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1 LA CRISI DEL LAVORO 5 MODALITA’ PER CUI SE NE PARLA 1) LAVORO ASSENTE Lavoro che manca Lavoro che si perde Crisi d’identità dei soggetti che perdono/non trovano lavoro Emigrazione Fuga cervelli 2) LAVORO RIFIUTATO Lavoro che c’è ma viene rifiutato: lavori manuali, umili, faticosi (appannaggio di immigrati!?) NEET: giovani che non studiano, non lavorano, non cercano lavoro (bamboccioni!?) 3) LAVORO INUTILE Lavoro inefficiente improduttivo bassa produttività rispetto ad altri Paesi (si produce meno a parità di ore/giornate dedicate) Settore Pubblica Amministrazione: sprechi, inefficienze, burocrazia “inutile” 4) LAVORO SPRECATO Incapacità di valorizzare energie e risorse Sotto accusa il sistema formativo: inadeguatezza, incapacità di riscontrare il mercato Sotto accusa il sistema Italia 5) LAVORO ALIENATO Peggioramento condizioni di lavoro: ritmi lavoro, infortuni, sicurezza Decadimento esperienze lavorative Difficoltà a trovare lavoro a tempo indeterminato Precarizzazione del lavoro Concorrenza internazionale e con immigrati Convinzione dell’inutilità degli anni di studio Frattura scolarizzazione/lavoro I MEDIA E IL LAVORO 3 CORNICI CON CUI SE NE PARLA 1) Necessità di maggior efficienza e di razionalizzazione del sistema produttivo; Riduzione del gap di produttività, anche del lavoro; Riduzione forbice costo del lavoro; Razionalizzazione/riduzione costi welfare pubblico; 2) Lavoro come esperienza esistenziale Il lavoro come esperienza esistenziale Lavoro = valore umano Sguardo attento sulle condizioni di vita Difesa dello Stato sociale come meccanismo in grado di garantire giustizia sociale 3) Difesa del lavoro = difesa delle comunità locali, salvaguardia del tessuto sociale locale Regionalizzazione c/ globalizzazione e c/ delocalizzazione LA DIFESA E LA LOTTA PER IL LAVORO IL SENSAZIONALISMO Oggi sembrerebbero contare soltanto le prime pagine dei media:

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1

LA CRISI DEL LAVORO

5 MODALITA’ PER CUI SE NE PARLA

1) LAVORO ASSENTE

Lavoro che manca

Lavoro che si perde

Crisi d’identità dei soggetti che perdono/non trovano lavoro

Emigrazione – Fuga cervelli

2) LAVORO RIFIUTATO

Lavoro che c’è ma viene rifiutato: lavori manuali, umili, faticosi (appannaggio di immigrati!?)

NEET: giovani che non studiano, non lavorano, non cercano lavoro (bamboccioni!?)

3) LAVORO INUTILE

Lavoro inefficiente – improduttivo – bassa produttività rispetto ad altri Paesi (si produce meno a

parità di ore/giornate dedicate)

Settore Pubblica Amministrazione: sprechi, inefficienze, burocrazia “inutile”

4) LAVORO SPRECATO

Incapacità di valorizzare energie e risorse

Sotto accusa il sistema formativo: inadeguatezza, incapacità di riscontrare il mercato

Sotto accusa il sistema Italia

5) LAVORO ALIENATO

Peggioramento condizioni di lavoro: ritmi lavoro, infortuni, sicurezza

Decadimento esperienze lavorative

Difficoltà a trovare lavoro a tempo indeterminato

Precarizzazione del lavoro

Concorrenza internazionale e con immigrati

Convinzione dell’inutilità degli anni di studio – Frattura scolarizzazione/lavoro

I MEDIA E IL LAVORO

3 CORNICI CON CUI SE NE PARLA

1) Necessità di maggior efficienza e di razionalizzazione del sistema produttivo;

Riduzione del gap di produttività, anche del lavoro;

Riduzione forbice costo del lavoro;

Razionalizzazione/riduzione costi welfare pubblico;

2) Lavoro come esperienza esistenziale

Il lavoro come esperienza esistenziale

Lavoro = valore umano

Sguardo attento sulle condizioni di vita

Difesa dello Stato sociale come meccanismo in grado di garantire giustizia sociale

3) Difesa del lavoro = difesa delle comunità locali, salvaguardia del tessuto sociale locale

Regionalizzazione c/ globalizzazione e c/ delocalizzazione

LA DIFESA E LA LOTTA PER IL LAVORO

IL SENSAZIONALISMO

Oggi sembrerebbero contare soltanto le prime pagine dei media:

2

a) le grandi manifestazioni

b) i gesti eclatanti

ciò finisce per oscurare:

a) il lavoro quotidiano di tanti rappresentanti sindacali;

b) la rappresentatività delle OO.SS.

LAVORO E CONSUMI

Minor lavoro, precarizzazione/incertezza lavoro = bassi salari, minori redditi = contrazione dei

consumi

Lavoro per consumare?

Pubblicità, stili di vita, finanziamenti al consumo

LAVORO RICREATO O RITROVATO

a) Retorica del talento: talenti che emergono, eccellenze che primeggiano nella ricerca,

nell’imprenditoria, nelle professioni

b) Retorica dell’innovazione: settori tradizionali “perdono colpi” a causa della concorrenza dei

PVS, esaltazione di coloro che sono riusciti a “creare nicchie” sfruttando idee, nuove

tecnologie, …

c) Retorica della riscoperta e valorizzazioni delle origini

LAVORO: DUE CULTURE IN CERCA DI SOLUZIONI

A) CULTURA SECOLARIZZATA: vede il soggetto del lavoro nell’individuo come tale

secondo una concezione utilitaristica del rapporto di lavoro (giustizia, contratti, …) e

valorizza il lavoro in funzione della auto-realizzazione dell’individuo. La disoccupazione è

il risultato di un gioco di utilità.

B) CONCEZIONE UMANISTICA: Il soggetto del lavoro è la persona in relazione con altri.

Rapporto di lavoro come “fatto sociale totale”. Lavoro come bene comune e, quindi,

importanza dei legami primari e secondari: famiglia, formazioni sociali, OO.SS.,

equilibrio/interazione interessi degli “stakeholders”. La disoccupazione è il sintomo di una

distorsione morale sociale perché spegnimento della vita morale delle persone

LAVORO – IMPRESA – IMPRENDITORE

L’impresa crea lavoro - Il lavoro crea impresa

Profitto e lavoro – La forbice salariale

La RSI (Responsabilità sociale dell’impresa) e il lavoro

Il “Welfare” aziendale e valorizzazione del “capitale umano-lavoro”

**********************************************************

I PRINCIPI FONDANTI LA DOTTRINA SOCIALE DELLA CHIESA

Il principio personalista (CDSC 105 – 107)

Principio di maggior importanza di tutta la Dottrina Sociale della Chiesa di cui è l’irrinunciabile

e costante punto di riferimento.

Trae origine dallo stesso dogma cristiano: «la dignità della persona si fonda sul fatto che essa è

creata ad immagine e somiglianza di Dio ed elevata ad un fine soprannaturale trascendente le vita

terrena. L’uomo, quindi, come essere intelligente e libero, soggetto di diritti e di doveri, è il primo

3

principio e, si può dire, il cuore e l’anima dell’insegnamento sociale della Chiesa» (GS 1). E il

Magistero sociale della Chiesa riafferma:

«La Chiesa vede nell'uomo, in ogni uomo, l'immagine vivente di Dio stesso; immagine che trova

ed è chiamata a ritrovare sempre più profondamente piena spiegazione di sé nel mistero di

Cristo, Immagine perfetta di Dio, Rivelatore di Dio all'uomo e dell'uomo a se stesso. A

quest'uomo, che da Dio stesso ha ricevuto una incomparabile ed inalienabile dignità, la Chiesa si

rivolge e gli rende il servizio più alto e singolare, richiamandolo costantemente alla sua altissima

vocazione, perché ne sia sempre più consapevole e degno. Cristo, Figlio di Dio, “con la sua

incarnazione si è unito in un certo senso ad ogni uomo”; per questo la Chiesa riconosce come

suo compito fondamentale il far sì che una tale unione possa continuamente attuarsi e rinnovarsi.

In Cristo Signore, la Chiesa indica e intende per prima percorrere la via dell'uomo, e invita a

riconoscere in chiunque, prossimo o lontano, conosciuto o sconosciuto, e soprattutto nel povero e

nel sofferente, un fratello “per il quale Cristo è morto” (1 Cor 8,11; Rm 14,15)» (CDSC 105).

È il principio che nella sua portata antropologica costituisce la fonte degli altri principi che fanno

parte del corpo della dottrina sociale: «Tutta la dottrina sociale si svolge, infatti, a partire dal

principio che afferma l’intangibile dignità della persona umana».

L’uomo-persona è il soggetto e il centro della società, la quale con le sue strutture,

organizzazioni e funzioni, ha come scopo la creazione e il continuo adeguamento di condizioni

economiche, sociali e culturali che permettano al maggior numero possibile di persone lo sviluppo

delle loro capacità e il soddisfacimento delle loro legittime esigenze di perfezione e di felicità.

Il principio del bene comune (CDSC 164 – 170)

Ogni ambito della società deve primariamente concorrere al bene dell’uomo e di ogni uomo,

perché solo così si potrà realizzare un vero e armonioso sviluppo. L’uomo deve essere sempre

pensato non solo come individuo, ma anche nella sua relazione con la società, cioè con gli altri

uomini che compongono la comunità in cui vive ed opera. Accanto al bene individuale, dunque, c’è

un bene legato al vivere sociale delle persone, «è il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui,

famiglie e gruppi intermedi che si uniscono in comunità sociale» (CV 7). Il Compendio tratta del

bene comune offrendo la seguente definizione:

«Dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone deriva innanzi tutto il principio del bene

comune, al quale ogni aspetto della vita sociale deve riferirsi per trovare pienezza di senso.

Secondo una prima e vasta accezione, per bene comune s'intende “l'insieme di quelle condizioni

della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la

propria perfezione più pienamente e più celermente” (Gaudium et spes, n. 26). Il bene comune

non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale.

Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è

possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro. Come l'agire morale

del singolo si realizza nel compiere il bene, così l'agire sociale giunge a pienezza realizzando il

bene comune. Il bene comune, infatti, può essere inteso come la dimensione sociale e

comunitaria del bene morale».

Il concetto di bene comune, dunque, delegittima una concezione privatistica dei diritti i quali,

pur essendo formulati per esprimere l’uguale dignità di ogni persona, frequentemente sono invocati

per rivendicare beni auspicati per se stessi, nell’oblio dei doveri verso gli altri. Ciò è proprio di una

concezione contrattualistica della società per la quale l’uomo è un essere costitutivamente

individuale, spinto ad associarsi con altri uomini per mera convenienza. All’interno di una

concezione contrattualistica e individualista della società, le relazioni sono improntate a una logica

utilitaristica, centrata sul proprio tornaconto, «ne vediamo i frutti nella piaga dell’evasione fiscale e

nell’impiego a fini personali di beni pubblici; nella corruzione e nell’indifferenza verso i poveri. In

4

sintesi, l’individualismo genera solitudine».1

Il bene comune, dunque, non va confuso né con il bene privato, né con il bene pubblico. Nel

bene comune, il vantaggio che ciascuno trae per il fatto di far parte di una certa comunità non può

essere scisso dal vantaggio che altri pure ne traggono. Ciò significa che l'interesse di ognuno si

realizza insieme a quello degli altri, non già contro (come accade con il bene privato), né a

prescindere dall'interesse degli altri (come accade con il bene pubblico). Al riguardo è stato

giustamente sottolineato che «così inteso, il bene comune ha oggettivamente dei nemici: chi si

comporta da “opportunista”, vivendo alle spalle degli altri; ma anche chi si comporta da “altruista

puro”, volendo annullare il proprio legittimo interesse per favorire l’altro. Né egoismo, né altruismo

puro sono in grado di sostenere un ordine sociale veramente umano. Ciò che fa crescere il bene

comune è un comportamento ispirato al principio di reciprocità, che ci fa sentire parte di un corpo,

legati gli uni agli altri».2

Le ragioni dunque per chiamare «comune» questo bene sono due. Una ragione è che questo bene

può essere costruito, raggiunto, accresciuto solo comunitariamente, cioè dallo sforzo comune di

un’intera società. L’altra ragione è che è un bene indivisibile, se ne può godere soltanto tutti

insieme. Il bene comune deve essere come l’ossigeno che alimenta ciascuna cellula dell’organismo

sociale e ne stimola la vita e l’attività.

Il principio di solidarietà (CDSC 192 - 196)

La solidarietà, unitamente al concetto di sussidiarietà, è un principio che nella Chiesa è stato da

sempre affermato, anche se in modo implicito, in quanto parte integrante della visione

antropologica cristiana derivante dalla Rivelazione. Ciò è ben sintetizzato nel Compendio nel quale,

operando una sapiente sintesi di quanto affermato nelle singole encicliche del magistero sociale, è

ben sottolineato che

«La solidarietà conferisce particolare risalto all’intrinseca socialità della persona umana,

all’uguaglianza di tutti in dignità e diritti, al comune cammino degli uomini e dei popoli verso

una più convinta unità. Mai come oggi c’è stata una consapevolezza tanto diffusa del legame di

interdipendenza tra gli uomini e i popoli, che si manifesta a qualsiasi livello».

La percezione della vicendevole dipendenza porta ogni uomo a sentirsi eticamente responsabile

del bene dell’altro uomo, di ogni altro uomo; la solidarietà, quindi, non è «un sentimento di vaga

compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane» ma si

presenta «sotto due aspetti complementari: quello di principio sociale e quello di virtù morale».

La solidarietà è un «principio sociale» e deve essere colta «nel suo valore di principio ordinatore

delle istituzioni, in base al quale le “strutture di peccato” che dominano i rapporti tra le persone e i

popoli, devono essere superate e trasformate in strutture di solidarietà, mediante la creazione o

l’opportuna modifica di leggi, regole del mercato, ordinamenti».

In quanto “virtù morale” la solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi

per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente

responsabili di tutti».

Dal principio della solidarietà dovrebbe discendere per ciascun uomo, per tutti gli uomini, la

consapevolezza del debito che hanno nei confronti della società entro la quale sono inseriti:

«sono debitori di quelle condizioni che rendono vivibile l’umana esistenza, come pure di quel

patrimonio indivisibile e indispensabile, costituito dalla cultura, dalla conoscenza scientifica e

tecnologica, dai beni materiali e immateriali, da tutto ciò che la vicenda umana ha prodotto. Un

simile debito va onorato nelle varie manifestazioni dell’agire sociale, così che il cammino degli

1

ANGELO BAGNASCO, La questione antropologica della Dottrina Sociale della Chiesa, Relazione

all’Incontro pre pasquale con i politici, Aula Magna Università della Santa Croce, Roma 7 marzo 2012. 2 TARCISIO BERTONE, Il contributo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI alla riflessione etica sull’economia

odierna, Lectio Magistralis all’Apertura del Centro Universitario di Studi del pensiero di Joseph Ratzinger –

Benedetto XVI, Bygdoszcz, 11 giugno 2012.

5

uomini non si interrompa, ma resti aperto alle generazioni presenti e a quelle future, chiamate

insieme, le une e le altre, a condividere, nella solidarietà, lo stesso dono».

Il principio di sussidiarietà (CDSC 185 – 188)

Il principio di sussidiarietà è un asse portante dell’insegnamento sociale della Chiesa e, a livello

di attualizzazione, uno dei principi più fecondi poiché in grado di fornire concreti orientamenti nella

soluzione dei problemi che le vicende storiche sottopongono all’uomo e alla società.

Il suo nome deriva dal termine latino subsidium che vuol dire rinforzo, aiuto, sostegno, soccorso.

Il principio della sussidiarietà afferma:

«è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria

per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che

dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno

sconvolgimento del retto ordine della società; perché l’oggetto naturale di qualsiasi intervento

della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già

distruggerle e assorbirle».

Le istituzioni sociali sono molte; il principio della sussidiarietà sostiene che quelle più vicine alla

persona, cioè quelle di livello inferiore devono essere aiutate da quelle di livello superiore a

svolgere il loro compito senza sostituirsi a loro. Ciò in quanto principio, soggetto e fine della

società è la persona e, quindi, devono essere valorizzate e non eliminate le società intermedie e

naturali le quali, in quanto più vicine alla persona, sono «più umanizzanti», meno anonime, meno

burocratizzate, valorizzano maggiormente il senso di appartenenza e favoriscono la partecipazione

attiva.

In base al principio della sussidiarietà il Compendio puntualizza come «tutte le società di ordine

superiore devono porsi in atteggiamento di aiuto (subsidium) - quindi di sostegno, promozione,

sviluppo - rispetto alle minori. In tal modo, i corpi sociali intermedi possono adeguatamente

svolgere le funzioni che loro competono, senza doverle cedere ingiustamente ad altre aggregazioni

sociali di livello superiore, dalle quali finirebbero per essere assorbiti e sostituiti e per vedersi

negata, alla fine, dignità propria e spazio vitale».

Il principio di sussidiarietà ha ricevuto un’ulteriore specificazione con la lettera enciclica Caritas

in Veritate:

«Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti

e non credenti è senz'altro il principio di sussidiarietà, espressione dell'inalienabile libertà

umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi

intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé

e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto

assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede

un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima

costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di

assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e

quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento».

Ogni forma di accentramento, di assistenzialismo, di burocratizzazione dei rapporti, l’eccessiva

presenza dello Stato e dell’apparato pubblico, dunque, sono modalità che mortificano il principio di

sussidiarietà poiché per tale via si «provoca la perdita di energie umane e l’aumento esagerato degli

apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche più che dalla preoccupazione di servire gli

utenti, con enorme crescita delle spese».

Il principio della sussidiarietà è comunque soggetto al criterio di discernimento del «bene

comune correttamente inteso, le cui esigenze non dovranno in alcun modo essere in contrasto con la

tutela e la promozione del primato della persona e delle sue principali espressioni» e «va mantenuto

strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà senza la

solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà senza la sussidiarietà

scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno».

6

L’attualizzazione del principio, dunque, impone in primo luogo la promozione effettiva del

primato della persona e della famiglia, «prima e vitale cellula della società», e la valorizzazione

delle associazioni e delle organizzazioni intermedie; solo in un secondo momento, constatata

l’impossibilità dei corpi intermedi ad assumere autonomamente le iniziative, lo Stato può

intervenire con funzioni di supplenza al fine di rimuovere le cause di impedimento e di squilibrio

ricreando le condizioni di uguaglianza, di giustizia e di pace.

La coniugazione della sussidiarietà, in altre parole, caratterizza l’articolazione pluralistica della

società, incoraggia l’iniziativa privata, attua il decentramento burocratico e amministrativo, è

espressione di un corretto equilibrio tra sfera pubblica e quella privata favorendo la «funzione

sociale del privato» cioè la «responsabilizzazione del cittadino nel suo “essere parte” attiva della

realtà politica e sociale del Paese».

In sintesi si può affermare che il principio di sussidiarietà postula una società partecipativa in cui

le persone o i gruppi siano realmente corresponsabili e solidali, ciò in quanto affonda le sue radici

nel primato della persona e nella natura sociale della persona.

La sussidiarietà, inoltre, presuppone due livelli di articolazione: uno verticale, discendente e

ascendente, e l’altro orizzontale.

L’articolazione verticale «discendente» presuppone che le società maggiori diano subsidium a

tutte le società inferiori che rientrano nelle loro sfera di competenza affinché realizzino pienamente

i loro fini. Il livello verticale «ascendente», invece, presuppone che le società inferiori siano tenute

a dare il proprio contributo per la realizzazione degli obiettivi delle società maggiori, cioè del bene

comune regionale, nazionale, internazionale.

L’articolazione orizzontale implica che ogni società è chiamata a riconoscere, rispettare e aiutare

in modo complementare le società appartenenti al proprio livello.

L’interrelazione fra i quattro principi

I quattro principi fondamentali che costituiscono l’ossatura, il fulcro, il nucleo fondante del

Magistero sociale della Chiesa sono tra loro interconnessi e intrecciati a tal punto che il richiamo di

uno attira, coinvolge necessariamente anche gli altri. Al riguardo è suggestiva un’immagine offerta

da Benedetto XVI ai partecipanti all’assemblea plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze

Sociali.

Avendo a mente che le definizioni di dignità umana («valore intrinseco della persona creata a

immagine e somiglianza di Dio e redenta in Cristo»), di bene comune («insieme delle condizioni

sociali che permettono alle persone di realizzarsi collettivamente e individualmente»), di solidarietà

(«virtù che permette alla famiglia umana di condividere in pienezza il tesoro nascosto dei beni

materiali e spirituali») e di sussidiarietà («coordinamento delle attività della società a sostegno della

vita interna delle comunità locali») possono essere comprese nel loro profondo significato «solo se

vengono collegate organicamente le une alle altre e considerate di sostegno reciproco».

Ebbene, avvalendosi della ben nota rappresentazione matematica denominata «sistema di

riferimento cartesiano», Benedetto XVI suggerisce di «tratteggiare le interconnessioni fra questi

quattro principi ponendo la dignità della persona nel punto di intersezione di due assi, uno

orizzontale, che rappresenta la “solidarietà” e la “sussidiarietà”, e uno verticale, che rappresenta il

“bene comune”. Ciò crea un campo su cui possiamo tracciare i vari punti della dottrina sociale della

chiesa che formano il bene comune».

Il Papa è conscio che la realtà è molto più complessa di quanto l’analogia grafica possa

suggerire: «le profondità insondabili della persona umana e la meravigliosa capacità dell'umanità di

comunione spirituale, realtà queste pienamente dischiuse solo attraverso la rivelazione divina,

superano di molto la possibilità di rappresentazione schematica». L’esame dei principi di solidarietà

e sussidiarietà, invero, non sono semplicemente orizzontali:

«entrambi possiedono un'essenziale dimensione verticale. Gesù ci esorta a fare agli altri ciò che

vorremmo fosse fatto a noi (cfr Lc 6, 31), ad amare il nostro prossimo come noi stessi (cfr Mt 22,

35). Questi comandamenti sono iscritti dal Creatore nella natura stessa umana (cfr Deus caritas

7

est, n. 31). Gesù insegna che questo amore ci esorta a dedicare la nostra vita al bene degli altri

(cfr Gv 15, 12-13). In questo senso la solidarietà autentica, sebbene cominci con il

riconoscimento del pari valore dell'altro, si compie solo quando metto volontariamente la mia

vita al servizio dell'altro (cfr Ef 6, 21). Questa è la dimensione "verticale" della solidarietà: sono

spinto a farmi meno dell'altro per soddisfare le sue necessità (cfr Gv 13, 14-15), proprio come

Gesù "si è umiliato" per permettere agli uomini e alle donne di partecipare alla sua vita divina

con il Padre e lo Spirito (cfr Fil 2, 8; Mt 23, 12)».

Anche la sussidiarietà si coniuga in una dimensione verticale poiché incoraggia gli uomini ad

instaurare «rapporti donatori di vita con quanti sono loro più vicini». Per Benedetto XVI

«una società che onora il principio di sussidiarietà libera le persone dal senso di sconforto e di

disperazione, garantendo loro la libertà di impegnarsi reciprocamente nelle sfere del commercio,

della politica e della cultura (cfr Quadragesimo anno, n. 80). Quando i responsabili del bene

comune rispettano il naturale desiderio umano di autogoverno basato sulla sussidiarietà lasciano

spazio alla responsabilità e all'iniziativa individuali, ma, soprattutto, lasciano spazio all'amore

(cfr Rm 13, 8; Deus caritas est, n. 28), che resta sempre la "via migliore di tutte" (1Cor 12, 31)».

L’invito di Benedetto XVI, quindi, è di sondare in profondità le dimensioni «verticale» e

«orizzontale» della solidarietà e della sussidiarietà al fine di individuare e poter proporre modalità

più efficaci per la risoluzione dei molteplici problemi che attanagliano l’umanità alle soglie di

questo terzo millennio.

***************************************************

LA TEMATICA DEL LAVORO

NELLA BIBBIA E NELLE “ENCICLICHE SOCIALI”.

Il Lavoro in una prospettiva biblico-storica.

Nel contesto storico in cui si è sviluppata la vicenda di Gesù di Nazareth, ossia il mondo

dell’impero romano, il lavoro era ritenuto affare degli schiavi. Chi lavorava era lo schiavo, il

padrone doveva pensare alla propria casa, dilettarsi di filosofia, frequentare il Ginnasio e la piazza,

organizzare cene e pranzi con altri signori, viver nell’otium. Era lo schiavo che doveva occuparsi

del lavoro che, appunto, era detto “lavoro servile”.

La novità che la vita cristiana ha portato è stata dirompente: per il cristiano fa fede la vicenda di

Gesù di Nazareth che per trent’anni ha lavorato e di San Paolo. Lui, missionario itinerante, si

manteneva con i frutti del proprio lavoro: era fabbricatore di tende e non ne faceva mistero. Tutti,

da san Paolo, sono esortati a farsi un punto di onore nel lavorare con le proprie mani così da non

aver bisogno di nessuno (1Ts 4,11-12) e a praticare una solidarietà anche materiale, condividendo i

frutti del lavoro con chi si trova in necessità (Ef 4,28).

I Padri della Chiesa invece non considerano mai il lavoro come “opus servile”, ma sempre come

“opus humanum” e tendono ad onorare tutte le espressioni. Mediante il lavoro l’uomo governa con

Dio il mondo, insieme a Lui ne è signore, e compie cose buone per sé e per gli altri. L’ozio (attività

del signore romano) nuoce all’essere umano, mentre l’attività giova al suo corpo e al suo spirito. Il

cristiano è chiamato a lavorare non solo per procurarsi il pane, ma anche per sollecitudine verso il

prossimo più povero, al quale il Signore comanda di dare da mangiare, da bere, da vestire,

accoglienza, cura e compagnia (Mt 25,35-36). Ciascun lavoratore, afferma sant’Ambrogio, è la

mano di Cristo che continua a creare e a fare del bene.

Rerum Novarum (15 maggio 1891)

Leone XIII affronta la cosiddetta questione operaia. L’enciclica ha a che fare con i problemi di una

classe nata dalla rivoluzione industriale. La chiave di lettura non è il concetto di lavoro in sé ma la

difesa della dignità del lavoratore anche se implicitamente si svela un concetto di lavoro. Ecco un

passo molto preciso a riguardo del tema in questione: “Ha il lavoro dell’uomo come due caratteri

8

impressigli dalla natura, cioè di essere personale, perché la forza attiva è inerente alla persona, e del

tutto proprio di chi l’esercita e al cui vantaggio fu data; poi di essere necessario, perché il frutto del

lavoro è necessario all’uomo per il mantenimento della vita” (n° 42).

In questa enciclica la sottolineatura prevalente è l’aspetto penitenziale del lavoro. La RN coglie del

lavoro, dal punto di vista teologico, quasi esclusivamente la dimensione espiativa, legata alle

conseguenze del peccato originale dell’uomo, secondo il testo biblico di Gen 3. Tale sottolineatura

va collocata nel contesto storico della situazione drammatica dell’infinita moltitudine di proletari

nella società industriale della fine del secolo scorso, alla quale è imposto un giogo quasi servile.

Quadragesimo anno (15 maggio 1931)

Pubblicata quando ancora non erano state rimarginate le ferite causate dal “venerdì nero” (18

ottobre 1929) che aveva visto il vertiginoso crac della borsa USA, la QA allarga l’analisi delle

situazioni storiche, prendendo in esame non solo la “questione sociale”, ma l’intera vita economica,

dominata dal capitalismo finanziario dei grandi “trust” (=affari/traffici) e caratterizzata

dall’evoluzione del socialismo.

Del lavoro si afferma il carattere personale e spirituale. Nel lavoro si deve “riconoscere la dignità

umana dell’operaio e di conseguenza, non lo si può mercanteggiare come una merce qualsiasi” (n.

90). Circa la dimensione teologica, si afferma la possibilità di santificazione in qualsiasi tipo di

professione “lucrativa” «purchè tutto ciò si cerchi col debito ossequio della legge di Dio e senza

danno dei diritti altrui, e se ne faccia uso conforme all’ordine della fede e della retta ragione» (n.

136).

Pio XII (1939-1958)

In un periodo di storia complesso e tormentato che va dalla seconda guerra mondiale alla “guerra

fredda”, Pio XII non si espresse mai nella forma dell’enciclica ma piuttosto attraverso

radiomessaggi, allocuzioni, discorsi che offrono una abbondante materia di analisi.

Per quanto riguarda il tema del lavoro egli, superando la concezione del lavoro in senso puramente

industriale (in quanto è lavoro qualsiasi attività volta a conseguire un bene materiale o spirituale che

possa essere utile alla conservazione o perfezione della persona umana), afferma una

considerazione più positiva di esso: “Ora invece il lavoro, in cui si fa spesso sentire la fatica anche

dolorosa ed aspra, è però in se stesso bello e nobilitante, perché prosegue, in quanto produce,

l’opera iniziata dal Creatore ed è generosa collaborazione di ciascuno al benessere di tutti”

(Discorso agli artigiani il 27 marzo 1949).

L’attività produttiva non è solo un modo di produrre beni materiali e culturali, è anche un mezzo

per attualizzare l’immagine di Dio, impressa nell’anima umana.

Ci troviamo di fronte ad un approfondimento della dottrina rispetto ai documenti precedenti. Il

lavoro non solo è intima relazione con la persona, ma è anche espressione necessaria della persona.

Da qui deriva il dovere di lavorare e, correlativamente, il diritto al lavoro.

Pio XII parla frequentemente e anche in termini positivi di “progresso tecnico”, ne scorge tuttavia il

vantaggio unicamente nel fatto che “allevia il peso della fatica e accresce la produttività” (Discorso

natalizio 1953).

Mater et Magistra (15 maggio 1961)

L’orizzonte della questione sociale non è più solo nazionale ma mondiale con i nuovi proletari della

società del benessere. Il discorso sul valore positivo intrinseco del lavoro viene inquadrato da

Giovanni XXIII nel discorso più ampio e impegnativo del globale rapporto tra chiesa e civiltà

moderna, concepito non in termini di contrapposizione ma di dialogo e collaborazione (n. 269).

Il lavoro come realtà antropologica viene approfondito attraverso un collegamento più stretto tra il

valore del lavoro e la persona, associando in modo più esplicito il lavoro e il soggetto che lavora.

Superando le remore e i timori di Pio XII rivendica il diritto dei lavoratori di partecipare alla vita e

alle decisioni aziendali.

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3. Fede e Lavoro nel Compendio della Dottrina della Chiesa

Il terzo paragrafo del capitolo sei del Compendio intitolato “La dignità del lavoro”: di fatto il

Compendio qui si avvale dell’apporto mirabile offerto da Giovanni Paolo II nell’enciclica

LABOREM EXERCENS del 14 settembre 1981 data in occasione del 90° anniversario della

Rerum Novarum.

Il CDSC al capitolo sesto sintetizza e chiarifica ciò che si deve intendere per lavoro. Ciò che il

Compendio fa è una sintesi articolata e poderosa di quello che la riflessione magisteriale ha finora

prodotto a riguardo di questo tema. Probabilmente siamo di fronte al primo tentativo di rielaborare

teologicamente le indicazioni contenute nelle varie encicliche papali.

Per capire la vastità della tematica riporto l’indice del capitolo 6° del CDSC intitolato «Il lavoro

umano»:

1. Aspetti biblici

1.1 Il compito di coltivare e custodire la terra

1.2 Gesù uomo del lavoro

1.3 Il dovere di lavorare

2. Il valore profetico della Rerum Novarum

3. La dignità del lavoro

3.1 La dimensione soggettiva e oggettiva del lavoro

3.2 I rapporti tra lavoro e capitale

3.3 Il lavoro, titolo di partecipazione

3.4 Rapporto tra lavoro e proprietà privata

3.5 Il riposo festivo

4. Il diritto al lavoro

4.1 Il lavoro è necessario

4.2 Il ruolo dello Stato e della società civile nella promozione del diritto al lavoro

4.3 La famiglia e il diritto al lavoro

4.4 Le donne e il diritto al lavoro

4.5 Lavoro minorile

4.6 L’emigrazione e il lavoro

4.7 Il mondo agricolo e il diritto al lavoro

5. Diritti dei lavoratori

5.1 Dignità dei lavoratori e rispetto dei loro diritti

5.2 Il diritto all’equa remunerazione e distribuzione del reddito

5.3 Il diritto di sciopero

6. Solidarietà tra lavoratori

6.1 L’importanza dei sindacati

6.2 Nuove forme di solidarietà

7. Le Res novae del mondo del lavoro

7.1 Una fase di transizione epocale

7.2 Dottrina sociale e res novae

Il capitolo è molto ricco e completo. Di fronte ai tanti argomenti, è opportuno sottolineare di più la

parte teologica. Si tratta del primo paragrafo intitolato, nel Compendio, “la dignità del lavoro”. È

questa la parte che fonda tutto il capitolo.

La dimensione soggettiva e oggettiva del lavoro (CDSC nn. 270 – 275).

Il lavoro umano ha una duplice dimensione: oggettiva e soggettiva.

In senso oggettivo è l’insieme delle attività, risorse strumenti e tecniche di cui l’uomo si serve per

produrre, per dominare la terra, secondo le parole del Libro della Genesi.

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Il lavoro in senso soggettivo è l’agire dell’uomo in quanto essere dinamico, capace di compiere

varie azioni che appartengono al processo del lavoro e che corrispondono alla sua vocazione

personale: «L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come “immagine di Dio” è

una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di

decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro»

(LE 6).

Il lavoro in senso oggettivo costituisce l’aspetto contingente dell’attività dell’uomo, che varia

incessantemente nelle sue modalità con il mutare delle condizioni tecniche, culturali, sociali e

politiche. In senso soggettivo si configura, invece, come la sua dimensione stabile, perché non

dipende da quel che l’uomo realizza concretamente né dal genere di attività che esercita, ma solo ed

esclusivamente dalla sua dignità di essere personale. La distinzione è decisiva sia per

comprendere qual è il fondamento ultimo del valore e della dignità del lavoro, sia in ordine al

problema di un’organizzazione dei sistemi economici e sociali rispettosa dei diritti dell’uomo.

La soggettività conferisce al lavoro la sua peculiare dignità, che impedisce di considerarlo come

una semplice merce o un elemento impersonale dell’organizzazione produttiva. Il lavoro,

indipendentemente dal suo minore o maggiore valore oggettivo, è espressione essenziale della

persona, è «actus personae». Qualsiasi forma di materialismo e di economicismo che tentasse di

ridurre il lavoratore a mero strumento materiale, finirebbe per snaturare irrimediabilmente l’essenza

del lavoro, privandolo della sua finalità più nobile e profondamente umana. La persona è il metro

della dignità del lavoro: «Non c’è, infatti, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo

valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo

compie è una persona». La dimensione soggettiva del lavoro deve avere la preminenza su quella oggettiva, perché è quella

dell’uomo stesso che compie il lavoro, determinandone la qualità e il valore più alto. Se manca

questa consapevolezza oppure non si vuole riconoscere questa verità, il lavoro perde il suo

significato più vero e profondo: in questo caso, purtroppo frequente e diffuso, l’attività lavorativa e

le stesse tecniche utilizzate diventano più importanti dell’uomo stesso e, da alleate, si trasformano

in nemiche della sua dignità.

Il lavoro umano non soltanto procede dalla persona, ma è anche essenzialmente ordinato e

finalizzato ad essa. Indipendentemente dal suo contenuto oggettivo, il lavoro deve essere orientato

verso il soggetto che lo compie, perché lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro, rimane sempre

l’uomo. Anche se non può essere ignorata l’importanza della componente oggettiva del lavoro

sotto il profilo della sua qualità, tale componente, tuttavia, va subordinata alla realizzazione

dell’uomo, e quindi alla dimensione soggettiva, grazie alla quale è possibile affermare che

il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro

e che «lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più “di

servizio”, più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante –

rimane sempre l’uomo stesso».

Il lavoro possiede anche un’intrinseca dimensione sociale. Il lavoro di un uomo, infatti, si

intreccia naturalmente con quello di altri uomini: «Oggi più che mai lavorare è un lavorare con gli

altri e un lavorare per gli altri: è un fare qualcosa per qualcuno». Anche i frutti del lavoro offrono

occasione di scambi, di relazioni e d’incontro. Il lavoro, pertanto, non si può valutare giustamente

se non si tiene conto della sua natura sociale: «giacchè se non sussiste un corpo veramente sociale e

organico, se un ordine sociale e giuridico non tutela l’esercizio del lavoro, se le varie parti, le une

dipendenti dalle altre, non si collegano fra di loro e mutuamente non si compiono, se, quel che è di

più, non si associano, quasi a formare una cosa sola, l’intelligenza, il capitale, il lavoro, l’umana

attività non può produrre i suoi frutti, e quindi non si potrà valutare giustamente né retribuire

adeguatamente, dove non si tenga conto della sua natura sociale e individuale».

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Il lavoro è anche «un obbligo, cioè un dovere dell’uomo». L’uomo deve lavorare sia perché il

Creatore gliel’ha ordinato, sia per rispondere alle esigenze di mantenimento e sviluppo della sua

stessa umanità. Il lavoro si profila come obbligo morale in relazione al prossimo, che è in primo

luogo la propria famiglia, ma anche la società, alla quale si appartiene, la Nazione, della quale si è

figli o figlie, l’intera famiglia umana, di cui si è membri: siamo eredi del lavoro di generazioni e

insieme artefici del futuro di tutti gli uomini che vivranno dopo di noi.

Il lavoro conferma la profonda identità dell’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio:

«Diventando – mediante il suo lavoro – sempre più padrone della terra, e confermando – ancora

mediante il lavoro – il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di

questo processo, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta

necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e

femmina, “a immagine di Dio”». Ciò qualifica l’attività dell’uomo nell’universo: egli non ne è il

padrone, ma il fiduciario, chiamato a riflettere nel proprio operare l’impronta di Colui del quale egli

è immagine.

I rapporti tra lavoro e capitale: complementarietà, spesso conflittualità; priorità sempre del lavoro

sul capitale; la principale risorsa e il fattore decisivo in mano all’uomo è l’uomo stesso

Il lavoro, titolo di partecipazione: dei lavoratori alla proprietà, alla gestione, ai frutti dell’impresa

Rapporto tra lavoro e proprietà privata: il lavoro garantisce la proprietà privata; i mezzi di

produzione non possono essere posseduti contro il lavoro neppure posseduti per possedere.

Il riposo festivo: è un diritto; la domenica è un giorno da santificare con operosa carità, riservando

attenzioni alla famiglia e ai parenti, come anche ai malati, agli infermi, agli anziani; giorno del

Signore come giorno della liberazione; necessità familiari o esigenze di utilità sociale possono

legittimamente esentare dal riposo domenicale, ma non devono creare abitudini pregiudizievoli per

la religione, la vita di famiglia e la salute.

Il lavoro è necessario: per formare e mantenere una famiglia, per avere diritto alla proprietà, per

contribuire al bene comune della famiglia umana.

Il ruolo dello Stato e della società civile nella promozione del diritto al lavoro: i problemi

dell’occupazione chiamano in causa le responsabilità dello Stato al quale compete il dovere di

promuovere politiche attive del lavoro.

La famiglia e il diritto al lavoro: Famiglia e lavoro strettamente interdipendenti; la vita di famiglia

e il lavoro si condizionano reciprocamente in vario modo.

Le donne e il diritto al lavoro: il genio femminile è necessario in tutte le espressioni della vita

sociale.

Lavoro minorile: nelle sue forme intollerabili, costituisce un tipo di violenza meno appariscente di

altri, ma non per questo meno terribile. Sfruttamento che costituisce una grave violazione della

dignità umana.

L’emigrazione e il lavoro: l’immigrazione può essere una risorsa, anziché un ostacolo per lo

sviluppo. Le istituzioni dei Paesi ospiti devono vigilare accuratamente affinché non si diffonda la

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tentazione di sfruttare la manodopera straniera, privandola dei diritti garantiti ai lavoratori

nazionali, che devono essere assicurati a tutti senza discriminazioni.

Il mondo agricolo e il diritto al lavoro: merita particolare attenzione per il ruolo sociale, culturale

ed economico; necessario un approfondimento sul significato di lavoro agricolo nelle sue diverse

dimensioni; condanna dei latifondi.

Dignità dei lavoratori e rispetto dei loro diritti: i diritti dei lavoratori si basano sulla natura della

persona umana e della sua trascendente dignità. «Il Magistero sociale della Chiesa ha ritenuto di

elencarne alcuni, auspicandone il riconoscimento negli ordinamenti giuridici: il diritto ad una

giusta remunerazione; il diritto al riposo; il diritto «ad ambienti di lavoro ed a processi produttivi

che non rechino pregiudizio alla sanità fisica dei lavoratori e non ledano la loro integrità morale»;

il diritto che venga salvaguardata la propria personalità sul luogo di lavoro, « senza essere violati

in alcun modo nella propria coscienza o nella propria dignità »; il diritto a convenienti

sovvenzioni indispensabili per la sussistenza dei lavoratori disoccupati e delle loro famiglie; il

diritto alla pensione nonché all'assicurazione per la vecchiaia, la malattia e in caso di incidenti

collegati alla prestazione lavorativa; il diritto a provvedimenti sociali collegati alla maternità; il

diritto di riunirsi e di associarsi. Tali diritti vengono spesso offesi, come confermano i tristi

fenomeni del lavoro sottopagato, privo di tutela o non rappresentato in maniera adeguata. Spesso

accade che le condizioni di lavoro per uomini, donne e bambini, specie nei Paesi in via di sviluppo,

siano talmente inumane da offendere la loro dignità e nuocere alla loro salute. »

Il diritto all’equa remunerazione e distribuzione del reddito: remunerazione strumento più

importante per realizzare la giustizia nei rapporti di lavoro; «il lavoro va ricompensato in misura

tale da garantire all'uomo la possibilità di disporre dignitosamente la vita materiale, sociale,

culturale e spirituale sua e dei suoi, in relazione ai compiti e al rendimento di ognuno, alle

condizioni dell'azienda e al bene comune».

«Il benessere economico di un Paese non si misura esclusivamente sulla quantità di beni prodotti,

ma anche tenendo conto del modo in cui essi vengono prodotti e del grado di equità nella

distribuzione del reddito, che a tutti dovrebbe consentire di avere a disposizione ciò che serve allo

sviluppo e al perfezionamento della propria persona».

Il diritto di sciopero: legittimità dello sciopero quando appare lo strumento inevitabile, o quanto

meno necessario, in vista di un vantaggio proporzionato; deve essere sempre un metodo pacifico di

rivendicazione e di lotta.

L’importanza dei sindacati: ruolo fondamentale dei sindacati. I rapporti all’interno del mondo del

lavoro vanno improntati alla collaborazione: l’odio e la lotta per eliminare l’altro costituiscono

metodi inaccettabili. «Al sindacato, oltre alle funzioni difensive e rivendicative, competono sia una

rappresentanza finalizzata ad « organizzare nel giusto ordine la vita economica », sia l'educazione

della coscienza sociale dei lavoratori, affinché essi si sentano parte attiva, secondo le capacità e le

attitudini di ciascuno, in tutta l'opera dello sviluppo economico e sociale e della costruzione del

bene comune universale».

Una fase di transizione epocale: fenomeno della globalizzazione: «Due sono i fattori che danno

impulso a questo fenomeno: la straordinaria velocità di comunicazione senza limiti di spazio e di

tempo e la relativa facilità di trasportare merci e persone da una parte all'altra del globo. Ciò

comporta una conseguenza fondamentale sui processi produttivi: la proprietà è sempre più lontana,

spesso indifferente agli effetti sociali delle scelte che compie. D'altro canto, se è vero che la

globalizzazione, a priori, non è buona o cattiva in sé, ma dipende dall'uso che l'uomo ne fa, si deve

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affermare che è necessaria una globalizzazione delle tutele, dei diritti minimi essenziali,

dell'equità».

«Una delle caratteristiche più rilevanti della nuova organizzazione del lavoro è la frammentazione

fisica del ciclo produttivo, promossa per conseguire una maggiore efficienza e maggiori profitti…

le tradizionali coordinate spazio-tempo entro le quali si configurava il ciclo produttivo subiscono

una trasformazione senza precedenti, che determina un cambiamento nella struttura stessa del

lavoro… conseguenze rilevanti nella vita dei singoli e delle comunità, sottoposti a cambiamenti

radicali sia sul piano delle condizioni materiali, sia su quello culturale e dei valori… fenomeno sta

coinvolgendo, a livello globale e locale, milioni di persone, indipendentemente dalla professione

che svolgono, dalla loro condizione sociale, dalla preparazione culturale. La riorganizzazione del

tempo, la sua regolarizzazione e i cambiamenti in atto nell'uso dello spazio — paragonabili, per la

loro entità, alla prima rivoluzione industriale, in quanto coinvolgono tutti i settori produttivi, in

tutti i continenti, a prescindere dal loro grado di sviluppo — sono da considerarsi, pertanto, una

sfida decisiva, anche a livello etico e culturale, nel campo della definizione di un sistema rinnovato

di tutela del lavoro».

«Grazie alle innovazioni tecnologiche, il mondo del lavoro si arricchisce di professioni nuove,

mentre altre scompaiono. Nell'attuale fase di transizione, infatti, si assiste ad un continuo

passaggio di occupati dall'industria ai servizi. Mentre perde terreno il modello economico e sociale

legato alla grande fabbrica e al lavoro di una classe operaia omogenea, migliorano le prospettive

occupazionali nel terziario e aumentano, in particolare, le attività lavorative nel comparto dei

servizi alla persona, delle prestazioni part time, interinali e « atipiche », ossia forme di lavoro che

non sono inquadrabili né come lavoro dipendente né come lavoro autonomo».

«La transizione in atto segna il passaggio dal lavoro dipendente a tempo indeterminato, inteso

come posto fisso, a un percorso lavorativo caratterizzato da una pluralità di attività lavorative; da

un mondo del lavoro compatto, definito e riconosciuto, a un universo di lavori, variegato, fluido,

ricco di promesse, ma anche carico di interrogativi preoccupanti, specie di fronte alla crescente

incertezza circa le prospettive occupazionali, a fenomeni persistenti di disoccupazione strutturale,

all'inadeguatezza degli attuali sistemi di sicurezza sociale».

«Il decentramento produttivo, che assegna alle aziende minori molteplici compiti, in precedenza

concentrati nelle grandi unità produttive, fa acquistare vigore e imprime nuovo slancio alle piccole

e medie imprese. Emergono così, accanto all'artigianato tradizionale, nuove imprese caratterizzate

da piccole unità produttive operanti in settori di produzione moderni oppure in attività decentrate

dalle aziende maggiori… Il lavoro nelle piccole e medie imprese, il lavoro artigianale e il lavoro

indipendente possono costituire un'occasione per rendere più umano il vissuto lavorativo».

Dottrina sociale e res novae: «Di fronte alle imponenti « res novae » del mondo del lavoro, la dottrina sociale della Chiesa raccomanda, prima di tutto, di evitare l'errore di ritenere che i mutamenti in atto avvengano in modo deterministico. Il fattore decisivo e « l'arbitro » di questa complessa fase di cambiamento è ancora una volta l'uomo, che deve restare il vero protagonista del suo lavoro»

«Le interpretazioni di tipo meccanicistico ed economicistico dell'attività produttiva, sebbene prevalenti e comunque influenti, risultano superate dalla stessa analisi scientifica dei problemi connessi con il lavoro. Tali concezioni si rivelano oggi più di ieri del tutto inadeguate a interpretare i fatti, che dimostrano ogni giorno di più la valenza del lavoro in quanto attività libera e creativa dell'uomo». «Cambiano le forme storiche in cui si esprime il lavoro umano, ma non devono cambiare le sue esigenze permanenti, che si riassumono nel rispetto dei diritti inalienabili dell'uomo che lavora. Quanto più profondi sono i cambiamenti, tanto più deciso deve essere l'impegno dell'intelligenza e della volontà per tutelare la dignità del lavoro, rafforzando, ai diversi livelli, le istituzioni interessate».

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«Gli squilibri economici e sociali esistenti nel mondo del lavoro vanno affrontati ristabilendo la giusta gerarchia dei valori e ponendo al primo posto la dignità della persona che lavora».

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IL CRISTIANO NEL MONDO DEL LAVORO OGGI

Esistono diversi modi di approcciarsi al mondo del lavoro ai cui estremi sostanzialmente si

rilevano due visioni opposte tra loro ed entrambe problematiche.

Anzitutto quella che si potrebbe declinare col seguente slogan: fare tutto quanto è in nostro

potere per faticare il meno possibile. L’idea di fondo è che purtroppo si deve lavorare, ma la vita,

quella vera, è altrove, non di certo dentro al mondo del lavoro. Dietro a questo modo di pensare

troviamo persone che entrano e stanno nel mondo del lavoro senza passione e senza grandi

interessi, con la rassegnazione che per vivere si deve lavorare. Chi la pensa così ha un sogno nel

cassetto: vincere qualche grande lotteria per non lavorare più. Insomma, la caratterizzazione di

fondo di questo modo di intendere e vivere il lavoro è la scissione tra lavoro e vita, sono due ambiti

in conflitto tra loro.

La seconda visione del lavoro, all’estremo opposto della prima ma altrettanto problematica,

si può declinare col motto: vivo per lavorare. Esistono persone che, quando sono in ferie, vivono

questo tempo con difficoltà. La cosa, che di primo acchito potrebbe apparire paradossale, si verifica

laddove si fa diventare il lavoro un idolo. Per qualcuno l'attività lavorativa è luogo dove si

proiettano tutte le proprie energie migliori perché rapiti dal sogno del successo attraverso

l'affermazione professionale e della conseguente ricchezza. Questo porta i c.d. “rampanti” (molto

spesso giovani) a sacrificare tutto (famiglia, amici, affetti, Dio) per il mito del lavoro: la vita diventa

lavoro!

Due opposte visioni, nella prima prevale la scissione, nella seconda la sovrapposizione tra

vita e lavoro.

La virtù, come ben intuiamo, sta in una via mediana che, a partire da una visione

antropologica e umanistica ponga al centro l’uomo: «a partire dall’uomo!», dunque, potrebbe

essere lo slogan che riassume questa terza visione.

Giovanni Paolo II nella sua enciclica Laborem Exercens, scritta nel 1981, pietra miliare

della Dottrina Sociale della Chiesa per quel che concerne il lavoro, con grande forza ribadisce: «Il

primo fondamento del valore del lavoro è l'uomo stesso [...] per quanto sia una verità che l'uomo è

destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l'uomo”, e non l'uomo “per il

lavoro”» (LE 6).

Il punto di partenza, che vale per il lavoro (ma anche per ogni attività che si compie), è

quella di esserci con tutto se stessi. Nel senso che non basta la presenza fisica. Infatti, così come

non è sufficiente allo studente recarsi a scuola per espletare pienamente il suo compito, ma gli è

richiesto di ascoltare quanto viene detto, al contrario sarebbe lì solo a “scaldare il banco”, allo

stesso modo, chi lavora deve essere presente con tutto se stesso, mettendo in campo tutto il suo

essere (intelligenza, volontà, forza, impegno, …) [peraltro, in talune tipologie di lavoro le

distrazioni costano caro, possono provocare gravi danni fisici a sé e agli altri oltre che materiali].

Lo stile di vita a cui ci stiamo abituando sempre di più, attraverso le nuove tecnologie, non

sempre aiuta questo stile di concentrazione che porta ad essere pienamente presenti laddove si è.

Quanti lavorano (o studiano, o guidano, o …) incollati al cellulare e in vario modo pluri-connessi

alle decine di chat, e-mail, …? Sembra che se non si è “multitasking” non si è nessuno. Tutto questo

produce dispersione e non aiuta l'attività principale che si sta svolgendo.

«II Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2, 15).

All’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, è dato il compito di prendersi cura di

quel giardino che è il mondo intero. Si comprende, quindi, come il lavoro sia vocazione per chi

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crede nel Dio che crea il mondo e lo mette al centro del cosmo per migliorarlo attraverso l'attività di

ogni giorno.

Gesù stesso nelle sue parabole benedice l'operosità delle persone, richiamandole alla

responsabilità. Si pensi alla parabola dei talenti: a ciascuno è dato qualcosa perché lo faccia

fruttificare e il servo “pigro” viene gettato fuori e non prende parte alla gioia del suo padrone come

gli altri (Mt 25, 14-30).

Uno dei compiti fondamentali dell'educazione cristiana è quello di aiutare le persone a

comprendere lo stretto nesso tra fede e vita. L'incontro col Signore e il suo Vangelo permea tutta la

vita dell'uomo in ogni sua dimensione e quindi anche quella del lavoro. Si deve evitare la

separazione tra la propria vita cultuale, fatta di preghiera e pratica dei sacramenti e il resto delle

attività. La spiritualità del lavoro è precisamente credere che lo Spirito Santo guida l'azione delle

persone dando loro un’impronta cristiana in ogni attività svolta e, quindi, anche all’interno di quella

lavorativa.

«Quale stile dovrebbe avere un cristiano sul posto di lavoro?».

Anche in questo caso esistono due opposti, due estremi da evitare. II primo è sintetizzabile con

slogan: la fede è mia e me la gestisco io. È l'atteggiamento di chi sul lavoro evita assolutamente di

far trasparire la propria fede, sia per timore che questa possa danneggiarlo, sia per timidezza, sia per

l'errata convinzione che non sia argomento che deve trapelare in ambito lavorativo.

All’opposto troviamo quelli che ostentano la fede e si credono i salvatori del mondo, dimenticando

che vi è un solo Salvatore e che quando è venuto ha avuto un profondo rispetto della libertà degli

uomini e delle donne che ha incontrato sul suo cammino.

Ancora una volta, lo stile passa da una presenza che, senza ostentare, non si sottrae al confronto su

tutto e quindi anche sul proprio credo.

Il cristiano è chiamato attraverso il suo vivere a testimoniare nei fatti ciò in cui crede.

Saper ascoltare le persone, esercitare la discrezione, fare bene le proprie mansioni (semplici

o complicate che siano), vivere la solidarietà e porre segni di gratuità: sono tutti gesti non scontati

che dicono di uno stile simile a quello che troviamo in Gesù nel suo Vangelo.

Anzitutto, si tratta di accorgersi degli altri, che siano colleghi o persone con le quali si entra in

contatto a causa del tipo di lavoro che si svolge.

In secondo luogo, ci è chiesto di non cadere nei pettegolezzi o in quella che nella Bibbia prende il

nome di “mormorazione”.

Aspetto centrale è l’essere responsabili e far bene le mansioni richieste: «Se un uomo è

chiamato ad essere uno spazzino, egli dovrebbe pulire le strade proprio come Michelangelo

dipingeva, o Beethoven componeva musica, o Shakespeare scriveva poesia. Dovrebbe pulire le

strade così bene che tutte le legioni del cielo e della terra dovrebbero fermarsi per dire: qui è

vissuto un grande spazzino, che faceva bene il suo lavoro» (Giovanni Bachelet al 30° convegno

Bachelet, Università La Sapienza, Roma, 12 feb. 2010 citando una famosa frase di Martin Luther

King)

E ancora: il recupero dei legami di solidarietà e gratuità con i colleghi di lavoro. Un tempo

se un lavoratore veniva licenziato, quelli che condividevano con lui quell’attività si coalizzavano e

verificavano, nei limiti del possibile, che non vi fossero ingiustizie. Vi è stata una stagione in cui i

lavoratori sentivano con forza il loro legame. Oggi, in un'epoca sempre più segnata

dall'individualismo, questi tipi di legami si sono fortemente indeboliti e il segno più eloquente è lo

scarso ricorso ai “contratti di solidarietà” che consentono ai lavoratori delle ditte in crisi di lavorare

un po’ tutti, anche se meno. Un cristiano, di fronte al collega licenziato, non può fare affermazioni

del tipo: «per fortuna non è toccato a me», nemmeno pensarle.

Aggiungiamo alcune indicazioni significative sono offerte dal Magistero di Papa Francesco .

Nella Esortazione apostolica Evangelii Gaudium troviamo «quattro principi che orientano

specificamente lo sviluppo della convivenza sociale» (EG 221).

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1. Il tempo è superiore allo spazio. Sostiene Papa Francesco che: «Questo principio permette di

lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a sopportare con

pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà

impone» (EG 223). Il Pontefice ha in mente soprattutto quel modo di fare politica tentato di

privilegiare gli spazi di potere piuttosto che i tempi dei processi. Ma pensando a un giovane che

entra nel mondo del lavoro, sento la necessità di segnalare la pertinenza di questo principio in

relazione alla possibile creazione di nuove start-up. La narrazione di giovani “vincenti” che dal

nulla hanno costruito un impero economico cavalcando semplicemente un’idea vincente, va messa

in relazione alla storia di tante start-up fallite con dispendi economici e scoraggiamenti.

Immaginarsi imprenditori di se stessi è in sé qualcosa di positivo, ma non basta lo spazio di un’idea

per buttarsi in un’impresa nuova. Decisivo appare il confronto con persone che conoscono i

processi economici e sono in grado di vedere se l’intuizione potrà resistere alla prova del tempo.

2. L’unità prevale sul conflitto. Anche il mondo del lavoro è abitato da conflitti, anzi è uno dei

luoghi dove il conflitto è la regola. Vivere in modo positivo il conflitto è arte tutta d’apprendere e

dove lo stile del cristiano può dire qualcosa a tutti. Significa non cedere alla logica dell’arrivismo

che schiaccia i colleghi, non cadere nella pratica sterile del pettegolezzo sugli assenti, lavorare bene

con i compagni di lavoro, praticare la solidarietà e capire che la qualità relazionale è la vera chiave

con cui affrontare oggi il nostro impegno quotidiano. Nelle situazioni di crisi talvolta i lavoratori si

spaccano perché non prevale la logica del bene comune ma quella dell’interesse individuale. Essere

uomini e donne di unità nei luoghi di lavoro ha un valore inestimabile ed è per questo che quanto

detto in precedenza sul tema della solidarietà e della gratuità si applica pienamente a questo

principio.

3. La realtà è più importante dell’idea. Per spiegare meglio questo principio Francesco afferma:

«Ciò che coinvolge è la realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo

formale all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si sostituisce la

ginnastica con la cosmesi» (EG 232). Serve un grande realismo per cogliere i cambiamenti in atto

nel mondo del lavoro. La cosiddetta “Industria 4.0” è già realtà. Dopo la rivoluzione del carbone e

della macchina a vapore; dopo quella del petrolio, dell’energia elettrica e della produzione di massa;

e dopo quella più recente di internet e delle tecnologie dell’informazione e dell’automazione, oggi

siamo nel campo dell’intelligenza artificiale (ovvero macchine capaci d’apprendere), della stampa

3D, delle nanotecnologie e delle biotecnologie. È con questa realtà che ci dobbiamo misurare senza

paura, ma col realismo di chi sa che solo un’intelligenza non rigida sarà in grado di scorgere le

nuove opportunità lavorative che si aprono a fronte di quelle che vanno ad esaurirsi.

4. Il tutto è superiore alla parte. È la grande sfida, che copre anche il mondo della produzione, tra

locale e globale. Con la globalizzazione (di cui Papa Benedetto XVI ci ha offerto un’analisi

lungimirante nella Caritas in veritate) il mondo si è fatto più piccolo e le interazioni sono

aumentate esponenzialmente. Chi entra e chi sta oggi nel mondo del lavoro deve avere uno sguardo

ampio e capace di cogliere non solo i limiti della globalizzazione, ma soprattutto le opportunità. La

conoscenza di altre lingue, oltre all’italiano, è sempre più uno strumento essenziale per non

rimanere isolati dal resto del Pianeta. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una

prospettiva più ampia: Pensare globalmente, agire localmente.

Infine, piace ricordare l’esempio dei benedettini presente nella Laudato si’ quando si

affronta la questione lavorativa: «Raccogliamo anche qualcosa dalla lunga tradizione monastica.

All’inizio essa favorì in un certo modo la fuga dal mondo, tentando di allontanarsi dalla decadenza

urbana. Per questo i monaci cercavano il deserto, convinti che fosse il luogo adatto per riconoscere

la presenza di Dio. Successivamente, san Benedetto da Norcia volle che i suoi monaci vivessero in

comunità, unendo la preghiera e lo studio con il lavoro manuale (Ora et labora). Questa

introduzione del lavoro manuale intriso di senso spirituale si rivelò rivoluzionaria. Si imparò a

cercare la maturazione e la santificazione nell’intreccio tra il raccoglimento e il lavoro. Tale

maniera di vivere il lavoro ci rende più capaci di cura e di rispetto verso l’ambiente, impregna di

sana sobrietà la nostra relazione con il mondo» (126).

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Queste ultime parole sono l’augurio per una spiritualità del lavoro dove il lavoro, la preghiera e lo

studio si armonizzano in una vita ordinata e santa.

Quattro parole e quattro aggettivi che possono dar senso al nostro lavoro, che possono cioè

indicarci la via, la strada maestra, per un nuovo umanesimo del lavoro.

Le quattro parole, che si traducono immediatamente in gesti, che evocano direttamente

comportamenti, sono: festa, vocazione, condivisione, testimonianza.

Perché parlare di festa in un contesto così problematico che investe il mondo del lavoro (che

manca, o di cattivo lavoro, o di lavoro precario, sottopagato, dai ritmi vertiginosi, ecc.)?

Festa non è l’ebrezza di una sciocca evasione o la pigrizia di starsene in poltrona ma, come ci

ricorda Papa Francesco (Udienza 12 agosto 2015), perché la festa l’ha inventata Dio aiutandoci a

capire, da un lato, che il lavoro non è tutto noi stessi e, dall’altro, che noi stessi non siamo il lavoro

che facciamo. Per celebrare la festa è necessario poter celebrare il lavoro; l’uno scandisce il tempo e

il ritmo dell’altra. Vanno insieme: la settimana inizia con la domenica, ma siamo capaci di

insegnarlo e di testimoniarlo? Celebrare il lavoro per poter celebrare la festa significa impegnarci

affinché un lavoro dignitoso, il lavoro per la dignità dell’uomo e della sua famiglia, ce l’abbiano

tutti. Festa, dunque, per non dimenticare che viviamo anche grazie al lavoro, ma non di solo lavoro.

Guardare al lavoro in termini vocazionali significa imparare (e imparare a ricordarcelo) che il

lavoro non è riducibile a merce di scambio, o a forza contrattuale, il lavoro non è qualcosa di

separato da chi lo produce. Vocazione vuol dire parlare di uomini e donne che lavorano per

edificare quell’autentica comunità umana che ognuno di noi desidera per sentirsi veramente persona

(Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza e si è incarnato nella nostra umanità

diventassimo “partecipi della natura divina”, e “così noi conoscessimo l’amore di Dio”.

L’apostolo ed evangelista Giovanni, il discepolo amato, nei suoi scritti ce lo ricorda più di una

volta: “In questo s’è manifestato per noi l’amor di Dio: che Dio ha mandato il suo unigenito

Figliuolo nel mondo affinché per mezzo di lui vivessimo” (1 Giovanni 4,9); “Dio infatti ha tanto

amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia

la vita eterna” (Giovanni 3:16).

Nella Mater et magistra parlando del lavoro agricolo, ma il pensiero si estende a tutte le tipologie di

lavoro, si afferma: «nel lavoro agricolo la persona umana trova mille incentivi per la sua

affermazione, per il suo sviluppo, per il suo arricchimento, per la sua espansione anche sul piano

dei valori dello spirito. È quindi un lavoro che va concepito e vissuto come una vocazione e come

una missione; come una risposta cioè a un invito Dio a contribuire all’attuazione del suo piano

provvidenziale nella storia; e come un impegno di bene ad elevazione di se stessi e degli altri e un

apporto all’incivilimento umano».

Il lavoro dunque come un impegno di bene per sé e per gli atri, come passione di civiltà. E Papa

Francesco su questa dimensione vocazionale del lavoro ci esorta «a percorrere la strada luminosa e

impegnativa dell’onestà fuggendo le scorciatoie dei favoritismi e delle raccomandazioni».

Leggiamo nella Laudato si, e siamo alla terza parola, la condivisione: «qualsiasi forma di lavoro

presuppone un’idea di relazione che l’essere umano può o deve stabilire con l’altro da sè».

Quando incontriamo situazioni strazianti o ci imbattiamo in ferite che il lavoro provoca nella vita

delle persone, abituiamoci a non fare i soliti grandi discorsi presuntuosi che di sofferenza sanno

poco o niente; la nostra preoccupazione dovrebbe essere quella di creare spazi e tempi dove chi

soffre possa raccontare quel che non va. Se si incontra qualcuno che ci ascolta si riaccende in noi

quel desiderio di relazione che ci fa sentire persone e non cose.

Educare ed educarci al senso morale del lavoro significa essere capaci di reagire prontamente,

con sollecitudine inquieta e creativa, per aiutare chi non ce la fa e per rimuovere quegli ostacoli che

oscurano la dignità dell’uomo che lavora. È una sensibilità etica che si apprende e che va

costantemente allenata, soprattutto perché viviamo in un contesto ce culturalmente tende a farci

assuefare alla miseria umana. Papa Francesco, rivolgendosi al Movimento cristiano lavoratori lo ha

detto con molta chiarezza: «di fronte alle persone in difficoltà e a situazioni faticose non serve fare

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prediche; occorre invece trasmettere speranza, confortare con la presenza, sostenere con l’aiuto

concreto».

In sintesi:

ri-umanizzare il lavoro (festa);

umanizzare se stessi nel lavoro (vocazione);

umanizzare gli altri attraverso il lavoro (condivisione e testimonianza).

I quattro aggettivi li prendiamo direttamente dall’esortazione apostolica Evangelii gaudium (n. 192)

e che sono stati posti a fondamento della recente 48° Settimana Sociale dei Cattolici (svoltasi a

Cagliari 26-29 ottobre) declinandola con il titolo “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo,

partecipativo e solidale”.

Lavoro libero da oppressioni, da ideologie che lo rendono “merce” di scambio alla pari di altre

merci: L’uomo che lavora non è un mero fattore economico in più, usabile o scartabile a

piacimento. L’uomo che lavora ha una natura e una dignità non riducibili a semplici calcoli

economici.

Vogliamo un lavoro creativo animati dalla convinzione che ogni uomo porta in sé una capacità

unica e originale di manifestare il bene che Dio gli ha posto nel cuore. Papa Francesco al riguardo ci

ricorda che «ogni uomo e donna è “poeta” … quando gli si permette di esprimere in libertà e

creatività alcune forme di impresa, di lavoro collaborativo svolto in comunità che consentano a lui

e ad altre persone un pieno sviluppo economico e sociale».

Ma il lavoro dell’uomo, per poter incidere nella realtà secondo il “poema” che Dio ha inscritto nella

creazione dev’essere partecipativo: l’uomo che lavora, sia esso un dipendente o un imprenditore,

un libero professionista o un artigiano, è chiamato a esprimere il lavoro secondo la logica che gli è

più propria, cioè quella relazionale: vedere sempre nel lavoro il volto dell’altro e la collaborazione

responsabile con altre persone. L’impresa, l’azienda, lo studio professionale, l’ufficio, la scuola, la

bottega artigiana, oltre che essere organizzazioni efficienti e ordinate di mezzi di produzione sono

innanzitutto comunità di persone, «comunità di uomini che, in diverso modo, perseguono il

soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio

dell’intera società» (CA 39).

È il lavoro stesso a creare la comunità, e la solidarietà che è possibile sperimentare in essa

rappresenta per i lavoratori tutti un’occasione di autorealizzazione personale. Il lavoro, d’altro

canto, è anche il mezzo che consente l’edificazione di altre comunità: la famiglia, il gruppo umano,

la nazione. «Come persona l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie

varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto

oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione

ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità … per quanto sia una verità che

l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è per l’uomo e non

l’uomo per il lavoro» (LE 6).

Concludo con alcune parole prese a prestito dai pensieri di Spartaco Lucarini, che seppur scritte

da oltre cinquant’anni, sono a mio avviso di una freschezza e un’attualità immense:

«Occorre, come Gesù, spezzare il pane con questa umanità negli ambienti dove viviamo:

farci uno con il fratello che lavora con noi, come Gesù lavoratore si è fatto uno nel suo

ambiente di lavoro a Nazareth. Nella fabbrica, nell’ufficio, nello studio professionale, nella

scuola passiamo la maggior parte della nostra giornata, come non sentire che in questi

ambienti deve rifiorire una comunità viva? Occorre che il lavoro collettivo diventi servizio

dell’uno all’altro, cooperazione mutua, reciproco aiuto, unità. Ma bisogna prima rivestirci di

Gesù: essere Gesù operaio, Gesù impiegato, Gesù artigiano, Gesù avvocato, insegnante,

studente, ma anche e soprattutto Gesù disoccupato, povero, emarginato, cioè occorre amare

il fratello che sta accanto a noi negli ambienti di vita e di lavoro».