la camera chiara 5/2014

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CAMERA CHIARA la 5/2014 bimonthly newsletter

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Newsletter bimestrale del circolo culturale La Bottega dell'Immagine

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CAMERACHIARAla

5/2014

bimonthly newsletter

sotto... il piattoletterina a... Babbo Natale (??!?)

V. - Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi? P. - Almanacchi per l’anno nuovo? V. - Si signore. P. - Credete che sarà felice quest’anno nuovo? V. - Oh illustrissimo si, certo. P. - Come quest’anno passato? V. - Più più assai. P. - Come quello di là? V. - Più più, illustrissimo. P. - Ma come qual altro? Non vi piacerebb’egli che l’anno nuovo fosse come qualcuno di questi anni ultimi? V. - Signor no, non mi piacerebbe. P. - Quanti anni nuovi sono passati da che voi vendete almanacchi? V. - Saranno vent’anni, illustrissimo. P. - A quale di cotesti vent’anni vorreste che somigliasse l’anno venturo? V. - Io? non saprei. P. - Non vi ricordate di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? V. - No in verità, illustrissimo. P. - E pure la vita è una cosa bella. Non è vero? V. - Cotesto si sa. P. - Non tornereste voi a vivere cotesti vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciando da che nasceste? V. - Eh, caro signore, piacesse a Dio che si potesse. P. - Ma se aveste a rifare la vita che avete fatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri che avete passati? V. - Cotesto non vorrei. P. - Oh che altra vita vorreste rifare? la vita ch’ho fatta io, o quella del principe, o di chi altro? O non credete che io, e che il principe, e che chiunque altro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che avendo a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorrebbe tornare indietro? V. - Lo credo cotesto. P. - Né anche voi tornereste indietro con questo patto, non potendo in altro modo? V. - Signor no davvero, non tornerei. P. - Oh che vita vorreste voi dunque? V. - Vorrei una vita così, come Dio me la mandasse, senz’altri patti. P. Una vita a caso, e non saperne altro avanti, come non si sa dell’anno nuovo? V. - Appunto. P. - Così vorrei ancor io se avessi a rivivere, e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tutto quest’anno, ha trattato tutti male. E si vede chiaro che ciascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso il male che gli e toccato, che il bene; se a patto di riavere la vita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessuno vorrebbe rinascere. Quella vita ch’è una cosa bella, non è la vita che si conosce, ma quella che non si conosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’anno nuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tutti gli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero? V. - Speriamo. P. - Dunque mostratemi l’almanacco più bello che avete. V. - Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta soldi. P. - Ecco trenta soldi. V. - Grazie, illustrissimo: a rivederla. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

Con un certo anticipo (ansia da prestazione?) sull’esempio degli

esercizi commerciali, direct marketing, depliant pirata et similia, si avvicina il momento de “la resa dei conti”. E non è certo in onore del Natale e la prostituzione mercantile che ormai lo rappresenta. Ricordate il grande e mai completamente apprezzato

Pierangelo Bertoli con la sua “E’ nato si dice”? “.. è nato, si dice, poi fu cro-

cifisso. Aveva diviso il mondo in due parti (ohibò! anche allora…. Non so

perché ma mi ricorda ”qualcuno”….) E quelli che l’hanno trattato più male

son quelli che hanno inventato il Natale...”. Ecco. Quindi non è tanto in onore della sacralità inquietante della

festa più pagana dell’anno, quanto per il mio amore per la misconosciuta “freschezza e ironia” del Filosofo di

Recanati che con il suo Venditore di Almanacchi mi ispira una vision per l’anno che verrà. Come augurio

“laico” per me, per la Bottega, i Suoi Soci e tutti i Suoi Amici:

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realmanacchi, almanacchi nuoviG. Leopardi - Operette morali

Allora ci siamo. Fare la Cassandra è piuttosto facile. Il popolo che fa la fila la notte per l’IPhone6 con l’ansia di possedere per primo il nuovo modello, si stufa altrettanto velocemente di tutto. E vuole novità, novità, novità. Basta spendere. E impegnarsi sempre meno in inutili procedimenti. Inutili e incomprensibili, se le macchine possono fare tutto. Più veloce è meglio. E allora se non viene proposto in fretta qualcosa di più cool c’è il rischio che dopo 3 o 4 selfie al giorno (per qualche anno) il popolo dell’autoscatto, non autoritratto vi prego, si rivolga ad altre dipendenze. Più facili e ancor più spettacolari. Mettendo in crisi quello che ormai sembra l’accessorio più indispensabile del globo (per GoPro e telefonini): il selfie-stativo. Un dramma per l’economia globale. Le borse ne risentiranno sicuramente. (?!) Ma ritorniamo a … Cassandra. Si può vedere il primo sintomo di una senilità precoce della fotofaidate quando nemmeno i produttori più illustri riescono ad “inventare” qualcosa di nuovo e “provocante”. Dando una scorsa vorace, infatti, alle varie riviste che si sgolano a strillare le tante novità del settore presentate alla Photokina 2014 l’unica novità vera (???!?) è ormai la mitica LYTRO (prima uscita prototipo 2006!) Che da misterioso caleidoscopio di lusso è diventata “…una fotocamera dalle caratteristiche tecniche molto interessanti…” e che “… permette di modificare punto di messa a fuoco, profondità di campo e, entro certi limiti, prospettiva ANCHE DOPO LO SCATTO…”. Ecco, come dicevo…. Compatte, finite. Smartphone sempre più efficienti, subentrati alla grande (dove sarebbe la differenza?). Quindi, ci siamo. E fra poco tutto tornerà alla normalità: Compatte sparite, uno o due telefonini in ogni tasca (grandangolo e tele? :-) e Fotografia abbandonata a chi avrà ancora conservato gusto, cultura e voglia di farla. Per diletto. Dilettanti, appunto. Ma….(Casaleggio docet) nel 2019 i Professionisti ogni 5 scatti serviranno caffè e dolcetti direttamente forniti dall’ultima ammiraglia. Wow!

Un solo dubbio turba la notte del Profeta: la prima sarà Nikon o Canon?

tutto...anche DOPO lo scattodi Chenz 2

Q COME CULTURA

miopia, cecità, morte di Alessandro PAGNI

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Il primo incontro consapevole con la morte, l’ho avuto per mezzo della fotografia.Fatta eccezione di una vecchia prozia ingiallita, che mia nonna mi ha obbligato a visionare (“Ale guarda la zia poverina, guardala!”) quando ero bambino, durante la veglia funebre che la vedeva protagonista (facendola entrare di diritto nella top five dei miei incubi notturni).Ma il primo contatto, circoscritto e meditato, con il

“grande mistero”, me lo ha portato la fotografia, come fosse un dono: l’illusione di avere un controllo sulla questione. Il dono di mettere un filtro, di marcare una distanza nel racconto della morte, che permetta di guardarla, non certo di capirla, ma di accostarvisi con la freddezza e il distacco di un’analisi scientifica.Il primo incontro è stato col miliziano di Capa: una morte presunta, forse artefatta, in ogni caso

una morte sospesa nell’infinito istante che non contempla un dopo.La reale discesa nel buio, l’ha indicata Manuel Alvarez Bravo: in lui tutto viaggia su una passerella traballante fra un’esistenza tangibile, carica di voci e odori, a tratti gioiosa e un aldilà sempre presente, sempre davanti agli occhi, come un monito che non smette mai di rigare di sangue le pareti logore delle case e le guance di cristi attoniti, circondati da calaveras impertinenti. Striking Worker Assassinated del 1934, se chiudo gli occhi e qualcuno mi dice di pensare alla morte, finisco su quella fotografia: è lì che per la prima volta, mi sono trovato di fronte alla resa incondizionata del vivere, davanti a un involucro vuoto, i capelli fradici in una pozza

amaranto (non ho dubbi che fosse tale, anche se l’immagine è in bianco e nero) e un paio d’occhi spalancati che non sono più capaci di vedere.Si sono accavallate altre morti negli anni, alcune vissute sulla pelle e molte altre indagate millimetro per millimetro, sulla gelatina d’argento: l’antologia di corpi straziati nelle pagine di Wanted! di Ando Gilardi [1], gli insorti della Comune di Parigi, fucilati nella “settimana di sangue” di fine maggio 1871 ed esposti al Père Lachaise, come merce in vendita sugli scaffali o il paradosso di Barthes «è morto e sta per morire» riguardo al ritratto del condannato Lewis Payne, immortalato (è proprio il caso di dirlo), da Alex Gardner nel 1865. E poi Lombroso, la fisiognomica, l’illusione di una formula per contenere il male; teste catalogate, archivi di connotati dedotti da volti senza vita e infine, squisito contrappasso, anche la sua testa adagiata sul fondo di un barattolo di formalina.E più sono andato avanti a guardare e più mi sono scoperto privo di emozioni, come se non vedessi veramente. Sul sito web These Americans , fra le molte gallerie del vivere americano, ce n’è una che riguarda gli incidenti mortali degli anni ’30: ci troviamo di fronte a una miscellanea di corpi straziati, masticati e rigettati dalle lamiere di vecchie auto e furgoni.Le guardo e non provo niente. Mi dico che dipende da quel bianco e nero, dai vestiti anni ’30 e da bravo vigliacco do la colpa al filtro del tempo, che aiuta a stare distanti e al sicuro da notti tanto grigie.Poi apro il sito del World Press Photo e non ho più scuse, il risultato non cambia, si muore ogni anno nell’archivio del Word Press, un morto in media per ogni fotografo premiato e non è una critica, è un dato di fatto, non c’entra più il tempo, non c’entra la distanza. La fotografia è diventata il setaccio per accogliere qualsiasi cosa con uno sbadiglio annoiato.Fino a che punto si può andare oltre, vedere tutto e non provare più niente? Una morte degli

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occhi, in anticipo sul completo deperimento del corpo. Saramago sapeva tutto questo, quando ha raccontato di una cecità bianca, di una persistenza dello sguardo, tanto persistente e ostinata da annullarsi completamente.«Probabilmente solo in un mondo di ciechi le cose saranno ciò che veramente sono» suppone il premio Nobel portoghese e scorrendo le pagine del suo romanzo, sa già la risposta a questo dubbio, sa già che il nostro guardare portato all’esasperazione, come il nostro vuoto davanti alle immagini che raccontano la morte, ha messo a nudo un’amara verità sulla condizione umana: «È di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di

cattiveria». [2]Ma c’è un altro mondo possibile.Sicuramente c’è stato nella storia della fotografia, un modo più armonico, quasi liquido, di raccontare la fine nel suo divenire, come una tappa innata, qualcosa che è dentro al percorso di tutti.Non è stato The Americans il primo appuntamento al buio con l’occhio inestimabile di Robert Frank al tempo dei miei studi, ma una fotografia a tutta pagina (London street, 1971) sul manuale di André Rouillé e Jean-claude Lemagny. Rimasi folgorato dalla scossa immediata che questa fotografia riuscì a darmi: non so dire se quello che stavo interpretando allora fosse esatto, ma lo sportello aperto della vettura parcheggiata a destra, ai confini della

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?)cornice, mi parve subito quello di un carro funebre, in attesa paziente di un passeggero; e quella corsa a perdifiato, in direzione perfettamente contraria, di questa bambina (o bambino che si voglia, anche se ho sempre pensato che fosse una bambina infagottata per la pioggia) sembra la commovente inutile risposta che l’essere umano cerca di dare al destino, dal momento in cui viene al mondo, già condannato. A braccetto con questa immagine londinese, su The Americans ne troviamo un’altra che ogni volta mi fa suonare in testa un campanello e non posso fare a meno di accostarle idealmente: una stazione di rifornimento in mezzo al nulla del deserto, quattro pompe di benzina pesanti allo sguardo come monoliti, tristi come quattro lapidi sotto un cielo vuoto e una scritta sbiadita dove risalta la parola “save” (Santa Fe, New Mexico, 1955).Penso poi a Francesca Woodman.Al di là della scelta di porre fine alla propria esistenza, portava marchiato a fuoco nel suo guardare, il germe del futuro: niente di vistoso, qualcosa come un sussurro, il presentimento di una partenza imminente, in ogni suo scatto, come fosse sempre sul punto di dire addio (direbbe Rilke).Ma ancor più, mi viene in mente Josef Sudek, uno dei più famosi fotografi cecoslovacchi: scampato per metà agli orrori della Prima Guerra Mondiale, nonostante vi abbia perso un braccio nel 1917, porta comunque avanti il lavoro di fotografo con apparecchi di grande formato e mantiene rapporti saldi con le avanguardie artistiche del tempo, scegliendo di tenersi al di fuori dalle atrocità che vesseranno l’Europa, una volta ancora, durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo aver visto molto, forse dopo aver visto troppo, decide consapevolmente, negli ultimi anni della sua vita, ormai vecchio e stanco, di non guardare più il mondo, di adattare la focale del suo campo visivo al tempo che ormai sta gocciolando via. Sceglie di fotografare ancora, come un demone mai sazio,

ma di farlo dal rettangolo di una finestra del suo studio, da dove si scorge una porzione di giardino o poco altro e il vetro il più delle volte è appannato (e un po’ fa pensare a una retina che si indebolisce e lentamente diventa opaca), restituendo ancora emozione, addirittura struggente, con quei pochi oggetti scordati sul davanzale e oltre la condensa, le ombre sienziose degli alberi.

[1] A. Gilardi, Wanted! : storia, tecnica ed estetica della fotografia criminale, segnaletica e giudiziaria, Milano, Mondadori, 2003.[2] José Saramago, Cecità, Milano Feltrinelli, 2010.

pipolo & pizzimondo cafonal

di Costanza MAREMMI

CINEMA & FOTOGRAFIA

alla Bottega il 21 novembre 2014

Questo mese dedichiamo la nostra proiezione a uno spaccato della penisola italiana visto da due curiosi occhi fotografici, quello di Oreste Pipolo e Umberto Pizzi.Il primo, Pipolo, è un fotografo, anzi, “il fotografo” di matrimoni di una Napoli invasa da cantanti neo-melodici e giovani che sognano un successo di cartapesta fra macchine scintillanti e reality televisivi. Per ogni matrimonio Pipolo si sposta come un regista con il proprio baraccone di assistenti, truccatori, luci e piccoli set fotografici da asporto, mettendo su scene pompose che in certi casi somigliano a set di staged photography. Pipolo sbraita ordini, gestisce la situazione come un cerimoniere e nelle pause ci lascia le sue “perle filosofiche” che non possono non strapparci un sorriso divertito.Il secondo, Umberto Pizzi, figlio della Dolce Vita, della Roma di Tazio Secchiaroli e della stagione “eroica” dei paparazzi, dove i vip, gli attori del cinema, avevano un’aura quasi mitologica e ingaggiavano veri e propri inseguimenti con i fotografi, per preservare la propria privacy, ci mostra invece quanto si sia ribaltata la situazione nella stagione del Cafonal, in cui sono le celebrità a cercare insistentemente lo sguardo, non più “da appostamento”, del fotografo, per garantirsi un chiacchiericcio perpetuo. E mai come con il Cafonal, risulta vero il detto

il Bin Laden della pellicola(viaggiatore...analogico)

incontro con Luca LISERANI

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1 Opera di Agostino Fantastici, architetto senese 1782 – 1845. A Fantastici, ingegno in eterno equilibrio fra la razionalità dell’Illuminismo e la “garanzia rassicurante” della Rappresentazione Neoclassica della “solida” civiltà mediterranea. (anche il vostro Pico ha qualche passioncella…) si deve tra le tante realizzazioni anche l’atrio del Collegio dei Tolomei, recentemente ristrutturato.(ndr)

Appuntamento alle 12 in Farmacia. Quattro Cantoni. Che, pur essendo “la mia” non finisce mai di stupirmi. Come definirla? Fantastica? 1

Luca Liserani, “il dottore” per i clienti, lascia la folla al bancone (tempo di influenza e si vede) per una breve chiacchierata di rito.

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Ciao Luca. Già “operare” in un ambiente così bello è una istigazione al gusto e alla misura. Essendo te una figura “fotografica” cittadina ben nota, invece di parlare dei tuoi inizi (li troveremo cammin facendo) partiamo dal presente.Da “vecchio” e navigato (che ha fatto tanto) fotografo, come ti poni e cosa pensi della situazione della Fotografia attuale?

L. certamente ho notato che c’è un notevole e, purtroppo sempre più diffuso, abbattimento della qualità. Qualità intesa anche come autocritica. Si vedono foto di tutti i tipi e purtroppo le varie reti tipo Facebook e similari, tendono a inondare il mondo di foto sempre più brutte. O almeno di scatti veramente scadenti. In questo caso, sintomatico è anche l’ultimo Congresso della FIAF a cui partecipai come Presidente del SienaFotoclub (che ora non sono più) in cui tutti i Circoli della Toscana lamentavano uno scarso innesto di giovani. Ma anche di giovani che una volta iscritti andavano via perché “impermalositi” da eventuali consigli dei cosiddetti “più anziani”. Una delle frasi più ricorrenti era : “…come?, te vieni a dire a me come fotografare, che ho 60 “pollicini”

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in Facebook?....”. quindi una mancanza di autocritica e una mancanza, come dicevo, di qualità. Io, all’analogico, sono sempre stato affezionato. Tanto è vero che, ironicamente, mi nominavo il Bin Laden della pellicola e l’Al Queda del 100 ASA della diapositiva. Chiaramente sono passato al digitale anche gioco forza. Primo per una questione di costi e introvabilità delle pellicole. L’ho sempre detto, con il digitale non ho l’amore che era scattato con l’altra però sicuramente l’utilitarismo è indubbio. Soprattutto per come la vedo io i 3 cavalli del digitale sono: la possibilità di variare la sensibilità della pellicola (del file), il fatto di poter vedere immediatamente (e questo,

ritornando al discorso dei viaggi, sarebbe stato di un aiuto enorme, perché quando andavo in Perù o Nepal, fino a quando non tornavi, anzi fino a quando non tornava il rotolino….A questo proposito quando farò vedere le foto del Nepal, saranno un pochino appena velate perché tutti i passaggi ai controlli elettronici in aeroporto non avevano gli schermi di oggi). Sarebbe comunque stato comunque oltre a un discorso finanziario anche di spazio. Portarsi dietro 20 rotolini da 36 è diverso che portarsi dietro due schede da 8GB. Però ci tengo a precisare che anche con il digitale mantengo sempre il cervello analogico. Per dire: non è che oggi ne faccio 1 miliardo. Anche perché sono ancora molto

scarso nella post-produzione, cerco sempre, ragionando, di fare il migliore scatto al momento. Quindi non dico: la butto là….

Un mio amico, grande FotoAutore degli anni ‘90, Italo ADAMI, suole e soleva dire che LA FOTOGRAFIA E’ “UNA SOLA”giusto?

L. Eh, si. Io sono d’accordo con Berengo Gardin che dice “…non chiamatele foto ma chiamatele immagini, quelle tanto elaborate, dietro…”. Oggi ritornando anche ai giovani, si assiste più a persone che hanno una competenza incredibile nell’uso del computer e quindi “sparano là” e poi giù ad armeggiare.

In effetti i “nativi digitali, anche bravi, non hanno sempre le idee chiare sul colore. Noi che si viene dalla pellicola, come dice Luciano del GIELLE, il colore si vede con un’occchiata. Sul monitor spesso vengono fuori delle cose...L. Infatti, vengono fuori dei colori irreali che chiaramente non sono rispondenti alla realtà. Io cerco sempre di fotografare… io ho cominciato a fotografare per fermare dei momenti e soprattutto perché mi ero stancato …. Io andavo molto in montagna, partivo la mattina e tornavo la sera dicendo “tu vedessi che bello…”. E mi sentivo dire: “….se invece di dirlo tu lo facessi vedere….” E allora è nata questa passione.Chiaramente, con il senno di poi, l’unico rammarico è che i viaggi più belli li ho fatti con le attrezzature limitate perché allora era gioco

INDOVINA CHI VIENE?

Luca LISERANI

forza. Non solo per i soldi, ma perchè proprio non si trovavano. Zoom, che ora sono eccellenti, ecc. E quindi dico sempre “se potessi ritornare ora…” Chiaramente sarebbe variato anche l’ambiente, il tessuto sociale (infatti, ad es. le foto che porterò sul Nepal del 1976....un mio amico mi ha detto che oggi tornarci sarebbe una delusione rispetto a quello che prima era un ambiente incontaminato).

La tua esperienza “sociale” con il SienaFotoclub?

Con il Fotoclub credo cheabbiamo dato un contributo alla divulgazione della Fotografia. Abbiamo fatto varie mostre, 4 libri, corsi di fotografia (senza nulla togliere ad altri personaggi autorevolissimi), ma insomma un nostro contributo di entusiasmo lo abbiamo dato.

Spesso quando uno percepisce la propria esperienza, anche se questo talvolta viene denigrato, ha una grande voglia di dare una mano a chi da solo non riesce a fare progressi e condividere “gioie e dolori”. Anche se spesso molti cercano solo...la bacchetta magica...

L. Certamente. C’è sempre stato molto entusiasmo nel cercare di trasmettere quello che avevi dentro anche agli altri. Qualche volta si riesce (dipende anche da chi recepisce)…. Comunque da parte mia, nostra e di altri amici, questo entusiasmo c’è sempre stato. Aggiungo che, appunto, senza farsi tanta gloria, ho avuto anche la fortuna di veder pubblicate molte foto. Però quello che mi anima di più nella Fotografia è proprio la mia curiosità. Tante volte, a chi non fotografa, potrebbero sembrare anche cose assurde, ma il fotografo sa dentro di sé che è il suo occhio…. Come diceva Lattuada di Fulvio Roiter, “..se c’è una crepa in un muro tanti ci passano davanti e non la vedono, lui la fotografa e è un’opera d’arte...”.

La Fotografia è sempre un Autoritratto, sei d’accordo? Ognuno guarda...quello che ha dentro...

L. Chiaramente. E’ per questo che, compatibilmente con gli impegni di lavoro, per me è sempre un impegno molto piacevole uscire con la macchina fotografica al collo. Tanto è vero che mia moglie dice ironicamente che... usciamo sempre in 3.

Una domanda “banale” ma non troppo per NOI vecchi FotoAmatori: IL FETICISMO. Te “eri” noto per le tue foto ma anche per i tuoi”attrezzi” che cambiavi anche spesso e volentieri....

L. ammetto che ho una debolezza. L’Innamorarsi dell’Oggetto. Oggi si è un po’ attenuato. Visti i prezzi. Però quello che posseggo, quando lo prendo in mano è sempre un’emozione. È un po’ come il collezionista verso le sue cose o come un’opera d’arte. In fin dei conti erano un’opera d’arte. Basti pensare che la Nikon F aveva 2 fondelli e con il motore diventava una cosa enorme ed oggi il motore è parte integrante del corpo macchina. Ma già pensare che a quei tempi avessero fatto queste cose, non è che le vedo come antiquariato, perché antiquariato in senso buono. Un’opera d’arte, un oggetto che ancora mi ispira molto.

Tutti ricordano i tuoi teleobbiettivi...

L. premetto che i teleobiettivi, ahimé, sono stati resi indietro per prendere altre cose. L’avvento degli zoom sempre più potenti ha messo in mostra i limiti del teleobiettivo: peso, trasporto. Poi devi avere dei soggetti che si prestino..inutile andare con un cannone per fare il fiore in campagna ( o in Piazza con il 600 dalla terra…ndr ). Un bel feticismo, comunque. Ma l’amore per il soggetto è anche saperlo apprezzare non solo nelle forme, ma vederne anche l’evoluzione e l’EFFICACIA.

Bello, ma anche per fare quello che volevi come volevi...

L. in effetti la definizione migliore di queste cose è stata quella che ho letto: gli obbiettivi sono un po’ come i pennelli per il pittore: Anche se, al giorno d’oggi quando vedo una fotografia, mi può anche colpire la nitidezza, l’acutanza, però prima ancora è la mente di

chi l’ha fatta. Mi ricordo un numero di Reflex di qualche tempo fa, uno aveva inviato una foto banale e ci aveva scritto “la migliore macchina e il migliore obiettivo Nikon” e la Rivista aveva risposto: “sappiamo già di perdere un lettore, ma, permettici, Perle ai Porci…”.Apprezzare quindi l’oggetto per la resa, ma deve essere qualcosa che migliora quello che hai già.

Parliamo un pò della Post-Produzione. Come ti sei approcciato e come “ti trovi”?...

L. premetto che per la posto produzione sono abbastanza scarso. La uso solamente per migliorare i toni, ecc. Non aggiungo niente altro e non ci perdo troppo tempo. In questo concordo con un fotografo francese (di cui non ricordo il nome) che diceva: “se ci perdo più di 5 minuti vuol dire che è una foto venuta male…”.

Attualmente come (con cosa) fotografi?

L. Senti...attualmente fotografo solo con il digitale. Anche se la mia idea era quella di girare sempre con due corpi, lasciando all’analagico alcuni scatti “ritenuti” meritevoli, ma è stato gioco forza passare solo al digitale. Attualmente però possiedo solo la Nikon DX. Aspettavo che ci fosse l’ occasione della 750. Ho ottiche di un certo pregio che non vorrei sacrificare, ma il formato DX mi soddisfa a pieno. Non è un amore ma è un qualcosa che…. Ti consente di mettere in atto la tua idea.

Un aiuto....

Certo. Sul “suo” utilitarismo non c’è da dire niente

I tuoi fotoviaggi che ricordi con più piacere?...

L. In Oriente ho visitato India e Nepal. Poi Israele, Giordania, Egitto, Tunisia e Marocco. Alcuni paesi europei e poi il Centro e Sud America con Perù, Bolivia, Equador, Brasile, Messico e Guatemala. (!) Tutti i viaggi sono tutti rigorosamente analogici. In Perù portai un doppio corpo e feci molto BN e diapositive. Le altre volte solo Diapositive.

Per fare un parallelo, più semantico che tecnico: la diapositiva ci aveva spessissimo ghettizzato, specie a livello di Circoli, nel formato rettangolare (concorsini, proiezioni ecc) e solo nel BiancoNero qualche taglio veniva osato tranne che da ostinati talebani (uso Caproni ndr). Ora col

digitale possiamo veramente “presentare” l’essenza di nostri scatti...

L. E’ verissimo. Io infatti cominciai ad usare soprattutto zoom proprio per tagliare la diapositiva in ripresa, perché non ci fosse nulla che dava fastidio. È vero che le foto si fanno anche con le gambe. Però a volte non puoi andare né avanti né indietro e quindi è gioco forza…

Altro dogma era l’uso del 100 ISO (soliti talebani Velvia 50!). Oggi sarebbe una cosa anacronistica...

L. ad esempio con il digitale 100 ISO non li uso quasi più. Spesso 200 o 400...Non è più una necessità “stare “bassi”...Poi, l’importante è sempre provare.

Dopo aver passato tutta la tua giovinezza in mezzo alle immagini, “da grande” cosa pensi di fare, fotograficamente parlando...

L. da grande, quando andrò in pensione, non so cosa potrò fare. Al momento non prevedo viaggi. Ma io ho sempre viaggiato in posti che mi interessavano. E uso dire che se vincessi un viaggio premio e non potessi portare la macchina fotografica, non ci andrei. Spesso e volentieri ho avuto la fortuna di poter andare dove mi interessava e dico sempre, che suddivido il mondo in zone che mi interessano e zone che non mi interessano. Sicuramente in quelle che non mi interessano anche dal punto di vista fotografico, non ci andrei mai. Mentre vorrei ritornare in zone che mi interessano anche dal punto di vista fotografico e umano. Poi spero di poter continuare perché la Fotografia per me è nata per fermare quello che mi colpiva e farlo vedere. Ma è nata soprattutto per evadere un po’ dal mio mondo quotidiano fatto sempre più di problemi o di monotonia. Spero quindi di continuare ad avere sempre questo entusiasmo e questa finestra aperta sullo svago.

Hai anche progetti nel cassetto nel “settore” FIAF, Circoli e dintorni?

L. Io mi sono segnato per far piacere al mio amico Agnesoni (Mauro ndR), ma ormai fa tutto Lui e io non frequento quasi più il Circolo. Quello che ho dato l’ho fatto volentieri. Per i progetti mi affido a loro. Se mi chiedono di fare qualcosa, volentieri. Ora loro stanno,

ad esempio, lavorando ad una mMostra a cui non so se sarò interessato, Vediamo un pò. Mi ritengo però molto libero. FIAF non sicuramente. E non mi sono mai interessati i concorsi. Confrontarsi si, ma non correre con le immagini. Ho fatto gare di altro tipo.Ma la Fotografia no. Non la vedo in questa angolazione. Nei Concorsi troppo spesso c’è una giuria con mentalità standard. Ad esempio notavo che negli anni settanta c’erano determinate foto considerate di moda e tutti si buttavano su quelle. Diventava un linguaggio tribale. Ho vinto a Pesaro, la mando anche a Urbino...Fare le foto non più in funzione del proprio io ma di quello che può piacere a una commissione. Ritengo sia la cosa più sbagliata.

Un pò per convinzione e molto per provocazione da un pò di tempo io vado in giro per piccoli meeting e miniworkshop sul LINGUAGGIO DA RITROVARE, sostenendo che la Fotografia E’ MORTA. Uccisa dagli automatismi e dalla impietosa concorrenza plebea del Video, dell’immagine in movimento. Hai un’idea a riguardo?

L. Decisamente NO. Io sono sempre stato per la foto ferma e non mi attrae il cinema. La cosa tra l’atro di estrarre file da filmati e spacciarli per fotografie mi intristisce molto. Spero ci sia sempre la possibilità di continuare a fotografare senza dover cercare i fotogramma migliore da un filmato. Pur nell’altissima qualità che vuoi. Soprattutto l’importante per me è inquadrare, gustarmi l’immagine. Molto spesso il gusto maggiore è nel fare clic. La sintesi della Fotografia.

Ringraziamo “il dottore” Luca... e lo aspettiamo a La BOTTEGA il 5 dicembre prossimo.

Fuji X-E2, Obb. XF 10-24 f/4 12800 ISO

non si vince niente...buona caccia !di Stefano CAIROLA

FENOMENO GEOCACHING

Venerdì scorso alla Bottega aspettando i ritardatari, tra un caffè ed un grappino, sento che si parla di geocaching. Incuriosito mi avvicino, per capire di cosa si tratti: forse una nuova tecnica fotografica. No, nessuna nuova tecnica ma inizio a capire l’argomento. Mi piace. In due parole: in tutto il mondo alcune persone decidono di nascondere piccoli contenitori (possibilmente impermiabili ed ermetici) da qualche parte; lasciano al loro interno un messaggio, un oggetto, un foglio ed una penna affinché sia lasciata testimonianza del ritrovamento e pubblicano su una specifica app le coordinate geografiche. Una specie di caccia al tesoro tecnologica. Non si vince niente, chi trova il contenitore può curiosare al suo interno, eventualmente integrarne il contenuto, lasciare una firma o fare ciò che più preferisce. Basta lasciare sempre qualcosa di valore pari o superiore a ciò che si trova. Non si vince niente quindi? Si vince la gioia di trovare ciò che si sta cercando (che non è poco) o se proprio non siamo abbastanza bravi o fortunati, si è fatto una bella girata e magari qualche foto. Mi piace. Ci provo. Scarico subito la app. Appena tornato a casa ho subito pianificato i possibili obbiettivi. Coinvolgo anche la mia famiglia nell’impresa. E’ deciso, il giorno dopo andiamo. E’ un bel sabato, individuiamo dei puntini sulla mappa non troppo distanti dalla città e dalle vie percorribili in macchina e si parte. Sulla mappa dell’app, almeno dove è disponibile una connessione internet, c’è sempre presente la propria posizione ed è quindi facile, scegliendo all’occorrenza fra mappa stradale e satellitare, capire la direzione e scegliere sempre il giusto bivio. Il viaggio in macchina è piacevole e fa pregustare il momento del ritrovamento oltre a far apprezzare

la bella luce ed i bei colori d’inizio autunno. Nei pressi della meta il puntino cambia colore e diventa verde. Adesso posso sapere il nome del posto dove è nascosto l’oggetto ed anche informazioni sul luogo, la difficoltà della caccia ecc.. ci sono anche i commenti lasciati dai cacciatori precedenti e utili suggerimenti che decidiamo di ignorare e magari di utilizzare solo in caso di difficoltà.Dall’asfalto la strada diventa bianca ed arriviamo al punto in cui si deve parcheggiare e proseguire a piedi. Mettiamo la mappa su “satellitare” in modo da avere più punti di riferimento e cerchiamo di individuare un sentiero. Lo troviamo con facilità, è quello che segue il percorso della vecchia via francigena, e vediamo che, in linea d’aria, siamo distanti circa 300 metri dall’obbiettivo. Troviamo perfino un’indicazione che indica il nome del posto dove abbiamo visto trovarsi l’oggetto: la piramide di Pian del Lago. Arriviamo al sito... siamo a pochi

metri dall’oggetto. La mappa ci aiuta a capire la direzione e ci indica esattamente la distanza che ci separa dal ritrovamento. Cerchiamo. Eccolo.Nascosto sotto un albero, in una cavità del terreno, occultato da due pietre chiare troviamo un piccolo contenitore sigillato. Si tratta di una confezione riciclata da un tubo di pastiglie effervescenti (tipo vitamine o anti influenzali). Il suo scopo l’ottiene, è impermeabile ed è ben sigillato. Lo apriamo con curiosità. Siamo quasi emozionati. Al suo interno un

Istruzioni per “geocacciare”:

Per i fortunati possessori di un sistema operativo IOS (purchè aggiornato) è possibile scaricare gratuitamente l’applicazione geocaching intro dallo store di apple. Il primo passo è registrarsi al servizio e consentire alla app di accede alla propria posizione. Una volta svolte queste semplici operazioni la schermata che si presenta è quella di una mappa del luogo dove ci si trova. In alto a sinistra è possibile impostare la mappa su “stradale”, “satellitare” o “ibrida” esattamente come si fa su google map o altre app simili. Al centro della mappa un puntino blu pulsante che indica la nostra posizione. Nella schermata iniziale è inoltre presente la possibilità di accedere alle impostazioni della app: qui troviamo il nostro profilo ed una “guida ed informazioni” sul geocaching.La posizione degli oggetti nascosti è indicata sulla mappa da un puntino grigio o verde a seconda della prossimità del sito: quelli grigi indicano i punti più lontani mentre quelli verdi indicano gli oggetti più vicini a noi e cliccandoci sopra in basso appaiono alcune informazioni come il nome del sito e la distanza esatta. Cliccando sopra la barra riportante queste info la mappa lascia il posto ad una schermata il cui menù è suddiviso fra “info”, “attività” e “suggerimenti”. Nelle “info” possiamo trovare indicazioni sul luogo, informazioni storiche ed artistiche, ecc.... Vengono inoltre indicate le dimensioni dell’oggetto nascosto e la difficoltà della caccia. Nelle “attività” si possono leggere i risultati ottenuti dai cacciatori precedenti. Se hanno o meno trovato l’oggetto ed eventualmente un loro commento.In “suggerimenti”, a scelta del geocache che ha nascosto l’oggetto, è possibile trovare o meno indicazioni supplementare nel caso ci si trovi in difficoltà. E’ possibile inoltre loggare la propria esperienza e lasciare un commento. Per i più esigenti è possibile, pagando qualche euro, passare alla versione premium dell’app avendo così a disposizione ulteriori strumenti e facendo in modo che tutti i punti della mappa, anche i più distanti siano sempre interattivi (verdi). Buona caccia! (funziona perfetto anche con Android! NdR)

piccolo foglio dove era possibile annotare il proprio nome, un biglietto usato dell’autobus e un ulteriore foglietto riportante una parola, forse un nome. Ci siamo resi conto dalle annotazioni sul foglio che l’oggetto era nascosto da più di un anno e che diverse persone prima di noi l’avevano trovato. C’erano firme di cercatori inglesi, tedeschi e perfino qualche senese! Fotografato con orgoglio il ritrovamento abbiamo aggiunto il nostro personale lascito ed abbiamo riposizionato il contenitore

nel suo originale nascondiglio. Abbiamo approfittato per fare un’ulteriore breve esplorazione del posto e ci siamo imbattuti nel tunnel che fu costruito per la bonifica della zona. Lungo quasi tre chilometri, completamente oscuro, umido e pauroso, ci ha regalato qualche brivido quando abbiamo deciso di percorrerlo per qualche decina di metri. Divertente. Ma non siamo sazi; individuiamo un altro punto sulla mappa nelle vicinanze. E’ già verde. Percorriamo il sentiero in senso contrario, risaliamo in macchina e dopo pochi minuti siamo all’Eremo di San Leonardo al Lago. Stesso procedimento, stessa curiosità, stessa gioia di stare nel verde, di fotografare e cercare. Abbiamo già vinto anche se in questa occasione non abbiamo trovato nessun tesoro. Forse. S.C.

uno che sussurra e non urla mai di Pico de Paperis

Bravo “Jedi”. Amo le domande senza risposta del “Fantini”. Uno che sussurra e non urla mai. Naviga-tore della fantasia e astuto comunicatore “freddo” che scopri piano piano. Mi viene in mente, automa-tico, il parallelo con un Autore che ho avuto modo di conoscere bene: Federigo Tozzi. Potrei anche spiegare perché. Ma non mi voglio contraddire. NON sono le risposte, le cose importanti. Ognuno ha le sue e…fa bene a tenersele. Bravo/i davvero. PdP

(stefano fantini)

NONSOLOFACEBOOK

NONSOLOFACEBOOK

foto di Stefano FANTINI(formato incorniciatura a cura dell’Autore)

Quando Marco Polo si è trovato davanti a Kublai Kan (im-peratore dei tartari), fra i molti agglomerati urbani partoriti dalla mente geniale di Italo Calvino, il mercante veneziano ha raccontato di Marozia, una delle città nascoste. Marozia è una città dalla doppia natura, che nel tempo vede l’avvi-cendarsi continuo del suo duplice volto: da un lato uomi-ni-topo che corrono in branchi scomposti e furiosi, lungo cunicoli sotterranei, per contendersi briciole di felicità fasulla; dall’altro uomini-rondine capaci di volare, di essere veramente liberi e consapevoli. Il segreto di questa continua rotazione consiste nei gesti spontanei di chi la abita: tutto da un momento all’altro può diventare limpido e cristallino, tutto plausibile e possibile come uno slancio verso l’infinito, basta lasciarsi andare alla passione sincera, al piacere di fare, al mettere se stessi in qualcosa, al di là di un possibile tornaconto.Marco Polo era certo che a Marozia, in qualsiasi momento, dalla città dei topi si sarebbe potuta sprigionare la città delle rondini.Quello che però non sapeva è che dall’altra parte esatta del mondo, si trovava una città molto simile a quella da lui raccontata a Kublai Kan, ma rovesciata.Si chiama Anéys questa città, ma non la troverete fra le pagine di Calvino, è venuto un altro viaggiatore a raccon-tarmela, direttamente dentro al mio “rifugio”.Stefano Fantini, esploratore di universi minimi, carichi di significati e poesia, l’ho incontrato una sera di luglio del 2011, alla presentazione di una mostra collettiva, dove oltre ad aver avuto la fortuna di partecipare con una serie che avevo messo insieme in quel periodo, mi era stata data anche la possibilità di raccontare quello che è il mio approc-cio alla fotografia. Ci siamo trovati subito in sintonia su un

“E come è sgomento uno che ha da volare e viene dal grembo. Come terrorizzato

di se stesso, passa per l’aria indeciso, vacome va un’incrinatura lungo un vaso. Così la traccia

del pipistrello fende la porcellana della sera.”(Rainer Maria Rilke, Ottava elegia, Elegie Duinesi)

Anèys, la città rovesciataPubblicato da Alessandro Pagni 21 ottobre 2014

unfototipo.com

punto: nessuno dei due aspirava a raccontare paesi esotici, saturi di colori e suggestioni, ma piuttosto condividevamo la necessità di raccogliere (a volte anche fisicamente) lungo i luoghi che misuriamo quotidianamente con il nostro passo incerto, tracce, impressioni e cimeli della nostra vicenda per-sonale, da trasformare in scatole del tempo bidimensionali, capaci un giorno di parlare di noi e forse significare, al di là di noi. Con questa serie fotografica, Stefano racconta una parte di se, quella più controversa, relativa alle radici, al luogo che si ama seppur “con riserva”, al luogo che portia-mo nel cuore “nonostante tutto”; e lo fa uscendo dai propri confini, tracciando impressioni adatte a qualsiasi città della penisola.Decide di osservare i suoi vicoli, la piazza, gli scorci, con un filtro speciale e disturbante, capace di mettere a nudo alcu-ne contraddizioni manifeste, normalmente offuscate da un eccesso di chiacchiericcio, dalla confusione di troppi input e distrazioni: quello che fa Stefano è focalizzare e azzerare i rumori, fermando strani, inquietanti momenti, in cui le cose appaiono chiare e affilate come lame.Potrebbe somigliare a De Chirico quell’infinita sospensione metafisica di vuoti vertiginosi o al più introverso e onirico Rocky Schenck quando i suoi soggetti diventano ombre senza volto, come visioni incerte, in bilico fra la veglia e il sogno. Ma i vuoti del Fantini sono domande senza risposta, velate di delusione e dolore, e quella che fa è una resisten-za muta, davanti a una città che sprofonda nei suoi volgari vuoti di memoria, nel suo ostinato perpetrare certe orribili “leggerezze”, così figlie di questa nazione, continuamente propensa a rovinarsi con le proprie mani.Il risultato, a livello visivo, è una città “in negativo” (in senso squisitamente fotografico), è l’inversione del fermen-to che popola le strade, il caos di turisti e commercianti rovesciato nella solitudine di pensieri che nessuno vuole ascoltare.Così un albero lacera in due come una crepa la Cattedrale e la presunzione di infallibilità dell’ancora dilagante e ipo-crita “potere” religioso; un telone bianco da proiezione si frappone con arroganza al Palazzo Comunale, ricordandoci di quanto l’apparenza sia più attuale della consistenza e quanto sia palpabile la fragilità dei nostri governanti.L’individuo ha poca scelta: o resta schiacciato dal peso di

una situazione su cui non ha voce in capitolo o diventa una voce fuori dal coro, che procede da sola e priva di difese.C’è un immagine che rende perfettamente questa inquietu-dine senza uscite di sicurezza, è la fotografia che si colloca al centro esatto della serie, come un perno intorno cui, que-sti pensieri “sbagliati” fanno il Girotondo: una parete divisa fra il passato di grosse sicure pietre squadrate e un intonaco che apre il sipario sull’ordine di mattoni che nasconde al di sotto; il selciato mostra sulla sinistra dell’immagine l’ombra di un uomo e sul muro la proiezione di un oggetto che somiglia a un semaforo, ma in realtà fa parte dell’arredo urbano antico; sulla destra il nero pece invalicabile di un cono d’ombra, dove tutto si annulla, dove tutto si perde e la sola idea di attraversarlo mette i brividi.È qui che mi sono innamorato della serie di Stefano, è qui che ho colto il segreto nascosto nel suo sguardo e l’ho senti-to così attuale e così vicino alle mie preoccupazioni: questo lavoro non è semplificazione ma sintesi, dove niente sembra accadere e al contrario tutto si contorce e morde all’altezza dello stomaco.Dovreste conoscerlo Stefano, capire dalle sue parole che quel ragazzino in mezzo a una piazza vuota probabilmente non sta giocando ma sta sfidando la nostra placida quie-te (e forse da adulto lo saprà fare in maniera ancora più violenta e arrogante), o quelle due persone lontane forse stanno tramando, è il caso di dirlo, nell’ombra.Essere un viaggiatore ed esserlo fra le mura che ti hanno visto bambino è pericoloso, c’è sempre il rischio di non essere obiettivi, di lasciarsi andare a sentimentalismi, dando a mani piene il beneficio del dubbio.Pur dolorosamente, non è questo il caso.A differenza di Marozia, ad Anéys la città delle rondini non scaturisce più da quella dei topi, sono i topi che a periodi storici ciclici, tornano a invaderla, devastandola, strappan-dosi a vicenda dalla bocca, senza ritegno, anche l’ultima bri-ciola e l’unica cosa che possono fare le rondini, di fronte a questa rovina, è alzarsi più in alto possibile, dare un ultimo sguardo ad un luogo, che loro malgrado portano nel cuore e poi, volare via. A.P. unfototipo.com

Ascolto: Eels, Going to your funeral Part 1

Chi, non trovandosi forzatamente in un’isola deserta, invece che ai

moderni mezzi di comunicazione affiderebbe i propri “contatti”

alle pochissime probabilità di una bottiglia nell’oceano?

Dobbiamo affidare i nostri messaggi che forse non saranno mai raccolti a “veicoli” improba-bili e casuali, o dobbiamo cercare di “vedere” come sia possibile usare “vele e timone”con-sapevoli per “dirigerli”? Per andare aldilà del “contenuto elementare” delle nostre immagini, potremmo fare “passi da gigante” se troviamo una facile, solida “sperimentata nei secoli” de-codifica per il nostro “parlare figurato”.Le Figure Retoriche, ad esempio.

Ringrazio il Mitico, Carissimo e Benemerito Presidente Pietro Guidugli e attraverso di Lui gli Amici Meravigliosi del “cugino” Circolo Fotocine Garfagnana per la loro caparbietà e stoicismo nel “continuare” a concedermi la loro Amicizia e FIDUCIA (deci-dano Loro se con Metonimia o Sineddoche, eh eh).Questa piccola, ma pignola (quasi nifida..) sintesi sulle più usua-li figure retoriche “usabili” in Fotografia l’ho preparata per/con Loro per trovare temi sempre più impegnativi per il ”tradiziona-le” Concorsino Mensile.Gioia e dolore dei Circoli. E per favorire impegno in “produzione” ma anche per fornire delle linee guida per il ben più proficuo dibattito del dopo-votazione. Dibattito in cui chi avrà approfondito i temi ben più a fondo di come possono fare questi appunti, avrà più “potere” degli eventuali omnipre-senti pressappochisti. Anche se non è il caso del CFC (la mia Seconda Contrada..:-) Ne riporto qui una sintesi da questo numero

“...la Retorica è come le scintille azzurre che fa la dinamo...”Ernest Hemingway

LE FIGURE RETORICHE E LA FOTOGRAFIA

ricerca e foto di Gigi Lusini/2014

LE FIGURE RETORICHE E LA FOTOGRAFIA

FIGUREDI

AMPLIFICAZIONEORIZZONTALE

Servono ad aggiungere

PARANOMASIA

PARALOGISMO

RIPETIZIONE

RIPETIZIONEDal latino: repeto = ripetere, richiamare

Consiste nel ripetere, nel corso di una frase, una stessa idea o una stessa parola, sia identica, sia mediante dei sinonimi o attraverso più libere varianti espressive.Serve a richiamare l’attenzione sul concetto, sviluppandolo nel nucleo della frase.Esempio: “Fin quando giocherai? Fin quando ti divertirai?”

DEFINIZIONE

ENUMERAZIONE

LE FIGURE RETORICHE E LA FOTOGRAFIA

FIGUREDI

CHIARIFICAZIONESEMANTICA

Dal latino: enumero = esporre

Consiste nella accumulazione di una serie di elementi che si riferiscono alla stessa idea che si vuole esprimere o che si è espressa. E’ solitamente usata come “ricapitolazione” degli argomenti che si sono trattati o che si intende trattare.Esempio: “Radici, tronco, foglie, frutti sono gli elementi della pianta, come abbiamo visto”.

ENUMERAZIONE

LE FIGURE RETORICHE E LA FOTOGRAFIA

FIGUREDI

DILATAZIONESEMANTICA

ANTITESI

CHIASMO

EPIFONEMA

IPERBOLE

LUOGO COMUNE

SIMILITUDINE

ANTITESIDal greco: mettere contro

E’ un tipo di allargamento del discorso o dell’idea che consiste nella contrapposizione di due parole o di due pensieri. Serve, normalmente, per esaltare entrambi o quello che si reputa più importante.Esempio: “Caro con gli amici, terribile con i nemici”.

LUOGO COMUNEDal latino: locus communis

E’ un’affermazione che pretende un valore di “sentenza” valida come norma universalmente riconosciuta, sia per la conoscenza del mondo, sia come rilevante norma di vita stessa.Esempio: “Venezia è bella, ma io non ci vivrei”.

LE FIGURE RETORICHE E LA FOTOGRAFIA

FIGUREDELLA

OMISSIONE

LITOTE

PRETEREZIONE

RETICENZA

LITOTEDal greco: semplicità

Si ha quando, invece di esprimere un giudizio o un’idea, si nega il suo esatto contrario, attenuando con senso lievemente ironico, delle parole troppo brusche.Esempio: “Non è certamente un’aquila” per dire “E’ un po’ tonto”. O “Il mondo è dei giovani “ (ironico/critico)

LE FIGURE RETORICHE E LA FOTOGRAFIA

FIGUREDELLA

SOSTITUZIONE

ALLEGORIA

ANTONOMASIA

IPOTIPOSI

METAFORA

METALEPSI

METONIMIA

PERIFRASI

PERSONIFICAZIONE

SINEDDOCHE

ALLEGORIADal greco: parlare in modo diverso

Consiste nella sostituzione di un intero pensiero (e dei concetti che lo compongono) mediante un altro pensiero che si trova in rapporto di somiglianza con quello che si vuole intendere.Esempio: “La farina del diavolo va tutta in crusca”

IPOTIPOSIDal greco: immaginarsi, disegnare con pochi tratti

E’ un modo vivacissimo di rappresentazione della realtà che si sta descrivendo, fatto con tanta evidenza che sembra si svolga sotto i nostri occhi nel medesimo momento in cui viene narrato.Esempio: “eccolo che entra, si toglie il cappello e storce la bocca…”.

METONIMIALa metonimia (dal greco metá “trasferimento” e ónoma” nome” = “scambio di nome”) è una figura retorica (di contenuto) che consiste, nell’espressione di un concetto per mezzo di una parola diversa da quella propria, ma ad essa legata da una relazione di contiguità o di interdipendenza logica o materiale. Si distingue dalla metafora (che è più libera e tiene conto di somiglianze anche vaghe), perché, nella metonimia, la parola sostituente appartiene allo stesso campo semantico della sostituita o le due parole hanno un rapporto di causa/effetto o un legame di reciproca dipendenza (contenente/contenuto, occupante/luogo occupato, proprietario/proprietà materiale o morale, ecc.). La metonimia arricchisce il senso delle parole proprio perché instaura collegamenti con ciò che non è enunciato e che risulta evidente attraverso la metonimia. La metonimia può essere realizzata anche sostituendo una parola con più parole di uno stesso campo semantico:droga = polvere bianca; petrolio = oro nero.Quando la connessione tra le due parole è di tipo quantitativo, ad esempio la parte per il tutto, la metonimia prende il nome di sineddoche.

La CUCINA DI VITA

SINEDDOCHELa sinèddoche (dal greco syn, “insieme” e dékhomai, “ricevo” = ricevere insieme) è una figura retorica (di contenuto), che consiste nell’uso in senso figurato di una parola al posto di un’altra. È affine alla metonimia, dalla quale si distingue perché il rapporto fra il termine impiegato e quello sostituito non è di tipo qualitativo (logico) ma quantitativo.Si ha dunque sinèddoche quando si usa:il tutto per la parte: l’Europa (i paesi dell’Unione) ha deliberato; Italia batte Germania 2-0 (intendendo le rispettive squadre nazionali di calcio), scarpe di vitello (intendendo le scarpe in pelle di vitello);la parte per il tutto: son rimasti senza tetto (senza casa), bocche (persone) da sfamare;di una qualità/caratteristica per il tutto: il ferro (spada);del singolare per il plurale e viceversa: l’Italiano (inteso come persona) all’estero (gli Italiani all’estero), la servitù (per un solo domestico);del genere per la specie e viceversa: felino (gatto), mortali (uomini), pini (conifere), pane (cibo).

pensierino (piccolo passatempo x le vacanze)(a grande richiesta dopo i successi di novembre, eh eh)

seguiranno altri...

APPUNTAMENTI DA NON PERDERE IL PROGRAMMA

novembre - dicembre 2014

5 NOVEMBRE

21 NOVEMBRE

5 DICEMBRE

19 DICEMBRE

PROIEZIONE del Film Documentario PIPOLO & PIZZIIL Mondo Cafonal della Fotografiaa cura di Costanza Maremmi

Incontro con l’Autore: LUCA LISERANIViaggiatore AnalogicoIl BIN LADEN della pellicolaUn Fotografo che ha partecipato alla storia della Foto Amatoriale Senese degli ultimi 40 anni

GEOCACHINGquesto semi-sconosciutocostruiamo e “nascondiamo” dei cache targati BDI

la CAMERA CHIARA - NewsLetter del Circolo Culturale La Bot-tega dell’Immagine di Siena. Redatto in proprio - Settembre 2014

CENA DEGLI AUGURIsintesi e propositi“progetti singoli e di gruppo”APERTA A TUTTI GLI AMICI deLa Bottega dell’Immagine

tradizionale augurio digitale

5/2014

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