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- 11882-2002: Storia dell’Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana
LA CITTÀ NELLA CITTÀ
1882-2002:
Storia dell’Ospedale Psichiatrico di
Pergine Valsugana
Le classe IV ASE:Carli Angela
Carollo Giulia
Cecini Stefano
Cescato Silvia
Costa Claudia
Didonè Deborah
Divina Martina
Eccel Elisa
Fruet Martina
Mantovan Arianna
Puecher Serena
Scartezzini Paola
Wadani Imane.
Docente responsabile: Stefania Denicolai.
Tutor del progetto per la Fondazione Museo storico del Trentino:Tommaso Baldo.
Si ringrazia:
Quinto Antonelli, Rodolfo Taiani e Anselmo Vilardi (Fondazione Museo storico del Trentino).
Tutto il Consiglio di Classe della 4Ase, in particolare: Cristina Galofaro, Antonio Di Gregorio, Michela Moser e Paolo Zammatteo (Docenti dell’Istituto Marie Curie di Pergine Valsugana)
Il tecnico Gianni Purin che ci ha consentito di acquisire molti materiali ed una visita approfondita agli ambienti dell’Istituto Marie Curie.
Il Dott. Lorenzo Gasperi (Direttore Struttura Complessa U.O. Psichiatria – Distretto Est presso APSS Trento) ed il suo staff.
Valerio Fontanari (ex-infermiere dell’Ospedale Psichiatrico di Pergine).
Giuliana Campestrin (archivista dell’Archivio Storico Comunale di Pergine).
Il servizio opere civili della provincia autonoma di Trento per aver fornito documenti storici
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Introduzione
Questo testo è il frutto del lavoro degli studenti della
classe IV ASE dell’Istituto Marie Curie di Pergine
Valsugana e degli operatori della Fondazione Museo
storico del Trentino svolto nel corso di un’ attività
di formazione scuola-lavoro. Lo scopo complessivo
dell’attività era quello di realizzare un progetto di
divulgazione storica sulla storia dell’Ospedale Psi-
chiatrico di Pergine, oggi sede della loro scuola.
Gli studenti dapprima hanno svolto alcuni incontri
di approfondimento teorico nel corso dei quali han-
no acquisito le nozioni-base della ricerca storica. In
seguito hanno consultato alcuni testi in merito alle
vicende che interessarono l’Ospedale Psichiatrico
di Pergine Valsugana stendendo questa breve storia
dell’istituto, inserito nel contesto più generale della
storia della psichiatria.
Il testo è corredato di note e bibliografia. Per chi vo-
lesse approfondire gli argomenti trattati segnaliamo
il blog https://oppergine.wordpress.com/ dove sono
pubblicati tutti i documenti raccolti dagli studenti
della IV ASE nel corso del progetto (fotografie, arti-
coli, testimonianze ed altro).
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Dal testo: Alla ricerca delle menti perdute. A cura di Casimira Grandi e Rodolfo Taiani. Trento: Museo storico in Trento, 2002.
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La storia dell’ospedale psichiatrico di
Pergine Valsugana
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1: L’evoluzione dell’assistenza psichiatrica dal XVI secolo fino a metà del XX secolo.
Sino al Cinquecento gli infermi mentali erano accolti negli ospizi generali e solo nel Seicento
e Settecento furono costruite le prime strutture dedicate esclusivamente a questo tipo di malati.
All’inizio la pazzia non era oggetto di cure e l’ospizio «speciale» per gli infermi di mente, nono-
stante la durezza dei metodi di coercizione che vi erano impiegati, ha costituito un passo avanti
verso la definizione di questa come fenomeno particolare.
Nella Seconda metà del Settecento si riconobbe l’alterazione mentale come una precisa patolo-
gia e l’infermo venne considerato un malato che andava liberato dalle catene e dagli altri mezzi
coercitivi per poter osservare il suo male e scoprirne l’origine: nacque così la clinica psichiatrica.
Con la rivoluzione francese si affermano le teorie di Philippe Pinel, secondo le quali non si ha
più l’essere umano separato dalla ragione quindi la follia non è considerata più come perdita
assoluta di questa, diventando un possibile soggetto di terapia. Si ha così «l’istituto ospedaliero-
psicologistico» che vuole curare il malato attraverso le sue norme ed il ruolo del medico.
Alla fine del XIX secolo si affermò in Italia la visione di Cesare Lombroso, che considerava la
pazzia una malattia somatica irrecuperabile e pericolosa per la società. Di qui l’obbligo di rico-
verare i pazzi in un istituto di prevenzione criminale. Questo modello di manicomio entrò in crisi
grazie al progresso della psicologia e della farmacologia che, anche in seguito all’invenzione
degli psicofarmaci, eliminarono la pericolosità dei pazienti1 .
1 GIUSEPPE PANTOZZI, L’evoluzione dell’istituzione manicomiale, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, p.68, pp. 65-76.
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2: Le origini dell’ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana
La costruzione di un manicomio nella parte di lingua italiana della provincia del Tirolo venne
proposta dal dottor Francesco Saverio Proch nel 1850, perché il preesistente ospedale di Hall era
troppo distante e c’erano difficoltà nelle ammissioni dei pazienti trentini.
Negli anni successivi la proposta di Proch venne ripresa anche da altri trentini come il medico
Antonio Faes che nel 1851 scrisse:
«La lontananza che ci divide d’oltre 100 miglia dal manicomio provinciale di
Hall, la ristrettezza di quel fabbricato, la difficoltà delle ammissioni che non si
conseguiscono se non nella via degli ufficii, lunga sempre e difficile, e lo spirito
stesso del suo interno regolamento, sono gli argomenti primi che hanno per
molteplici fatti chiaramente dimostrato, che quella casa non sopperisce né in
tutto né in parte alle stringenti nostre necessità La necessità di un manicomio
nel territorio della reggenza di Trento, si fa sentire pur troppo ognor più pro-
fondo» .
Il dibattito su questa proposta si prolungò per decenni, sinché un comitato di deputati della
dieta provinciale di Innsbruck decise che per costruirlo serviva un luogo vicino ad un comune
rilevante, con area di circa 20.000 Klafter (1 Klafter = 1,896484 metri2). Si sottolineò l’esigenza
di ridurre al minimo le spese e di tenere conto soprattutto dei criteri sanitari, delle vie di comu-
nicazione e del clima. Così nel 1877 si decise di costruire l’ospedale psichiatrico presso maso S.
Pietro a Pergine, un terreno esteso su 26.678 pertiche viennesi (1 pertica viennese = 1,896484
m), di proprietà di un deputato della dieta, il conte Crivelli, che lo vendette al comune di Pergine
al prezzo di un fiorino a Pertica, in tutto 26.678 fiorini.
L’edificio fu progettato dall’ing. Josef Hunter e realizzato dall’impresa Scotoni di Trento, che
lavorò per la sua realizzazione dal 1879 al 1881; il manicomio cominciò formalmente la sua
attività il 19 settembre 1882, dopo che nel mese precedente erano giunti a Pergine da Hall i primi
malati trentini3.
2 L’eredità asburgica, il catasto fondiario, consultato il 14.11.2016. http://www.catasto.provincia.tn.it/cenni_storici/ 3 GIUSEPPE PANTOZZI, Gli spazi della follia. Storia della psichiatria in Tirolo e nel Trentino 1830-1942, Trento, Erickson 1989, pp. 67-112.
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L’ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana, visto dal retro, alla fine del XIX secolo (Istituto Marie Curie).
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3: Creazione, struttura e funzionamento dell’ospedale psichiatrico di Pergine
Inizialmente l’istituto era formato da una struttura centrale, dove vi erano anche la cappella e la
sala delle feste, dalla quale si diramavano due ali dove erano contenuti da una parte gli uomini
e dall’altra le donne. La capienza nel primo periodo era di 200 malati. Dopo i primi segni di
sovraffollamento si dovette provvedere ad ampliare la struttura più volte tra la fine del XIX e
l’inizio del XX secolo4.
Vennero così costruiti un padiglione per gli uomini e uno per le donne sottoposti a vigilanza
continua, un edificio adibito alla cucina, uno per le varie officine, una portineria, un obitorio e
infine vennero fatti alcuni adattamenti all’edificio principale. Un’altra innovazione di questa fase
è la costruzione dell’azienda agricola in località «Alla Costa», cioè un edificio per il ricovero
dei venti malati che vi praticavano l’ergoterapia (terapia riabilitativa basata sullo svolgimento
di un’attività lavorativa). Ma nonostante tutto questo il problema del sovraffollamento tornava a
riaffacciarsi: nel 1912 i pazienti dell’ospedale Psichiatrico di Pergine erano 462 anziché i previsti
3405.
«Il sovraffollamento si ebbe sopratutto a causa del folto gruppo di incurabili che [no-
nostante l’art. 23 dello statuto dell’istituto] non potevano essere dimessi dall’istituto
perché i Comuni [con tutti i mezzi legali loro offerti] resistevano alla dimissione dei
loro malati di mente, anche se non pericolosi per la cittadinanza» .
(Pius Dejaco, direttore dell’ospedale di Pergine, 1912)
4 RODOLFO TAIANI, A mò d’introduzione, breve cronaca di un’istituzione, in Castagne matte, a cura di Felicetti Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 9-11.5 GIUSEPPE PANTOZZI, Gli spazi della follia. Storia della psichiatria in Tirolo e nel Trentino 1830-1942, Trento, Erickson 1989, pp. 155-175.
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4: Follia e grande guerra
Durante la Grande Guerra i continui bombardamenti e la violenza subita ed inferta portarono
molti soldati a uno stato di malessere emotivo e psicologico. Molti di loro, infatti, iniziarono a
soffrire di una patologia fino ad allora sconosciuta: il cosiddetto «shell shock» [shock da bom-
bardamento]. I soldati che ne venivano colpiti presentavano alcuni sintomi: tremori, paralisi,
tremori in tutto il corpo, incubi, insonnia e a volte smettevano di parlare6.
Nel libro «Storia intima della grande guerra» Quinto Antonelli ha raccolto diverse lettere, diari
e memorie di soldati, che nelle loro scritture ci descrivono, per averli provati in prima persona o
visti su altri, alcune patologie psichiatriche connesse con la guerra.
Ad esempio il tipografo di Tione Alfonso Cazzoli, arruolato nell’esercito austroungarico e man-
dato a combattere sul fronte galiziano vive un’esperienza traumatica assistendo alla morte dell’a-
mico Luigi Malpocher.
«dopo circa un ora io stavo lavorando e Luigi se ne stava seduto riposando, quando im-
provvisamente sento fischiare una palla da schioppo a passarmi vicina, alzo la testa e… oh
quale spettacolo si presenta ai miei occhi, Luigi se ne stava con gli occhi chiusi, la testa ap-
poggiata alla terra la faccia coperta di sangue come pazzo non so cosa fare […] erano circa
le 5 del pom. Del giorno 13 settembre 1915, aveva indosso soldi, orologio ed altri oggetti
di valore ma niente non gli presi, perché io persi i sensi ero come pazzo, ricordo solo che
lo chiamai e vistolo morto mi gettai sopra il suo corpo lo bacia più volte, lo salutai, lo presi
sotto i bracci e in quella posa piansi a lungo...
Altro non ricordo, all mattino dopo mi trovai nel bosco di prima che giravo come pazzo,
due italiani di nome Angeli e Bianchi, mi presero e tra acqua e con parole mi condussero
ancora alla buona strada»7 .
Chizzali Domenico, la cui vicenda è raccontata nella memoria del barbiere Giuseppe Bresciani,
appare invece afflitto da un grave disagio psichico che lo porta più volte a fuggire dalla caserma
e, una volta giunto al fronte, a tentare di fuggire dal proprio reparto.
«Era questo Ghizzali Dom [enico] uno studente di 7a ginnasiale che si era talmente im-
pressionato all’idea della guerra da avere scosso il cervello. Non parlava mai, a Innsbruck
aveva fuggito alcune volte da caserma non ebbe castighi perché appunto lo si riteneva
pazzo. Ma tuttavia venne inviato al fronte. [...]
Rimase indietro e giunto al crocevia, colto da un momento di follia spezza il fucile contro
un croce e si da alla latitanza» .
Questo tentativo di fuga si conclude però tragicamente: arrestato, viene condannato a morte per
diserzione e fucilato.
6 ENRICO VERRA, Scemi di guerra. La follia nelle trincee, Roma, Cinecittà Luce 2008. 7 QUINTO ANTONELLI, Storia intima della grande guerra, Roma, Donzelli 2014, p. 271.
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5: Il manicomio di Pergine e i suoi ampliamenti fra le due guerre
Allo scoppio della prima guerra mondiale l’ospedale di Pergine si ritrovò nei pressi del fron-
te. Venne pertanto evacuato ed i malati smistati tra diversi ospedali austriaci, la loro mortalità
raggiunse il 36%. Alla fine del conflitto tornarono a Pergine 181 malati sui 504 presenti prima
della guerra. In seguito dal manicomio di Hall vennero trasferiti a Pergine 62 malati altoatesini
di lingua tedesca divenuti cittadini italiani. L’ospedale psichiatrico di Pergine era infatti divenuto
il manicomio di tutta la Venezia Tridentina, ovvero dell’attuale regione Trentino Alto Adige-
Südtirol. Ciò comportò non solo la difficoltà di assistere pazienti che parlavano un’altra lingua,
ma soprattutto un maggior afflusso di malati per far posto ai quali fu necessario l’innalzamento
di un piano delle due ali estreme dell’edificio principale.
Nel 1924 venne progettata la costruzione di 3 nuovi padiglioni:
1. per i malati di prima ammissione (120 posti-letto), costruito nel 1926;
2. per le donne (130 posti-letto), costruito nel 1932;
3. per gli uomini, che però non fu mai costruito.
Ma nonostante queste nuove costruzioni il problema del sovraffollamento non venne risolto.
«Il migliore respiro dato all’istituto, con la nuova costruzione, non poté, però, resistere
a lungo all’incessante affollarsi di nuovi malati in arrivo… Le condizioni ambientali
parvero così ritornare a quelle di prima… Così si è visto che le nuove costruzioni, suc-
cedutesi l’una all’altra, a breve distanza di tempo, non sono mai riuscite a dare che una
soluzione di ripiego temporanea»8.
(Silvio Ferretti, segretario generale della provincia di Trento, 1942).
In questo periodo furono direttori: Guido Garbini (dal 1919 al 1923), Angelo Arberti (dal 1923
al 1929) e Alberto Rezza (dal 1932 al 1947).
Nel 1929 il manicomio di Pergine diventò un manicomio italiano, ovvero venne estesa a questo
istituto la legge del Regno d’Italia sui manicomi, la n.36.del 14 febbraio 1904.
La nascita delle province di Trento e Bolzano nel 1927 diede inizio ad una discussione sulla
ripartizione delle spese per i malati tra le due province, che si accordarono solo nel 19309.
8 SILVIO FERRETTI, L’amministrazione provinciale di Trento e i suoi istituti, Trento 1942, cit. in GIUSEPPE PANTOZZI, Gli spazi della follia. Storia della psichiatria in Tirolo e nel Trentino 1830-1942, Trento, Erickson 1989, pp. 196-197.9 GIUSEPPE PANTOZZI, Gli spazi della follia. Storia della psichiatria in Tirolo e nel Trentino 1830-1942. Trento, Erickson 1989, pp. 187-227.
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6: La storia di Stefanie: una malata di mente nell’Italia fascista
Per capire le modalità di intervento da parte delle istituzioni psichiatriche e giudiziarie durante
il periodo fascista, è interessante prendere in considerazione la storia di Stefanie, donna sud-
tirolese nata nel 1890 e morta negli anni ‘70, più volte ricoverata presso l’ospedale psichiatrico
di Pergine Valsugana. Sin da bambina ebbe problemi famigliari, infatti dichiarò ripetutamente
di essere sempre stata considerata «la pecora nera della famiglia». Famiglia del resto segnata da
gravi problemi di alcolismo, gli stessi che affliggeranno lei.
Quando venne rinchiusa nel manicomio di Pergine era già stata ricoverata in ospedale e condan-
nata al carcere molte volte, a causa del suo stile di vita. Era infatti una prostituta, una vagabonda
ed un’alcolista. Stefanie venne quindi ricoverata in una struttura psichiatrica non tanto per le sue
difficoltà patologiche, ma solo perché era un’emarginata sociale. La donna, come molti altri,
non fu mai realmente curata, infatti ogni volta che lasciava la struttura ricadeva nell’alcolismo
ed era quindi necessario ricoverarla di nuovo. I manicomi dell’epoca non miravano infatti a «far
guarire» le persone affette da dipendenze o disturbi ma piuttosto a tenerle rinchiuse in ospedale
perché considerate pericolose, imbarazzanti o disturbanti per la società10 .
«Non ha mai commesso gravi violenze contro altri o contro sé stessa: pur tuttavia non
è da escludersi che in avvenire questo possa accadere: ad ogni modo essa con le sue
escandescenze e col suo contegno sfacciatamente immorale è di scandalo pubblico»
(Cartella clinica di Stefanie, 1928).
10 ANSELMO VILARDI, La vita di Stefanie, in Ambienti Psichiatrici. La psichiatria e i suoi pazienti nell’area del Tirolo storico dal 1830 ad oggi, a cura di Elisabeth Dietrich-Daum, Hermann J.W Kuprian, Maria Heiddegger, Michaela Rasler e Siglinde Clementi, Innsbruck Università Press 2012, pp. 159-165.
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L’arrivo dei malati provenienti da Pergine a Zwiefalten, nel 1940(Fondazione Museo storico del Trentino)
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7: Lo sterminio dei disabili durante il nazismo
Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, si diffusero le teorie sull’«igiene della razza», ov-
vero su un presunto miglioramento della specie da perseguire impedendo agli individui «tarati»
di riprodursi. I nazisti perseguirono questo obiettivo sin da quando giunsero al potere nel 1933
imponendo la sterilizzazione coatta a malati psichici, disabili e «asociali».
«Ma il nostro Stato nazionalsocialista non può nutrire interesse per quei provvedimenti
che puntano alla conservazione di un patrimonio ereditario scadente. Deve puntare a
estirpare dal nostro popolo tutti coloro che sono affetti da una malattia ereditaria e a
mettere al riparo le generazioni future dalle tare ereditarie.»
(Testo scolastico tedesco per le scuole medie, 1944).
Dal 1938 iniziarono le uccisioni di neonati disabili e il 1° settembre 1939, in concomitanza con
lo scoppio della seconda guerra mondiale, Hitler firmò il decreto che autorizzava lo sterminio
sistematico di coloro che si riteneva «vite senza valore». Iniziò così l’«Aktion T4» che portò allo
sterminio con il gas di decine di migliaia di disabili, molti dei quali presso il castello di Har-
theim. La maggioranza del personale sanitario si rese complice dello sterminio, anche se alcuni
medici cercavano di salvare la vita dei propri pazienti. Le proteste del clero ed in particolare
quelle del vescovo di Münster, August Von Galen, riuscirono a far interrompere l’«Aktion T4».
Le uccisioni dei disabili proseguirono però come «eutanasia selvaggia» attuata dal personale
medico, cioè attraverso sovradosaggi di farmaci e negazione del cibo. Furono uccise in tutto
almeno 275.000 persone.11
11 HARTMANN HINTERHUBER, Uccisi e dimenticati: crimini nazisti contro malati psichici e disabili del Nordtirolo e dell’Alto Adige, Trento, Museo storico in Trento 2003, pp. 15-49.
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8: Un orribile sospetto
Negli anni della seconda guerra mondiale (1939-1945) l’ospedale psichiatrico di Pergine ospita-
va anche i malati di alcuni reparti dell’ospedale generale di Trento. Invece non vi erano pratica-
mente più malati di lingua tedesca, essi formarono la stragrande maggioranza dei 299 pazienti,
appartenenti a tutte le età, che il 26 maggio 1940 partirono verso nord con destinazione l’ospe-
dale psichiatrico di Zwiefalten. Trascorsi pochi giorni, 75 malati «perginesi» furono trasferiti
all’ospedale psichiatrico di Schussenried, e da qui a Wissenau.
Perché questi spostamenti? Con l’accordo italo-tedesco del 1939 gli abitanti di lingua tedesca
della provincia di Bolzano, Trento e Belluno dovettero optare tra il mantenimento della cittadi-
nanza italiana o l’assunzione di quella tedesca con conseguente trasferimento nei territori del
Reich germanico. Dopo decenni di politiche discriminatorie ad opera del fascismo italiano ed
una massiccia campagna a favore del trasferimento in Germania da parte dei nazisti locali, ben
l’86% dei sudtirolesi di lingua tedesca optò per la cittadinanza tedesca, anche se a trasferirsi
effettivamente fu solo una parte di loro.
Un articolo intitolato «Un orribile sospetto» pubblicato il 19 dicembre 1940 dal giornale cat-
tolico altoatesino Volksbote di Bolzano fece trasparire nella nostra regione le prime notizie ri-
guardanti il programma nazista di eliminazione fisica dei disabili e malati di mente (Aktion T4)
attraverso uccisioni di massa col gas.
«È lecito uccidere persone che non hanno commesso alcun crimine ma che a causa di
minorazioni psichiche o fisiche non siano più valide a servire la nazione?»12.
(Volksbote, 19 dicembre 1940).
Non è stato possibile dire quanti dei circa 250 sudtirolesi portati a Zwiefalten siano stati travolti
dal programma Aktion T4, nel periodo che va dal 26 maggio 1940 (data del loro arrivo) al marzo
1941 (data in cui venne sospeso); né quanti degli ex degenti di Pergine siano rimasti vittima della
successiva «Eutanasia selvaggia», durata fino alla fine della guerra, nel corso della quale i malati
vennero uccisi con sovradosaggi di farmaci o attraverso la negazione del cibo. La mortalità tra i
malati sudtirolesi fu comunque altissima13.
12 Trento, Fondazione Museo storico del Trentino, «Ein furchtbarer Verdacht» [Un orribile sospetto]. Volksbote, Bolzano, 19 dicembre 1940.13 GIUSEPPE PANTOZZI, Gli spazi della follia. Storia della psichiatria in Tirolo e nel Trentino 1830-1942, Trento, Erickson 1989, pp. 229-260.
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“Una buona e una cattiva eredità”. Illustrazione dal libro di testo nazista Mutter erde le-benskunde [Terra madre: biologia]. Berlin. Deuscher schulverlag 1944 (Fondazione Museo storico del Trentino).
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9: Il superamento dell’ospedale psichiatrico in Italia
Dopo la seconda guerra mondiale iniziarono le prime cri-
tiche all’istituzione manicomiale che si fecero più forti
nel corso degli anni Sessanta. La legge che disciplinava i
manicomi era ancora quella del 1904. L’assistenza per i
disturbi mentali era separata dal sistema sanitario genera-
le, localizzata in strutture spesso inadatte al recupero dei
malati e dove non era previsto nessun intervento terapeu-
tico ma piuttosto la segregazione del malato dalla società.
Nel 1968 una sentenza della Corte di Cassazione dichia-
rò anticostituzionale l’assenza di un difensore del malato
nel suo processo di ammissione in manicomio e la man-
cata notifica al giudice dei provvedimenti urgenti d’am-
missione14.
Franco Basaglia, dal 1961 direttore dell’ospedale psi-
chiatrico di Gorizia, vedeva il manicomio come uno stru-
mento superato e dannoso perché isolava i malati dalla
società anziché curarli e li riduceva all’apatia peggiorando le loro patologie, per questo sperimentò
una forma di assistenza psichiatrica basata su una maggiore mobilità dei pazienti, sull’abolizione
dei mezzi di contenzione e sulla responsabilizzazione dei malati stessi15.
«Un individuo malato […] ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno
di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di
cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta.
Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità» .
(Franco Basaglia, 1979).
Le idee di Basaglia ispirarono dibattiti e sperimentazioni in tutta Italia che culminarono nel 1978
con il varo della legge n.180 (detta anche impropriamente «legge Basaglia»). La legge si proponeva
di eliminare il manicomio dal sistema assistenziale e limitare i trattamenti sanitari obbligatori a casi
estremi e limitati. Presupponeva la cura delle malattie mentali all’interno di un sistema esclusiva-
mente sanitario con una struttura decentrata sul territorio16.
14 GIUSEPPE PANTOZZI, «L’evoluzione dell’istituzione manicomiale», in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, p. 76.15 RODOLFO TAIANI, «Liberare liberandosi. Il cammino della riforma psichiatrica in Italia dall’immediato dopoguerra alla legge 180 del 1978», in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, p. 133.16 GIUSEPPE PANTOZZI, L’evoluzione dell’istituzione manicomiale, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 80-81.
“Franco Basaglia”
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10: L’ospedale psichiatrico di Pergine dagli anni ’50 alla chiusura.
Dopo la seconda guerra mondiale il manicomio di Pergine Valsugana dovette far fronte alle con-
tinue richieste di ricovero e quindi era portato ad una continua crescita. Negli anni ‘60 i degenti
erano 1.600/1.700, il loro numero aveva reso necessaria l’apertura di nuovi padiglioni 17.
L’aumento di ammissioni si ebbe soprattutto nel biennio 1950-51 a causa dell’apertura di un
reparto neurologico dove erano ricoverati per breve tempo i malati leggeri destinati ad essere poi
curati a domicilio e reinseriti nella società, a differenza dei casi giudicati più gravi destinati a
restare confinati in manicomio18.
Nel contempo si andavano affermando, anche grazie alla diffusione degli psicofarmaci, le istan-
ze di chi propugnava la trasformazione delle istituzioni psichiatriche e l’apertura di centri d’igie-
ne mentale sul territorio per poter seguire i pazienti senza doverli internare. In questa direzione
andavano la legge n.431 del 1968 e la legge provinciale n.3 del 1971. Infine nel 1978 la legge
n.180, nota come «legge Basaglia», sancì il superamento degli ospedali psichiatrici.
A partire dal 1° gennaio 1982 la competenza sul servizio di salute mentale venne trasferito
dall’ospedale psichiatrico di Pergine all’unità sanitaria locale, ma in realtà dentro l’ormai ex
manicomio rimasero i malati già ricoverati al momento dell’entrata in vigore della riforma. Solo
il 29 ottobre 2002 l’ospedale psichiatrico smise realmente di funzionare19.
17 RODOLFO TAIANI, A mò d’introduzione, breve cronaca di un’istituzione, in Castagne matte, a cura di Felicetti Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 9-20.18 FELICE FICCO, L’assistenza psichiatrica e il manicomio di Pergine dai primi anni cinquanta alla legge 180, in Castagne matte, a cura di Felicetti Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 137-146.19 RODOLFO TAIANI, A mò d’introduzione, breve cronaca di un’istituzione, in Castagne matte, a cura di Felicetti Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 9-20.
LA CITTÀ NELLA CITTÀ22 -
1: L’intervista al dottor Mario Tommasini
Mario Tommasini (1914-2012) è stato un medico, che ha svolto servizio come primario presso
l’Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana, dal dopoguerra all’inizio degli anni Settanta. In-
tervistato da Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Tommasini spiega il funzionamento dell’assistenza
psichiatrica attraverso aneddoti tratti dalla sua esperienza personale: ad esempio la storia di un
ragazzo ricoverato presso l’ospedale di Pergine come schizofrenico solo per aver detto «vorrei
morire» dopo esser stato lasciato dalla fidanzata. Dopo alcuni mesi venne rilasciato come «mi-
gliorato», un referto che gli imponeva pesanti limitazioni giuridiche, superate grazie all’interven-
to di Tommasini che lo giudicò «guarito».
Tommasini ci parla poi delle terapie utilizzate, come il Bringhel, una insufflazione di aria nei
ventricoli celebrali. Vi erano poi il Mixogon, la malarioterapia e le punture di latte, metodi per
far venire la febbre. Queste erano tutte «terapie di shock» considerate utili sia per la cura che per
la gestione dei pazienti.
Tommasini racconta di aver praticato autopsie, elettroshock ed insulinoterapie, quest’ultima por-
tava al coma ipoglicemico, dal quale ci si svegliava con la nutrizione attraverso il naso mentre
era contrario alla psicochirurgia, cioè agli interventi sul cervello che giudicava dannosi perché
uccidevano un gran numero di cellule celebrali 20.
Dalle parole del medico emerge anche la realtà della rigida gerarchia vigente in ospedale.
«Là le donne non comandavano niente perché c’erano le suore. Infatti tu non potevi
parlare con le infermiere, ma sempre con la suora. L’infermiera non parlava con il me-
dico: era quasi proibito e poi non stava bene a parlare con il medico. Quando venivano
ricoverate nel reparto neurologico, le donne le dovevo visitare tutte io, e gli uomini li
visitava [un altro collega]. E allora venivano su. Mi accompagnavano su una malata
che andava all’Osservazione e allora dovevo fare la cartella clinica e poi dopo farle la
visita normale»21.
(Mario Tommasini, 2007)
20 RODOLFO TAIANI e FELICE FICCO, Il racconto del medico, intervista a Mario Tommasini, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 179-184. 21 RODOLFO TAIANI e FELICE FICCO, Il racconto del medico, intervista a Mario Tommasini, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, p. 184.
- 231882-2002: Storia dell’Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana
2: L’intervista al dottor Gianluigi Bertuzzi
Nella sua intervista rilasciata a Felice Ficco e Rodolfo Taiani Gianluigi Bertuzzi ci racconta il
funzionamento e le trasformazioni dell’ospedale psichiatrico di Pergine Valsugana dagli anni
Settanta in poi. Innanzitutto sottolinea che nella struttura era presente una marcata gerarchia
all’interno del personale.
«All’interno del manicomio c’era una forte gerarchia tra i vari componenti del perso-
nale: […] ogni medico doveva prima parlare con il caposala, non poteva parlare diret-
tamente all’infermiere»22.
(Gianluigi Bertuzzi, 2007)
Tra le varie terapie per i pazienti allora in uso vi erano l’insulinoterapia, l’elettroshock, la mala-
riaterapia e la «combinata», cioè l’associazione tra elettroshock e insulina. Tutte pratiche che si
ritenevano utili al miglioramento delle condizioni dei pazienti.
Nel 1972 praticamente ogni comprensorio del Trentino corrispondeva ad un settore dell’ospedale
che poteva contare su un organico composto da un primario, un aiuto ed un assistente più il diret-
tore. Nel 1968 l’assessore alla sanità inserì la figura del direttore amministrativo togliendo questo
ruolo al direttore del manicomio e quindi limitandone il potere. Nel manicomio di Pergine vi fu
anche la creazione di un reparto di libera accettazione dove i pazienti potevano essere accolti
volontariamente e dove si potevano fare anche degli esami neurologici.
Dopo la legge 180 del 1978, che sancì la trasformazione dell’assistenza sanitaria chiudendo gli
ospedali psichiatrici, molti pazienti psichiatrici passarono dal manicomio alla casa di riposo. Ber-
tuzzi racconta il caso di un anziano paziente che, trasferito in casa di riposo, venne riconosciuto
da una parente cui la famiglia aveva raccontato che era morto23.
22 RODOLFO TAIANI e FELICE FICCO, Il racconto del medico, intervista a Gianluigi Bertuzzi, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 171- 178.23 RODOLFO TAIANI e FELICE FICCO, Il racconto del medico, intervista a Gianluigi Bertuzzi, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 171- 178.
LA CITTÀ NELLA CITTÀ24 -
3: La testimonianza dell’infermiere Valerio Fontanari
Valerio Fontanari prese servizio come infermiere in psichiatria presso l’Ospedale di Pergine
Valsugana, all’inizio degli anni Settanta del Novecento.
Nell’intervista rilasciata a Felice Ficco e Rodolfo Taiani racconta del distacco fra infermieri e
pazienti, i quali «erano considerati oggetti pericolosi da trattare con cura» ; l’unico «strumento di
sicurezza», ovvero il sistema più sicuro per sedare i pazienti, era lo psicofarmaco.
Il manicomio era un’istituzione chiusa che non aveva scambi con l’esterno e governata da rigide
gerarchie interne sia tra il personale che tra i pazienti.
«Il manicomio era un’istituzione chiusa e non aveva scambi con l’esterno. All’intero si
produceva tutto il necessario per vivere: c’erano i vari laboratori dove si producevano
con i telai i tessuti per il fabbisogno interno, o i materassi; c’era la campagna dove ve-
nivano coltivati gli ortaggi, il frutteto; c’erano le stalle alla colonia agricola La Costa
dove veniva allevato il bestiame da carne; c’era il panificio e tutta una serie di servizi
per assolvere ai bisogni della quotidianità istituzionale. Tutto con l’aiuto di pazienti in
ergoterapia riabilitativa sorvegliati da infermieri e operai» .
(Valerio Fontanari, 2008)
Nel 1972 Fontanari fu mandato a fare turni al Maso Martini, un reparto della colonia agricola
dove i pazienti passavano un periodo riabilitativo prima delle dimissioni. La preoccupazione
maggiore era evitare che succedesse qualcosa ai pazienti, perché il personale ne era responsabile.
Nell’Ospedale non erano previsti anestesisti, e gli elettroshock erano applicati a pazienti coscien-
ti.
Altri rimedi previsti erano le celle di isolamento, la camicia di forza, i nastri e le fascette con cui
si immobilizzavano i pazienti al letto.
L’Ospedale dava lavoro a circa 900 persone, questo spiega le forti resistenze da parte di personale
e amministratori quando nel corso degli anni Settanta si iniziò a sperimentare un altro rapporto
con i pazienti e a prospettare la chiusura dell’ospedale psichiatrico.
- 251882-2002: Storia dell’Ospedale Psichiatrico di Pergine Valsugana
4: La testimonianza dell’Assistente sociale Piera Ianeselli
Piera Volpi Ianeselli fu la prima assistente sociale assunta presso l’ospedale psichiatrico di Per-
gine Valsugana, iniziò a lavorare all’inizio degli anni Sessanta del secolo scorso. Nella sua tesi
di laurea, discussa nell’anno accademico 2004-2005 presso la facoltà di Sociologia di Trento, si
ricostruiscono alcuni episodi legati alle trasformazioni dell’ospedale.
Nel corso degli anni Settanta iniziò infatti ad essere sperimentato anche a Pergine un approccio
basato sull’idea che il «disturbato mentale» fosse sì un malato speciale, ma che non andasse
emarginato e allontanato da quella realtà che noi definiamo «normale». Ad esempio gli operatori
sociali (infermieri ed assistenti sociali) chiesero al medico responsabile di un reparto di poter
distribuire ai pazienti anche le posate oltre che i cucchiai, per far sì che il paziente si sentisse
meno diverso e meno umiliato.
«Alcuni infermieri si opposero [all’idea di dare le forchette ai pazienti] e, in alcuni casi,
riuscirono anche a convincere il medico.
Affermavano che, nel settore, vi erano pazienti gravi, cronici e meno gravi, e se si
poteva concedere la forchetta ai meno gravi, non lo ritenevano possibile per i cronici,
per i gravi, perché sarebbe stato come dar loro un’arma, impropria se si vuole, ma pur
sempre uno strumento di aggressione; inoltre in un reparto o si dà a tutti o a nessuno»24.
(Piera Ianeselli, 2005)
Un’altra importante iniziativa fu quella dei soggiorni estivi per i pazienti dell’Ospedale Psichia-
trico. Dopo molti dubbi il direttore diede l’autorizzazione e per 12 giorni alcuni degenti poterono
soggiornare presso due alberghi in località di mare, dove erano presentati come provenienti da
una casa di riposo. Contrariamente alle aspettative dei molti critici, i pazienti si comportarono da
persone «comuni», ricevendo apprezzamenti dagli stessi albergatori.
Queste iniziative si inserivano in una evoluzione della psichiatria italiana iniziata intorno alla
metà degli anni Sessanta con la teorizzazione dell’unità di tre momenti basilari: prevenzione,
cura e riabilitazione. In tal modo l’equipe socio-sanitaria si spostava sul territorio e l’ospedale
psichiatrico diveniva solo un momento dell’assistenza psichiatrica, cessando di essere indispen-
sabile25.
24 PIERA IANESELLI, Il racconto dell’assistente sociale. La testimonianza di Piera Ianeselli, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, p. 162. 25 PIERA IANESELLI, Il racconto dell’assistente sociale. La testimonianza di Piera Ianeselli, in Castagne matte, a cura di Felice Ficco e Rodolfo Taiani, Pergine (TN) 2013, pp. 161-169.
LA CITTÀ NELLA CITTÀ26 -
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