominare la scena, come confermato da altri segnali quali il rizzarsi dei capelli e il languor che trattiene il passo di Cesare; paura che, però, dopo un attimo di esitazione (mox, 1.195), lascia il posto a una risposta in cui egli si protesta «Ubique tuus [scil. patriae] � miles» (1.202), riversando le colpe di ciò che sta per avvenire su Pompeo, che pure non nomina espres-samente («Ille erit ille nocens, qui me tibi fecerit hostem», 1.203). Infine il condottiero moras solvit (1.204), e subito una similitudine affianca alla sua figura quella di un leone nell�atto di raccogliere la sua ira prima di slanciarsi contro il nemico, incurante delle ferite che gli sono state in-flitte (1.205-212).

La paura di Cesare, dunque, non lascia traccia né nelle sue parole né nelle azioni, caratterizzandosi come un�emozione intensa ma transi-toria, che trapassa presto nell�ira di cui si fa immagine il leone (benché sia la similitudine stessa a comunicare al lettore quest�idea, piuttosto

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che le ferme � e non irose � affermazioni del personaggio) 59. Altret-tanto parvus è il pavor che la Fortuna fa provare a Cesare in occasione delle inondazioni in Spagna (4.121); anche il timore provato durante la tempesta, appena prima dell�approdo (5.653), appare poca cosa a fron-te della dichiarazione sprezzante e superba che segue: si vedano, ad e-sempio, i vv. 658-659, «intrepidus quamcumque datis mihi, numina, mortem / accipiam», pronunciati quando la paura assale perfino lo stesso ordine cosmico, che paventa il proprio dissolvimento nel Caos (extimuit natura chaos, 5.634). Intrepidus vultu Cesare si mostra pure quando fronteggia le truppe ribelli (5.317); e, se qui la paura effettivamente non c�è (non me-tuens, anzi fortunam � suam per summa pericula gaudens /exercere, 5.302-303), nemmeno il pavor che egli prova davanti all�ostile accoglienza del popolo di Alessandria incide sul suo contegno: vultu semper celante pavo-rem / intrepidus (10.14-15) 60. Cesare, il cui agire è sovente contras-segnato dalla sfrenatezza, esercita un singolare controllo proprio su questa emozione. Della sua pronta reazione dopo l�apparizione della

���������� 59 L�analisi che NARDUCCI fa del passo (Lucano cit., pp. 200-206) questa volta

pecca forse di eccessiva sottigliezza. Dopo aver esplicitato i riferimenti intertestuali della similitudine (Verg. Aen. 9.792-798 e 12.4-9, nonché, per il dettaglio della co-da, Hom. Il. 20.170-171) e della reazione di Cesare (soprattutto arrectaeque horrore comae et vox faucibus haesit, per cui cfr. Aen. 4.280 e 12.868), lo studioso vuole trovare una precisa corrispondenza fra i due momenti: l�ergersi della criniera della belva rimanderebbe perciò al rizzarsi dei capelli, il suo accovacciarsi al torpore che ferma il passo di Cesare, mentre i ruggiti sono simbolo delle parole del generale. Suona però antieconomica una costruzione tanto meditata ed equilibrata, se poi si deve rigettare come non pertinente l�ultima parte della similitudine (vv. 210-212); ed è forse più prudente limitarsi a considerare il tutto una generica rielaborazione dei succitati modelli. Sempre Narducci propone di interpretare l�allocuzione ai soldati precedente lo scontro di Farsalo (7.254 ss.) come una «autodemistificazione» delle parole che Cesare pronuncia nel contesto in esame: «Cesare demistifica qui [scil. nel libro settimo], svelandone la funzione puramente propagandistica, le proprie af-fermazioni di fedeltà alla Patria; come egli stesso dice, sul Rubicone non cercava di farsi suo soldato, ma l�aggrediva brutalmente» (E. NARDUCCI, Allusività e autodemisti-ficazione: Lucano VII 254-263, «Maia» NS 28, 1976, pp. 127-128). Ma, in mancanza di indicazioni esplicite, il condottiero sembra parlare più che altro a se stesso, o al limite ai suoi soldati � cioè a chi è già, per definizione, dalla sua parte, e non sem-bra necessitare di moventi particolarmente sofisticati per giustificare la guerra. Quanto a mistificazione, più eclatante parrebbe quella presente nello stesso discor-so di Farsalo: «Ipse ego privatae cupidus me reddere vitae / plebeiaque toga modicum componere civem, / omnia dum vobis liceant, nihil esse recuso» (7.266-268).

60 Quando Cesare è trepidus, la causa non è la paura; cfr. quanto dice prima di Farsalo: «Spe trepido; haud umquam vidi tam magna daturos / tam prope me superos» (7.297-298).

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Patria sul Rubicone già si è detto; parimenti, l�esitazione che per un at-timo lo prende prima della battaglia di Farsalo è subito repressa: egli dà inizio all�allocuzione ai soldati soltanto formidine mersa (7.248). Indignatio è ciò che la consapevolezza della propria paura suscita in lui. Chiuso nel palazzo e assediato dagli Egizi, la sua naturale disposizione corag-giosa viene intaccata: tangunt animos iraeque metusque / et timet incursus in-dignaturque timere, 10.443-444; il secondo verso, esplicativo del primo, rivela che l�indignatio è stato d�animo che si risolve sostanzialmente in ira, passione fondamentale della psicologia cesariana, che si riverbera su tutto il comportamento del personaggio.

Al contrario, Cesare come stimolo delle paure altrui è figura co-stante di tutto il poema, cosa che consegue naturalmente dall�assunto storico e narrativo del Bellum Civile. In particolare, si segnalano alcuni passi in cui la coscienza di generare timori è motivo di particolare compiacimento per il personaggio: nell�avanzare verso l�Urbe, non illum laetis vadentem coetibus urbes / sed tacitae videre metu �/ Gaudet tamen esse ti-mori / tam magno populis et se non mallet amari (3.80-84) 61 � atteggiamento che, è stato osservato, «reminds of the famous dictum in Acc. Trag. 168 W.: oderint dum metuant» 62 �; mentre, nel già menzionato monologo sul-la barca in balìa dei flutti, ormai certo della morte, egli dichiara: «Desint mihi busta rogusque / dum metuar semper terraque expecter ab omni» (5.670-671).

Alla luce di queste considerazioni, appare alquanto forzato so-stenere che Lucano abbia voluto fare della paura un tratto, sia pur se-condario, della figura di Cesare, affinché non gli mancasse vizio alcu-no 63, quando invece proprio nel sovrumano controllo di questa emo-����������

61 Il che contrasta con la vocazione demagogica del Cesare reale (cfr. J. BRISSET, Les idées politiques de Lucain, Paris 1964, p. 93 n. 3). Lucano trova però il modo di stigmatizzare anche questo aspetto dell�agire cesariano, con toni di con-danna per il popolino non meno che per il generale: si veda 3.53-58, con Cesare che, intentus � quo modo vanos populi conciret amores, si preoccupa dell�annona, consa-pevole del fatto che il volgo si fa audace e rivoltoso solo se resta a pancia vuota.

62 HUNINK, op. cit., p. 70. Osserva NARDUCCI, Lucano cit., pp. 241-242, che il verso dell�Atreus di Accio, «il �motto� tirannico per eccellenza», viene citato in Cic. Phil. 1.33 ss., in riferimento sia a Cesare sia ad Antonio; che Seneca ne fece uso più volte (cfr. per esempio l�aspra critica reperibile in dial. 3.20.4); che secondo Sveto-nio era caro a Caligola (Calig. 30.1.7).

63 Tesi sostenuta dalla MARTI, Meaning cit., p. 365: «His own physical cour-age is magnificent but at the same time he is the prey of other fears. He dreads that the weapons and hands will be denied him for the execution of his crimes (V, 368), that his soldiers will return to their senses (V, 309), that he will lose the fruit of his

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zione il personaggio si direbbe avere la caratteristica che più di tutte ne fa, a volte, una momentanea e pervertita controfigura del saggio stoi-co 64.

3. LA PAURA E LE MASSE

Nell�esaminare le manifestazioni della paura � come di qualsiasi altro moto dell�animo � nel poema di Lucano, non si può evitare di prende-re in considerazione uno dei principali protagonisti delle vicende del Bellum Civile, e cioè le masse, cui il poeta riserva un�attenzione che si colloca fra le peculiarità più distintive del suo epos 65. La materia stessa ���������� crime as his troops come near to deserting him (V, 242)». Ma i passi citati, che è opportuno richiamare per esteso (ipse pavet ne tela sibi dextraeque negentur / ad scelus hoc Caesar, 5.368-369; militis indomiti tantum mens sana timetur, 5.309; nullo nam Marte subac-to / intra castrorum timuit tentoria ductor / perdere successus scelerum, 5.240-242; si può lo-ro aggiungere, sullo stesso piano, metuens ne frons sibi prima labaret, 7.521), non fanno riferimento a un vero e proprio sentimento di paura, nel senso in cui se n�è parlato per Pompeo, quanto piuttosto al desiderio che non si verifichi un evento dalle conseguenze negative per il soggetto (cfr. la prevalente costruzione dei verba timendi con ne e il congiuntivo, o con l�infinito). Anche gli altri esempi citati paiono poco determinanti: i momenti di paura sul Rubicone e prima di Farsalo sono, lo abbia-mo visto, ben presto superati; il metus che Cesare assediato prova a 10.443-444 è, per così dire, temperato dalla stizza e dall�ira che ne scaturiscono e lo contrastano; in 10.542-543 egli non prova tout court paura della morte, piuttosto non sa se la morte sia da desiderarsi o da temersi.

64 Il discorso di Cesare in mezzo alla tempesta, «il punto più alto della facies eroica» del personaggio (D. GAGLIARDI, Il successo negato. Considerazioni in margine all�episodio di Amicla in Lucano, «A&R» NS 35, 1990, p. 174) ha, nel suo disprezzo della morte, toni stoicheggianti (lo ammette anche E. NARDUCCI, Pauper Amyclas. Modelli etici e poetici in un episodio della Pharsalia, «Maia» NS 35, 1983, p. 190), così come stoicheggiante è, almeno nella presentazione, la disposizione al suicidio di-chiarata prima di Farsalo: «Me secura manebit / sors quaesita manu», 7.308-309 (la secu-ritas è del saggio, cfr. VIANSINO, op. cit., II, p. 677). Cfr., nel complesso, NARDUCCI, Lucano cit., pp. 405-406: «L�inquieta energia che lo [scil. Cesare] agita, e implacabil-mente lo incita a compiere il male, è il rovescio speculare dell�agonismo con il qua-le il saggio affronta i cimenti dell�esistenza, e forse partecipa della medesima �gran-dezza� [�]».

65 Ciò rende abbastanza sorprendente l�esiguità di contributi specifici in ma-teria (fra i titoli recenti si dovrà ricordare però A.W. SCHMITT, Die direkten Reden der Massen in Lucans Pharsalia, Frankfurt a.M. 1995); tra gli studi italiani, l�argomento è trattato specificamente in A. BORGO, Aspetti della psicologia di massa in Lucano ed in Tacito, «Vichiana» NS 5, 1976, pp. 243-257.

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del poema fa sì che, tra le molteplici collettività che vi compaiono, ve ne siano due dei cui pensieri e sentimenti Lucano ci fa partecipi con più regolarità: e si tratta, naturalmente, dei soldati schierati sugli op-posti fronti, i Pompeiani e i Cesariani.

Seguendo i soldati di Cesare nel loro rapporto con la paura, emerge un�indicazione piuttosto netta circa il principale oggetto dei loro timo-ri, individuato nel loro comandante. Il primo accenno in merito si tro-va già nell�episodio di Rimini, a 1.356: Cesare ha appena parlato alle sue truppe e le sue parole suscitano reazioni contraddittorie. Se in un primo momento la pietas e i patrii Penates abbattono la baldanza dei sol-dati, subito dopo essi diro ferri revocantur amore / ductorisque metu (1.355-356); sono cioè preda di passioni quasi ferine, che trovano terreno fer-tile in menti inselvatichite, dove � effetto tipico di ogni guerra � s�è fat-ta labile la coscienza del bene e del male (caede ferae mentes, 1.354) 66. Ciò traspare immediatamente dal discorso di Lelio, in cui si dichiara una to-tale disponibilità ai crimini più nefandi, probabilmente perfino al di là delle intenzioni di Cesare. Quando il condottiero vede che la guerra è accettata tam prono milite (1.392), rompe gli indugi e richiama le sue co-orti (sparsas per Gallica rura cohortes / evocat, 1.394-395) per marciare su Roma. È significativo che nell�episodio i Cesariani siano chiamati vulgus (1.352), definizione che, sempre risparmiata ai Pompeiani, ha certo connotazioni negative, come si evince dal successivo episodio della tentata ribellione � altrettanto significativo per il quadro psicologico di questi soldati. Lì ritroviamo infatti il medesimo termine, accompagnato dall�aggettivo iners (tremuit saeva sub voce minantis / vulgus iners, 5.364-365). È pur vero che questa valenza spregiativa di vulgus non è la norma, ma andranno prese con qualche cautela le osservazioni della Borgo in me-rito 67: in casi come quelli in esame Lucano, più che insistere sulla già enfatizzata crudeltà di Cesare, sta effettivamente mettendo in luce uno dei «motivi fondamentali nella sua opera», cioè l�umiliante e ir-ragionevole sottomissione dei molti a uno solo 68 e il servilismo che ac-����������

66 A questa notazione psicologica può fare da pendant quanto Lucano dice nel libro quinto: forse i soldati di Cesare danno vita all�ammutinamento perché l�interruzione dei combattimenti ne ha ammansito gli animi (5.244-246).

67 BORGO, Aspetti cit., pp. 249-250 (e, a proposito della rivolta, p. 253). 68 Si vedano le parole che seguono quelle in esame: unumque caput tam magna

iuventus / privatum factura timet (5.365-366); ma non è priva di valore anche l�in-dignata apostrofe che Lucano rivolgeva al miles cesariano nel libro quarto, usque a-

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compagna tale sottomissione 69. Naturale quindi che vi sia del disprez-zo in quel vulgus iners, e che l�ottica del poeta non si discosti molto da quella adottata da Cesare stesso nella reprimenda ai soldati: «detegit im-belles animas nil fortiter ausa / seditio tantumque fugam meditata iuventus» (5.322-323). Senza dimenticare che l�entità di questo effimero «risveglio delle coscienze» viene assai ridimensionata dal ricordo dei vv. 5.270-273, dove gli stessi uomini si lamentavano con il loro comandante del mancato bottino («Cepimus expulso patriae cum tecta senatu, / quos hominum vel quos licuit spoliare deorum? / Imus in omne nefas manibus ferroque nocentes / paupertate pii») 70.

I Cesariani esitano per un istante pure quando ricevono l�ordine di abbattere il bosco sacro nei pressi di Marsiglia. Si tratta di un istinti-vo terrore del sacro; il tremito delle mani (3.429), che si rifiutano di compiere ciò cui sono chiamate, ne è la manifestazione esteriore 71. A questa paura, però, se ne aggiunge ben presto un�altra, che ha come og-getto Cesare e le possibili conseguenze della sua ira; la risoluzione a procedere nasce quindi solo dopo che i due diversi terrori sono stati messi a confronto: tum paruit omnis / imperiis non sublato secura pavore / turba, sed expensa superorum et Caesaris ira (3.437-439). La scelta si rivelerà, implicitamente, assennata, dal momento che la supposta ira superorum resta priva di conseguenze; e non è questo l�unico passo in cui Cesare è tratteggiato quasi come una potenza sovrannaturale, superiore agli stes-si dèi 72. Ai Cesariani può capitare, certo, di provare timore anche in contesti bellici: a Durazzo pavor attonitos confecerat hostes (6.131), dove ho-stes sono appunto i Cesariani attaccati dai Pompeiani � e ciò prepara, ���������� deone times quem tu facis ipse timendum? (4.185).

69 Si ricordi anche l�intervento del poeta a 3.111-112, a stigmatizzare l�at-teggiamento dell�Urbe all�entrata del suo aggressore: melius, quod plura iubere / erubuit [Caesar] quam Roma pati. È da notare che, nei versi che ritraggono l�ingresso di Ce-sare a Roma, l�indignatio del poeta si rivolge in particolare contro i senatori: i patres, che già alla notizia dell�avvicinarsi del nemico si erano fatti prendere da cieco terro-re non meno del vulgus (1.490-492, su cui infra), ora vengono trascinati fuori dai lo-ro nascondigli (turba patrum � e latebris educta suis, 3.104-105, dove turba sottolinea l�accezione spregiativa del contesto), oppure, riuniti in assemblea, sono pronti a concedere regnum, templa, iugulum, senatus exilium (3.109-110).

70 Cfr. anche la descrizione dei Cesariani dopo Farsalo, amentes aurique cupidi-ne caeci (7.747).

71 Per una rassegna dei precedenti dell�episodio si veda O.C. PHILLIPS, Lu-can�s Grove, «CPh» NS 63, 1968, pp. 296-300.

72 Cfr. 4.123 (gli dei veniam meruere da parte del condottiero, dopo essersi resi colpevoli di avergli fatto provare un parvus pavor in Spagna).

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per contrasto, l�entrata in scena di Sceva, che condanna nella sua apo-strofe il pavor dei commilitoni («Quo vos pavor � adegit?», 6.150) 73. Ma la paura non è comunque caratteristica distintiva di questo esercito, così come non è da considerarsi segno di viltà che a Farsalo tanto i soldati di Cesare quanto quelli di Pompeo voces furoris / expavere sui tota tellure re-latas (7.483-484). A battaglia conclusa, Lucano indaga i turbamenti not-turni che affliggono la psiche dei sopravvissuti: exigit a meritis tristes victo-ria poenas � Sua quemque premit terroris imago (7.771 ss.): chi vede volti di vecchi, chi di giovani, chi del padre o dei fratelli (lo stesso Cesare, i-perbolicamente, è tormentato da tutti i morti) 74.

Più marcata è invece la presenza della paura nello schieramento av-verso. I Pompeiani sono detti agmen trepidum già a 2.392, e Cesare, che aveva definito Pompeo pavidus dux (3.96), esprime un identico giudizio sulle truppe avversarie che abbandonano Ilerda: «Nec liceat pavidis ignava occumbere morte» (4.165), dice ai suoi, invitandoli a costringere i Pom-peiani allo scontro aperto 75. Ma dalla vicinanza degli accampamenti nasce quell�effimera riconciliazione, quel momentaneo rinsavimento dal furor della guerra civile che, dopo l�incerto silenzio iniziale dovuto al metus reciproco (4.172-173), si risolve in lacrime e abbracci, per essere poi repentinamente interrotto dalle parole del pompeiano Petreio; e, ricominciate le ostilità, i Pompeiani assediati e senza scampo trasfor-mano il loro timor in ira (4.267-268), e infine in un disperato amor mortis cui Cesare rifiuta soddisfazione: «deserat hic fervor mentes, cadat impetus a-mens; / perdant velle mori» (4.279-280) 76.

Notevole spazio Lucano dedica anche alla rappresentazione dei sentimenti dei cives Romani, sovente preda della paura suscitata dalle

���������� 73 Per una valutazione delle parole di Sceva vd. G.B. CONTE, Saggio di com-

mento a Lucano. Pharsalia VI 118-260: l�Aristia di Sceva, Pisa 1974, poi in La «Guerra civile» di Lucano. Studi e prove di commento, Urbino 1988, pp. 68-69.

74 Per i rimandi intertestuali (Lucrezio, Virgilio ecc.), cfr. NARDUCCI, Lucano cit., p. 225; sull�accostamento di Cesare a Oreste, Penteo e Agave (vv. 777-780), cfr. ESPOSITO, Il racconto della strage cit., pp. 74-75.

75 La calida ira di Cesare lo portava ad accusare di vigliaccheria gli avversari anche a Corfinio, allorché le truppe di Domizio cercavano di smantellare il ponte sul fiume per fermare i nemici: «Non satis est muris latebras quaesisse pavori?» (2.494). In realtà il giudizio è ingeneroso, visto che l�eliminazione del ponte sembra uno stratagemma bellico legittimo come tanti altri; nelle parole di Cesare c�è forse un�eco di quelle di Remulo Numano in Verg. Aen. 9.598-599?

76 Cfr. W. RUTZ, Amor Mortis bei Lucan, «Hermes» 88, 1960, pp. 462-475.

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drammatiche vicende di cui sono partecipi. La prima scena di rilievo che vede come protagonista Roma e i suoi abitanti si trova nel primo libro, ed è quella che ne illustra le reazioni al propagarsi delle voci ri-guardanti l�avanzare di Cesare nella penisola: un�ondata di panico si impadronisce non solo dei simpatizzanti di Pompeo, ma anche delle autorità (consoli, magistrati, senatori) e perfino di alcuni che erano stati fino ad allora fautori di Cesare 77. Sull�episodio il poeta si sofferma per oltre cinquanta versi (1.469-521): la descrizione si apre col diffondersi di una vana fama ai danni del popolo romano (1.469) 78; le paure, ac-cresciute dalle dicerie, rafforzano e ingigantiscono a loro volta le dice-rie stesse (1.485-486) 79. Il resoconto insiste ripetutamente sull�ir-razionalità della fuga dei Pompeiani da Roma (vana fama, 1.469; falsa praeconia, 1.472; inanis terror, 1.486-487; turba per urbem praecipiti lymphata gradu � inconsulta ruit, 1.495-498), con un risultato paradossale: in bellum fugitur (1.504). Lo sdegno del poeta, implicito nell�accenno alla fuga dei senatori � che non si dimostrano più ragionevoli del vulgus, anzi lo tra-scinano qua e là senza sapere dove stiano andando essi stessi (1.490-492) � trova aperta espressione nei vv. 510-517, per culminare nel-l�apostrofe a Roma dei vv. 519-520: tu tantum audito bellorum nomine, Ro-ma, / desereris; nox una tuis non credita muris 80. Ma la paura suscitata da Cesare non si manifesta solo a Roma: ne era già stata esempio la rea-zione dei Riminesi, i quali, appena visto il generale, deriguere metu, gelidos

���������� 77 Plutarco, Caes. 34.1-3; l�episodio è narrato anche da Cassio Dione (41.7-

9). Cesare, ovviamente non presente in prima persona, ne fa appena cenno (civ. 1.14). Un�estesa rappresentazione di questa fuga si trova in Petronio, per bocca di Eumolpo (sat. 123, vv. 209 ss.).

78 Il precedente più illustre è quello dell�Eneide. Virgilio (Aen. 4.173 ss.) fa però della sua Fama un�entità personificata, di cui mette in luce l�origine mitologica (progenie della Terra, insieme a Ceo ed Encelado) e l�aspetto mostruoso; anche Ovidio dedica alla dea un�ekphrasis abbastanza estesa (met. 12.39-63). Lucano evita ogni personificazione e si sofferma piuttosto sui contenuti delle dicerie e sulla de-scrizione dei loro effetti.

79 Cfr. SEITZ, Patetische cit., p. 223: «Sic quisque pavendo / dat vires famae; dies ist Lucans Fassung der virgilischen virisque adquirit eundo (v. [4.]175)».

80 Su tutti questi aspetti si veda l�analisi dettagliata di SEITZ, Patetische cit., che mette in evidenza l�atteggiamento lucaneo verso i fuggitivi, di condanna piuttosto che di compartecipazione, come vorrebbe invece la tradizione; non solo, ma i vv. 504-509 mostrano anche l�impietas di chi abbandona la patria, che non si volta nep-pure a guardare (in contrasto con la fuga di Enea da Troia). La paradossale giustifi-cazione di tale comportamento, danda tamen venia est tantorum, danda, pavorum, 1.521, è che lo stesso Pompeo fugge (Pompeio fugiente timent, 1.522).

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pavor occupat artos / et tacito mutos volvunt in pectore questus (1.246-247). Lu-cano, raffigurati i segnali fisici del terrore, ci rende partecipi anche dei pensieri della popolazione, che inquadra subito la guerra come atto di furor («Nos praeda furentum / primaque castra sumus», 1.250-251). Il timore è però represso e dissimulato (gemitu sic quisque latenti, / non ausus timuisse palam: vox nulla dolori / credita, 1.257-259), e viene così accennato per la prima volta uno dei motivi conduttori del Bellum Civile, ossia l�impos-sibilità dell�aperta espressione dei sentimenti di fronte al Potere. Il si-lenzio, che in Lucano è una delle modalità in cui si estrinseca la paura (cfr. il mutismo delle truppe di Pompeo al termine del suo primo di-scorso, 2.596) accompagna la marcia di Cesare verso Roma: le città che attraversa lo accolgono infatti tacitae metu (3.81).

Vi sono anche altre paure. Nel libro primo, dopo aver descritto i nefasti effetti del terrore che la fama ha instillato nei cittadini romani, il poeta introduce il tema dei prodigi: infatti, ne qua futuri / spes saltem tre-pidas mentes levet, gli dèi prodigiis terras implerunt, aethera, pontum (1.521-525) 81. Segue una lunga serie di fenomeni che sconvolgono gli elemen-ti naturali, l�ordine cosmico, i rapporti tra il mondo dei vivi e quello dei morti; gli antecedenti più ovvi si trovano in Virgilio, georg. 1.463 ss., e in Ovidio, met. 15.782 ss., rispetto ai quali l�idea di fondo è però antitetica, coerentemente con l�opposta valutazione che della figura di Cesare ci danno i tre poeti: i prodigi che accompagnano l�avanzata dei Cesariani rivelano il carattere nefasto dell�evento, mentre nei due modelli men-zionati ne seguivano (Virgilio) e ne anticipavano (Ovidio) l�uccisione, elevando così la sua morte a tragedia universale. L�extispicium effettuato da Arrunte, appositamente chiamato a Roma da Lucca 82, dà anch�esso indizi inequivocabili dell�ira superum, al punto che lo stesso indovino si fa pallido alla vista del nigrum virus che, al posto del sangue, sprizza dal-la ferita del toro sacrificale (1.615-616), ed è preso dal terrore alla vista dei pallida viscera dell�animale (1.618-619), che confermano ed ag-gravano le peggiori paure («Non fanda timemus / sed venient maiora metu», 1.634-635). Nigidio Figulo, cui cura deos secretaque caeli / nosse fuit (1.639-640), trae dagli astri conclusioni ugualmente poco rassicuranti: «Cum

���������� 81 Si veda E. NARDUCCI, Sconvolgimenti naturali e profezia delle guerre civili: Phars.

I 512-695, «Maia» NS 26, 1974, pp. 97-110. 82 Una scena analoga si trova in Seneca, Oed. 303-383. Sull�episodio lucaneo,

vd. M. RAMBAUD, L�aruspice Arruns chez Lucain, au livre I de la Pharsale (vv. 584-638), «Latomus» 44, 1985, pp. 280-302.

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La paura nel Bellum Civile di Lucano: un percorso di studio

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domino pax ista venit» (1.670). Terruerant satis haec pavidam presagia plebem, / sed maiora premunt, scrive Lucano (1.673-674): e infatti, nel tentativo di rafforzare e prolungare all�estremo il pathos della narrazione 83, il poeta conclude il primo libro con la scena dell�invasamento profetico di una matrona 84. I presagi impressionano la popolazione a tal punto che viene indetto uno iustitium (2.18; invenzione lucanea), da cui Lucano prende poi le mosse per descrivere il dolore e i lamenti dei Romani che occuperanno, insieme alla rievocazione di Mario e di Silla, buona parte del secondo libro. Per trovare un�altra serie di prodigi funesti, seppur meno estesa, bisogna passare al libro settimo, dove dapprima fenomeni spaventosi si presentano agli eserciti in marcia verso il campo di bat-taglia (7.151-184); poi, in remote parti del mondo (Cadice, l�Armenia), i Romani sono preda di turbamenti apparentemente immotivati (7.185-191), mentre un augure, su uno dei colli Euganei, si fa interprete dei segni della natura ed esclama: «Venit summa dies» (7.195) 85. L�attenzione di Lucano qui si sofferma poco sulle reazioni di massa, in quanto l�obiettivo di queste descrizioni è piuttosto quello di enfatizzare il signi-ficato del giorno di Farsalo come «momento che raffigura tutt�intera la rovina di Roma» 86; è tuttavia degna di menzione, nel suo aperto ribal-tamento delle convenzioni, l�inverosimile reazione dei Cesariani, sin-tomatica dell�etica da «mondo alla rovescia» che caratterizza il conflitto civile: voti turba nefandi � conscia � gaudet monstris, mentisque tumultum /

���������� 83 Tutta questa sezione riguardante presagi e profezie ha l�anomala estensio-

ne di ben centosettantacinque versi (1.521-695). 84 La narrazione dei prodigi possiede in realtà una «coda» che occupa i primi

quindici versi del libro seguente, in cui Lucano enuncia il problema filosofico della presenza o assenza di una provvidenzialità nelle vicende umane, richiamando così in prima persona la questione posta da Nigidio Figulo in 1.642-645. La risposta non viene fornita; in ogni caso, dice Lucano, sarebbe meglio che l�animo umano non fosse oppresso dalla prescienza � fornita dai presagi � di ciò che deve accadere (2.14-15). Per P.H. SCHRIJVERS, Deuil, desespoir, destruction (Lucain, la Pharsale II 1-234), «Mnemosyne» 41, 1988, pp. 346-347, «la pensée de Lucain s�inspire ici d�un lieu commun, assez répandu dans la litérature gréco-romaine [�]. Le désavantage le plus grave, qui est souvent mentionné dans la critique de la doctrine stoïcienne de la divinatio, consiste dans le fait que les présages sinistres privent les hommes de toute esperance (cf. Cic. N.D. III 6,14 saepe autem ne utile quidem scire quid futurum sit; miserum est enim nihil proficientem angi nec habere ne spei quidem extremum et tamen commune solacium)».

85 Plutarco, Caes. 47, riporta che il fatto era narrato da Livio. 86 CONTE, La «Guerra civile» di Lucano cit., p. 33; vi si trovano interessanti os-

servazioni sui rapporti col modello virgiliano.

Page 34: LA PAURA NEL DI LUCANO: UN PERCORSO DI STUDIO · La paura nel Bellum Civile di Lucano: un percorso di studio . 81. 1. I. L LESSICO DELLA PAURA . Attenendomi ai criteri appena espressi,

Alessandro Bianchi

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atque omen scelerum subitos putat esse furores (7.181-184) 87. Tumulto e furor hanno qui preso il posto del timore espresso in precedenza: davvero la profezia di Arrunte si può dire compiuta. Ma questo superamento della paura, che non è una vittoria su di essa quanto piuttosto un arrendersi di fronte all�inevitabile, sarà da porre anch�esso sul conto della guerra e di chi quella guerra ad ogni costo l�ha voluta: non ultima ragione di o-stilità verso Cesare e il farsi dell�impero.

���������� 87 Per la costruzione della frase, di per sé non del tutto perspicua, cfr.

DILKE, op. cit., pp. 104-105: «[�] We should understand mentis tumultum and subitos furores as subjects of the acc. and inf., and omen scelerum as predicate: �and thought that their mental confusion and sudden attacks of madness promised fulfillment of their crimes�. We find a similar order of words in I, 262-4, III, 478-80».