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LA BASILICA CATTEDRALE DI FANO 140

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Guido Ugolinila cappella del santissimo sacramento

non posseggo, oggi, sulla cappella del ss.mo sacramento della cattedrale di fano e sul suo im-portante corredo pittorico, notizie nuove e più rilevanti di quelle da me già pubblicate dieci anni orsono nella rivista urbinate Accademia Raffaello, ma torno volentieri sull’argomento, non foss’al-tro per la dolorosa vicenda umana di cui è testi-monianza una delle sue tele1. luigi asioli2 scrive che la cappella fu eretta nel 1379 dal vescovo leone ii, detto leoncino, là dove oggi si trova la cappella della Madonna Pellegrina, e cioè lungo la parete sinistra della cattedrale, in posizione pressoché centrale, e che ebbe la sua attuale sistemazione come cappella absidale della navata sinistra nel 1524. subì mo-difiche nel 1636 per volontà del nobile fanese Gregorio amiani, la cui famiglia ne deteneva il giuspatronato, e nello stesso anno vi fu istituita la confraternita del ss.mo sacramento. rico-struita dopo i gravissimi danni provocati dal terremoto del 1672 fu oggetto di ulteriori re-stauri nel 1789 e ancora nel 1821, restauri volu-ti i primi da Mons. antonio Gabriele severoli, vescovo di fano dal 1787 al 1807 e i secondi da Maria amiani. fu poi riammodernata nel 1905 ed ancora nel 1940, ad opera dei vescovi Vincenzo franceschini (1896-1916) e Vincen-zo del signore (1937-1966). notevolissimi in-fine i danni subiti dalla cappella nel 1944 per la caduta del campanile fatto saltare dai tedeschi in ritirata. fu ancora il vescovo del signore a volere i restauri del ’46 e del ’53, restauri mirati alla sistemazione del pavimento e all’esecuzione di importanti opere di isolamento dall’umidità.tre tele ornano la cappella: il Cristo-Eucaristia (cm 320 x 162), collocato nella parete di fondo, dietro l’altare, l’Ultima cena nella parete sinistra e la Raccolta della manna nella parete destra, en-trambe di cm 242 x 2823.

a – Carità e fede a volere il Cristo-Eucaristia, una figura icono-graficamente nuova, concepita come quella di un Sacro Cuore che, adorato da angeli, regge

con la destra un calice con ostia e indica con la sinistra il proprio cuore, fu il vescovo antonio Gabriele severoli il quale, avendo posto mano, come s’è detto, al restauro della cappella (1789), non si lasciò sfuggire l’occasione per ornarne l’altare con un dipinto di alto contenuto simbo-lico la cui esecuzione, per quanto detto, può es-sere collocata negli anni novanta del settecento, e cioè dopo i lavori di restauro da lui voluti per la cappella. fu il severoli, certamente amante e conoscitore d’arte nonché estimatore del pittore fanese Giuseppe luzi (1753 – dopo il 1820), a commissionargli il dipinto, e fu certamente lui a dettargli il programma iconografico: carità e fede; in altre parole, l’immenso amore di dio per gli uomini (cuore fiammeggiante, lacerato dalla ferita della lancia, coronato di spine e so-vrastato da croce)4 e la luce misteriosa della fede (calice con ostia)5.Quanto al pittore va detto che il luzi a quasi duecent’anni dalla morte è ancora un pittore poco noto e studiato: pochissime le opere cer-te, pochissime le notizie. si sa che nasce a fano nell’anno 1753, ma l’anno della morte, da col-locarsi comunque dopo il 18206, resta ignoto. formatosi a roma presso i valenti professori Car-lo Giuseppe Ratti, Antonio Mengs e Kunterber-ger7, espressione tutti di segnata appartenenza neoclassica, il luzi assimila di quegli artisti cul-tura e tecniche. sue opere certe perché firmate o documentate sono, oltre al Cristo – Eucaristia, il ritratto del Conte Nicola Ferretti Gabuccini (Pi-nacoteca civica di fano)8 e la tela raffigurante I Santi Martino vescovo e Giovanni evangelista del-la chiesa parrocchiale di san Martino del Piano di fossombrone. Gli vengono attribuiti il ritrat-to di Giovanni Ottavio Gabuccini Boccaccio, due ritratti della contessa Ippolita Boccaccio Bonarelli e un San Paterniano di piccole dimensioni (Pi-nacoteca civica di fano)9, il ritratto del Cardi-nale Legato Luigi Pandolfi (collezione privata) e una Madonna bambina (chiesa di santa Maria Maddalena di Urbania)10. accademico e un po’ monotono nell’iterato tralice dei ritratti, tocca

A frontela cappelladel ss.mo sacramento

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momenti di felicità formale nelle opere a sogget-to religioso, dove abili e ben distribuite cromie sortiscono apprezzabili contrasti, facendo talora predominare l’ombra in primo piano al fine di esaltare la luce di quello retrostante, peculiari-tà mutuata, si direbbe, soprattutto dal Mengs, ma con tendenza ad imporsi come scelta di un personalissimo modus operandi. a confermarlo starebbero il San Paterniano della pinacoteca fa-nese, di certo la pala di san Martino del Piano di fossombrone, e il Cristo-Eucaristia in argomen-to, dove la funzione dell’angelo inginocchiato in primo piano è proprio quella di mettere in forte evidenza la luminosa figura del cristo.

b – Rondolino e il suo drammascrive stefano tomani amiani:

Movendo al sinistro lato di questa Chiesa, non è opera perduta il gettare uno sguardo alla Cappel-la del Sacramento spettante alla famiglia Amiani […] Il quadro esposto al lato destro rappresentante il miracolo della Manna nel deserto vuol essere con accuratezza riguardato per la varietà dei gruppi, per la varietà degli scorci, e per la regolarità del disegno. Questa tela che ha pregio altresì per va-stità di composizione, e per bellezza di esecuzione avea diritto di onorevole menzione, e meritava di essere annoverata assai prima d’ora fra le nostre dipinture più estimate; ma di questa mancanza, confermata altresì dal silenzio dell’antica Guida, non altra ragione potrebbe addursi se non il di-fetto di memorie che dassero contezza dell’autore, ignoto a tutt’oggi, attalché rimase inosservata ai colti forestieri, quasi dimenticata dai cittadini. Noi però confidiamo che avvertita quindi innanzi e presa ad esame per le nostre parole da qualche valente perito dell’arte, ci sarà dato determinarne il dipintore che al detto di taluni intelligenti non dovrebbe uscire dalla cerchia della Scuola Carrac-cesca. L’altro pur esso uscito da incognita mano che gli sta a fronte mostra effigiata l’ultima cena del Redentore, buona imitazione, o meglio forse copia di Federico Barocci11.

lo stesso tomani amiani indica poi in una po-stilla il nome di un possibile autore della Raccolta della manna:

21 settembre 1866 – In un mss. del Marchese Amico Ricci conservato nella Biblioteca di Mace-rata trovo esplicitamente dichiarato che il Quadro rappresentante il Miracolo della Manna è lavoro di Antonio Barbalunga da Messina12.

franco battistelli, curatore e commentatore della Guida del tomani amiani, alla nota 138 precisa:

L’autore dell’interessante dipinto rimane tuttora ignoto, né è provata l’attribuzione a Lucio Massari che qualcuno ha voluto avanzare. Anche l’attribu-zione al messinese Barbalunga di cui accenna il To-mani Amiani in nota è ancora da provare13.

e, relativamente all’Ultima cena, alla nota 139 scrive:

Anche l’autore di questo dipinto resta tuttora ignoto; palese, comunque, l’influsso baroccesco14.

allo storico fanese tomani amiani va senz’altro riconosciuto il merito di essersi accorto che i due dipinti sono opere di alto livello qualitativo, me-ritevoli di considerazione e di attento studio. se è vero infatti che non possono riscuotere molto credito tentativi di assegnazione a domenico Zampieri (il domenichino), autore, nella stessa cattedrale, degli affreschi della cappella nolfi, o al pesarese simone cantarini,15 va da sé che l’aver soltanto potuto ipotizzare paternità di tale levatu-ra non può che portare a sottolineare la pregevo-lezza delle opere. all’asioli, impegnato nella ricostruzione delle vi-cende storiche della cappella, sfuggono le prezio-se indicazioni delle ‘visite pastorali’ relative agli anni 1621 e 162516. da esse conosciamo che la cappella detta del crocifisso nel 1619 è giuspa-tronato della famiglia amiani, e che nel 1621 il vescovo tommaso lapi, riferendosi alla stessa

Giuseppe luzi, Cristo-Eucaristia, cappella del ss.mo sacramento, sopra l’altare

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cappella, non la dice più “del crocifisso”, ma “del ss.mo sacramento” ([…] factam orationem ante altare Ss.mi Sacramenti). il successore del lapi, il vescovo francesco iii boncompagni, nel 1625 fa annotare: […] Cappellam ampliatam restauratam, et ornatam per reverendum D[ominum] Lapium antecessorem eiusque sumptibus et pro loco sue se-pulture.sono indicazioni asciutte, stringate, ma tali da consentirci alcuni punti fermi circa la datazione dei dipinti, e cioè:a – la cappella del crocifisso diventa cappella del sacramento tra il 1619 e il 1621 per volontà di tommaso lapi, vescovo di fano dal 1603 al 1622;b – alla morte del lapi, per testimonianza del successore boncompagni, la cappella risulta da lui, dal lapi, ampliatam restauratam, et ornatam;c – alla copertura delle spese per detti lavori non provvede la famiglia amiani, che della cappella ha il giuspatronato, ma il lapi (eiusque sumpti-bus) che fa eseguire i lavori per far della cappella il luogo della sua sepoltura (pro loco sue sepulture)17.alla morte del vescovo tommaso lapi dunque, nel 1622, la cappella è “ornatam”, sicuramente dotata cioè anche dei due dipinti, che dobbiamo pertanto ritenere eseguiti fra il 1619 e il 162218. ciò detto non resta che guardare alle due tele un po’ più da vicino e cercare, ove possibile, di mettere a fuoco la personalità dei loro autori o, com’io credo, del loro autore, nella speranza di una possibile identificazione.Giustamente evidenziati, gli squilli barocceschi dell’Ultima cena attengono soprattutto alla cen-trale figura del cristo, citazione dall’Ultima cena eseguita dal barocci negli anni 1590-99 per la pa-rete sinistra della cappella del sacramento della cattedrale di Urbino, cappella per la quale il pit-tore avrebbe dovuto eseguire anche una Caduta della manna da collocarsi nella parete opposta, ma che non eseguì per la poca mercede19. Vent’an-ni dopo, o poco più, qualcuno ripropone lo stesso programma iconografico per la cappella del sa-cramento della cattedrale fanese. Vien da pensare

che a riprendere il progetto sia un pittore di certo informato sui fatti urbinati e magari provenien-te proprio dalla cerchia baroccesca. non meno sonori i tracciati dei panneggi in primo piano, certamente meno morbidi di quelli impalpabili del grande urbinate, accostabili, potremmo dire, per la loro decisa geometrizzazione, a quelli di un Vitali, o di un cimatori, allievi tra i migliori del barocci. sono segnali che suonano come dichia-razione di provenienza dell’autore da una precisa scuola, da una precisa bottega, come orgogliosa ostentazione di appartenenza alla cerchia di un maestro col quale si è in familiarità, al punto da poter fare proprio un programma iconografico da lui non portato a termine, ma perfettamente co-nosciuto da chi gli è o gli è stato vicino. Quanto debbano taluni apostoli di quest’Ultima cena ai loro colleghi raffaelleschi dei cartoni della Pesca miracolosa20, non solo per tipologia fisio-nomica, ma anche per l’agitata forza interiore, o quanto permanga nel braccio del canuto aposto-lo seduto in primo piano a destra di quello del nevrotico ossesso della Trasfigurazione vaticana è visibile a tutti. Quel braccio, nel suo iter, passa dall’indemoniato raffaellesco al bonario servo che nell’Ultima cena del barocci ripone le stoviglie nella cesta, assecondando paziente i capricci del fanciullo che gli rifiuta il piatto che ha in mano, e torna infine a comparire nelle opere degli epigoni baroccesco-raffaelleschi che continuano a trascri-verlo e a riproporlo, tant’è che, oltre all’apostolo dell’Ultima cena, esso mi pare connoti, ormai pri-vo però di ogni isterica pulsione, anche il giovane accovacciato in primo piano nella opposta tela della Raccolta della manna dove, pur tra le vistose ascendenze carraccesche di cui si dirà, non sono assenti né raffaellismi né baroccismi. a chi infatti se non all’omero del Parnaso della stanza del-la segnatura può essere ricondotto il Mosè della Raccolta della manna? a chi se non a una delle muse dello stesso Parnaso può essere apparen-tata la donna a capo coperto che sta all’estrema destra, vicino a quella col bambino in braccio21? Meno vistose, ma non meno presenti, le simpa-

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tie baroccesche, che suggeriscono di guardare al bambino dormente in braccio alla madre come ad uno stretto parente di quello della Madonna Albani. la madre del bimbo invece, nel suo im-provviso rivestirsi di verità carraccesca, si svuota dell’intensità affettiva, della dolcezza, dell’elegan-za che sono del barocci per approdare ad una più realistica e popolana aggressività. decisamente prevalgono qui, nella Raccolta del-la manna, influenze di ascendenza carraccesca. È ad annibale carracci che bisogna guardare per ritrovare le sorgenti e gli stimoli che conducono il suo autore ad esprimersi in un linguaggio tan-to chiaro e semplice, tanto diretto e immediato nel racconto da suggerire un quadro di vita che si

svolge in un clima di pacata serenità, lontano dal-la chiassosa e tumultuosa drammaticità dell’Ulti-ma cena. È all’Elemosina di S. Rocco (dresda, Ge-maldegalerie) che bisogna guardare, alla Natività della Vergine (louvre) eseguita da annibale alla fine del ‘500 per la basilica di loreto, agli angio-letti della Deposizione (louvre) che agli inizi del ‘600 era visibile a roma nella cappella Mattei in san francesco a ripa, alla Bottega del macellaio (oxford, christ church), è alle acconciature del-le veneri e delle maddalene carraccesche che biso-gna guardare per cogliere fino in fondo i modelli di riferimento del pittore, modelli che orientano, e direi significativamente, a far considerare i due dipinti come opere di un solo eclettico autore.

terenzio terenzi detto “rondolino”, Ultima cena, cappella del ss.mo sacramento, parete sinistra

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neppure l’Ultima cena infatti è scevra da ascen-denze bolognesi. Pur dichiarando a gran voce le sue parentele baroccesche e raffael lesche, l’autore non si fa scrupolo di palesare i suoi ammicca-menti alla grande arte carraccesca e reniana. si può dire semmai che nell’Ultima cena, eccettuata la figura del cristo, derivazione diretta dal baroc-ci, la citazione si fa meno acritica, meno epider-mica e immediata, più interiorizzata e rimeditata. Pur reniani nelle folte e scomposte capigliature, pur agghindati di svolazzanti drappi barocceschi, gli angioletti che si librano in alto son passati at-traverso il filtro di una forte rielaborazione per-sonale, proprio come le figure di alcuni apostoli: valga per tutti, alla destra di cristo, quella di san Pietro, la cui faccia barbuta e la cui bronzea te-sta calva ci ricordano quella di loth nel dipinto Loth e le figlie realizzato da Guido reni, verso il 1615/16, per la chiesa di san domenico a bolo-gna. e ci sono poi i colori degli abiti. non par-lo tanto del mantello giallo di san Pietro, una costante nella pittura italiana, ma della sua veste blu, e parlo del manto rosso di san Giovanni e di quella sua veste color verde scuro. Quei co-lori qualificano sempre, nella pittura di anniba-le carracci, gli apostoli Pietro e Giovanni, e dal carracci passano, intrisi di più viva luce, al reni e arrivano al nostro, che li recepisce e li ripropo-ne come inderogabili codici iconografici. di lì a poco anche il cantarini (Pesaro, 1612 – Venezia, 1648), nella vicina chiesa di san Pietro in Valle, in quel capolavoro che è il San Pietro che risana lo storpio, vestirà gli stessi apostoli degli stessi colori e sarà stimolato dalle lucide e bronzee epidermidi craniche del nostro pittore ancor più di quanto non lo stimoleranno le luminose cromie reniane della Consegna delle chiavi, già da tempo (1622 ca.) sopra l’altar maggiore della chiesa.di luce veneta brillano le architetture del fondo dell’Ultima cena, saggio non tanto di perfezione prospettica, ché tali forse non sono, quanto piut-tosto elementi di uno spazio aulico che esalta nei rapporti dimensionali con le figure l’importanza di quest’ultime, uno spazio le cui strutture, ben

definite nei contrasti da luci esterne, lasciano in-travedere alberi e cieli di veronesiana memoria. Vero invece di verità nordica è il paesaggio in controluce della Raccolta della manna, paesaggio che nei cupi colori delle ultime montagne, sovra-state da basse e nere nubi con improvvisi scrosci d’acqua, e nel livore delle rocce più prossime, sul-le quali si stagliano le sagome di alberi frondosi, di pini e di abeti talora secchi e persino caduti a terra, ha ben poco di desertico, e richiama piutto-sto visioni di paesaggi nordici, fiamminghi.Una cultura certamente notevole e vasta che per-mette al nostro pittore – sono certo ormai che uno sia l’autore dei dipinti, entrambi imbevuti della stessa cultura ed esprimenti entrambi un identico metodo operativo – di muoversi con rapidità e disinvoltura fra i tracciati più vari e in-teressanti dell’arte figurativa del suo tempo. cre-do non ci sia bisogno di andare troppo lontano per trovare una personalità che risponda a questi requisiti. frugando fra le locali presenze che in-torno agli anni 1619-1622 – questi sono, come s’è visto, i possibili anni di esecuzione dei dipinti – potrebbero presentarsi quali credibili candida-ture alla paternità delle due opere, una ne emerge con prepotenza, quella di terenzio terenzi detto il rondolino (Pesaro, 1575 ca. - 1621 ca.)22.fu, il rondolino, una singolare figura d’artista. figlio di un maiolicaro, mosse nella bottega pa-terna i primi passi e lì conobbe modelli e disegni che in abbondanza circolavano nelle botteghe maiolicare, dove venivano comunemente usati per l’istoriato. “fu allievo del barocci, ma si for-mò specialmente su raffaello e su tiziano. detto ‘rondolino Pesarese’, lavorò soprattutto a roma ed è rimasto famoso come falsificatore di quadri. nell’urbe, raccomandato dal compaesano cardi-nale francesco Maria del Monte, fu al servizio del cardinale Peretti di Montalto, nipote di sisto V”23. a roma lavorò per le chiese di san silve-stro in capite e di sant’eligio dei ferrari, e nelle Marche suoi lavori si trovano in numerose chiese di Pesaro, fossombrone, loreto, san lorenzo in campo, tavullia, ostra Vetere, loretello, seni-

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gallia ed altre ancora. “la sua attività collaterale, e forse preminente, fu comunque quella di imitato-re perfetto di composizioni di grandi maestri che spesso spacciava per sue. scoperto dal suo stesso protettore e mecenate cardinale di Montalto, al quale aveva tentato di vendere un falso raffaello, fu scacciato dal suo servizio, cosicché, addolorato e ridotto in miseria, morì ancor giovane sotto il pontificato di Paolo V”24. il crollo di credibilità, la cacciata dal cenacolo del Peretti e il ritorno definitivo a Pesaro – tentativi di far morire il rondolino a roma, dopo simili eventi, credo siano fallimentari: con che faccia!? – sono avvenimenti databili agli anni 1617-18, forse più ’18 che ’17. tutti i biografi citano il

brutto incidente, senza però indicarne la data. Ma il fattaccio resta, è reale, come reali sono i tanti interessi del pittore, che non si fermano a raffaello e tiziano, ma coinvolgono una gamma molto più articolata di nomi e modelli. lorenza Mochi onori segnala la collaborazione dell’arti-sta, nei suoi primi anni di attività, con Giovanni fiammingo (Jan schepers di anversa), quando nel 1603, impegnati entrambi al servizio dei duchi urbinati, si erano ripartiti i compiti: il rondolino dipingeva le figure, lo schepers i paesaggi. Un’esperienza che certo non fu sen-za seguito per il nostro, le cui tracce a distanza d’anni riemergono prepotenti nel paesaggio del-la Raccolta della manna. indubbie anche le tanto

terenzio terenzi detto “rondolino”, Raccolta della manna, cappella del ss.mo sacramento, parete destra

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decantate influenze raffaellesche, sulle quali non è il caso di insistere, e quelle venete le quali trova-no giustificazione negli insegnamenti che venne-ro al rondolino dalle opere di claudio ridolfi, di Jacopo Palma il Giovane, del Veronese, del tizia-no. indubbia soprattutto, dopo il 1610, la svolta in direzione carraccesca, svolta decisamente te-stimoniata dal dipinto raffigurante la Madonna col Bambino e i SS. Paolo, Nicola di Bari, Maria Maddalena e Caterina d’Alessandria, eseguito per la chiesa romana di san silvestro in capite, ope-ra nella quale, come precisa il Mancini25, le due sante sarebbero una ripresa diretta dai modelli di annibale carracci. e se veniamo al raffronto del-le due tele della cattedrale fanese con le opere che il terenzi lascia nelle varie chiese dell’alta Mar-ca ci convinciamo ancor più che le concordanze stilistiche e culturali presenti da sempre nel suo idioma contrassegnano fortemente i dipinti della cappella del ss.mo sacramento. l’Ultima cena e la Raccolta della manna documentano insomma un percorso formativo che meglio non potreb-be rispondere a quello che ormai viene indica-to come l’iter dell’artista pesarese, e si collocano nell’ultimissima fase della sua attività, quella che segue alla brutta vicenda romana della tradita fi-ducia del suo mecenate e al ritorno a Pesaro. nei dipinti fanesi il rondolino ripercorre le tap-pe che lo hanno fatto pittore apprezzato non solo in periferia, ma nella colta e sofisticata roma ba-rocca. Gli esordi barocceschi, le predilezioni raf-faellesche, le influenze venete e fiamminghe, la ‘svolta carraccesca’, tutto è rivissuto, riproposto e quasi passato in rassegna, in una specie di ‘sum-ma’. siamo al testamento spirituale di un artista eclettico e informato, intelligente e consapevole, la cui fiducia nelle proprie capacità lo porta ad una pericolosa sovrastima di sé, pagata a caro prezzo. Un artista che, nonostante tutto, ci è sim-patico, non tanto per il truffaldino che è in lui, ma per quel suo essere giocatore fino in fondo, autentico e spregiudicato, che nell’eccitamento del gioco non esita a buttare sul tappeto verde anche la propria reputazione. egoisticamente

parlando possiamo solo essere grati a quella for-tuna che d’improvviso, com’è nella sua natura del resto, gli volta le spalle e lo obbliga a ripiegare su se stesso, lo costringe a riconquistare, proprio in periferia, la fiducia dei committenti. in una pa-rola a ricominciare da capo, con l’animo amaro per il perduto e con addosso la vergogna per il tradimento dell’amico benefattore. ciò ha fatto sì che il terenzi sia potuto giungere, proprio nel-le opere fanesi, a dimostrare il meglio delle sue possibilità e abbia potuto darci, nella stupenda Ultima cena, il suo canto autobiografico più alto e drammatico.emarginata dal gruppo degli apostoli che discu-tono animatamente, isolata e inquietante all’e-strema destra, la figura di Giuda, torva e barbuta, in posizione frontale per cercare un dialogo con l’osservatore, è stranamente ammantata di ros-so. stranamente, perché di norma il colore del mantello di Giuda è il giallo, come avviene per san Pietro. nella sua bivalenza infatti il giallo si carica di valori diametralmente opposti: tonalità chiare o dorate per i valori di bontà, fede, intui-to; tonalità sporche, scure, per indicare perfidia, inganno, slealtà, tradimento. nella simbologia cristiana, scrive J.c. cooper, “il giallo dorato de-nota la sacralità; la divinità; la verità rivelata; la ‘Veste della Gloria’; usato per le festività dedicate ai confessori. il giallo spento denota tradimento; inganno; gli ebrei; gli eretici; Giuda iscariota”26. come si vede, lo stesso colore, che col tempo ha finito non di rado per perdere le connotazioni di dorato e di scuro, di chiaro e di spento, unifor-mandosi in una fuorviante monocromia, identi-fica personaggi tra loro altrettanto opposti. Ma il rosso non è proprio il colore di Giuda. che ci fa allora qui Giuda vestito di rosso? e per giunta atteggiato anche a suggerire, in quei suoi rimandi tizianeschi, l’immagine dell’ecce Homo?il rosso è il colore del potere, della forza, del san-gue, del martirio. il mantello rosso gettato sul-le spalle di un cristo ammanettato e flagellato, eppur coronato (di spine), lo identifica come re, come uomo di potere, pur nell’ironia di una real-

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tà che lo vede vilipeso e deriso, vittima sacrificale. si direbbe insomma che il Giuda di quest’Ultima cena sia fuori dalla comune logica iconografica e non sia un Giuda fino in fondo, ma un ambiguo miscuglio in cui possiamo leggere avidità (la bor-sa dei danari stretta dalla mano destra) e perfidia (lo sguardo torvo, ma anche perso nel vuoto), autodenuncia e autopunizione (il volontario am-manettarsi, quella volontaria immobilizzazione di mani e piedi con cui parrebbe venir dichiarata l’impossibilità o la ripulsa a nuocere ancora) e il dolore, il peso del disprezzo degli uomini (il man-tello rosso e quello sguardo, s’è detto, perso nel vuoto). Un Giuda che in fin dei conti è un ‘po-vero cristo’, un malandrino sì, ma un malandrino che è anche un uomo segnato dal dolore. Que-sto è l’uomo che si nasconde dietro la figura di Giuda, e le realistiche connotazioni fisionomiche suggeriscono di guardare all’evangelico traditore come ad un vero e proprio ritratto, l’autoritratto stesso del rondolino. È lui il Giuda ‘povero cri-sto’, il traditore ‘uomo di pena’.Quali accordi programmatici possano essere in-tercorsi fra il vescovo committente tommaso lapi e il terenzi, o quanto mirati possano essere stati, sul versante iconografico, i suggerimenti del prelato all’artista non sappiamo. Quel ch’è certo è che al pittore, pur restando all’interno di una rigorosa ortodossia, è stata concessa notevole li-bertà d’azione, tale da consentirgli di narrare tra le pieghe della raffigurazione evangelica l’intera parabola della sua vita; quella parabola che lo ha visto giovane di belle speranze (il giovane di spalle dalla testa ordinata e dalla faccia pulita all’estrema sinistra, pendent di Giuda, ma suo esatto contra-rio iconografico, e tuttavia già vestito, lui sì, del mantello di colore giallo spento, un Giuda in fie-ri, predestinato a diventare tale) essere presentato (l’entusiastico gesto dell’apostolo con la mano tesa verso il cristo27 è quanto mai eloquente) al potente cardinale e venir accolto nella cerchia dei suoi eletti (il cenacolo di cristo è facilmen-te leggibile come alludente al gruppo di privile-giati ammessi nella villa del cardinale Peretti di

Montalto) e che ora, caduto in disgrazia, lo vede identificarsi con il traditore Giuda e denunciare al tempo stesso la sua ignobile natura di uomo e la sofferenza, il dramma, per una condizione divenuta insopportabile, una condizione dove unico spiraglio di riscatto, unica luce è l’invito di Giovanni a tornare a far parte della mensa.la figura di Giovanni merita anch’essa d’essere guardata con attenzione. il suo distrarsi da cristo proprio nel momento più importante, l’istitu-zione dell’eucaristia, e il suo interessarsi a Giuda non sarebbero concepibili se non fossero motivati da una precisa ragione, quella appunto di invitare Giuda a non disperare e a tornare ad assolvere con fiducia i compiti a lui affidati. Un invito, quello dell’apostolo prediletto, che parrebbe dirla lunga sui rapporti certamente amichevoli che dovettero esserci tra il vescovo e il pittore, sulla fiducia e sul-la considerazione nutrite dal vescovo nei confron-ti del pittore che a roma s’era già fatto apprezzare come artista di tutto rispetto. È impossibile non cogliere nel dolce sguardo e nell’invito di Giovan-ni i segni di un’assoluzione e di una riabilitazione totale da parte del vescovo lapi, e dunque della chiesa, nei confronti del pittore che ha la forza di confessare il suo peccato; potremmo anzi dire la forza e il tempo perché, portati a termine i di-pinti, o meglio, senza aver potuto neppure ulti-mare il secondo dei due dipinti, la Raccolta della manna – la figura di donna al centro, in ombra, è incompiuta, appena abbozzata, alla prima cam-pitura di colore –, agli inizi del 1621 sarà colto da morte. l’anno dopo (1622) morirà anche il ve-scovo tommaso lapi e sarà sepolto sotto le belle tele da lui volute e per lui stupendamente dipinte dal rondolino in un clima di ritrovata fiducia, che non sollevò tuttavia il pittore dal bisogno di una confessione tanto sincera, tanto spietatamen-te lucida, una confessione, potremmo dire, resa in punto di morte, con in mano i pennelli ancora lordi dei colori che avrebbero dovuto ultimare la Raccolta della manna.l’incredibile autobiografica confessione mi si è palesata all’improvviso, quando ero già sul punto

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di consegnare alla stampa il mio lavoro col titolo “Quanto raffaello e quanto carracci in quei ron-dolino!”. dopo i tanti rovelli, passibili sempre di margini d’ombra, non v’è dubbio, anche quando supportati da piccole e sufficienti congetture stili-stiche28, la lettura di quel tracciato autobiografico è stata emozione ben più forte di quella che avrei provato scoprendo in qualche riposta piega del dipinto la firma dell’autore o in qualche faldone d’archivio un attestato di avvenuto pagamento che comprovasse la paternità del dipinto. È stato come incontrare nell’opera l’artista in carne ed ossa, non solo quello riconoscibile dall’abilità del suo operare, ma quello che riemergeva con la for-za della sua verità fisionomica e con la verità delle sue sciagurate vicende. È stato un brivido che ho sentito corrermi lungo la schiena.

note

1. G. Ugolini, I dipinti della Cappella del Sacramento nel Duomo di Fano, in “accademia raffaello - atti e studi”, i (2004). il presente scritto, che ripropone con variazioni minime quanto già pubblicato in “accademia raffaello”, si arricchisce di una modesta aggiunta e poche note sulla figura del pittore Giusep-pe luzi, autore di una delle opere - Gesù-Eucaristia - collocata sopra l’altare della cappella, opera che nel precedente scritto ve-niva soltanto citata.2. l. asioli, La Cattedrale Basilica di Fano, a cura di i. amaduz-zi, Urbania 1975, p. 49.3. l. asioli, op. cit, p. 49; a. deli, Basilica Cattedrale - Parroc-chia di S. Maria Assunta, Cappella del Santissimo Sacramento, in “restauri”, Quaderno n° 3 della fondazione cassa di rispar-mio di fano (a cura di), f. battistelli e a. deli; G. Gori, Docu-menti sul pittore fanese Giuseppe Luzi, in “nuovi studi fanesi”, fano 1989.4. nel gesto di Gesù che indica il suo fiammeggiante cuore con i segni della passione, si colgono le parole da lui indirizzate a santa Margherita Maria alacoque nella visione-rivelazione da lei avuta nel 1675: “ecco quel cuore che ha tanto amato gli uomini”.5. il calice con ostia che cristo regge e pone in bella evidenza ricorda il dono dell’eucaristia da lui fatto agli uomini e cioè la certezza della sua presenza fra gli uomini sotto le apparenze del pane e del vino fino alla fine dei secoli.6. il prof. Giancarlo Gori (Documenti cit., p. 116), a proposito della tela che sta nella parrocchiale di san Martino del Piano di fossombrone, riferisce: “Il quadro è di tela, e rappresenta S. Martino Vescovo, Protettore e Titolare; e S. Giovanni ante por-tam latinam, e vari angioletti, fatto dipingere da me s[sacerdote]Agostino Pierboni; autore Giuseppe Luzi di Fano Pittore” e, più sotto “l’inventario […] ci fornisce poi altri due dati abbastanza

importanti: la data di esecuzione (o di acquisto): il 1820, ed il prezzo della stessa: scudi 26”. 7. cfr. G. Gori, Ibidem, p. 119. il “Kunterberger” di cui si parla nel documento è certamente cristoforo Unterberger (cavalese, 1732 - roma, 1798), il più giovane tra i pittori (Michelangelo, francesco sebaldo, cristoforo) della nota famiglia alto-atesina, il quale, educatosi prima a Venezia e poi a Verona, come del resto anche Michelangelo e francesco sebaldo, si trasferì poi a roma dove aderì in toto alle idee neoclassiche allora imperanti. Un con-vincente esempio dell’arte di cristoforo è la grande tela (cm 615 x 379) dell’altar maggiore del duomo di Urbino, dipinta a roma nel 1794 e il cui bozzetto è conservato nell’attiguo Museo albani. 8. si veda in La Pinacoteca Civica di Fano, a cura di a.M. ambro-sini Massari, r. battistini e r. Morselli, carifano, fano 1993, la scheda n. 175 redatta da anna Maria ambrosini Massari.9. Ibidem, si vedano le schede nn. 176 e 177 redatte da a.M. ambrosini Massari.10. si veda in Collezioni private a Fano, a cura di i. amaduzzi, n. cecini e l. fontebuoni, la scheda a p. 190. in tale scheda il nome del luzi è avanzato in forma dubitativa anche per la pala della parrocchiale di rosciano di fano.11. s. tomani amiani, Guida storico-artistica di Fano, Pesaro 1981, pp. 115-116.12. Ibidem, p. 115.13. f. battistelli in s.t. amiani, Guida, cit., p. 215.14. Ibidem, p. 215.15. È l’asioli (op. cit., p. 52) a riferirci di tali supposte assegna-zioni.16. sono grato all’archivista sonia ferri per l’aiuto datomi a suo tempo nella consultazione delle Visite pastorali dell’archivio sto-rico diocesano fanese.17. se estranea alle spese relative agli ornamenti della cappella è la famiglia amiani che ne detiene il giuspatronato, a maggior ragio-ne lo è la confraternita del ss.mo sacramento che viene qui isti-tuita solo nel 1636. È questa la ragione per cui, non tanto da par-te della confraternita, ma neppure da parte della famiglia amiani viene avanzata alcuna rivendicazione circa la proprietà dei dipinti. le opere non fanno parte del patrimonio degli amiani, né sono una donazione fatta alla cappella. non c’è traccia dei dipinti ne-gli archivi di famiglia che il tomani amiani avrà certo visto e rivisto per scrivere la sua guida. alle spese dei dipinti provvede il lapi, che una lapide nella cappella così ricorda: d.o.M. / tHo-Mae laPio florentino eP.o fanen ob literarUM / fidei et inteGritatis eXPertaM PraestantiaM / cleMenti Viii aPPriMe caro / et in eiUs leGatio-ne Polonica ad neGotio adHibito / eiUsdeMQ. intiMo cUbicUlario / roMae PaUPerUM et consi-st. aUlae adVocato / aUditoris caM. aP.licae ad ciVilia l.nti / et Per teMPUs Vice aUditori / ad HisPan. reGeM nUncio aPlico desiGnato / et in ecclesia fanen. annos XiX Menses dUos / VirtU-tUM ProMotori eGentiUM Patri Pastori oPtiMo / seX non. iUnii MdcXXii / anno aetatis sUae lXVi dieM fUncto / … r et fratres laPii PatrUo aMan-tissiMo PP.18. la datazione porta all’esclusione del barbalunga (antonino alberti detto barbalunga, Messina, 1600 - 1649) il quale, nato nel 1600, era troppo giovane negli anni che ci interessano per po-terlo pensare già dotato delle vaste conoscenze che l’autore della

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La cappeLLa deL santissimo sacramento

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Raccolta della manna mostra di possedere e, forse, all’età di venti/ventuno anni il giovane messinese non si era ancora neppure af-facciato sulla scena romana, né, forse, aveva ancora incontrato il domenichino, la cui conoscenza avrebbe potuto, successivamen-te, anche legarlo alla cattedrale di fano, dove lo Zampieri aveva dipinto la cappella nolfi.19. Federico Barocci, catalogo della mostra, a cura di a. emiliani, bologna 1975, p. 198. oggi sulla parete destra della cappella del sacramento della cattedrale urbinate è posta una Adorazione dei Magi. “il quadro, per tradizione attribuito all’Urbinelli (Giovan battista Urbinelli, sec. XVii - XViii), fu posto in questa cappella nei primi anni dell’ottocento, in sostituzione della tela rappre-sentante la Caduta della manna, opera di alessandro Vitali, che si era rovinata” (f. negroni, G. cucco, Urbino, Musei Albani, edizioni calderini, 1984). insomma, il progetto non portato a termine dal barocci era stato ultimato da uno dei suoi allievi più quotati. sull’argomento vedi anche f. negroni, Il Duomo di Ur-bino, Urbino 1993, p. 101 e segg.20. i cartoni raffaelleschi sono conservati a londra, nel Victoria and albert Museum. È ben visibile nell’atteggiamento di san Pietro il modello di riferimento dell’apostolo a mani giunte in primo piano.21. si direbbe che il pittore conosca molto bene gli affreschi della stanza della segnatura di raffaello, o quanto meno ne conosca i disegni. Questa figura di musa avrebbe potuto essergli nota dall’affresco vaticano o da qualche copia del disegno che trovasi oggi a londra, proprietà di Mrs. normann-colville, come del resto può dirsi per l’uomo accovacciato a sinistra in primo piano, per il quale parrebbero indubitabili i legami con un altro disegno di raffaello, l’Uomo poggiato a terra, oggi nelle raccolte dell’ash-molean Museum di oxford, disegno anch’esso legato alla stanza della segnatura, e precisamente ad una figura vicina ad euclide (bramante) nella Scuola d’Atene. i due disegni sono pubblicati in Raffaello, i disegni, a cura di P. dal Poggetto, firenze 1983, ai nn. 348 e 378.22. Per un riscontro sui dati anagrafici e cronologici del rondoli-no e per un profilo sull’iter culturale della sua pittura si vedano, di l. Mochi onori, Terenzio Terenzi (detto il Rondolino), in “le arti al tempo di sisto V”, cinisello balsamo (Mi) 1992, pp. 421-430 e Terenzio Terenzi detto il Rondolino, riproposta ampliata del sag-gio precedente, pubblicata in Nel segno di Barocci, Milano 2005, pp. 234-247. 23. Dizionario storico biografico dei marchigiani, Jesi 1993, s.v.24. Ibidem. Questi pochi cenni biografici sono sufficienti a in-quadrare la figura colta e spregiudicata ad un tempo del pittore.25. l. Mochi onori, op. cit.26. J.c. cooper, Dizionario dei simboli, seconda edizione, Padova 1988. Vedi anche: Dizionario dei simboli, b.U.r.27. limitatamente al gesto va detto che esso sarà ripreso in ma-niera quasi identica, ma assai meno entusiastica e convincente perché meno sentita, da Giovanni lanfranco (terenzo di Parma, 1582 - roma, 1647) nell’Ultima cena (cm 229 x 426) da lui ese-guita qualche anno più tardi – federico Zeri, in una sua scheda tecnica, data il dipinto al 1624-25 – per la basilica di san Paolo fuori le Mura e oggi conservata nella national Gallery of ireland di dublino. la cosa non sorprende più di tanto se si tien con-to che il lanfranco, negli anni 1615 e 1616, lavora anche lui a roma per il cardinale Peretti di Montalto allorché, insieme ad altri, viene incaricato di eseguire un ciclo di dipinti con storie di alessandro Magno per la decorazione di Villa Montalto Pe-

retti – la villa fatta costruire dal cardinale felice Peretti, il futuro papa sisto V, sull’esquilino, davanti alle terme di diocleziano, fu poi distrutta per far spazio alla stazione termini. in quegli anni, 1515-16, sicuramente conosce il rondolino, supposto che i due non si conoscessero già, ed è presumibile che contatti possano esservi stati anche dopo il 1617-18, anni più che probabili per il fattaccio e per il ritorno definitivo del rondolino a Pesaro, non foss’altro in occasione di qualche spostamento del lanfranco in zone d’operazione italiane più settentrionali. sempre limita-tamente alla singolarità del gesto in argomento, mai però così mirato e significativo come nella tela fanese e tale da non lasciare spazio ad ascendenze di qualche credibilità, un timidissimo sug-gerimento potrebbe essere venuto al nostro, suppostane la cono-scenza, dalla figura di uno degli apostoli che, nell’Ultima cena eseguita da battista franco detto semolei (Venezia, 1498-1561) per il duomo di osimo (battistero), si trova collocato a tavola in quasi identica posizione, od anche, e per le stesse ragioni, dalla figura di apostolo che, nell’Ultima cena affrescata da simone de Magistris (caldarola, Mc, documentato dal 1538 al 1612) nella chiesa di san francesco di Matelica, alzatosi da tavola per poter parlare al Maestro un po’ più da vicino, viene a trovarsi nascosto da quello seduto al fianco di cristo.28. a sostegno di impossibili assegnazioni al rondolino si potrà ribadire che i due dipinti presentano ascendenze bolognesi tan-to marcate da risultare incompatibili col suo modus operandi. chiedo: e la decantata ‘svolta carraccesca’? Una svolta è una svol-ta, lascia un segno, pesa, così come pesano, nella formazione del rondolino, i barocci, i raffaello, i veneti, i cavalier d’arpino e via dicendo. Ma quanto debbano pesare queste componenti a san silvestro in capite (roma), a santa Marina (Pesaro) o nel-la cappella del sacramento (fano) chi lo decide? Personalmente credo sia molto difficile, per tutti, davanti ad un pittore tanto eclettico qual è il nostro, presumere di poter calcolare le giuste percentuali di ascendenze che, in un preciso momento operativo, debbano di necessità riscontrarsi nei suoi cocktail stilistici, spe-cie a maturità conseguita, quando, in virtù delle tante esperienze fatte e dei tanti maestri visitati, la possibilità di muoversi fra le pieghe di un bagaglio figurativo ampio, accumulato nel tempo e ormai saldamente assimilato, consente all’artista spazi espressivi, organizzativi ed emozionali altrettanto vasti e complessi, tali da rendere irrilevante se la presenza di ottocento grammi di baroc-ci, due etti di raffaello e un chilo di carracci, o di mezz’etto di Palma il Giovane, tre chili di barocci e sei etti di Giovanni fiam-mingo siano essenziali per avallare o smentire un’attribuzione. chi decide la giusta miscela, lo studioso, in base ai suoi calcoli, o l’artista, in ragione del suo mestiere e del suo sentire? e al di là di tutto questo, che dire del dato iconologico, purtroppo sempre in second’ordine nella considerazione di tanti studiosi? Può esso suggerire letture alternative e parallele almeno altrettanto convin-centi e valide? se no, perché non dirlo? se sì, perché tacerlo, dal momento che contributi siffatti, quando proposti con onestà e competenza, sono sempre e comunque tasselli validissimi, quan-do non determinanti, in direzione della verità? il mio occhio vale solo per me, com’è per ognuno di noi, ma un Giuda ‘povero cri-sto’ è un fatto, per tutti.