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Bozza Erickson 104 1. Andrea Canevaro L’incontro delle competenze Partiamo dall’ICF Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale della Sanità pubblica l’ICF, ovvero la Classificazio- ne Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute. L’edizione italiana del 2002 è stata curata dalla Casa Editrice Erickson di Trento. È un’opera che indica una modalità di diagnosticare molto diversa da quella che viene percepita come la funzione della diagnosi, che sarebbe, secondo alcuni, classificare e collocare in una determinata categoria chi presenta delle difficoltà di natu- ra costante o transitoria. Il nostro sguardo è più legato alle disabilità irreversibili — quin- di ai deficit — e abbiamo bisogno di una dia- gnosi che sia funzionale. La proposta dell’ICF è ancora più radicale: Lo scopo generale della classificazione ICF è quello di fornire un linguaggio standard e unifica- to che serva da modello di riferimento per la de- scrizione della salute e degli stati a essa correlati. Essa definisce le componenti della salute e alcune componenti a essa correlate (come l’istruzione e il lavoro). I domini contenuti nell’ICF possono, per- ciò, essere visti come domini della salute e domini a essa correlati. Questi domini sono descritti dal punto di vista corporeo individuale e sociale in due elenchi principali: 1. Funzioni e Strutture Corporee e 2. Attività e Partecipazione. (OMS, 2002, p. 11) Il concetto di salute viene aperto a elementi quali l’istruzione e il lavoro. Si può capire, di conseguenza, che è un concetto non ristretto e fondato unicamente sulla malattia/non ma- lattia, sullo star bene/star male, ma implican- te una visione più ampia della qualità della vita e una possibilità di mantenerla anche in presenza di malattie, che esigono una riorga- nizzazione della quotidianità. Nell’ICF, come già evidenziato, vi sono due elenchi principali: delle Funzioni e delle Strut- ture Corporee, e chiunque vive nel contesto di vita di un bambino ha la possibilità di avere elementi di valutazione e di indicazio- ne utili per questi aspetti; e ancora di più assume rilievo il secondo elenco riguardante Attività e Partecipazione. È la possibilità quindi che i contesti di vita siano attivi nella ricerca di comprensione delle caratteristiche di un soggetto. L’interesse maggiore dell’ICF è rivolto al funzionamento, a capire «come funziona» un individuo. E non è tanto il funzionamento statico e decontestualizzato, quanto il funzio- namento in proiezione e progettazione dina- mica. Non quindi quello che oggi sa fare un individuo, ma quello che potrà fare introdu- cendo nella propria vita dei cambiamenti. Già per Vygotskij era fondamentale la valutazio- La formazione degli insegnanti per l’inclusione mono grafia

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L’integrazione scolastica e sociale3/2aprile 2004

1. Andrea CanevaroL’incontro delle competenze

Partiamo dall’ICF

Nel 2001 l’Organizzazione Mondiale dellaSanità pubblica l’ICF, ovvero la Classificazio-ne Internazionale del Funzionamento, dellaDisabilità e della Salute. L’edizione italianadel 2002 è stata curata dalla Casa EditriceErickson di Trento. È un’opera che indica unamodalità di diagnosticare molto diversa daquella che viene percepita come la funzionedella diagnosi, che sarebbe, secondo alcuni,classificare e collocare in una determinatacategoria chi presenta delle difficoltà di natu-ra costante o transitoria. Il nostro sguardo èpiù legato alle disabilità irreversibili — quin-di ai deficit — e abbiamo bisogno di una dia-gnosi che sia funzionale.

La proposta dell’ICF è ancora più radicale:

Lo scopo generale della classificazione ICF èquello di fornire un linguaggio standard e unifica-to che serva da modello di riferimento per la de-scrizione della salute e degli stati a essa correlati.Essa definisce le componenti della salute e alcunecomponenti a essa correlate (come l’istruzione e illavoro). I domini contenuti nell’ICF possono, per-ciò, essere visti come domini della salute e dominia essa correlati. Questi domini sono descritti dalpunto di vista corporeo individuale e sociale indue elenchi principali: 1. Funzioni e Strutture

Corporee e 2. Attività e Partecipazione. (OMS,2002, p. 11)

Il concetto di salute viene aperto a elementiquali l’istruzione e il lavoro. Si può capire, diconseguenza, che è un concetto non ristretto efondato unicamente sulla malattia/non ma-lattia, sullo star bene/star male, ma implican-te una visione più ampia della qualità dellavita e una possibilità di mantenerla anche inpresenza di malattie, che esigono una riorga-nizzazione della quotidianità.

Nell’ICF, come già evidenziato, vi sono dueelenchi principali: delle Funzioni e delle Strut-ture Corporee, e chiunque vive nel contestodi vita di un bambino ha la possibilità diavere elementi di valutazione e di indicazio-ne utili per questi aspetti; e ancora di piùassume rilievo il secondo elenco riguardanteAttività e Partecipazione. È la possibilitàquindi che i contesti di vita siano attivi nellaricerca di comprensione delle caratteristichedi un soggetto.

L’interesse maggiore dell’ICF è rivolto alfunzionamento, a capire «come funziona» unindividuo. E non è tanto il funzionamentostatico e decontestualizzato, quanto il funzio-namento in proiezione e progettazione dina-mica. Non quindi quello che oggi sa fare unindividuo, ma quello che potrà fare introdu-cendo nella propria vita dei cambiamenti. Giàper Vygotskij era fondamentale la valutazio-

La formazionedegli insegnantiper l’inclusione

monografia

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ne della dotazione unita al problema dellosviluppo culturale:

Noi pensiamo che per lo studio della capacitàmentale sia del tutto insufficiente valutare le pro-prietà naturali e innate della persona. […] consta-tando una determinata condizione delle proprietàinnate dell’uomo, noi determiniamo solo la sua«posizione iniziale» che, con un diverso sviluppoculturale, può dare risultati diversi. (Vygotskij eLurija, 1987, p. 246)

Accanto a queste parole, leggiamo nell’ICF:

Il modello medico vede la disabilità come unproblema della persona, direttamente causato damalattie, traumi o altre condizioni di salute chenecessitano di assistenza medica sotto forma ditrattamento individuale da parte di professioni-sti. […] Il modello sociale della disabilità, d’altrocanto, vede la questione principalmente come unproblema creato dalla società, e in primo luogo neitermini di una piena integrazione degli individuinella società. […] L’ICF è basato sull’integrazionedi questi due modelli opposti. Per cogliere l’inte-grazione delle varie prospettive di funzionamen-to, l’approccio utilizzato è di tipo «biopsicosociale».(OMS, 2002, p. 23)

Se da una parte la traduzione di Vygotskijparla di cultura e di intervento culturale, dal-l’altra abbiamo un’indicazione che è più ca-ratterizzata dal sociale. I due termini proba-bilmente non sono lontani ma certamenteindicano sfumature diverse; probabilmentedopo Vygotskij — e forse anche prima — visono stati momenti in cui c’è stata una sortadi esaltazione per l’aspetto del relativismoculturale che era accompagnato, se non neglistessi momenti storici, ma certamente in in-trecci che non sono molto distanti l’uno dal-l’altro, dall’interpretazione fortemente euro-centrica e da quella particolare lettura dellarealtà chiamata degenerazionismo, che vede-va nell’umanità raccolta in un territorio —l’Europa — e con determinate caratteristichesomatiche il punto più alto dello sviluppo in-tellettuale e umano; e nell’allontanarsi da que-sta area geografica rilevava una vera e pro-

pria degenerazione progressiva rispetto a chiera più lontano anche nella somiglianza dal-l’uomo bianco europeo. In questo caso uomonon significa «uomo e donna» ma significaproprio uomo, perché vi era un’attitudine for-temente maschilista.

Il relativismo culturale, invece, poggiavasu un’altra ipotesi, in antitesi a quella indica-ta dal degenerazionismo: la possibilità dellediverse culture permetteva di collocare il sog-getto, che non avesse una grande capacità, inuna cultura «altra», che consentisse di veder-lo rifiorire e progredire. L’intervento cultura-le di cui parla Vygotskij, però, è cosa diversa,e fa riferimento a una sua pratica di educato-re e di animatore culturale a Golan, oggi inBielorussia, utilizzando il teatro, l’arte, le tec-niche e le pratiche attive, per coinvolgere ivari soggetti e permettere uno sviluppo pecu-liare in ciascuno. Aveva la convinzione speri-mentata e sperimentale che non fosse utileleggere i test unicamente per sentenziarequello che un soggetto era, quanto per capirecome dovesse essere sviluppata una propostao più proposte e vedere come fosse possibileorganizzare insieme — per dirlo con le paroleproprie dell’ICF — il funzionamento.

Le limitazioni (handicap) sono relative aicontesti. L’handicap come dato permanentenon esiste: esiste un determinato handicap,ed è un processo. Lo svantaggio potrebbe ri-velarsi più rilevante, meno importante o ad-dirittura inesistente a seconda dei contesti.La possibilità di sviluppo di proposte il piùpossibile partecipate permette di avere l’in-contro delle competenze.

Dalla presa in carico in un contestoall’accompagnamento attraversodiversi contesti

Ai tempi degli istituti, la presa in caricoprevedeva che dalla famiglia il soggetto ve-nisse preso in carico dall’istituto. Si potrebbe

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dire che la vita di un soggetto disabile eraorganizzata in due «caselle», e senza imprevi-sti visibili. La famiglia lasciava il compito dioccuparsi del soggetto ad altri, e questi nondovevano necessariamente preoccuparsi dimantenere in vita i contatti con la famiglia econ il territorio di provenienza.

Quando la famiglia migrava, raramenteritornava nel Paese d’origine e i Servizi Socia-li erano conformati in funzione di tali dinami-che. I Servizi Sociali di un territorio avevanoin archivio il nome del soggetto istituzionaliz-zato che, per quel servizio, era divenuto solouna pratica. Se dovevano corrispondere unaretta, lo facevano, senza prendere in conside-razione la situazione umana del soggetto stes-so: senza sapere cosa facesse, come stesse equale potesse essere il suo progetto di vita, dicui non si parlava e non si pensava neppureche potesse esistere.

Con il passaggio all’accompagnamento, sisono sviluppati più contesti, che mutano e nonpossono essere adottati per sempre, e diventaobbligatorio seguire le dinamiche del cambia-mento. Lo stesso ragionamento può essere uti-lizzato per le famiglie che mutano, come mu-tano i contesti. Se si crea una collaborazionecon un gruppo familiare, si deve tener contoche ogni anno che passa si ha un gruppo fami-liare che ha un anno in più (processi d’invec-chiamento, uscita di un membro dal nucleofamiliare, ecc.). La situazione degli istituti per-metteva di non preoccuparsi del cambiamen-to: i contesti erano due ma alternativi e noninterattivi: uno rimpiazzava l’altro.

Oggi si deve tener presente la pluralità dicontesti, che interagiscono tra loro e creanodelle dinamiche (dinamica dei contesti). Leparole cambiamento e accompagnamentovanno intese come superamento della subor-dinazione nella relazione d’aiuto, in cui c’è chiaiuta e chi è aiutato, superando note situazio-ni di vittimismo e assistenzialismo. Ma l’in-troduzione dei contesti in luogo del contesto

(istituzione totale) ha creato dei cantieri per-manenti nei servizi, causando anche alcunidisagi. Accanto al rimpianto di una prassisicura, vi può essere una sorta di euforia, daparte di alcuni operatori, nel considerarsi coin-volti in un processo in continua trasformazio-ne. Si è creata una situazione che viene confacilità definita complessa, e a volte questaparola sembra condizionare le professioni.

Vygotskij (1973, p. 210) ha distinto dueforme di modalità di pensare: il pensiero com-plesso e quello concettuale. È interessante ri-levare il fatto che il termine complesso inVygotskij abbia un significato molto diversorispetto al suo uso attuale.

Nell’ambito educativo, in particolare inquello scolastico, l’abuso del termine comples-sità è forse dettato dalle difficoltà che si in-contrano. Può, però, diventare un alibi e unarinuncia, indicando un livello di difficoltà ele-vato al punto di non consentire di essere sca-lato ed esplorato. Rinunciare, quindi, al ra-gionamento e alla comprensione, stabilendoche una determinata realtà è complessa: que-sto mette il punto a ogni ulteriore procedi-mento di indagine. Al contrario, in Vygotskij,il termine complesso indica non tanto un’al-tezza maggiore di ragionamento, di intensità,quanto, piuttosto, un elemento primordiale,infantile, e difatti è accompagnato o sostitui-to anche dal termine sincretico: vi è un pen-siero complesso o sincretico.

Cosa vuol dire Vygotskij? Indica in questoun limite nel ragionamento che è proprio del-l’infanzia. Lo ricostruiamo con parole nostre:è un modo di procedere che trasferisce le pa-role nei contesti concettuali in cui queste han-no dei sensi precisi, e le utilizza in disinvoltaassociazione con gli elementi di un unico con-testo. Non a caso Vygotskij riflette sulla schi-zofrenia che, anni dopo la sua scrittura, sa-rebbe stata chiamata autismo infantile, e in-dica in quella particolare forma di dissocia-zione che fa produrre degli omologhi non ri-

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spondenti a una realtà condivisa proprio lacaratteristica del pensiero complesso. Pen-siero complesso quindi è un pensiero limita-to: è limitato a una famiglia di parole che sipuò allargare senza per questo cambiare con-testo logico.

Il pensiero concettuale, superando il pen-siero complesso, è capace di evocare il conte-sto più adatto a dare senso e rilevanza se-mantica alle singole parole. È capace, quindi,di produrre degli interrogativi anche senzarisposta, mentre il pensiero complesso proce-de senza porsi interrogativi e avendo semprerisposte, anche casuali e senza nessi logici. Laconnessione logica diventa l’elemento vinco-lante ma anche costruttivo del pensiero con-cettuale.

Gli insegnanti hanno dovuto e devono ri-considerare la propria professionalità e leproprie competenze rispetto al passaggio dal-la presa in carico in un solo contenitore isti-tuzionale all’accompagnamento lungo untratto del percorso di vita. Devono «riposizio-narsi» continuamente nei contesti, evitandodi ridursi al senso vygotskijano della com-plessità.

Le competenze per un percorso di vita

La parola riposizionamento è forse pocousata in un ambiente educativo di tradizioniempiriche, oltre a non avere una grande ele-ganza. Viene usata nell’orientamento, nellariorganizzazione delle competenze nel mon-do del lavoro. A noi sembra interessante ri-prenderla, ritenendo che possono arrivare deicontributi da pratiche e da scienze diverse,interessanti e interessate per il nostro tipo dilavoro.

Riposizionamento significa possibilità cheun individuo si ricollochi rispetto a una map-pa di percorso che ne permetta degli sviluppidiversi da quello che sembrava — per ripren-dere un’espressione utilizzata da Sergio Neri

— il suo destino. Riposizionarsi significa nonsolo capire che non si è su una strada nellanebbia e che bisogna solo seguire quel mar-ciapiede, quella linea tratteggiata, ma anchescoprire che vi sono crocicchi, incroci, anzitut-to per evitare di percorrerli senza badare achi viene da un’altra direzione, ma anche percapire la possibilità di cambiare strada mi-gliorando la propria situazione. È un linguag-gio figurato ma neanche tanto. Vi è la possibi-lità, che abbiamo spesso praticato, di indivi-duare un percorso che colleghi la situazioneche una persona vive nell’attualità a un luogoideale che vorrebbe raggiungere e che sem-bra precluso per la sua condizione, per il suomodo di essere. È possibile collegare questidue punti in un ipotetico spazio-mappa, sco-prendo che non vi è il deserto tra i due punti:vi sono altri elementi che compongono il pae-saggio della vita futura, collegata alla vitapassata e alla vita presente: un paesaggio piùampio in cui ci si posiziona apre possibilità dipercorrere delle strade e di raggiungere delleposizioni più vicine a quel luogo ideale anchenell’eventualità che non fosse raggiunto.

Riposizionarsi, capire anche la necessitàche abbiamo di aprire la nostra mente a unacircolazione maggiore di idee, di paesaggi, diimmagini e di possibilità. Questo è un ele-mento che ha delle profonde possibilità dicollegamento col tema della resilienza che cipermettiamo qui solo di accennare senza en-trare nello specifico e rinviando a studi piùappropriati (che sta realizzando Elena Mala-guti). Il riposizionamento si collega a vicendeche hanno avuto due altri termini utilizzati,apparentemente molto diversi tra loro, in real-tà collegabili. Con altri, l’autobiografia e lanecessità di riprendere in mano la propriavita rileggendola, per capire quali elementicontiene che permettono altri sviluppi; e ildossier, in area francofona, o portfolio, in areaanglofona, cioè la possibilità di riordinare glielementi che hanno costituito il proprio per-

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corso, farli diventare elementi visibili in uncolpo d’occhio — e non più sovrapposti in modotale che uno nasconde l’altro — e la possibili-tà di creare legami e sviluppi non previsti eora, invece, visibilmente prevedibili. La visi-bilità degli elementi è l’elemento maggioredel portfolio, in un’organizzazione che abbiaanche una felicità grafica tipica del buon dos-sier o portfolio.

L’autobiografia ha un nome di riferimentodi grande importanza in Nuto Revelli. NutoRevelli, ufficiale degli alpini nella tragica cam-pagna di Russia nella seconda guerra mon-diale, ne è uscito profondamente ferito per latragedia a cui aveva partecipato e a cui avevaassistito e per la consapevolezza che attornonessuno avesse forse neanche capito la vasti-tà, la profondità dello sconvolgimento. È rien-trato nella sua Cuneo e ha subito le umilia-zioni di chi non sapeva e sembrava non volersapere. E allora ha scritto, ha ripreso gli ele-menti che hanno composto la sua esperienzaper non dimenticarli. Ha partecipato alla guer-ra di liberazione e ha reso testimonianza scrit-ta di questi eventi. E ha dedicato il resto dellasua vita alla raccolta delle memorie orali dichi poteva essere dimenticato o dimenticatarapidamente, se non ci fosse stato qualcunoad ascoltare e trascrivere. La memoria dove-va assumere una forma utile perché altri po-tessero attingervi e cercare di capire comepuò essere organizzata un’altra vita, di valla-te, di montagne, della cultura contadina; unafunzione che non nasconde certamente anchela dimensione politica, intesa come organiz-zazione di una società.

Questa capacità di ascolto di un uomo cheha voluto ripensare alla propria vita a partiredalla propria esperienza per capire le vitedegli altri è stata utilizzata poco dall’ambien-te educativo e della formazione.

È il riposizionamento della propria espe-rienza rispetto a un contesto allargato chepermette di entrare in contatto con altre vite,

di non chiudersi o di non pensare: «Bene, fat-ta questa esperienza tragica, finita! Passia-mo ad altro, dedichiamoci agli affari». No,cerchiamo di tenere un collegamento arric-chente, che permetta di comprendere; questoelemento dell’autobiografia è fortemente pre-sente in tante situazioni letterariamente va-lide, importanti, note, ma anche in tante altresituazioni più legate a una piccola letteratu-ra o connesse — e in questo caso si scivolaverso la terapia — alla possibilità di ascoltodell’altro. Si pensi alla logoterapia di VictorFrankl.

Riprendiamo la distinzione vygotskijana,autorizzati dalle stesse indicazioni di Vy-gotskij, come una distinzione tra il pensieroche è fortemente limitato alla propria espe-rienza e un pensiero che sa svincolarsi peraprirsi ai collegamenti tra le diverse espe-rienze e ai contesti concettuali o virtuali. Illimite costituito dall’esperienza fa ragionarein termini che non sempre sono capaci di pro-durre una logica aperta, e quindi integrabilecon gli elementi di novità che la stessa dina-mica della vita propone. Il limite dell’espe-rienza, a volte, è quello che si riscontra inalcune professioni che possono essere defini-te «deboli», con tutta l’ambiguità che questotermine ha assunto negli anni, perché peralcuni il termine indica una capacità di flessi-bilità che lo rende in realtà paradossalmenteforte; per altri — e in questo senso lo impie-ghiamo nella nostra riflessione — «debole»significa proprio quello che si dice quando siparla di un soggetto fragile, portato ad am-malarsi, meno capace di sopportare la fatica;e quindi bisognoso di alimentarsi, di crescere,di irrobustirsi.

Le professioni deboli, o fragili, comprendo-no anche la professione dell’insegnante. Mol-te volte riscontriamo che le nostre capacità diinsegnanti sono vincolate, appesantite, dallanecessità di riferirsi all’esperienza e questopuò far nascere anche un sentimento di orgo-

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glio. Quante volte sentiamo che un insegnan-te, nei confronti di un’esposizione fortementecaratterizzata dal concettualismo, e forse qual-che volta anche dall’accademismo, ritiene didover dire con orgoglio che lui o lei si rifàall’esperienza, ed è quindi ricco, o ricca, del-l’esperienza! Quante volte viene detto a chi sioccupa di insegnamento universitario, quindidi un insegnamento che viene ritenuto piùteorico, che «noi invece» ci occupiamo dellarealtà; è sottinteso che gli altri, gli universita-ri, si occupino dell’irrealtà, della teoria. Ri-scattare il termine dell’esperienza non signi-fica, però, non avere i vincoli che Vygotskijindica quando parla di pensiero complesso. Ei vincoli sono quelli di non riuscire a superareun’utilizzazione eccessivamente monoconte-stuale delle proprie proposte.

L’impianto concettuale non è un’astratta einutile teoria. Diventa l’elemento che permettedi raggiungere lo scopo pratico più adeguatoe consente di avere un «repertorio» — ci piacequesta parola perché permette di avvicinareuna professione che ha qualche lontana pa-rentela con l’insegnamento, ed è la professio-ne del teatrante — capace di variare gli stru-menti a seconda del bisogno, quindi anchecapace di non farsi dettare gli strumenti dallemode. I mass media stanno riversando sullascuola una serie di impegni annuali: ogni annoè caratterizzato da un problema che vieneproposto come problema emergente. E la scuo-la dovrebbe ogni volta abbandonare tutto perperseguire quel problema e impegnare, quin-di, gli strumenti adatti a risolvere quel pro-blema, e poi lasciarli perdere perché ne arri-va un altro. Questo scombina, e fa sì che gliinsegnanti non siano in grado di articolare unloro repertorio professionale ma siano piùsuccubi nei confronti dei dettati esterni, eportati a una difesa statica del loro modo difare: allora vi sarà chi riesce in qualche modoa introdurre degli elementi del momento, del-l’emergenza, e vi sarà chi invece questi ele-

menti li ritiene assolutamente incompatibilicon le proprie abitudini.

Il buon mestiere diventa fedeltà alle pro-prie abitudini, senza un repertorio sufficien-temente ampio per poterle variare e rimodu-lare o riadeguare, a seconda delle necessità.Questo porta il corpo insegnante a ondeggia-re — e, a tal proposito, qualcuno ha parlato diun pendolo — fra il privilegiare gli elementidi relazione, buone relazioni (star bene a scuo-la, ricerca delle motivazioni) e l’essere propo-sitivi dei contenuti, e quindi avere soprattut-to un’interpretazione della propria professio-nalità come esercizio della trasmissione deicontenuti, indipendentemente da chi e daquanti li riescono ad assumere.

L’ondeggiare tra la relazione e il contenu-to è segno di un limite che abbiamo chiamatopensiero complesso. La necessità è arrivare aun pensiero concettuale che permetta di tene-re dentro sia la relazione che il contenuto, e diavere una pluralità di strumenti. E di incon-trare le altre competenze professionali.

Incontro di professioni competenti

La distinzione tra funzioni elementari efunzioni superiori è ormai classica, con unainterpretazione schematica, e con i limiti diogni interpretazione schematica. Non è unarealtà ma è più un modello di riferimento.Cosa significa questo? Significa che, se par-liamo di competenze, ci riferiamo alla neces-sità che chi opera abbia un modello di riferi-mento adattabile, in cui sia possibile svilup-pare, dalle capacità, le competenze. Un ope-ratore professionale, se ha solo delle capacitàe non ha sviluppato delle competenze, rischiadi dover difendere la propria immagine diprofessionista capace, negando o sottovalu-tando l’ascolto della realtà.

Abbiamo richiamato l’interpretazione po-sitiva del termine «debole», perché permetteflessibilità, comprensione delle diverse real-

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tà. Quante volte vi sono delle situazioni in cuisiamo messi alla prova dalla necessità di adat-tare le nostre capacità alla realtà e non disqualificare la realtà, ritenendola mancanterispetto alle nostre capacità! Se sviluppiamocompetenze, dobbiamo fare un faticoso lavorodi adattamento e per questo bisogna avere unmodello per non vivere una subordinazionealla realtà ma una cooperazione e un incontroche permettano di stabilire rapporti di scam-bio. Se un professionista non ha un modello,rischia di farselo dettare dagli avvenimenti ein qualche modo di metterlo in subordinazio-ne alle mancanze, perché gli avvenimenti sonodettati — il più delle volte — da situazioni disvantaggio e di difficoltà. Se il nostro procede-re nasce dalle difficoltà, rischia di essere an-corato a una realtà non facilmente superabi-le; mentre noi dobbiamo farla evolvere e perquesto abbiamo bisogno di un modello. Il mo-dello è una struttura flessibile, elastica, condei punti fermi. Se l’elasticità e la flessibilitàvengono scambiate con l’informalità e l’im-provvisazione totali, il rischio è quello di ave-re un falso modello.

Avere dei punti fermi non significa affer-marli in assoluto ma metterli nella relativiz-zazione che ogni modello, con la pretesa diessere tale, deve permettere. Il nostro sloganpotrebbe essere quello di avere un modellometodologico e molti metodi, evitando di ave-re quella confusione tra metodologia e meto-do che permette di sacrificare tutta la realtàsempre a un solo metodo.

Con questa precisazione torniamo alla di-stinzione tra funzioni elementari e funzionisuperiori. Le funzioni elementari sono gli ele-menti più semplici della vitalità. Sono la per-cezione/azione, sono le reazioni al contesto, lacapacità corporea di sopravvivenza, di tra-sformazione delle informazioni, la memoriasemplice, la scansione di tempi, il riconosci-mento di luoghi, di forme, di persone. Comin-ciano a essere presenti elementi-scalini per le

funzioni superiori perché vi sono le capacitàdi evocazione e di rappresentazione, che pos-sono essere parziali e completarsi successiva-mente. Le funzioni superiori sono più elabo-rate: si avviano verso la realizzazione di unsoggetto sociale con cognizioni sociali, nonautereferenziali. Le attività sono pragmati-che e mentali nello stesso tempo e consentonoesplorazioni ipotetiche: pensare ipotesi, esa-minarne le conseguenze non realizzandolema proiettandole in una realtà. Conoscere larealtà è necessario per poter compiere esplo-razioni ipotetiche. Bisogna avere capacità dicategorizzazione e non agire sempre in baseal singolo caso sui generis. Nella categorizza-zione occorre non chiudere le originalità, ave-re una possibilità di sviluppare delle infor-mazioni, di riceverne, di scambiarle, di elabo-rarle; e quindi avere capacità argomentative,razionalizzazioni, logiche causali, e capirecome i legami normativi siano importanti ecosì l’attivazione quanto l’inibizione e il con-trollo, la padronanza, le competenze. È la li-nea degli apprendimenti intesi non nell’acce-zione scolasticistica ma nella funzione di adat-tamento vitale per tutto il percorso di vita.

Tra le funzioni elementari e le funzionisuperiori esistono dei mediatori. Vi sono pos-sibilità che i mediatori vengano rappresenta-ti nella nostra organizzazione mentale piùsemplificata come scalini evolutivi che per-mettano di salire al piano superiore. Rappre-sentiamo le funzioni come un piano superioreche ha più vista, più possibilità, più capacitàdi organizzazione, avendo il panorama e riu-scendo a vedere un orizzonte più vasto. Haperò sempre bisogno di scendere alle funzionielementari perché è al piano terra che si tro-va la porta da cui possiamo accedere a percor-si. Non possiamo avere un’idea del nostromodello delle funzioni superiori come sostitu-tive e rigidamente evolutive nei confronti dellefunzioni elementari. Le funzioni elementarihanno un compito di base; e senza base non

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funziona la vita. È nelle funzioni elementariche troviamo quelle che definiamo le porte.Alle funzioni superiori sono riservate le fine-stre. Possiamo guardare e capire se valga lapena muoversi, finalizzare le nostre azionigrazie al fatto che gli occhi possono andarepiù lontano.

Ci vuole una scala per passare dal pianoterra al piano superiore. Questa scala sono imediatori. Cosa intendiamo per mediatori?Certamente anche la figura del professioni-sta che entra in rapporto con le strutture diuna comunità bisognosa di aiuto, di azioneumanitaria. La cooperazione nelle professio-ni educative esige competenze di mediazione.Sono importanti mediatori che permettono dicollegare le risorse di una comunità con l’as-senza di risorse di un’altra comunità. Giàquesta è una funzione di mediatore. Se il me-diatore rimane unico, non compone la scala;non c’è una scala di un solo enorme gradino,che non sarebbe percorribile. Se il mediatorevuole essere unicamente il tramite tra unacondizione e un’altra, si immagina, più checome una scala, come un ascensore o un mon-tacarichi, che ha bisogno di una strutturatecnologica, di energia, di uno spazio, di ma-nutenzione e di altri elementi che potrebberonon esserci.

A volte le professioni di aiuto sono piùvicine a immaginarsi facendo riferimento allefunzioni dell’ascensore; e, quando terminal’impegno, sparisce l’ascensore. Le funzionielementari e le funzioni superiori rimangonosenza collegamenti. Forziamo in questo sche-ma e in questa immagine situazioni che, avolte al di là delle intenzioni, hanno sviluppidiversi. La buona capacità professionale, equindi la buona competenza, deve far diven-tare intenzionale quello che a volte viene fuo-ri casualmente: la presenza di più mediatori.Individuiamo due mediatori diversi come con-sistenza tra loro. Il primo è l’interprete. Unoperatore o un’operatrice entra in una comu-

nità dove si parla un’altra lingua: ha bisognodi un interprete. Sappiamo quanto è impor-tante scegliere interpreti capaci, non troppoprotagonisti, e che nello stesso tempo sappia-no far passare un flusso di fiducia, che sap-piano esserci e non sparire dietro una freddatraduzione. Vi è il rischio di affezionarsi ec-cessivamente all’interprete e, quindi, di farlodiventare un protagonista.

L’altro mediatore è il progetto. Costruireun progetto, saper fare un progetto è un me-diatore. Può permettere di non riferirsi uni-camente alla propria persona di professioni-sta ma a un disegno, a una strutturazione, incui con una progressione collochiamo tanto iprofessionisti quanto gli altri soggetti. Un pro-getto è anche una mappa con le approssima-zioni simboliche di tutte le carte. Sulla strut-tura simbolica nascono le necessità di con-venzione: è un codice per leggere la realtà, enon è la realtà. I mediatori diventano interes-santi perché fanno nascere la possibilità dicreare intercapedini, spazi, giunture flessibi-li tra i diversi elementi che compongono larealtà, e superare la compressione che unacatastrofe può aver creato, impedendo di di-stinguere i vari elementi che compongono larealtà stessa.

La parola competenze racchiude un itine-rario che dà respiro. Non possiamo schiaccia-re la capacità su un contesto, ma dobbiamoarticolare un percorso che permetta alla ca-pacità di diventare competenza conoscendoun contesto. Ed è in questa simmetria che sirealizza la possibilità di dare spazio e artico-lare nel progetto stesso la possibilità di lettu-ra della realtà plurale e non della sola realtàcatastrofica. Parlavamo di un effetto calami-ta che può dare il deficit. La stessa situazione:noi possiamo trovare una comunità che è ca-lamitata, o piuttosto schiacciata dalla e sullacatastrofe, e viverla solo così. Va ripresa unapossibilità di articolazione e di respiro. I me-diatori hanno anche questa funzione.

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Accogliere le novità sociali nellecompetenze professionali

Oggi molte coppie di giovani cercano unasoluzione attraverso la navigazione in Inter-net e possono trovare proposte di soluzioniseducenti. Secondo Bauman, oggi il delirio dionnipotenza dell’umanità porta a pensare dinon avere più limiti e che, se c’è un guasto, c’èqualcuno, nel mondo, che sa ripararlo (globa-lizzazione delle informazioni). La ricerca disoluzioni in Internet da parte dell’utente va aincidere sul percorso con i servizi, perché cipossono essere operatori che si irritano terri-bilmente e non vogliono iniziative concorren-ziali, in quanto ritengono che l’operatore deb-ba essere l’unico collegamento con la scienza.

L’etnopsichiatra Toby Nathan sostiene lanecessità dell’abolizione di quello che chiama«il monoteismo riabilitativo», per promuovere«il politeismo riabilitativo». Vi sono molte si-tuazioni di disabilità in cui interagiscono di-verse cause e vi è un intreccio multifattoriale.È quindi possibile che le proposte siano com-posite, e che non sia sensato deciderne unasola ed esclusiva. È utile pensare alla sinapsidella rete neurale. La sinapsi è l’elemento checombina il flusso di energia nella rete neuraleperché, uscendo da quel nodo, diventi costrut-tivo e non provochi sconquassi. Tutti devonopensare a fare sinapsi, e lo scambio avvieneattraverso dei mediatori. I mediatori, o facili-tatori, in una società complessa, sono un puntodi straordinaria importanza, poco curati e la-sciati al caso e alla precarietà (mediatori lin-guistici, mediatori LIS).

Non è da considerare con favore quel tipo diletteratura eccessivamente pragmatica, chesemplifica le cose come se dovesse dare a unafamiglia un libretto «per l’uso» in cui si spiegala patologia che colpisce il figlio. È importantee utile fornire ai genitori e ai familiari quantepiù informazioni è possibile, in modo tale datrasmettere in modi credibili perché autenticil’idea che l’operatore li consideri persone che

pensano e riflettono, capaci di un dialogo e diun confronto e per creare una vicinanza e un’al-leanza costruttiva con lo stesso operatore. Nonbisogna intendere la vicinanza unicamentecome vicinanza fisica e prossemica: questa hadei limiti, e c’è chi sostiene che, oltre le 150persone, l’operatore perde il controllo dei rap-porti con gli utenti, instaurando rapporti ditipo demagogico o meccanico-ripetitivo.

Nell’assistenzialismo, un individuo disa-bile ha bisogno di una vicinanza non declina-bile e senza cambiamenti: sembra che sia in-dispensabile stargli vicino fisicamente per an-ticipare desideri e bisogni. Vorremmo propor-re di sviluppare una dinamica in cui si possaprodurre una vicinanza nella lontananza, es-senziale per lo sviluppo umano, e quindi perla comunicazione. Sembra una conclusioneparadossale, e forse lo è. Ma tante buone prassidi socialità supportata dallo sviluppo dellecompetenze possono farci capire che nel para-dosso c’è l’accettazione di una sfida: per quan-to la disabilità sia composta da fattori multi-pli, è possibile essere vicini essendo fisica-mente lontani; è possibile realizzare quell’at-taccamento di cui parla Bowlby, che è tantopiù autentico quanto più permette di allonta-narsi senza perdere il contatto.

Sempre facendo riferimento al quadro con-cettuale di Vygotskij l’interesse maggiore dellaproduzione vygotskijana per il linguaggio èdovuto al fatto che la parola è lo strumentoper la formazione del complesso. Il linguaggiocodificato permette di fare il passaggio dalsemplice al complesso e alla possibilità di or-ganizzare una memoria. Il complesso — ab-biamo già visto — si differenzia dal concettoper il rapporto che si instaura tra l’oggettoindividuale e il nome del gruppo.

Il nome del gruppo permette di fare degliaccostamenti e di stabilire un rapporto tra unafigura e uno sfondo, tra un oggetto e un altrooggetto, tra oggetti simili in apparenza e dissi-mili in profondità, di stabilire rapporti di pa-

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rentela tra elementi che apparentemente nonhanno nessun rapporto tra loro e, quindi, dicontenere non solo le caratteristiche dell’at-tualità del momento ma anche quelle che ven-gono elaborate e che possono essere scopertecome nuove grazie al fatto che permettonodeduzioni. Il concetto di appartenenza, che ri-sulta oggi particolarmente importante — e ilbisogno di appartenenza fa parte delle attualiattenzioni maggiori, perché sottoposto conti-nuamente a pressioni di crisi —, è possibilevederlo in senso allargato se ha delle opportu-nità di accostare i linguaggi, le lingue, e non dinominare tutto con una sola lingua.

Mettiamo in guardia dalla possibilità diattribuire al termine linguaggio una ampiez-za esagerata; non abbiamo mai avuto troppoentusiasmo per l’espressione linguaggio nonverbale se non ha una precisa indicazione dicodici linguistici, come potrebbe essere la Lin-gua Italiana nei Segni — abbreviata LIS —,ma diventa anche la mimica spontanea, laprossemica. Questo non lo consideriamo lin-guaggio, questa è comunicazione, altra possi-bilità certamente importante, ma non nel qua-dro del linguaggio così come Vygotskij lo in-terpreta, e non solo lui.

Dobbiamo ricordare che molti studiosi con-cordano nel riferire al linguaggio la differen-za tra umani e altri animali, le bestie. Qual-cuno però, in una riflessione più originale, havoluto attribuire agli umani un’altra caratte-ristica o una caratteristica distintiva maggio-re che è quella del «prendersi cura». Il pren-dersi cura è possibile grazie al linguaggio edè una pratica efficace se il linguaggio è apertoe permette la partecipazione degli altri. Suquesto vale la pena di fare la riflessione lega-ta all’invadenza di un monolinguismo — an-che professionale — che è il frutto di un deter-minato modo di concepire l’economia rias-suntivamente indicata come «globalismo».

L’assunzione di un solo linguaggio non aper-to e imposto è negativo per i propositi dell’ICF.

Diventa interessante capire quanta distan-za ci sia tra chi vive un’interpretazione diruolo professionale che non ascolta e non tra-duce, e chi va in direzione opposta e nellatraduzione arricchisce, porta novità, e ascol-tando e non presumendo di capire tutto, puòdomandare. «Il “disordine” non è l’assenza diun qualsiasi ordine, piuttosto lo scontrarsi diordini privi di mutuo rapporto» (Arnheim,1974, p. 19). Arnheim, grande studioso dellapercezione applicata soprattutto per lui alcampo dell’arte ma non solo, ci indica qualco-sa di molto interessante che non può essereaffrontato con spirito demagogico. Il disordi-ne esiste, ma il dubbio che il disordine siacollegato all’ordine attraverso una rilettura euna possibilità di comprensione maggiore èl’elemento che ci permette di collegare questacitazione all’impostazione dell’ICF e alla pos-sibilità di far vivere le competenze professio-nali nei diversi ambiti — scolastico, sociale,sanitario e anche amministrativo — in unimpegno rinnovato ed entusiasmante.

Riferimenti bibliografici

Arnheim R. (1969), Verso una psicologia dell’arte,Torino, Einaudi.

Arnheim R. (1974), Entropia e arte, Torino, Einaudi.Bauman Z. (2002), La società individualizzata.

Come cambia la nostra esperienza, Bologna, IlMulino.

Bowlby J. (1972), L’attaccamento alla madre, Tori-no, Boringhieri.

Nathan T. (2003), Non siamo soli al mondo, Torino,Bollati Boringhieri.

Neri S. in Nocera S. (2001), Il diritto all’integrazionenella scuola dell’autonomia, Trento, Erickson.

OMS (2002), ICF. Classificazione Internazionaledel Funzionamento, della Disabilità e dellaSalute, Trento, Erickson.

Vygotskij L.S. (1973), Lo sviluppo psichico del bam-bino, Roma, Editori Riuniti.

Vygotskij L.S. e Lurija A.R. (1987), La scimmia,l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storiadel comportamento, a cura di M.S. Veggetti,Firenze, Giunti.

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* Università di Padova.1 Questa parte riprende alcuni temi trattati in R. Caldin, Introduzione alla pedagogia speciale, Padova, Cleup, 2001.2 Unesco, Good pedagogy-Inclusive pedagogy, in Unesco-Section for Special Needs Education, Inclusive Education

and EFA. A challenge and a vision, Paris, 2000, pp. 14-20.3 A. Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, Milano, Mondadori, 1999, pp. 86-98; P. Gaspari,

Un’epistemologia per la pedagogia speciale, in A. Canevaro (a cura di), Pedagogia speciale, «Studium Educationis»,n. 3, 2001, pp. 567-580; P. Gaspari, Aver cura. Pedagogia speciale e territori di confine, Milano, Guerini, 2002, pp.61-99.

2. Roberta Caldin*Abitare la complessità: insegnanti eprocessi inclusivi

I riferimenti internazionali

Vorrei presentare un breve contributo sultema in questione, focalizzando alcuni ele-menti a partire dall’integrazione scolasticacosì come viene proposta in alcuni documentiinternazionali recenti, rilevando alcuni aspettidella situazione italiana e, infine, cercando dioffrire qualche spunto di riflessione sulla for-mazione dell’insegnante di sostegno.1

Qualche rapido riferimento ad alcuni re-centi documenti internazionali: questo rima-ne un passaggio obbligato, perché le indica-zioni più incisive sul piano istituzionale epolitico si ritrovano in quest’ambito. All’in-terno dei documenti dell’Unesco,2 ricordo l’im-portanza che viene attribuita alla pedagogiainclusiva (good pedagogy-inclusive pedago-gy), cioè alla riflessione teorica sui processiinclusivi, riflessione che poggia su quattropunti fondamentali che richiedono un ripen-samento complessivo con gli insegnanti, congli allievi, con le famiglie, con la comunitàtutta:

– tutti i bambini possono imparare;– tutti i bambini sono diversi;– la diversità (difference) è un punto di forza;– l’apprendimento si intensifica con la coope-

razione tra insegnanti, genitori e comunità.

Ciascuno di questi punti richiederebbe unatrattazione a sé stante: il primo esige almeno

un approfondimento sulla differenziazione deipercorsi metodologici e didattici; il secondo, ilriconoscimento e la valorizzazione dell’alteri-tà (non solo delle persone disabili); il quarto,la puntualizzazione sulle sinergie delle com-petenze e delle risorse, oltreché del lavoro direte. Io sottolineo il terzo punto del documen-to Unesco, perché indica la diversità comepunto di forza, non solo sul piano della socia-lizzazione e dell’arricchimento relazionale, maanche su quello dell’apprendimento. Ci si ri-chiama, cioè, a un modello complesso di disa-bilità che divenga occasione di conoscenza,che incrementi l’aspetto cognitivo, affinchécognitivo e affettivo si leghino insieme, eviti-no il semplice avvicinamento alle persone condisabilità, promuovano reti di integrazioneche coincidano con i processi di apprendimen-to.3 In modo particolare, risulta stimolantel’idea che vadano coniugati percorsi teorici epratica educativa, migliorando le struttureconoscitive e le conoscenze, integrando le si-tuazioni di partecipazione come conoscenzateorica senza trascurare il fatto che, se è im-portante agire, ciò non può svolgersi conti-nuamente in una logica dell’emergenza: que-st’ultima, infatti, risulta inservibile a coloroche hanno bisogno di essere aiutati in terminipianificati e inutile alla costruzione di un cor-pus concettuale che superi il conosciuto, l’og-gettivabile, per scoprire nuove dimensioni enuove potenzialità.

Secondo il documento dell’Unesco, l’inse-gnante deve creare situazioni in cui i bambinipossano imparare da soli osservando, toccan-do, sperimentando e pensando (processo inte-

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rattivo tra allievo e insegnante, tra allievi, tral’allievo e il suo ambiente); i contenuti dell’in-segnamento, i metodi e i modi di presentarlidevono essere vari in modo che i bambini, conmodi e ritmi di apprendimento diversi, possa-no seguirli e progredire in base al loro proces-so di apprendimento.

I processi inclusivi reali esigono che l’inte-grazione si realizzi nei percorsi ordinari. Sitratta di passare da un modello in cui i bisognispeciali coincidono con i luoghi speciali a unmodello capace di utilizzare le competenzespeciali in contesti aperti, in territori di ap-partenenza comuni:4 il problema viene spo-stato dall’analisi del soggetto (l’alunno condisabilità) all’analisi del contesto (la classe, lascuola, il territorio): non si considera lo stu-dente con disabilità come un paziente biso-gnoso di cure, ma si guarda alla classe per lacreazione di situazioni strategiche di suppor-to con l’intervento e la partecipazione di tutti,valorizzando il ruolo di ogni figura professio-nale che interviene per rendere l’ambienteinclusivo.

La pedagogia inclusiva individua, sostie-ne e rinsalda un’educazione inclusiva (inclu-sive education), che corrisponde all’educazio-ne per tutti, come processo che presenta leseguenti caratteristiche:

– si muove dal soggetto al contesto (dal singo-lo alunno all’intera classe);

– si indirizza ai bisogni di tutti gli studenti;– garantisce tutti i diritti umani di base del-

l’educazione (uguali opportunità e parteci-pazione sociale).

È necessario precisare che, nei documentiinternazionali, l’inclusione rientra sempre nelfilone dei diritti umani: questo è comprensibi-le perché il diritto all’istruzione rimane unapriorità a livello mondiale. Nell’ampio venta-

glio delle urgenze planetarie, infatti, l’alfa-betizzazione ricopre, a tutt’oggi, il primo po-sto (anche qualora la si consideri semplice-mente una modalità del sistema di comunica-zione): Galbraith ha ribadito la corrisponden-za tra fame di cibo e fame di istruzione neiPaesi più poveri.5 Infatti, il ciclo di esclusione,con altri fattori, è parte integrante della trap-pola della povertà che lascia troppe personesenza alcun potere sulla propria vita e senzal’unico capitale essenziale: il capitale umano(non va dimenticato quanto le nuove tecnolo-gie stiano allargando il divario fra informa-zione e istruzione).

Richiamando il diritto all’istruzione, al-l’assistenza, alla salute, alla sicurezza socia-le, al lavoro — cioè ai diritti di seconda gene-razione, economici, sociali e culturali —, nonci si può non riferire anche ai diritti di primagenerazione (diritto alla libertà di pensiero,di associazione, di formare una famiglia, dipartecipare alla vita politica, ecc.). In que-st’ultimo caso si tratta di diritti negativi, ilcui soddisfacimento comporta un obbligo diastensione dall’agire da parte delle pubblicheautorità poiché richiede, in prima istanza, alcittadino (anche disabile) di assumere un’ini-ziativa in virtù di una sua autonoma decisio-ne: richiede, cioè, un protagonismo del citta-dino. Infatti, nei documenti internazionali viè un invito pressante a far sì che le personedisabili intraprendano l’insegnamento e al-tre professioni educative: in tal modo essepossono fungere da motori propulsori favo-rendo la sensibilizzazione ai problemi delleminoranze e rendendo fruibili le loro cono-scenze personali e sociali per arricchire il si-stema educativo nel suo insieme (particolar-mente nei Paesi in Via di Sviluppo, ma anchedove sono presenti gruppi considerati debolio marginali come minoranze etniche, gruppi

4 Ibidem.5 C. Marchesi, Incontro con John Kenneth Galbraith, «Studium Educationis», n. 3, 1997, pp. 561-564.

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economicamente svantaggiati, persone condisabilità).6

I documenti internazionali insistono sulfatto che è necessario accentuare il sostegnoche gli insegnanti offrono nelle scuole norma-li, piuttosto che indirizzare ai provvedimentispecialistici. Il primo passo per creare un so-stegno efficace è costruire e progettare suipotenziali esistenti dentro e attorno alle scuole(ad esempio, insegnanti specialisti e altri pro-fessionisti possono lavorare in modo creativoper riflettere insieme su come risolvere il pro-blema; possono fare osservazioni e dare sug-gerimenti sull’insegnamento e sull’apprendi-mento, intraprendere valutazioni alla pari ediscutere i problemi relativi alle necessitàdegli alunni). Gli insegnanti possono anchestabilire contatti con altre scuole e condivide-re le loro idee in un contesto di confidenzaprofessionale; possono incoraggiare i genitoria partecipare con la loro cultura nelle scuole,imparando da loro. I genitori hanno natural-mente informazioni importanti sui loro figli,dalle quali gli insegnanti possono trarre be-neficio per il loro insegnamento, e sia i genito-ri che gli insegnanti devono sapere di più sulmodo di insegnare ai bambini ad apprenderemeglio. I genitori possono anche partecipareal mantenimento dell’ambiente fisico dellascuola e qualsiasi adulto che partecipi nellascuola e nella comunità è una potenziale fon-te di sostegno, di informazione e di abilità,come altre persone che lavorano in ambitomedico e sociale, membri e gruppi religiosi eculturali, cittadini, artisti, ecc. (anche altrisettori della comunità potrebbero contribuirealle attività extrascolastiche).

Sono quindi necessari:– una regolare e aggiornata preparazione

professionale di tutto il personale scolasti-co che deve avvenire in un ethos amichevo-

le positivo e di sostegno reciproco per gliinsegnanti;

– nuovi curricoli e metodi di insegnamentoche rispondano alle diverse necessità di ap-prendimento e che siano focalizzati sul bam-bino, non violenti e adatti alla cultura che ibambini devono sviluppare;

– libri di testo e materiali di insegnamentocontestualizzati nella diversità, liberi dapregiudizi e discriminazioni e disponibiligratuitamente per tutti i bambini dellascuola di base.

È innegabile, tuttavia, che i soli insegnantie gli educatori non possano farsi carico del-l’educazione per tutti: le associazioni locali ela partecipazione dei genitori sono essenzialiper creare un nuovo spazio per le voci deigruppi esclusi nell’effettivo sviluppo e nel pro-gresso educativo (così come indispensabile ri-sulta il raggiungimento di obiettivi primari disopravvivenza per tutti). L’idea è, quindi, chel’obiettivo dell’educazione per tutti non possaessere raggiunto senza l’inclusione dei bambi-ni attualmente esclusi e il miglioramento del-la qualità dell’educazione. I benefici dell’edu-cazione di tutti i bambini derivano dai miglio-ramenti qualitativi in previsione di una piùrispondente educazione di base orientata alrisultato. Ma l’Unesco intende anche dare unmonito poiché l’educazione inclusiva richiedepiù cambiamenti nel modo in cui l’educazionedi base è concepita, organizzata, realizzata evalutata e nel modo in cui governi e comunitàcooperano; soprattutto, una pedagogia del suc-cesso dovrà sostituire quella fallimentare. Sa-ranno necessari miglioramenti anche nei ma-teriali, nel curriculum, nei metodi di inse-gnamento e nella continua formazione profes-sionale delle persone coinvolte; anche i rap-porti educativi all’interno di molteplici realtàculturali e in contesti di crescente interdi-

6 Unesco-Section for Special Needs Education, Inclusive Education and EFA, op. cit.

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pendenza globale risultano attraversati da re-sponsabilità personali e istituzionali, dall’im-pegno per i diritti umani e per un’attiva citta-dinanza democratica. L’Unesco auspica che siavviino indagini rivolte al sociale e alla ricer-ca etnografica, cosicché gli attuali approcciinnovativi possano essere sottoposti alla va-lutazione formativa come base per l’identifi-cazione e la rapida diffusione delle possibilitàmigliori, per fornire l’educazione di base atutti i bambini e per un sistema educativa-mente solido e qualitativo. Naturalmente, tuttequeste indicazioni necessitano di tempo peressere progettate, realizzate, valutate e gene-ralizzate; richiederanno risorse umane e fi-nanziarie da parte sia dei governi che degliorganismi internazionali (a tutt’oggi circa 130milioni di bambini non stanno ricevendo alcu-na forma di educazione-istruzione).

La sfida è enorme, ma non insuperabile sesi avvieranno velocemente i progetti contem-plati e questa sfida per vincere l’esclusioneriguarda tutti, ricchi e poveri, ma include unaresponsabilità maggiore in coloro che hannomolteplici possibilità economiche, sociali, cul-turali e personali.

La situazione italiana

L’Italia rimane l’unico Paese al mondo aprevedere percorsi ordinari (pubblici, nellescuole di tutti) per tutti gli alunni. Abbiamouna piccola memoria storica: trent’anni diesperienza e dodici dall’emanazione di unaLegge-quadro (L. 104/92, in fase di revisione),considerata dagli altri Paesi europei ed ex-traeuropei di grande civiltà. Gli studiosi sti-mano che le politiche di integrazione abbiano

rappresentato, fino agli anni Novanta circa,una variabile indipendente delle politiche sco-lastiche generali: cioè la normativa dell’inte-grazione era orientata a rompere il tessutodel sistema scolastico per aprirlo all’accoglien-za (L. 118/71 e L. 820/71). Dagli anni Novantaa oggi, gli aspetti dell’integrazione sono statimaggiormente affrontati nell’ambito dellenorme generali (qualità del servizio scolasti-co, nella quale viene compresa la qualità del-l’integrazione), favorendo il passaggio dell’in-tegrazione a variabile dipendente.7

Possiamo dire che in Italia l’integrazioneha reso normale (usuale) la presenza deglialunni con disabilità, questione non scontatanegli altri Paesi, connotandola come decisio-ne irrinunciabile e diffusa, entrata nel pienodella sua maturità. Ma proprio perché affer-mata e matura, si tratta di una scelta damigliorare sul piano qualitativo, per permet-tere che l’inserimento divenga reale processodi integrazione, cioè vada a incidere sulleistanze educative del soggetto disabile, maanche a elevare la sensibilità sociale e l’atteg-giamento culturale; soprattutto a ridurre glistereotipi. Il miglioramento va nella direzio-ne di utilizzare i territori di appartenenza(l’integrazione nelle classi comuni), parteci-pare alla vita di classe per apprendere, diffe-renziare i percorsi formativi ancorandoli aquelli dell’intera classe, rispondendo agli in-dicatori che chiedono: dove si trovano gli indi-vidui disabili? con chi sono? perché vi sonopersone disabili inserite nell’istituzione scola-stica? e come vivono l’esperienza scolastica lepersone disabili?, focalizzando la questionenon esclusivamente sulla socializzazione, maanche sull’apprendimento (di tutti).8

7 D. Ianes, F. Celi e S. Cramerotti, Il Piano educativo individualizzato. Progetto di vita. Guida 2003-2005, Trento,Erickson, 2003, pp. 677-733.

8 A. Canevaro, Alla ricerca degli indicatori della qualità dell’integrazione, in D. Ianes e M. Tortello (a cura di), Laqualità dell’integrazione scolastica. Disabilità, disturbi dell’apprendimento e differenze individuali, Trento, Eri-ckson, 1999, pp. 21-30; A. Canevaro, Insegnante specializzato/a, «Cooperazione Educativa», n. 2, 2001, pp. 22-26.

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Nell’istituzione scolastica, l’insegnante chelavora per la riduzione della disabilità diven-ta uno specialista di complessità,9 innanzi-tutto perché deve contemperare socializza-zione e apprendimento, svolgendo due fun-zioni care a Bion, che andrebbero indicatecome materna e paterna e di cui anche Forna-ri ha ampiamente trattato.10 Secondo taleorientamento, che ha le sue fondamenta nelleteorie psicoanalitiche e gruppali, le relazioniintrafamiliari si esplicano attraverso modali-tà materne e paterne, le prime volte all’acco-glimento del bisogno e del desiderio del bam-bino/ragazzo e alla loro traduzione, le secon-de intese come richieste di sforzo graduatesecondo le capacità del soggetto in crescita.11

Entrambe le modalità educative materne epaterne, sia quelle ascritte alla protezione,all’accoglienza e al sostegno che quelle tesealla separazione, all’autonomia e alla frustra-zione, dovrebbero essere comprese nei diffe-renti codici familiari mantenendo una decli-nazione integrata e non scissa salvaguardan-do, così, la sopravvivenza non solo del bambi-no reale che ha bisogno, innanzitutto, di pro-tezione, di aiuto, di accudimento e di difesa,ma anche del bambino culturale che, per di-

ventare tale, proprio di differenziazione, diautonomia, di separazione e di prove ha biso-gno.12 Spesso, tuttavia, assistiamo a distor-sioni più o meno gravi nelle relazioni inter-personali tra adulti e minori: alcune sono sta-te segnalate dagli studiosi che da anni sonoimpegnati in ricerche pertinenti la preven-zione del disagio giovanile, mettendo in lucecome l’eccessiva dipendenza e la mancata se-parazione, soprattutto mentale e intrapsichi-ca, oltreché fisica, dei figli dai genitori e daaltri adulti, insegnanti compresi, siano re-sponsabili dell’eterna adolescenza di moltigiovani d’oggi e, almeno in parte, di alcuneforme patologiche di dipendenza. I ricercatoriche si ritrovano in questa linea teorica13 avan-zano l’ipotesi che, dagli anni Settanta in poi,vi sia stata un’esclusiva assunzione, risultataper molti versi benefica, di modalità materneda parte dei padri i quali, grazie a questenuove caratteristiche relazionali, hanno po-tuto vivere ricchi e profondi rapporti con ipropri figli. Di contro, però, è venuta a manca-re un’equivalente valorizzazione delle moda-lità paterne che promuovono la crescita stes-sa del minore: la sollecitazione alla separa-zione e all’individuazione di sé non più come

9 L’espressione, estremamente appropriata, è utilizzata da P. Gaspari in Aver cura, op. cit., p. 84.10 A tal proposito si considerino le seguenti opere: M. Pavone, Quale formazione per l’insegnante di sostegno?, «Scuola

Italiana Moderna», 2003, pp. 10-14; W.R. Bion, Apprendere dall’esperienza, Roma, Armando, 1972 e, dello stessoautore, Esperienze nei gruppi, Roma, Armando, 1971; F. Fornari, Il codice vivente, Torino, Bollati Boringhieri, 1981e, dello stesso autore, Simbolo e codice, Milano, Feltrinelli, 1976.

11 A. Chirico (a cura di), Tossicodipendenza e disagio giovanile, Torino, Omega, 1984, p. 20.12 F. Fornari, ponendosi in una prospettiva storico-evolutiva, ha ipotizzato la fissazione nella struttura psichica della

nostra specie di veri e propri codici affettivi di base deputati a orientare i nostri comportamenti affettivi in senoal gruppo familiare. Egli ha parlato di un codice materno, centrato sull’accoglimento del bisogno di dipendenza delbambino, di un codice del bambino, centrato sull’affermazione onnipotente del bisogno, di un codice paterno,centrato sull’autonomizzazione del bambino, e di un codice dei fratelli, centrato sulla competizione-collaborazione;vedi anche F. Fornari, Il codice vivente, op. cit.; F. Fornari, L. Frontori e C. Riva Crugnola, Psicoanalisi in ospedale.Nascita e affetti nell’istituzione, Milano, Raffaello Cortina, 1985. Per un approfondimento di questo tema in chiaveeducativa vedi anche R. Caldin, Famiglia e scuola: confronto e attese, in D. Orlando Cian (a cura di), Ragazzi,genitori e insegnanti a confronto. Dall’indagine alla proposta educativa, Milano, Unicopli, 1996, pp. 149-172.

13 Oltre agli autori già citati, si considerino anche G. Pietropolli Charmet (a cura di), L’adolescente nella società senzapadri, Milano, Unicopli, 1990; L. Ancona, Il problema dell’adolescenza. Lo stato delle cose, in V. Carminati Longoe R. Ghindelli (a cura di), Adolescenza-Sfida e risorsa della famiglia, Milano, Vita e Pensiero, 1993, pp. 26 e seg.;P. Donati (a cura di), Terzo Rapporto sulla famiglia in Italia, Milano, San Paolo, 1993.

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figlio/a dipendente, ma come soggetto dotatodi una propria identità maschile e femminile,l’assunzione della responsabilità, la promo-zione dell’autonomia, la differenziazione, lafrustrazione ottimale, il senso del limite, l’eser-cizio della rinuncia, hanno finito con l’occupa-re posti marginali e fuori moda nelle teoriepedagogiche e nelle situazioni educative. An-che le teorie filosofiche e sociali del padreautoritario e dell’autoritarismo14 hanno pro-dotto una cultura educativa eccessivamentecalibrata sulla maternalizzazione delle fun-zioni svolte dalle figure genitoriali, fino a ren-derle per lo più omogenee e confusive,15 a sca-pito dell’autorevolezza paterna che rappre-senta la spinta propulsiva indispensabile alragazzo che procede verso la maturità. Nellarelazione educativa familiare il rapporto adul-to-bambino/ragazzo si configura prevalente-mente in un clima affettivo fortemente con-notato, anche se non manca la valorizzazionedegli aspetti cognitivi; nell’istituzione scola-stica, invece, l’insegnante introduce aspettiaffettivi in una relazione basata essenzial-mente, e necessariamente, sul potenziamen-to degli elementi cognitivi. Funzione del pa-dre e della famiglia è favorire la crescita affet-tiva ed emotiva del bambino introducendoelementi cognitivi; funzione dell’insegnante èfavorire lo sviluppo cognitivo tenendo conto,nella relazione educativa, dell’importanzadegli aspetti affettivi che veicolano l’appren-dimento. Per favorire l’apprendimento è ne-cessario rifarsi al senso dell’ad-prehendere,del ricercare con profonda tensione verso laconoscenza e l’accettazione del cambiamento:sul piano pedagogico questi richiedono la stra-tegia della frustrazione ottimale, cioè di

graduare, secondo il codice paterno, le richie-ste di prestazione sulla base delle capacitàcognitive, emotive e affettive del singolo e delgruppo.16 Ciò significa che gli insegnanti pro-muovono crescita personale (cognitiva, affet-tiva e relazionale) nei loro alunni, attraversol’utilizzo di un codice prevalentemente pater-no (teso a sollecitare l’iniziativa e l’impegnopersonali, l’uso critico del pensiero, il sensodel reale) e non esclusivamente materno(orientato all’accoglimento del bisogno, all’am-pliamento del pensiero dipendente, alla con-ferma delle fantasie onnipotenti). I codici af-fettivi, infatti, si storicizzerebbero in primisnell’ambito della vita familiare, successiva-mente in quella collettiva e, perciò, anche nel-l’istituzione scolastica.

L’integrazione in Italia sembra accentra-ta troppo sulla funzione materna e ancoratroppo poco su quella paterna: cioè, il coinvol-gimento affettivo è visibile e riscontrabile inbuona parte degli insegnanti di sostegno (enon intendiamo rinunciare a questo), ma sem-bra talvolta avere una natura compensativa,riguardo all’assenza di risposta più mirata especifica.17

Come indica Pavone, richiamandosi a Bion,l’insegnante vive continuamente una dupliceidentità:

– nei confronti dell’alunno con disabilità, nellamisura in cui diviene interprete dei bisognieducativi del minore disabile presso la co-munità scolastica: si tratta di svolgere unafunzione contenitiva/assertiva, di prossimi-tà affettiva che si svolge e si rimarca in unatemporalità presente;

– nei confronti del contesto in cui lavora, nel-la direzione di sollecitare l’iniziativa dei

14 AA.VV., La personalità autoritaria, Milano, Edizioni di Comunità, 1973, 2 voll.15 G. Pietropolli Charmet (a cura di), L’adolescente nella società senza padri, op. cit., pp. 38-46; P. Donati (a cura di),

Secondo Rapporto sulla famiglia in Italia, Cisf, Milano, Paoline, 1991, p. 43.16 A. Chirico (a cura di), Tossicodipendenza e disagio giovanile, op. cit., pp. 49-64.17 A. Canevaro, Insegnante specializzato/a, op. cit., p. 25.

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docenti curricolari e dei compagni di classead aver cura dell’apprendimento dello stu-dente con disabilità: si tratta di una funzio-ne regolativo-prescrittiva, di apprendimen-to e di emancipazione, che si snoda e proce-de in una temporalità futura.18

L’insegnante continua a svolgere questaduplice funzione anche nei confronti dell’alun-no e dei suoi familiari, sollecitandoli, per quan-to possibile, verso l’esigibilità dei diritti di se-conda generazione (economici, sociali, cultu-rali) nei quali, però, troppo spesso, la disabili-tà si declina sulle mancanze, riproducendoall’infinito il bisogno di aiuto (assistenziali-smo). Ma l’insegnante che abita le situazionidi complessità (come la disabilità) spinge an-che verso i diritti di prima generazione, civili,politici (diritto alla vita, alla sicurezza, allalibertà di pensiero, di coscienza, di religione edi espressione, di associazione, di fondare unafamiglia, di essere eletto, di partecipare allavita politica, ecc.), che portano alla costruzionedell’individuo come soggetto capace .19

Inoltre, non va dimenticato che la proget-tualità personale e la capacità decisionale sibasano anche su una verificata conoscenza disé (informazione, valutazione, interpretazio-ne, decisione, anche se rimane il problema, cherichiederebbe una trattazione a sé stante, del-la malattia mentale che ostacola l’espressionedi un progetto esistenziale o ne snatura ilsenso): in tale ottica, bisogna insistere sullaconoscenza e sulla familiarizzazione della me-

nomazione da parte di tutti gli alunni, perevitare quella emarginazione socioaffettiva chederiva dal senso di colpa che possono vivere lepersone normodotate nel timore di farsi caricodi un rapporto troppo intenso o troppo avvin-ghiante nell’incontro con il ragazzo disabile.20

Va inoltre richiesto agli stessi studenti condisabilità — invitando all’espressione verbalee alla messa in comune dei sentimenti e deivissuti personali — di condividere i loro senti-menti e le loro emozioni — senza violazionipsicologiche — con il gruppo classe. Soprattut-to in età adolescenziale, infatti, ma anche nel-le fasi precedenti dello sviluppo della persona-lità, i ragazzi disabili — come tutti — si guar-dano e si definiscono con gli occhi e con leparole degli altri (il gruppo di appartenenza),che rimandano frammenti d’identità che i sog-getti interessati devono poi comporre.21

L’insegnante che lavora per la riduzionedella disabilità è, dunque, secondo la feliceespressione di Gaspari, già citata, uno specia-lista di complessità perché necessita di cono-scenze multidisciplinari (e di pratiche oppor-tune) e di approcci operativi multimodali; diancoraggio a contesti ampi e non separati.Egli si muove in un ambito problematico, com-plesso, all’interno di una scienza al confine(Pedagogia speciale), si colloca in un ambitodi frontiera che va a scoprire marginalità eemergenze, coglie articolazioni di significatoaltrimenti poco visibili o trascurate, funge davoce problematicizzante, anche per chi e con

18 M. Pavone, Quale formazione per l’insegnante di sostegno?, op. cit., pp. 11-12.19 P. Barcellona, I diritti economici, sociali e culturali nell’ordinamento interno, in AA.VV. (a cura di), Diritti

economici, sociali e culturali nella prospettiva di un nuovo stato sociale, Padova, Cedam, 1990, pp. 26 e segg.; R.Belli, La libertà inviolabile del disabile, in id., Pace, diritti dell’uomo, diritti dei popoli, n. 2, 1988, pp. 62 e segg.

20 A. Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, op. cit., pp. 86-98; vedi anche il saggio di M.A. Galanti,Disabilità e integrazione nel ’900: considerazioni sui percorsi della ricerca, in F. Cambi e M. Chiaranda (a cura di),Storia della pedagogia. Storia dell’educazione, «Studium Educationis», n. 2, 2001, pp. 375-387.

21 E. Montobbio (a cura di), Il falso sé nell’handicappato mentale, Pisa, Del Cerro, 1992; E. Montobbio e M. Grondona,La casa senza specchi, Torino, Omega, 1942; E. Montobbio e C. Lepri, Chi sarei se potessi essere. La condizioneadulta del disabile mentale, Pisa, Del Cerro, 2000; E. Montobbio e A.M. Navone, Prova in altro modo. L’inserimentolavorativo socio-assistenziale di persone con disabilità marcata, Pisa, Del Cerro, 2003.

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chi non ha voce; svolge una funzione trasgres-siva verso l’esistente (per modificarlo, anchese, talvolta, in minima parte); effettua un per-corso euristico di potenziamento di strumen-ti critici, di riflessione e operativi, di azione, dilogiche integrate, interdisciplinari, plurimo-dali e reticolari.

L’insegnante che lavora per la riduzionedella disabilità interviene attraverso una pro-gettualità intesa come attività orientata al fu-turo, una capacità di organizzare, di costruire,ma anche di leggere, interpretare sistemi diazioni, di simboli, di possibilità di cambiamen-to; egli promuove e realizza interventi educati-vi a elevato contenuto simbolico senza ridurrela sua azione a momenti di esasperato profes-sionismo di natura tecnico-metodologica, maripristina le condizioni educative atte a indivi-duare orizzonti di senso e di significato esi-stenziale in un clima di accoglienza e di effet-tiva condivisione delle esperienze,22 anche dovetale significatività sembra non esistere e doveil senso comune intravede immobilismo e inat-tività (minaccia onnipresente nella disabilità):ragion per cui, l’espressione insegnante di so-stegno risulta riduttiva e troppo circoscritta.23

I luoghi della formazione

Vorrei, come docente che si occupa dellaformazione degli insegnanti che lavorano perla riduzione della disabilità, indicare, sinteti-camente, due luoghi nei quali avviene tale

formazione in ambito universitario: uno riguar-dante la didattica dell’insegnamento, l’altroconcernente il tirocinio; e vorrei puntualizzarliproprio al fine di evidenziare come possanocontribuire alla costruzione (oppure no) diun’identità più rigorosa e pertinente dell’inse-gnante che si occupa di processi inclusivi.

La didattica

Più che a una didattica dell’insegnamen-to, nella quale la lezione rimane insostituibi-le per l’inquadramento problematico degli ar-gomenti e per la sintesi concettuale degli stes-si, desidero qui riferirmi a una didattica cheha cura dell’apprendimento e dei problemi dichi apprende,24 nel tentativo di aumentare laconsapevolezza degli studenti riguardo, peresempio, ad alcuni temi della disabilità.

In quest’ambito, la preoccupazione mag-giore, per il futuro insegnante, risulta quasisempre quella legata al possesso di tecnicheatte a fronteggiare le manifestazioni, talvoltaimprevedibili o ritenute pericolose della per-sona disabile e/o la martellante ossessione dipadroneggiare metodologie e abilità idonee afavorire, nell’individuo disabile, una qualcheforma di apprendimento che annulli, o perlo-meno allontani, il fantasma della propria ina-deguatezza educativa. E, tuttavia, la resisten-za maggiore è costituita dalle rappresenta-zioni mentali standardizzate che indicano ilsoggetto disabile come malato da curare ocome bambino da proteggere:25 alcune sin-

22 P. Gaspari, Aver cura. Pedagogia speciale e territori di confine, op. cit., pp. 70-71 e seg.; vedi anche, della stessa autrice,Un’epistemologia per la pedagogia speciale, in A. Canevaro (a cura di), Pedagogia speciale, op. cit., pp. 567-580.

23 Possiede una sua significatività, che va ampliata, il termine insegnante specializzato/a: vedi anche A. Canevaro,Insegnante specializzato/a, op. cit., pp. 22-26; M. Pavone, Quale formazione per l’insegnante di sostegno?, op. cit.,pp. 10-14.

24 B. Grassilli, La didattica nell’Università che cambia, in C. Xodo (a cura di), L’università oggi. Università Sapere/Formazione Mercato, Seconda Biennale sulla Didattica Universitaria, Padova, Cleup, 2000, pp. 45-58.

25 E. Montobbio (a cura di), Il falso sé nell’handicappato mentale, op. cit.; E. Montobbio e M. Grondona, La casa senzaspecchi, op. cit.; E. Montobbio e C. Lepri, Chi sarei se potessi essere. La condizione adulta del disabile mentale, op.cit.; E. Montobbio e A.M. Navone, Prova in altro modo. L’inserimento lavorativo socio-assistenziale di persone condisabilità marcata, op. cit.

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tetiche domande, infatti, poste all’inizio delcorso, si accompagnano in larga parte a rispo-ste che includono preconcetti, distorsioni, fal-si sguardi (sulle persone con disabilità), fattidi indulgenza, di compassione, di disistima.Tutto ciò mi ha indotta a scegliere, nel corsodi Pedagogia speciale, un approccio che vuolele persone disabili (e gli studenti disabili inparticolare) come protagoniste del corso stes-so, affinché gli studenti conoscano dalle loroparole, dai loro sguardi, dalle loro emozionivincoli e potenzialità della loro storia. Da unaprima lettura dei risultati della ricerca —alla quale rimandiamo per tutti gli approfon-dimenti del caso26 — emerge che l’incontrocon le persone (compresi gli studenti) disabilisembra influire in maniera determinante suicambiamenti che possono permettere nuovemodalità di approccio al tema della disabilitàe facilitano l’attenuarsi di rappresentazioniobsolete. Ricordo che si tratta, però, di un’azio-ne mediata simbolicamente, svolta in un’aulauniversitaria, all’interno di un corso accade-mico, guidata da un docente, condivisa conaltri studenti, tesa a valorizzare, con gli stu-denti disabili, la zona comune di essere stu-denti, essere giovani, ecc., facilitando l’empa-tia e l’identificazione. Ricordo anche che, comealcuni studiosi ci hanno insegnato, molto spes-so, l’unico modo per parlare di persone disabi-li e di disabilità risulta essere quello realizza-to con lo sguardo, plurale e non unitario, deglialtri: medici, psichiatri, infermieri, terapisti,educatori, insegnanti (compresi i docenti uni-versitari) leggono con i propri occhi la vitadell’altro: ma così la storia e i vissuti dei sog-getti disabili risultano troppo spesso gestiti

da altri e si presentano come mediati, mutila-ti, frammentati, parziali.27

Anche la conoscenza diretta, sul campo, dialcuni modelli di servizi per la riduzione delladisabilità è risultata efficace ai fini di un ap-proccio integrato alla disabilità. Perché, percoloro che si occupano di disabilità, è necessa-rio tenere intrecciate sempre le dimensioniteoriche e quelle pratiche, e quindi svolgereuna frequentazione abituale con le personeche hanno bisogni particolari legati a un defi-cit.28 Certo, è necessaria una didattica di ec-cellenza, che si rinnovi continuamente, checontinuamente riaggiusti il tiro: il quadro delledisabilità è in continuo cambiamento (bastipensare ai deficit causati da situazioni belli-che, a quelli derivanti da gestazioni un tempoirrealizzabili, a quelli provocati dalla povertào dal mancato accesso alle cure mediche).

Il tirocinio

Le studentesse e gli studenti che seguodurante il tirocinio svolgono la loro attivitàpresso scuole che si interessano, anche inmaniera estremamente diversificata, di disa-bilità. Sottolineo in maniera estremamentediversificata perché anche nell’ambito delladisabilità vi possono essere delle situazioniabbastanza consuete (già sperimentate o conuna qualche memoria educativa — pensiamoal lavoro con le persone Down, con i disabilivisivi o uditivi) accanto ad altre situazioni-limite (il lavoro con la disabilità psichica gra-vissima o con bambini con pluridisabilità).Quali sono gli scopi dei tirocini in questoambito?

26 R. Caldin, M. Pradal e M. Santi, Disabilità e didattica universitaria, Padova, Cleup (in corso di stampa).27 Ph. Ariès, Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, Bari, Laterza, 1960; A. Goussot, Storia e handicap: fonti,

concetti e problematiche, in A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati, Roma,Carocci, 2000, pp. 27-73; J.P. Sartre, Critica della ragione dialettica, Milano, Il Saggiatore, 1975.

28 A. Canevaro, La pedagogia speciale, in A. Canevaro (a cura di), Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, op.cit., pp. 545-551.

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– Innanzitutto la familiarizzazione, ovvero laconoscenza diretta delle persone disabili,che, tuttavia, superi l’approccio emotivo e lofaccia evolvere in coevoluzione,29 ossia nelcrescere insieme la persona disabile e il tiro-cinante attraverso la condivisione tangibiledelle situazioni quotidiane ma anche, dovepossibile, la partecipazione a significati esi-stenziali comuni (per esempio, svolgere lestesse attività può aiutare a riconfermarsiin una identità normale e non solo speciale,e questo significa portare la disabilità a ter-ritori di appartenenza, a esperienze svoltenormalmente insieme, per permettere an-che all’individuo disabile di fare cose nor-mali, senza annegare in situazioni multite-rapiche30 anche quando non ce n’è bisogno.Si tratta di progettare il tirocinio come espe-rienza formativa (collegamento tra teoria/contenuti/didattica e operatività).

– In secondo luogo, quello di rileggere, allaluce di questa esperienza, che ha una suacontinuità temporale, le rappresentazionimentali e sociali (innanzitutto le proprie)rispetto alle persone disabili, sviluppandouna sensibilità educativa raffinata, chesappia cogliere nelle situazioni difficili especiali intrecci e contrasti con situazioniabituali.

Vorrei ricordare, però, che gran parte delsuccesso dell’attività di tirocinio dipende, ol-treché dallo studente e dal docente di riferi-mento, anche dal tasso di prescrittività delle

29 A. Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, op. cit., pp. 86-98.30 E. Montobbio e M. Grondona, La casa senza specchi, op. cit.; E. Montobbio e C. Lepri, Chi sarei se potessi essere. La

condizione adulta del disabile mentale, op. cit.; E. Montobbio e A.M. Navone, Prova in altro modo. L’inserimentolavorativo socio-assistenziale di persone con disabilità marcata, op. cit.

31 A. Canevaro e J. Gaudreau, L’educazione degli handicappati. Dai primi tentativi alla pedagogia moderna, Roma,NIS, 1989; A. Canevaro e A. Goussot (a cura di), La difficile storia degli handicappati, op. cit.

32 F. Montuschi, La pedagogia speciale tra ispirazione salvifica e competenze scientifiche, in A. Canevaro (a cura di),Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, op. cit., pp. 552-566.

33 M. Heidegger, Essere e tempo, Milano, Longanesi, 1976.34 P. Freire, L’educazione come pratica della libertà, Milano, Mondadori, 1973.* Luigi d’Alonzo, Docente di Pedagogia Speciale, Università Cattolica di Milano.

singole scuole e dei singoli insegnanti acco-glienti: perché l’esperienza diretta permettela sperimentazione delle potenzialità e deilimiti del tirocinante/futuro insegnante chenon è un salvatore, né un superman che risol-ve i problemi degli altri, che non solo aiuta maviene anche aiutato a ridefinire la propriaidentità anche da colui che va ad aiutare.31

Perché, in questo reciproco gioco delle iden-tità, se è necessaria l’ispirazione salvifica peravvicinarsi al prossimo,32 essa non può dege-nerare nella salvazione e nel dominio:33 solo ilriconoscimento della storia dell’altro, infatti,ci induce ad ampliare lo spazio della forzadell’altro e delle sue potenzialità che, troppospesso, sembrano non esistere perché noi lecrediamo interamente consumate dalla de-bolezza, dalla disabilità o dalla povertà.34

3. Luigi d’Alonzo*L’impegno del gruppo dei docentiuniversitari di Pedagogia Speciale

L’Università sta vivendo, ormai da diver-so tempo, una stagione di profondi cambia-menti normativi e strutturali: i nuovi corsiuniversitari, le lauree triennali e quelle spe-cialistiche, i master di primo e secondo grado,i corsi di specializzazione hanno sconvolto estanno modificando profondamente la tradi-zionale vita dell’Ateneo. I docenti universita-ri hanno dedicato molto tempo alla program-

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mazione e all’organizzazione di questi per-corsi certamente innovativi, ma assai com-plessi. Gli insegnanti di Pedagogia Specialehanno dovuto, inoltre, sobbarcarsi carichi dilavoro ulteriori poiché, nel frattempo, variedirettive ministeriali hanno proposto nuovicorsi di specializzazione per insegnanti disostegno:

– un modulo aggiuntivo di 400 ore per i diplo-mati delle Scuole di Specializzazione perl’Insegnamento Secondario (SISS);

– un corso di 800 ore, riservato ai docenti discuola secondaria abilitati attraverso varicanali, ma sprovvisti del titolo specifico,per i non abilitati SISS;

– un percorso formativo aggiuntivo di 400ore per i laureandi in Scienza della Forma-zione Primaria.

I cambiamenti e le ricadute educative

Questi mutamenti vanno ad aggiungersiai molti che si stanno vivendo nei vari settoridella vita civile: pensiamo alla riforma scola-stica, a quella previdenziale, a quella sanita-ria, a quella giudiziaria; il nostro Paese sem-bra un grande e operoso cantiere. Il problemaè cercare di capire che cosa si costruisce e perchi si costruisce. In un momento così delicatocoloro che rischiano di essere vittime dei ri-volgimenti sociali e culturali sono certamen-te i più deboli, le persone che hanno a disposi-zione meno risorse e meno capacità, coloroche per affrontare la vita necessitano di aiutispecifici: le persone disabili.

Viviamo in una società complessa dove ilprogresso economico e tecnologico ha appor-tato enormi cambiamenti a livello struttura-le con profonde conseguenze a livello sociale.Giustamente si sostiene che occorre educarea «nuotare nel mare». Se prima l’uomo poteva

espandere le sue potenzialità riuscendo adattuare le proprie abilità e competenze nello«stagno vicino a casa», ora non è più possibile,bisogna che l’uomo impari a nuotare nel mare,lontano da casa, in altri lidi, verso altri ap-prodi.

Ogni cambiamento culturale e sociale hadelle precise conseguenze in campo educati-vo: attualmente l’uomo ha bisogno di posse-dere un ampio bagaglio di conoscenze tecni-che e culturali per potersi inserire adeguata-mente in questa realtà sociale, economica epolitica. Oggi «la conoscenza» è potere. Sola-mente colui che «sa», colui che riesce a distri-carsi in questo mondo soggetto a continui erepentini rivolgimenti tecnologici, culturali,sociali ed economici, può ambire a essere «li-bero».35

Tuttavia una persona, per essere veramen-te «indipendente» oltre che «libera», deve pos-sedere una grande quantità di abilità indivi-duali, sociali e culturali; data la complessitàdella nostra società stanno sempre più au-mentando l’entità e la qualità di tali abilità e lecompetenze necessarie che rappresentano ilpresupposto per poterne fare parte in mododiretto, agendo in essa con piena dignità.

In questa prospettiva non possiamo cheessere d’accordo con coloro i quali pensanocon angoscia al futuro delle persone disabili,le maggiori candidate a essere escluse da unvita «indipendente e libera», con conseguenteperdita di dignità.

È chiaro che una persona, se vuole riusci-re a esercitare appieno la propria umanità,deve possedere informazioni, conoscenze,esperienze e potenzialità intellettive semprepiù raffinate. Se questo è un problema pertutti gli educatori al servizio della gioventù,lo è tanto più per coloro che si occupano deisoggetti disabili.

35 L. D’Alonzo, Handicap: Obiettivo libertà, Brescia, La Scuola, 1997.

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Il ruolo della Pedagogia Speciale

La Pedagogia Speciale ha il compito diindicare un corretto e sicuro cammino pertutti coloro che si occupano di persone proble-matiche e questo perché gli individui disabiliesistono, vivono e meritano un rispetto chedeve trovare il suo compimento in un’atten-zione somma alla persona. La crisi economicae sociale non deve essere un alibi per arretra-re culturalmente e per non offrire più a questisoggetti tutto ciò che la loro condizione richie-de poiché l’integrazione non è un valore dimercato.

Le conquiste effettuate in questi anni, lapresenza di soggetti disabili a scuola, il dirit-to all’integrazione come valore ormai condi-viso, i servizi esistenti sul territorio, l’apertu-ra del mondo del lavoro ai soggetti disabili,devono rappresentare una base fondamenta-le per ulteriori conquiste civili e sociali, chenoi vediamo correlata alla competenza e allaprofessionalità di coloro che si occupano delbene comune, che lavorano in posti di respon-sabilità sociale e educativa.

Emerge preponderante la necessità di unamaggiore diffusione delle competenze pedago-giche speciali:36 di fronte alla realtà educativaitaliana odierna nessuno può più permettersidi disinteressarsi delle questioni legate alladisabilità. Nessun insegnante, nessun educa-tore extrascolastico, nessun operatore forma-tivo può escludere di trovare, lungo il propriocammino lavorativo, realtà e ambienti dovesiano presenti educandi che presentano disa-bilità e problematiche più o meno gravi, più omeno evidenti. Per fortuna viviamo in un Pae-se dove tutti possono frequentare la scuola,dove chiunque può accedere ai servizi formati-vi, dove anche le persone più deboli usufrui-

scono dei servizi sociali esistenti sul territorio,dove non esistono realtà educative che posso-no rifiutare e emarginare persone disabili.

Come scienza che studia l’educazione, laPedagogia Speciale è strettamente correlataalla Pedagogia Generale, come questa traeorigine e fondamento dalla necessità di ri-spondere ai vari aspetti e bisogni dell’educa-bilità umana e pone l’educazione al centro delproprio pensiero. La Pedagogia Speciale pen-sa all’educazione ed elabora continuamenteuna sua teoria sull’educazione, non può farnea meno, anche se il suo oggetto è «la rispostaai bisogni là dove si trovano»,37 bisogni parti-colari, bisogni complessi, bisogni speciali. LaPedagogia Speciale deve infatti occuparsi del-l’educabilità di persone che spesso la societàha emarginato, escluso, segregato.

L’educabilità dell’uomo, la teorizzazionesistematica, la prospettiva unificante dei varirapporti scientifici e culturali, la consapevo-lezza che l’obiettivo fondamentale rimane l’at-tuazione più completa dell’umanità dell’edu-cando attraverso il passaggio dall’essere aldover essere, erano e rimangono pilastri fon-danti della Pedagogia e della Pedagogia Spe-ciale; ma ciò che caratterizza in modo peculia-re quest’ultima38 è il compito di dare risposteai bisogni educativi speciali di quell’umanitàche vive ai margini della «normalità», in unacondizione fisica, psichica, sensoriale e com-portamentale che rischierebbe di essere tra-scurata e dimenticata dai dibattiti e dagliinteressi pedagogici.

L’impegno

In questi momenti così difficili da decifra-re, gli insegnanti universitari di Pedagogia

36 L. D’Alonzo, Pedagogia Speciale, Brescia, La Scuola, 2003.37 A. Canevaro, Pedagogia Speciale, Milano, Mondadori, 1999.38 L. D’Alonzo, Pedagogia Speciale, Brescia, La Scuola, 2003.

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Speciale collegati alla Siped (Società Italianadi Pedagogia)39 si sono costituiti come gruppoautonomo al fine di armonizzare i propri in-terventi formativi e i propri protocolli di ricer-ca sulle problematiche pedagogiche speciali.

La Pedagogia Speciale ha bisogno, infatti,di essere salvaguardata e custodita. Essa sioccupa di persone che meritano un’attenzio-ne educativa massima e una competenza ne-gli interventi formativi, riabilitativi e socialisempre più fondata scientificamente. I peda-gogisti universitari che si occupano di Peda-gogia Speciale ritengono fondamentale conti-nuare a riflettere su queste tematiche e, dopouna serie di incontri di lavoro, hanno deciso dioffrire un proprio documento sulla formazio-ne dell’insegnante di sostegno.

La formazione dell’insegnantedi sostegno

Il gruppo di Pedagogia Speciale – SIPED(Società Italiana di Pedagogia) propone a tut-ti gli esperti in processi formativi, dirigenti,insegnanti, educatori, formatori, pedagogisti,il seguente documento relativo alla formazio-ne degli insegnanti di sostegno.

1. Formazione specialistica. Si ribadisce l’esi-genza che l’insegnante di sostegno possausufruire di una formazione professionalespecifica in sede universitaria.

2. Formazione trasversale speciale per tuttigli insegnanti. Si afferma la necessità chetutti i docenti, nella loro formazione uni-versitaria, possano beneficiare di moduli edi insegnamenti volti alla formazione spe-ciale di base, capaci di apportare al lorobagaglio professionale competenze educa-tivo-didattiche adeguate a garantire unlavoro qualificato con le persone disabili.

3. Collaborazione sulle competenze. L’inse-gnante di sostegno deve operare in unalogica di collaborazione effettiva con i col-leghi e le altre figure professionali che par-tecipano al progetto di vita della personadisabile, basata sulle rispettive competen-ze operative.

4. Assicurare la presenza continuativa del-l’insegnante di sostegno. È necessario tro-vare modalità operative e amministrativeadeguate in grado di rimuovere le motiva-zioni che portano molti insegnanti di so-stegno ad abbandonare il loro importanteruolo all’interno della scuola.

5. Sistema dei crediti formativi universitari.Il sistema dei crediti formativi deve esse-re un punto nodale capace di favorire, nel-la flessibilità degli ordinamenti accade-mici, la formazione degli insegnanti di so-stegno.

6. La formazione continua. Occorre creareun sistema di formazione continua, capacedi proporre periodicamente agli insegnan-ti di sostegno in servizio moduli e corsiuniversitari in grado di aggiornare il lorosapere pedagogico speciale.

Ultimamente si sta verificando un fattopreoccupante che rischia di comprometteretutti gli sforzi effettuati per portare la scuolaitaliana verso risultati eccellenti sul pianodella convivenza civile: il forte malessere dif-fuso tra gli insegnanti specializzati si espri-me frequentemente nella «fuga» verso l’inse-gnamento curricolare. Molti docenti capaci digestire il problema dell’integrazione in clas-se, spesso ricchi di esperienza, preferisconoabbandonare il lavoro di «sostegno», costrin-gendo le scuole ad affidare il loro delicato eimportantissimo compito a insegnanti volen-terosi, ma spesso non in possesso del necessa-

39 Associazione che annovera la presenza dei docenti universitari che si occupano di Pedagogia in tutti i suoimolteplici settori: didattico, sperimentale, storico, ecc.

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rio bagaglio professionale. I motivi sono mol-teplici e ne possiamo ricordare alcuni:

– lo stress derivante dal fatto di lavorare consituazioni difficili sotto il profilo umano;

– la lotta continua per affermare agli occhidei genitori il proprio ruolo;

– la precarietà di un lavoro legato alla pre-senza di un allievo certificato;

– l’incompetenza di molti colleghi, insegnan-ti di classe, incapaci di interagire con gliallievi difficili.

Siamo fermamente convinti che occorrasalvaguardare attentamente la formazione eil ruolo degli insegnanti di sostegno.

Un insegnante di sostegno capace è in gra-do di rappresentare, per l’intera istituzionescolastica in cui opera, una risorsa per l’inno-vazione educativa e didattica. In ogni realtàscolastica in cui sono presenti validi e compe-tenti insegnanti specializzati si sono riscon-trati degli indubbi processi di maturazioneprofessionale e di incremento delle compe-tenze metodologiche e comunicative dell’in-tero corpo docente. L’insegnante di sostegnocompetente, infatti, favorisce e innesta neisuoi colleghi, a volte anche inconsapevolmen-te, una motivazione ad agire e a programma-re seguendo le indicazioni della ricerca scien-tifica. La sua presenza e la sua professionali-tà sollecitano i colleghi a prendere coscienzadel fatto che occorre impostare un’azione for-mativa calata sui bisogni degli allievi, tesa asoddisfare le necessità personali dei singoli eaderente a basi metodologiche e didatticheaccertate. L’insegnante di sostegno compe-tente, essendo in grado di ancorare la suaprofessionalità agli esiti della ricerca, «costrin-ge» i colleghi a fondare la loro azione su pila-stri educativi scientificamente provati.

4. Marisa PavoneLa formazione degli insegnanti per gestirel’eterogeneità in seno al gruppo classe

Gli esperti di educazione sostengono che,in una scuola inserita nella società della glo-balizzazione, le culture da integrare non ri-guardano tanto le collettività ristrette, iden-tificate da una particolare etnia, cultura, ca-tegoria di persone, ma gli individui stessi,fatti di corpi singolari e di immaginari altret-tanto singolari.40 Per questo, si possono effet-tuare le seguenti considerazioni:

Il dilemma del pluralismo educativo consistenel coniugare i differenti bisogni educativi, cultura-li e personali dei minori, con l’istanza istituzionaledi elaborare un programma educativo comune.41

Morin, il teorico della complessità, a pro-posito della diversità sostiene che essa disor-ganizza il sistema mentre lo riorganizza: legrandi trasformazioni sono morfogenesi, crea-trici di nuove forme, che possono costituirevere metamorfosi.

Si può affermare che la possibilità di fron-teggiare al meglio la sfida rappresentata dal-l’apprendimento di studenti in difficoltà siavincolata al punto di vista che viene assunto:occorre transitare dall’idea di una scuola cheincarna un sistema duale unificato (nella stes-sa classe convivono senza interazioni recipro-che la programmazione disciplinare di classee il Piano Educativo Individualizzato per l’al-lievo/gli allievi in difficoltà), all’idea di unascuola a sistema unico (in cui la classe identi-fica un gruppo di allievi naturalmente etero-geneo, e le differenze si convertono nel modusvivendi naturale dei processi d’aula). In que-sto secondo approccio la flessibilità, l’apertu-ra, l’adattamento presidiano tutto il processo

40 M. Ceruti, Educazione planetaria e complessità umana, in M. Callari Galli, F. Cambi e M. Ceruti (a cura di),Formare alla complessità, Roma, Carocci, 2003, pp. 13-25.

41 B.M. Bullivant, Who controls knowledge power?, «Comparative Education Review», 1983, p. 227.

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di sviluppo curricolare, che si struttura comeuna serie di passaggi e livelli di progressivoadattamento ai contesti di gruppo e indivi-duali.

Si tratta di rifondare un impianto curri-colare e organizzativo innervato in partenza— e non come risultante emergenziale —sulla multidimensionalità progettuale e me-todologica, sull’interazione e sull’interscam-bio tra le persone, sull’aiuto e sullo stimolovicendevole. Occorre superare l’idea diun’educazione differenziata per necessità (leNecessità Educative Speciali di pochi allie-vi), a favore di un’educazione adeguata inpercorsi, metodi, strumenti alle caratteristi-che e anche alle difficoltà di apprendimentodi ciascuno studente. Proponiamo alcuneparole chiave coerenti con una classe intesacome contesto naturalmente eterogeneo: ete-rogeneità/diversità, complessità, progettua-lità sistemica, multidimensionalità, flessibi-lità, integrazione, negoziazione, collegialità,ricerca-azione, competenze professionalinuove.

Lo svizzero Perrenoud individua alcunecompetenze professionali emergenti,42 cherappresentano un orizzonte tendenziale piùche una acquisizione consolidata. Riprendia-mo, con ridotti adattamenti, quelle interes-santi ai fini della gestione delle difficoltà diapprendimento degli allievi:

1. Diagnosticare le difficoltà e gestire la pro-gressione degli apprendimenti individuali.

2. Animare situazioni di apprendimento ecomunità di relazioni favorevoli a ciascunallievo.

3. Ideare e far evolvere dispositivi di diffe-renziazione, utilizzare strategie didatticheintegrate.

4. Lavorare con mentalità aperta alla ricercae alla collaborazione professionale.

1. Diagnosticare le difficoltà e gestirela progressione degli apprendimentiindividuali

Come è noto, l’impianto culturale del pro-getto di riforma della scuola getta le fonda-menta nel concetto di personalizzazione deipiani di studio per ciascuno studente: ci siaspetta che l’insegnante sia in grado di aiu-tare l’allievo — in collaborazione con la fami-glia — a individuare il percorso di formazio-ne e istruzione più favorevole alle sue poten-zialità. Dunque, il progetto di cambiamentodel sistema scolastico muove nella direzionedella gestione di una classe eterogenea perdefinizione, all’interno della quale ciascunodeve trovare un proprio spazio di crescita ematurazione, attraverso i saperi. Ci auguria-mo che questo processo si attualizzi garan-tendo un contesto comunitario, solidaristicoe cooperativo tra gli allievi, evitando di tra-sformare l’aula scolastica in supermercatoculturale del «fai da te». Ma, domandiamoci:di fronte alle difficoltà di apprendimento diuno studente, che cosa ci si aspetta dall’inse-gnante, onde favorire la personalizzazionedel piano di studi e la progressione degli ap-prendimenti?

Senza pretendere l’esaustività, sembra cheil docente debba essere in possesso delle abi-lità indicate di seguito.

In primo luogo occorre individuare la na-tura del problema, o dei problemi, dello stu-dente non solo e non tanto in riferimento allecause, quanto piuttosto alla manifestazionedella difficoltà in termini didattici, generali edisciplinari. A questo proposito, può tornareutile una rapida digressione in casa dellascienza medica, dove gli ultimi approdi relati-vi alla classificazione delle condizioni di disa-bilità, o meglio delle condizioni di salute, of-frono interessanti spunti di riflessione. Nel-

42 P. Perrenoud, Dieci nuove competenze per insegnare, Roma, Anicia, 2002.

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l’ultimo sistema di descrizione ICF (2002),43

l’Organizzazione Mondiale della Sanità spie-ga che la condizione di salute/disabilità (inpresenza di studenti in situazione di handi-cap spesso abbiamo a che fare con specialistidella sanità, con diagnosi funzionali e profilidinamici funzionali) non è dipendente sol-tanto da dimensioni bio-psico-fisiche indivi-duali, ma anche da condizioni contestuali eambientali. Inoltre, e soprattutto, il nuovomodello descrittivo si sofferma non tanto sul-l’eziologia del danno, quanto sulle risposteche il soggetto e l’ambiente possono attivareper contenere/compensare/superare la diffi-coltà. Citiamo un esempio: di fronte a un alun-no con un ritardo di apprendimento in mate-matica, è certamente utile essere edotti sullacausa: un danno genetico, o un ritardo di svi-luppo, o la mancanza di adeguati stimoli daparte della famiglia; ma questa informazionenon giustifica un non intervento, né affievoli-sce la nostra responsabilità educativa, checonsiste nel circostanziare la difficoltà in ter-mini scolastici e disciplinari, e nell’identifica-re di conseguenza gli obiettivi formativi e di-dattici specifici più adeguati al soggetto.

Detto questo, restando in tema di bilanciodi competenza/diagnosi accurata delle diffi-coltà di apprendimento (due facce della stes-sa medaglia) in una particolare materia distudio, ad esempio sempre in matematica,sappiamo che molti dei problemi che l’allievomanifesta in realtà possono concretizzarsicome disturbi di apprendimento in generale,trasversali ad altre discipline, senza riferi-menti specifici a una in particolare. Riassu-mendo, a prescindere dalla causa — che puòessere personale (legata al deficit, a un ritar-do di sviluppo, ecc.) o socioambientale (caren-za di stimoli, situazione di abbandono, ecc.) —

i problemi con la matematica possono espri-mere:

– disturbi di apprendimento generali: cogni-tivi (processi percettivi, comprensione epadronanza del linguaggio verbale orale escritto, comprensione del messaggio, pro-cessi logici, orientamento spazio-tempora-le, organizzazione del pensiero e del lavoro,processi di classificazione, astrazione, ana-lisi/sintesi, acquisizione delle informazio-ni, processi mnemonici, capacità attentive,flessibilità, capacità applicative, ecc.); me-tacognitivi (strategie di elaborazione e diimmagazzinamento delle informazioni,autoconsapevolezza personale e autocon-trollo dei processi cognitivi, capacità di ge-stione delle proprie risorse, capacità di au-todirezione, ecc.); affettivi e motivazionali(autostima, autoefficacia, continuità di im-pegno, volontà, inattività, capacità relazio-nali e collaborative, tolleranza della fru-strazione, ecc.); problemi di comunicazione(preferenza per codici comunicativi nonverbali attivi, iconici, gestuali, ad esempioin presenza di minorazioni sensoriali);

– disturbi di apprendimento specifici relativialla matematica: Villani individua alcunitradizionali nodi critici nell’apprendimen-to della matematica: la terminologia e ilsimbolismo; la sequenzialità degli appren-dimenti; i problemi e la loro traduzione dallinguaggio naturale a quello matematico eviceversa; le tecniche del calcolo; l’astrazio-ne e il rigore.

Questa ricognizione puntigliosa (seppurenon esaustiva) sui possibili ambiti di difficol-tà con la matematica viene effettuata perevidenziare che molte problematiche manife-state dagli alunni sono comuni ad altri campi

43 Organizzazione Mondiale della Sanità, ICF/International Classification of Functioning, Disability and Health,trad. it. Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Trento, Erickson, 2002.

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del sapere, e dunque vanno affrontate in col-laborazione con altri colleghi, nell’ambito diprogetti di intervento condivisi dal team. Larassegna offre lo spunto per sottolineare cheun check up quali-quantitativo circostanzia-to, condotto a livello di classe, permette diprecisare i settori di difficoltà, al fine di po-tenziare gli spazi di intervento, evitare di pro-cedere per tentativi ed errori, impostare unintervento didattico di ampio respiro, miratosui bisogni dei diversi allievi. Tuttavia, il ta-glio analitico della diagnosi non deve trasfe-rirsi automaticamente in un altrettanto ana-litico — «asfittico» — intervento di sostegnoper superare le difficoltà. In fase di propostadidattica, l’approccio alle difficoltà non develimitarsi alla pignola «correzione degli erro-ri», ma va inserito in un’azione formativa «glo-bale», la quale mantenga vivo l’interesse de-gli studenti verso la materia come potentestrumento di interpretazione critica della re-altà che ci circonda. La progettazione del do-cente deve tenere desta negli alunni la con-vinzione che vale la pena di sforzarsi a supe-rare le difficoltà di percorso, perché imparareciascuna disciplina aiuta a migliorare la qua-lità della vita.

In secondo luogo, è necessario padroneg-giare il processo di osservazione continua. «Co-minciate dunque con lo studiare meglio i vo-stri allievi, poiché sicurissimamente non liconoscete affatto», sosteneva Rousseau oltredue secoli or sono. L’osservazione in classe,orientata a conoscere l’allievo, le sue capacitàe difficoltà di apprendimento, deve essere con-dotta tenendo presente il principio della ete-rocronia dello sviluppo (studiato da Zazzonegli anni ’60), in base al quale la personalitàdel soggetto con problemi presenta una confi-gurazione originale, nella quale le diversefunzioni bio-psico-fisiche possono evolvere adiversi livelli di sviluppo. In prospettiva edu-cativo-didattica questa consapevolezza ci por-ta a rilevare, ad esempio, che le eventuali

difficoltà in una particolare disciplina nongettano un’ombra pregiudiziale sulla possibi-lità di migliori apprendimenti in altre mate-rie; e che l’impegno di tutti gli insegnanti stanel rilevare le competenze e le possibilità diapprendimento dello studente, pur in presen-za di aree di difficoltà.

Sul piano procedurale, teniamo presenteche l’attività di osservazione è sempre espo-sta al pericolo della soggettività, in quantol’indagine, la raccolta dei dati, la registrazio-ne e l’interpretazione sono filtrate da chi leconduce. Sono molteplici le «trappole» cheinsidiano il percorso di osservazione: il puntodi vista (visione egocentrata, condizionata dalruolo personale e professionale assunto, dallasensibilità individuale, dalle conoscenze ac-quisite); il pregiudizio (ad esempio pensareche per un allievo disabile il fatto di cimentar-si con la matematica rappresenti un’impresaimpossibile e quindi inutile), l’effetto Pigma-lione (aspettative o mancanza di aspettativedel docente), la reattività degli allievi, soprat-tutto i più fragili (stati di ansia, insicurezza,rifiuto, ecc.), la cristallizzazione dei dati os-servativi in un profilo rigido. È importante laconsapevolezza del fatto che quelli che ognu-no osserva non sono a rigore dei «fatti», madei significati, legati alle rappresentazionimentali personali; è bene avere presente quan-to sia arduo il compito di chi osserva. La pra-tica dell’interosservazione, cioè della nego-ziazione e discussione dei comportamenti os-servati all’interno di un gruppo (ad esempio,il Consiglio di classe), costituisce un’impor-tante opportunità per ridurre gli effetti didistorsione e selettività dell’osservazione in-dividuale. Inoltre è opportuno ricordare cheal centro dell’osservazione non vi è solo ilsingolo allievo, né il docente con le sue aspet-tative (alla luce delle quali osserva la situa-zione), ma la relazione tra il docente (con lesue conoscenze, abilità metacognitive, emo-zioni, convinzioni), la disciplina e l’allievo; dob-

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biamo cioè concepire una situazione osserva-tiva che mette in gioco molte variabili.

In terzo luogo bisogna gestire la progres-sione degli apprendimenti individuali. L’ete-rogeneità nel gruppo classe, se presa sul se-rio, richiede agli insegnanti competenze diinsegnamento disciplinare che vanno al di làdella padronanza di un programma annuale,per poter corrispondere ai ritmi di apprendi-mento degli allievi in difficoltà, oltre che diquelli più bravi. Secondo Perrenoud, il docen-te dovrebbe avere una visione longitudinaledegli obiettivi di insegnamento per diverseragioni: per giudicare con cognizione di causaciò che deve essere assolutamente acquisito(programma minimo essenziale), ciò che deveessere acquisito ora e ciò che potrebbe essereacquisito più tardi, senza conseguenze nega-tive; e per inscrivere ogni apprendimento in-dividuale in una continuità a lungo termine,la cui logica sia quella di contribuire alla co-struzione di competenze spendibili anche fuoridella scuola, e di recuperare il valore formati-vo della materia. Per sviluppare un processodi apprendimento per alunni svantaggiati ènecessario partire dal bilancio di competenzepresenti, operare nel rispetto dei tempi e nel-la consapevolezza che il programma deve es-sere legato non tanto alla ripartizione nellesingole classi o nei cicli, quanto a un progettoglobale di crescita nelle diverse aree temati-che. La scelta degli obiettivi da proporre aglistudenti in difficoltà deve corrispondere a unaselezione di priorità, individuando gli aspettiindispensabili prima di tutto sul piano didat-tico specifico e, quando ciò non è possibile, sulpiano didattico generale; quando non si puòoperare diversamente, almeno sul piano for-mativo. Occorre invece evitare di escluderel’allievo dall’apprendimento di una particola-re disciplina — con la giustificazione che è«astratta» e difficile — perché, in tal modo, losi priverebbe di una feconda possibilità cultu-rale di espansione dell’Io. Bisogna inoltre te-

nere conto che i concetti disciplinari «passa-no» anche attraverso attività di vita pratica(ad esempio, per la matematica: le operazionidi classificazione, seriazione; la valutazionedelle distanze e della direzione durante l’at-traversamento di una strada), o attraversoaltre discipline.

2. Animare situazioni diapprendimento e comunità direlazioni favorevoli per ciascun allievo

L’approccio alla eterogeneità della classenon può che portare a rompere con la pedago-gia frontale: la stessa lezione, gli stessi eserci-zi per tutti. Questo significa porre in essereuna modalità di lavoro per dispositivi didat-tici, tale da mettere ciascun allievo in unasituazione ottimale. Ma in presenza di unaclasse di 20-30 alunni, come poter offrire aciascuno quella che Claparède chiamava «unascuola su misura»? Differenziare l’insegna-mento non significa moltiplicare i percorsiindividualizzati. Ma come far convivere leesigenze differenziate di una moltitudine?Occorre trovare una via di mezzo tra un inse-gnamento frontale inefficace e percorsi per-sonalizzati impraticabili. Sul piano proget-tuale-programmatico, è senza dubbio oppor-tuno che l’insegnante parta da una program-mazione di classe di tipo standard, tagliatasu un’ipotetica (peraltro inesistente) classemedia di riferimento; ma questo «canovaccio»iniziale va rielaborato in modo che in essotrovino spazio i diversi percorsi individualicorrispondenti alle esigenze degli allievi con-creti. La programmazione può essere consi-derata come lo spartito del direttore d’orche-stra, o il copione teatrale: un testo all’internodel quale ciascun orchestrale/attore trova lasua parte — più o meno impegnativa — di-versa da quelle degli altri; un testo a cui tuttifanno riferimento, perché tutti insieme con-tribuiscono a dare vita alla rappresentazio-

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ne, ognuno portando il massimo del suo con-tributo.

Per andare incontro alle diverse esigenzedegli allievi — in primis quelli in difficoltà —bisogna pensare diversamente il lavoro in clas-se: superare la strutturazione della program-mazione a livelli annuali, aprire, creare nuovispazi-tempi di formazione, giocare sui rag-gruppamenti, sui dispositivi didattici, sulleinterazioni, sulle regolazioni, sul mutuo inse-gnamento, sulle tecnologie multimediali. Ladifferenziazione richiede azioni complemen-tari, dunque una forma di inventiva didatticae organizzativa fondata su un «pensiero ar-chitetturale e sistemico».44

È consigliabile elaborare una programma-zione disciplinare che preveda apprendimen-ti a diversi livelli di difficoltà; che all’internodella materia da insegnare identifichi nozio-ni-nocciolo e competenze chiave, attorno allequali declinare gli apprendimenti in modovariato, e in funzione delle quali pilotare illavoro in classe e soprattutto fissare priorità.L’insegnante deve saper fare un importantelavoro di va-e-vieni tra i contenuti, gli obietti-vi e le situazioni di apprendimento. Ad esem-pio, all’interno del modello di programmazio-ne per obiettivi proposto da Bloom (area co-gnitiva), la classificazione tassonomica pre-vede — con ulteriori scansioni interne — obiet-tivi relativi a: conoscenza, comprensione, ap-plicazione, analisi, sintesi, valutazione.45 Nonè detto che tutti gli allievi della classe riesca-no a raggiungere, per ogni apprendimento,tutti i livelli di abilità previsti: per qualcunodi essi possiamo accontentarci della conoscen-za e applicazione, o della conoscenza e com-prensione. Il criterio di scelta deve essere inogni caso la considerazione della qualità/quan-tità degli apprendimenti necessari e compa-tibili con il progetto scolastico e di vita a bre-

ve-medio-lungo termine di quel particolarestudente, senza indebite riduzioni aprioristi-che o orientamenti indotti, e soprattutto sen-za privare l’allievo dell’insegnamento di nes-suna materia di studio (l’«avere cura» heideg-geriano inteso come «sostituirsi dominando»).

Ogni proposta programmatica dovrebbepoter definire la combinazione di interventiindividuali e collettivi: la progettazione indivi-duale per lo studente in difficoltà con intensafrequenza dovrebbe prevedere il raccordo conil lavoro degli altri, utilizzando il contesto comesfondo e motivazione a imparare. L’allievo indifficoltà deve percepire che i compiti di ap-prendimento dei compagni di classe non sonoa lui estranei, e possono essere affrontati adiversi livelli di complessità, possono esserepartecipati. Mentre i compagni svolgono uncompito (ad esempio operazioni inverse congrandi numeri, o studio delle figure geometri-che), lui è in grado di partecipare alla culturadi quello stesso compito: può condividerne l’at-mosfera, il particolare punto di vista di inter-pretazione della realtà (ad esempio, può dram-matizzare una situazione reale di compraven-dita; oppure può ritrovare l’analogo di sempli-ci figure geometriche negli oggetti della vitareale). D’altra parte, nell’esperienza di ciascu-no di noi si verifica la possibilità di parteciparea esperienze culturali, artistiche, ricreative,senza essere pienamente esperti, ma con ilgusto e la curiosità di accrescere nel tempoconoscenza e sensibilità verso quella partico-lare manifestazione di pensiero; può accadereaddirittura che l’assiduità di esposizione solle-citi un interesse di approfondimento, renden-doci gradualmente esperti, o almeno normal-mente competenti per quel tanto che vienerichiesto dalle regole o dal costume sociale delpersonale ambiente di vita. La condivisionedella cultura del compito per gli allievi in diffi-

44 P. Perrenoud, Dieci nuove competenze per insegnare, op. cit., p. 65.45 B. Bloom, Tassonomia degli obiettivi educativi. Volume primo: area cognitiva, Teramo, Giunti & Lisciani, 1983.

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coltà rispetto ai compagni può essere occasio-ne di apprendimento (i costruttivisti usano inproposito l’espressione «conoscenza situata»,fortemente contestualizzata); di crescita per-sonale; di integrazione e di socializzazione.

Sul piano programmatico, è opportuno inol-tre prevedere l’integrazione di differenti mo-delli di programmazione (sempre ammetten-do al loro interno la possibilità di diversificatitraguardi di apprendimento) — ad esempioprogrammazione per obiettivi, percorsi di pro-getto, percorsi per situazioni-problema —, nel-l’intento di offrire agli studenti le più favore-voli situazioni di apprendimento in un conte-sto eterogeneo.

3. Ideare e far evolvere dispositivi didifferenziazione, utilizzare strategiedidattiche integrate

Già si è detto che la presa d’atto dell’etero-geneità del gruppo classe e soprattutto la pre-senza di studenti in difficoltà suggeriscono ilsuperamento del modo tradizionale di «farescuola», in particolare invitano ad abbandona-re il modello univoco della lezione frontale —uguale per tutti, seppure condotta con spiritopaziente e tollerante verso gli allievi con pro-cessi di apprendimento più lenti — a favoredell’organizzazione di situazioni aperte e dicompiti differenziati. Risulta dunque opportu-no e utile diversificare i dispositivi organizza-tivi, le metodologie e i mediatori didattici.

L’insegnamento/apprendimento per unminore con problemi implica attenzione alledimensioni cognitive e affettivo-emozionali;il primo aspetto richiede, a livello di program-mazione didattica, la capacità e la disponibi-lità a semplificare obiettivi, concetti e conte-nuti, passaggi, per aumentarne la compren-sibilità; il secondo esige invece la scelta di

situazioni problematiche e modalità coinvol-genti e rassicuranti, vicine alle esperienze divita reale, sia per suscitare e mantenere lamotivazione ad apprendimenti prevalente-mente simbolici, sia per aiutare il soggetto adavere fiducia nelle sue possibilità, e dunque aesprimere il meglio di sé.

Ogni apprendimento — specie quelli piùcomplessi — è frutto di una mediazione; parti-colarmente per un allievo in difficoltà, la moti-vazione a imparare non risiede nel «condizio-namento sociale, o nella scolarizzazione totaledei saperi»; neppure vale il discorso dell’ap-prendimento «per sé, per la propria vita, per ilfuturo», ma solo per motivi relazionali e istitu-zionali. L’apprendimento è sempre «situato»;dunque deve trovare la prima giustificazionein se stesso, nel contesto classe hic et nunc; èfondato su circostanze relazionali, situate, isti-tuzionali, con obiettivi anche extracognitivi,affettivi. Il che riconduce alla capacità didatti-ca del docente di comunicare, di promuoveresituazioni di apprendimento coinvolgenti, difare proposte diversificate. Si tratta di interve-nire in modo strategico a livello di:

– Modalità organizzative. Meirieu proponedi rinunciare a prevedere come scelta uni-voca l’organizzazione di gruppi omogenei(di livello) a cui proporre un trattamentostandardizzato, in base alle capacità, peraffrontare l’eterogeneità, così come si ma-nifesta davanti alle normali situazioni-pro-blema. La qual cosa porta a dare la prioritàalle regolazioni interattive in situazione,senza rinunciare a qualunque tipo di rego-lazione retroattiva (sostegno) o in itinere, oproattiva (microorientamento verso com-piti e gruppi diversi). L’ideale è riuscire alavorare in alcuni momenti a gruppi di bi-sogni, in altri momenti a gruppi di progettoo di problem solving.46

46 P. Meirieu, Outils pour apprendre en groupe. Apprendre en groupe?, Tome II, Lyon, Chronique sociale, 1989.

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Anche nel nostro Paese, così come oltreocea-no, molte ricerche sperimentali sottolinea-no i vantaggi del mutuo insegnamento, nelledue espressioni più diffuse: l’apprendimentocooperativo e il tutoring; entrambe le tecni-che sono importanti per incrementare ilsenso di responsabilità e per accrescere lasensibilità verso gli altri. Nell’ambiente co-operativo, gli allievi hanno la possibilità didare sostegno ai compagni che apprendonoin modo diverso, più lento, oppure con itine-rari e strumenti differenti. L’obiettivo nonè quello di concludere per primi, ma di por-tare a termine il progetto o il lavoro tuttiinsieme, rispondendone reciprocamente.In un contesto così caratterizzato, il minorein difficoltà può trarre benefici sia sotto ilprofilo affettivo-relazionale, per il fatto chesi intensificano i rapporti con i compagni,sia sotto il profilo strettamente apprenditi-vo, se il coetaneo è capace di adattare ledifficoltà del compito alle possibilità di com-prensione del compagno meno capace. Spet-ta al docente comunque l’iniziativa di solle-citare un ruolo attivo all’interno del grup-po, da parte dello studente con problemi;così come il fare in modo che, nelle situazio-ni di tutoring, egli si trovi a svolgere ancheil ruolo di tutor.

– Strategie metodologiche. Vi è una conside-revole differenza di comportamento nellostudente, se egli considera il compito comeun problema significativo da risolvere, piut-tosto che come un dovere controllato dal-l’esterno, per lui poco pregnante. Spessocon l’allievo in difficoltà il docente tende atrascurare l’importanza dell’opera di «tra-duzione», necessaria a far sì che il contenu-to da apprendere abbia senso; la difficoltàpuò sorgere dal fatto che l’istruzione assu-

me la forma di un discorso scisso dal conte-sto dell’azione. Si può rimediare proponen-do compiti che stimolino l’abito della con-gettura, che suggeriscano modi di ricerca;ciò avviene più agevolmente quando il com-pito viene personalizzato, coinvolgendo ilpunto di vista, i sentimenti, l’interesse del-l’allievo. La grande variabilità delle possi-bili difficoltà di apprendimento delle variediscipline di studio, da parte degli allievi,impedisce di individuare a priori un model-lo di insegnamento universalmente valido.

Ausubel47 ha studiato le varie configura-zioni che può assumere un’esperienza di ap-prendimento. In base al modo con cui la nuo-va conoscenza o abilità viene incorporata nel-l’organizzazione mentale dell’alunno, egli di-stingue tra apprendimento meccanico e ap-prendimento significativo; in base all’itinera-rio attraverso cui le nuove conoscenze e abili-tà vengono acquisite, riconosce un apprendi-mento per ricezione (trasmissione culturale ocomunicazione diretta) e per scoperta auto-noma. L’apprendimento significativo non com-porta necessariamente un apprendimento perscoperta: la scelta del metodo dipende dallecondizioni interne del soggetto, dal tempo di-sponibile, dalle condizioni dell’ambiente sco-lastico, dal contenuto e dagli obiettivi edu-cativi e didattici che si vogliono perseguire. Atitolo esemplificativo, due studiose americane,Karp e Voltz, propongono che l’insegnante inclasse adotti un «approccio intrecciato»,48 ca-ratterizzato dalla presenza di un continuum.A un estremo si troverebbe l’insegnamentodiretto, fornito esplicitamente dall’insegnan-te; a questo proposito, la ricerca ha dimostra-to l’efficacia dell’insegnamento esplicito distrategie cognitive (ad es.: «Guardate: prova-

47 D.P. Ausubel, Educazione e processi cognitivi, Milano, Angeli, 1978.48 K.S. Karp e D.L. Voltz, Matematica e alunni con difficoltà: strategie per l’insegnante curricolare (e di sostegno),

«Difficoltà di apprendimento», vol. 6, n. 2, dicembre 2000, pp. 181-200.

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te a fare con i cubi un rettangolo uguale aquello che ho fatto io»). Al centro dell’ipoteticomodello multiplo vi è l’approccio dell’appren-distato (relazioni esperto-principiante, cheprevedono esperienze di apprendimento strut-turate: l’insegnante, come maestro artigiano,condivide con gli alunni le conoscenze in basea ciò che richiede l’esperienza di vita autenti-ca, contestualizzata); all’estremo opposto delcontinuum vi sono le strategie di tipo costrut-tivista nelle quali l’allievo costruisce autono-mamente la propria conoscenza, attraversol’interazione sociale con i compagni, in gruppicooperativi.

Ognuno di questi approcci presenta van-taggi e svantaggi; gli insegnanti che mettonoin pratica diverse strategie didattiche am-pliano le possibilità di «confezionare» lezioniricche e autentiche, potenzialmente più adat-tabili ai bisogni di tutti gli allievi. Il presup-posto essenziale è che, alla base dell’insegna-mento, vi siano solide conoscenze della disci-plina, competenza pedagogico-didattica e co-noscenza delle caratteristiche degli alunni.

Per quanto concerne l’utilizzo di mediato-ri didattici, il compito più delicato per il do-cente è quello di creare le condizioni per ren-dere il più positivo possibile il rapporto tra lamateria di studio e l’allievo, considerato sin-golarmente e nella dimensione del gruppo.L’azione di insegnare, secondo Damiano, con-siste in un intervento di mediazione, cioè diregolazione della distanza analogica tra il con-tenuto da apprendere e i soggetti che appren-dono, condotta da parte del docente. Nell’or-ganizzare e animare questo «dialogo» egliutilizza segni e strumenti con la funzione dimediatori, per mezzo dei quali agevola la ri-costruzione individuale e collettiva dell’espe-rienza culturale. I mediatori sono i sostitutidella realtà — le sue diverse metafore — con

il compito non soltanto di collocarsi al suoposto, ma soprattutto di effettuare il trasferi-mento; e il loro «stare in mezzo» significa laloro capacità di mantenere, da una parte, ilriferimento alla realtà, dall’altra, il rinvio alsuo sostituto.49 Una caratteristica fondamen-tale dei mediatori è la pluralità. Sono questele tipologie più conosciute e utilizzate nellascuola:

– Mediatori attivi, o «di soglia», che sono pros-simi alla realtà esterna; il modello più pra-ticato è l’esperienza diretta — in un conte-sto reale o in laboratorio — che impegnal’allievo anche nella dimensione corporea;un altro esempio è rappresentato dalla «di-dattica della ricerca», che per gli attivistirappresenta la formula privilegiata, ad altocoefficiente di motivazione. È universalmen-te noto quanto l’esperienza diretta, corpo-rea e manipolativa, rappresenti una tappaimportantissima per favorire l’apprendi-mento di studenti con difficoltà cognitive;la manipolazione concreta di oggetti puòrendere più agevole il passaggio, in un se-condo momento, a rappresentazioni grafi-che o verbali.

– Mediatori iconici, che rappresentano la re-altà mediante immagini (disegni, fotogra-fie, icone, immagini in movimento e sonore,schemi, diagrammi, mappe, ecc.); sono mol-to vicini alla realtà — presentandola inmodo reificato —, pur consentendo mani-polazioni (rallentamenti, ingrandimenti,messe a fuoco, ecc.) che amplificano le po-tenzialità didattiche. Alcuni autori hannostudiato la validità di schemi visivi e dia-grammi per organizzare le informazioniimportanti connesse a problemi matemati-ci, e per evidenziarne le relazioni semanti-che, al fine di facilitare la traduzione in datie operazioni matematiche.

49 E. Damiano, L’azione didattica. Per una teoria dell’insegnamento, Roma, Armando, 1993.

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– Mediatori analogici, che si rifanno alle pos-sibilità di apprendimento offerte dalla si-mulazione (drammatizzazione, role playing)e dal gioco; il loro utilizzo, presente soprat-tutto nella scuola dell’infanzia ed elemen-tare, è piuttosto contenuto negli altri ordinidi scuola.

– Mediatori simbolici, che usano lettere, nu-meri e altri tipi di simboli orali e scritti perrappresentare la realtà; sono i più usati inquanto generali, astratti, flessibili, maneg-gevoli; tuttavia, proprio per queste loro ca-ratteristiche, per conseguire il massimo divalidità didattica, devono essere accompa-gnati da altri mediatori più prossimi al-l’esperienza diretta, soprattutto con gli al-lievi più piccoli e/o in difficoltà di apprendi-mento.

Ciascun mediatore si connota per la diver-sità nel richiamare la realtà, quindi per il gra-do di convenzionalità e di astrattezza, ma an-che, di conseguenza, per le condizioni di con-trollo e di sicurezza, nonché per il legame più omeno prossimo con la temporalità dell’espe-rienza. Per quanto riguarda lo spazio, il giocodei mediatori si può regolare attraverso l’in-treccio fra distanza fisica e prossimità psicoso-ciale: alcuni sono «a forte implicazione», comequelli attivi e analogici; altri sono consideratipiù «freddi», come quelli iconici e simbolici.

In questa sede interessa sottolineare checiascuno dei mediatori è portatore di una di-mensione formativa specifica, efficace e pro-fonda che deve essere padroneggiata dall’in-segnante, il quale può prevederne l’utilizzosia singolarmente che contemporaneamente.Nel guidare gli allievi all’interno del dedalodella conoscenza, il docente può proporre ric-chi stimoli attingendo dall’uso integrato delsistema dei mediatori: con l’insieme delle pos-sibilità offerte dalla pluralità dei modi di rap-presentazione della realtà e dell’esperienza,l’azione didattica può procedere secondo cri-teri di flessibilità e coordinamento, capaci di

fronteggiare l’estrema varietà e diversità del-le situazioni formative degli alunni.

Il laboratorio identifica la situazione diapprendimento che realizza in modo privile-giato, in una dimensione operativa e proget-tuale, l’intreccio tra più mediatori didattici:l’esperienza diretta, il ricorso a modelli eimmagini, la simulazione, l’uso di codici sim-bolici.

In presenza di studenti in difficoltà è ine-vitabile ampliare la gamma di mediatori dautilizzare nei vari ambienti di insegnamento,incrementando quelli non verbali, in relazio-ne alle specificità dei bisogni comunicativi ededucativi del soggetto. Potrà bastare il poten-ziamento delle esperienze dirette o l’uso dimediatori iconici; oppure potrà risultare ne-cessario il ricorso a codici alternativi specia-lizzati: ad esempio, alla lingua dei segni (perindividui audiolesi), o al codice braille (perpersone non vedenti), o alla comunicazioneaumentativa, o al codice Bliss, o alla comuni-cazione facilitata (per alunni con ritardo in-tellettivo o problemi psichici severi); l’elencopotrebbe continuare.

Lo sviluppo della tecnologia informatica emultimediale ha aumentato le potenzialitàformative del sistema di mediatori didattici.Per gli allievi con problemi le nuove opportu-nità offerte dal computer riguardano sia ilparco hardware (periferiche adattate, com-puter con sintesi vocale, schermo particolare,ecc.) che l’area del software (percorsi formati-vi multimediali concepiti per tutte le tipolo-gie di difficoltà). In numerose circostanze l’im-piego della macchina può davvero essere riso-lutivo per garantire all’alunno la permanen-za in classe, consentendogli di fare esperienzadi apprendimento insieme ai compagni (at-traverso testi e ipertesti semplificati e/o adat-tati individualmente), e dunque di recupera-re ai loro occhi l’identità di studente.

La fiducia nei poteri dell’informatica non ètuttavia sinonimo di incauto fideismo: l’ausilio

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non è uno strumento miracolistico in virtùdelle sue proprietà intrinseche. Prima di tuttova preparato l’incontro tra l’allievo e il mezzoattraverso spazi, tempi e modi adeguati, altri-menti si corre il rischio che «il rimedio risultipeggiore del male» e che, dopo il primo entusia-smo, si manifestino resistenza e rifiuto; vannopoi preparati i compagni di classe, affinchéaccettino la presenza della macchina come stru-mento di studio al pari della penna e del libro,e non come occasione di distrazione; infine,non si può pensare che un artefatto mediaticosostituisca il docente. La relazione umana trainsegnante e minore in difficoltà resta essen-ziale, la natura e la qualità della guida sonoimportanti e fanno la differenza; a maggiorragione per il fatto che non sempre l’alunno èin grado, da solo, di integrare i diversi codiciche la multimedialità informatica propone.

4. Lavorare con mentalità apertaalla ricerca e alla collaborazioneprofessionale

La propensione a sperimentare non è sufficiente,l’avversione a sperimentare equivale alla morte.

(Ezra Pound)

Per «adattamento» del programma, a be-neficio degli studenti in difficoltà, non si in-tende il suo impoverimento, cioè l’insegna-mento di una quantità minore di contenuti,in maniera avulsa da un contesto significati-vo; occorre invece aderire a un modello di«adattamento» in cui il docente utilizzi i con-tenuti del programma, le metodologie di inse-gnamento e le dinamiche organizzative perrisvegliare la maturazione personale del-l’alunno con difficoltà. Questo compito nonfacile è meglio abbordabile se gli insegnanti

operano in un’ottica di collaborazione colle-giale, nella fase della programmazione didat-tica (ad esempio, condivisione dei problemitra docenti di classi parallele, o tra il docentedi classe e di sostegno alle classi frequentateda studenti disabili); durante la fase di anali-si della situazione di partenza e nella condu-zione dell’attività in classe (collaborazione tradocenti curricolari e di sostegno, utilizzo dellecompresenze per organizzare gruppi di lavo-ro, ecc.), al momento della valutazione.

L’integrazione scolastica degli studenti conproblemi segnala l’urgenza di un costante rin-novamento delle pratiche scolastiche, nellaprospettiva della ricerca cosiddetta «fonda-mentale», così come di quella in «presa diret-ta» con il reale, in vista della scoperta di solu-zioni ai problemi per i quali non si sono anco-ra trovati approdi accettabili.50 Mialaret ri-corda che la scuola non può più funzionarecome faceva nel secolo scorso:

È necessario inventare nuove finalità, nuovimodi di azione, nuove forme di educazione, senzaper questo voler ignorare sistematicamente le for-me passate. Non occorre solo fare uno sforzo diimmaginazione per inventare nuovi metodi, nuo-ve tecniche, nuovi contenuti, nuove finalità. Oggi èimpossibile ignorare tutti gli apporti in ambitoeducativo sia della scienza contemporanea, chedella pratica educativa e della ricerca scientifica.51

Una modalità di indagine che consente difronteggiare le problematiche educative e di-dattiche emergenti, le quali, come sintetizzaPerrenoud, impongono ai docenti di «agirenell’urgenza e di prendere decisioni in condi-zioni di incertezza», è la ricerca-azione. Essasi identifica con la proposta di «scienza del-l’azione» che ha come capiscuola Dewey, We-ber, Lewin, ed è caratterizzata da un mix diinteressi descrittivi e trasformativo-normati-

50 M. Pavone, Educare nelle diversità, Brescia, La Scuola, 2001.51 G. Mialaret, Savoirs théoriques, savoirs scientifiques et savoirs d’action en éducation, in J.M. Barbier (a cura di),

Savoirs théoriques et savoirs d’action, Paris, PUF, pp. 186-187.

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vi. Infatti si pone la domanda guida propriadel «pratico»: come posso comprendere e agi-re nel contesto della vita reale con le suecomplessità e i suoi dilemmi di valore?

Il paradigma della ricerca-azione può esse-re considerato adeguato a una professionalitàfondata su competenze tecniche e capacità cri-tica di tipo progettuale: in effetti, nell’attivitàdi insegnamento in classi in cui la popolazionescolastica è eterogenea e vi sono alunni porta-tori di deficit, i problemi reali complessi nonsono ben definiti in partenza; la loro soluzionenon è univoca e comporta compromessi; glieffetti delle decisioni non sono del tutto preve-dibili, ma richiedono decisioni interattive, chedipendono dall’evoluzione della situazione.Asserisce a tal proposito Pellerey:

[…] La metodologia della ricerca-azione tende asviluppare una capacità di lavoro in gruppo sianella individuazione e chiarificazione dei proble-mi, sia nella elaborazione delle conseguenti stra-tegie di azione, sia nella valutazione dei risultaticonseguiti.52

Proprio quanto è richiesto in contesti diapprendimento diversificati. I dispositivi didifferenziazione sono ancora fragili e limita-ti; dunque saranno sempre da costruire hic etnunc, a partire da trame ed esempi cui gliinsegnanti possono ispirarsi, senza poterli ri-produrre integralmente. Le competenze ri-chieste superano il semplice uso razionale diuno strumento. Questo può dispiacere, per-ché esige un investimento importante da par-te dei professionisti della scuola; per la stessaragione può far piacere, perché è qui che sigiustifica e si gioca la professionalità.

52 M. Pellerey, L’agire educativo, Roma, LAS, 1998, p. 147.* M.T. Cairo è Ricercatore di Pedagogia Speciale presso l’Università Cattolica di Milano. M.G. Francia e M. Oppici

sono tutor di tirocinio del Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università Cattolica diMilano.

53 La parte iniziale e conclusiva dell’articolo è stata scritta dalla dott.ssa Cairo, il tirocinio in aula è stato realizzatoe presentato dalla dott.ssa Francia, il laboratorio sulla didattica flessibile è stato realizzato e presentato dalladott.ssa Oppici.

5. Maria Teresa Cairo, Maria GraziaFrancia e Monica Oppici*La formazione iniziale degli insegnanti disostegno della scuola dell’infanzia e dellascuola primaria: una esperienza e qualcheriflessione53

Da quattro anni è in atto presso l’Univer-sità Cattolica del Sacro Cuore di Milano unpercorso formativo costituito da attività di-dattiche aggiuntive al Corso di Laurea inScienze della Formazione Primaria per glistudenti interessati a divenire insegnanti disostegno.

Tali attività didattiche specifiche aggiun-tive per l’integrazione degli alunni in situa-zione di handicap si collocano fra il terzo e ilquarto anno del Corso di Laurea e prevedonoun monte ore obbligatorio di 400 ore al cuiinterno sono compresi:

– 5 corsi per approfondire tematiche specifi-che;

– 4 laboratori;– attività di tirocinio.

I cinque corsi sono da individuarsi a sceltafra: Pedagogia Speciale avanzata, Neuropsi-chiatria infantile, Psicologia dell’handicap edella riabilitazione, Pediatria, Pediatria pre-ventiva e sociale, Psicologia Dinamica, Didat-tica speciale. Il totale delle ore conteggiatoavendo sostenuto i cinque esami è di 150 oredi lezione, anche se la frequenza non è obbli-gatoria.

I quattro laboratori affrontano le seguentitematiche: i disturbi e ritardi del linguaggio,la didattica flessibile per l’integrazione, gli

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ausili e le tecnologie didattiche per la disabi-lità, la didattica per gli individui non udenti enon vedenti. Il totale delle ore di laboratorio è80 e la frequenza è obbligatoria.

Per lo svolgimento dei laboratori è statarichiesta la presenza di esperti esterni al-l’Università preparati su tematiche specifi-che e appartenenti a Enti e Associazioni delterritorio: per il laboratorio sui disturbi eritardi di linguaggio si è fatto riferimentoall’Associazione Incremento ComunicazioneAlternativa (AICA) e al Centro per le Para-lisi Celebrali Infantili e i Disordini Specificidel Linguaggio dell’Istituto Nazionale Neu-rologico «Carlo Besta»; per il laboratorio su-gli handicap sensoriali all’Istituto dei Cie-chi di Milano, al Centro di Terapia, Logope-dia e di Audiometria di Milano (CTLA) eall’Ente Nazionale Sordomuti di Milano; peril laboratorio sugli ausili e le tecnologie perla disabilità al SIVA — Fondazione Don CarloGnocchi di Milano —, e per la didattica fles-sibile a risorse interne all’Università (do-cente tutor).

Il tirocinio, nel progetto iniziale, compren-de 150 ore di inserimento presso scuole pub-bliche e scuole di istituti privati e 20 ore dilavoro in aula. Da quest’anno le ore nelle scuolesono divenute 140 e 30 le ore in aula (attiva-zione, riflessione, orientamento).

È prevista la stesura di un breve elabora-to finale sulla esperienza di tirocinio che neattesti lo svolgimento.

È interessante a questo proposito soffer-marci su due aspetti relativi ai riconoscimen-ti e agli esoneri delle ore di tirocinio avvenutiin questi anni.

Sono state riconosciute come ore di espe-rienza quelle realizzate nelle scuole dagli stu-denti che hanno svolto attività lavorativa diassistente educatore nell’ambito della facili-tazione della comunicazione degli alunni di-sabili o per progetti centrati sull’apprendi-mento delle autonomie.

Ciò ha permesso di lavorare nella forma-zione dei futuri insegnanti su una maggioreconnessione fra il momento educativo e di-dattico nell’inserimento e nell’integrazionedegli alunni disabili, sull’intreccio fra obietti-vi di apprendimento delle autonomie perso-nali e sociali e su obiettivi di apprendimentodi conoscenze e abilità «accademiche» (lettu-ra, scrittura, calcolo, studio). Proposta cultu-rale della scuola e crescita delle competenzecomunicative e relazionali rappresentano dueaspetti inscindibili nel processo di matura-zione e sviluppo del bambino.

Sono state riconosciute come ore di espe-rienza quelle realizzate su progetti per l’ap-prendimento dell’italiano come seconda lin-gua per alunni stranieri, cioè per coloro chehanno svolto attività di «facilitatore di ap-prendimento». Tale scelta è stata poi supera-ta, consapevoli del rischio di trasmettere l’ideaagli studenti che l’essere straniero (e quindi ilnon saper parlare la lingua) potesse corri-spondere all’essere disabile.

Le iscrizioni al primo anno di attivazionedelle 400 ore sono state 6, al secondo 19, alterzo 32 e quest’anno le adesioni sono state 23.

La possibilità di svolgere questa specializ-zazione all’interno del Corso di Laurea inScienze della Formazione Primaria è statadata dal Decreto Ministeriale 26 maggio 1998,«Criteri generali per la disciplina da partedelle università degli ordinamenti dei Corsidi Laurea in Scienze della Formazione Pri-maria e delle Scuole di specializzazione all’in-segnamento secondario», in cui si legge al-l’art. 3, comma 6:

Ferme restando le attività previste per tutti gliallievi nell’area 1 di cui all’allegato B, sono previ-ste specifiche attività didattiche aggiuntive, peralmeno 400 ore, attinenti l’integrazione scolasticadegli alunni in situazione di handicap, al fine diconsentire, allo studente che lo desidera, di acqui-sire quei contenuti formativi in base ai quali ildiploma di laurea può costituire titolo per l’am-

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missione ai concorsi per l’attività didattica di so-stegno ai sensi dell’art. 14, comma 3, della legge 5febbraio 1992, n 104. Almeno 100 tra le ore ditirocinio sono finalizzate a esperienze nel settoredel sostegno. Chi ha già conseguito la laurea nelcorso può integrare il percorso formativo, ai finiindicati, con uno o due semestri aggiuntivi. Lapreparazione specialistica necessaria in relazionea particolari «handicap» sensoriali dovrà esserecompletata, con riferimento alle specifiche situa-zioni, in sede di formazione in servizio.

Il tirocinio in aula

L’attività di tirocinio è considerata unmomento fondamentale per lo sviluppo delsistema di competenze professionali. La con-tinuità tra Università e istituzioni scolasti-che, fino a oggi considerate due realtà fra loroscollegate, diventa oggi indispensabile, sia inambito progettuale che in ambito operativo.

Una collaborazione continua con il mondodella scuola garantisce un servizio in grado difacilitare il passaggio dal ruolo di studente alfuturo ruolo professionale.

In questa prospettiva il tirocinio rappre-senta un’occasione fondamentale per gli stu-denti per sviluppare il proprio sistema di com-petenze professionali per una maggiore inte-grazione nell’organizzazione del sistema sco-lastico.

In tale ottica l’Università Cattolica delSacro Cuore attua un progetto di tirocinio perle attività aggiuntive per il sostegno con piùfinalità.

Una prima fase orientativa per gli studen-ti iscritti al quarto anno di corso di laurea inScienze della Formazione Primaria e per isoggetti già laureati in Scienze dell’Educa-zione, che mira prevalentemente a far cono-scere il sistema di integrazione degli alunnidisabili nelle scuole statali e paritarie allaluce della normativa vigente.

Dall’emanazione della Legge 517/77 sonoaccadute molte cose, molte conquiste sono

state ottenute. Il quadro dei diritti definito apartire dalla Legge 104/92 è sicuramente unagrande conquista di civiltà.

La cultura sulla disabilità e sulle integra-zioni necessita però di un monitoraggio conti-nuo e costante tale da consentire un’elabora-zione di strategie di intervento sempre al passocon i tempi.

Le istituzioni scolastiche con il DPR 275/99 vedono pienamente applicati i principidell’autonomia e dell’attenzione alla diversi-tà. In un momento in cui le scuole sono allaricerca di una nuova identità ciò è diventatoun impegno molto alto sul piano sia professio-nale che organizzativo.

Il problema che è stato posto come priori-tario alle nuove strutture organizzative del-l’Amministrazione scolastica è, dunque, quellodi verificare come sia cambiata e/o stia cam-biando la strategia dell’integrazione delle per-sone disabili nella società, nel lavoro e nellaformazione (scolastica e no) negli ultimi anni.

Le leggi sul lavoro e quelle sulla assistenzapromulgate negli ultimi cinque anni sono fi-nalizzate alla creazione di condizioni di vivibi-lità (o qualità della vita) di queste persone,facendo in modo che le comunità si assumanola responsabilità solidale dell’aiuto, rispetto aun progetto di vita personalizzato e reso com-patibile con i sistemi sociali, produttivi e tec-nologici di questo nostro mondo. Il problemacosì come è stato impostato nelle norme èquello di aiutare i soggetti disabili a elaborareuna propria ipotesi di vita e a perseguirlaavendo a disposizione tutti i mezzi e le oppor-tunità che la società in cui vivono offre loro.

Una seconda fase di inserimento nelle isti-tuzioni scolastiche, per consentire un’espe-rienza sul campo il più possibile significativa.

Per lo studente svolgere un’attività di ti-rocinio nelle scuole diventa un’occasione permettere in pratica le conoscenze apprese, farepropri aspetti legati alla professionalità e al-l’organizzazione del lavoro.

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L’obiettivo primario è quello di favorireuna prima conoscenza del contesto (l’utenza,il territorio, l’organizzazione) in cui lavoral’insegnante specializzato in attività di soste-gno, dei suoi compiti, degli obiettivi e dellemodalità di intervento. Tale obiettivo è com-plementare al momento conoscitivo e ha comefinalità sia l’assimilazione delle tecniche pro-fessionali, sia una migliore gestione del Sénell’assunzione di responsabilità operative.

Inoltre ha come scopo la comprensione, daparte dello studente, dell’interazione tra al-cuni elementi caratterizzanti i contesti e illavoro concreto, in modo da permettere unacapacità di analisi della realtà nella sua com-plessità e dinamicità. Il supervisore, in colla-borazione con la scuola ospitante, verifica l’an-damento del tirocinio e garantisce (sia versoil soggetto ospitante che verso la facoltà) ilrispetto della metodologia e dell’efficacia del-la esperienza.

Si pone dunque come punto di riferimentoper il coordinamento e il monitoraggio dellaattività stessa.

Le attività di tirocinio si configurano, quin-di, come un momento in cui poter mettere incomunicazione le conoscenze teoriche ottenu-te attraverso gli studi e le competenze prati-che necessarie nel mondo del lavoro, all’ inter-no delle specifiche realtà territoriali. Esserappresentano inoltre per il corso di studiuna delle occasioni per dialogare con il mondodella scuola, non solo per osservare costante-mente l’insegnamento nelle sue reali esigen-ze, ma anche per ottenere contributi utili perla futura progettazione professionale.

Una terza fase formativa con attività pro-grammate in aula, sia individuali sia di grup-po, che permettono di approfondire, verificaree ampliare l’apprendimento ricevuto nel corsodi studi e la realizzazione pratica rilevata nel-le istituzioni scolastiche sedi di tirocinio.

Si parte dalla consapevolezza del ruolo edal profilo professionale dell’insegnante di

sostegno nella scuola dell’autonomia guarda-to come uno specialista «professionalmente etecnicamente preparato» per un compito spe-cifico, più che a una persona che consideral’insegnamento come una scelta «vocaziona-le». Il docente specializzato ha un volto nuovorispetto al passato: è inserito in un ambientedove la normativa e i bisogni sociali richiedo-no una preparazione in grado di gestire tecni-che educative, metodologie didattiche nuove,programmi e progettazione-programmazionedi qualità elevata. Tutto ciò a garanzia di uninsegnamento non meccanico ma significati-vo, un insegnamento fondato sulla ricerca esulla significatività. La professione docentein generale, oggi, richiede competenze diver-se dal passato e più complesse. In particolare,per il docente di sostegno è necessario essereun buon organizzatore di sistema, avere chia-re le finalità e le conoscenze, le competenze ele capacità tecnico-professionali che caratte-rizzano la scuola. Il docente deve studiarel’ambiente con i suoi rapporti etici e sociali;deve esaminare gli allievi per coglierne i biso-gni, le esigenze, gli atteggiamenti; deve pro-gettare e programmare, realizzare e verifica-re, valutare e controllare (cioè regolare e or-ganizzare i processi di apprendimento perso-nalizzati, essere disponibile all’osservazionecontinua e sistematica, in ogni fase del mo-dello didattico praticato per ottimizzare l’ap-prendimento e favorire il successo scolastico).La presenza competente, integrata nei consi-gli di classe e di interclasse, dell’insegnantespecializzato è sicuramente in grado di intro-durre, al momento opportuno, interventi spe-cialistici di recupero. E tali interventi, ai qua-li partecipano tutti i componenti dei gruppi,costituiscono un’occasione di ulteriore arric-chimento morale, di approfondimento cogni-tivo e di socializzazione. Il docente specializ-zato diventa in tal modo il garante dell’inte-grazione, il mediatore delle relazioni, l’esper-to di processi di integrazione, colui che tiene

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sempre in correlazione gli obiettivi generalidella classe con quelli del Profilo DinamicoFunzionale e del Piano Educativo Individua-lizzato: quindi il suo è un ruolo complesso, chegioca su vari livelli professionali, relazionali edidattici. La sua professionalità deve espri-mersi nella capacità di progettare e program-mare l’attività didattica, adeguandola alle esi-genze, finalizzandola al raggiungimento dideterminati obiettivi espressi in termini diconoscenze, competenze e capacità da padro-neggiare.

Anche se spesso la pratica scolastica sidiscosta dai principi normativi e dà luogo aforme di utilizzazione non pertinenti e in con-trasto con la norma, esistono esempi di inte-grazione molto positivi, le cui documentazio-ni diventano oggetto di dibattito sia nei mo-menti di comunicazione assembleare, previ-sti nell’organizzazione delle attività d’aula,sia nei lavori di gruppo.

Uno spazio espressivo dell’attività d’aula,destinato alla rielaborazione dell’esperienzadi tirocinio, avviene con il supervisore e iltutor individuale nell’ambito delle istituzioniscolastiche ed è un’attività prevalentementefinalizzata alla riflessione e generalizzazionedell’attività pratica e a un confronto con l’ap-prendimento teorico.

La verifica è effettuata mediante riflessio-ni personali dello studente, incontri con piùsoggetti (tutor, direttore didattico, psicopeda-gogista) e la stesura di una relazione finale.

Il laboratorio sulla didattica flessibile

Nella progettazione del laboratorio di di-dattica flessibile sono emersi alcuni aspettistrategici che sono divenuti poi linee guidanella definizione dell’approccio e delle attivi-tà nell’ambito di questo percorso formativo.

Si è innanzitutto pensato a questo labora-torio come a uno spazio di rielaborazione in-terdisciplinare, come a un percorso trasver-

sale rispetto a contenuti e abilità acquisitenell’ambito dei corsi e dei laboratori tematicicurricolari e specifici precedentemente seguitidagli studenti, ma anche come momento di«anticipazione» propedeutica delle successi-ve esperienze di tirocinio nelle scuole. Si ècercato quindi di attivare al suo interno «cir-coli virtuosi» (Damiano, 1999) tra teoria epratica per favorire una rielaborazione diquadri concettuali finalizzata a migliorare lapratica professionale per poi ricavare da que-sta nuovi stimoli e spunti da indagare nuova-mente in ambito teorico.

Questo laboratorio si è inoltre configura-to, in un’ottica costruttivista, come ambientedi apprendimento ovvero come contesto fisi-co, culturale e virtuale che acquista il caratte-re di una impalcatura (scaffolding) costituitada supporti di varia natura, in virtù dellaquale si ritiene possibile far emergere proces-si acquisitivi o dinamiche che possono favo-rirli (Calvani, 2000).

Allo stesso tempo si sono volute crearesituazioni per una costruzione dialogica diconoscenze e abilità, con una valorizzazionedelle differenze evidenziata dalla intercam-biabilità dei ruoli e dal carattere distributivodelle acquisizioni all’interno di un’esperienzadi apprendimento cooperativo. In questo con-testo il ruolo del conduttore del laboratorio èdivenuto conseguentemente quello di un tu-tor che si propone di favorire l’interazione trai partecipanti, promovendo e sostenendo oc-casioni di ricerca individuale e di gruppo, comeguida nel percorso formativo ma anche comesupporto e garanzia del lavoro cooperativo.

Un aspetto a nostro avviso proficuo di que-sto impianto è stato poi il tentativo di renderevisibile e concretamente sperimentabile da-gli studenti la possibilità di trasferimento diquesta esperienza di laboratorio nel contestoscolastico.

I contenuti e le abilità del laboratorio rela-tivi alla didattica flessibile sono stati infatti

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proposti con un approccio cooperativo che havisto la sperimentazione diretta di alternan-ze di responsabilità individuale e interdipen-denza positiva, individuazione e messa in attodi ruoli e funzioni (con riferimento all’inse-gnamento/apprendimento di competenze so-ciali), utilizzo di tecniche come quella dell’in-tervista a tre passi o il roundtable oltre chel’impiego di giochi cooperativi a scopo educa-tivo e ludomatetico.

Ciò ha consentito una reale messa in cam-po delle diverse competenze presenti nel grup-po, l’individuazione di strategie didattiche perfavorire un’elaborazione e condivisione piùmotivante e solida di abilità e conoscenze, lapromozione di una maggiore consapevolezzaconcernente non solo zone multiple di svilup-po prossimale ma anche relativa all’impor-tanza del piano metacognitivo nell’esperien-za di apprendimento e il loro conseguentepossibile impiego nella conduzione di attivitàdidattiche nelle classi con alunni disabili. Insintesi, assume rilievo il fatto di imparare inprima persona per poi fornire agli alunni «for-za e risorse personali, per insegnare loro adaiutare se stessi e anche gli altri» (Stainbacke Stainback, 1993).

In questa prospettiva un altro aspetto chia-ve, esplicitamente alla base del laboratorio,ha riguardato la promozione di una più moti-vante autoconsapevolezza professionale chevede il docente di sostegno come risorsa al-l’interno della scuola dell’autonomia come«esperto della didattica flessibile», ovvero dellapersonalizzazione e individualizzazione deipercorsi formativi per tutti gli alunni, com-presi i bambini disabili e quelli superdotati.

Si è quindi dato spazio all’interno del labo-ratorio alla «mediazione didattica speciale»,ovvero alla costruzione e riflessione in azionesu:– percorsi individualizzati;– percorsi didattici articolati;– percorsi didattici differenziati;

– percorsi didattici integrativi;– percorsi educativo-didattici per l’apprendi-

mento cooperativo per riconoscere, com-prendere e saper gestire in futuro le diver-se potenzialità formative di questi diversitipi di itinerari formativi.

Nello sviluppo di questi contenuti sonoben presto emerse altre tematiche diretta-mente collegate che riguardano ad esempio lecondizioni che rendono uno spazio «ambientedi apprendimento». Su questo punto è statapromossa una riflessione sul piano meta ri-spetto a quanto direttamente sperimentatodagli studenti all’interno del laboratorio perraccogliere gli elementi e i processi che con-notano una situazione come ambiente di ap-prendimento rispetto ai differenti obiettiviformativi e contesti organizzativi.

Altri ambiti strategici sono risultati quellidel Piano dell’Offerta Formativa, dell’orga-nizzazione della classe e della scuola che com-prende l’individuazione di diverse possibilitàdi raggruppamento degli alunni ma ancheforme di flessibilità con interventi differen-ziati da parte degli insegnanti all’interno dispecifici contesti formativi.

La didattica laboratoriale in questo sce-nario può costituire un’importante risorsanell’ambito della didattica flessibile in quan-to, oltre ai già citati aspetti cooperativi, ac-centua approcci metodologici (sperimentatidirettamente dagli studenti), come quelli del-l’apprendere attraverso l’azione e l’attivazio-ne di cicli di problem solving con il coinvolgi-mento di tipi diversi di intelligenza e stili diapprendimento. Crediamo sia interessanteprecisare che questo tipo di didattica potràessere realizzato non solo in un contesto adhoc — il laboratorio — ma anche nella classe.

Risulta evidente peraltro che, all’internodi strutture adeguatamente attrezzate rispet-to alle esigenze degli alunni disabili, i risulta-ti potranno essere decisamente adeguati. Inquesta ottica possiamo quindi leggere il ruolo

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dei LARSA (Laboratori di Recupero e Svilup-po degli Apprendimenti) proposti nell’ambitodella riforma (Legge 53/2003) della ScuolaPrimaria, che possono costituire uno stimoloper intervenire sulle singole discipline ai varilivelli di apprendimento e di maturazione,nella piena consapevolezza che spesso è ne-cessario agire non sulla quantità ma sullaqualità e sul metodo.

Un ultimo aspetto, anche in questo casocollegato in modo ologrammatico al percorsoformativo di questo laboratorio e all’ambitoorganizzativo della scuola, riguarda il temadella mediazione, in questo caso relazionale eorganizzativa, che l’insegnante di sostegnodovrebbe essere in grado di condurre. Il suoruolo vede infatti un impegno professionalespecifico nella progettazione flessibile consoggetti diversi (alunni, famiglia, scuola, retidi scuole, strutture sociosanitarie, gruppi dilavoro, volontariato, normativa vigente) ri-spetto a esigenze di unitarietà della propostaformativa, con attenzione all’ambito sia uma-no che culturale e sociale e nella ricerca di un«ethos condiviso che enfatizzi la riuscita ditutti».

La didattica flessibile ha direttamente ache fare con questa capacità di gestione dellacomplessità, con la messa in campo di compe-tenze di mediazione didattica e organizzativache risultano essenziali in una scuola dell’au-tonomia che si vuole porre come «comunità disostegno» (Pavone, 2001) sensibile alle diffe-renze.

Politiche scolastiche e formazionedell’insegnante di sostegno

Un lavoro di connessione continua fra Pro-getti Educativi Individualizzati (PEI) e Pro-getto dell’Offerta Formativa (POF) risulta unimpegno che richiede la partecipazione anchedell’insegnante di sostegno: una corretta pro-grammazione che tenga conto del numero di

alunni disabili e con problemi di apprendi-mento, delle ore di sostegno necessarie, dellerisorse professionali e materiali presenti nel-la scuola è fondamentale.

La presa in carico non soltanto di aspettirelativi alla struttura e al funzionamento dellesingole scuole (si consideri, ad esempio, l’ab-battimento delle barriere architettoniche), maanche dei rapporti con il territorio (la città, laprovincia) permette di seguire le necessitàdel bambino disabile sia dentro che fuori dal-la scuola.

Altro aspetto importante è la continuitàeducativa fra ordini di scuole differenti. Nonsempre questa viene favorita attraverso pro-getti e passaggi di informazione, che riman-gono però fondamentali per una presa in ca-rico del bambino in tempi consoni a quellidella classe e per una corretta formazionedelle classi.

L’insegnante specializzato per le attivitàdi sostegno, così come previsto dalla Legge517 del 1977 e dalla Legge 104 del 1992, vieneassegnato in piena contitolarità con gli altridocenti alla classe in cui è inserito il bambinodisabile, assume l’impegno di collaborare pie-namente con i colleghi nell’impostazione erealizzazione del progetto educativo e didat-tico, ha il compito di promuovere forme diintegrazione a favore degli alunni disabili erealizza interventi individualizzati in rela-zione alle esigenze degli alunni.

L’insegnante di sostegno viene nominatodal Provveditore agli Studi (CSA) su segnala-zione delle scuole che prevedono la presenzanel proprio circolo di alunni disabili, graziealle segnalazioni che avvengono nelle preiscri-zioni e iscrizioni. Ogni singola scuola valutala gravità e i bisogni di ogni singolo caso echiede l’assegnazione di un certo numero diinsegnanti di sostegno.

La quantificazione oraria nel rapporto in-segnante-alunno viene stabilita in base alPEI e ai bisogni dei singoli soggetti in rappor-

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to alla gravità e problematicità della loro di-sabilità.

Le competenze dell’insegnante di soste-gno sono quindi centrate non solo sugli aspet-ti legati alla promozione dei processi di ap-prendimento degli alunni disabili (accultura-zione, socializzazione, umanizzazione), ma an-che sulla capacità di entrare in rapporto conle famiglie e gli operatori degli Enti che se-guono il bambino fuori dalla scuola o che nehanno fatto la diagnosi funzionale.

Le competenze degli Enti Locali (Comuni,Province, Regioni) e delle ASL risultano dicruciale importanza soprattutto oggi alla lucedella recente Legge 328 del 2000 (Legge-qua-dro per la realizzazione del sistema integratodi interventi e servizi sociali). In particolare,l’art. 19 richiama l’importanza dei Piani dizona e della necessità di coordinare a livellolocale le risorse umane, finanziarie, materialiper il sostegno dei soggetti disabili secondouna logica di solidarietà e sussidiarietà, diformazione e aggiornamento e di integrazio-ne fra servizi e strutture.

La vita della persona disabile va pensatain un’ottica di lifelong education; il progettodi vita coinvolge la socializzazione e l’appren-dimento del bambino che va pensato ancheadulto. L’art. 2 della Legge 53 del 2003 stabi-lisce che è promosso l’apprendimento in tuttol’arco della vita e sono assicurate a tutti pariopportunità di raggiungere elevati livelli cul-turali e di sviluppare le capacità e le compe-tenze, attraverso conoscenze e abilità, gene-rali e specifiche, coerenti con le attitudini e lescelte personali, adeguate all’inserimentonella vita sociale e nel mondo del lavoro.

Fra i problemi più ricorrenti nella nominadegli insegnanti di sostegno ricordiamo i ri-tardi, legati soprattutto ai trasferimenti de-gli insegnanti, la rotazione continua da unanno con l’altro, la quantità sempre più ridot-ta delle ore assegnate, la qualità della presta-zione e della formazione.

In questi ultimi anni si sono succeduterisoluzioni e decreti ministeriali circa la for-mazione degli insegnanti di sostegno e il rico-noscimento della loro qualifica — tramite con-corso, attraverso l’abilitazione, entrando nel-le graduatorie.

A oggi la scelta è quella di affidare alleuniversità il compito di organizzare corsi diformazione per la specializzazione.

Sulla formazione iniziale degli insegnantidi sostegno della scuola dell’infanzia e prima-ria si possono avanzare alcune riflessioni.

Attualmente le attività didattiche aggiun-tive per diventare insegnanti per il sostegnosono inserite nel Corso di Laurea in Scienzedella Formazione Primaria di durata qua-driennale, nel quale agli studenti è richiestodi sostenere 21 annualità (a esse in Cattolicasi aggiungono tre corsi di Introduzione allateologia) e di frequentare attività laborato-riali ed esperienze di tirocinio. Il carico distudio e di frequenza è rilevante e l’impegnoper accedere alla Laurea è nella maggior par-te dei casi a tempo pieno (fatta eccezione pergli abbastanza frequenti riconoscimenti di cre-diti e di esoneri previa presentazione di docu-mentazione relativa per coloro che già lavora-no o sono alla seconda laurea).

Pensiamo debba essere mantenuta que-sta opportunità inserita all’interno del Corsodi Laurea poiché offre una preparazione spe-cifica in un importante settore dell’istruzione(l’educazione degli alunni svantaggiati).

Evidenzia a tal proposito l’art. 5, Legge 53del 2003:

I corsi di laurea in Scienze della FormazionePrimaria […] valutano il percorso teorico-praticoe gli esami sostenuti per il conseguimento del di-ploma biennale di specializzazione per le attivitàdi sostegno ai fini del riconoscimento dei relativicrediti didattici e dell’iscrizione in soprannumeroal relativo anno di corso stabilito dalle autoritàaccademiche, per coloro che, in possesso di taletitolo di specializzazione e del diploma di scuolasecondaria superiore, abbiano superato le relative

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prove di accesso. L’esame di laurea sostenuto aconclusione dei corsi di Scienze della FormazionePrimaria […] ha valore di esame di Stato e abilitaall’insegnamento, rispettivamente, nella scuolamaterna o dell’infanzia e nella scuola elementareo primaria.

Non vorrei qui dimenticare un obiettivoa lungo termine che è stato sempre perse-guito da chi si occupa della formazione degliinsegnanti di sostegno: l’insegnante di so-stegno è una figura professionale qualifica-ta che si affianca agli altri insegnanti peroffrire una preparazione specifica circa i pro-blemi di apprendimento dei bambini disabi-li (sensoriali, fisici, cognitivi, mentali, psi-chici, ecc.). Egli lavora non solo per i bambinisegnalati, ma anche per la gestione dell’inte-ra classe.

Questo è un importante lavoro di preven-zione. La vita di molti ragazzi con difficoltà diapprendimento (specifiche e aspecifiche, pri-marie e secondarie) è spesso segnata dai pro-blemi scolastici che, se non adeguatamenteaffrontati, rischiano di divenire pervasivi, bloc-cando il processo di sviluppo con conseguenzenegative sulle loro scelte di vita e sui loropercorsi formativi.

La connessione fra difficoltà di apprendi-mento e devianza e fra difficoltà di apprendi-mento e disturbi psichiatrici è confermata dastudi e ricerche e dalla pratica clinica. Lascuola accoglie tutti e per questo può fareun’importante opera di prevenzione.

Gli alunni che presentano una minorazio-ne fisica, psichica o sensoriale stabilizzata oprogressiva vanno accolti nella scuola in quan-to essa offre loro opportunità educative chealtrimenti non troverebbero. Per loro indivi-dualizzazione e socializzazione vanno cali-brate a seconda delle situazioni.

Un altro aspetto importante è quanto, nel-la scelta dei percorsi formativi delle singoleUniversità, giochi un ruolo rilevante il rap-porto con il territorio. I Centri Scolastici Am-

ministrativi dovrebbero valutare attentamen-te l’effettiva richiesta di insegnanti di soste-gno da parte delle proprie scuole e chiederealle Università una formazione di eccellenza.Sono i bisogni di ogni singolo territorio chedovrebbero orientare le scelte di politica sco-lastica e formativa e attivare le responsabili-tà dei CSA. Le leggi aprono delle possibilitàche vanno anche vagliate di volta in volta alivello locale.

Auspichiamo che l’esperienza esposta inquesto articolo possa contribuire al dibattitoin atto circa la caratterizzazione del profiloprofessionale dell’insegnante e la definizionedi percorsi formativi adeguati (attuazionedell’art. 5 della Legge 53/2003).

Pensiamo che conoscenze, attitudini e com-petenze dell’insegnante, anche di sostegno,vadano pensate in un’ottica longitudinale checolga l’importanza dei cambiamenti culturalie sociali che ci stanno interessando:

La funzione dell’istruzione e della formazioneè l’inserimento sociale e lo sviluppo personale, me-diante la condivisione dei valori comuni, la tra-smissione di un patrimonio culturale e l’apprendi-mento dell’autonomia […]. Qualsiasi sia l’estra-zione sociale, l’istruzione iniziale, le condizionipersonali, ciascun individuo deve poter coglieretutte le occasioni che gli permettono di migliorareil suo posto nella società e favorire la realizzazionedelle sue aspirazioni. Tutti devono poter benefi-ciare delle possibilità offerte dalla scuola e dal piùampio sistema formativo per accedere a nuoveconoscenze e valorizzare al meglio le proprie capa-cità. (Commissione Europea, 1995)

Riferimenti bibliografici

Cairo M.T. (2001), Superdotati e dotati. Itinerarieducativi e didattici, Milano, Vita e Pensiero.

Calvani A. (2000), Elementi di didattica: problemie strategie, Roma, Carocci.

Commissione Europea (1995), Insegnare e appren-dere. Verso la società conoscitiva, Libro bianco.Vedi http://europ.eu.int/comm/education/poli-cies/long/innov./index_it.html

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Damiano E. (1999), L’azione didattica. Per unateoria dell’insegnamento, Roma, Armando.

Pavone M. (2001), Educare nelle diversità. Percor-si per la gestione dell’handicap nella scuoladella autonomia, Brescia, La Scuola.

Stainback W. e Stainback S. (1993), La gestioneavanzata dell’integrazione scolastica, Trento,Erickson.

6. Venia Ruffo*L’integrazione del bambino disabile nelquadro delle più recenti scelte normativenel Niedersachsen54

Introduzione

Il presente scritto si compone di tre parti:con le prime due ho voluto riportare la tradu-zione, da me effettuata, dei testi integrali didue contributi, diversamente critici, uno ri-spetto all’idea che forse c’è una sottovalutataconnessione tra condizioni sociali svantag-giate, disabilità e scuole speciali; l’altro, chedà apertamente voce ai dubbi sulla riformadel sistema scolastico speciale, varata nel-l’autunno 1998.

La terza parte, infine, rappresenta un ten-tativo da parte mia di cogliere anche dall’ap-porto di altri brani, da me tradotti e allegatiin originale nella letteratura finale, alcuniaspetti a parer mio fondamentali per com-prendere qualcosa in più di una tematica tan-to affascinante quanto stratificata.

Desidero ringraziare i professori MarionWitte e Manfred Neumann che, nel corso delloro seminario Integrativer Unterricht in derGrundschule («La Lezione integrativa nellascuola elementare»), tenutosi nel semestreestivo 2003 all’Università di Lueneburg, Nie-

dersachsen, mi hanno gentilmente fornito ilmateriale dal quale è derivato il presente con-tributo.

Prima parte – Alunni della scuola perl’aiuto all’apprendimento: analisi ditre casi

Karin

Informazioni dalla pratica scritta su Karin

Karin frequenta la seconda classe di unascuola speciale. Dal suo terzo anno di vitaKarin si trova in una comunità diurna, che hafrequentato a tempo pieno fino all’ingressonella scuola. Da quando va a scuola, Karin vaal centro diurno solo al pomeriggio fino alleore 16.00.

Nel centro le educatrici hanno notato chelei stabiliva a fatica contatti con gli altri bam-bini. Stava sempre in disparte e non prende-va parte ai giochi collettivi. Passava la palla esi rivolgeva solo ai bambini più piccoli, aiquali lei poteva comandare. Con le educatriciappariva invece molto paurosa. Soltanto len-tamente è riuscita ad abituarsi al contattofisico. Le sue abilità di linguaggio non eranoadeguate all’età, perciò negli ultimi sei mesiprima dell’ingresso a scuola è stata assistitauna volta alla settimana in una strutturalogopedica. Anche attualmente ella parla an-cora in modo eccessivamente veloce e stenta-to, così che riesce difficile capirla.

Le prove pedagogico-speciali prima del-l’inizio scolastico stimarono carenze in diver-si settori. Capacità di giudizio, attenzione,interpretazione delle forme e riproduzionedelle stesse non erano sviluppate secondo lanorma per il livello d’età. Nei grandi e piccoli

* Laureanda del corso di laurea in «Educatore Professionale» presso l’Università degli Studi di Bologna.54 Anno accademico 2002-2003. Seminario di Pedagogia speciale – proff. A. Canevaro e A. Errani, Università degli

Studi di Bologna.

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movimenti si evidenziavano lievi disturbi. Daltest d’intelligenza era risultato un QI di 82,che deve essere considerato piuttosto alto peruna diagnosi di plurihandicap.

Informazioni tratte dalle visite all’ambientedomestico

Karin abita solo con la madre, in un quar-tiere popolare molto povero. L’appartamentodà un’impressione di trascuratezza e pover-tà. Ci sono tre piccole stanze, la cucina e unbagno, per un totale di circa 60 mq.

Karin sta nella cameretta dei bambini (cir-ca 8 mq) da sola. Precedentemente si divide-vano questa stanzetta tutti e tre i bambinidella signora H. (una figlia nata nell’82, unfiglio nato nell’84 e Karin nata nel ’90).

La figlia più grande si trova dagli inizidegli anni ’90 in una comunità alloggio.

Il fratello di Karin, che frequenta la stessascuola speciale come lei, vive anche lui da dueanni in una comunità alloggio.

La signora H. ha frequentato a sua voltala scuola speciale. I suoi comportamenti acasa non erano particolarmente dissonantidalla norma, secondo l’opinione degli inse-gnanti di Karin, la cui madre per ben 20 anniaveva ricevuto l’apprendimento scolasticonella scuola speciale.

La madre di Karin ha tre fratelli, che nonhanno frequentato la scuola speciale e con iquali ella a tutt’oggi non ha (più) contatti.

Terminato il ciclo scolastico speciale, lasignora H. lavorò come cameriera e commes-sa. A 19 anni ebbe il suo primo bambino. Sisposò in seguito, ma suo marito non era ilpadre del bambino. Con suo marito ebbe glialtri due figli. La relazione andò peggiorandoa vista d’occhio. Lui non lavorava e quando siubriacava diventava violento.

La signora H. lavorò durante questo peri-odo a tempo pieno in una fabbrica. Quandotornava a casa, i bambini erano spesso anco-

ra in pigiama, non erano stati lavati e nonavevano ricevuto niente da mangiare. Men-tre la situazione verso la fine del primo annodi vita di Karin aveva subito un’escalationpeggiorativa, la signora H. lasciò il lavoro perstare coi bambini e iniziò a fare occasional-mente pulizie.

Già mentre era incinta di Karin, la situa-zione era molto difficile, ma solo quando Ka-rin ebbe un anno d’età arrivò la separazionedei genitori. Soventi litigi e atteggiamenti re-ciprocamente violenti l’avevano preceduta.

Il marito distruggeva mobili e finì con ildanneggiare anche la porta dell’appartamen-to. Solo con l’aiuto dei fratelli della signora H.e della polizia si riuscì ad allontanare il mari-to dall’abitazione. Un’ordinanza giudiziariainfatti allontanò definitivamente l’uomo dal-l’appartamento della signora H.

I bambini soffrivano per le discussioni adalta voce e violente.

La signora H. descrive Karin come unabambina irrequieta, che durante il suo primoanno di vita piangeva moltissimo. Ella nonha trovato né il tempo né la forza di reagire,sempre per la stessa ragione, e cioè che lavo-rava tutto il giorno.

La signora H. dava allora l’impressione diriuscire a far fronte alle faccende quotidianesolo con grande sforzo.

Specialmente nell’anno successivo allaseparazione, sarebbe stata sopraffatta dallapropria situazione.

Il comportamento della prima figlia, cheallora aveva dieci anni, fu sempre più proble-matico da gestire. Questa ragazza scappavasempre da casa e saltava la scuola. Alla finevenne messa in una comunità alloggio. Lastessa cosa capitò al figlio, quando aveva cir-ca dieci anni. Anche lui entrò in istituto.

Quando la signora H. rimase incinta diKarin, la gravidanza fu considerata a rischio,cosa che la signora H. attribuì alla situazionedomestica e a quella lavorativa.

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Con le analisi del sangue durante la gravi-danza erano state diagnosticate positività nelsangue di Karin. Subito dopo la nascita, cheebbe svolgimento senza problemi, Karin andòin neonatologia, poiché in lei era stata evi-denziata una malattia del sangue. Karin ri-mase nella clinica quattro settimane. Poichéla madre doveva occuparsi degli altri figli enon era automunita, andava a trovare Karinsolo raramente. Fino ai sei anni Karin rice-vette medicine e all’inizio le fecero anche tra-sfusioni di sangue.

Oggi la si considera guarita, ma deve an-cora una volta al mese fare un’analisi di con-trollo. Nei primi diciotto mesi venne a domici-lio una pediatra, per «mobilizzare» la spalladestra di Karin.

Quando Karin aveva due anni e mezzo, lasignora H. iniziò a lavorare a tempo pieno emandò Karin in un centro diurno, che lei fre-quenta anche oggi dopo la scuola.

Karin ha perciò come sua madre pochicontatti con altre persone e bambini a casa. Èspesso sola, passa il tempo nell’abitazione ofuori nei dintorni e riesce a occupare il suotempo con difficoltà. La sua inattività fa visi-bilmente venire il nervoso a sua madre e leireagisce a ciò con rabbia.

La cameretta di Karin offre pochi stimoli.Una casa delle barbie, qualche libro da colo-rare e qualche gioco di plastica, un letto e unarmadio. Non c’è neppure un tavolo.

Da poco Karin va due volte alla settimanain terapia da una psicoterapeuta. Le piaceche qualcuno là si occupi interamente e sola-mente di lei. Una volta alla settimana va aginnastica. Sta raramente a casa e solo neltardo pomeriggio e la sera. Da sua madre, cheè di nuovo disoccupata, riceve pochi stimoli.

Paul

Paul abita con i suoi genitori e quattrofratelli in un appartamento di quattro came-

re in un quartiere popolare. Al momento dellavisita a casa erano presenti il patrigno disoc-cupato, la nonna e la madre. Tutti e tre sem-bravano interessati al fatto che Paul conti-nuasse a ricevere aiuto scolastico e davanovolentieri informazioni su di lui.

Nel discorrere venimmo a conoscenza delfatto che Paul era nato nella Slesia dodicianni prima. Sua madre a quel tempo era inattesa di divorzio dal padre alcolista di Paul.Nonostante ciò, Paul e i suoi fratelli più gran-di ebbero la possibilità di vedere spesso ilpadre, fino a quando la madre si separò defi-nitivamente da quest’uomo dopo due anni.

Paul era un bambino tranquillo e affettuo-so. Quando aveva quattro anni frequentò perun anno l’asilo, quello in cui la madre lavora-va come educatrice.

Ma quando la madre a motivo di una nuo-va gravidanza non poté più andare a lavorarelà, anche Paul non ebbe più alcuna voglia diandare all’asilo.

A sette anni egli iniziò la scuola, conse-guendo buoni risultati e non incontrando nes-suna difficoltà.

Due mesi prima della fine dell’anno scola-stico, egli dovette abbandonare questa classe,perché la famiglia si spostò in Germania. Nelfrattempo la madre si era risposata e avevaavuto due figli. Col patrigno Paul si compren-deva e si comprende molto bene. L’immigra-zione in Germania fu per l’intera famigliaun’«odissea».

Dapprima la famiglia arrivò in un posto ditransito detto «Friedland» (terra di pace) e cistette per un mese. Poi rimasero in un altroposto per qualche altro mese e di là fino adarrivare dalla nonna, dove già parecchi altriparenti della famiglia dei nonni abitavano esi erano parimenti trasferiti.

Come nei luoghi di passaggio precedenti,la famiglia composta di sei membri avevaanche qui una sola stanza per tutti. Di qui inpoi Paul frequentò per circa nove mesi il livel-

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lo scolastico terzo di una classe preparatoriaper stranieri.

Le sue prestazioni erano però pessime.Quando le condizioni nell’appartamento

della nonna divennero insopportabili, per-ché sempre più parenti arrivavano dalla Po-lonia, la famiglia si trasferì in un nuovo po-sto. E qui Paul frequentò un’altra classe pre-paratoria per stranieri, questa volta al se-condo livello.

Dopo un anno la famiglia si trasferì per laquinta volta e Paul dovette cambiare classeper la terza volta.

Egli andò per metà anno nella secondaclasse di una scuola elementare, poi la fami-glia cambiò nuovamente domicilio, recandosidi nuovo in un cosiddetto luogo di transito.

Nella successiva scuola elementare eglifrequentò la terza classe.

Poiché le prestazioni scolastiche di Paul inquesta classe erano insufficienti, fu alla fineiscritto nella scuola speciale che frequentaattualmente.

I genitori di Paul e la nonna raccontanoche il comportamento di Paul non è cambiatoper tutto questo periodo. È stato sempre so-cievole, amichevole e affettuoso.

Fa amicizia sempre velocemente in ogninuova classe. Di pomeriggio sta tuttavia perlo più a casa in famiglia e gioca coi suoi fratel-li. Qui si sente veramente bene.

Daniel

Tempo prescolastico e carriera scolastica

La gravidanza e la nascita si svolsero, uti-lizzando l’espressione della madre, «normal-mente». Tuttavia i medici diagnosticarono su-bito dopo il parto in Daniel un deficit nellefunzioni della tiroide. Fu necessaria una bre-ve degenza in ospedale.

All’asilo fu osservata una difficoltà di re-spirazione dal naso. Nella fonazione si evi-denziò una dislalia più lieve. Daniel frequen-

tò per due anni un logopedista, che dovetteporre rimedio a tale carenza.

All’asilo vennero anche osservati proble-mi motori di un certo rilievo in Daniel. Venne-ro fuori anche problemi di equilibrio e difficol-tà di coordinazione. Daniel seguì un tratta-mento di ginnastica fisioterapica. Nonostan-te questi provvedimenti, Daniel nell’anno sco-lastico 1991-1992 era stato rimandato indie-tro dalla visita medico-scolastica, a causa diun sottosviluppo a livello emozionale, socialee motivazionale e frequentò perciò da quelmomento un asilo per bambini con esigenzedi ausili speciali. Nell’anno scolastico 1992-1993 Daniel fu iscritto direttamente alla scuo-la speciale. Dal test d’intelligenza risultò unQI di 58.

Daniel adesso frequenta la classe quinta. Illinguaggio di Daniel è anche oggi ancora moltoinfantile e mal articolato. Farfuglia e s’ingar-buglia. Il suo vocabolario è molto povero.

Nonostante la fisioterapia fatta per treanni, la sua motricità grossolana è ancoraproblematica. Egli ad esempio tiene una pal-la con mani divaricate e irrigidite.

Il suo incedere fa l’impressione di un cal-pestare pesante. Anche nei movimenti piùpiccoli Daniel ha ancora difficoltà. Può trac-ciare a fatica una riga diritta sul foglio e con-trarsi per colorare e scrivere. In matematicaha grandi difficoltà.

Contesto familiare

Daniel vive insieme a sua madre e a duefratelli, ma senza padre, in una zona a rischiosociale di una grande città. Ha una sorellapiù grande e un fratello più piccolo. La sorellafrequenta una scuola con aiuto educativo, ilfratello la stessa scuola speciale di Daniel. Itre fratelli hanno due diversi padri.

L’appartamento, che è composto da duecamere e mezzo, si trova in un grande caseg-giato di un quartiere dormitorio.

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Per quattro persone l’abitazione è moltopiccola. Daniel divide con suo fratello unacameretta davvero minuscola. La sorella stada sola in un’altra cameretta altrettanto pic-cola. La madre utilizza il soggiorno anchecome camera da letto. La camera condivisadai due fratelli offre spazio per un letto acastello e un piccolo scaffale per il vestiario.Molti abiti giacciono per terra. Ci sono pochigiochi e neanche un libro.

Insieme a suo fratello, egli ha un televiso-re. Daniel vede spesso la televisione fino atarda notte e poi di nuovo al mattino, ma nonsa fornire nessun resoconto su ciò che ha vi-sto. Durante la visita l’appartamento fa un’im-pressione di grande disordine. La madre nonha un lavoro fisso. Per bisogno, cuoce il panea cottimo fino a notte per il vicinato. La fami-glia sopravvive grazie all’assistenza sociale.

Dei padri non sembra ci si possa fidare.Daniel racconta di una volta che suo padredurante una visita ha portato via da casa deldenaro.

In tutte le visite all’abitazione della fami-glia si presenta un triste spettacolo. Le saraci-nesche sono sempre abbassate. L’appartamentogiace perciò sempre in una semioscurità e tra-smette un senso di tristezza. Il televisore nelsoggiorno risulta acceso a ogni visita.

Con le temperature autunnali l’apparta-mento non viene riscaldato, nonostante ciò lamadre indossa solo una t-shirt e ciabatte sen-za calze. La figlia al contrario porta addossouna giacca a vento. In due visite su tre trovia-mo la madre a letto. Probabilmente soffre didisturbi depressivi.

Della sua storia di vita è da rilevare cheella ha oggi 44 anni ed è cresciuta in un isti-tuto. Probabilmente in quel contesto lei non èriuscita a costruire alcuna relazione di fidu-cia. Lei stessa afferma: «Io non so il significa-

to della parola “madre”. Io penso a mia madrecol cognome». Anche i suoi rapporti affettivicon diversi uomini sono stati di breve durata.Il supporto di due anni da parte di un’assi-stente sociale per famiglie non ha portatoalcun cambiamento.

In antitesi alla passività della madre, Da-niel si mostra a casa molto attivo e autonomo.Durante una visita preparò il caffè e apparec-chiò la tavola. La madre accentua con pienoorgoglio l’autonomia di suo figlio. Che possafare la spesa da solo, acquistare biglietti, rias-settare l’appartamento, alzarsi al mattino dasolo e prepararsi da sé la colazione.

La madre di Daniel cerca di essere una«buona madre». Rifiuta sdegnata l’educazio-ne nell’istituto. Il suo rapporto con Danielmostra tuttavia di essersi bloccato esterior-mente. Lei si preoccupa della salute e cura dilui, s’impegna anche per i compiti richiestidalla scuola. Così cuoce lei delle torte per unafesta di classe.

Con il padre sopravvive un debole contat-to. La madre non ha alcun atteggiamentopositivo verso il padre di Daniel Lo definiscestupido. Il padre da parte sua afferma che lamadre è «marcia». Il padre fa tagliare a Da-niel i capelli e la madre così commenta inmaniera critica: «Sembra una faccia di lunapiena. La prossima settimana, se ho qualchesoldo, devi tornare dal barbiere».

Seconda parte – L’integrazione è undiritto delle persone: una scuola senzabambini con problemi non è affattouna scuola normale55

Tra le diverse tematiche sulle abilità cheho pubblicato nella mia quasi decennale espe-rienza come incaricato per le questioni legatealla disabilità della regione Niedersachsen, il

55 A cura di Karl Finke, delegato regionale per le tematiche riguardanti i soggetti con disabilità nel Land Niedersachsen.

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tema dell’integrazione scolastica del bambi-no disabile è sempre stato centrale.

Dall’estate 1994 a intervalli regolari par-tecipo alla tavola rotonda dell’integrazioneper agevolare la diffusione delle informazionie lo scambio delle opinioni al riguardo tra gliinteressati.

Negli anni passati ho imparato a conosce-re insegnanti impegnati, che traducono inrealtà l’integrazione scolastica pur nelle at-tuali condizioni piuttosto difficili, oppure che,con variegate forme di collaborazione, cerca-no di mettere in contatto nella quotidianitàscolastica bambini delle scuole normali e bam-bini delle scuole speciali.

La mia collaborazione con Vivere insieme– Imparare insieme e altre iniziative da partedei genitori mi conferma sempre più nellaconvinzione che una scuola per tutti i bambi-ni deve essere l’obiettivo per il quale vale lapena confrontarsi.

Dopo aver rimandato la cosa per diversianni, il Ministro per la Cultura Juergens-Pieper ha pubblicato nell’autunno scorso(1998) Imparare sotto un unico tetto.

Con questa espressione s’intende portareavanti l’integrazione di bambini disabili inNiedersachsen in senso graduale.

Rispetto alla situazione di stallo prece-dente, tale iniziativa è sicuramente da segna-lare come un progresso.

Rispetto ai miei assunti basilari che riguar-dano l’integrazione per l’infanzia con disabili-tà, che si sovrappongono sempre più con lerichieste e i desideri dei genitori incontrati, iodevo tuttavia porre in proposito parecchi in-terrogativi, in parte teorici, in parte concreti.

Con il motto «Una scuola senza bambinicon problemi non è affatto una scuola norma-le» avevo, nell’estate del 1997, organizzato uncongresso allargato a tutta la regione.

Questo motto esprime oggi come allorauna delle mie convinzioni di base. Innanzi-tutto solo se la scuola insieme è quella effetti-

vamente per tutti i bambini e tutti i bambinigiocano, imparano e lavorano in collaborazio-ne, secondo il loro livello di sviluppo e permezzo delle loro attuali competenze sensoria-li, intellettive e d’azione, e con un progettocomune, solo così si può parlare di un’integra-zione realizzata.

La grande visione sociale di una scuolaumana e democratica, che è appunto una scuo-la per tutti i bambini, si può realizzare masolo gradualmente, con azioni concrete e ac-cettate a livello politico e sociale.

La sua realizzazione si scontra con unaserie di resistenze a monte: in primo luogoquelle dei fautori dell’organizzazione scola-stica speciale, in secondo luogo quelle dei so-stenitori dell’organizzazione pedagogica nor-male, in terzo luogo quelle dei politici, chetemono un conflitto di fondo con le lobby eall’esterno vivono sotto la pressione del doverfare tagli alle spese.

In contraddizione con le quotidiane e ripe-tute affermazioni che gli investimenti nellaformazione e nel campo del sapere sono inve-stimenti per il futuro, e perciò da incrementa-re con urgenza, sta una prassi che non equi-paggia il settore della formazione — neanchequello per l’integrazione — con mezzi finan-ziari predisposti e quindi dal mio punto divista in effetti questo smantella le possibilitàdi futuro dei nostri bambini.

Io desidero affermare, al di là dei giri diparole forse anche evitabili, che negli atti quo-tidiani dei bambini e dentro le scuole l’integra-zione funziona esattamente come quella degliadulti con disabilità (nella società), cioè questaintegrazione corrisponde ai pensieri diffusi frala gente riguardo alla partecipazione civile de-mocratica di tutti al processo decisionale.

Troppo spesso sono solo i genitori dei bam-bini con disabilità che si uniscono nella lottaper l’integrazione, e come sempre essi sonoidentificati come portatori di un bisogno, cheviene espletato dalle scuole e dalle relative

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autorità con atteggiamento di notevole buo-na volontà.

Qualche volta il desiderio di integrazioneviene represso già tramite il rifiuto del colle-gio degli insegnanti della scuola elementarecompetente, qualche volta già al livello dellenon previste risorse per la stessa pedagogiaspeciale.

Noi individui con disabilità tuttavia non civediamo come soggetti bisognosi, piuttostocome comprotagonisti collaborativi di questasocietà, con un diritto di partecipazione.

Questo diritto nel settore scuola ieri comeoggi non viene realizzato.

Imparare sotto un unico tetto ci porta piùvicino alla realizzazione di questo diritto?

Innanzitutto vorrei fornire alcuni dati sullasituazione scolastica dei bambini disabili perla regione Niedersachsen. Dalla statisticadell’anno scolastico 1997/98 si evince che amalapena 580 alunni/e disabili hanno ricevu-to lezioni a obiettivo differenziato in 209 clas-si scolastiche che adottano il concetto «inte-grazione». Rispetto al mio ultimo calcolo, nel1994/95 c’erano circa 500 alunni/e.

Di contro, ricevono apprendimento nellescuole speciali del nostro Land più di 33.100bimbi e ragazzi! (Nel 1994/95 erano 29.800)Dunque il dato di realtà, che una quota schiac-ciante di bambini con problemi viene scola-rizzata nelle scuole speciali, che vuol dire es-sere scartati, significa che non è cambiatoniente di fondamentale anche rispetto aglianni passati.

Sia l’ampliamento della legislazione suldivieto di accesso dato dallo svantaggio, sia ilcambiamento della legge scolastica nella di-rezione dell’integrazione come eccezione allaregola (in deroga), hanno causato una tra-sformazione di fondo evidente.

Il sistema scolastico strutturato, che for-nisce un’etichetta ai bambini disabili e li inca-sella in determinati cassetti, continua sem-pre più a esistere intoccabile.

Anche il concetto Imparare sotto un unicotetto allora non porterà qui alcun cambia-mento qualitativo. L’organizzazione dellascuola speciale non viene infatti toccata nelsuo zoccolo duro, piuttosto sperimenta modi-ficazioni che concernono la ristrutturazionedei suoi compiti.

Da una parte viene previsto per il settoredel sostegno scolastico l’alleggerimento gra-duale della scuola primaria — questo livellodi scuola cambia in Scuole senza alunni —,dall’altra si va verso il rimpicciolimento perquanto possibile di determinate scuole spe-ciali. Al contempo però viene data, all’internodel tema del Ministro della Cultura, una ga-ranzia dello status quo per la scuola speciale.In tutti i casi rimane assodato che la scuolaspeciale è da intendersi come centro d’incen-tivazione proprio della pedagogia speciale(comma 20).

Io dubito che una integrazione, nel signifi-cato effettivo del mantenimento in vigore deitradizionali pilastri del sistema scolastico, quil’organizzazione della scuola speciale, là l’or-ganizzazione della scuola normale, possa es-sere realizzata al tempo stesso con forme dicollaborazione da svilupparsi.

Il mio lungo apprendistato come delegatoper le problematiche connesse alla disabilitàevidenzia che una disponibilità a un cambia-mento di base dell’organizzazione scolasticastrutturale al momento non c’è.

Premesso questo, Imparare sotto un unicotetto può comunque portare dei progressi pra-tici nella scolarizzazione generale di bambinicon e senza disabilità.

Con la graduale realizzazione dell’assi-stenza pedagogica speciale di base, vengonocoinvolti nell’integrazione perlomeno queigruppi di bambini della primaria, i qualierano finora considerati proporzionalmentemolto pochi, bambini con difficoltà di ap-prendimento e bambini con problemi di com-portamento.

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Il Ministro per la Cultura metterà infattifiduciosamente a disposizione per l’anno sco-lastico 2000/01 un contingente di ore in piùtenute da insegnanti di sostegno dentro le scuo-le normali e può essere agevolato con l’assi-stenza di base della scuola speciale, nel quadrodel concetto regionale di collaborazione.

Il concetto tuttavia è affetto da quattropunti deboli, che hanno urgentemente biso-gno di una modifica, se deve seguire l’effetti-va integrazione.

In primo luogo, da sempre non esiste dirit-to di scelta per i genitori tra la scolarizzazioneintegrativa all’interno della scuola normale equella speciale.

Ciò viene indicato espressamente nel tema.Come incaricato per le disabilità, chiedo, nelsenso del diritto democratico, che si possaaccedere a un preciso diritto.

In nessun altro settore della scuola uncollegio degli insegnanti o un preside può im-pedire che determinati ragazzi frequentinola lezione disciplinare normale, ed è giustoche sia così.

Feuser esprime questo in modo acuto:

Non mi è noto alcun caso in tutta la pedagogiain relazione al quale ci si interessi della disponibi-lità e del libero volere del personale scolastico perassumere determinati compiti, tranne che nell’am-bito dell’integrazione. Questo dimostra di essere ilmiglior mezzo per cambiare le funzioni dell’inte-grazione in un nuovo strumento della selezione eper bloccare la vera integrazione.

Il diritto di scelta, secondo la mia opinio-ne, deve innanzitutto essere ancorato alla le-gislazione scolastica del Niedersachsen e inseguito munirsi dei collegamenti tra dirittogiuridico e azioni concrete necessari per lasua realizzazione.

In secondo luogo, il concetto di assistenzapedagogica speciale di base ha validità espres-sa solo per la primaria.

L’assistenza pedagogica speciale di base, cheunisce gli obiettivi di protezione e di prevenzione

con l’incentivo proprio della pedagogia speciale, èlimitato alla scuola elementare. Altre forme, peresempio la cooperazione delle scuole, gemellate adue, e di piccoli gruppi, con l’incentivo propriodella pedagogia speciale, stanno cercando di farsispazio. (Comma 21)

Genitori e pedagogisti impegnati pongonola domanda se, con l’uscita dalla quarta classe(le scuole elementari durano quattro anni), l’in-tegrazione debba venire dichiarata flessibile.

Dal mio punto di vista ciò sarebbe un erro-re. L’integrazione può e deve essere ininter-rotta nei successivi livelli scolastici.

Essa si può estendere nel tempo fino al-l’ingresso alla formazione professionale.

Io sto cercando con la «Lega per l’occupa-zione accompagnata» di dare un contributoalla realizzazione di questo obiettivo.

In terzo luogo, il mandato politico per losviluppo del concetto regionale dell’integra-zione non viene conferito con obiettivi abba-stanza precisi.

Interessati in loco (genitori, corpo-insegnante,presidi, operatori scolastici, provveditorati agli stu-di) sono chiamati a costruire insieme, nel segno diuno sviluppo degli aiuti pedagogico-speciali, sottola struttura regionale, con l’obiettivo-orizzonte del-l’integrazione. (Comma 9)

I genitori che s’impegnano per l’integra-zione temono che — ancora una volta — l’im-pulso iniziale, che fa la forza della loro catego-ria, debba provenire solo da loro.

Un cambiamento di sistema, a tal puntocomplesso, ha necessità, accanto all’appoggiodi tutti i pensabili interessati, della consulen-za e assistenza da parte degli operatori scola-stici, per andare oltre la norma vigente a di-sposizione oggi.

Inoltre devono essere calcolati, accanto almonte-ore degli insegnanti, i tempi della reci-proca consulenza e della formazione avanzata.

In quarto luogo, per i bambini con disabi-lità psichiche e per quelli con più disabilità

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sembra che Imparare sotto un unico tetto pre-veda sostanzialmente la costruzione di classipartner e altre forme collaborative.

Anche qui si evidenzia una convinzionedi principio avvalorante l’organizzazione pe-dagogica speciale strutturata in modalità va-riegate.

Io sono sicuro che, in una scuola per tutti,gli/le alunni/e con qualunque tipo di disabili-tà siano pareggiati con l’annullamento delledisparità e vengano integrati nella vita scola-stica normale. L’integrazione è in questo sen-so indivisibile: essa crea un’unità.

La strada verso l’integrazione scolastica èanche oggi ancora lunga e richiede da parte ditutti gli interessati un alto ideale per costrui-re la capacità di resistenza e l’abilità, accantoai piccoli e grandi passi concreti, di non per-dere di vista, alla base di ogni disabilità, laformazione-per-tutti, senza emarginazione so-ciale e senza segregazione.

Le analisi elaborate da Hans Wocken han-no documentato che gli/le alunni/e, nelle clas-si che attuano la vera integrazione, produco-no risultati non inferiori ma almeno compa-rabili rispetto ai bambini delle classi scolasti-che normali (senza integrazione).

L’educazione e la formazione all’integra-zione portano con sé allo stesso tempo all’an-nullamento della violenza, oppure alla suaprevenzione.

Jutta Schoeler riferisce quanto segue:

Da parecchie ricerche e mie esperienze possonoessere ricavate le seguenti conclusioni: il dato che,nelle classi che fanno integrazione, la lezione vienepianificata in modo che gli alunni bravi non si an-noino e gli alunni più deboli possano far fronte aicompiti relativi alle loro possibilità di apprendi-mento porta con sé come una regola aurea all’ab-battimento della disposizione d’animo violenta eall’incremento di prestazione di tutti i bambini.

Un timore, che io stesso ho avuto alla gui-da della mia prima classe integrativa, che ineffetti i bambini con disabilità sarebbero sta-

ti oggetto di aggressioni, non si è neppurepresentato, al contrario.

Perciò un potenziale aggressivo che dimi-nuisce, grazie all’educazione insieme, in consi-derazione anche della violenza tra i giovani,acquista un significato sempre più pregnante.

Feuser descrive l’obiettivo verso il persegui-mento del quale anch’io mi sento impegnato:

Finora abbiamo incentivato e curato le perso-ne disabili a partire dall’ambito motivazionale,forse abbiamo persino vissuto per loro, sì possibil-mente perfino con loro, in quei loro posti peròassegnati dalla società. Ma noi non gli abbiamoinsegnato a lavorare e abitare con noi, tra noi, inquegli spazi istituzionali che noi per noi stessiesigiamo, in modo del tutto naturale. Questa è lapiccola, ma assolutamente significativa differen-za — il volere l’integrazione.

L’integrazione implica il connettersi nuo-vamente insieme di mondi-di-vita artificiosa-mente divisi delle persone con e senza proble-matiche.

Essa prevede l’integrazione sociale di tut-te le parti di una società e non è un obiettivoirraggiungibile, ma deve essere realizzato pas-so dopo passo nella realtà quotidiana di ognigiorno.

L’integrazione viene vista spesso come unastrada a senso unico. L’individuo con disabili-tà si deve integrare.

È vero l’esatto contrario: è al non portato-re di disabilità che viene richiesta una capa-cità d’integrazione. Sono tutti coloro che de-vono imparare, nella loro quotidianità profes-sionale e privata, a stare insieme a chi hadelle differenze. È normale essere diversi. Soloquando questa idea sarà diventata coscienzagenerale della società, nessuno sforzo d’inte-grazione sarà più necessario.

Terza parte – Commento

Per quanto gli intenti del Ministro per laCultura del Niedersachsen, con la direttiva

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regionale dell’ottobre 1998 per il diritto scola-stico all’integrazione a favore dei bambini condisabilità — intitolata Imparare sotto un uni-co tetto — siano lodevoli per gli sforzi percepi-bili dietro la linea politica scelta, occorre ef-fettuare alcune importanti riflessioni.

Con la prima parte, quella composta datre brani riguardanti altrettante storie di vita,a me è sembrato si potesse avere, in dettaglinon secondari, un’idea di come concretamen-te vengano avviate o «deviino» le carriere sco-lastiche di alcuni bambini che, QI alto o bassoa parte — parametro peraltro già grande-mente criticato in passato —, da un certopunto in avanti hanno visto le loro possibilitàdi scelta alla formazione educativa quanto-meno limitarsi, restringersi, e non ampliarsi,come vuol far credere (speriamo in buonafede) l’impostazione ideologica della scuolacosiddetta speciale — che quella direttivaministeriale ha sdoppiato nel nome, differen-ziando tra «Centri per il rinforzo educativo»(Foerderzentren) e le tuttora esistenti vere eproprie scuole speciali (Sonderschulen).

Con il secondo scritto ho voluto mettere inrilievo la risposta, di alto valore politico-tecni-co e morale insieme, di un’autorevole voce chedell’argomento disabilità e integrazione puòparlare senza dubbio con grande competenza.

Particolare rilievo assume il seguente in-terrogativo: sta cambiando qualcosa di so-stanziale in Germania rispetto alla proble-matica dell’integrazione del bambino disabi-le nella cosiddetta scuola normale?

In primo luogo, riporterò le definizioni didisabilità fisica e psichica di tre studiosi edella Commissione per la Formazione del Con-siglio Tedesco corrispondenti a periodi leg-germente differenti; in secondo luogo, eviden-zierò le implicazioni di una definizione piut-tosto a maglie larghe del cosiddetto deficit diapprendimento; in terzo luogo, riassumendo-le, elencherò le forme di cooperazione incenti-vate dalla direttiva ministeriale del ’98, e la

cui implementazione è solo all’inizio, tra scuolespeciali e scuole normali, tramite l’istitutoibrido dei centri per il rinforzo educativo.

Terminerò con il commento all’articolo diFinke.

Dunque, Heinz Bach nel 1980 fornì la se-guente definizione di disabilità fisica:

[…] un dominante o perdurante danno della capa-cità di movimento, con continue considerevoli ri-percussioni sulle intere inclinazioni emozionali esociali, in seguito a un danneggiamento degli ap-parati di sostegno e del movimento o per un altrodanno organico.

Vorrei ora invece porre a confronto tredefinizioni distinte di disabilità psichica.

Secondo la Commissione del ConsiglioTedesco per la Formazione (Bildungskommis-sion des Deutschen Bildungsrates), risalenteal 1973:

Ha un deficit psichico chi, a seguito di un dan-no organico-genetico o di altra natura nel suo svi-luppo complessivo e nella sua capacità di appren-dimento, è così danneggiato da aver bisogno pre-vedibilmente per un lungo periodo di vita di aiutisociali e pedagogici. Nei danni cognitivi rientranoquelli di tipo linguistico, sociale, emozionale emotorio. Uno che sia «sottolivello» deve esseremisurato sia attraverso la funzione di valore delQI, sia attraverso verdetti di una incapacità disviluppo, poiché in sostanza si deve presupporrein tutti gli individui l’esistenza della capacità disviluppo.

Ancora Heinz Bach, stavolta nel 1977, suldeficit mentale effettua le seguenti conside-razioni:

[…] gli individui con deficit psichico sono personeil cui comportamento apprenditivo rimane indie-tro rispetto all’attesa riferita all’età anagrafica edè caratterizzato da un perdurante predominio del-l’uso sensoriale-percettivo, dell’utilizzo e imma-gazzinamento dei contenuti di apprendimento conuna concentrazione del campo di apprendimentosul diretto soddisfacimento dei bisogni, che si ri-scontra normalmente con un quoziente d’intelli-genza sotto i 55/60.

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E ora si consideri la definizione espressada Georg Feuser nel 1981:

Come individuo con deficit psichico viene qua-lificato chi, a motivo di danni genetico-organici[…] o a causa di altre forme di danno, specialmen-te danni riportati in seguito a svantaggi di tipoeconomico-sociale, da cui deriva una condizione diforte isolamento sociale, è danneggiato a tal puntoche, in considerazione della capacità attuale diapprendimento per la soddisfazione del suo biso-gno di educazione e sviluppo, così come per il rag-giungimento o il mantenimento della sua salute,abbisogna di un aiuto pedagogico e sociale specia-le, prevedibilmente per un lungo periodo di vita.

Come si può facilmente notare, la tenden-za è stata quella verso un progressivo am-pliamento della sfera d’influenza del concettodi disabilità psichica, e parallelamente l’al-trettanto progressivo allargamento delle fun-zioni attribuite all’organizzazione delle scuo-le speciali.

In particolare, risulta chiara la ragione te-orica sottesa alla scelta politica di predisporrepercorsi paralleli speciali per tutta una porzio-ne di popolazione, che è stata (e che è a tutt’og-gi) soggetta a condizioni di deprivazione eco-nomica sociale e culturale, oltreché affettiva.

Faccio notare anche i miei dubbi sull’im-perante e perdurante idea che si potesse (e sipossa) con il QI davvero connotare un indivi-duo come «sottosviluppato».

A questo punto, una breve digressionesull’idea elaborata dallo stesso Feuser nel 1984riguardante i suoi «principi didattici» per unacorretta lezione disciplinare incentrata sulsoggetto portatore di una qualche disabilitàpsichica, mentre frequenta la scuola appositaper il sostegno di soggetti che presentano de-ficit mentale.

Tali principi didattici sono otto:

– individualizzazione (significa lezione cen-trata sulla persona);

– principio dell’attività;– principio dell’interezza (in senso olistico);

– strutturazione dell’apprendimento perobiettivi;

– trasmissione, applicazione;– principio dell’essere in conformità con lo

sviluppo (per stadi successivi);– parola concomitante con l’azione;– apprendimento sociale (socializzazione).

Perché ho voluto parlarne? Perché questiprincipi Feuser li pensa applicabili estensiva-mente anche dentro il contenitore scuola nor-male, grazie all’inserimento del soggetto condisabilità dentro una normale classe scolasti-ca, supportato da un insegnante di sostegno,chiaramente specializzato in pedagogia spe-ciale, e con il consenso attivo dell’insegnantedisciplinare.

E infatti è di Feuser una frase che puòapparire provocatoria: «Non esistono indivi-dui con deficit psichico!».

Ora, sul secondo punto nodale di questomio scritto, ovvero cosa c’entri la problemati-ca della deprivazione socio-culturale-econo-mica con la disabilità, riporto l’opinione espres-sa da Hans Wocken nel 2000 al riguardo:

La questione se un deficit nell’apprendimentosia da considerarsi come deficit di prestazione sco-lastica, come deficit sociale o come deficit d’intelli-genza, è oziosa. Le carenze nell’apprendimentosono sempre tutto questo al contempo, debolezzadi risultati scolastici, QI basso e svantaggio socia-le. Da sola la triade prestazioni-intelligenza-con-dizioni sociali mette nella condizione di misurarei deficit di apprendimento per comprenderli […]La scuola per il rinforzo educativo viene frequen-tata chiaramente in modo sovraproporzionato dabambini con condizioni sociali inferiori. Essa ris-pecchia perciò, a un livello sottostante, di nuovo ladisuguaglianza delle opportunità […] La scuola dirinforzo è una scuola per poveri, disoccupati efruitori dell’assistenza sociale; essa è oggi in espan-sione e lo sarà anche nel prossimo futuro.

A conferma di questa interpretazione, horiportato nella prima parte tre storie di vita.Sono evidentemente tutte storie che parlano

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di una deprivazione plurima che forse, primadi essere carenza emotivo-affettiva, è stata daun lato una mancanza di risorse materiali, deibisogni primari, dall’altro un deficit che io chia-merei della società intera in quanto, delegan-do in bianco il problema all’assistenza sociale,si è creato un vuoto, per non dire una spaccatu-ra tra i vari attori sociali, che sono sempreindividui o gruppi più o meno vicini al soggettoportatore di domande che sono poi le stesse diciascuno: domanda di accesso al lavoro, allasicurezza e alla salute, nonché richiesta di pariopportunità educative e di partecipazione allaformazione delle decisioni politiche.

E troppo spesso le famiglie debbono farfronte da sole a problematiche complesse,nell’indifferenza dell’ambiente circostante. Inquesto senso è emblematica la storia di emi-grazione di Paul e della sua famiglia che ab-biamo riportato precedentemente.

Accenno, riepilogandole come sono espres-se nella direttiva ministeriale succitata, alleforme di cooperazione tra scuole speciali e scuolenormali (puntualizzo che parliamo soprattut-to di rapporti nel ciclo scolastico primario, finoal termine della scuola elementare):

Dunque, tali forme contemplano:

– lezioni speciali per il bambino con difficoltàdi linguaggio;

– classi d’integrazione;– lavoro congiunto della scuola elementare

normale e speciale;– servizio mobile;– gemellaggi fra scuole;– lavoro collaborativo strettamente pedago-

gico tra scuole normali e scuole speciali.

Devo fare le seguenti annotazioni:

1. il servizio mobile (Mobile Dienste) consistein un servizio di trasporto con automezzo,per individui disabili, in particolare fisici,casa-scuola e viceversa, con presenza diun educatore specializzato in pedagogiaspeciale;

2. le classi che attuano al loro interno l’inte-grazione di soggetti con disabilità (Inte-grationsklassen) rappresentano in effettil’unica modalità veramente alternativa allascuola speciale, perché il suo ambito diriferimento diventa la scuola normale, masono ancora in numero esiguo.

Credo di poter ora dar seguito al commen-to all’articolo di Karl Finke, perché forse ènecessario puntualizzare due o tre passaggichiave della sua disamina sulla legge scola-stica varata dal Ministro per la Cultura Juer-gens-Pieper.

Egli asserisce che non sta cambiando nulladi fondamentale rispetto al tema in questione.Perché? Detto in estrema sintesi, e se ho in-terpretato bene il suo pensiero, Finke affermache con questo provvedimento non si tocca ilnucleo dell’organizzazione scolastica così co-m’è sorta, tutt’intorno all’idea che ci deve esse-re una scuola apposita dove possano andare icosiddetti «diversi» (apparentemente sembrache ciò difenda un diritto a una presunta di-versità da salvaguardare, in quanto la debo-lezza sia oggetto di sopruso e abuso da partedei più forti, i sani, per così dire).

La struttura delle scuole speciali, ben ra-mificata in regione, si è perciò arroccata suconcetti classici come ad esempio che, se unbambino ha un quoziente intellettivo basso, odifficoltà senso-motorie o disturbi del com-portamento, come i comportamenti antiso-ciali, o ancora una delle innumerevoli possi-bilità di disabilità, è giusto e sacrosanto chericeva stimoli e rinforzi adeguati all’internodi una struttura appropriata.

Non si capisce peraltro come mai manchia tutt’oggi una vera e propria «sollevazionepopolare» nel senso che Finke afferma chemanca una risposta da parte della società nelsuo insieme e si chiede perché i genitori deibambini «problematici» vengano tanto spes-so lasciati da soli a combattere. E, così dicen-do, mette il dito in un’altra piaga.

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Bozza E

rickson

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La formazione degli insegnanti per l’inclusione m

Se il discorso Finke lo piega verso il socialeè comunque perché secondo lui una politica«alta», che si dichiari realmente democratica— parità di accesso alla formazione e ai luo-ghi educativi, ad esempio —, non può e nondeve essere fatta dall’alto, bensì dal «basso»:devono essere le persone che compongono l’in-tera comunità a mettersi «in azione», riem-piendo di concretezza un’idea tanto bella quan-to impossibile, se lasciata nelle mani dei soliaddetti ai lavori, l’idea che sia realizzabilefare scuola tutti insieme, nessuno escluso, nes-suno ghettizzato.

Non si può fare educazione se non si èdegli idealisti.

Per evitare di scadere nella vuota retoricao in discorsi demagogici (e che i tecnici del-l’istruzione storcano il naso), Finke si spingeoltre e, secondo me, tocca un altro punto deli-cato, quando accenna alla tematica (attuale emolto mediatizzata) della violenza tra i gio-vani (vedi ad es. il fenomeno del bullismo).

In effetti è sottile ovvero profonda la capa-cità che rivela Finke di collegare tra loro pro-blematiche che spesso per necessità della ri-cerca vengono suddivise in compartimentistagni.

Ma come può essere utile mettere tutti ibambini del mondo in un unico «calderone»indifferenziato chiamato scuola, soprattuttose di fianco, più in piccolo, c’è un aggettivostrisciante: «normale»?

Integrare ha risvolti insospettati: diminui-sce il livello delle emozioni negative, anzichéaumentarlo. Eresia! Ma come è possibile? Ècome dire che, se bambini israeliani e bambi-ni palestinesi venissero educati insieme, nel-la stessa scuola, calerebbe la tensione conflit-tuale almeno tra i futuri adulti israeliani e gliadulti palestinesi! Impossibile!

Eppure le ricerche svolte finora (e in que-sto gli studiosi tedeschi la buona volontà ce lastanno mettendo) confermano questo dato. Èun dato, e come tale se ne può purtroppo fare

l’uso strumentale che uno meglio crede (so-prattutto in politica, ma non è politica anchela direzione che prende la ricerca?): si puòperfino non tenerne conto!

Finke, a mio parere, meriterebbe di esserenominato prima o poi Ministro per la Cultu-ra…

Riferimenti bibliografici

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Feuser G., Geistigbehinderte gibt es nicht! Referat,veroeffentlicht (Non ci sono soggetti con handi-cap psichico!), Seminario pubblicato inwww2.uibk.ac.at/bidok/library/grundlagen/feusergeistigbehinderte.htlm.

Finke K. (1999), Eine Schule ohne Behinderte Kin-der ist keine normale Schule (Una scuola senzabambini con problemi non è affatto una scuolanormale. Una difesa dell’integrazione scolasti-ca), Land Niedersachsen, Hannover, pp. 2-5.

Klein G. (2001), Sozialer Hintergrund und Schul-laufbahn von Lernbehinderten/Foerder-schue-lern (Retroterra sociale e percorso scolastico dialunni con difficoltà di apprendimento che ri-cevono incentivi speciali), «Zeitschrift fuer Heil-paedagogik», vol. 2, pp. 56 e seg.

Niedersachsisches Kultusministerium (1998), Ler-nen unter einem Dach. Niedersachsen machtSchule. Rahmenplanung fuer die Fortfuehrungder Integration von Schuelerinnen und Schue-lern mit sonderpaedagogischem Foerderbedarf(Imparare sotto un unico tetto. Legge-quadroper la continuazione dell’integrazione degli/delle alunni/e con necessità di rinforzo educa-tivo pedagogico-speciale), Hannover.

Wocken H. (2000), Leistung, Intelligenz und Sozial-lage von Schuelern mit Lernbehinderung (Pre-stazione, intelligenza e condizione sociale deglialunni con deficit di apprendimento), «Zeitschriftfuer Heilpaedagogik», vol. 12, p. 501.