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LO STATO MONDIALE . ..

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Prefazione d i Q uirino Pr incipe

Page 2: Junger Ernst_Lo Stato Mondiale

Titolo originale:

Der Wettstaat. Organismus und Organisation

ISBN 88-7746-944-7

© Ernst Klett, Stuttgart 1980 © 1998 Ugo Guanda Editore S.p.A., Strada della Repubblica '6, Parma

ERNST JUNGER LO STATO MONDIALE

Organismo e organizzazione

Prefazione di Quirino Principe Traduzione di Alessandra ladicicco

UGO GUANDA EDITORE IN PARMA

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Prefazione

Ernst Jiinger, nel cui pensiero ricorre spesso l'i­dea di Schlezfe, di svolta elusiva, è stato egli stesso un'elusione della natura, e non soltanto per la sua longevità che nella sua sorprendente immagine fi­sica era soltanto un segno esteriore, ma soprattut­to per la forza con cui il suo lavoro di scrittore resiste al tempo. Dopo ottant'anni di milizia sul fronte della scrittura, la sua opera è come fuori dal tempo e dalla storia del Novecento, eppure pochi scrittori hanno decifrato con tanta operosi­tà il nostro secolo ormai morente, i suoi tratti fi- . sionomici e la selva dei suoi significati. In verità, non tanto di resistenza si deve parlare, quanto d'indipendenza. L'opera di Jiinger resiste al tem­po poiché dal tempo e nel tempo il suo autore non si è lasciato coinvolgere. Una qualità eviden­te degli scritti jiingeriani è un graduale spostarsi di tema in tema, come attraverso una tranquilla crescita organica, ma il percorso non è rettilineo: è piuttosto una spirale. O forse esiste in essi sol­tanto una serie di pochi temi primari, davvero «massimi sistemi », che nel tempo si sono arric­chiti l'uno dell' altro, illuminandosi a vicenda. Grazie a questo spostamento gravitazionale, len­to in apparenza - agli occhi di chi legge Jiinger

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da una vita - e in sé mobile e rapido, a volte ful­mineo, sì da suggerire l'idea del moto degli astri, impercettibile eppure inesorabile per chi lo os­servi da terra e velocissimo nella realtà fisica dello spazio, gli oggetti della riflessione jiingeriana cor­rono lungo una spirale e ritornano. Così in que­sto libro, 10 Stato mondiale, ritorna a dieci anni di distanza l'esame radiografico cui Jiinger aveva sottoposto nel 1950 la patologia nihilistica della politica in Oltre la linea, la celebre conversazione a distanza con Heidegger, ma ritornano anche, dopo ventotto anni, molti temi dell'Operaio, poi rivisitato di nuovo e più direttamente, nel 1964, in Maxima-Minima.

L'indipendenza dal tempo fa sì che lo stile di Junger non suoni mai datato, dò che viene ad­dotto a povertà o addirittura a mediocrità e ad assenza di vero talento di scrittore da chi non ama Jiinger. Tale indipendenza favorisce un'altra qualità, e almeno questa anche i più strenui ridi­mensionatori dovrebbero riconoscergli. È l'atteg­giamento di J unger verso la modernità, intesa es­senzialmente come accelerazione del movimento. Dinanzi a questo tema, che nello Stato mondiale è centrale, l'autore assume lo stato d'animo che Ta­cito rivendicava a se stesso (Annales I, 1): sine ira et studio. Di rimbalzo, è la medesima condizione di spirito con cui un lettore deve affrontare que­sto libro. L'oggettività di Jiinger (che invece al­trove, come nel Trattato del ribelle, compie scelte di campo ultraradicali realizzandole sulla pagina con la retorica del sarcasmo e a volte con lo stile tragico) è qui addirittura imbarazzante. Egli può

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permettersi di mantenere con mano ferma la pro­pria equidistanza di principio poiché l'oggetto privilegiato della sua osservazione non sono tanto i fenomeni quanto i sintomi, i segni, e, là dove si disegnano e si condensano, i simboli, più spesso intesi come immagini simboliche (il confine, la cortina di ferro, le gerarchie degli insetti) in cui prevale ancora la materia circostanziata e stori­cizzata, talora come più precise forme simboliche (il monumento, la stella bianca contrapposta alla stella rossa ma a essa identica nel rapporto tra li­nea e spazio).

Come sa anche il neofita jiingeriano ai primi passi, J iinger non ama il mondo trasformato dalla tecnica, ma della tecnica - e quindi del movimen~ to e dell' accelerazione - ammira la terribile po­tenza. TI «canto delle macchine », oggetto di un indimenticabile capitolo del Cuore avventuroso in seconda versione, è spaventoso come un incubo infernale ma grandioso come una pagina corale di Ligeti. Nessun entusiasmo per la macchina e il macchinismo, naturalmente: reprima, il lettore, la minima fantasticheria su affinità tra J iinger e i fu­turisti. Ciò vale per ogni altro tema su cui si sa­rebbe tentati di fantasticare: la guerra (Nelle tem­peste d'acciaio), la velocità (L'operaio). La tecnica non è innaturale. La mano non è stata inventata dall'uomo, ma le macchine sono gigantesche ma­ni, più potenti della nostra corporea, e il loro fine è lo stesso che vorremmo raggiungere con i nostri arti, con le nostre deboli membra. Intesa come immensa protesi, la tecnica è una mano non me­

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no vera della nostra piccola mano naturale. La tecnica non è forse, anch'essa, «natura »?

Ben altra è la motivazione che induce Jiinger a distanziarsi dalla modernità, e non in blocco, bensì nel discorso propriamente riferito allo Sta­to, all' organizzazione sociale e al dominio delle leggi sull'individuo: se ne distanzia con un tono definibile mediante un ossimoro, con dolorosa oggettività. L'accderazione imposta dalla moder­nità al movimento allenta o aggroviglia, scioglie o recide i legami tra i segni e le cose, tra le parole e il loro significato simbolico, tra i fenomeni e le forme; anzi, rende impossibili le forme. Questo argomento è esposto subito, sin dalle prime pagi­ne, con un'immagine solenne: l'uomo che siede e si erge in uno stato di quiete, il monumento. L'immagine è vanificata, o meglio, è stata pro~ gressivamente vanificata dalla modernità e dal moto di accderazione che la contraddistingue. Così infatti Jiinger apre il libro. Il monumento « sta », ma «dove stiamo oggi? » La domanda fa sorgere la controdomanda: «Ma stiamo poi da qualche parte?» L'idea di «stare» è cancellata dal movimento, e potremmo aggiungere come chiosa al testo di Jiinger la domanda che Marian­ne von Willemer, in una sua poesia, rivolgeva probabilmente all'amico e innamorato Goethe: Was bedeutet die Bewegung?, «Che cosa significa il movimento?» TI movimento, continua Jiinger, non lo possiamo definire un «andare» né un « procedere» e nemmeno un «camminare» (ciò si adatterebbe al ritmo della Tradizione), bensì una crescente «accderazione ». Oggi il monu­

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mento è difficile: un oggetto che non trova posto nd paesaggio, poiché, essendo una forma simbo­lica, si trova fuori posto in un mondo che ha smarrito il sistema di significazione fondato su simboli universalmente riconoscibili. E anche qui noi aggiungiamo una chiosa: per motivi analoghi, oggi è impossibile un'arte «sacra» che abbia credibilità e bellezza, sia essa architettura o pittu­ra o musica. Ciò avviene perché oggi l'uomo non è più insostituibile: nd paesaggio di officina sono in primo piano gli automi. Questa considerazio­ne può suonare stridente in questi ultimi anni o in queste ultime manciate di mesi dd Novecento, in pieno assetto postindustriale e terziario. Ma non si dica: «Ecco, allora ciò vuoI dire che alme­no in questo il discorso di Jiinger è datato! » La forza dell' argomentazione è intatta, e il suo vigo­re si riadatta perfettamente a ciò che nd terziario informatizzato iuxta Internet sta riemergendo. L'orrore (ciò che oggi per noi è l'orrore) di uno Stato mondiale ne è accresciuto, essendo questa nuova forma di cancellazione dell'individualità e della libertà un mezzo dotato di un' ancor più te­tra potenza di dominio.

Date simili premesse, Lo Stato mondiale pro­metterebbe di essere, a partire dalle prime pagi­ne, un viaggio profetico nell'incubo che ci atten­de: lo Stato mondiale che, non avendo dinanzi a sé alternative né vie di fuga, diverrebbe un carce­re assoluto e perpetuo. Ma la realtà, per fortuna, è dialettica senza che le ideologie della dialettica la rivestano di daborati concetti. Ciò che avviene oggi a danno dell'individualità e della sua Gestalt

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nasce proprio da una radice di libertà. Nella for­mazione degli Stati, osserva Jiinger, non è possi­bile rinvenire alcuna forma di progresso. Anzi, se rintracciamo i modelli ermeneutici dello Stato nelle gerarchie interne a ciascuna specie zoologi­ca, a mano a mano che si sale nell'evoluzione ani­male la costituzione degli Stati sembra farsi più rara, e nell'uomo esse nascono soprattutto da atti di liberissima volontà, non da meccanismi istinti­vi. Lo Stato, e la tecnica che ne è strumento, tro­vano resistenza nella famiglia, nell' eros, e ciò si­gnifica forse (ce lo domandiamo) che lo Stato è ma poteva non essere, e che il caso e la libertà, non la necessità, hanno indirizzato lo storia uma­na. «Lo specifico dell'uomo sta nella libertà del volere, il che vuoI dire: nell'imperfezione. Sta nel­la possibilità di rendersi colpevole, di commette­re un errore. La perfezione, al contrario, rende superflua la libertà; l'ordine razionale acquista la nettezza dell'istinto. Una delle grandi tendenze della pianificazione del mondo mira evidente­mente a una tale semplificazione. Possiamo leg­gerlo nella natura come in un libro illustrato. »

Ancora l'idea cara a Jiinger: die Schleife, la svolta che elude. La conclusione del libro, noi non la accettiamo, ma proprio per questo Lo Sta­to mondiale è un capitale oggetto di discussione. L'argomentazione e la finalità dell' autore sono più che giuste; la profezia e il non celato deside­rio turbano il lettore che oggi si affacci al nuovo millennio. La costrittiva oppressione che gli Stati esercitano, tale è il pensiero di Jiinger in questo libro, nasce dal fatto che gli Stati sono molti.

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L'oppressione è uno strumento del sospetto e della rivalità all'esterno: per difendersi dalle insi­die di un potenziale nemico, ciascuno Stato met­te in opera tremendi mezzi di coercizione all'in­terno. Così Jiinger riprende il filo che aveva tenu­to in mano nel suo contributo a Oltre la linea. «Non è sempre stato così, né, si spera, sarà sem­pre così in futuro. Quando lo Stato sulla terra era un'eccezione, quando era insulare, o unico nel senso dell' origine, gli eserciti combattenti erano superflui, stavano al di fuori dell'immaginazione. La stessa situazione deve presentarsi dove lo Sta­to diventa unico nel senso finale.» Lo spaventoso incubo, un mondo unificato dal cupo dominio, una verwaltete Welt in senso horkheimeriano, potrebbe dunque, grazie a un'ipotetica e possibi­le Schlei/e, convertirsi in un luminoso approdo. Ciò potrebbe realizzarsi purché l'individuo, in un mondo privo di forme simboliche, ne produca di nuove, privilegiando, rispetto all' organizzazione e all' ordine, la libertà.

Quirino Principe

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La domanda: «Dove stiamo oggi? » fa innanzi­tutto sorgere la contfodomanda: «Ma stiamo poi da qualche parte? » E evidente che ci troviamo in movimento e, precisamente, in una forma di mo­vimento che non possiamo chiamare propria­mente «andare », né «procedere» e nemmeno «camminare ». Da tempo invece tale movimento si compie accelerando: in crescente accelerazione.

È un presupposto da cui non si può prescinde­re, se si vuole parlare dello stato delle cose. Si in­tende con ciò più che altro una posizione, in sen­so nautico. Si tratta più di una valutazione di cur­ve che di punti; la rappresentazione del luogo dal quale siamo salpati e della meta verso cui siamo diretti è migliore di quella del presente nel quale ci troviamo. Non tanto, dunque, siamo esseri in stato di quiete, né in possesso di un patrimonio, quanto piuttosto organizzatori di piani, sempre coinvolti in grandi progetti; tutto questo si mani­festa nella nostra tecnica, nelle nostre costruzioni e nei nostri giudizi.

L'occhio di chi giudica deve cogliere veloce­mente, sempre più velocemente, oggetti in movi­mento, a prescindere poi dal fatto che lo stesso soggetto del giudizio è in movimento. nche mol­tiplica e acuisce i conflitti, da sempre originati dalla varietà dei caratteri e delle tradizioni, con­flitti che non emergono soltanto nelle differenze di intenzioni e di opinioni, ma raggiungono gli strati più profondi del linguaggio: le parole di­ventano ambigue.

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I Non è possibile oggi pensare l'uomo come un

essere immobile che si erge, siede o troneggia in quanto centro e corona della creazione, come fu

f spesso rappresentato dall' arte e dalla filosofia. Egli si trova in movimento, e precisamente in un movimento che non solo lo attraversa, ma che si compie nonostante e contro di lui. Una situazio­ne di fatto cui è possibile connettere tanto timori quanto speranze.

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In un mondo dominato da un grande movimento generale è necessario interrogarsi su ciò che è possibile e soprattutto sulla parte riservata alla li­bertà del volere. Chi abbia preso una posizione sicura rispetto a tale questione, o abbia semplice­mente raggiunto un livello sufficiente di persua­sione, dispone di una serie di determinazioni in diverse direzioni, teologiche, morali, giuridiche, e può servirsene per dar luogo a una serie di ordi­namenti visibili.

Per natura l'uomo che siede o si erge in uno stato di quiete è avvolto da una più intensa aura di libera volontà rispetto a quello che si sposta ed è in movimento. Oò si rende evidente nelle sta­tue innalzate nell' agorà, nel foro, nelle grandi piazze rinascimentali e barocche: il giudice, il le­gislatore, il principe, il filosofo, il poeta, il con­dottiero, ma anche l'uomo dai buoni principi morali, ritratto in un qualsiasi momento della sua

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vita di uomo libero, rappresentano un punto cen­trale di quiete. Tale personaggio risulta credibile anche laddove si pone come simbolo di un cen­tro situato al di sopra o al di là dell'umano. Senza che vi sia l'intento di rappresentare qualcosa, non è possibile erigere una statua, né è possibile che essa sopravviva nel tempo: anche un monarca co­me Luigi XIV, che poté dire: « Lo Stato sono io », era convinto di rappresentare un'altra potenza, che stava al di sopra di lui. Sul riferimento a tale istanza ulteriore si fonda l'autocoscienza dell'uo­mo che si sente dotato di libero volere. Questa forma di coscienza viene poi trasferita negli ordi­namenti feudali, come fosse un bastone di co­mando che, passando da una mano all' altra, con­ferisce il potere a chi ne è in possesso. TI segno dell'autorità si imprime fin sul volto dell'ultimo pastore.

Come la luce si rende visibile solo nel buio, al­lo stesso modo la libertà del volere risalta rispetto a un altro elemento che le si oppone e la delimita. Senza questo Altro che le impone di forza un li­mite, la padronanza di sé diverrebbe addirittura grottesca, assurda, infame. È una delle ragioni per cui oggi è divenuto così difficile rappresenta­re non solo una figura immobile, in piedi, ma an­che il volto di un uomo.

Tutto questo discorso non va interpretato, co­me si tende a fare di solito, come una questione di qualità o addirittura di morale. La statua di un Colleoni, che appre.zziamo per la sua solida co­scienza di sé, ci dice poco sul rango di colui che è rappresentato, molto invece sul suo tempo. Quel­

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la precisa posizione in cui è ritratto era possibile solo entro la cornice di un ordinamento insieme forte e delimitato, all'interno del quale l'uomo poteva sentirsi centro, indipendentemente dal­l'ampiezza maggiore o minore del cerchio su cui esercitava il suo potere.

Se nella seconda metà del XIX secolo il Rinasci­mento si sviluppò nella figura di una guida, que­sta nacque dal desiderio di un tempo in cui ap­punto tali figure mancavano. Essa derivò da una valutazione ex contrario, da una contraddizione tra il rappresentato e il rappresentante, evidente soprattutto in Burckhardt. Frattanto l'esperimen­to ha dimostrato che siamo divenuti incapaci di rappresentare una simile grandezza plastica.

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Questa grandezza plastica, il monumento del grande uomo, corrisponde in modo particolare a ciò che consideriamo come grandezza storica. Questa a sua volta è strettamente connessa al no­stro modo di interpretare, alla valutazione che diamo della libertà umana. In essa si cela il fer­mento di quel capitolo di storia della terra che consideriamo come «storia del mondo ». Per li­bertà incondizionata, per libertà del volere si in­tende ciò che, in quel periodo, fa risplendere opere e imprese cui furono sacrificate, nelle bat­taglie e nelle sofferenze, vittime innumerevoli. È tale libertà che distingue l'uomo storico, la sua

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arte, il suo diritto, i suoi commerci, tanto dalle popolazioni barbariche, quanto dalle teocrazie, che lo solleva, per la coscienza che ha di sé, al di sopra dei palazzi babilonesi, delle piramidi e dei menhir. Solo per lui e per opera sua è possibile che si dia una storia dello Stato, dell' arte e della cultura; la storia è tanto una sua invenzione, quanto la sua sostanza. li suo è uno sguardo sto­rico: tutto ciò che esso incontra e mette a fuoco, sia pure l'antichità più remota, assume un carat­tere storico.

Tale grado di libertà, tale trasformazione dei valori e dei comportamenti umani presuppone, come origine, una nuova distanza rispetto agli dèi e alle loro esigenze. E in effetti questa libertà co­stituisce il Leitmotiv della storia del mondo; essa conferisce già una peculiare sfumatura alla visita di Erodoto ai sacerdoti egizi nei loro templi, rilu­ce sin nei frammenti di Eraclito. Essa porta dall'i­ronia socratica alla libertà di coscienza dell'uomo cristiano di fronte all'Onnipotente, fino al mate­rialismo dei giorni nostri, del quale ancora non si è riconosciuta la portata di evento cosmico, so­prattutto da parte di coloro che ne sono in mag­gior misura investiti.

Vi sono buone ragioni per cui la questione del­la volontà e della sua libertà è stata un fondamen­tale oggetto di riflessione in Germania, il paese in cui tutto ciò che sarebbe seguito nei tempi suc­cessivi era stato pensato a fondo, con estrema at­tenzione e in maniera quasi profetica da più di cento anni. Tutto ciò che si compì nella sfera del pensiero si accompagna alla sensibilità per la mu­

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sica, e prende forma nella poesia. A tale operato i greci fornirono modello e misura e una profonda memoria, addirittura un legame di parentela ha portato, come per Holderlin e per Nietzsche - al di là di una prospettiva meramente filologica e storica - a una congeniale prossimità.

Ma torniamo alle statue. Al cospetto dell'im­magine di un'antica divinità greca avvertiamo il senso di un'istanza lontana, sconosciuta, quel magico potere cultuale comune anche alle figura­zioni egizie e dell' Asia Minore. Eppure è assai breve l'estensione di tempo che le separa da una Nike che si scioglie i lacci dei sandali, o da quella Nike di Samotracia che ancora oggi ci impressio­na più come un'immagine dell'idea invincibile, indistruttibile, di libertà, che come una vittima offerta in sacrificio a una dea. Come il gioco delle pieghe delle vesti si fa più morbido, cosi si addol­cisce la posa del dio nudo, e un sorriso quasi spettrale, come se si aprisse uno sguardo su un altro mondo, allo stesso tempo più sereno e spa­ventoso, infrange il rigore del culto. Non è solo l'annuncio di un nuovo Apollo, ma di un nuovo sole. Lo stesso sole all' alba del quale Erodoto vi­de sorgere il nuovo mondo, quello della storia.

Presto compaiono immagini di fronte alle qua­li possiamo appena distinguere· se si tratti di un dio in atteggiamento umano o di un uomo nella posa di un dio. Le figure vengono tratte fuori dal tempio e disposte nel vestibolo e, successivamen­te, saranno portate all' aperto, nelle piazze, e si trasformeranno. È questa la scansione, la svolta, la sequela di piccoli passi che hanno reso possibi­

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le il libero pensiero filosofico, una metafisica se­parata dalla teologia e con essa una nuova, eracli­tea, profondità della parola. La posa della figura umana conquista una nuova libertà, anche nelle immagini più severe, come nell'auriga di Delfì o nel Posidone di Capo Artemisio. Ciò che impres­siona in quelle rappresentazioni è l'arte, chi le produce è l'artista, nel senso in cui lo intendiamo noi, e in tal modo si conquista un valore nuovo, indipendente da ciò che viene rappresentato. Si compie in questo modo la trasformazione dell'i­dolo in opera d'arte e delle magiche offerte sacri­ficali primitive in doni votivi.

TI monumento che rappresenta una figura umana, collocato nel centro di una città a domi­nare una piazza aperta, fasto e trionfo di una strada, non è un fenomeno di tutti i tempi. Ap­partiene piuttosto all'uomo che fonda la storia e alla sua potenza. La sua comparsa sarà stata pre­ceduta da un'iconoclastia, da una distruzione sa­crilega delle immagini sacre. La statua imperiale eretta nell' atrio del tempio ebraico e le terribili conseguenze che ne seguirono, descritte da Giu­seppe Flavio, rappresenta un grande esempio di questa svolta.

Sono molteplici le ragioni per cui oggi è dive­nuto rischioso erigere monumenti ai grandi uo­mini nei luoghi più in vista; vi è tuttavia una ra­gione fondamentale: l'indebolirsi delle forze che fondano la storia. A ciò è poi strettamente con­nesso il fatto che la grandezza storica che prende corpo in una figura personale è divenuta poco credibile. Non è più l'uomo che domina un luo­

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go, ma è il luogo che, insieme con la sua costella­zione, conferisce all'uomo una potenza funziona­le. L'uomo, anche laddove occupa una posizione assai elevata, anzi, soprattutto in questo caso, di­venta del tutto accidentale, è, di fatto, sostituibi­le. Lo spirito musico, grazie alla sua maggiore vi­cinanza all' essere, è in grado di percepire questo fenomeno, meglio di chi osservi con uno sguardo storico o politico. Ed è infatti soprattutto nelle tre forme classiche della raffigurazione plastica, dell'epos e della tragedia che tale spirito si allon­tana dalla rappresentazione dei grandi uomini per volgersi alle immagini dell' abisso. Nel pae­saggio di officina gli automi vengono a occupare una posizione centrale. Questa non può che esse­re una fase transitoria. Ogni processo di svuota­mento, di liberazione dello spazio annuncia una nuova occupazione, e ogni congedo annuncia una trasformazione, un ritorno.

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Un movimento caratterizzato da crescente accele­razione può avere diverse tendenze: si può sup­porre che esso segua le leggi della caduta, oppure quelle dell' attrazione o della spinta. Tutto questo dipenderà in larga parte dalla posizione dell' os­servatore, dalla sua forza vitale, dal suo tempera­mento, ma anche dalle sue unità di misura.

Anche nel dominio dell'attrazione si manifesta l'accelerazione. Osservando un frammento di fer­

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ro che sia entrato in un campo elettromagnetico, noteremo dapprima una serie di movimenti inde­terminati e, successivamente, un repentino avvici­namento. L'ago magnetico segue un'attrazione cosmica. TI magnete è il futuro; l'effetto che esso produce non è diverso da quello del passato. La più profonda identità di attrazione e spinta ha luogo al di fuori del tempo, tanto per il mondo meccanico quanto per il mondo organico. Per poterla comprendere occorre un certo acume delle capacità critiche e conoscitive dello spirito. TI metafisico, ma non solo il metafisico, si chiede­rà in che misura a un unico, identico processo concorrano l'azione umana da una parte e l'attra­zione del destino dall' altra. TI che, tradotto nel nostro linguaggio significa: in che proporzione le forze umane e le forze cosmiche contribuiscono all' accelerazione della nostra svolta? In che modo il piano del mondo, in cui si assommano i piani statali, è coordinato al piano della terra, o in che modo la rivoluzione del mondo è coordinata alla rivoluzione della terra? Dipende tutto da una sol­tanto di queste due forze? E sono esse in opposi­zione tra di loro? Agiscono alternativamente in maniera complementare, o sono invece identiche e cadono sotto i nostri sensi come due metà spe­culari? Non si tratta di domande puramente spe­culative e teoretiche: sono domande fondamenta­li che riguardano la potenza. Occorre affrontarle per valutare non solo la posizione, ma anche il movimento possibile all'interno di tale posizione. Colui che oggi abbia compreso ciò di cui la terra ha bisogno guadagna una posizione di privilegio

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rispetto alle esigenze storiche. Se costui vorrà operare dei cambiamenti, incontrerà un'opposi­zione più debole, se vorrà conservare la sua posi­zione, troverà un terreno più saldo di colui che, indipendentemente dalla prospettiva da cui muo­ve, limiterà il suo sguardo a un singolo ambito.

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Nel luogo in cui si incontrano necessità e libertà, dove è possibile comprendere l'identità di spinta e attrazione, la vista si rischiara in maniera tale che gli oggetti che le si presentano non potranno essere deformati oltremisura né dalla volontà né dal timore. Vogliamo qui sottolineare uno degli elementi più importanti per la nostra ricerca, ciò da cui ha preso le mosse il nostro discorso: vale a dire lo Stato che, in quanto status, corrisponde strettamente allo stare o al suo sussistere.

In effetti è certamente il caso di riflettere su questo status, che determina oggi, più di altri ele­menti, ogni nostro agire e soffrire, che dà forma alla nostra esistenza fin nei dettagli. Alle sue esi­genze vengono subordinate tutte le altre. Esso è il leone che non solo pretende la prima porzione, ma decide anche della ripartizione di ciò che ri­mane. Si è da tempo concluso a suo favore il con­flitto che attraverso i secoli ha visto opporsi papi, imperatori, re e cancellieri. I confini degli Stati sono tracciati in maniera più netta di quelli che un tempo delimitavano o intersecavano gli anti­

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chi regni e territori, spesso passando attraverso comunità di popoli, razze, linguaggi e culture. Non è la società che nello Stato prende la sua forma, ma lo Stato che determina la forma della società, fin nelle sue cellule, nelle famiglie. Alla fi­ne lo Stato dispone tutto sullo stesso livello e atti­ra verso di sé anche quelle esigenze che la natura desta negli uomini e nei popoli: le cure che ruota­no e che sono ruotate da sempre, con l'avvicen­darsi degli astri, attorno alla semina e alla raccol­ta, l'estate e l'inverno, le emergenze imposte dal­l'acqua, dal fuoco, dalla fame.

TI fatto che, per le suddette ragioni, il peso del­lo Stato divenga gravoso per il singolo non è cosa cui ci si debba necessariamente opporre, specie se si pensa che anche prima l'esistenza umana ha avuto le sue ombre, e che dunque dobbiamo sot­trarre al peso assoluto che oggi ci opprime solo ciò che fa capo a una mutata ripartizione degli oneri. La qual cosa si rende evidente soprattutto in quella parte dello Stato in cui esso si manifesta come principio di assicurazione, stato sociale, stato assistenziale.

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Anche lo Stato non è escluso dal grande movi­mento che si compie accelerando. TI moto non lo attraversa come l'acqua che solleva un corpo e fluisce attraverso di esso. Certamente lo Stato stesso contribuisce al movimento: ne dipende

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quella parte del movimento determinata dalla pianificazione e dalla libera volontà umana. La spinta esercita però il suo effetto al di sotto dello Stato e dei suoi fondamenti, che non poggiano su una base etica né fattuale. Per tale ragione slittano e si spostano le definizioni e le divisioni di confine stabilite in senso politico, giuridico e morale: esse assumono una struttura ambigua, elastica.

Lo Stato rappresenta un costo non solo per i singoli, ma anche per i popoli. Vive dei grandi spazi che costituiscono una porzione considere­vole della superficie terrestre, la cui popolazione si calcola non più nell' ordine dei milioni, ma del­le centinaia di milioni. li ritmo a cui queste cifre vanno rapidamente moltiplicandosi, è sintomo di grandi rivolgimenti.

Alla crescita degli spazi dominati dalla pianifi­cazione e della popolazione che li occupa, si con­nette una trasformazione qualitativa. Lo Stato si fa smisurato; presenta un'immagine del tutto nuova e assume caratteristiche che in passato non gli appartenevano. Lascia dietro di sé anche i grandi Stati e gli imperi che fiorirono alla svolta del secolo, in parte attribuendosi la loro sovrani­tà, in parte annullandola.

Attualmente la terra ospita due Stati dotati di questo tipo di sovranità assoluta. li fatto che Toc­queville ne abbia previsto la comparsa fin dalla metà del secolo scorso e che ne abbia indicato i tratti nella Russia e nel Nordamerica è un chiaro segno della sua straordinaria intelligenza. Egli so­steneva anche che questi due Stati avevano un'u­

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nica meta. Altre prognosi, che furono avanzate anche in relazione alla crescita dell'impero colo­niale inglese o della potenza militare tedesca, o anche alla battaglia navale di T shushima, sono da considerarsi fugaci supposizioni. li quadro del mondo attuale, paragonato alle previsioni di Toc­queville, offre un esempio dell'acutezza con cui l'occhio di un buon osservatore può cogliere l'or­dine manifestato dagli eventi. li suo sguardo sci­vola sopra le valli e le gole, e si appunta sulla vet­ta che si staglia in lontananza.

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In tale situazione sono solo due le sedi in cui è possibile parlare di libertà illimitata. Libertà è in­tesa qui in riferimento alle decisioni tecnico-poli­tiche, come procedura incondizionata che ha luo­go in quegli ordinamenti in cui entrano in gioco gli Stati. Che in tali decisioni, poi, si rispecchino altre intenzioni che risultano in ultima analisi de­terminanti per il loro buon esito, è un problema ulteriore; avremo ancora occasione di farvi cenno.

Anche la sovranità dei grandi Stati è oggi limi­tata. Se tale situazione di fatto rimane in generale inavvertita, dipende da considerazioni di secon­daria importanza e, tra l'altro, da una forma di cortesia. Ma la crisi, non appena ha raggiunto un certo grado, si manifesta in forme di assoluta evi­denza. Una situazione che ricorda un po' quella della stanza dei bambini, in cui i piccoli stanno

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per un certo tempo a sfogarsi, prima che vi entri­no gli adulti. Solo quando l'incendio della stanza minaccia di degenerare in un incendio della casa si vedono crescere ombre spaventose. Non è pos­sibile immaginarsi con chiarezza che cosa potreb­be accadere; e tuttavia incombe la minaccia di qualcosa che non rientra nel quadro della storia e neppure in quello di un' epoca umana.

A partire dal Barocco la politica sembra essersi fatta più grossolana, anche rispetto ai tempi in cui Bismarck doveva fare i conti con l'indifferen­za europea, un comportamento che egli paragonò a quello di un giocoliere con cinque palle. La bi­lancia oscilla oggi tra due grandi partner; il globo è ripartito in due metà, una occidentale e una orientale, dove con Oriente e Occidente sono da intendersi più due direzioni che due territori. L'acutezza di tale divisione si avverte in espres­sioni come «guerra fredda» e «cortina di fer­ro ».

Intanto non bisogna lasciarsi confondere dalla polemica e dai suoi sviluppi: chi guardi in manie­ra più spregiudicata noterà con stupore una note­vole e crescente uniformità che va estendendosi al di sopra dei singoli paesi, e non in quanto mo­nopolio dell'una o dell' altra delle due potenze concorrenti, ma in quanto stile globale. Per per­suadere, si ricorre alle stesse parole, agli stessi slogan, come pace, libertà, democrazia; un'unica e medesima tecnica viene fatta progredire verso la perfezione. Anche laddove le ideologie sono distinte rispetto all'economia, si ottengono tutta­via risultati sempre più simili nella forma. Anche

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gli ideali sono comuni; e ciò risulta evidente so~ prattutto laddove lo sviluppo della tecnica ha ac­quisito caratteri cosmico-planetari, come nel caso dei viaggi spaziali, della trasformazione della su­perficie terrestre secondo parametri geologici, della carica dell'atmosfera e della liberazione del­le forze terrestri per effetto dello spirito prome­teico. Tale similarità riguarda anche la scelta dei simboli, tra i quali quello della stella gioca un ruolo del tutto particolare. Si è portati a supporre che il colore bianco o rosso della stella dipenda solo dal suo vacillare, come quello dell' astro che compare al di sopra dell' orizzonte. L'unità appa­re evidente allo zenit.

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La similarità dei due partner colossali che, se non attraggono a sé i territori degli Stati storici, pure ne assumono la sovranità, suscita l'impressione che abbiamo qui a che fare con dei modelli, anzi, con degli stampi: con le due metà di un'unica for­ma da impiegarsi per fondere e costruire lo Stato mondiale. Con ciò non si intende una semplice operazione di addizione, un raddoppio, ma una trasformazione qualitativa, l'ascesa a una poten­za che oggi non è ancora possibile rappresentarsi.

Tale prospettiva è già più gradita di altre, per il fatto che essa sola promette una limitazione e un addomesticamento degli strumenti di potere cre­sciuti oltre la possibilità di controllo degli Stati e

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degli imperi storici. Soltanto da un centro, da un umbilicus mundi, si può decidere se essi vadano conservati oppure eliminati; 1'addomesticamento di ciò che è indomito ha come presupposto lo Stato mondiale. li suo approssimarsi si annuncia nel fatto che l'idea di una guerra civile mondiale fa scomparire gli Stati dalla politica e fa sbiadire i contorni dei conflitti: tale sviluppo indebolisce 1'immagine classica della guerra da una parte e l'idea di confine dall' altra. Questo rappresenta una differenza importante rispetto alla rivoluzio­ne del 1789 e all'immediato effetto che essa pro­dusse tanto sull' ethos quanto sulla potenza belli­ca degli Stati nazionali.

La prospettiva di uno Stato mondiale è assai verosimile, il suo avanzare è annunciato da una serie di segni premonitori e, in vista di una pace mondiale, è più auspicabile di una nuova divisio­ne del potere, magari nel quadro di un mundus tripartitus, come a volte emerge dalle previsioni degli osservatori più acuti. Quest'ultima ipotesi presuppone però il conseguimento o il ripristino di una sovranità illimitata, che veda affiancati ul­teriori alleati, come la Cina o l'Inghilterra. Effet­tivamente vi sono alcune potenze che aspirano a

Jare propri i simboli di tale sovranità e con essi la carta di ingresso per accedere ai vertici. In un mondo che si muove accelerando i simboli sono necessariamente dinamici; in questa sede possia­mo solo accennare alloro autentico ruolo.

I simboli del dominio, come il trono o il palaz­zo, esprimono, in un mondo stabile, paternitario [paternitti'r] la potenza di uomini stanziali, che ri­

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siedono in fisse dimore; avranno inoltre, come lo scettro e la corona, un rapporto con la mano e con il capo. Quando un principe elettore, come un Brandeburgo, sostituisce il suo copricapo con la corona, dichiara con questo gesto la sua prete­sa a essere posto sullo stesso livello dei re. Ii chia­ro che egli deve poi essere in grado di dimostrare il suo diritto a tale pretesa, come fece Federico il Grande, perché la corona di per sé non ha mai trasformato nessuno in un sovrano. Lo stesso va­le per il simbolo dinamico.

In un mondo che si muove sempre più veloce­mente, i simboli più credibili di dominio sono le punte lanciate nel moto più veloce e potente. So­no i veicoli spaziali e quella punta estrema rag­giunta dal mondo che va costituendosi, in cui le conquiste della ricerca si combinano con quelle della tecnica, rendendo così possibile lo sviluppo delle ricerche astronautiche. Si creano, in quelle sedi, modelli di pianeti. Affinché quelle creazioni possano essere realizzate dovrà certamente ag­giungersi molto altro alle prestazioni della tecni­ca: un tempo era la profondità dei sogni in quan­to essenza delle antiche utopie, in seguito la po­tenza della terra in quanto tale, che è divenuta fertile e irradia attraverso l'ingegno dell'uomo. In una parola: le premesse per l'ora di una nascita. L'eccitazione che invade i popoli di fronte a que­sti modelli e alle strade che con essi si dischiudo­no ha buone ragioni di essere; anche in essa è più forte l'effetto prodotto dagli elementi invisibili che da quelli visibili.

Lo statuto di un simbolo non si fonda sulla po­

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tenza pratica, la quale, piuttosto, trova in esso la sua espressione. Non si tratta di un trionfo sullo spazio e sul tempo, e nemmeno delle dimensioni straordinarie degli sforzi e dei costi necessari a realizzare la missione; ancor meno si tratta di mettere a punto l'equipaggiamento indispensabi­le per compiere il lancio nello spazio, superando la forza di gravità. In ultima analisi tutto questo rimane inesplicabile, come la formazione di un organo nuovo. L'estremo pericolo che tutto que­sto comporta si comprende solo marginalmente; ma il pericolo non si può eliminare. Si pone per l'uomo una domanda destinale: se egli voglia questo nuovo mondo i cui contorni gli si profila­no davanti agli occhi. Egli vi ha già acconsentito, ed è appunto con un si che doveva rispondere.

Per quanto riguarda i modelli, se ne osserva lo sviluppo nel modo migliore se li si guarda come fossero minuscole particelle, dotate di una carica potente, che si sollevano al, di sopra di un vasto campo. Ed è bene, anche in questo caso, non at­tribuire ai fenomeni tecnici una parte più impor­tante di quella che essi hanno in altri simili pro­cessi. Essi non forniscono che gli strumenti per una volontà che vive al di là della tecnica. li gioco dei nervi, dei muscoli, dei tendini che fa muovere la nostra mano è assai più complicato, ma perché la mano suoni un violino o dipinga un quadro, non occorre un manuale di anatomia.

Si potrebbe qui replicare che la mano non è stata inventata dall'uomo. Ma all'obiezione si può rispondere chiedendo quale contributo originale abbia dato l'uomo alla nostra tecnica, sia esso in­

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teso in primo luogo come un contemporaneo di quest' epoca e, in secondo luogo, come l'esempla­re, dotato di abilità tecnica, di una specie intesa in senso biologico. Difficilmente gli occhi riesco­no a cogliere gli effetti che si producono entro una dimensione più sfuggente, in quella pellicola sottilissima che vede una generazione o anche un secolo come un semplice momento della sua stra­tmcazione, le forze storiche, ma anche sovra-ul­trastoriche che qui si aggirano, spingono, attrag­gono: è più facile osservare gli effetti tecnici, con la realizzazione dei quali, pure, quegli altri sono immediatamente in relazione. Solo qui si manife­stano i modelli che creano e attribuiscono il sen­so, che ci fanno sperare di non essere capitati in un cunicolo senza uscita, di quelli che da sempre esistono negli strati della terra.

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Sono molteplici i segni da cui possiamo intendere che la nostra vecchia terra vuole ancora una volta cambiare la sua veste. Interpretarli correttamente è più che un semplice compito descrittivo, anche più che un compito prognostico.

Se mettiamo in relazione il carattere esteso e unitario di un simile moto della terra con lo Sta­to, ci limitiamo a considerare un aspetto umano. Lo Stato, lo stesso Stato mondiale, è una delle forme in cui tale unità può essere compresa. Essa è, ed è sempre stata presente, in profondità, al di

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sotto della varietà degli esseri e delle loro confor­mazioni.

Si dischiudono qui sguardi d'altro tipo, si po­ne la questione dello stile della terra, che presen­ta i suoi effetti anche laddove sussistono le grandi divisioni che attraversano lo spazio e le specie. Lo si può notare non solo nei particolari, ma an­che nella costituzione di insieme del quadro. Gli occhi si faranno più attenti per coglierlo: sembra ad esempio che un evento di grande importanza come l'invenzione della scrittura si sia verificato nello stesso periodo di tempo presso popoli lon­tani tra loro e indipendenti l'uno dall'altro. Ciò porterebbe a concludere che esiste una « sincro­nia» d'altro tipo rispetto a quella cui pensava Spengler. L'una comunque non esclude l'altra. Anche nel mondo degli orologi c'è un ordine ge­rarchico.

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Il nostro pensiero, estremamente raffinato, adde­strato secondo il modello del legame di causa ed effetto, ci ha resi quasi daltonici davanti a questi fenomeni. Per dimostrare che qualcosa si sta pre­parando ricorriamo soprattutto alla causalità sto­rica, alla spinta che connette i fatti tra loro. Ma esiste anche un forte legame di attrazione tra 'i fat­ti, che esercita il suo effetto muovendo dall' altro polo; accanto all'azione causale ve ne è dunque una finale: entrambe vengono a incontrarsi nell'i­

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stante, conferendogli la sua forma. Come ogni porta può essere contemporaneamente un' entrata e un'uscita, così, a seconda della prospettiva di chi giudica, il presente può essere inteso tanto co­me una conseguenza, quanto come il segno pre­mopitore di qualcosa che sta per sopraggiungere.

E inevitabile che ciò che sopraggiunge porti con sé uno stato di inquietudine, che sia accom­pagnato dal presagio di qualcosa che è privo di senso, e persino della morte, dal momento che fa la sua comparsa entro uno spazio già ripartito, a danno dei diritti e degli interessi esistenti. D'altra parte, è appunto la messa in questione di quei di­ritti e di quegli interessi che annuncia ciò che sta per sopraggiungere. Vi sono tempi in cui nessuno si sente tranquillo; tempi che ricordano i movi­menti inquieti del bruco che cerca un luogo dove incrisalidarsi. Ciò che esso cercava in realtà, ciò che lo trascinava nel suo moto inquieto non era precisamente un luogo: era la farfalla. Ogni invo­luzione è contemporaneamente un' evoluzione. Il filo in cui il bruco si avvolge è lo stesso che libe­rerà la farfalla.

In modo simile lo Stato mondiale non è sem­plicemente un imperativo della ragione, da realiz­zare attraverso l'azione conseguente di un volere. Se fosse così, se non si trattasse che di un postu­lato logico o etico, le cose in futuro andrebbero male per noi. Esso è anche un qualcosa che so­praggiunge. Nell' ombra che esso proietta davanti a sé, sbiadiscono le vecchie immagini, si svuotano di senso le interpretazioni familiari, soprattutto quelle dello Stato storico e delle sue esigenze. Le

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guerre che questo conduceva sono pertanto dive­nute sospette) incerti i suoi confini. Ciò che so­praggiunge spezza le norme che lo governavano; lascia intravedere altre immagini e altri concetti, e anche un nuovo diritto.

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La corsa ai mezzi titanici e il loro impiego, per ci­tare un particolare, non fa parte delle norme sta­bilite da popoli e Stati per governare le loro rela­zioni di guerra e di pace. I viaggi nello spazio e la ripartizione tradizionale della terra sono eviden­temente in contraddizione tra loro. L'aeroplano dovrebbe assomigliare a un uccello, che per sua natura non conosce confini, e lo spazio cosmico dovrebbe essere ancora più libero dell'oceano. E tuttavia il traffico aereo si lascia ancora riportare a un ordine governato dal diritto internazionale. Sembra però che ciò non sia più possibile per i viaggi spaziali; per stabilire lo statuto giuridico di un satellite non sono sufficienti né il diritto roma­no, né il diritto internazionale. Non è che un esempio del progressivo approssimarsi nel nuovo che sopraggiunge.

Per i viaggi spaziali non sono sufficienti le esperienze giuridiche, e nemmeno le esperienze di tipo fisico, su cui si fonda il diritto. Qui l'uo­mo, quale che sia la sua provenienza, entra in gio­co in quanto figlio della terra e in quanto suo messaggero. Egli segue gli animali che manda

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avanti in perlustrazione perché gli indichino le tracce. Il cane lo precedeva già al tempo delle sue prime cacce.

Solo nell' allontanamento apparirà chiara al fi­glio l'unità della madre, e l'amore di lei, che egli condivide con le creature animate e con quelle inanimate. Nessuna nostalgia può essere più grande. Questa strada conduce non solo a una grande distanza, ma anche a nuovi, centrali luo­ghi sacri.

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La similarità delle due potenze mondiali, come è meglio chiamarle per distinguerle dalle grandi potenze storiche, non è solo un segno del comu­ne stile del tempo e di ciò che di esso appare in superficie, ma di una sostanziale evoluzione. Il fatto che due partner cosÌ diversi nel tipo e nella provenienza possano essere considerati contem­poraneamente dimostra che essi vengono com­presi alla radice.

All' osservatore che abbia riconosciuto non so­lo la similarità, ma addirittura l'identità della stel­la rossa e di quella bianca appare evidente che ta­le situazione di fatto richiede di trovare espres­sione nell' organizzazione della terra, magari per mezzo di un contratto. Intanto le iniziative che sono state prese praticamente in questa direzione sono deboli e impotenti, come la Società delle Nazioni del primo dopoguerra. Ciò che si impo­

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ne in modo decisivo è il dualismo; questo ci porta a pensare a un'epoca in cui la tensione costituisce un momento di costruzione. Ciò che accomuna i movimenti politici a quelli erotici è il fatto che né gli uni né gli altri sono governati dalla ragione. Essi affondano in uno strato più profondo; in essi si manifesta una volontà più forte.

Sarà bene dunque, anche in questo caso, non aspettarsi troppo da conferenze, progetti, con­tratti, e confidare piuttosto in impulsi di portata più ampia. È in corso evidentemente un movi­mento del mondo alla ricerca di un punto di equilibrio. Esso ha infranto l'ordinamento dello Stato barocco in favore degli Stati nazionali e de­gli imperi che su essi furono fondati e, successi­vamente, ha eliminato gli Stati nazionali, lascian­do libero il campo per le potenze mondiali. Ma anche questo stato di cose non sopporta alcuna forma di pluralità: di qui l'origine dell' attuale in­quietudine. Dall' attuale divisione degli Stati mondiali esso spinge verso lo Stato mondiale, verso un ordinamento planetario o globale.

Tale crescita è connessa a una fame di sempre maggiori quantità di energie. Una creatura anco­ra in embrione, crescendo, attrae verso di sé il flusso del sangue e delle forze della terra; il singo­lo può avvertire l'attrazione di questo risucchio, per quanto viva ancora così nascosto, come lo av­vertono gli Stati mondiali. Essi sono già attraver­sati da strade e da costruzioni che passano al di sopra del loro isolamento e lo superano.

Chi abbia riconosciuto tutto questo, guadagna in mezzo al movimento una posizione da cui è

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possibile giudicare quali mezzi, forme e costitu­zioni politiche siano conformi alla spinta di que­sto moto e vi contribuiscano, e quali no. Se tutto questo fosse stato compreso per tempo in Ger­mania, tenendo conto delle idee dominanti e dei possibili alleati confederati, si sarebbe risparmia­to a quella terra di intraprendere violente vie tra­verse e di versare tanto sangue.

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Nella politica nazionale tedesca era nascosta mol­ta politica barocca, già negli interessi dei principi e nella relazione con l'Austria. E nella politica mondiale tedesca era nascosta molta politica na­zionale; per tale ragione essa rinunciò alla Russia come sua autentica pietra di paragone, e ciò ac­cadde in tutte e due le guerre mondiali, tanto pri­ma quanto dopo l'azione militare. Tale frammen­tazione è in netto contrasto con la potenza mon­diale e planetaria della metafisica tedesca, la qua­le offre il quadro entro cui hanno luogo gli attuali conflitti; si potrebbe addirittura dire che per co­stituire questo quadro siano state impiegate solo una parte delle forze, soprattutto quelle del siste­ma hegeliano, e che potenti riserve di pensiero siano rimaste inattive~

L'attuale divisione è un'espressione esteriore di questa spaccatura che corre più in profondità e raggiunge un passato lontano. Essa ha fatto in modo che la Riforma e le rivoluzioni non si siano

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risolte, come in Inghilterra o in Francia, secondo l'alternativa «questo o quello », ma siano rimaste sospese secondo la formula «tanto questo quan­to quello », e che la costruzione di uno Stato na­zionale, come nel caso dell'Italia, non sia riuscita immediatamente. Ciò che nel 1848 i principi e il popolo hanno fallito e ciò che sarebbe stato ac­colto dal mondo in quanto si trovava in una cor­rente di attrazione mondiale, non poteva essere re cupe rata in un secondo momento. L'ora propi­zia era già perduta.

Queste restano retrospettive storiche. Si po­trebbe entrare nei dettagli. Il «tanto questo quanto quello », di cui così spesso, in certe situa­zioni attuali, ci si lamenta, nasconde certamente qualcos' altro, qualcosa di più. Si cela in esso il destino del centro, a partire dal quale non si pos­sono dare risposte così univoche e nemmeno così semplici, come dalle zone più periferiche. Tale destino ha comportato il fatto che qui lo Stato nazionale non abbia potuto costituirsi in modo così credibile come in altri paesi e che di fronte a esso si sia sempre conservata una forma di incer­tezza, che ancora oggi si manifesta di fronte ai suoi simboli, come la bandiera o l'inno. Lo Stato nazionale non ha mai realmente affondato qui le radici.

Il fatto che la linea di divisione del mondo di­vida il Paese e la sua capitale in due metà ha poi certamente qualche connessione con questo de­stino. Si tratta di qualcosa di più che di un desti­no nazionale, è in assoluto un destino mondiale e come tale sarà compreso.

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Il grande movimento che va aumentando la sua accelerazione non coinvolge il destino di questo o quel popolo, ma di tutti i popoli e dell'uomo in quanto tale. Anche questo sarà compreso; fa par­te di quei fatti di cui si fa carico la coscienza ge­nerale.

Tale tema conduce molto più in là. A proposi­to dello Stato trovano posto qui alcune riflessio­ni. È noto che i contemporanei sono inclini a so­pravvalutare l'attuale processo, specie se connes­so con le catastrofi. Il tempo sembra allora acqui­stare maggior velocità, come nelle cataratte, in cui l'acqua cade più rapidamente. Ma le catastro­fi, per quel tanto che possiamo volgerci a consi­derarne gli effetti nel passato - e oggi possiamo di molto arretrare con lo sguardo nel passato ­hanno cambiato di poco l'aspetto dell'uomo e ne hanno appena minacciato l'esistenza. Si può anzi supporre che, come le glaciazioni o quelle cala­mità che produssero migrazioni di popoli, ne ab­biano rafforzato l'habitus e vi abbiano impresso un'impronta più netta. L'uomo, in quanto specie, procede intatto oltre il tramonto delle generazio­ni, attraverso popoli e civiltà.

L'angoscia del nostro tempo non ha però a che vedere con il tramonto degli individui e dei po­poli, ma con l'estinzione della specie. Le forme di questo tramonto sono strettamente connesse con l'intelligenza umana e con le sue decisioni. Con ciò non si pensa tanto alla questione della salvez­

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za, come era il caso delle visioni apocalittiche di un tempo, ma a un atto mancato dell'intelletto.

Questo tipo di considerazione nasconde l'au­tentica profondità dell'abisso, dal momento che restringe la valutazione della situazione alla cor­nice riempita da movimenti intelligenti e volont!!­d. Le sfugge il fatto che questa stessa cornice è coinvolta nel movimento. Ne consegue che la di­mensione del pericolo viene sottovalutata, come anche le riserve che sono a disposizione.

Il movimento non ha dunque luogo soltanto al­rinterno della cornice, ma anche al di sotto di es­sa. È questa la ragione di fondo per cui quei con­cetti che vengono a costituire il quadro di riferi­mento, come guerra e pace, tradizione e confine, hanno incominciato a spostarsi in modo tale che la conoscenza storica non dispone più degli stru­menti per dame conto. Si spiega così il carattere sperimentale della politica attuale. Non si è tra­sformata soltanto la situazione politica: tali tra­sformazioni sono infatti normali e costituiscono da sempre il materiale che i politici devono padro­neggiare o hanno padroneggiato. Coinvolta nella precipitosa trasformazione è piuttosto r organiz­zazione storico-politica di fondo, e ciò spiega di nuovo le ragioni dell'incapacità di farsi padroni della situazione, spiega quei vistosi fenomeni che si attribuiscono a un atto mancato dell'intelletto, e quelle fenditure che, in tal modo, vediamo spalan­carsi tra ciò che è « buono» e ciò che è « secondo giustizia », tra ciò che è stato deciso e ciò che è se­condo ragione. Tali fratture provengono da una tettonica più profonda di quella del terreno politi­

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co, perciò vengono meno le soluzioni che a questo livello è possibile trovare.

L'intelletto umano è affidato all'esperienza: dove questa lo abbandona comincia l'esperimen­to. Ciò può produrre disorientamento, soprattut­to nel tempo in cui domina l'intelletto che ha li­berato tanto lo Stato quanto la società dai riti ri­cevuti in eredità e ne ha determinato la forma at­traverso la conoscenza. Si crea così un beffardo doppio gioco tra una libertà dello spirito divenu­ta quasi assoluta e la sua impotenza di fronte alla forza cogente del nuovo mondo che si impone.

Proprio l'estrema evoluzione dello spirito umano lascia sperare che l'uomo sia in grado di spingere la propria capacità di comprendere al di là di se stesso, per cogliere gli eventi con uno sguardo che unisca r acutezza della conoscenza critica con la divinazione. Solo in questo modo sarebbe possibile comprendere quella compo­nente del grande movimento della terra che si sottrae al libero volere; ed è appunto solo in que­sto modo che si può determinare che' cosa la li­bertà del volere, interna a questo movimento e da questo stesso promossa, sia in grado di compiere e quali difficoltà debba aspettarsi di incontrare. Diverrebbe soprattutto possibile tracciare un confine tra ciò che, nell'insieme degli eventi che si propongono prepotentemente sulla scena, si può caratterizzare come un'opera dell'uomo e ciò che invece sfugge al suo controllo: sia che si con­sideri l'opera dell'uomo come un momento della sua emancipazione, sia che, al contrario, si guardi alla crescita colossale dell'intelligenza umana e

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dei suoi progetti come a un fenomeno provocato da impulsi di altro tipo, che si suppone trovino il loro spazio al di sotto della politica, della storia e degli ordinamenti umani tout court.

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Compaiono forse, nella nostra breve memoria della storia del mondo, fenomeni paragonabili al­le potenze mondiali e allo Stato mondiale che va annunciandosi?

A questa domanda non si può rispondere né in modo assolutamente negativo, né in modo assolu­tamente affermativo. Per rendere più chiaro que­sto paradosso occorre gettare un rapido sguardo sul moto del ritorno. In esso non si verifica sol­tanto una ripetizione ritmica, ma un avvicendarsi qualitativo. Tale elemento può avere il carattere di una potenza, come quando, ad esempio, con l'inizio di un nuovo anno non si apre solo un nuo­vo decennio, ma anche un nuovo millennio. Da un punto di vista puramente numerico, si verifica in . questo caso semplicemente la ripetizione del fatto che la data finisce con lo zero. Sostituendo l'ultima cifra del numero si produce una sostitu­zione a tre livelli. L'avvicendarsi può riguardare anche la sostanza, ad esempio quando la figura del padre ritorna in quella del figlio, come Filip­po che ritorna in Alessandro e, allo stesso tempo, ritorna, in quanto antenato mitico, nel figlio, affi­dandogli le sorti del mondo. Anche la pura ripeti­

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zione, inoltre, può condurre a una trasformazione qualitativa, come quando nel processo in cui «la goccia scava la pietra» si raggiunge il punto in cui la pietra viene perforata e la goccia può prosegui­re libera la sua caduta. Tale considerazione confe­risce un aspetto particolare anche ai mondi più monotoni: ogni moto di rotazione ha ancora, al di là del suo carattere di ripetizione puramente mec­canica, un significato nascosto, che conduce al­l'ingresso di qualcosa d'altro che sopraggiunge e che conferisce un orientamento alla ripetizione stessa.

In questo senso e con questa delimitazione va inteso il paragone dei nostri attuali conflitti con la situazione di guerra civile mondiale che prelu­de all' età augustea. Spengler e altri hanno dato una sufficiente fondazione di tale paragone; esso si regge su un'intima parentela, un autentico ri­torno e non su di una esteriore similarità, quale potrebbe essere invece la relazione con le guerre puniche o con l'età della Rinascita.

li paragone è calzante, ma non esauriente; con esso si comprende soltanto, per tornare all'esem­pio sopra menzionato, l'ingresso in un nuovo de­cennio che coincide però con l'entrata in un nuo­vo secolo e in un nuovo millennio, e forse nella di­mensione di potenze ancora più grandi. Lo sguar­do osserva la lancetta dei secondi che scatta sopra il segno che divide epoche grandi, eoni forse.

In questo caso il riferimento alla memoria sto­rica, o forse anche preistorica, non fornisce ele­menti sufficienti per un paragone.

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Contro lo Stato ha sempre dominato una certa diffidenza. Fin dall'inizio le sue azioni e le sue imprese hanno destato timori che esprimono qualcosa di più che una semplice prudenza poli­tica o una rivendicazione di particolarità. Non solo il singolo e le comunità cui naturalmente il singolo appartiene - come la famiglia, la stirpe, la tribù, il popolo - si vedono qui esposti a una sfi­da che li coinvolge nel profondo della sostanza e di cui occorre valutare con attenzione i vantaggi e gli svantaggi. La vita stessa si trova qui a uno dei suoi crocevia più importanti. In esso si incontra­no organismo e organizzazione.

Si tratta di una scelta ardua che si spinge nel profondo, fin giù nelle cellule. Essa comporta guadagni e perdite. L'isolamento delle cellule fo­tosensibili, ad esempio, comporta un aumento della capacità di percezione e una perdita di sen­sualità, di forza erotica. Quando' entro le specie viventi, come nel caso delle spugne, si costitui­scono delle colonie, aumenta la sicurezza, ma si riduce la libertà degli individui impiegati in tali formazioni. Se tra gli insetti sociali l'ordinamento e la divisione del lavoro dà incremento all' econo­mia in misura tale da rendere possibile l'accumu­lo di scorte di cibo, tale ricchezza è acquisita al prezzo di sorprendenti sacrifici. L'operaia è una piccola femmina mutilata, allevata ricorrendo a una serie di amputazioni; la minaccia di morte costituisce un modello di spietata ragion di Stato. Tra le termiti e le formiche ritroviamo forme che

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non solo precorrono l'agricoltura, ma anche l'i· dea di schiavitù.

Le iniziative tese alla formazione degli Stati possono ripartirsi in impulsi più o meno risoluti che si ripercuotono sull'ambito generale della vi­ta. Occorre qui distinguere tra la reale statalizza· zione e una pura socializzazione. Si può parlare della formazione di uno Stato quando un certo numero di alberi è raggruppato in un bosco? Non vi è dubbio che ogni singolo albero tragga il proprio vantaggio da questa coesione, sebbene essa comporti anche dei sacrifici. L'albero sacrifi­ca infatti la libera crescita di quel manto di foglie ' che, nei tronchi isolati, arriva fino al suolo. Qual· cosa di simile accade quando un gruppo di tribù si raduna a formare un popolo. Soltanto i rami degli alberi al margine del bosco raggiungono il terreno, offrendo cosi. una barriera contro il ven­to, un riparo per tutto il gruppo.

Basta uno sguardo a un insediamento o a un gruppo umano qualsiasi per riconoscere imme­diatamente se vi domina lo Stato o la società. È importante conservare una capacità di giudizio per valutare le differenze, dal momento che qui si nasconde una di quelle fratture che danno origi­ne a una perdita. Lo Stato non si limita a imporre la propria potenza sulla società, che ne costitui· sce sempre il sostrato, ma vi si insinua anche con P astuzia e ne imita le forme.

L'inganno incomincia sin dall'attribuzione dei nomi, come quando ad esempio si attribuisce alla sfera della società fenomeni che, come confische, espropriazioni, raggruppamenti, pertengono per

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vocazione ed essenza al dominio dello Stato. Questo ricorda certi giochi di prestigio. Vediamo un oggetto che ci appartiene scomparire e ricom­parire inaspettatamente da un' altra parte.

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Il modo in cui nel regno animale si ripartiscono le iniziative di formazione degli Stati ha qualcosa di casuale. Ricorda un po' la divisione dei nume­ri primi nel mondo dei numeri. Forse anche in quest' ambito, come in quello, si scoprirà una qualche regolarità. Non c'è dubbio che sussista­no delle relazioni tra le caratteristiche degli orga­nismi e la loro organizzabilità; la capacità di svi­luppare tessuti cornei, fossili o minerali ne costi­tuisce uno dei presupposti, se non addirittura l'unico. Il principio che agisce per formare un'organizzazione si serve di preferenza di ele­menti inorganici per realizzare costruzioni orga­niche, come quelle, spesso magnifiche, che com­paiono tra i gruppi «inferiori ». Chi osservi un radiolare, un cuoretto o il guscio di un riccio di mare ha l'impressione che agiscano qui forze che dimorano al di là della vita, che può darsi forni­scano un'impronta di ordine e di armonia non tanto al mondo. inorganico, quanto piuttosto a un mondo sovraorganico.

Forse questo ha qualche relazione con il fatto che, man mano che si sale a livelli più evoluti del regno animale, la costruzione degli Stati sembra

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farsi più rara. Anche per quanto riguarda la pura organizzazione, per gli insetti il problema sembra perfettamente risolto. Ciò non va trascurato, se si vuole caratterizzare l'uomo in quanto zi56n polili­k6n. La decisione che per altre razze è già stata presa è per lui ancora sospesa, lo stampo è anco­ra fluido, e questo rappresenta la sua salvezza. Di conseguenza egli può condurre, in modo pedago­gico e da autodidatta, uno studio sulla formazio­ne degli Stati, tanto all'interno del regno degli animali, quanto entro il quadro offerto dalla sua propria storia: è il suo libro illustrato.

Nella formazione degli Stati non è possibile rinvenire alcun genere di progresso: questo signi­fica cioè che le forme perfette non compaiono so­lo a un livello evoluto di sviluppo, né caratteriz­zano solo determinati ambiti del regno animale. Accanto alle specie sociali se ne trovano altre, con esse strettamente imparentate, che vivono una vita solitaria.

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La formazione di Stati non si fa più frequente man mano che si sale nel sistema. Si può piutto­sto osservare il contrario. Non è raro che i verte­brati si riuniscano in società, come gli uccelli che costruiscono colonie di nidi, ma questo non ha alcun rapporto con l'autentica statalizzazione. I momenti di socialità vanno di poco al di là delle fatiche condivise nell' allestimento della tana, co­

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me nel caso dei castori che, nella foresta primor­diale, si costituiscono in gruppi di famiglie. È curioso osservare il castoro nel ruolo di fornitore di acqua o di costruttore edile. Per regolare illi~ vello dell' acqua esso dispone ad arte ampie e lar­ghe dighe. In questo modo, attorno alla sua di­mora, non solo i ruscelli vengono a formare uno stagno, ma, con rabbattimento degli alberi im­piegati per realizzare la costruzione, vengono a crearsi anche i «prati del castoro », ampie radu­re che si aprono nella foresta. Alcuni scavi han­no dimostrato che queste colonie raggiungono un'età paragonabile a quella delle nostre città. Questo caso merita certamente attenzione, dal momento che la cura per il rifornimento dell' ac­qua è anche una delle cause originarie della for­mazione dello Stato umano. Il lavoro del castoro può esserne considerato come una prefigurazio­ne o come un inizio. Esso è anche il primo co­struttore di palafitte.

Il fatto che, tra i mammiferi e tra gli uccelli a essi prossimi, non solo in senso filogenetico, la . formazione degli Stati incontri ostacoli notevoli, ha le sue precise ragioni nella cura dei piccoli che è loro propria. Essa è infatti individuale e non collettiva, come invece nelle più evolute forme di Stato delle termiti, delle api e delle for­miche.

Perciò, quando nei popoli e nelle civiltà umane si tenta in maniera più ardita di formare uno Sta­to, la famiglia si rivela essere il vero punto crucia­le dove esso può far presa e dove incontra resi­stenza. In modo più persistente e tenace di quan­

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to non avvenga per l'esercito, l'economia, la chie­sa e anche per l'individuo, la famiglia si sottrae alla trasformazione· che la pianificazione di uno Stato vuole imporle. La sua forza sta nel fatto che in essa non si viene a toccare semplicemente un'i­stituzione, un ceto, un sacramento, un destino in­dividuale, ma, oltre a tutto questo, anche la natu­ra nella sua stessa sostanza.

È attorno alla famiglia, dunque, che ruotano ipotesi di provvedimenti di tipo pratico insieme a considerazioni teoretiche e utopistiche. Ci si spin­ge fino a immaginare di sottrarre il bambino alla famiglia per tipizzarlo e normalizzarlo in una de­terminata direzione, a costo di sacrificare una for­mazione individuale.

Tentativi di questo tipo si possono osservare assai precocemente in certe istituzioni che sono essenzialmente conformi allo Stato e all'impronta che questo intende dare, come l'esercito ad esem­pio, soprattutto laddove ci si propone di formare unità che siano particolarmente fidate. Gli uffi­ciali e le guardie del corpo vengono spesso reclu­tati in questo modo, anche nel caso dei reggimen­ti elitari, come i giannizzeri dei sultani islamici. Essi venivano scelti tra i figli degli schiavi cristia­ni, e non potevano sposarsi.

Simili tendenze si ritrovano anche nel mondo della tecnica e crescono col crescere del processo di uniformazione automatica. Da una parte esse si propongono di coinvolgere il prima possibile il singolo entro tale processo o, almeno, di render­glielo familiare, dall' altra mirano a indebolire i suoi legami naturali che sono principio di indivi­

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duazione; essi ostacolano la normalizzazione au~ tomatica e la sua accelerazione. L'autentico scon­tro avviene tra il mondo erotico e quello della tecnica e delle sue leggi: si tratta di un fenomeno epocale. In esso si ripete lo scontro potente tra organismo e organizzazione. Tale scontro è un fe­nomeno originario. Si ripete a ogni svolta epoca­le, prima di ogni mutazione.

Non è raro nella storia che, laddove grandi imprese devono essere compiute, venga coinvol­to l'Eros e si faccia pressione sulla natura: l'asce­si, il celibato, il ritiro nell'isolamento dell'uomo che realizza adempimenti naturali o spirituali, una consacrazione religiosa o un'iniziazione, so­no esperienze ovunque note. Esse sono legate a condizioni e fatiche insolite. Non c'è dunque da stupirsi per il fatto che anche i grandi progetti di Stato provvedano a rescindere ogni esigenza di carattere naturale. Tale abolizione rientra tra gli interventi dell' organizzazione sull' organismo, dello Stato sulle potenze che si sviluppano nel popolo e nella famiglia. Un esempio della forza di tale pretesa ci è dato dal fatto che essa si im­pone con particolare intensità in Cina, la patria di Confucio.

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La parola Stand [stato, condizione, classe, ceto], per molti versi connessa alla parola Staat [Stato],

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si può intendere tanto in senso biologico quanto in senso sociologico. Da un punto di vista biolo­gico esistono per l'uomo, a rigore, soltanto due stati: quello maschile e quello femminile. Lo stato biologico colora in senso naturale anche quello sociologico. Tale caratterizzazione può. essere ignorata e trascurata, soprattutto in epoche di li­vellamento, non solo attraverso l'eguagliamento dei costumi e dei titoli, ma anche dei diritti, dei comportamenti e dei compiti. Lo stato biologico rimane comunque indifferente a tutto questo. Ciò lascia intravedere un principio più forte. Es­so sta anche al di sopra delle distinzioni tra le razze e, ogni volta che si verifica una crisi per cui la natura fa irruzione nel mondo del lavoro, mo­stra la sua potenza incrollabile. Se Robinson sul­l'isola, invece del suo Venerdì, avesse incontrato un'isolana, ciò avrebbe prodotto un cambiamen­to fondamentale nel destino del personaggio. Va da sé che ci sarebbero state anche delle modifica­zioni nella ripartizione del lavoro.

L'attuale eguagliamento tra i sessi è una delle forme in cui si manifesta quel turbine con cui si annuncia lo Stato mondiale. E non è certo l'uni­co. Insieme a esso compare anche un livellamen­to delle razze, dei ceti e delle classi sociali, non­ché delle grandi divisioni naturali, come quella tra le stagioni e tra il giorno e la notte. Tutto ciò viene subordinato e conformato all' astratta gior­nata lavorativa, che conta ventiquattro ore. A ciò si aggiunge, inoltre, la crescita improvvisa della popolazione mondiale e la spiritualizzazione a es­

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sa legata, una parola che va intesa qui in un senso del tutto generale e non qualitativamente conno­tato, come l'aprirsi e intrecciarsi di strade o come una carica magnetica. Non soltanto questi segni, ma il fattò che essi si manifestino contempora­neamente, lascia supporre che si stia preparando un grande allestimento, che va al di là del quadro del piano di uno Stato. Quei segnali non annun­ciano soltanto un compito grandioso, ma anche il suo carattere unitario, un'opera che vedrà impe­gnati non solo Stati e popoli di questa terra, ma la terra stessa in quanto tale.

In questa prospettiva si può vedere nel livella­mento anche un tributo pagato in anticipo, un sa­crificio. E non è l'unico. Anche nel sangue che fu versato nella prima metà del nostro secolo si na­sconde un contributo, pagato anticipatamenté, che fa parte del patrimonio comune dei popoli. Dei suoi proventi si potrà godere soltanto in co­mune. È il solo modo di sopportare la vista dei processi titanici in corso.

TI fatto che le guerre diventino sempre più caotiche si spiega facendo riferimento alla cresci­ta dei mezzi tecnici e all'effetto che essi produco­no in superficie. La loro crescita, di proporzioni gigantesche, tuttavia è uno dei sintomi della tra­sformazione della terra. La liberazione di potenze eroiche e titaniche fa parte del ritorno che, per effetto della tecnica, si compie in maniera sempre più evidente. Ciò che si presenta come novità è l'invenzione nei suoi dettagli, ma non nel suo rit­mo di fondo.

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Vista come puro livellamento allo scopo di incre­mentare la produttività, la parificazione dei sessi si presenta come una normalizzazione che cerca di comprimere i processi lavorativi entro forme calcolabili e misurabili. TI fatto che questa ten­denza agisca su settori che sembrano opporsi to­talmente a essa, costituisce una delle sorgenti del moderno sconcerto. In questa reazione si mesco­lano soddisfazione e avversione in una maniera tale da portare a concludere che in una simile azione concorrano costrizione e libera volontà.

Nella parificazione dei sessi sono il modo di pensare, di agire e spesso anche la capacità la­vorativa maschili a costituire un criterio di misu­ra. Si tratta dunque, essenzialmente, di portare la donna ad adeguarsi ai ritmi di un mondo pensato e creato per l'uomo.

Questo porta facilmente alla conclusione che siamo coinvolti in un ritorno del mondo paterni­tario. Ma si tratta di una valutazione errata, nella misura in cui le trasformazioni in corso nei rap­porti tra i sessi dipendono da trasformazioni più ampie e profonde. Di là, e non dall'intelletto ma­schile e dai suoi progetti, proviene la corrente del lavoro che va affrontata come la rottura di un ar­gine. Da essa l'uomo sarà investito non meno del­la donna. Non si tratta dunque di una nuova divi­sione del lavoro, ma in primo luogo di un nuovo, inaudito assalto del lavoro. In questa situazione il comportamento dell'uomo non è paragonabile a quello dell'indigeno che manda sua moglie nei

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campi perché provveda a sbrigare il lavoro che compete a lui. Il lavoro si presenta ora in una for­ma che non è possibile respingere o allontanare, ma ci assale con una spinta tale che ricorda quella dell' emergenza prodotta dall' acqua o dal fuoco.

Se un solo sesso si imponesse come dominante, non verrebbero meno le differenze tra i due sessi, si presenterebbero anzi con maggiore nettezza. Valga anche per quelle teorie che interpretano l'accresciuto potere discrezionale della donna e la sua crescente partecipazione al sapere e alla co­noscenza come il ritorno di correnti matriarcali. Si tratta di un errore, dal momento che tanto un mondo paternitario quanto un mondo matriarca­le avrebbero un aspetto completamente diverso dal nostro.

Nel crescente accelerando cui siamo esposti e cui dobbiamo far fronte, non si annunciano po­tenze matriarcali, ma potenze materiali. Quell' ac­celerazione agisce su entrambi i sessi: ciò dipende dal fatto che essa scaturisce da uno strato più profondo della sessualità, da cui questa stessa prende forma.

Si dimostrerà anche che da questa profondità affluisce potenza, una potenza indivisa, anche alla sessualità. Quando il terreno originario si solleva, la produzione viene coinvolta in una relazione che sta al di fuori e al di sopra della storia, quella appunto dell' origine che non è una creazione, ma una nascita. In questo senso la figura del padre deve trarsi da parte.

Il nostro tempo si accinge a concepire una

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grande immagine materna che non solo compren­de l'immagine del mondo in cui da sempre sono venerate le madri degli dèi e degli uomini, ma che traccia anche i confini dei misteri ultimi della ma­teria, eterno segreto per i mortali. Il fatto che a tutto questo contribuiscano, senza che lo sappia­no e tuttavia con la certezza delle mete persegui­te, lo spirito logico e la forma maschile della co­noscenza, fa parte del paesaggio di officina e del suo stile. Anche le vittime rientrano in questo in­sieme. La colpa dell'uomo può essere contempo­raneamente una purificazione della terra.

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Considerata come un livellamento e valutata en­tro i termini del piano, la parificazione dei sessi viene a urtare contro limiti che è difficile infran­gere. L'economia, con i suoi più sofisticati stru­menti di normalizzazione tecnologica, incontra non soltanto una resistenza spirituale, ma anche l'ostacolo di una reale condizione fisiologica.

Quando si apre la porta di una fabbrica o di un ufficio e si osserva lo spettacolo del gruppo apparentemente asessuato dei dipendenti, a tale impressione contribuisce in buona parte il mime­tismo. La ricostruzione avviata nei piani alti non raggiunge quelli inferiori. L'organizzazione coin­volge l'organismo solo in superficie.

Per effetto di una legge generale, le difficoltà

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dell' organizzazione sono tanto maggiori quanto più è elevato il livello di sviluppo degli organismi: la costruzione risulta tanto più facile, quanto più semplici sono le pietre con cui si costruisce. I po­poli « non sviluppati» o privi di storia si prestano pertanto più facilmente a una rifusione tecnica e ideologica di quelli dotati di una grande e antica tradizione. Si tratta di una diversa plasmabilità. In accordo a questa legge, un piano di formazio­ne di Stato potrebbe esercitare un effetto più profondo sulle forme meno sviluppate dell' albe­ro genealogico.

Nell' ambito dell'umano stato del lavoro le tra­sformazioni sono limitate alle funzioni. Una don­na può divenire minatore, soldato, fisico, presi­dente della Corte. Questo cambia il suo statuto [Stand] sociale, ma non quello biologico. Al con­trario' la perfezione dello stato degli insetti si fonda soprattutto sul fatto che, a seconda della funzione e in riferimento alle specifiche presta­zioni, cambia anche lo statuto biologico. Non si distingue qui solamente tra maschio e femmina, ma vi sono altri stati [Stà'nde], che spesso si di­stinguono al punto tale che i ricercatori li asse­gnano, nella classificazione, ad altre specie. Ci addentriamo a scrutare un mondo avventuroso, in cui la professione e l'attività non si limitano a conferire una sfumatura di colore all'individuo, ma ne definiscono il profilo dell'impronta, ne de­terminano il modo di essere. Ciò appare con grande evidenza nello Stato delle api, in cui le cellette del favo, a seconda dei loro diversi stan­dard, rappresentano appunto stampi diversi.

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Tracce di una simile standardizzazione si sono presentate spesso nel mondo della storia e, oc­corre sottolinearlo, proprio nel mondo della sto­ria, il che ci porta. a concludere che l'uomo se­condo la sua natura, e forse anche secondo la sua umanità, non appartiene alle specie che si orga­nizzano naturalmente in Stati, che dunque la ca­ratterizzazione di zi56n politik6n non ne coglie la natura essenziale.

Queste tracce sono rappresentate dal costituir­si di caste, dal matrimonio tra consanguinei entro ceti privilegiati, dal monachesimo, dallo schiavi­smo, senza cui la cultura antica sarebbe impensa­bile. Tali forme di segregazione, governate da leggi e costumi, possono dare origine a comunità stabili, che sopravvivono per secoli, specie laddo­ve sono accompagnate da prescrizioni rituali.

I prigionieri di guerra, esperti nella lavorazione del ferro, possono costituire una casta di fondito­ri che si distingue dal resto della popolazione per il colore della pelle, la lingua e il rituale, pone i suoi insediamenti in disparte e rimane non inte­grata. Tuttavia non si può dire che essa rappre­senti uno stato biologico, come quello dei guer­rieri nel popolo delle termiti, la cui forma è stabi­lita a priori in vista del loro compito. '

Anche nelle isole più solitarie, nei luoghi dove si conservano i «fossili viventi », l'uomo ha certa­mente sviluppato razze particolari attraverso la se­parazione millenaria, ma non ha dato origine né a uno stato biologico, né a una nuova specie. Quan­

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do viene scoperto egli è uomo tra gli uomini e può recuperare con un solo passo ciò che nel frattem­po gli uomini « sviluppati» hanno raggiunto.

Giudizi e pregiudizi, leggi e costumi che defi­niscono una condizione pura e incontaminata, possono innalzare montagne tra gli uOlVini, spa­lancare fratture difficìlmente colmabili. E in que­sto paesaggio che la storia gioca la sua parte, e non si tratterebbe di storia, bensì della storia del­la natura, se la libera volontà non determinasse il quadro che ne traccia i confini. La riflessione ri­sale a essa come a un'ultima istanza. Il suo mo­mento trova sede nel tempo e può trasformare il mondo laddove lo spirito si libera dei propri li· miti. Essa è l'elemento caratterizzante la species humana e in quanto tale, sebbene nell'individuo si presenti come eccezione, determina la via e i compiti della specie e della civiltà umana attra­verso i secoli.

Se paragonate a ciò che per noi uomini è pos­sibile, queste forme di separazione si rivelano ef­fimere~ In tutti i tempi hanno richiesto il sacrifi· cio di vittime, e tuttavia non ve n'è una che non sia stata travolta dall'evoluzione o distrutta da una rivoluzione.

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Quando lo Stato e il pensiero organizzatore ac· quistano una potenza pari a quella che oggi stan­no vivendo uomini e popoli, i pericoli che si cor­

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rono vengono in parte sopravvalutati e in parte sottovalutati. Essi non consistono tanto nella mi­naccia di tipo fisico che incombe sui popoli e su­gli uomini che ne fanno parte, una minaccia certo evidente, cui è esposta la specie in quanto tale, e precisamente per il fatto che essa ne è colpita nel· la caratteristica più peculiare del suo genere, vale a dire la libertà del volere. Con ciò lo splendore di una civiltà più elevata svanirebbe nel bagliore

. della perfezione. Il reale pericolo che la pianifica­zione rappresenta non sta tanto nella possibilità che essa fallisca, quanto in una sua realizzazione a buon mercato. Per tale ragione è importante che le sia dato impulso a partire da diversi centri. Ciò garantisce possibilità che vanno al di là dei piani statali specifici.

Quando si parla di un pericolo per il genere umano in quanto tale, non si intende tanto una minaccia di tipo fisico, quanto piuttosto di tipo metafisico. Da un punto di vista storico, questo potrebbe significare un esaurirsi della produzio­ne intesa nel senso più profondo: la creazione nel campo dell' arte, della poesia, della filosofia e an­che della storiografia. In teologia scompare la do­manda sulla salvezza, in biologia si estingue il ra­mo di una grande discendenza, in una direzione dello sviluppo che non va valutata da un punto di vista umano.

Lo specifico dell'uomo sta nella libertà del vo­lere, il che vuoI dire: nell'imperfezione. Sta nella possibilità di rendersi colpevole, di commettere un errore. La perfezione, al contrario, rende su­perflua la libertà; l'ordine razionale acquista la

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nettezza dell'istinto. Una delle grandi tendenze della pianificazione del mondo mira evidente­mente a una tale semplificazione. Possiamo leg­gerlo nella natura come in un libro illustrato.

A un punto di svolta del destino nel quale va formandosi un nuovo ramo della discendenza, ci si chiede quale potere abbia l'umana volontà sul­l'inevitabile. Se vogliamo o meno entrare nella nuova dimora non è cosa che si possa decidere, perché non si tratta tanto dell'entrata di un uo­mo, ma di quella di un eone; la casa si volge e si allontana come un campo oroscopi co al di sopra di uomini e popoli, e cioè in forma invisibile, ma appunto per questo con irresistibile cogenza.

Un' altra questione riguarda ciò che possiamo portare con noi. Esiste certamente anche un' ere­dità, e non solo una trasformazione. Se le caratte­ristiche fondamentali del genere umano, soprat­tutto la libera volontà, possano essere portate nella nuova dimora, se possano esservi introdotte come un' eredità o se diventino un elemento rudi­mentale: ciò varia a seconda di come si giudica.

Tale parte assegnata al giudizio porta un ele­mento nuovo nell' evoluzione. Si sono spesso veri­ficate trasformazioni geologiche come la nostra, rivoluzioni che hanno prodotto mutamenti nelle stratificazioni, e i mondi incantati che ne furono originati tradiscono il gioco di una forza potente dello spirito della terra.

Tale forza conferisce alle creature un modello e un'impronta attraverso le grandi spinte in cui la creazione si ripete, così come l'antico fuoco della terra si ripete nell'eruzione dei vulcani. Per la pri­

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ma volta ora una creatura, vale a dire l'uomo in quanto figlio della terra, è dotato di una parte di questa forza. Egli partecipa a un processo geolo,­gico, non semplicemente nel senso che lo registra e lo osserva, ma nel senso che contribuisce a de­terminarne la formazione. La sua parte è modesta se confrontata con le trasformazioni di natura geologica cui contribuisce, e tuttavia è di qui che scaturisce la sorgente della sua nuova, inaudita potenza, ma, insieme, anche del suo pericolo e della sua responsabilità.

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Che l'organizzazione non sia primariamente con­nessa alla vita, si desume dal fatto che può essere introdotta nei settori più diversi del mondo dei viventi e che può dar forma a qualsiasi elemento, realizzando in tal modo una sola e unica tenden­za. Se questa tendenza si chiama «volare» o « nuotare », compaiono ali e pinne, oppure que­ste vengono trasformate in modo geniale, nel sen­so che le ali diventano pinne, come negli alcidi o nei pinguini, o le pinne diventano ali, come nei pesci volanti.

Se si pensa alla straordinaria ricchezza che questi sforzi proteiformi dispiegano, soprattutto in epoche di grande fecondità, solo il mondo dei giochi offre un termine di paragone soddisfacen­te. L'importanza che in questi casi acquistano an­che i vantaggi tattici degli armamenti o la concor­

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renza economica fa appunto parte delle regole. del gioco. Se si valutasse il processo esclusiva­mente dal punto di vista dell'utilità, si perdereb­be molto della sua bellezza e della sua ricchezza. TI mondo presenterebbe un aspetto monotono, simile a quello dei nostri paesaggi di industria.

Ma non è questo il caso. La dissipazione as­sume tratti fantastici se in essa vengono coinvolte grandi entità, come il mondo dei trilobiti, dei sau­ri o i grandi Stati dell' antico Oriente. La fecondità dell' organismo pare inesauribile, sede autentica della vita, ma inesauribile sembra anche la fanta­

. sia dell' organizzazione. Spesso si ha l'impressione che l'organismo op­

ponga resistenza all' organizzazione. Già gli orga­ni di struttura più semplice sembrano sottrarsi a essa per costituirsi; il bios tende essenzialmente a . preferire formazioni sferiche, ovali, a forma di ca­lice o di goccia, oppure, ancora, gli stati fluidi. Per effetto dell' organizzazione si introducono in­vece modelli lineari, a raggiera, rettangolari. Ciò risulta evidente ogni qual volta in un popolo ven­ga introdotta una forma di Stato, che sia il favo di un' arnia. o la veduta aerea di una città industriale che sorge nel mezzo di una foresta. TI popolo, in questo senso, è una forza distinta che sta sul fon­do. La distinzione che Rivarol premette alle sue massime politiche fornisce effettivamente un punto cardine:

«La potenza è la forza organizzata, l'unione dell' organo con la forza. L'universo è pieno di forze che non cercano altro che un organo per di­ventare potenze. I venti, le acque sono forze; ap­

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plicate a un mulino oa una pompa, che sono i lo­ro organi, divengono potenza.

Questa distinzione tra la forza e la potenza dà la soluzione del problema della sovranità nel cor­po politico. TI popolo è forza, il governo è organo e la loro unione costituisce la potenza politica ».*

Sono osservazioni di una mente politica acuta, che ama fare cOl1fronti con la fisica. Viene però da chiedersi: l'universo brulica davvero di tali forze «che non cercano altro che un organo »? Queste forze aspirano proprio a sottomettersi al giogo che l'organizzazione impone all' organi­smo? L'acqua dei monti ha davvero bisogno di essere costretta nei canali e negli sbarramenti? TI vento vuole davvero lasciarsi imprigionare nelle vele e nelle pale dei mulini? L'energia elettrica della terra vuole essere isolata e condotta attra­verso i fili metallici per dare luce e calore alle cit­tà? TI toro chiede l'aratro e il popolo lo Stato?

Chi vuole esercitare un dominio deve certa­mente pensarla così, ma nell'universo si può os­servare in maniera altrettanto evidente una ten­denza a sottrarsi a tale dominio. Cè un brulicare altrettanto vivace di piani, idee, tendenze forma­tive, dèi, eroi, argonauti cosmici alla ricerca ine­sausta di forze da incatenare, costringere, attac­care davanti al proprio carro.

In questa prospettiva, l'universo offre l'imma­gine di un'eterna caccia, cui i grandi signori pren­dono parte armati di reti e di funi; chi cade nelle

* Emst ]Unger, Rivarol. Massime di un conservatore, trad. di Brunello Lotti e Marcello Monaldi, Guanda, Parma 1992, p. 63. (N.d.T)

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loro mani può ritenersi ancora fortunato se deve limitarsi semplicemente a servirli senza farsi cari­co dei loro conflitti.

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Se si guarda a tutto questo da una grande distan­za, come a un gioco di luce e ombra, non ci si la­scia coinvolgere dal conflitto. Ciascuno invece può fare esperienza sulla propria pelle del fatto che la caccia è in corso qui, sulla nostra terra, nell'ora del nostro destino, e non coinvolge sol­tanto gli uomini, ma anche le piante, gli animali e gli organismi della natura inanimata.

L'autentica relazione tra organismo e organiz­zazione appare dunque enigmatica per il pensie­ro, dal momento che la sua ora sta al di fuori del tempo, mentre lo spirito deve pur sempre consi­derarla entro un ordine e una successione. Essa ha tuttavia il suo posto nel mondo della contem­plazione e delle sue immagini, soprattutto nelle religioni, e anche qui resta un elemento di insolu­bilità, per il fatto che non c'è una religione sol­tanto, ma molteplici.

La libertà dell'uomo raggiunge qui il suo culmi­ne rispetto all'universo; si prendono qui decisioni dalle quali ne dipendono molte altre. Che cosa spetti al padre e alla madre, che cosa sia assegnato alla creazione e che cosa all' origine: tutto ciò varia a seconda dei popoli e dei tempi, e tuttavia da

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questo dipende ogni ripartizione ulteriore, che è determinata da questa prima disposizione.

Se al primo sguardo sull'universo e sulla gran­de divisione dei suoi strati si offrissero la rivela­zione, i sogni, la storia, non si avrebbe semplice­mente la visione passiva dell' ordine cosmico. L'uomo è presente nella sua libertà, con la poten­za del suo giudizio e delle sue istituzioni. Ciò è evidente ovunque compaiano dèij ne è un esem­pio la risposta che Simon Pietro dà in Matteo, 16,16.* Angelus Silesius, dicendo che Dio non può essere senza l'uomo, e che senza di lui lo spi­rito dovrebbe cessare all'istante di esistere, enun­cia una delle verità più grandiose e audaci.

La libertà dell'uomo rispetto all'universo si manifesta in primo luogo nella parola: gli dèi ri­cevono dall'uomo i loro nomi, da lui sono nomi­nati. Da ciò non si deve concludere che essi siano creazioni dell'uomo. Con la denominazione essi sono piuttosto tratti dal fondo senza nome del mondo; là è la loro realtà, in ogni caso più pos­sente di quella di una parola imperfetta che cerca di tracciar loro un confine. È più possente anche di qualsiasi forma di personalità che può rappre­sentarsi l'uomo come un essere organizzato e ab­bellirlo con una serie di attributi.

Se adesso, giunti a questa svolta da circa due­cento anni, cioè dall'istallazione del primo para­fulmine, le correnti materialistiche crescono acce­

" «Rispose Simon Pietro: 'Tu sei il Cristo, il Figlio dd Dio vi· vente',» (N. d, T.)

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lerando, se sulla terra compaiono dèi e stirpi di dèi, non si tratta, come spesso si sente dire, di un atto nomenclatore. Non si fondono soltanto puri nomi, oggetti di credenze, ma autentiche realtà. Ne è un segno il fatto che il terreno primordiale, rappresentato dalla terra, in questo stesso accele­rando, acquista potenza.

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TI fatto che la terra incominci a comportarsi in una maniera insolita nella storia dell'uomo, e aspiri a un'unità, non solo in senso politico, ma in un sen­so più ampio, che mette in gioco il suo stesso orga­nismo, si può collegare con difficoltà al fatto che, contemporaneamente, la tendenza all' organizza­zione si lascia avvertire con la tensione di una for­za e di una intensità prima d'ora sconosciute. Ci si potrebbe piuttosto aspettare che compaiano nuo­ve specie, foreste originarie, inondazioni, eruzioni vulcaniche: tutti segni di una caotica fecondità. Tra i due fenomeni tuttavia deve sussistere una connessione.

Si potrebbe a questo punto pensare che la pia­nificazione fornisca alla produzione una sorta di assistenza al parto, magari mettendo a disposizio­ne creature capaci di trasformare l'immediata for­za spirituale della terra nell'intelligenza mediata, e viceversa. Fu quanto compì il figlio più potente della terra, Prometeo, un titano dotato di straor­dinaria forza di invenzione che sottrasse il fuoco

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agli dèi ed ebbe il coraggio di sacrificarsi. In que­sto senso l'uomo, uscendo non solo dal percorso della sua storia, ma anche della sua preistoria, inaugura una nuova fase dell' evoluzione: libero nel volere in quanto creatura intelligente, allo stesso tempo però prigioniero di un' ora del desti­no e del compito ultraumano da essa assegnato. Responsabile, dunque, da una parte, ma dall' altra in balia di una trasformazione dello spirito della terra.

Che poi egli in questa svolta sia chiamato ad assolvere compiti difficilmente prevedibili anche ricorrendo a utopie, è più che verosimile: ci si è già avviati su questa strada. I pericoli politici del sovvertimento della terra sono intesi oggi in sen­so soprattutto fisico; presto si presenteranno an­che in forma biologica. E con ciò non si intende soltanto la creazione di nuove specie attraverso la pianificazione, ma altresì di nuovi stati [Stande] biologici. Da tempo ormai gli esperimenti hanno aperto strade in questa direzione.

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Con i grandi sovvertimenti che si verificano quando la temperatura si innalza notevolmente e si carica l'atmosfera, ci si aspettano crescite co­lossali, come nelle paludi in fermento del car­bonifero o nei bacini vulcanici dell' epoca dei sau­

. ri. Tali creature si limitano oggi a pochi e minac­ciati esemplari; le loro tracce sono conservate ne­

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gli archivi della crosta terrestre. Tuttavia oggi si ritrovano testimonianze dell' elemento titanico negli stati e nelle loro città, le loro costruzioni, i loro impianti e i loro armamenti.

Uno sviluppo iniziato in Egitto e in Mesopota­mia raggiunge, se non il suo livello ottimale, al­meno il suo massimo grado. Assai presto si pre­senta la questione se la formazione di Stati corri­sponda alla comparsa dell'uomo o se, dall'albero di questa discendenza, non nasca invece un ramo certamente grandioso ma, alla fine, sterile. Sin dal crollo della torre di Babele si sono continuamen­te visti scomparire gli Stati, mentre l'umanità si è conservata. In particolare, lo Stato e tutto ciò che è connesso alla sua essenza sono percepiti come un male. Effettivamente i popoli si accollano gra­vose corvé, sono sottoposti a odiose forme di di­pendenza, fino alla più o meno velata schiavitù e la popolazione è costretta a riprodursi in propor­zioni che contrastano quelle della libera crescita. Le guerre sono condotte per motivi razionali, prevalentemente economici, con un sempre cre­scente impiego di mezzi tecnici e in maniera sem­pre più odiosa. Non mirano più a un livellamento nel senso di Clausewitz, ma a un annientamento delle masse. È da tempo che non si può più guar­dare a esse come a un gioco che fa battere più forte il cuore degli uomini e degli dèi, come nel mondo omerico.

Da sempre «l'uomo» ha cercato di evitare le città. La libertà fisica, spirituale, etica non si ac­corda infatti con l'aria delle città. Non soltanto l'uomo libero, ma anche il saggio e il buono ricer­

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cano il deserto e le antiche caverne nei monti. Concludono là la loro esistenza temporale, come anche oggi è uso in India, o fanno ritorno tra gli uomini come fondatori o come donatori. In que­sto senso Zarathustra, dopo aver dimorato dieci anni tra i monti con la sua aquila e il suo serpente:

«Ecco! li calice vuoI tornare vuoto, Zarathu­stra vuoI tornare uomo ».*

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li vero scontro tra organismo e organizzazione è quello che oppone libertà e dominio, è laddove, cioè, il dominio ha imposto con le sue esigenze una potenza soverchiante. Negare lo Stato, rap­presentarselo come la sorgente del male e della deformazione dell'umano, fu da sempre il nucleo delle posizioni anarchiche. In ogni caso il concet­to di anarchia aveva bisogno di un'indagine ap­profondita e anche di una ridefinizione, specie nel nostro tempo, che pullula di nichilisti, mentre il tipo del nichilista puro sembra del tutto estin­to. Ma anche questo fa parte dei sintomi di una statalizzazione ampiamente progredita. Poeti del­la terra priva di confini, come Walt Whitman, si levano erratici nel nostro tempo.

L'anarchico nella sua forma pura è colui che riesce a risalire con la memoria a estreme lonta­

* Friederich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, a cura di Gior­gio Colli e Mazzino Montinari, Adelphi, Milano 1988, p. :;. (N.d.T.)

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nanze: a tempi preistorici, anteriori anche al mi­to. Egli crede che in quel tempo l'uomo abbia realizzato la sua determinazione autentica. Egli vede questa possibilità anche per l'esistenza at­tuale dell'uomo, e ne trae le sue conseguenze.

In tal senso, l'anarchico è il conservatore origi­nario, il radicale, colui che ricerca alle radici la

' salvezza e i mali della società. Egli si distingue dal conservatore per il fatto che le sue aspirazioni ri­guardano la pura condizione umana, e non uno strato che da questa si sia sviluppato nello spazio e nel tempo. Il conservatore ha una tradizione; egli «sta» in essa, perciò il suo ruolo, in un tem­po in cui tutto si trova in movimento, diventa ambiguo. Il conservatore rappresenta una condi­zione precisa e cerca di mantenerla; perciò si tro­va perfettamente d'accordo con le regole dello Stato, soprattutto se in esso sono contenuti ele­menti paternitari. Il conservatore vuole in un cer­to senso mantenere, conservare l'organizzazione. Ciò non dipende tanto dal ceto sociale che egli vi ha conquistato, quanto dal suo carattere e anche dalla tranquillità interiore e dalla soddisfazione che può trovarvi. Mentre lo spirito rivoluzionario spinge innanzi gli eventi, il conservatore cammi­na lentamente dietro a essi. Ma li raggiunge con­tinuamente. Se non riesce a star loro dietro nello spazio di una generazione, li raggiungerà con i suoi nipoti: ciò che è stato disposto da un impe­tuoso antenato è degno di venerazione.

L'anarchico non conosce tradizione né alcuna forma di distinzione. Egli non vuole che lo Stato e i suoi organi avanzino pretese su di lui o lo met­

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tano al loro servizio; non lo si può immaginare come cittadino di uno Stato, né come membro di una nazione. Le grandi istituzioni, come la chie­sa, la monarchia, le classi, i ceti, gli risultano estranee e ostili; egli non è né soldato, né ope­raio. Laddove agisca con conseguenza, deve rin­negare anche, e prima di tutto, il padre.

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L'anarchia in quanto dottrina cerca i suoi modelli nella giovinezza dell'umanità; spesso dunque col­piscono i tratti infantili dei suoi grandi rappre­sentanti. L'anarchico sa perfettamente che cosa non vuole, come dice il nome stesso. Abbandona però la sua posizione di forza se deve tradurre in pratica il suo volere. In tal caso deve rifugiarsi in una forma di pensiero che contraddice nel fondo la sua natura. Si spiega così la fatale somiglianza delle grandi utopie sociali con il modo in cui la vita, nelle arnie e nelle caserme, è organizzata sin nelle più piccole manifestazioni. I tentativi di tra­durle in pratica, dunque, falliscono sin dall'ini­zio.

Ai grandi rivolgimenti fa inevitabilmente se­guito una condizione di assenza di leggi, un sov­vertimento radicale, che fa credere che tutto sia possibile. È in questa situazione che compaiono anche gli anarchici, e si presta loro una viva at­tenzione, si affidano loro grandi speranze. Tale ingresso dura però solo per breve tempo, e lo

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conclude sempre una brutta fine. Per un attimo la società appare libera da catene, preda disponi­bile per grandi concezioni. Ma si tratta di un bre­ve interregno, come dopo la morte di un re, e il pensiero organizzatore prosegue verso nuovi, più netti ordinamenti. «Lo Stato è morto, viva lo Stato. »

All' anarchico non si contrappone soltanto il conservatore, dotato di una strumentazione poli­tica incomparabilmente migliore. Egli si differen­zia anche dal rivoluzionario intelligente, che rico­nosce lo Stato come uno strumento di potenza e che, necessariamente, trionfa tanto sul conserva­tore, quanto sull' anarchico. In questo modo la preda viene sottratta all'« uomo» e viene spesso manipolata con estrema astuzia, magari attraver­so la socializzazione che si sviluppa dalla stataliz­zazione. Queste intricate relazioni si possono analizzare nei dettagli studiando le rivoluzioni francesi del 1789 e 1830 nonché la rivoluzione russa del 1917 e gli anni a essa immediatamente successivi. TI loro comune risultato è l'impronta sempre più netta di un ordine statale. TI processo è assai ampio: non coinvolge soltanto gruppi e partiti, ma anche il cuore dei singoli. Qui si in­contrano il realismo e l'idealismo, l'uomo auten­tico e l'uomo storico, Rousseau e Saint-Just.

La figura dell' anarchico ha giocato un ruolo de­cisivo nella fase precedente i grandi rivolgimenti: senza di lui essi sarebbero impensabili. La sua protesta contro lo Stato e contro le istituzioni vie­ne dal cuore, viene dalle radici, egli esibisce un modello migliore, più giusto, più naturale. Si com­

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batte qui la battaglia preliminare nel corso della quale compaiono poeti di forza più grande, spiriti che si ritirano delusi quando entrano in campo gli esecutori politici.

La grandezza di questa aspirazione non sta nel­la ricchezza delle forme che si intendono impri­mere: sta nel modello, che è irraggiungibile. Dal­l'alba dell'umanità esso viene proiettato nel suo futuro più lontano e assomiglia a uno specchio puro, in cui essa può riconoscere le sue macchie, le sue insufficienze. Finché si è capaci di questo, la caratteristica specifica dell'umanità continua a es­sere la libertà del volere.

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L'ordine planetario è già compiuto, tanto nel mo­dello quanto nella realizzazione. Manca solo il suo riconoscimento, la sua dichiarazione. Si po­trebbe immaginare che abbia luogo come un atto spontaneo, di cui non mancano esempi nella sto­ria, oppure vi si può pervenire spinti dalla forza di una serie di eventi. Prima però vengono sem­pre la poesia e i poeti.

L'ulteriore estensione dei grandi spazi nell'or­dine globale, l'estendersi delle potenze mondiali in direzione dello Stato mondiale, o meglio, del­l'impero mondiale, si connette al timore che la perfezione conquisti una forma definitiva al prez­zo della libertà del volere. È soprattutto per que­sto che non mancano i sostenitori di un mondo

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tripartito o plurip~rtito. Ma non ci sono segni che lo annuncino. E invece evidente che la figura del lavoratore è più forte della più antica opposi­zione, che è anche l'ultima: quella tra Oriente e Occidente.

Con il raggiungimento della sua grandezza fina­le, lo Stato non conquista soltanto la sua massima estensione spaziale, ma anche una nuova qualità. Lo Stato in senso storico cessa di esistere. Esso si avvicina perciò alle utopie anarchiche o, almeno, la loro possibilità non contraddice più la logica dei fatti. Le questioni di potere sono risolte.

Non è casuale che, nel corso delle rivoluzioni, dopo un interregno in cui tutto sembra possibile, ruomo politico tomi immediatamente ad avere il sopravvento. Egli non subordina a sé soltanto le. utopie di tutti gli orientamenti, ma anche la pia­nificazione dell'economia.

La ragione fondamentale di ciò va ricercata nel fatto che gli Stati umani si sono sviluppati in ma­niera tale da mettere la sicurezza in primo piano. Quando, da un popolo, o da un gruppo di popo­li, si costituisce uno Stato, crescono gli investi­menti finalizzati alla sicurezza. Lo rivelano i bi­lanci. Anche e soprattutto a questo scopo le po­tenze mondiali fanno i massimi sforzi.

L'uomo ha portato armi da sempre, e tuttavia abbiamo ragione di pensare che, agli inizi della formazione degli Stati, ciò che oggi chiamiamo si­curezza militare avesse un'importanza molto mo­desta, forse addirittura nessuna. La divisione del lavoro veniva fatta secondo altre ragioni e con al­tre intenzioni.

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Possiamo rappresentarci l'origine degli Stati co­me una sorta di cristallizzazione, per dare luogo alla quale si unirono le forze di radici e terreniin­tatti. Lo Stato, così come si formò nelle fertili valli dei grandi, fiumi non conobbe eguali. Esso era, se non unico, certamente insulare.

TI tipo di sicurezza garantito dall'esercito deve essersi reso necessario solo più tardi. TI mediter­raneo orientale, con i suoi paesi costieri e di con­fine è una madre che ha dato origine a molti fe­nomeni, tra cui anche la guerra. Prima di allora però, molto prima che Abramo uscisse dalla sua terra, quella zona deve aver conosciuto culture

. prive di eserciti guerrieri. La grande importanza che gli Stati attribuisco­

no alla sicurezza e che determina la loro forma e il loro destino è, se non proprio una caratteristica specifica del genere umano, certamente un tratto della sua sottospecie, lo ziJ6n politik6n. Tale ca­ratteristica non si può rinvenire in altre prescri­zioni naturali; nello Stato delle api prevale senza dubbio il momento economico. Nelle specie infe­riori, la sicurezza è garantita semplicemente dalla vita sociale, dalla formazione di colonie.

La forma dello Stato umano è determinata dal fatto che accanto a esso vi sono altri Stati. Non è così da sempre, né, si spera, lo sarà sempre in fu­turo. Quando lo Stato sulla terra era un'eccezio­ne, quando era insulare, o unico nel senso dell' o­rigine, gli eserciti combattenti erano superflui, stavano al di fuori dell'immaginazione. La stessa situazione deve presentarsi dove lo Stato diventa unico in senso finale. Allora l'organismo delI'uo­

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mo, nd senso di ciò che è autenticamente umano, INDICE potrà manifestarsi nella sua purezza, libero dalla costrizione dell' organizzazione.

Prefazione, di Quirino Principe 7

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