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La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium Introduzione all’idea di “partecipazione liturgica” 1. Premesse: le caratteristiche del Concilio e il loro influsso sul testo di SC Per un adeguato accostamento al testo conciliare è necessario tenere conto non solo della sua storia di redazione, ma anche degli obiettivi che i Padri si erano prefissi e, soprattutto, del modo con cui li hanno perseguiti; tutte queste cose, infatti, trovano il loro puntuale riflesso nei testi dei documenti conciliari e, di conseguenza, vanno tenute presente nella lettura del testo, onde evitare il rischio di falsarne l’interpretazione. Vediamo brevemente alcune importanti questioni, con l’aiuto di alcuni testi della stessa SC. 1.1. Un Concilio “pastorale” ... ma fondato su una precisa visione teologica Come noto, il Concilio fu pensato dal beato Giovanni XXIII come “pastorale”; cioè, per dirlo con le parole stesse di SC: “Il Sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamento, di favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa” (SC 1). Non si tratta dunque di partire da particolari errori dottrinali o problemi disciplinari (come accaduto per la gran parte dei Concili Ecumenici del passato) ma di riprendere in mano la prassi ecclesiale (nel caso specifico quella liturgica) e farla crescere, adattarla, ecc. ecc. Evidentemente tutto il documento è proprio in questa linea: infatti, anche solo ad una veloce lettura dell’indice si può notare come la gran parte del suo testo sia dedicata ad indicazioni assolutamente pratiche, per lo più in ordine alla riforma ed alla revisione della prassi liturgica e dei suoi testi o riti. Tuttavia, ciò che fonda le indicazioni pratiche e le spiega non è semplicemente una logica di buon senso o di fondazione storica, e nemmeno di presunta modernizzazione; dietro le scelte pratiche sta infatti una chiara ed articolata visione teologica della realtà liturgica. Lo stesso indice del documento ne dà chiara testimonianza: infatti, non solo si può agevolmente far notare come il Capitolo I del documento (specialmente con i suoi primi numeri: n. 5-8) faccia da quadro teorico per tutto il resto della Costituzione, ma si può anche rilevare la presenza, in apertura dei singoli Capitoli successivi, di uno o più numeri dedicati appunto ad una breve sintesi circa il senso di quella parte di realtà liturgica di cui in ciascuno di essi ci si deve occupare. Un esempio per tutti: il Capitolo II, dedicato al Mistero eucaristico premette ai numeri dedicati a “ciò che stabilisce il Concilio” (cioè i n. 49-58), i n. 47 e 48, dedicati rispettivamente ad una breve sintesi teologica sul mistero eucaristico e, conseguentemente, sulle caratteristiche della partecipazione dei fedeli ad esso. 1.2. Un Concilio “pastorale” ... e quindi impegnato nella ricerca del consenso Un’altra conseguenza (forse più eclatante) della qualità pastorale del Concilio sui suoi testi la si può rinvenire a partire da quello che gli storici dell’assise conciliare hanno indicato con l’etichetta di “ricerca del consenso”. La vicenda del Concilio non è stata sempre lineare e spesso in aula e fuori da essa si sono confrontate, anche duramente, posizioni differenti; tuttavia, è un fatto assodato che, nella produzione dei suoi testi, il Concilio ha proceduto con un metodo di lavoro che cercava di raccogliere attorno ad essi il massimo consenso possibile, senza per questo rinunziare a specifiche sottolineature ed affermazioni. Illustriamo cosa questo significhi a livello dei testi con un paio di esempi significativi: in primo luogo il n. 112, che apre il Capitolo VI, dedicato alla Musica sacra. SC 112. La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della Liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla Sacra Scrittura, sia dai Padri, sia dai Romani Pontefici che recentemente, a cominciare da s. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della Musica sacra nel servizio divino. Perciò la Musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva ed ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie. Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione

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La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium Introduzione all’idea di “partecipazione liturgica”

1. Premesse: le caratteristiche del Concilio e il loro influsso sul testo di SC

Per un adeguato accostamento al testo conciliare è necessario tenere conto non solo della sua storia di redazione, ma anche degli obiettivi che i Padri si erano prefissi e, soprattutto, del modo con cui li hanno perseguiti; tutte queste cose, infatti, trovano il loro puntuale riflesso nei testi dei documenti conciliari e, di conseguenza, vanno tenute presente nella lettura del testo, onde evitare il rischio di falsarne l’interpretazione. Vediamo brevemente alcune importanti questioni, con l’aiuto di alcuni testi della stessa SC.

1.1. Un Concilio “pastorale” ... ma fondato su una precisa visione teologica Come noto, il Concilio fu pensato dal beato Giovanni XXIII come “pastorale”; cioè, per dirlo con le parole stesse di SC:

“Il Sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno di più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamento, di favorire ciò che può contribuire all’unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa” (SC 1).

Non si tratta dunque di partire da particolari errori dottrinali o problemi disciplinari (come accaduto per la gran parte dei Concili Ecumenici del passato) ma di riprendere in mano la prassi ecclesiale (nel caso specifico quella liturgica) e farla crescere, adattarla, ecc. ecc. Evidentemente tutto il documento è proprio in questa linea: infatti, anche solo ad una veloce lettura dell’indice si può notare come la gran parte del suo testo sia dedicata ad indicazioni assolutamente pratiche, per lo più in ordine alla riforma ed alla revisione della prassi liturgica e dei suoi testi o riti. Tuttavia, ciò che fonda le indicazioni pratiche e le spiega non è semplicemente una logica di buon senso o di fondazione storica, e nemmeno di presunta modernizzazione; dietro le scelte pratiche sta infatti una chiara ed articolata visione teologica della realtà liturgica. Lo stesso indice del documento ne dà chiara testimonianza: infatti, non solo si può agevolmente far notare come il Capitolo I del documento (specialmente con i suoi primi numeri: n. 5-8) faccia da quadro teorico per tutto il resto della Costituzione, ma si può anche rilevare la presenza, in apertura dei singoli Capitoli successivi, di uno o più numeri dedicati appunto ad una breve sintesi circa il senso di quella parte di realtà liturgica di cui in ciascuno di essi ci si deve occupare. Un esempio per tutti: il Capitolo II, dedicato al Mistero eucaristico premette ai numeri dedicati a “ciò che stabilisce il Concilio” (cioè i n. 49-58), i n. 47 e 48, dedicati rispettivamente ad una breve sintesi teologica sul mistero eucaristico e, conseguentemente, sulle caratteristiche della partecipazione dei fedeli ad esso. 1.2. Un Concilio “pastorale” ... e quindi impegnato nella ricerca del consenso Un’altra conseguenza (forse più eclatante) della qualità pastorale del Concilio sui suoi testi la si può rinvenire a partire da quello che gli storici dell’assise conciliare hanno indicato con l’etichetta di “ricerca del consenso”. La vicenda del Concilio non è stata sempre lineare e spesso in aula e fuori da essa si sono confrontate, anche duramente, posizioni differenti; tuttavia, è un fatto assodato che, nella produzione dei suoi testi, il Concilio ha proceduto con un metodo di lavoro che cercava di raccogliere attorno ad essi il massimo consenso possibile, senza per questo rinunziare a specifiche sottolineature ed affermazioni. Illustriamo cosa questo significhi a livello dei testi con un paio di esempi significativi: in primo luogo il n. 112, che apre il Capitolo VI, dedicato alla Musica sacra.

SC 112. La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell’arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della Liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla Sacra Scrittura, sia dai Padri, sia dai Romani Pontefici che recentemente, a cominciare da s. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della Musica sacra nel servizio divino. Perciò la Musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva ed ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie. Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione

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ecclesiastica e mirando al fine della Musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue.

Brevemente, al Concilio si sono confrontate due linee teoriche a proposito della musica e del canto nella Liturgia, due linee diverse e spesso in contrasto aspro tra di loro: una linea che insiste maggiormente sulla qualità artistica del canto e della musica e che tende ad identificare il modello canoro ideale nel canto gregoriano e nella polifonia ad esclusione di altre possibilità (potremmo indicarla con il nome di “linea della musica sacra”: in sottolineato nel testo sopra citato), ed un’altra che invece insiste più sull’aspetto funzionale della musica e del canto in ordine alla Liturgia e, quindi, si mostra aperta ad altre forme canore e musicali (potremmo indicarla con il nome di “linea della musica liturgica”: in corsivo nel testo sopra citato). Ad attenta lettura risulta chiaro come SC 112 proceda accostando sistematicamente il vocabolario di una corrente con quella dell’altra, in modo che ciascuno ritrovi gli interessi e le sottolineature che gli sono care; in alcuni luoghi e nell’insieme del testo, però, non è difficile cogliere quale sia la preferenza degli estensori del documento. Un ulteriore (ed ancora controverso esempio) è costituito dalle indicazioni offerte dal Concilio circa l’uso della lingua latina; qui mi limito ad osservare come SC, nei numeri in cui se ne occupa (in generale: n. 36; per la Messa: n. 54; per i sacramenti e sacramentali: n. 63; per la Liturgia della Ore: n. 101; per la musica liturgica: n. 113) proceda sostanzialmente nel modo visto sopra: mantenimento della lingua latina ed insieme ampia apertura all’uso delle lingue nazionali (secondo il giudizio delle conferenze episcopali e con la conferma della s. Sede). Questa duplice caratteristica, apparentemente contraddittoria, dei testi conciliari fa sì che non si possa mai citarli a pezzi e fuori dal loro contesto proprio (vale a dire, il resto della Costituzione).

1.3. Continuità o discontinuità con la tradizione precedente al Concilio? La questione sembra oggi essere molto presente nelle discussioni circa il Concilio e circa la sua interpretazione. Essa mi pare avere almeno due livelli differenti: il livello della cosiddetta “dottrina” e quello delle indicazioni normative; non infrequentemente, poi, affermare che il Concilio “non ha aggiunto nulla alla dottrina” (d’altro canto era “pastorale”, giusto?) sembra dover comportare anche l’insinuazione che le sue disposizioni disciplinari in fondo siano o meno cogenti giuridicamente o, comunque, del tutto in linea con quanto lo ha preceduto. Vediamo di precisare meglio la situazione. Per quanto riguarda il livello dottrinale, mi sembra indubbio che il Concilio non ha aggiunto nulla di nuovo al depositum fidei inteso nella sua interezza, né ha introdotto novità in rapporto all’insieme della Tradizione storica della Chiesa: non ha infatti prodotto definizioni dogmatiche o cose simili. Tuttavia ciò non significa che esso non abbia fatto affermazioni e sottolineature dottrinali che sono obiettivamente nuove in rapporto al suo immediato passato. Vorrei fare tre esempi per dimostrare la verità di questa affermazione:

a. Prima fra tutte va citata l’idea di Liturgia (SC 5-8: v. più avanti per un’analisi puntuale). b. Poi, il modo rinnovato di pensare il significato teologico dell’Eucarestia espresso in SC 47:

SC 47. Il nostro Salvatore nell’ultima cena, la notte in cui fu tradito, istituì il sacrificio eucaristico del suo corpo e del suo sangue, onde perpetuare nei secoli fino al suo ritorno il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e risurrezione: sacramento di amore, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale di riceve Cristo, l’anima viene ricolma di grazia e ci è dato il pegno della gloria futura.

Riassumendo in maniera forse troppo sintetica: a fronte di una storia della teologia eucaristica che, a partire dal modo con cui il Concilio di Trento aveva affrontato la questione, aveva di fatto disgiunto la considerazione dell’aspetto sacrificale dell’Eucaristia da quello più strettamente sacramentale, il testo conciliare, accostando le due terminologie, vuole proporre una prospettiva differente: non più, dunque, “sacrificio” e “sacramento” - “presenza reale”, ma un unico “mistero eucaristico” della presenza reale, in forma sacramentale, del sacrificio della Croce. c. Infine si può citare il cambio di denominazione (e quindi di comprensione, prima, e di disciplina, poi)

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a proposito dell’Unzione degli Infermi, che viene introdotto in SC 73: SC 73. L’ “estrema unzione”, che può essere chiamata anche, e meglio, “unzione degli infermi”, non è il sacramento solo di coloro che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverlo ha certamente già inizio quando il fedele, per indebolimento fisico o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte.

Anche qui, si può vedere come il Concilio voglia passare da una comprensione del sacramento più ristretta (“estrema unzione”, come a Trento) ad una più ampia (“unzione degli Infermi”), e quindi propone di concepirlo non più come “sacramento solo di coloro che sono in fin di vita”; ma come sacramento da ricevere “quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomincia ad essere in pericolo di morte”.

In tutti questi casi, mi pare evidente come il testo conciliare non faccia affermazioni assolutamente nuove, cioè mai espresse prima nella storia della Chiesa; ciò nonostante, nello stesso momento, è innegabile che esso abbia obiettivamente la volontà di rinnovare, rispetto a quanto lo ha immediatamente preceduto. Per quanto riguarda il livello disciplinare, anche in questo caso mi pare valgano analoghe considerazioni: il Concilio si impegna costantemente a mantenere un richiamo di continuità con le norme che lo precedono, ma non rinuncia, ove necessario, a proporre qualcosa di differente Anche qui proporrei un paio di esempi concreti, tratti dalla stessa Costituzione:

a. Il caso sopra citato di SC 73: come a livello dottrinale, così anche a livello disciplinare, SC non vuole assolutamente contraddire il dettato tridentino che si esprimeva in termini di “pericolo di morte” (inteso come imminenza della morte o “essere in fin di vita”); di conseguenza, il testo conciliare continua ad utilizzare l’espressione “pericolo di morte”, ma lo fa chiaramente in un senso più ampio (“quando il fedele... incomincia ad essere in pericolo di morte”), in grado di tornare a comprendere nei destinatari del sacramento tutti i malati e non più soltanto i moribondi e ciò permette di conseguenza l’estensione dell’applicazione pratica del Sacramento dell’Unzione. b. Il caso della comunione sotto le due specie di cui si occupa SC 55:

SC 55. Si raccomanda molto quella più perfetta partecipazione alla Messa, nella quale i fedeli, dopo la comunione del sacerdote, ricevono il Corpo del Signore dal medesimo sacrificio. Fermi restando i principi dottrinali stabiliti dal Concilio di Trento, la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi, sia ai laici, in casi da determinarsi dalla Sede Apostolica e secondo il giudizio del Vescovo, come per esempio agli ordinati nella Messa della loro sacra Ordinazione, ai professi nella Messa della professione religiosa, ai neofiti nella Messa che segue il Battesimo.

Si possono fare qui le stesse considerazioni avanzate a proposito del caso precedente: pur volendo chiaramente promuovere una pratica (la comunione sotto le due specie), perché sentita maggiormente conforme alla ratio signi liturgica, il Concilio non vuole assolutamente dare l’impressione di contraddire il dettato disciplinare tridentino; quindi utilizza la formula un po’ involuta del “si possa concedere” (eventualmente moltiplicando il numero delle condizioni in cui è possibile), in luogo di una più diretta (tipo: “si compia normalmente”).

2. L’idea “teologica” di Liturgia Partendo dal testo di SC, ai n. 5-8, si possono ricavare alcune indicazioni interessanti circa l’idea di Liturgia che il Concilio vuole proporre:

• La Liturgia è in diretto rapporto di continuità con la storia della salvezza A differenza del modo più usuale all’epoca di presentare la questione del senso della Liturgia (riscontrabile nel caso, p.es., dell’Enciclica Mediator Dei, da cui peraltro arriva la definizione del n. 7: Liturgia come esercizio del sacerdozio di Cristo), SC non la fa apparire nel contesto e come conclusione di un discorso sul “culto”, ma prende le mosse da una concezione di Rivelazione come Storia di salvezza; e lo si vede molto bene se si considera lo sviluppo del discorso nei numeri 5-7 e 8:

n° 5: vi sono diversi “tempi” e “modi” della Storia salvifica: quello profetico (“a più riprese e in più modi”: Eb 1,1) o di preannuncio; quello del compimento (“quando venne la pienezza dei tempi”), che ha due grandi frutti: “perfetta

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riconciliazione” – cioè salvezza, santificazione – e “pienezza del culto divino”; ed al cui centro sta il “mistero pasquale”; quello del “tempo della Chiesa” ( descritta come “mirabile sacramento scaturito dalla Croce” ci Cristo, cioè dal mistero pasquale, cioè dal compimento della Storia di salvezza).

n° 6: questo tempus Ecclesiae è caratterizzato dalla “missione” degli Apostoli, svolta in continuità con la “missione” di Gesù, per l’annuncio e l’attuazione dell’opera di salvezza compiutasi in lui: ciò avviene mediante i Sacramenti e la loro celebrazione (cioè la Liturgia) e mediante l’annuncio (cioè la predicazione del Vangelo, come buona notizia presente per chi l’ascolta); in questa duplice opera, i primi costituiscono l’attuazione e la verità della seconda. Dunque la Chiesa, oggi, continua a fare la stessa cosa che hanno fatto gli Apostoli di un tempo.

n° 8: … E lo fa in attesa ed in pegno ed in prospettiva del compimento finale e glorioso della vicenda delle singole persone e dell’umanità intera (dimensione escatologica). Mettendo tutto insieme, ne consegue che la Liturgia è continuazione, nell’oggi, del compimento della Storia di salvezza (o attuazione della Storia di salvezza per l’oggi), in vista e in attesa del suo compimento finale.

• La Liturgia è quanto sopra a motivo della presenza agente di Cristo in forma sacramentale (cioè “per mezzo di segni sensibili” che indicano e realizzano ciò che indicano) Se preso nel contesto degli altri numeri sopra citati, il discorso del primo paragrafo di SC 7, sembra un saltare di palo in frasca; in realtà non lo è affatto: ciò che il Concilio vuole sottolineare è che la Liturgia è “attuazione della Storia di salvezza” solo e in forza della “presenza operante” di Colui che di quella è l’artefice, cioè il Signore Gesù. In questo modo, il testo conciliare vuole suggerire una risposta alla ineludibile domanda circa il come sia possibile che un evento passato (la salvezza compiutasi nella Pasqua) sia ancora attualmente efficace oggi: ciò è possibile perché la Liturgia è, appunto, azione del Risorto (nel testo evocata mediante il tema del “sacerdozio”) nello Spirito Santo, secondo una sua modalità tipica (“sacramentale”, cioè “per mezzo di segni sensibili”). In questa dimensione “sacramentale”, inoltre, il Concilio intravvede un ulteriore collegamento con la Storia della salvezza, dato che questa dinamica appare riconoscibile, prima che nella Liturgia e nei Sacramenti, sia nella stessa costituzione personale di Gesù (rapporto Verbo - umanità), sia nel rapporto fra il Risorto e la sua Chiesa (v, le parti sottolineate nei n. 5-7).

Allora, ne consegue che, per SC, la Liturgia è innanzi tutto azione di Cristo che, per mezzo di segni sensibili (cioè in forma sacramentale), indica e realizza la santificazione dell’uomo e il culto gradito a Dio.

• La Liturgia ha gli stessi effetti della Storia della salvezza: la santificazione dell’uomo e la glorificazione

di Dio L’affermazione precedente permette di rilevare una ulteriore sottolineatura del discorso di SC, anch’essa

funzionale a legare strettamente la Liturgia della Chiesa con la Storia della salvezza; le due realtà vengono presentate, quanto alle loro finalità, con una terminologia omogenea (si vedano le parti in grassetto corsivo nei n. 5-7): ambedue, infatti, realizzano contemporaneamente un effetto discendente (da Dio verso l’umanità), indicato nel testo come “riconciliazione con Dio / redenzione umana / santificazione dell’uomo”, ed uno ascendente (dall’umanità verso Dio), indicato come “pienezza del culto divino / perfetta glorificazione di Dio / culto pubblico integrale”.

• La Liturgia (i Sacramenti) sono anche azione della Chiesa nell’azione di Cristo

Questo perché “Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima” (SC 7): propriamente, in un’azione sacramentale, l’effetto “santificazione” è direttamente prodotto dall’azione di Cristo (sacerdozio “di” Cristo in senso soggettivo), mentre l’effetto “culto” è il risultato dell’azione della Chiesa; tuttavia, quest’ultima azione è costituita propriamente dall’unirsi all’unica azione di Cristo. Per SC, infatti, i Sacramenti, e più in generale la Liturgia, sono “realtà” ecclesiale, cioè espressiva ed attuativa delle varie dimensioni della Chiesa e della sua vita; per questo, nel n. 10, verranno definiti “culmen et fons” di questa e, per la stessa ragione, la Costituzione una volta definita la propria visione

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teologica di Liturgia passa subito ad indicare il ruolo di questa in rapporto alla vita della Chiesa nei numeri 9-13.

3. L’obiettivo “pastorale” da perseguire: la partecipazione liturgica La Costituzione conciliare, in linea con l’intento pastorale di tutto il Vaticano II, non vuole solo suggerire una comprensione teologica adeguata della Liturgia, ma si propone anche di influire sulla sua pratica nella Chiesa: in effetti, è caratteristica di SC rispetto alla storia precedente, non tanto la mera presenza di un’idea di “partecipazione liturgica” (essa è già rinvenibile nel magistero di Pio X), quanto piuttosto la fondazione teologica e l’esplicitazione della sua necessità pastorale. La partecipazione liturgica si presenta infatti, nella mens di SC, come la prima conseguenza di ordine “pastorale” del rinnovato modello di comprensione della Liturgia che essa vuol proporre. Tre sono i testi principali a cui fare riferimento (SC 11; 14; 48), benché il tema appaia anche in molti altri (SC 19; 21; 27; 30; 41; 50; 79; 113-114; 121; 124: di solito, ogni volta che il Concilio sente la necessità di ribadire l’obiettivo pastorale delle indicazioni pratico-normative che vuole introdurre); vediamoli in dettaglio, con l’aiuto di qualche elemento grafico:

SC 11. Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con disposizioni d’animo retto, conformino la loro mente alle parole e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i sacri pastori devono vigilare affinché nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi per la valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte consapevolmente, attivamente e fruttuosamente.

SC 14. La madre chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano guidati a quella piena consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto” (1Pt 2, 9; cfr. 2, 4-5), ha diritto e dovere la forza del Battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nella riforma e nell’incremento della Liturgia: essa infatti è la prima e per di più necessaria sorgente dalla quale i fedeli possano attingere uno spirito veramente cristiano; e perciò i pastori d’anime, in tutta la loro attività pastorale, devono cercarla assiduamente attraverso un’adeguata formazione. Ma poiché non si può sperare la realizzazione di ciò, se gli stessi pastori d’anime non sono penetrati per primi della spirito e della forza della liturgia, e non ne diventano maestri, è perciò assolutamente necessario dare il primo posto alla formazione liturgica del clero. Pertanto il Sacro Concilio ha deciso di stabilire quanto segue.

SC 48. Perciò la Chiesa volge attente premure affinché i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano istruiti nella parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia immacolata, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti. Perciò, affinché il sacrificio della Messa raggiunga la piena efficacia pastorale anche nella forma dei riti, il Sacro Concilio, in vista delle Messe celebrate con partecipazione di popolo, specialmente la domenica e le feste di precetto, stabilisce quanto segue.

Dunque, riassumendo, potremmo dire che il Concilio ci presenta nei numeri sopra riportati:

• il fondamento della partecipazione liturgica: essa è un “diritto-dovere” di ogni credente in forza del Battesimo, da un lato, e luogo manifestativo e di accesso della salvezza “oggi” (SC 14); notare come qui non si parli affatto di “sacerdozio comune”, nonostante il tema sia evidentemente implicato (perché Liturgia è “esercizio del sacerdozio di Cristo”: SC 7): apparirà invece chiaramente in LG 10-11. La necessità della partecipazione, quindi, affonda ultimamente le sue radici nella qualità teologica della realtà liturgica: proprio perché è luogo di effettivo incontro con la salvezza (SC 5-7) che bisogna accedervi, ovvero parteciparvi;

• la sua qualità (SC 14): diritto - dovere, cioè scelta e necessità insieme, come conseguenza del

fondamento precedente; necessità perché nella celebrazione si entra in contatto con la salvezza di Dio

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che abilita alla vita secondo il Vangelo; scelta (di esercitare il diritto, cioè di partecipare) perché questo incontro non avviene automaticamente, come per magia, ma richiede un impegno personale sia sul piano delle motivazioni che su quello delle attuazioni pratiche (cfr. l’importanza della questione della formazione liturgica);

• le caratteristiche della partecipazione: SC di solito vi allude con terne di aggettivi o di avverbi

(“consapevole, attiva, fruttuosa”, SC 11; “piena, consapevole e attiva”, SC 14; “consapevole, pia e attiva”, SC 48); se messe una accanto all’altra, esse sembrano delineare come tre grandi caratteri dell’idea di partecipazione, così come la vuole intendere il Concilio:

1. una partecipazione consapevole (SC 11; 14; 21; 48; 79): SC alluderebbe al livello della comprensione di quanto avviene nella celebrazione, come condizione necessaria per l’accesso ad essa (cfr. SC 48); questa insistenza spiega anche l’attenzione che viene dedicata alle questioni della lingua liturgica (SC 36) e dell’inculturazione (SC 37-40), da un lato, e della riforma – in particolare alla semplificazione dei riti liturgici (SC 34), dall’altro. A questo proposito è facilmente rilevabile un limite, forse presente anche in SC: è infatti fin troppo facile fare una lettura ingenua di tale richiesta, cioè sviluppata solo in termini di “capire intellettualmente” e di “messaggio” o contenuto della celebrazione, dimenticando quindi che questa è solo condizione necessaria, non sufficiente (cfr. la vicenda della traduzione dei libri liturgici italiani); oppure orientando il proprio lavoro di animazione liturgica su linee scorrette (la “monizionite”) o addirittura ideologiche (piegando cioè la celebrazione della Chiesa ad esprimere il “mio” messaggio);

2. una partecipazione piena (SC 14 e 21; fruttuosa: SC 11; pia: SC 48 e 50): SC vuole alludere al livello “teologico” della partecipazione, cioè all’obiettivo reale che essa vuol raggiungere: cioè l’interazione profonda tra la specifica celebrazione in corso, con il proprio originale dono di salvezza, e la vita del credente e della comunità celebranti; non si deve mancare di notare come il frutto della celebrazione, di per sé sia extra-celebrativo;

3. una partecipazione attiva (SC 11; 14; 19; 21; 27; 30; 41; 48; 50; 79; 113-114; 121; 124): vi sono diversi elementi da considerare a questo proposito (uno dei più bistrattati, in verità, nella pratica pastorale): * essa è il contrario di “assistere come estranei o muti spettatori” (SC 48); * essa dice un riferimento primario ed ineludibile alla concretezza dell’azione liturgica, alla sua esteriorità, cioè ai gesti e parole che la compongono: in effetti, per SC la “triade ideale” della partecipazione si ottiene “conformando la mente alle parole” (SC 11) e si partecipa “comprendendo bene per mezzo dei riti e delle preghiere”, cioè attraverso gesti e parole esteriori, che però muovono da e rivelano un’interiorità di fede e di preghiera, in contrasto con il già citato “assistere da estranei o da spettatori” (SC 48); in SC la si chiama anche: partecipazione esterna (cfr. SC 30; 90; 99); * essa è mezzo per un’esperienza spirituale, oltre che di grazia e di salvezza (cfr. SC 90, che cita la Regola di s. Benedetto: mens concordet voci): la Liturgia propone dunque la via dell’interiorizzazione, non automaticamente quella dell’esteriorizzazione o dell’espressione di sé e del proprio mondo interiore; partecipazione interiore (cf. SC 19) che è armonicamente espressa - suscitata da quella esteriore; questo è carattere tipico della Liturgia: mobilitare tutto l’uomo, in tutte le sue dimensioni (corporeità => partecipazione esterna; intelletto, affettività => partecipazione interna).

Si può arrivare così ad individuare un concetto di “partecipazione” che si estende contemporaneamente su tre livelli sovrapposti e tutti indispensabili:

• un livello “teologico”: ovvero quello che esprime insieme la finalità della partecipazione alla Liturgia (cioè la condivisione - comunicazione del “mistero” salvifico a partire da / per la vita del credente: infatti la Liturgia è, secondo SC 10, “culmen et fons” della vita cristiana) ed il suo fondamento (in primis il “rendersi presente” misterico della salvezza: SC 7; in seconda istanza, il “diritto-dovere” del battezzato, risposta personale di accoglienza del gratuito darsi precedente: SC 14); è su questo piano che si può tentare di raccordare l’esperienza liturgica con l’esperienza più generalmente “spirituale” dei credenti. Ritornando alle “terne” di termini che il Concilio usa per indicare i caratteri della

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partecipazione liturgica, si potrebbe dire che essa è piena (fruttuosa, pia) se realizza effettivamente questa finalità teologica della celebrazione, vale a dire l’incontro effettivo tra vita dei celebranti e salvezza misterica, nelle modalità del culto e della santificazione (cfr. SC 5-7);

• un livello “esterno” (partecipazione esterna): quello cioè che ha a che fare con “ciò che si vede/si

compie in azioni esterne - rituali” (gesti; parole; canti; movimenti...), come “via normale” lungo la quale accogliere / rispondere al presentarsi misterico della salvezza, e insieme come manifestazione / concretizzazione del “livello interiore” della persona celebrante (intesa quindi come “unità” corporeo - spirituale); è infatti tipico della Liturgica il richiedere solitamente un’inversione dell’usuale percorso “espressivo” dell’uomo contemporaneo (quello della spontaneità: cioè dall’interno della persona all’esterno), privilegiandone piuttosto uno inverso (quello dell’interiorizzazione: ciò che dall’esterno suscita l’interiorità della persona). Analogamente a quanto accennato per il livello precedente, la partecipazione liturgica, nel “gergo” conciliare, sarà attiva se si presenta con la caratteristica del coinvolgimento di “tutti i celebranti” e insieme di “tutto il celebrante”, sia pure in modalità differenti ed articolate (andando dalla modalità propriamente “ministeriale” di servizio / azione esplicita, fino a quella di “passività contemplativa”, che può anche esprimersi solo in maniera molto limitata all'esterno, ma non per questo è meno “reale” o meno efficace apertura all’esperienza di Dio);

• un livello “interiore” (partecipazione interiore): quello cioè dell’interiorità che muove/accompagna

l’agire rituale (e non solo in senso sentimentale-affettivo!), principalmente come sua fonte, ma insieme anche come suo frutto; fatta di intellezione, volontà e affetto insieme, in quanto espressione della complessità del mondo interiore di chi – qui ed ora – celebra. Pur senza cadere nell’eccesso di uno “spiritualismo disincarnato”, bisogna qui notare come la dialettica di complementarietà - distinzione che esiste tra il livello esterno e quello interno della partecipazione apra effettivamente la porta alla possibile presenza dell’uno interiore (apparentemente) senza l’altro esteriore, o viceversa, ponendo quindi il problema di come qualificare tali forme ridotte in rapporto all’ideale di partecipazione “piena, attiva, consapevole” promosso dal Concilio. A quest’ultimo livello sembrerebbe dover corrispondere ciò che il Concilio indica con il termine consapevole: la dimensione interiore di comprensione come punto di partenza necessario – ma non sufficiente – per il verificarsi della partecipazione liturgica.

4. I mezzi per raggiungerlo: formazione liturgica, riforma liturgica e adattamento Ad uno sguardo di insieme, dal Capitolo I della Costituzione emerge chiaramente il perché solo a questo punto si passi ad affrontare le questioni che invece, in prima battuta, sembrerebbero quelle più importanti, ovvero quelle più pratiche, legate al “cosa fare” per mettere in pratica il programma conciliare di aggiornamento, incremento, adattamento, ecc. ecc. Solo a partire da una concezione teologica della Liturgia (SC 5-13), infatti, si viene a formulare l’obiettivo pratico strategico della partecipazione ad essa (SC 11 e 14); e alla luce di quest’ultimo la formazione liturgica (SC 14-20), la riforma liturgica (SC 21-35) e l’adattamento liturgico (SC 37-40) non sono altro che i “mezzi” operativi con cui raggiungere detto obiettivo.

A proposito di queste tre differenti linee operative e della loro relazione reciproca mi pare che si possa annotare quanto segue. 4.1. Riforma dei Riti liturgici La riforma liturgica è un’azione diretta sui diversi aspetti dei riti liturgici (testi, gesti, rubriche...), in modo che

essi favoriscano l’accadere della partecipazione: SC 21. (...) In tale riforma l’ordinamento dei riti e dei testi deve essere condotto in modo che le sante realtà,

da essi significate, siano espresse più chiaramente, il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria.

Questa parte del compito conciliare è comunemente ritenuta oggi conclusa, con l’eccezione della continua

opera di adattamento della Liturgia alle sempre mutevoli condizioni storiche e culturali delle Comunità cristiane. Tuttavia, è altrettanto vero che il compito di utilizzare adeguatamente quanto la Chiesa ha messo tra le mani degli animatori liturgici con i Libri rinnovati richiede una consapevolezza della loro organizzazione e una verifica costante del metodo di lavoro adottato nel progettare ed animare le varie

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celebrazioni di una Comunità che non è sempre facile da trovare o da acquisire. Anche a questo livello, il modello di partecipazione che il Concilio ci offre come obiettivo sintetico dei Libri Liturgici rinnovati (e quindi del loro uso) può essere una buona guida per una verifica.

Infatti, a modo di paradossale controprova di quanto appena detto, può essere utile segnalare alcune delle

possibili conseguenze negative di cui potrebbe soffrire un lavoro di pastorale liturgica e/o di regia celebrativa, qualora di prendesse come punto di partenza per detti interventi una troppo generica o acriticamente enfatica insistenza sull’idea di partecipazione. A titolo d’esempio e senza alcuna pretesa di completezza, mi pare di poter indicare i seguenti casi: • una considerazione di partecipazione che traduce la qualità “attiva” solo nei termini di una attività

primariamente esterna (per cui “tutti devono fare qualcosa” pena la “non-partecipazione”), non solo rischia di perdere di vista la necessaria unità e rimando tra la dimensione “esterna” ed “interna” del celebrare, ma soprattutto obbliga necessariamente l’animatore (o il presidente) della celebrazione ad un moltiplicarsi di gesti, movimenti, parole ed interventi spropositato e, alla fine, confusionario; e, comunque, sostanzialmente esposto all’arbitrio del “regista”, che si ritrova impegnato continuamente ad escogitare ogni volta nuovi “mezzi partecipativi” per sostituire quelli che via via perdono di efficacia. E questo non è affatto un rischio così remoto per una cultura come la nostra, particolarmente sensibile all’idea di “uguaglianza” (e quindi un poco diffidente nei confronti di ogni “distinzione” di ruolo) e, per di più, già tendenzialmente incline ad intendere l’attività solo nella sua forma pratico-esterna (col conseguente rischio di perdere il “nucleo interiore” della celebrazione e, al limite, di ricadere in forma nuova nel “vecchio” rubricismo preconciliare);

• se invece consapevole diventa semplicemente sinonimo di “intellettualmente compreso”, si rischia fortemente di cadere nell’equivoco dello scambiare la “spiegazione” del rito con l’“iniziazione” ad esso, e/o di infarcire i riti con numerosi interventi didattico-catechetici (le famose “monizioni”), di fatto sconquassandone il ritmo e le dinamiche;

• d’altro canto, anche accentuare in maniera unilaterale la dimensione interiore della partecipazione liturgica a scapito delle sue manifestazioni esterne (rischio questo non del tutto assente in certi modi di pensare / presentare la spiritualità cristiana), non potrà che rinforzare la dinamica privatistica-individualistica già presente nella nostra cultura, impedendo così un vero contatto con la realtà della celebrazione (che invece, essendo comunitaria, non è immediatamente a misura di singolo, e quindi va “accolta-acceduta” attraverso la ritualità con cui essa si svolge) e, al limite, ripresentando quel “modo devozionale” di celebrare (non partecipazione “alla” Liturgia, ma esperienza spirituale personale “in occasione della” Liturgia) che ha caratterizzato lunghi tratti della storia della spiritualità cristiana;

• ma pure una considerazione della dimensione interiore del partecipare liturgico che ponga l’accento solo sul suo lato affettivo - sentimentale, o su quello intellettivo-logico-discorsivo, difficilmente potrà permettere una efficace progettazione di concrete vie partecipative alla celebrazione, proprio a motivo della pregiudiziale riduzione operata in rapporto alle “attese” da avere di fronte alla celebrazione (p.es.: se non si “prova” questo, non si è celebrato bene! Oppure: se non ho “capito”, tutto non ho celebrato bene) ed ai “mezzi rituali” della concreta (qui e ora) partecipazione.

4.2. Formazione alla partecipazione liturgica La formazione liturgica è invece quell’azione pastorale che, a monte e a valle dell’esperienza celebrativa, mette

in grado ogni fedele ed ogni comunità di vivere in maniera adeguata e personale le singole celebrazioni.

Nella parte del documento ad essa dedicata, gli estensori della Costituzione sembrano pensare innanzi tutto alla formazione del clero (n. 15-18), puntando poi su quest’ultimo per la formazione dei fedeli (n. 19); inoltre, sembrano pensare soprattutto ad una formazione di tipo “accademico”, da un lato, e “catechetico” dall’altro. Forse si può anche dire che questa parte del documento non ha interagito abbastanza con l’idea articolata di “partecipazione” che la parte precedente preannuncia e rivela, limitandosi di conseguenza ad un‘idea di formazione sostanzialmente di tipo intellettivo-logico-discorsivo.

In ogni caso, la questione della formazione alla partecipazione liturgica mi pare che anche oggi obiettivamente

interpelli tutti i cammini formativi delle nostre Comunità e non solo le offerte formative accademiche e/o a livello diocesano.

In effetti, si può osservare che, a soli 50 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, dal punto di vista

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dell’esperienza liturgica mediamente diffusa, la Chiesa si trova in una fase ancora di passaggio tra il modello celebrativo e di partecipazione diffuso prima del Concilio e quello voluto dal Concilio stesso e dalla sua riforma liturgica: il primo parrebbe esser venuto meno (anche se, forse, non tutti se ne sono ancora accorti) in linea di diritto, a motivo della affermazioni conciliari circa le caratteristiche della partecipazione alla Liturgia e, in linea di fatto, in ragione dei mutamenti introdotti con i nuovi Libri Liturgici allo svolgimento stesso delle celebrazioni; mentre il secondo modello celebrativo ha necessariamente bisogno, per acquisire concretezza e diventare patrimonio comune delle diverse Comunità cristiane, di tempi lunghi e di specifici interventi di pastorale liturgica, poiché – almeno finora – il veicolo principale di apprendimento del “come vivere” la celebrazione è sempre stato l’esempio delle diverse persone e Comunità celebranti, le quali però, almeno per ora e in questo preciso momento storico, non sembrano mediamente in grado di trasmettere un modello univoco ed avvincente, in grado di coinvolgere altre persone. Di conseguenza, proprio questa situazione mi pare proponga un urgente compito ai cammini di formazione alla vita cristiana; esprimendolo in forma di domanda, si potrebbe dire così: se a celebrare normalmente si impara mediante la celebrazione stessa e attraverso l’esempio di chi già lo sa fare, e se la media della celebrazioni delle nostre Comunità cristiane per il momento non sembrano in grado di compiere tutto questo, non sarà necessario che, a differenza del recente passato, di questo obiettivo si facciano esplicitamente carico i percorsi di formazione cristiana?

Questa stessa considerazione, d’altra parte, chiama in causa anche il servizio dell’animazione liturgica, così come è organizzato in vista dell’introduzione dei bambini e dei ragazzi alla vita liturgica.

Una seria riflessione sulle caratteristiche della partecipazione è in grado di indicare obiettivi specifici ed anche

passi concreti per ottenere il realizzarsi di questo obiettivo, che, a tutt’oggi, mi sembra ben lungi dall’essere raggiunto compiutamente. Proviamo ad abbozzarla, partendo proprio da quel modello di “partecipazione” che SC ci propone e che può tranquillamente diventare l’espressione concreta dell’obiettivo pedagogico strategico di una reale “educazione alla celebrazione” per un qualsivoglia cammino di formazione cristiana, vale a dire la progressiva costituzione di un modo personale e personalizzato di vivere le azioni liturgiche comunitarie della Chiesa.

4.2.1. Gli obiettivi del lavoro formativo Mi pare che caratteristiche della partecipazione liturgica così come ce le presenta la SC ci possano aiutare a

declinare gli obiettivi di un’opera di educazione ad essa. Se è corretta l’impostazione del discorso di SC, allora è possibile affermare che per formare alla partecipazione ad una specifica celebrazione bisogna in primo luogo esibirne il significato, sia al livello del rito nella sua globalità, sia al livello dei singoli elementi rituali e simbolici che lo compongono, perché condizione necessaria per “partecipare” a qualcosa è “comprendere e capire” ciò a cui si partecipa, attraverso la comprensione dei suoi diversi elementi; a titolo di esempio, si può dire che, per partecipare adeguatamente ad una celebrazione della Parola, sarà necessario non solo sapere che essa realizza l’esperienza spirituale del “Dio che mi parla per illuminare la mia vita” (significato complessivo del rito), ma anche saper decodificare il modo con cui i singoli elementi della celebrazione (la ministerialità della Parola, il luogo della proclamazione, il libro della Parola, le ritualità di contorno alla lettura, ecc.) concorrono ad attuare ed esprimere tale esperienza (comprensione del significato dei singoli elementi rituali nella loro interazione all’interno dell’unica azione liturgica). Ci si dovrà muovere dunque sul piano di una “spiegazione” del rito, il cui scopo è quello di rendere capace chi la riceve di “dare senso” ai gesti che sarà chiamato a compiere o a vedere, e alle parole che sarà chiamato a pronunciare; tale “spiegazione”, tuttavia, non potrà limitarsi solo a rendere accessibile intellettivamente (cioè al livello del “messaggio” o dei “contenuti”, come a volte si usa dire) il rito a chi lo celebra: in realtà per essere davvero utile, ogni “spiegazione” dovrà mirare anche a far sì che chi la riceve riesca rendere “significativi per sé” i gesti o gli elementi simbolici che di cui il rito è composto e che ne mediano il “messaggio” e i “contenuti”.

Formulando quest’ultima osservazione si arriva così a toccare un secondo e irrinunciabile obiettivo per una

vera educazione alla partecipazione liturgica, cioè quello di insegnare a sperimentare interiormente quanto la celebrazione propone di vivere poiché il vero scopo di questa, secondo SC, è appunto far partecipare spiritualmente alla salvezza di cui è oggettivamente portatrice, chi vi prende parte. Educare ad una celebrazione, allora, significherà anche condurre chi la vive ad associare specifiche istanze del proprio mondo interiore all’oggettività dei gesti e degli elementi simbolici di cui quella è fatta, in modo che se ne possa appropriare personalmente e, così, renderli “significativi” per sé, cioè capaci di comunicargli

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qualcosa e/o di esprimere la propria reazione e risposta a quanto ricevuto.

Ponendo poi la questione circa il modo con cui perseguire i due obiettivi appena indicati, si può far emergere anche la terza indicazione che SC ci suggerisce: insegnare ad “usare” dei riti e dei simboli mediante i riti e i simboli stessi. Ciò risulta necessario perché la caratteristica principale della Liturgia e di ogni celebrazione è quella di essere “azione simbolica”, cioè – per dirla con SC – “segni sensibili”, che “in modo ad essi proprio realizzano e... significano” la salvezza di cui il rito è portatore; ma – radicalmente – i simboli (e di conseguenza i riti di cui sono fatti) si apprendono solo facendoli, cioè nel loro stesso esercizio e prendendo confidenza pratica con il particolare codice di comunicazione che è loro proprio. Affermare tutto questo, perciò, ha come prima e diretta conseguenza il fatto che il “come celebrare” un rito non è mai semplicemente ed immediatamente deducibile da una mera enunciazione verbale del suo contenuto (cioè del “che cosa si celebra”), ma richiede anche di percorrere la “strada lunga” del suo esercizio pratico; conseguentemente, qualsiasi “educazione alla partecipazione” ad un rito non potrà mai prescindere dalla messa in gioco della sua forma concreta, della sua grammatica e delle sue regole.

4.2.2. Un possibile metodo di lavoro A partire da quanto fin qui affermato mi pare si possano trarre delle conseguenze operative interessanti,

specialmente se si tiene conto delle acquisizioni che la riflessione liturgica ha guadagnato circa le dinamiche che guidano il funzionamento del linguaggio rituale e simbolico della celebrazione; in particolare, si apre la possibilità di delineare una sorta di schema del metodo con cui svolgere un lavoro educativo in ordine alla celebrazione liturgica.

Un passo necessario, come visto sopra, è certamente quello di una “spiegazione” del rito da accostare nel

cammino di formazione; tuttavia, in rapporto al momento vero e proprio della sua celebrazione: • non è detto che sempre e in ogni caso la componente di “esplicazione” debba precedere (e in forma

completa) il suo concreto svolgimento; anzi, al contrario, il processo sopra indicato di appropriazione personale dei vari elementi che lo compongono sembrerebbe richiedere, per accadere realmente, un’attuale e previa esperienza della celebrazione stessa;

• ciò nonostante, perché vi sia attualmente quella partecipazione fondata sulla comprensione immaginata dal Concilio, è chiaramente necessario che siano presenti almeno la conoscenza di quello che ho chiamato sopra “significato complessivo” della celebrazione da compiere ed una qualche minimale indicazione circa il suo svolgimento pratico.

Di conseguenza, sarà necessario fare in modo che ogni celebrazione proposta nel quadro di un ipotetico itinerario sia sempre collocata dopo il momento in cui chi è chiamato a viverla ha acquisito le conoscenze minime indispensabili per comprenderne il senso.

A titolo esemplificativo delle potenzialità operative di quanto appena affermato, si potrebbe fare riferimento al caso della celebrazione della Riconciliazione; applicando le considerazioni sopra indicate e alla luce di una lettura teologica e liturgica di questo rito sacramentale e del suo svolgimento, ne deriva che essa – comunque la si voglia collocare nel quadro globale del percorso – per essere ben vissuta e appropriata in modo personale: • richiede che previamente siano stati adeguatamente introdotti e approfonditi i temi del peccato e del

perdono gratuito da parte di Dio, poiché senza questo sfondo la celebrazione non è in grado né di esibire le ragioni profonde della sua stessa esistenza, né tanto meno di render conto degli aspetti fondamentali del suo svolgimento rituale;

• richiede che previamente si sia avviata e consolidata una consuetudine all’ascolto della Parola e alla lettura del proprio vissuto alla luce di questa, poiché questa è la condizione primaria per riuscire a dare costantemente nome al proprio peccato personale e, quindi, per compiere in maniera soddisfacente l’accusa dei peccati;

• a sua volta, ciò logicamente non può avvenire prima che siano stati introdotti i temi dell’insegnamento esistenziale di Gesù e della vita secondo il Vangelo di coloro che vogliono essere suoi discepoli;

• richiede anche, di conseguenza, la presenza di una previa consuetudine all’esercizio dell’esame di coscienza, poiché esso, anche quando non appartenga già allo svolgersi della celebrazione (come nel caso di celebrazioni comunitarie), è lo strumento e l’esercizio interiore che aiuta il penitente a passare dal mero piano delle “cose sbagliate compiute”, a quello più radicale e fondamentale della relazione personale con Dio in Gesù Cristo e della propria vita interiore (cioè del proprio peccato e delle sue radici interiori).

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Se poi ci si vuole soffermare a riflettere sulle modalità con cui debba avvenire l’ipotizzata e necessaria

“spiegazione” del rito da accostare, come già sopra osservato, bisogna riconoscere che esse non si potranno limitare alla sola esposizione verbale dei suoi “contenuti teologici”, ma potranno e dovranno allargarsi fino a comprendere anche la lettura, almeno a grandi linee, del suo svolgimento e del complesso intreccio fra le sue diverse componenti simboliche. Questo è necessario perché la ritualità è principalmente un “fare” ed un “fare di tipo simbolico”, dotato di vere e proprie “leggi di funzionamento” che derivano ultimamente dalla sua qualità di azione pienamente umana: dunque il “come celebrare” un rito non è semplicemente ed immediatamente deducibile da una enunciazione del suo contenuto, ma lo si raggiunge precisamente e solo attraverso la conoscenza e l’esercizio delle predette “regole di funzionamento” dell’azione liturgica e del linguaggio che essa impiega per mediare il proprio contenuto; analogamente, ogni “educazione alla partecipazione” ad un rito non potrà mai prescindere dalla messa in gioco della sua grammatica e delle sue regole. Di conseguenza, mi pare proprio che “spiegare” una celebrazione voglia dire: • certamente presentarne in modo discorsivo e verbale le singole parti con il loro significato e il loro

intreccio, poiché ogni elemento di un rito acquisisce il proprio specifico valore solo quando si inserisce in mezzo ad altri simboli, concatenandosi ad essi e formando una sorta di trama di significati simbolici, che in qualche modo aggiunge valori nuovi a quello suo originario.

• La precedente constatazione porta con sé una conseguenza operativa importante, vale a dire la necessità di far emergere quella componente fondamentale dei segni cristiani che ne genera il significato simbolico in ordine alla salvezza che è il loro sfondo biblico: infatti, per ragioni che qui non è possibile dettagliare, il senso dei vari elementi che formano una celebrazione affonda le radici nel testo biblico, con le sue immagini, i suoi usi e i suoi valori. E ciò avviene perché ciò che realmente comunicano non deriva solo dalla loro appartenenza al mondo dell’esperienza umana (per cui, p.es., il mangiare è la fonte della sopravvivenza umana), ma anche e soprattutto dalla loro connessione con la Parola di Dio e con l’economia salvifica che essa rivela e annuncia (per cui, nel caso del mangiare, ciò che si mangia nell’Eucaristia – e quindi ciò di cui si vive – non è una qualsiasi forma di cibo, ma è la vita offerta di Cristo, come rivela ad esempio Gv 6, 57: “chi mangia di me, vivrà per me”). Di conseguenza, per “spiegare” un gesto o un rito è necessario, oltre che utile, individuare e fare riferimento al testo o ai testi biblici che ne spiegano il valore cristiano e lo annunciano.

Applicando a titolo esemplificativo anche queste istanze al caso della Riconciliazione, se ne ricava, p.es., che una sua “spiegazione” richiederà di affrontare la lettura del rito con l’ausilio di testi biblici che siano in grado di suggerirne il senso, quale la parabola del Padre misericordioso, poiché essa annuncia sì principalmente il dono gratuito che viene dal Padre, ma è anche in grado di suggerire, attraverso il confronto con gli atteggiamenti del figlio minore, i modi con cui dare senso e quindi vivere i diversi “atti del penitente” che costituiscono il cuore della celebrazione sacramentale della Penitenza.

Un ulteriore passo necessario sarà poi quello dell’esercizio della celebrazione, eventualmente in forma

guidata e pedagogica. Ciò è necessario a motivo del fatto che, come visto in precedenza, per “spiegare una celebrazione”, nel senso di consentire a ciascuno di appropriarsene e viverla alla propria maniera, è necessario anche utilizzare la celebrazione stessa (o parti di essa, od anche ritualità simili), poiché solo così può avvenire un’assunzione esperienziale personalizzata dei significati di cui lo specifico rito è portatore. Dunque sarà necessario accostare pedagogicamente, alle forme di “discorso” indicate, anche la sua pratica esecuzione o in “forma reale” (compiendo cioè realmente il rito a cui si vuole introdurre) o in “forma pedagogica” (cioè costruendo ed attuando un rito che mima le caratteristiche di ciò a cui si vuol introdurre o che ne ripresenti in parte o tutte le dinamiche: ciò è particolarmente utile per semplificare l’introduzione a riti particolarmente complessi e articolati, come, p.es., quello della Messa). In effetti si può osservare come vi sia una perfetta equivalenza tra un’operazione volta a costruire sapientemente una celebrazione e l’attenzione a mettere in atto e sfruttare il processo simbolico che sta alla base della ritualità al fine di insegnare ad accedervi in maniera significativa: in tutti e due i casi, infatti, si tratta di mescolare con fantasia e saggezza i diversi ingredienti ed elementi di un rito, vigilando sulla percettibilità dei loro rimandi interni e sulla loro omogeneità e coerenza reciproca.

Anche qui, sempre in riferimento alla celebrazione della Penitenza, questa ulteriore istanza conduce p. es., a ipotizzare la possibilità di far sperimentare in forma celebrativa la lettura del proprio vissuto alla luce della Parola, attraverso delle celebrazioni della Parola o delle vere e proprie celebrazioni penitenziali.

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Infine, mi sembra che sia opportuno prevedere anche un ultimo passo, costituito da momenti, a valle della celebrazione stessa, in cui sia possibile ripensare e fissare (personalmente e comunitariamente) l’esperienza interiore fatta durante il suo svolgersi. La ragione di questo passo pedagogico va rinvenuta in un duplice dato di fatto: • in primo luogo perché per apprendere un rito (nel senso complesso e totale fin qui descritto) non basta

la sua sola esecuzione puntuale, poiché non si tratta solo di “conoscerlo”, ma anche di educarsi / abituarsi a compierlo in modo significativo attraverso la propria corporeità e, per quest’ultimo obiettivo (come per l’apprendimento di ogni altro gesto corporeo, dal camminare al guidare un’automobile) è necessaria anche la sua ripetizione più o meno frequente;

• inoltre perché l’appropriazione del rito avviene sempre in maniera storicamente determinata, cioè corrispondente alla maturità umana e cristiana, alla cultura e all’esperienza di vita di chi qui e ora la opera; di conseguenza, propriamente, essa non può avvenire una volta per tutte, ma è chiamata continuamente a riprodursi al mutare delle condizioni esistenziali di che ne è soggetto (e ciò è vero specialmente per i riti che si ripetono per lungo tempo nella vita dei credenti). Anche per questo ulteriore motivo, quindi, è necessario trovare tempi e modi per permettere la sedimentazione e l’approfondimento di quanto vissuto celebrativamente.

Le modalità con cui dare concretezza a questo ulteriore passo pedagogico possono essere molto varie ed andare da momenti di ripresa discorsiva e di riflessione personale, fino alla riproposizione della stessa celebrazione.

Sempre a titolo d’esempio, applicare quanto appena detto al caso dell’educazione a vivere l’esperienza sacramentale della Riconciliazione in modo che sia personale ed adeguata al proprio livello di vita credente, comporti che: • l’opera educativa non può esaurirsi nella sola celebrazione di una “prima Confessione”, ma richiede la

presenza di ulteriori momenti di celebrazione del quarto sacramento; e ciò equivale ad affermare che una collocazione ottimale della sua prima celebrazione sarà quella che permette di proporre e vivere anche altre celebrazioni prima della conclusione dell’itinerario di Iniziazione cristiana.

Né l’educazione a questo tipo di celebrazione, che tendenzialmente accompagna tutta la vita dei credenti, può limitarsi al solo periodo del completamente dell’Iniziazione cristiana: al contrario, sarà necessario che si prolunghi anche nelle fasi della formazione pre-adolescenziale, adolescenziale e giovanile poiché in ciascuna di queste fasi della vita delle persone il modo con cui si vivono la fede e le celebrazioni viene rimesso in questione, sperabilmente per un approfondimento e una maggiore appropriazione, ma anche e sempre con il rischio di riduzioni e di abbandoni.

4.3. Adattare la Liturgia Il discorso sull’adattamento liturgico propriamente non andrebbe distinto da quello sulla riforma liturgica, poiché in SC il primo è una delle modalità con cui la seconda avviene, dato che uno dei suoi obiettivi è quello, appunto, dell’adeguamento dei riti e dei testi alle diverse culture, in modo da favorire la partecipazione da parte di tutti. Tuttavia, l’idea che l’ordimento rituale potesse e dovesse contenere spazi per l’inserimento di elementi rituali e testi non preventivamente predeterminati, in modo da poter avere una celebrazione il più possibile adeguata alla condizione di quanti sono chiamati a viverla, non è rimasta chiusa nel campo limitato dell’inculturazione per popoli lontani, ma si è velocemente trasformata in un modo di intendere e di costruire il Libro liturgico da riformare; una modalità che, invece di una rigida uniformità di rito, lasciasse una certa flessibilità e possibilità di scelta, in modo da portare il concreto svolgimento rituale il più vicino possibile alla concreta situazione della Comunità che lo vive. Tutto ciò ha generato un nuovo tipo di Libro liturgico, profondamente differente da quello che lo precedeva proprio perché incorpora l’idea dell’adattamento: un Libro liturgico che non è più la precisa e obbligatoria descrizione normativa di quanto bisogna compiere, ma che assume piuttosto la figura del “canovaccio autorevole”, da adattare, nei limiti previsti, alla situazione celebrativa di una Comunità. È evidente come questo richieda molto di più all’animatore liturgico e al presidente che non nel modello celebrativo preconciliare.

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APPENDICE 1 Indice di Sacrosanctum Concilium

1-4 Proemio 5-46 Capitolo I: Principi generali per la riforma e l’incremento della sacra Liturgia

I – Natura della sacra Liturgia e sua importanza nella vita della Chiesa (5-13) [Il concetto “teologico” di Liturgia (5-8)] [La Liturgia nella vita della Chiesa (9-10)] [La partecipazione liturgica (11)] [Liturgia e vita spirituale (12-13)] II – L’educazione liturgica e la partecipazione attiva (14-20) - partecipazione liturgica (14) III – La riforma della sacra Liturgia (21-40) a) [Introduzione] (21) - partecipazione liturgica (21) b) Norme generali (22-32) - partecipazione liturgica (27 e 30) c) Norme derivanti dalla natura didattica e pastorale della Liturgia (33-36) d) Norme per un adattamento all’indole e alle tradizioni dei vari popoli (37-40) IV – La vita liturgica nella Diocesi e nella Parrocchia (41-42) - partecipazione liturgica (41) V – L’incremento dell’azione pastorale liturgica (43-46)

47-58 Capitolo II: Il mistero eucaristico [Il senso teologico] (47) [L’obiettivo pastorale] (48) - partecipazione liturgica (48) [Indicazioni pratiche per la riforma] (49-57) - partecipazione liturgica (50) 59-82 Capitolo III: Gli altri Sacramenti e i Sacramentali [Il senso teologico] (59-61) [L’obiettivo pastorale] (62) [Indicazioni pratiche per la riforma] (63-82)

– Indicazioni generali (63) – Battesimo (64-65 + 66-70) – Confermazione (71) – Penitenza (72) – Unzione degli infermi (73-75) – Ordine (76) – Matrimonio (77-78) – Sacramentali (79-82)

* Indicazioni generali (79) - partecipazione liturgica (79) * Professioni religiosa (80) * Esequie (81-82) 83-101 Capitolo IV: L’Ufficio divino [Il senso teologico] (83-86) [Indicazioni pratiche per la riforma] (87-101) - partecipazione liturgica (90) 102-111 Capitolo V: L’Anno Liturgico [Il senso teologico] (102-105) [Indicazioni pratiche per la riforma] (106-111) 112-121 Capitolo VI: La musica sacra [Il senso teologico] (112) [Indicazioni pratiche per la riforma] (113-121) - partecipazione liturgica (113, 114 e 121) 122-130 Capitolo VII: L’arte sacra e la sacra suppellettile [Il senso teologico] (122) [Indicazioni pratiche per la riforma] (123-130) - partecipazione liturgica (124) Le suddivisioni fra parentesi quadre sono mia opera redazionale: esse rispecchiano il contenuto delle parti di SC a cui si riferiscono, ma nel testo conciliare non sono evidenziate.

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APPENDICE 2 Il testo dei numeri 5-8 della Costituzione

Aggiungo qualche piccolo ausilio grafico per aiutare a cogliere gli elementi importanti del testo e, soprattutto, il modo con cui sono dislocati in esso. SC 5. Dio, il quale “vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm. 2,4), “dopo avere a più riprese e in più modi parlato un tempo ai padri per il tramite dei profeti” (Eb 1,1), quando venne la pienezza dei tempi, mandò il suo Figlio, Verbo fatto carne, unto di Spirito Santo, ad annunziare la buona novella ai poveri, a risanare i cuori affranti (cfr. Is 61,1; Lc 4,18), “medico di carne e di spirito” (S.Ignazio di Antiochia, Ad Ephesios), Mediatore tra Dio e gli uomini (cfr. 1Tm 2,5). Infatti la sua umanità, nell’unità della persona del Verbo, fu strumento della nostra salvezza. Per cui in Cristo “avvenne la nostra perfetta riconciliazione con Dio ormai placato e ci fu data la pienezza del culto divino” (Ve 1256). Quest’opera della redenzione umana e della perfetta glorificazione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo del Vecchio Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero della sua beata Passione, Risurrezione dai morti e gloriosa Ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ci ha ridonato la vita” (Prefazio pasquale, MR). Infatti dal costato di Cristo morente sulla Croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa. SC 6. Pertanto, come il Cristo fu inviato dal Padre, così anch’egli ha inviato gli apostoli, ripieni di Spirito Santo, non solo perché, predicando il Vangelo a tutti gli uomini (cfr. Mc 16,15), annunziassero che il Figlio di Dio con la sua morte e Risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana (cfr. At 26,18) e dalla morte, e trasferiti nel regno del Padre, ma anche perché attuassero, per mezzo del Sacrificio e dei Sacramenti, sui quali s’impernia tutta la vita liturgica, l’opera della salvezza che annunciavano. Così, mediante il Battesimo, gli uomini vengono inseriti nel mistero pasquale di Cristo: con lui morti, sepolti e risuscitati (cfr. Rm 6,4; Ef 2,6; Col 3,1; 2Tm 2,11); ricevono lo spirito dei figli adottivi “che ci fa esclamare: Abbà, Padre” (Rm 8,15), e diventano quei veri adoratori che il Padre ricerca (cfr. Gv 4,23). Allo stesso modo, ogni volta che essi mangiano la cena del Signore, ne proclamano la morte fino a quando egli verrà (cfr. 1Cor 11,26). Perciò, proprio nel giorno di Pentecoste, che segna la manifestazione della Chiesa al mondo, “quelli che accolsero la parola di Pietro furono battezzati” ed erano “assidui all’insegnamento degli Apostoli, alle riunioni comuni, alla frazione del pane, e alla preghiera... lodando insieme Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo”(At 2,41-47). Da allora la Chiesa mai tralasciò di riunirsi in assemblea per celebrare il mistero pasquale, mediante la lettura di quanto “nella Scrittura Lo riguardava” (Lc 24,27), mediante la celebrazione dell’Eucarestia, nella quale “vengono ripresentati la vittoria e il trionfo della sua morte”, e mediante l’azione di grazie “a Dio per il suo dono ineffabile” (2Cor 9,15) nel Cristo Gesù, “in lode della sua gloria” (Ef 1,12), per virtù dello Spirito Santo.

******* SC 7. Per realizzare un’opera così grande Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel Sacrificio della messa, sia nella persona del ministro, “Egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei Sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza (S.Agostino, Tractatus in Iohannis Evangelium). È presente nella sua parola, giacché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente infine quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18,20). In quest’opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all’Eterno Padre. Giustamente perciò la Liturgia è ritenuta come l’esercizio del sacerdozio di Gesù Cristo; in essa per mezzo di segni sensibili, viene significata e, in modo ad essi proprio, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo e allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia.

******* SC 8. Nella Liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo (cfr. Ap 21,2; Col 3,1; Eb 8,2); insieme con tutte le schiere delle milizie celesti cantiamo al Signore l’inno di gloria; ricordando con venerazione i Santi, speriamo di ottenere un qualche posto con essi, e aspettiamo, quale Salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quando egli comparirà, nostra vita, e noi appariremo con lui nella gloria (cfr. Fil 3,20; Col 3,4).

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APPENDICE 3 I testi sulla partecipazione liturgica

SC 11. Ad ottenere però questa piena efficacia, è necessario che i fedeli si accostino alla sacra Liturgia con retta disposizione d’animo, armonizzino la loro mente con le parole che pronunciano e cooperino con la grazia divina per non riceverla invano. Perciò i pastori d’anime devono vigilare attentamente che nell’azione liturgica non solo siano osservate le leggi che rendono possibile una valida e lecita celebrazione, ma che i fedeli vi prendano parte in modo consapevole, attivo e fruttuoso. SC 14. È ardente desiderio della madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena consapevole e attiva partecipazione delle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia e alla quale il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo acquistato” (1Pt 2, 9; cf. 2, 4-5), ha diritto e dovere la forza del Battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della Liturgia. Essa infatti è la prima e indispensabile sorgente dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano; e perciò i pastori d’anime, in tutta la loro attività pastorale, devono sforzarsi di ottenerla attraverso un’adeguata formazione. Ma poiché non si può sperare di ottenere questo risultato, se gli stessi pastori d’anime non saranno impregnati per primi dello spirito e della forza della Liturgia, e se non ne diventeranno maestri, è assolutamente necessario dare il primo posto alla formazione liturgica del clero. Pertanto il Sacro Concilio ha stabilito quanto segue. SC 19. I pastori d’anime curino con zelo e con pazienza la formazione liturgica, come pure la partecipazione attiva dei fedeli, sia interna che esterna, secondo la loro età, condizione, genere di vita e cultura religiosa. Assolveranno così uno dei principali doveri del fedele dispensatore dei misteri di Dio. E in questo campo cerchino di guidare il loro gregge non solo con la parola ma anche con l’esempio.

SC 21. Perché il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la sacra Liturgia racchiude, la santa madre Chiesa desidera fare un’accurata riforma generale della Liturgia. Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei secoli possono o addirittura devono variare, qualora si siano introdotti in esse elementi meno rispondenti all’intima natura della Liturgia stessa, oppure queste parti siano diventate non più idonee. In tale riforma l’ordimento dei riti e dei testi deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria. A tale scopo il sacro Concilio ha stabilito le seguenti norme di carattere generale. SC 27. Ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria caratterizzata dalla presenza e dalla partecipazione attiva dei fedeli, si inculchi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata. Ciò vale soprattutto per la celebrazione della Messa – benché qualsiasi Messa abbia sempre un carattere pubblico e sociale – e per l’amministrazione dei Sacramenti. SC 30. Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, il canto dei salmi, le antifone, i canti, nonché le azioni e i gesti e l’atteggiamento del corpo. Si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio. SC 41. Il vescovo deve essere considerato come il grande sacerdote del suo gregge: da lui deriva e dipende in certo modo la vita dei suoi fedeli in Cristo. Perciò tutti devono dare la più grande importanza alla vita liturgica della diocesi che si svolge attorno al vescovo, principalmente nella chiesa cattedrale, convinti che c’è una speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione piena e attiva di tutto il popolo santo di Dio alle medesime celebrazioni liturgiche, soprattutto alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il vescovo circondato dai suoi sacerdoti e ministri (s. Ignazio d’Antiochia, Ad Magnesios, 7; Ad Philippenses, 4; Ad Smyrnenses, 8). SC 48. Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo l’ostia senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di Cristo siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti. SC 50. L’ordinamento rituale della Messa sia riveduto in modo che apparisca più chiaramente la natura specifica delle singole parti e la loro mutua connessione, e sia resa più facile la partecipazione pia e attiva dei fedeli. Per questo i riti, conservata fedelmente la loro sostanza, siano semplificati; si sopprimano quegli elementi che, col passare dei secoli, furono duplicati o aggiunti senza grande utilità; alcuni elementi invece, che col tempo andarono perduti, siano ristabiliti, secondo la tradizione dei Padri, nella misura che sembrerà opportuna o necessaria. SC 79. Si faccia una revisione dei Sacramentali, tenendo presente il principio fondamentale di una cosciente, attiva e facile partecipazione da parte dei fedeli e avendo riguardo delle necessità dei nostri tempi. Nella revisione dei rituali, da farsi a norma

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dell’art. 63, si possono aggiungere, se necessario, anche nuovi Sacramentali. Le benedizioni riservate siano pochissime e solo a favore dei vescovi o degli ordinari. Si provveda che alcuni sacramentali, almeno in particolari circostanze, e a giudizio dell’ordinario, possano essere amministrati da laici dotati delle qualità convenienti. SC 90. Inoltre, poiché l’Ufficio divino, in quanto preghiera pubblica della Chiesa, è fonte della pietà e nutrimento della preghiera personale, si esortano nel Signore i sacerdoti e tutti gli altri che partecipano all’Ufficio divino a fare in modo che, nel recitarlo, l’anima corrisponda alla voce. A tale scopo si procurino una conoscenza più abbondante della Liturgia e della Bibbia, specialmente dei Salmi. Nel compiere poi la riforma, il venerabile tesoro secolare dell’Ufficio romano venga adattato in modo tale che possano usufruirne più largamente e più facilmente tutti coloro ai quali è affidato. SC 113. L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo. Quanto all’uso della lingua, si osservi l’art. 36; per la Messa l’art. 54; per i Sacramenti l’art. 63; per l’ufficio divino l’art. 101. SC 114. Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le «scholae cantorum» in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30. SC 121. I musicisti, animati da spirito cristiano, comprendano di essere chiamati a coltivare la musica sacra e ad accrescere il suo patrimonio. Compongano melodie che abbiano le caratteristiche della vera musica sacra; che possano essere cantate non solo dalle maggiori “scholae cantorum”, ma che convengano anche alle “scholae” minori, e che favoriscano la partecipazione attiva di tutta l’assemblea dei fedeli. I testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche. SC 124. Nel promuovere e favorire un’autentica arte sacra, gli ordinari procurino di ricercare piuttosto una nobile bellezza che una mera sontuosità. E ciò valga anche per le vesti e gli ornamenti sacri. I vescovi abbiano ogni cura di allontanare dalla casa di Dio e dagli altri luoghi sacri quelle opere d’arte che sono contrarie alla fede, ai costumi e alla pietà cristiana; che offendono il genuino senso religioso o perché depravate nelle forme, o perché insufficienti, mediocri o false nell’espressione artistica. Nella costruzione poi degli edifici sacri ci si preoccupi diligentemente della loro idoneità a consentire lo svolgimento delle azioni liturgiche e la partecipazione attiva dei fedeli.