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sport e disabiLità sport e doping sport e saLute sport e società RIFLETTIAMO CON LO SPORT letture stimolo

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Letture stimoLo: sport e disabiLità

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Letture stimoLo: sport e disabiLità

Il dopo pistorius: protesi attive guidate dal cervello

Era il 1982. Aveva 17 anni. Amava la montagna e le scalate. Era un famoso e abile alpini-sta, ma il Mount Washington lo tradì: tre giorni disperso nel New Hampshire e al ritorno l’amputazione delle gambe sotto il ginocchio a causa del congelamento. Fu allora che Hugh Herr, professore del Dipartimento di Tecnologia e Salute del Mit (Massachusets Institute of Tecnology) di Boston, decise di impegnarsi perché fossero migliorate le protesi conven-zionali. Ha iniziato a progettare da solo le sue protesi, non ha mai smesso di scalare, si è laureato in biofisica ad Harvard. Herr, uno dei nomi di spicco della rassegna InnovAction, fa parte di quegli scienziati che stanno costruendo il futuro. Questo è probabilmente il momento più entusiasmante e rivoluzionario della storia delle protesi. Uomini e donne bionici, cyborg, persone e robot: i nomi si possono trovare e sprecare. Quello che il futuro prossimo (molto prossimo) ci riserva sono arti artificiali connessi al corpo umano, allo scheletro, ai nervi. Comandati dal cervello attraverso dei microprocessori. Ma nessuno può immaginare ora cosa accadrà nei prossimi decenni. L’immagine di Oscar Pistorius, il ventunenne con tempi strepitosi amputato a entrambe le gambe, che corre con atleti normodotati i 400 metri, ha solo anticipato il futuro. Se le sue sono protesi “passive”, quelle di prossima generazione saranno “attive”, con una resa energetica che permetterà risultati straordinari. Non solo nello sport. «Tra cento anni i tempi alla Paralimpiade degli atleti amputati saranno migliori di quelli dell’Olimpiade e dovranno esserci competizioni separate perché le protesi saranno molto efficienti», dice Herr, che non vede problemi oggi per una partecipazione dell’atleta sudafricano alle prossime Olimpiadi di Pechino, se raggiungesse i tempi di qualificazione. La Iaaf (la Federazione internazionale di atletica leggera), dopo alcune analisi effettuate a novembre dal professor Bruggemann, biomeccanico di Colo-nia, aveva stabilito che le protesi gli davano un “ingiusto vantaggio” e reso impossibile la sua partecipazione a gare con normodotati. «Non penso vi sia un reale vantaggio e che le analisi fatte dal laboratorio tedesco meritino ulteriori approfondimenti» dice invece Herr. «Vedere correre un atleta come lui può causare opinioni diverse e controverse perché forse non si accetta di vedere un corpo diverso. Si guarda al corpo umano solo in termini di bellezza e non di funzionalità. Occorre cambiare mentalità. Comunque, sono convinto sia possibile avere protesi molto più efficienti di quelle di Pistorius.» Il passo successivo sarà il collegamento delle protesi al corpo. Non manca molto, secondo Herr. «Fra un decennio saranno pronte nuove protesi e sarà un passaggio rivoluzionario nella storia della disabi-lità. È un momento eccezionale della ricerca scientifica: le protesi esterne hanno risultati grandiosi e in tutto il mondo si sta conducendo la ricerca per impiantare nei tessuti mu-scolari dei sensori, che potremmo chiamare protesi interne e che trasportano l’impulso dal cervello alle protesi», spiega. Il futuro immaginato da Herr sembra un sogno per molti. Per lui sarà realtà fra qualche decennio. «Molti pensano che io sia pazzo, ma credo che, nel prossimo secolo, avremo largamente diminuito e quasi fatto scomparire la disabilità per persone amputate» aggiunge. «E questo accadrà non per l’uso di droghe o medicine, ma grazie allo studio e alla tecnologia. Forse la gente ha paura di questo perché grazie alla tecnologia la diversità non esiste. Nelle corse, per esempio, si vede un amputato di gambe battere i normodotati e magari questo mette un po’ di apprensione. Ma la strada è questa e migliorerà la vita di tante persone.» Proprio grazie al suo incidente, Herr ha co-minciato a studiare la tecnologia applicata al corpo umano e testa su di lui tutte le protesi

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che nascono nella sua mente. Come la caviglia “bionica”, che permette un movimento come quello di un piede reale. «Prima di avere l’incidente in montagna, ero un pessimo studente» conclude. «Sono tornato a scuola, volevo studiare, per me, ma anche per i tanti amputati nel mondo. Sperimento tutte le protesi su di me perché se lo facessi su qualcun altro non avrei dei riferimenti precisi e gli stessi risultati.» L’era del cyborg non è ancora arrivata e forse non arriverà mai. Le protesi saranno parte del corpo, per migliorare la vita, non per cambiare l’uomo.

c.arrigoni(conlacollaborazionediBenedettaMangiante),“corrieredellaSera”,10febbraio2008

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pechino 2008 - Natalie Du toit, il sogno si avvera

Il sogno di Natalie Du Toit può dirsi realizzato. Lei è la prima fra le atlete pronte a partire per i 10 000 metri, la maratona del nuoto, e oggi a Pechino sarà in corsa a tutti gli effetti con le atlete normodotate.Nei mesi scorsi si è molto parlato della vicenda del velocista australiano Oscar Pistorius, che, malgrado tutte le polemiche sollevate sulle sue lamine in carbonio come protesi delle gambe, non è riuscito a ottenere il tempo sufficiente per partecipare alle Olimpiadi. La storia di Natalie è invece passata in silenzio, arrivando fino alla base della Grande Muraglia e ora tocca a lei dimostrare di essere uguale a tutte le altre nuotatrici.Un incidente automobilistico a Città del Capo le porta via parte di una gamba, ma non la voglia di vivere, competere e vincere. Grazie alla sua determinazione Natalie ottiene il passaporto per le Olimpiadi e comunque vada lei la sua sfida l’ha già vinta. Dopo le Olim-piadi, Natalie rimarrà a Pechino per le Paralimpiadi, dove ha già vinto 5 ori e 1 argento ad Atene e non sono titoli che valgono meno.

c.prevosti,www.outdoorblog.it,mercoledì20agosto2008

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Il miracolo di Monique: l’atleta paraolimpica che ha ritrovato le gambe

Una giovane olandese di 26 anni recupera l’uso delle gambe dopo dieci anni di sedia a rotelle.

Monique van der Vorst aveva un sogno: vincere le Olimpiadi. Quelle per disabili, visto che un incidente le aveva fatto perdere l’uso delle gambe appena adolescente.La ragazza olandese, che oggi ha 26 anni, c’era andata vicina a Pechino, nel 2008, ma si era dovuta accontentare di due medaglie d’argento, per una manciata di centesimi. Da tempo aveva messo nel mirino Londra, e le Paraolimpiadi del 2012. Un sogno a cui ha dovuto rinunciare. Non per l’aggravarsi della malattia, però. Né per un’altra cattiva no-tizia, ma per un evento che persino per alcuni uomini di scienza non ha che un nome: miracolo. Monique ha ricominciato, lentamente, a riacquistare l’uso delle gambe, poi a camminare. Adesso sogna di correre come quando era ragazzina, spensierata e felice. E accarezza un altro sogno “irrealizzabile”: quello di andare ai Giochi, ma come atleta “normalmente” abile.L’incidente che le tolse la possibilità di stare in piedi, di muoversi, di camminare avvenne dieci anni fa. In quei brutti giorni ha dovuto inventarsi un nuovo modo di vivere. Per sco-prire, all’improvviso, di dover ricominciare tutto da capo. E non sta nella pelle. «A Natale non festeggerò in modo particolare» ha spiegato agli inviati dell’Ap che l’hanno intervistata, nella sua città, Amstelveen, poco lontana da Amsterdam, «per me ogni giorno è Natale, non so pensare a un regalo più grande di quello che ho ricevuto». Adesso ha messo in soffitta la handybike (una bici da corsa che si muove grazie alle braccia) e la speciale carrozzina da corsa che per quasi un decennio le hanno tenuto compagnia quasi ogni giorno, nei duri allenamenti a cui Monique si sottoponeva. Per lei, promettente giocatrice di hockey su prato, sportivissima e innamorata della vita, era stata una scelta naturale quella delle competizioni per diversamente abili: «Non ho mai voluto arrendermi al destino».La sua odissea era cominciata con un fastidio all’anca, che gradualmente divenne un vero e proprio incubo: lussazioni continue e dolori. E alla fine la decisione di operarsi. Ma sotto i ferri del chirurgo accadde l’impoderabile: la gamba sinistra cominciò a dolere, a gonfiarsi, a rifiutare il movimento. «Inspiegabile», dicevano i dottori. Ma intanto, in meno di un anno, anche la gamba destra cominciò a soffrire degli stessi, terribili sintomi. Presto era diventato inutile chiedere spiegazioni ai medici, così Monique – paralizzata – cercò di darsi da fare per continuare a vivere come piaceva a lei: «Presto ero tornata indipen-dente, malgrado le gambe. Potevo muovermi, guidare, volare. E anche fare sport». Fino alle Olimpiadi di Pechino e ai continui allenamenti. E tra i tanti allenamenti uno in par-ticolare, con un ciclista che la centra in pieno sulla sua handybike e la getta sull’asfalto. Brutta caduta, con un fremito che le corre lungo la gamba.Un brivido che fa riflettere Monique: «Se sento qualcosa, forse c’è ancora una possibilità». E così, lentamente, nasce in lei e si alimenta la fiammella della speranza, all’inizio fioca, poi sempre più sostenuta, alla fine brillante e intensa. La svolta avviene quando torna a “sentire” il piede destro: «Una sensazione unica, di rinascita». Poi torna la sensibilità anche in quello sinistro. Quindi, tante e tante ore di riabilitazione e la gioia di stare di nuovo in piedi, di fare le scale, di guardare negli occhi la persona con cui si sta parlando.

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«Anche il mio recupero, per i medici, è inspiegabile». Ma, stavolta, Monique di fronte alle zone d’ombra della scienza piange di gioia.

p.ligammari,www.corriere.it,25dicembre2010

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Il coraggio di philippe merita tutto il nostro rispetto

Ci sono imprese sportive che non meritano commenti: anche se sono più sportive di altre, anche se non serviranno a far vendere più costumi da bagno perché le sponsoriz-zazioni mal si associano a fuoriclasse la cui immagine non può essere “venduta” tanto facilmente.Dirò una roba orrenda, lo so, ma è quello che penso. Sponsorizzare un atleta disabile è difficilissimo: non dico che non sia giusto, dico che è difficile. Perché ci sono ancora trop-pi pregiudizi e pochissima confidenza intorno all’immagine di un atleta disabile la cui straordinarietà è data spesso dall’orrendo cinismo della natura, o dal tremendo accanirsi della vita. E per quanto molte emittenti (nel mucchio ci mettiamo anche noi) si sforzino per dare più spazio e maggiore visibilità alle imprese degli atleti disabili, un’immagine come quella del personaggio di cui vi voglio parlare oggi sarà difficilmente appetibile da giornali, siti, tv. D’altronde la patina delle copertine richiede bellezza e perfezione assoluta. E con il Photoshop certe sfumature non si correggono. È per questo che di immagini di Philippe Croizon ne trovate molte altre, in video, alla fine di questa storia. Una storia drammatica: ma che per me è anche a lieto fine. Philippe, che oggi ha 42 anni, nel 1994 rimane tragicamente ferito mentre cambia l’antenna televisiva sul tetto della sua abitazione. Una scarica da 20mila volt lo spedisce all’altro mondo per diversi minuti: ce ne vogliono 20 perché un vicino dia l’allarme, e altri 35 perché arrivi esanime all’ospedale di Tours. Quando si riprende, dopo lunghi giorni di coma prima provocato dagli esiti dell’incidente e poi dai farmaci, Philippe è senza gambe né braccia. Condannato alla sedia a rotelle: ed è un miracolo che sia vivo.Inizialmente Philippe fatica a concepire quello che gli è capitato come un miracolo: ha un figlio piccolo e sua moglie aspetta un bambino.Probabilmente, come lui stesso confida nella sua splendida autobiografia J’ai décidé de vivre (Ho deciso di vivere), pensa anche a soluzioni estreme. Che senso ha vivere così quando hai un lavoro che non potrai più fare, una famiglia da mantenere e sei senza gambe né braccia? Pensarci per un attimo è una cosa, farlo è un’altra: anche perché Philippe, pro-prio mentre inizia una lentissima rieducazione alla respirazione e alla minima mobilità che gli è consentita, vede un servizio televisivo sui lanci con il paracadute. E decide che è quello uno è sfizio che finalmente vuole e può togliersi.Qualche anno dopo, acquisita una certa normalità e uno spirito di accettazione non comu-ne, Philippe ha un’altra folgorazione, meno traumatica di quella precedente: vede Natalie DuToit, la nuotatrice sudafricana che viaggia quasi come le normodotate, nonostante sia amputata, e decide di imitarla.Per uno che sa nuotare a malapena, l’impresa diventa superare se stesso, la sfortuna. E darsi un obiettivo che sia quasi impossibile: tanto la vita lo ha già messo abbastanza alla prova, cosa può capitare di peggio?Philippe, che galleggia a fatica e nuota per non più di due vasche, progetta nientemeno di attraversare la Manica e si offre come “esperimento” per le aziende che producono protesi moderne: affronta test e allenamenti, allenamenti e test. Allenarsi diventa un lavoro, la piscina lo ospita 30-40 ore alla settimana. La marina francese gli dà assistenza e appoggio: la sua casa diventa la splendida cittadina fortificata di La Rochelle. Si allena tutti i giorni Philippe, finché non trova le protesi giuste: e in quel momento comincia

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ad allenarsi di più. E pone un circoletto nel calendario: 19 settembre 2010. Sarà quello il giorno dell’impresa, perché quando gli era capitato di vedere la Manica, il 19 settembre dello scorso anno, il mare gli era sembrato accogliente e da lontano aveva visto persino qualche delfino.Il 19 settembre 2010 Philippe va in acqua, lui, le sue protesi e la sua ostinazione: a fargli compa-gnia in un’impresa impossibile, che parte alle 06.45 da Folkestone, il figlio, che gli sta vicino, lo incoraggia e gli dà i tempi e i ritmi dell’impresa. Alle 9 del mattino lo raggiungono altri amici, tre delfini che giocano con la sua lentissima scia e lo scortano per diverse ore. Alle 20.13 Philippe tocca terra, dopo quasi tredici ore e mezza di nuoto, a Cap Gris Nez: quando se ne sono andati i delfini, un paio d’ore prima di arrivare, gli hanno fatto compagnia solo le urla di incitamento del figlio, i crampi, il dolore e la voglia di smettere. Ma è compagnia anche quella: «Ho deciso di non privarmene fino a quando non sono arrivato» dice quando tocca terra.I delfini portano fortuna: a pochi capita l’onore di nuotare con loro. Philippe, che di fortuna nella vita non ne ha avuta molta, sicuramente si è guadagnato questo privilegio. E tutto il mio, il nostro, rispetto.

S.Benzi,http://it.eurosport.yahoo.com,19settembre2010

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Dall’Inghilterra alla Francia: l’impresa del nuotatore senza braccia né gambe

Il 42enne aveva perso tutti e quattro gli arti in un incidente domestico a 16 anni

Philippe Croizon c’è l’ha fatta: ha compiuto la sua missione impossibile di attraversare a nuoto i 34 km della Manica nonostante sia privo di braccia e gambe. Croizon, francese 42enne che 16 anni fa perse gli arti in un incidente domestico, si è tuffato in acqua sa-bato mattina poco dopo le 8 a Folkestone, in Inghilterra. Alle 21.30, dopo 13 ore e mezza interminabili, è riuscito ad attraversare a nuoto il canale toccando terra alle 21.30 sulla costa francese. Croizon ha imparato a nuotare appena due anni fa. Con l’ausilio di due speciali protesi alle gambe e di un boccaglio è riuscito così a coprire la distanza che divide l’Inghilterra dalla Francia.

L’INCIDENtE DEL 1994 - Il nuotatore rimase vittima di un terribile incidente nel marzo 1994, quan-do subì diverse scariche elettriche a 20.000 volt mentre smontava un’antenna televisiva sul tetto di casa. Mentre era a letto dopo l’incidente e le amputazioni, 16 anni fa, promise che avrebbe fatto di tutto per tentare l’impresa. Padre di due figli, Croizon ha fatto concepire e costruire appositamente delle protesi equipaggiate di pinne che sono state fissate a quello che resta delle sue gambe. Con i monconi di braccio non può nuotare ma può aiutarsi a rimanere in equilibrio e non soffrire così il mal di mare. In media procede a meno di 3 km l’ora, contro una media di 4-5 per un nuotatore non handicappato. Ex operaio metal-meccanico, si è allenato fino a 30 ore a settimane per compiere la traversata.

www.corriere.it,19settembre2010

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Campione dopo due trapianti

Enrico Belingheri, 28 anni, dimostra che lo sport è una potente spinta per superare la malattia.

Partiamo dalla fine. Da una frase che sembra uno slogan pubblicitario ed è invece la cifra della sua personalità esuberante: «Lo sport non è consigliabile. È obbligatorio!». Enrico te la butta lì, al termine di una lunga chiacchierata, con quella faccia che ricorda tanto Antonio Cassano. Stessa età del fantasista barese del Milan, 28 anni. Stesso mese di na-scita, luglio, e un solo giorno di differenza: il 12 Fantantonio, il 13 lui. Identico sorriso, scanzonato e provocatorio. Anche Enrico Belingheri, consulente informatico da Paderno Dugnano (Milano) – «interista però», si raccomanda – è un atleta. Con qualcosa in più, forse. È un atleta prima dializzato e poi trapiantato che gareggia con la squadra sportiva dell’Aned. L’Associazione nazionale emodializzati rappresenta l’Italia nella World Tran-splant Games Federation, partecipa ogni due anni ai Summer World Transplant Games e ha conquistato medaglie nel nuoto, nel volley e nell’atletica. Ecco, Enrico fa parte delle nazionali di pallavolo e di calcio dei trapiantati. Testimone di se stesso, prima di tutto. Ma anche di una “categoria” che ha trovato nello sport un alleato terapeutico e una ragione in più di accettare la propria condizione.Nella settimana dei Giochi invernali, che si è chiusa a Chiesa Valmalenco (Sondrio), En-rico e i suoi compagni volevano ancora una volta celebrare il felice connubio tra sport e trapianto. Purtroppo nei giorni scorsi una caduta accidentale sugli sci è costata la vita a uno di loro, Elio Ceccon, 49 anni di Aosta, “anima” delle squadre di Aned. Così anche il sorriso di Enrico si è un po’ spento. «Una bella persona, un padre di famiglia e un grande amico» ricorda lui ancora scosso. «È stato tra i primi a dimostrarci che lo sport va fatto, meglio ancora se si è in una situazione come la nostra». Già, com’era la situazione di En-rico? Famiglia normale, la sua. Il padre Bortolo faceva l’operaio in una ditta di vernici. La madre, Egidia di 63 anni, con la quale Enrico continua a vivere da figlio unico, lavo-rava in un’azienda di impianti elettrici ma dopo aver partorito era rimasta a casa. «Fin dalla nascita mi è stata diagnosticata un’insufficienza renale. Tutto quello che mangiavo e bevevo non veniva depurato dalle scorie e dall’acqua in eccesso. Ero intossicato e di conseguenza non potevo crescere come qualsiasi altro bambino sano» racconta Enrico. In attesa del trapianto, doveva seguire una dieta povera di sodio e di proteine per non sovraccaricare i reni. Mangiava attraverso un sondino, perché tutto quello che ingoiava veniva sistematicamente rigettato.Tra i quattro e i cinque anni ha cominciato la dialisi peritoneale alla Clinica De Marchi di Milano, dove con un intervento gli hanno inserito un catetere nell’addome. «Fortuna-tamente nell’inverno del 1988, a 6 anni non ancora compiuti, si è presentata l’opportunità tanto sperata di un trapianto anche se a Parigi. Sono rimasto circa un mese all’ospedale Necker Enfant e successivamente ho fatto dei controlli a giorni alterni per un periodo di circa due mesi. A settembre di quell’anno ho iniziato le scuole elementari insieme a tutti i miei coetanei e ho proseguito la mia vita normalmente, ritornando ogni estate a Parigi per i consueti controlli annuali». Con quale stato d’animo aveva affrontato la scuola e i compagni? Senza fare mistero della sua situazione. Anzi, rispondendo sempre a chiunque volesse saperne di più. «Per fortuna ho un carattere molto aperto e socievole. Non mi sono

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mai sentito un “diverso”, se non come chiunque abbia un problema serio di salute». Pur non essendo grandi sportivi, i genitori hanno sempre assecondato la passione atletica del figlio: nuoto, consigliato dai medici, e minibasket perché piaceva a Enrico. Nel ’92 ha conosciuto Aned e la sua voglia di sport ha potuto svilupparsi appieno. Nell’ottobre del 2001, però, proprio alla fine dell’ultimo anno di scuole superiori, il rene trapiantato ha ceduto ed Enrico si è ritrovato di nuovo in dialisi. «Inizialmente mi era sembrato un calvario, anche perché per la prima volta mi rendevo conto delle vere difficoltà che anni addietro avevo superato inconsapevolmente» aggiunge.Quegli anni sono trascorsi tra un espianto, nel febbraio del 2002, e un cambiamento di tipologia di dialisi: dalla peritoneale, ormai non più indicata per la sua situazione, a una più opportuna emodialisi nel luglio 2004. Enrico non ha mai smesso di fare sport nep-pure in quel periodo. È sempre riuscito a partecipare ai Campionati invernali, ma non ai Mondiali per trapiantati. «Con mia grande sorpresa nel giugno del 2006, alle porte dei Mondiali di calcio di Germania, ho ricevuto in dono il secondo e attuale trapianto, que-sta volta in Italia. Ogni giorno cerco di conservarlo al meglio e il più a lungo possibile. Il dono del trapianto, che per la seconda volta mi è stato regalato, è davvero prezioso, unico e raro». Adesso gioca da centrale nella Nazionale di pallavolo trapiantati e come terzino in quella di calcio. Gli allenamenti si concentrano di solito in un weekend lungo, ogni tre o quattro mesi. Scia e, giusto per non farsi mancare nulla, nel 2009 ha cominciato anche a immergersi e ha preso il brevetto. «Personalmente vivo la mia vita sempre al meglio e sempre dimostrando a me stesso e agli altri che grazie a questo dono posso competere e dimostrare di essere uguale e migliore di loro. Certo continuo a chiedermi: la vita è in credito o in debito con me? E non ho una risposta».

r.corcella,www.corriere.it,2febbraio2011

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Esther Vergeer: gli US open sono anche lei

Appassionata di tennis, ho seguito con attenzione questi US Open e ammetto, con since-rità, di aver gioito alla vittoria di Nadal. Il maiorchino è il mio tennista preferito, non avrà la classe di Federer, il talento di Murray, ma è un combattente, s’impegna, lavora alacre-mente e ha mostrato miglioramenti impressionanti, meritando pienamente di vincere lo slam newyorchese. Accanto alla tanto celebrata vittoria dello spagnolo, o al successo di mamma Kim Clijsters, gli US Open hanno regalato altri grandi campioni, i cui nomi ai più, forse, risultano sconosciuti, ma che hanno la stessa forza, lo stesso talento e la voglia di emergere degli sportivi più noti al grande pubblico.Sto parlando di Esther Vergeer, la numero 1 tennis in carrozzina. 29enne, olandese, si è aggiudicata l’ultimo atto del torneo della Grande Mela battendo con un doppio 6-0 l’australiana Daniela Di Toro. Per Esther si trattava della 394esima partita consecutiva vinta in sette anni. Un po’ come Federer, per rimanere nel tennis, che in bacheca può contare ben 16 slam. Numeri che impressionano quelli dell’olandese rimasta paralizzata alla tenera età di 8 anni in seguito a un intervento chirurgico che le salvò la vita ma le tolse l’uso delle gambe.La Vergeer, però, non si è arresa, voleva essere considerata come le altre e, soprattutto provava un amore per lo sport che non le avrebbe permesso di fermarsi davanti a nulla e nessuno. Così, iniziò a praticare il basket e, contemporaneamente, il tennis. Entrambe le discipline, naturalmente, con ottimi risultati. Ma arriva un momento in cui devi operare delle scelta. Nadal, per rimanere sempre in ambito tennistico, fu spinto dallo zio Toni a decidere se praticare il tennis o il calcio, un altro sport nel quale non sfigurava. Lui scelse il tennis. Esther ha fatto lo stesso. E i risultati l’hanno premiata, nel suo palmares conta 10 campionati del mondo di tennis su sedia a rotelle e 3 medaglie d’oro in singolare alle Paralimpiadi. Ma la tennista olandese non si ferma qui: il suo obiettivo è gareggiare a Londra 2012 e vincere il quarto oro. Il resto si vedrà, magari metterà su famiglia, magari si dedicherà ad altro, penserà alla sua fondazione che promuove lo sport per i disabili. Non disdegna la pesca e lo sci, attività che ha già praticato qualche volta in passato. Di sicuro non perderà tempo, è troppo importante e lei, che sa cosa significa rischiare la vita e salvarsi per un soffio, non vuole aspettare che le lancette dell’orologio segnino inesorabile lo scorrere dell’esistenza senza fare nulla.«Quando sono rimasta paralizzata, il mio unico desiderio era dimostrare al mondo che ero ancora Esther. Allora ho cercato qualcosa in cui eccellere, qualcosa per cui la gente mi avrebbe ricordata», ha spiegato. C’è riuscita Esther, un esempio per tanti, un esempio per tutti. Gli US Open sono anche lei.

http://it.eurosport.yahoo.com/blog/tacchetti-a-spillo/30giugno2011

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ingIl doping visto dagli atleti: «obbligati a prendere steroidi!»

«Mai, vi assicuro, mai mia figlia Jennifer praticherà sport d’alto livello… Ha sei anni e, finché vivrà con me, le impedirò la competizione d’alto livello, qualunque sia il Paese in cui vivremo.»Comincia così, con queste parole durissime, l’intervista raccolta da Serge Bressan per il settimanale francese “L’Express”. A parlare è una giovane e avvenente ragazza di 27 anni che vive a Vienna e che anche gli esperti di nuoto stenterebbero a identificare: eppure si tratta della prima donna capace di scendere sotto il minuto nei 100 farfalla, la tedesca Est Christiane Knacke. Il suo, nel 1977, fu un record del mondo che fece rumore, ma da allora è molto cambiata.«Non accuso lo sport, amo il nuoto: accuso un sistema», dice.Da un anno Christiane vive a Vienna e ha accettato di raccontare la sua storia: una pe-santissima denuncia del “doping di Stato”, già anticipata, ma con meno particolari, questa estate.«All’età di 10 anni mi allenavo due ore al giorno. A 12 anni due allenamenti quotidiani: nuotavamo più di 10 km al giorno. La scuola? Come tutte le ragazze nelle mie condizioni ero in ritardo sui miei coetanei, ma che importava! Lo avevano tanto ripetuto anche ai miei genitori: “Con lo sport la vita sarà più facile, potrà viaggiare, avere vestiti nuovi”.A 13 anni sono seconda ai campionati nazionali giovanili. I miei genitori allora devono firmare un formulario nel quale si impegnano affinché nessun membro della famiglia, compresa io stessa, abbia il minimo contatto con l’Ovest. Tutti i giorni in piscina mi ri-trovo al fianco dei componenti della squadra olimpica. Il mio corpo di bambina cambia, prende presto forma, ma non mi pongo domande vedendo campioni diventare tanto forti. L’allenatore ci dà compresse di vitamine e proteine, afferma. Ne dobbiamo ingoiare tante che talvolta ne gettiamo via una parte nei bagni della piscina. Il 28 Agosto 1977, alle 15.48, a Berlino Est, nel corso di un incontro con gli USA batto il mondiale dei 100 farfalla: con 59˝78 sono la prima donna a scendere sotto il minuto. Credo ancora di non aver preso il benché minimo prodotto dopante. Soltanto vitamine e proteine che mi dà l’allenatore Rolf Glaser. E, ogni tanto, vengo sottoposta a sedute di stimolazione muscolare elettrica. Dopo il record però mi fanno aumentare le distanze nuotate in allenamento: più di 20 km al giorno. Glaser mi ripete: “Devi migliorarti; gli stranieri capitalisti fanno ricorso al doping”. Poi un giorno mi dice, dandomi altre pillole: “Per rigenerare più alla svelta il tuo organismo. Se non le prendi non nuoterai più”. Sulle confezioni non c’era scritto nulla. Tutti questi prodotti li prendo perché mi vengono dati dal mio allenatore e ho fiducia. Per me è diventato quasi altrettanto importante di mio padre. Ogni giorno prendo la mia dose di steroidi: da 10 a 15 pillole. Mi fanno una puntura, saprò poi che era un misto di corti-sone e procaina, un analgesico. Due volte alla settimana mi viene fatta una perfusione: il liquido è talvolta trasparente, talvolta bianco come il latte. Sul flacone c’è scritto: glucosio. Con questo regime, in meno di un anno sono ingrassata di 15 kilogrammi. Per 1,63 metri di altezza sono passata da 50 kg a 14 anni ai 65 dei 16 anni. E ci viene ripetuto: “Dovete sapere cosa volete essere: ragazze normali o sportive d’alto livello. Ma se siete qui è perché avete già scelto”. Ed è vero che se mi vergogno del mio nuovo corpo, così gonfiato, se mi sento troppo pesante, continuo ugualmente a prendere questi prodotti, perché lo sport è il solo mezzo che conosco per poter viaggiare, per uscire dalla Germania Est. Nel 1978,

Letture stimoLo: sport e doping

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anno dei mondiali, sono tra le prime del mondo, ma poco prima della manifestazione vengo spedita vicino a Dresda, a Kreischa, sede dell’istituto medico sportivo. Ci ritrovo Petra Thumer, olimpionica del 1976. Anche lei è stata sottoposta a controlli antidoping “preventivi”, dato che ora anche gli steroidi sono rintracciabili: risultiamo positive nono-stante abbiamo smesso di assumere steroidi da molti giorni. Siamo costrette a saltare i mondiali di Berlino Est. Abbiamo certamente preso troppe pillole. Ci spiegano che dob-biamo essere “ripulite”. Ci viene detto che le medicine che avevamo preso non vanno più bene. Restiamo 137 giorni a Kreischa. I medici fanno esperimenti su noi. Vogliono sapere perché restano ancora tracce nelle nostre urine e come fare per eliminarle o nasconder-le. È stato là che ho cominciato veramente a preoccuparmi. Ma se reagisci, perdi tutti i privilegi: studi, appartamento… Per questo ho continuato. Nel 1980 prendo parte all’Olimpiade di Mosca e finisco terza nei 100 farfalla. Poco dopo devo essere operata al gomito destro. Gli steroidi hanno impoverito di calcio l’osso: è come un cristallo. Oggi, dopo 3 operazioni, è di plastica! Avevano provato con supporti metallici, ma si rompeva lo stesso. Mi hanno dato narcotici per sopportare i dolori, mi hanno prele-vato midollo spinale. Nel 1983 (mitico anno), due anni dopo il mio ritiro sportivo, nasce mia figlia. Non ha ancora 6 mesi, quando cade dalla carrozzina: ha un grande ematoma, grida, ha dei crampi. È ricoverata d’urgenza. Due settimane dopo i medici mi spiegano che non ha nulla di grave. Nessuna lesione, nessun tumore. Ma ha anche la febbre: anche più di 40 °C. Nel giugno 1984 devo lasciarla in ospedale. Per 18 mesi lotterà tra la vita e la morte. Un giorno l’assistente del professore che la cura mi spiega che Jennifer non ha sofferto a causa della caduta ma di squilibri ormonali. Anche lui è stato sportivo d’alto livello e dice: “Nulla di stupefacente, visto tutto ciò che hai ingerito quando nuotavi”. La mia Jennifer era figlia del doping. In quell’anno due mie compagne, Barbara Krause e Andrea Pollak, erano pure incinte. Andrea ha fatto un aborto spontaneo al 5° mese, a Barbara il bimbo è nato con un piede deforme e 3 anni più tardi ne ha avuto un altro con la stessa malformazione. Così ho saputo che eravamo state cavie da laboratorio. Più tardi un vecchio campione di ginnastica diventato medico mi ha spiegato che i problemi miei, di Barbara e Andrea non erano isolati. Altre atlete hanno messo al mondo bimbi deformi. E ciclisti sposati con donne non sportive hanno figli con malformazioni o ritardati. Oggi ho ritrovato il mio corpo: mi ci sono voluti 8 anni per perdere 15 kg, ma sono sicura che dentro di me gli steroidi vivono ancora. Ho paura. Temo anche che tali vergogne esistano non soltanto in Germania Est. All’Ovest non credo che si arrivi a toccare anche i bambini, non ancora, ma chi lo sa?… Il caso Johnson ha dimostrato che a un campione come lui si rimprovera d’essersi fatto scoprire. Ebbene, noi non abbiamo avuto questa fortuna…»

S.Bressan,“l’express”,1988(citatodap.laureinleDopage,editionspuF,1995)

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Quei cinquantenni in bicicletta con il vizio assurdo del doping

Gli sforzi (immotivati) per gare amatoriali e imprese da raccontare. L’illusione: «È come se si volesse prendere per la coda la giovinezza che fugge, correndo come non mai».

I piccoli si dopano? Qualcuno potrebbe dire: be’, imitano i grandi. Ma c’è una misura extra di tristezza, nel sapere che la Maratona dles Dolomites – scenario spettacolare, spirito ama-toriale, festa collettiva – ha assunto il vizio assurdo del ciclismo professionistico. Nel 2010 è stato squalificato il vincitore. Quest’anno, venticinquesima edizione, si è corsa lo scorso 10 luglio: per ora siamo a tre “non negatività” su dodici controlli (traduzione: positività al primo esame antidoping, in attesa delle controanalisi). Altri dieci partecipanti – leggiamo – sono stati convocati dalla Procura della Federazione Ciclistica Italiana, sospettati di aver evitato i controlli, di aver corso con dorsali contraffatti o sotto nome falso. «Esaltati alla Maratona dles Dolomites non ne vogliamo, ma non sappiamo più cosa fare per escluderli». Così si è sfogato Michil Costa, albergatore ambientalista di Corvara, organizzatore della manifestazione, uscendo dalla sua abituale “giornata del silenzio” (ogni lunedì). Esaltati. Aggettivo impeccabile: solo l’esaltazione, infatti, può portare ad assumere sostanze proi-bite in una gara per dilettanti che non assegna premi in denaro (i vincitori tornano a casa con mele e speck). Ma forse è bene approfittare dell’occasione, e spostare lo sguardo dalla patologia alla fisiologia. Anche qui, infatti, qualche preoccupazione è d’obbligo. Sono redu-ce da dieci giorni di spostamenti continui tra le montagne del Trentino e dell’Alto Adige: ogni due tornanti, due ciclisti non più giovani, stravolti dalla fatica. Passo Gardena, passo Pordoi, passo Sella: in alto le Dolomiti sfavillano, esuberanti di bellezza; ma loro hanno occhi solo per l’asfalto. L’ammirazione, in questi casi, si mescola con la preoccupazione. Lo sforzo appare eccessivo e rischioso. Diciamolo: immotivato. Eppure sono tanti, sem-pre di più. Alzi la mano chi non ha un amico cinquantenne preso da improvvisa, matta e disperata passione per la bicicletta, pronto a sfidare sciatica, buon senso e moglie per un’impresa da raccontare. La nuova mezza età non conosce vie di mezzo. È come se vo-lessimo prendere per la coda la giovinezza che fugge; e per raggiungerla corressimo come non abbiamo mai fatto, neppure da giovani. Il ciclismo non è l’unico sfogo: i cinquantenni italiani, altrettanto spesso, diventano gourmet, giardinieri e golfisti. Attività insidiose per la bilancia, le ortensie e il portafoglio. Il ciclismo in dosi massicce mette a rischio le coronarie. I lutti, in questi mesi, si succedono, e noi veniamo a conoscenza solo dei casi e dei nomi più noti. Lo sport – tutto – è meraviglioso, e l’attività fisica ci regala serenità: le endorfine conoscono il loro mestiere. Lo sforzo eccessivo e ossessivo ha invece qualcosa di nevrotico. Mi è capitato di osservare alcuni di questi atleti maturi e di trovarli robotici, mentre narrano o preparano le proprie imprese: come se fossero schiavi, e non signori, della propria passione. Certo: la maggioranza – crediamo, speriamo – non è disposta ad assumere sostanze proibite per quello che resta – comunque – un passatempo. Ma si sa: nelle cose umane, l’ossessione è inversamente proporzionale alla cautela. Michil Costa si dice deluso, irritato e preoccupato: «Riceviamo ventottomila domande per la Maratona dles Dolomites, ne accogliamo novemila. Il mio timore è che chi viene ammesso voglia farcela a tutti i costi, anche se non è fisicamente all’altezza. E davanti alla prospettiva di uno sforzo gigantesco, si senta giustificato se ricorre alla farmacia proibita». Se fosse

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vero, sarebbe grave. Peggio: sarebbe tutto inutile. Inutile aver chiuso i passi al traffico a motore, in occasione della manifestazione; inutile aver dimostrato che il turismo timido attira e paga; inutile chiedere a quelle montagne speciali di fornire la scenografia per un copione tanto banale. Ricordino, i coetanei ciclossessivi: ci sono anche le mountain-bike elettriche e le lunghe passeggiate con un libro in tasca. Due cose – credetemi – che danno grandi soddisfazioni.

B.Severgnini,“corrieredellaSera”,12agosto2011

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ingGuardi. Mio figlio deve vincere. A tutti i costi

Mamma-doping ordina farmaci proibiti per la 15enne, nuotatrice. Papà-epo, un ragazzo ciclista della stessa età, fa incetta di fiale. E un altro genitore chiede anabolizzanti per i suoi pargoli tennisti. Da due inchieste, un terribile squarcio familiare. La telefonata suona per metà perentoria e per metà velleitaria. L’ordine arriva come una frustata: è così che deve andare – intima la voce –, guai se non dovesse accadere. E, a seguire, l’ordinazione: quando e dove prelevare il necessario per essere certi che l’ordi-ne impartito venga rispettato, in modo da non annegare nella frustrazione. Che tipo di ordine? A prima vista, niente di speciale: un semplice ordine d’arrivo. Nient’altro che un responso agonistico, un foglio-gara, un esito finale. Siamo nell’ambito sportivo giovanile e amatoriale (se non fosse che questa storia testimonia tutto il disordine morale che oggi si aggira in certo lessico) – e vissuto – familiare. Prendersi cura dei figli, desiderare che crescano sani: due frasi che si danno per scontate, su intenzioni acclarate e naturali. Due frasi persino inutili o banali: capita però, di questi tempi, che qualche genitore si prenda la briga di invertire gli addendi – cura e sani – in un’operazione immorale e criminale assieme. Mettendo figli sani in cura. Un’operazione dove gli addendi si fanno additivi da somministrare e dove cambia clamorosamente il prodotto desiderato. Non più il fine – la crescita salutare, fisica ed emotiva, di un ado-lescente alle prese con l’attività sportiva e il suo alternarsi di successi e sconfitte – ma il mezzo per garantirsi i primi e cancellare le seconde. Il prodotto illecito – ogni sorta di doping, insomma – come l’alimentazione naturale per i loro figli atleti, necessariamente vittoriosi, tirati su a farmaci proibiti. «Deve vincere», intima la mamma di una nuotatri-ce quindicenne nell’intercettazione resa nota dalla Procura di Torino a fine settembre, nell’ambito dell’inchiesta su atleti dopati, ricettazione e frode sportiva che ha portato a dieci denunce e all’arresto di un preparatore atletico comasco. E ancora: «Mia figlia non può arrivare seconda». E dopo un po’, raccontano gli investigatori, ecco che si fionda a casa dell’interlocutore a fare scorta di fiale per curare la malattia – non si capisce bene se della ragazzina o piuttosto la sua: la frustrazione di non essere davanti a tutti, l’incapacità a gestire la normalità di un insuccesso, di un piazzamento, di un posto diverso dal primo. Come se nella vita ci si dovesse sedere sempre a capotavola. Come se un insuccesso fosse un vuoto a perdere anziché uno stimolo di rivincita e un gap da colmare. In un allucinato disordine d’arrivo. L’inchiesta ha ribattezzato mamma-doping la signora comasca, ma ci sarebbe pure un papà-epo brianzolo (Epo uguale Eritropoietina, un ormone, sostanza proibita e pericolosa), visto che è finito sotto inchiesta il genitore di un altro quindicenne, ciclista stavolta. E comunque non sono i soli, purtroppo. Tre mesi fa, l’inchiesta “Anabolandia” sui traffici di sostanze dopanti, partita da Rimini (quattro arresti e 54 indagati) e allargatasi in nove regioni d’Italia, ha raccontato la stessa storia. Nell’ordinanza, per esempio, c’è un genitore che per i suoi due ragazzi tennisti, agonisti, naturalmente minorenni, chiede al medico compiacente qualche sostanza dopante per fare meglio e giù una bella prescrizione di sta-nozolo, gonasi e omnitrope: un cocktail infernale di anabolizzanti, testosterone e ormone della crescita, così, giusto per non farsi mancare niente. E c’è un altro genitore, figlia e

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figlio ciclisti, che si fa consigliare epo per lei e testosterone per lui, in modo che ciascuno abbia il suo doping su misura. Quasi fosse un regalo personalizzato da procurare loro, al pari del libro, del vestito, del cellulare desiderato. Figli sani, veri atleti per giunta, curati – a prezzo di incredibili rischi fisici futuri –, truccati, adulterati. In nome del cinismo velleitario di genitori mal cresciuti. Insomma, una vera catastrofe educativa, figlia dello sciocchezzaio della “mentalità vincente”, di quel messag-gio triviale “o sei primo o non vali niente”, fatto circolare ad arte magari da chi truccava per primo le carte e che tanti danni ha fatto in questi anni da noi in Italia, a cominciare dalla cancellazione di una sana cultura della sconfitta, disconosciuta e senza valore: il peccato originale di un bel po’ di violenza. Anche di questa, a colpi di doping, fatta ai propri ragazzi. In perfetta armonia con l’amorale favola che ogni scorciatoia è lecita per il proprio figlio, per la propria figlia – basta ricordare certe intercettazioni genitoriali del bunga-bunga – pur di stare lì davanti. Alla faccia di onestà e fatica, di impegno e merito, vissuti ormai come un’onta. «Deve vincere. Mia figlia non può arrivare seconda».

c.Fiumi,“Settemagazine”,20ottobre2011

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ietàIl sorpasso delle donne. Sul podio

Corriamo, nuotiamo, lanciamo, pedaliamo, schiacciamo, ci tuffiamo dal trampolino. E vinciamo. Per la prima volta nella storia del nostro sport, più degli uomini.Dopo il pareggio dell’Olimpiade di Pechino 2008 (4 a 4 gli ori nel medagliere), il sorpasso ai Giochi del Mediterraneo dello scorso giugno: 34 ori al femminile contro i 30 dei ma-schi. Controtendenza pura. Mai prima di Pescara 2009, in un evento estivo (Olimpiadi incluse), le sorelle d’Italia erano riuscite a superare i colleghi. Ma il meglio deve ancora arrivare. La proiezione delle nostre medaglie ai Giochi di Londra 2012, quando saremo in pieno riflusso di femminismo postmoderno, parla chiaro: 13 ori, 6 argenti, 14 bronzi. 8 ori a 5, un totale di 20 medaglie rosa shocking contro 13. La rivoluzione. Dei risultati, dell’equilibrio, del costume e del luogo comune: sesso debole, a chi?Nello sport è stato, ed è, l’anno delle donne. Pellegrini e Filippi, nostre signorine del cloro. Pennetta, prima italiana nelle top 10 del tennis. Guderzo, regina del ciclismo su strada. Nonna Idem, 20ª medaglia mondiale nella canoa a 45 anni (prosit). Cagnotto, un tuffo dove l’acqua è più blu. Jessica Rossi, Calamity Jane a 17 anni. E poi, a cascata: le bambine della ritmica (oro), le ragazze della scherma (oro nella spada e nel fioretto), le donne del volley (oro europeo). Quasi ogni confronto, diciamocelo, uno smacco. A cui, però, non corrisponde un’eguale scalata ai vertici delle stanze dei bottoni dello sport.I numeri portati a Roma da Manuela Di Centa, deputato del Pdl e membro del Comitato olimpico internazionale, al congresso “La donna atleta”, fortemente voluto dal segretario generale del Coni Raffaele Pagnozzi, sono sconcertanti: 6% di donne presidenti di Fede-razioni internazionali (zero su 45 in Italia…); 3% presenti in organi dirigenziali del CIO (nessuna vice presidente, 1 donna su 15 membri dell’Esecutivo). «Un dato allarmante – ha sottolineato la Di Centa, vice di Petrucci al Coni per una stagione (2005-2006) dopo il quadriennio di Diana Bianchedi –, che non rispecchia affatto la crescita delle atlete e le linee guida stabilite dal CIO: Samaranch aveva previsto il 20% di donne dirigenti sporti-ve…» Al Congresso mondiale di Copenhagen che ha appena rieletto Jacques Rogge, su sei nuovi membri CIO uno solo era donna (71 i candidati). Alla faccia della Carta Olimpica, che sottolinea il valore dell’uguaglianza. Sarà che quando dipende solo da noi, in una leale competizione tra donne su un terreno di gioco, niente e nessuno può dirottarci dall’obiettivo? Forse. Ma non solo.Alle radici del boom che ha trasformato l’Italia dello sport in un Paese a trazione femmi-nile, innanzi tutto ci sono i numeri. L’impennata irresistibile delle praticanti: 2 milioni e mezzo nell’82, 4 milioni nell’88, oltre 5 milioni nel 2008, fino a ridurre drasticamente la forbice con i praticanti uomini, che l’anno scorso erano il 58,5% della popolazione ita-liana dai 6 anni in su contro il 41,5%. Più massa alla base, significa più scelta al vertice. E di certo non è un caso se la nostra pallavolo rosa domina l’Europa dal 2007: con una carica di 222 mila praticanti, il volley donne resta la disciplina più popolare, nelle pale-stre e nelle scuole d’Italia. L’esplosione, naturalmente, si è ripercossa ad alto livello: dopo una partenza disastrosa (alla prima Olimpiade dell’era moderna, Atene 1896, le donne non furono ammesse), i Giochi hanno registrato l’11% di atlete a Roma 1960 e il 40% a Pechino 2008, un dato che dovrebbe arrivare a sfiorare la metà dei partecipanti (45%) a Londra 2012, dove debutteranno tre categorie della boxe femminile a discapito di quei gentlemen dei minimosca uomini.

Letture stimoLo: sport e società

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In trent’anni, da Sara Simeoni a Flavia Pennetta, è cambiato tutto. Sono sparite le tute informi da uomo (vivaddio), oggi si gioca col rimmel sulle ciglia. «Negli anni settanta il massimo a cui un’atleta poteva ambire era allenarsi insieme ai maschi», ricorda con un groppo in gola Novella Calligaris, minuscola pioniera senza superbody nell’era delle te-desche dell’Est, la prima medaglia olimpica del nuoto italiano (ambo sessi) a Monaco ’72. Oggi le campionesse (Pellegrini) premiano Miss Italia in diretta tv. Dalla lunga marcia di emancipazione nella pancia della società, siamo uscite più forti anche sui playground del mondo. «Tenacia e spirito di competizione» riassume il ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna. Bruna Rossi, psicologa dello sport, spiega: «Parlando in generale, la donna matura più velocemente dell’uomo; ha un’aggressività meno spiccata ma più spirito di collaborazione nelle discipline di squadra; più focus sul risultato che vuole ottenere però più sensi di colpa in caso di insuccesso». E poi quella straordinaria capacità di gestire la doppia responsabilità, lo sport e una famiglia, la medaglia e la minestra da mettere in tavola, il record e l’assemblea condominiale. Una sfida esistenziale affidata a un corpo ontologicamente predisposto alla sopportazione: dal parto al ciclo, la donna è più allenata al dolore. E non si tratta di una banalità. Il sacrificio è spesso una scelta consapevole e calcolata, parte intrinseca dell’incarnazione in un corpo di donna. Massimo Barbolini, c.t. di Piccinini e compagne, tecnico che in carriera ha allenato prima i maschi e poi le femmine, ha titolo per parlare: «Le ragazze hanno un grande rispetto del proprio lavoro, nei confronti del quale sono disposte a rinunciare o a rinviare vacanze, esigenze personali, amiche, marito e, addirittura, figli».Barcellona 1992 è stata l’Olimpiade-spartiacque. Prima tutti insieme, uomini e donne, e non sempre appassionatamente. Poi, piano piano, le atlete sono riuscite ad ottenere un trattamento ad hoc: allenamenti mirati (la differenza di potenza, la gravidanza, le me-struazioni, il ruolo del testosterone nella composizione della forza richiedono attenzioni diverse), investimenti dedicati, un marketing studiato per esigenze agli antipodi rispetto a quelle maschili. Sono aumentate le donne-coach (che però rimangono una minoranza fuori dagli sport non tipicamente femminili), ci si è accorti che l’atleta donna-testimonial, sui giornali e negli spot, tende a creare nel pubblico un processo di identificazione più spontaneo. Senza dimenticare che, a volte, lo sport professionistico praticato dalle donne è più godibile di quello muscolare degli uomini.Oggi vinciamo nelle discipline tecniche (tuffi, volley, ginnastica, tiro, scherma, windsurf) e dove l’abilità si accompagna alla resistenza (nuoto, fondo, canoa, tennis, ciclismo, sci). Ed è ovvio che ogni campionessa lo giustifichi a modo suo. Pellegrini: «Non abbiamo nulla in meno degli uomini, perché non dovremmo vincere così tanto?». Pennetta: «Quando ci mettiamo in testa una cosa, non ci ferma più nessuno ». Idem: «Siamo state brave a credere in noi stesse e ci siamo tolte di dosso l’immagine di perdenti».Sorpasso non vuol dire rivincita. E non è nemmeno sinonimo di superiorità. La parità tra maschio e femmina è nella sottolineatura di una diversità. Né meglio né peggio. Sempli-cemente, e meravigliosamente, donne.

g.piccardi,“corrieredellaSera”,31ottobre2009

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ietàAmore e pingpong: potrà fidanzarsi il giovane campione

Nella nazionale cinese di pingpong amarsi è più difficile che vincere un oro alle Olim-piadi. L’occhio vigile degli allenatori è più implacabile del peggior avversario, le leg-gi scritte e non scritte micidiali come una set-ball. Alla fine, però, Wang Hao ce l’ha fat-ta. A 26 anni. È il campione del mondo, ma non gli era consentito frequentare ragazze: adesso può uscire con una ex compagna di squadra, Peng Luyang, i vertici della fede-razione hanno dato la loro benedizione al rapporto, svelato da un giornale del Sichuan. Il responsabile di quella che è una disciplina principe dello sport cinese, Huang Biao, ha ammesso senza troppi problemi che «esistono certe regole» e, per evitare che i senti-menti o (peggio) il sesso interferiscano con gli allenamenti, «noi suggeriamo che gio-catori giovani non siano coinvolti in storie d’amore prima dei 24 anni». Un “suggerire” che suona come un divieto. A fare le spese delle severissime regole era stato già lo stes-so Wang, 6 anni fa. Allora aveva provato a frequentare la nazionale Fan Ying, neanche diciottenne, ma era stato ripreso con durezza. E prima delle Olimpiadi di Atene, all’ini-zio del 2004, la Fan e altri vennero giubilati dalla rappresentativa. Furono tre le cop-pie prese di mira, Romei e Giuliette del pingpong, e – come ricorda il China Daily – la misura venne giustificata in nome degli «interessi dell’intera squadra nazionale e del-lo sviluppo dello sport in Cina». Il tempo passa e finalmente Wang Hao è giudicato ab-bastanza maturo per non perdere la concentrazione e rendere al massimo comunque. L’amore ai tempi del pingpong è un mondo crudele. Episodi del genere sono frequenti nella filiera sportiva della Repubblica popolare, dove gli atleti sono coltivati da giova-nissimi e seguiti con l’obiettivo di onorare la patria su pedane, piste e campi di gioco. Capita a oscuri campioni e celebrità assolute. Negli anni ottanta fece sensazione l’amore contrastato fra due fuoriclasse del tiro, Xu Haifeng e la sua Zhang Qiuping. Più recente-mente la numero due dei tuffi, Wu Minxia, è stata catechizzata per bene dall’allenatore dopo che fu sorpresa a baciarsi con l’ex campione, ora attore, Tian Liang, e ha mollato la presa. Stessa severità, ma su un piano diverso, anche per la nazionale femminile di pal-lavolo, le cui giocatrici sono state accusate da un dirigente della federazione per il tempo che trascorrono su Internet. È un “problema ideologico” che tradisce “egoismo” e mal si coniuga con l’intensità della vita da atleta. O, meglio, della vita da atleta alla cinese. Anche se le norme per gli sportivi sono particolarmente restrittive, che si tratti di regole formali o non scritte, lo stesso atteggiamento in Cina si applica in modo più ampio. Gli studenti, in un sistema ultracompetitivo, sono incoraggiati a non distrarsi almeno per tutte le scuole superiori, meglio se anche durante l’università. Proprio alla fine d’agosto, i parlamentari dell’Heilongjiang (una delle province della Manciuria) hanno discusso un regolamento per la “protezione dei minorenni” che pare una replica di quanto accade nelle accademie statali del tennistavolo. Le linee guida invitano “genitori e tutori a criti-care, educare, fermare e correggere gli innamoramenti prematuri”. Il fatto che si parli di minorenni significa che la mannaia si abbatte sui sentimenti e sugli ormoni degli under 18, tuttavia l’effetto di deliberazioni tanto categoriche non può non estendersi anche ol-tre. Ci sono diplomi da conquistare, medaglie da vincere. Anche per resistere all’amore bisogna essere campioni.

M.Delcorona,“corrieredellaSera”,3settembre2009

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ietà Arriva la neve a trenta gradi

Neve tutto l’anno, prodotta anche a temperature “tropicali”. È una rivoluzione nel mondo dello sci. Una nuova tecnologia del tutto innovativa rispetto ai tradizionali “cannoni” sparaneve, che oggi vediamo sulle piste, promette di cambiare volto alla montagna e di garantire le aperture degli impianti anche se fa caldo. Ironia della sorte, è stata messa a punto laddove di neve non ce n’è proprio bisogno, da un’azienda israeliana, specializzata nelle tecniche di desalinizzazione. La tecnica ha trovato le sue prime applicazioni in due famose località dell’arco alpino: a Zermatt, in Svizzera, e sul ghiacciaio della Pitztal in Tirolo (poco più di un’ora dal Brennero). Qui il termo-metro non sale mai troppo, ma gli esperimenti condotti in giugno a Netaya, in Israele, e in Sud Africa hanno fatto vedere che anche a 30 gradi il sistema di produzione della neve funziona. La neve artificiale è nata per sbaglio, più di cinquant’anni fa a Lexington in Massachusetts, nella tenuta dei fratelli Tropeano, originari di Avellino. Durante una notte molto fredda da un im-pianto per produrre nebbia in un frutteto non uscì vapore acqueo, ma neve. I cannoni vennero sperimentati in Nord America e giunsero in Italia nel 1974, a Monte Campione. Il problema è che i cannoni, sia pur negli anni sempre più perfezionati, non possono fare i miracoli, esigono anch’essi temperature al di sotto dello zero, e l’umidità non deve superare il 60%, altrimenti dalle loro bocche esce acqua e non neve. La nuova macchina invece – che si chiama Ide’s All Weather Snowmaker – può produrre quasi mille metri cubi di neve al giorno (un cannone nella migliore delle ipotesi ne produce 400) per coprire con 50 centimetri di spessore una superficie di duemila metri quadrati. Funziona, assicurano gli ideatori, a qualsiasi temperatura, con qualsiasi umidità, senza alcun problema dovuto al vento (che invece disturba i normali cannoni da neve). Sfrutta solo principi fisici, senza alcun additivo chimico: solo acqua. Il consumo di energia elettrica è di 500 kw al giorno, pari a quello di 5 cannoni, che però sono molto meno efficienti. Si tratta di un impianto fisso e funziona così: la massa nevosa si accumula all’esterno di una sorta di torre alta 15 metri; l’acqua viene sottoposta al vuoto; un impianto di refrigerazione fa condensare i vapori che si formano; in tal modo una piccola frazione evapora, mentre il resto forma una “mi-scela” di acqua e neve. La miscela viene infine pompata fuori dal freezer e la parte dei cristalli di neve viene separata dalla parte liquida. «È fantastica – dice l’allenatore della squadra nazionale norvegese di sci di fondo Vidar Løfshus –, l’ho vista in azione con una temperatura intorno ai 12-13 gradi: appena sparata, la neve era soffice, ma quando è stata compattata il manto si è rivelato molto buono.» «È davvero interessante che la produzione di neve sia svincolata dalla temperatura – commenta l’ingegner Sandro Lazzari, presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari –. In questi giorni piuttosto caldi quelle macchine sarebbero utilissime. At-tendiamo con molta attenzione che la sperimentazione avanzi. C’è il fatto negativo che la neve viene prodotta in un solo punto e poi deve essere trasportata lungo la pista, mentre i cannoni tradizionali sono distribuiti lungo tutto il tracciato. Anche i costi delle macchine, per ora, sono molto elevati [più di 2 milioni di euro per unità, ndr] e l’impatto visivo va tenuto presente.» Ma c’è un’altra funzione importante di questa modalità di innevamento, che potrebbe essere rivo-luzionaria: come già accade al ghiacciaio della Pitztal, dove si scia da metà settembre, il nuovo macchinario potrebbe essere usato per rimpinguare e quindi proteggere i ghiacciai, fornendo neve nei periodi e nei punti più delicati. Non solo: tutta le neve naturale che cade in autunno, non trovando il terreno nudo, riuscirebbe a conservarsi tutto l’inverno.

M.Spampani,“corrieredellaSera”,31ottobre2009

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ietàLa sfida estrema del decaironman

Al via a Pergusa, in Sicilia, una gara che si disputa solo per la quarta volta negli ultimi 26 anni: 3,8 km di nuoto, 180 di bicicletta e una maratona di corsa di 42 km, per 10 giorni di seguito. Partecipano, per la prima volta in Italia, 30 uomini d’acciaio. Anche il Cnr di Pisa ha svolto una ricerca per scoprire se siamo davvero “ai limiti della fisiologia”.

È umano in dieci giorni, in 240 ore, nuotare per 38 chilometri. Percorrere 1800 chilometri in bicicletta (più o meno da Parigi a Lecce). E correre alla Forrest Gump per 423 chilometri (quasi come da Bologna a Roma)? Difficile dirlo. Sta di fatto che domani, a Pergusa, in Sicilia, per la prima volta in Italia 30 uomini d’acciaio provenienti da 15 nazioni diverse si sfideranno in una gara ai confini della realtà dei limiti fisici dell’uomo. Dal 1985 a oggi, è la quarta volta che si disputa un ironman al giorno (3,8 chilometri di nuoto, 180 di bici-cletta e una maratona di corsa, 42 chilometri) per dieci giorni consecutivi. Vince chi fa il tempo complessivo più basso. Per capire quanto sia estrema la fatica da sopportare, basti pensare al fatto che ogni atleta ha un dispendio giornaliero di 13 mila calorie. E che nelle precedenti edizioni sono stati pochissimi gli ercoli riusciti a sopportare l’enorme fatica del decaironman: a Monterrey nel 2006 su 19 partecipanti tagliarono il traguardo solo in 9. L’anno dopo su 12 chiusero in 4 e nel 2009 su 21 atleti terminarono in 11. È la percentuale degli arrivi più bassa al mondo. «In questa gara» spiega un concorrente, Vincenzo Catalano, un metro e ottanta per 70 chili, architetto, di Desenzano «si usa più la mente, per sopportare il dolore alle artico-lazioni e per darsi una motivazione, che i muscoli e i tendini». Siamo davvero ai “limiti della fisiologia” se è vero che il Cnr di Pisa ha intitolato così una ricerca che ha come scopo studiare il corpo umano di Catalano. La sua macchina, il suo motore, i suoi polmoni, la sua resistenza alla fatica saranno confrontati con altri 50 atleti-campione (gente norma-le, ovviamente) per capire dov’è la differenza tra un umano e un superman: ovvero un decaironman. Il Cern studia le variazioni delle funzioni metaboliche e fisiologiche sotto sforzo, e monitorizza l’attività cerebrale e cardiovascolare del super atleta. «Il risultato della ricerca» svela Catalano «è noto ufficiosamente, anche se attendiamo le conferme scientifiche». Gli scienziati pisani del Cern stanno per dimostrare dati alla mano una teoria fino ad oggi solo immaginata, fantascientifica. «È il cervello» spiega Catalano «che in alcuni casi influenza l’asse cuore-cervello-polmoni. L’apparato locomotorio dell’essere umano, in altre parole, può essere condizionato in modo importante dall’attività cerebrale per sopportare sforzi che vanno oltre l’impensabile, compresa la soglia del dolore». Il cervello come una sorta di auto-doping, in grado di dilatare la potenzialità muscolare, ma soprattutto inibire sia i dolori fisici dei crampi, delle vesciche e delle fitte articolari. Sia quelli psicologici che ad un certo punto ti portano a mollare, a ritirarti. Bisogna sapere, dice Catalano, che i primi giorni finisci i 3800 metri di nuoto, i 180000 metri di bici e i 42000 metri di corsa tra le 9 e le 13 ore. Gli ultimi giorni ne impieghi 20, di ore. E te ne restano due o tre per dormire, prima di ricominciare daccapo. Si sfidano infarto e follia in un colpo solo. Ma a vincere sull’uno e sull’altro è ancora la forza della mente. Quanto ci si allena? Ecco i ritmi di un ironman, tutta gente che ha un lavoro e che pratica questo sport (se così si può chiamare) per passione. Sveglia alle cinque, allenamento fino alle 8.

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Alle 8,30 lavoro. Pausa pranzo, un’ora di allenamento e un’altra oretta di sera. Poi son-no, alimentazione. E integratori alimentari. Anche doping? «Il doping gira dove ci sono soldi» spiega Catalano «e qui da noi non ce ne sono: chi vince torna a casa con un trofeo e basta. Certo che creatina, carnitina, aminoacidi e integratori acquistabili in supermer-cati li prendiamo. Se spuntano dolori, aspirine e cose del genere le prendiamo. Nella mia cassetta medica, però, ci sono più cerotti che pastiglie di cibalgina e paracetamolo. In gara ogni due o tre ore mi fermo per spalmarmi la vaselina ai piedi: basta una vescica per impedirmi di arrivare alla fine. A noi il doping non serve. È la testa che fa la differenza, per trovare una motivazione per non mollare mai e per sopportare il male ai piedi». Ma fa bene o male alla salute sfondarsi di allenamenti così duri come quelli cui si sotto-pongono i 50 decaironman al mondo? Secondo alcuni studi, non sarebbe uno sport molto più pericoloso della semplice maratona corsa in due ore. Insomma, i ritmi più “rallentati” di questi atleti dovrebbe preservarli dal rischio di una aritmia cardiaca cui va incontro invece un maratoneta che vola 42 mila metri a una media di 20 chilometri all’ora.

a.custodero,www.repubblica.it,29settembre2011

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ietàragazzi vittime dell’insonnia da tecnologia attiva

Pc, sms, email sono nemici del buon sonno. La televisione ormai è un “sonnifero” al confronto delle nuove abitudini serali dei giovani.

Dovrebbero essere pieni di energia. E invece si trascinano insonnoliti a scuola, lottano tutta la giornata con le palpebre che vorrebbero chiudersi, si rianimano soltanto davanti a Facebook. Sono gli adolescenti di oggi, che dormono troppo poco quasi sempre proprio perché “distratti” dalle tecnologie: internet, cellulari, televisione si sono ormai piazzati stabilmente in camera da letto degli under 18 e una buona notte di sonno è ormai una meta irraggiungibile per la maggioranza dei ragazzini. Anche per questo la recente Gior-nata mondiale del sonno (il 18 marzo) era dedicata proprio agli adolescenti, per cercare di far capire loro quanto sia importante riposarsi. Un’impresa ardua, a giudicare dai dati diffusi dalla National Sleep Foundation americana: in media i ragazzi delle superiori dor-mono un’ora e mezza in meno di quanto dovrebbero, 1 su 10 meno di 6 ore a notte. E la faccenda potrebbe peggiorare, in Italia, fra una settimana, quando sposteremo in avanti le lancette per l’ora legale: si dormirà un’ora in meno e una ricerca finlandese dimostra che il passaggio non sarà indolore per nessuno (tutti sperimenteremo una sorta di mini jet-lag), ma sarà più complicato per chi già non riesce a garantirsi un buon sonno. Lo psi-chiatra Tuuli Lahti, dell’università di Helsinki, ha osservato che l’effetto negativo dell’ora legale è consistente soprattutto in chi preferisce stare alzato fino a tardi alla sera, come gli adolescenti: il giorno che si allunga, infatti, rende i ragazzi ancor meno propensi a infilarsi a letto, rosicchiando altre ore al riposo.«I giovani fino a 30 anni, sono spesso vittime della “sindrome da sonno insufficiente”, disturbo provocato dalla volontaria riduzione delle ore di riposo» spiega Fabio Cirignot-ta, direttore del Centro di Medicina del Sonno del Policlinico S. Orsola, di Bologna. «Ciò che manca in questi casi è una corretta igiene del sonno: per colpa di cattive abitudini adottate durante la giornata, addormentarsi diventa un’impresa. Alla sera, ad esempio, il sistema nervoso deve “regolarsi verso il basso” per prepararsi al sonno: bisogna sce-gliere attività rilassanti e sgombrare la testa dalle preoccupazioni, perché tutto ciò che mantiene attivo il cervello allontana il riposo. No quindi a studio, lavoro, attività fisica di sera; bisognerebbe anche bandire dalla camera da letto computer e cellulari, tecnolo-gie “attive” e per questo ancora più dannose di un film visto in Tv». Proprio ciò che non fanno i giovanissimi: stando ai dati Usa – che secondo Cirignotta sono validi anche per i ragazzi italiani – nell’ora prima di dormire oltre 1 adolescente su 2 naviga su internet, parla o manda messaggi al cellulare; 1 su 10 viene svegliato quasi ogni notte da email o sms; il 14% gioca tutte le sere ai videogames. Gli adulti preferiscono guardare la Tv, che ormai è nel 95% delle camere; ma questo compromette meno la qualità del sonno, visto che solo il 10% degli adulti lamenta sonnolenza durante il giorno rispetto a oltre il 20% dei giovanissimi. «La sonnolenza diurna è il segnale che non si sta dormendo a sufficienza: ognuno ha bisogno di una certa quantità di ore di sonno geneticamente determinata, per scoprirla basta capire quanto occorre dormire per essere ben svegli ed energici durante il giorno» osserva Cirignotta. «Purtroppo molti pensano che dormire abbastanza sia un “optional”: invece chi riposa poco e male rischia di ingrassare, di ritrovarsi con la pressione o la glicemia alta, di sviluppare irritabilità, ansia e disturbi dell’umore. Senza contare il

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pericolo di incidenti stradali: uno studio recente su 300 ragazzi delle superiori ha verifi-cato che gli incidenti in auto, gravi e non, sono più frequenti in chi dorme di meno». Ma c’è da sperare che un adolescente, ribelle per definizione, ascolti chi gli spiega che deve riposarsi? «Non sarei pessimista: la nostra indagine ha dimostrato che i giovani sanno bene, ad esempio, che la sonnolenza è fra le maggiori cause degli incidenti del sabato sera dopo velocità eccessiva e uso di droghe. I ragazzi sono meno impermeabili alle buone abitudini di quello che temiamo, educarli fin da piccoli alle regole del dormire sano non è impossibile» conclude l’esperto.

e.Meli,www.corriere.it,23marzo2011

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ietàLo studio rende al massimo se si fa attività fisica

Il movimento riduce la tensione da prestazione e può migliorare le performance intellettuali degli studenti.

Che ansia e stress – non importa quale sia la causa scatenante (paura dei compagni, dei professori o insicurezza) – siano nemici delle buone prestazioni scolastiche è cosa nota. Ma altrettanto nota è l’efficacia dell’esercizio fisico nel ridurre gli effetti negativi di questi stati psichici, grazie a processi neurochimici che aumentano la secrezione di determi-nati ormoni, inibendone altri: con il movimento, infatti, il cortisolo, uno degli ormoni dello stress, diminuisce, mentre il livello delle endorfine, la nostra “morfina” naturale, aumenta. Allora, come convincere i ragazzi a fare più moto? Non è difficile come potreb-be sembrare. Lo dimostra uno studio texano, appena pubblicato sulla rivista scientifica “Pediatrics”, in cui si è visto che basta persuadere gli studenti ad andare a scuola a piedi per una settimana (nello studio il ruolo di “persuasori-accompagnatori” era affidato agli stessi ricercatori), per vederli poi rinunciare spontaneamente a bus e auto dei genitori e prolungare, in generale, il tempo dedicato allo sport. Ma l’attività motoria non è solo un deterrente per ansia e stress. Specie nei ragazzi in fase di sviluppo è la soluzione più semplice ed efficace per arginare l’obesità e – effetto forse meno risaputo – per migliorare le performance intellettuali. Sono numerosi gli studi che lo dimostrano. Tra i tanti, se ne possono citare due. Il primo è quello “storico”, dei ricercatori statunitensi della Medical University of South Carolina Children’s Hospital, in cui si è riscontrato che a un incre-mento dell’attività fisica durante le ore scolastiche seguiva un evidente miglioramento dei voti in tutte le materie.Il secondo, più recente, è dell’Università dell’Illinois: grazie alla risonanza magnetica, si è visto, analizzando bambini di 9-10 anni, che la zona cerebrale dell’ippocampo, fondamentale nei processi di memorizzazione, era più estesa in quelli sportivi rispetto ai sedentari. «Se durante l’infanzia il corpo è più attivo anche il cervello e tutte le sue funzioni ne ricavano benefici» precisa Franco Carnelli, primario della Unità operativa di ortopedia e traumatologia dell’IRCCS Multimedica di Sesto San Giovanni, per tantissimi anni medico dell’Olimpia Basket Milano. «Le connessioni sinaptiche del cervello non solo vengono potenziate, ma se ne creano di nuove. I bambini sportivi ottengono abitualmente risultati migliori nei test di memoria, dimostrano una maggiore capacità di concentrazione e presentano una maggiore coordinazione visu-spaziale. Inoltre, grazie alle maggiori occasioni di scambi sociali e alla possibilità di vivere in ambienti che presentano stimoli diversi dai soliti sono più recettivi e socievoli. E anche più sereni e felici, come ha dimostrato uno studio di Rebecca White, della West Virginia University, in cui è stata soprattutto evidenziata l’importanza del gioco di squadra per migliorare la qualità della vita».Ci sono sport che possono essere considerati migliori di altri per incrementare le perfor-mance cognitive? «Tutti offrono benefici fisici e psichici, ma se si vuole puntare specificata-mente a un maggiore sviluppo cognitivo è meglio preferire discipline che non affatichino eccessivamente; simmetriche, che facciano impiegare contemporaneamente entrambi gli arti e sia la parte superiore che inferiore del corpo; complesse, in cui i movimenti non siano automatizzati e ripetitivi; di squadra, in modo che sia indispensabile interagire continuamente con i compagni» risponde Carnelli. «A questa categoria appartengono

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tutti gli sport con la palla, che hanno anche il vantaggio di essere ludici: pallavolo, basket, pallanuoto, calcio, rugby, pallamano. Ma si può puntare anche sulle attività che prevedono il confronto diretto fra due contendenti, come judo, karate e scherma, sport caratterizzati da gesti tecnici e dinamiche differenti, ma in grado di stimolare anch’essi specifiche aree cognitive. Le attività, viceversa, che prevedono prove “in solitaria”, quali la maratona, il nuoto, pur essendo molto educative in quanto esaltano qualità come la concentrazione e la resistenza alla fatica, dal punto di vista cognitivo sono poco utili». Quanto tempo è necessario dedicare all’attività fisica? «Tre sedute settimanali,» conclude Carnelli «ognuna di circa un’ora, preferibilmente di attività aerobica, sono più che sufficienti per far bene alla mente dei ragazzi oltre che al corpo».

M.Bocchi,www.corriere.it,4settembre2011

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ietàDatevi una mossa se volete essere promossi

Sport e apprendimento: uno studio USA “boccia” gli studenti sedentari. I più “atletici” ottengono risultati scolastici migliori.

Che fare sport faccia bene alla salute e all’aspetto non è una novità, ma che addirittura possa far ottenere voti più alti certamente sì. A queste conclusioni è giunto William McCarthy Coll, del dipartimento dei Servizi Sanitari dell’Università di Los Angeles, dopo uno studio su 1989 studenti, dagli undici ai diciotto anni, pubblicato sul “Journal of Pediatrics”. Una ricerca quanto mai di attualità nella stagione degli esami in arrivo, e che potrà far piacere a buona parte di quel mezzo milione di studenti italiani impegnato nelle prove di maturità, ma che farà forse riflettere anche i tanti genitori di figli più piccoli, alle prese con gli esami di terza media che, per tamponare pagelle deludenti, impediscono ai ragazzini di fare sport. McCarthy Coll ha sottopo-sto a prove di corsa e camminate di un miglio (poco più di un chilometro e mezzo) sia studenti delle scuole medie sia delle superiori e ha poi confrontato i tempi ottenuti dai vari ragazzi con le valutazioni riportate in una serie di test matematici, linguistici e letterari effettuati prima della prova atletica. Ebbene, non solo i voti più alti sono stati meritati dai ragazzi genericamente più veloci, ma si è vista una precisa corrispondenza tra minuti in più impiegati nella corsa, o nel cammino, e diminuzioni del punteggio nei test. Lo studio che vedeva protagonisti volontari sia maschi che femmine, di differenti età, etnie e con condizioni socio-economiche diverse, è stato preceduto da una valutazione del peso corporeo in rapporto all’altezza, in modo tale da riuscire anche a valutare le connessioni tra diversità di corporatura, performance sportive e prestazioni intellettive. Tra i vari parametri, gli unici rivelatisi significativi e strettamente cor-relati sono stati quelli riguardanti le performance sportive, il peso – il 32% degli studenti erano in sovrappeso e il 28% obesi – e i risultati ottenuti nelle prove di matematica e lettere. Il fatto che i volontari fossero invece di sesso diverso, appartenessero a differenti etnie e avessero con-dizioni di vita dissimili si è rivelato pressoché ininfluente. Se McCarthy ammette la necessità di ulteriori studi per capire se esiste realmente un nesso di causa-effetto tra i più bassi livelli di attitudine al movimento e il ridotto rendimento scolastico, Alberto Oliverio, docente di Psico-biologia alla facoltà di Scienze biologiche dell’Università La Sapienza di Roma, non si stupisce dei dati emersi e conferma che il moto è effettivamente in grado di produrre effetti positivi sulle abilità cognitive. «Ciò avviene sostanzialmente per tre motivi» spiega. «L’attività fisica, specie se aerobica, quindi ciclismo, camminata o corsa leggera, nuoto – quando viene praticata con regolarità, per almeno una trentina di minuti al giorno – facilita il trasporto dell’ossigeno dai polmoni a tutti gli altri organi, compreso il cervello. Cervello che, per funzionare al meglio, deve essere sempre irrorato adeguatamente. Inoltre, l’attività fisica, anche quando è semplicemente ricreativa, soprattutto se praticata all’aperto, riduce le tensioni, quindi garantisce un guadagno, oltre che cognitivo, emotivo. E non è finita qui. «Dal punto di vista strettamente neurologico» prosegue Oliverio «il movimento stimola significativamente la creazione di nuove connessio-ni nervose. Una “sinaptogenesi” che ovviamente produce effetti positivi anche sulle capacità cognitive». Un’ultima riflessione dedicata a chi teenager non è decisamente più. «Vorrei anche ricordare» conclude infatti Oliverio «che quando si è avanti negli anni e tutti i vasi sanguigni, dai più grandi ai più piccoli, si ispessiscono rendendo più difficoltoso lo scambio gassoso, il movimento è fondamentale per facilitarlo».

M.Bocchi,“corrieredellaSera”,30maggio2010

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Letture stimoLo: sport e saLute

Ecco come l’alcol colpisce il cervello

L’alcol ci inebria e ci rallegra perché addolcisce e addomestica la nostra razionalità. Fa allentare la morsa della logica e del senso del dovere, ci rende più “liberi” e leggeri. Non è un caso che ogni popolo abbia le sue bevande alcoliche, preparate dall’uva, dall’orzo, dal riso, dalla barbabietola e dalla canna, dai cereali e dai frutti più diversi, più o meno ricche di alcol, più o meno insaporite. Se l’alcol mandato giù è troppo, il piacere si trasforma in disturbo, lieve o opprimente, passeggero o talvolta, purtroppo, anche cronico. L’alcol bevuto va nel sangue e da qui a tutte le cellule del corpo; in tutte fa qualcosa, ma quello che abbiamo descritto, di bello o di brutto, va attribuito alla sua azione sulle cellule nervose, vale a dire i neuroni, soprat-tutto nel cervello. I neuroni sono cellule fatte per comunicare, e lo fanno “eccitandosi” e trasmettendo ad altri neuroni la loro eccitazione. Per farlo occorre che la loro membrana cambi ritmica-mente configurazione, lasciando improvvisamente entrare ioni potassio all’interno della cellula o facendoceli uscire. Questo meccanismo è tutta la vita dei neuroni e del nostro sistema nervoso. Ognuno di loro deve essere pronto all’occorrenza a fare entrare o uscire il potassio. Ciò è compiuto da speciali proteine dette “canali”, che, come veri e propri piccoli canaletti, fanno “accomodare” all’interno della cellula qualche ione potassio oppure lo fanno “sloggiare” da lì. Poi si richiudono quando l’episodio è finito. In una minuscola tasca di uno di questi canali, detto GIRK, si siede la molecola di alcol e lo tiene sempre aperto interferendo con la reattività del neurone stesso. Questo è quello che abbiamo imparato in questi giorni da uno studio molecolare dettagliatissimo portato avanti in California al famoso Salk Institute. L’azione dell’alcol è quindi tutta qui: confonde le idee, poco o tanto, temporaneamente o per sempre, ai canali del potassio e allenta così, se non spegne del tutto, la reattività dei neuroni del cervello.

e.Boncinelli,“corrieredellaSera”,1°luglio2009

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eMettete il crampo fuori gioco

Di crampi soffre il 30% dei maratoneti, il 79% di chi fa triathlon, il 60% dei ciclisti. Ma non c’è persona che non abbia provato, almeno una volta nella vita, un crampo notturno. Ed è proprio su una popolazione “non sportiva” che è stata condotta una recente ricerca sull’origine delle contratture. Lo studio ha individuato nella carenza di vitamina B

1 – un micronutriente che interviene nel metabolismo dei carboidrati svolgendo un ruolo fon-damentale nella produzione di energia – una delle cause di queste dolorose contratture. La ricerca è stata condotta mettendo a confronto due gruppi di pazienti: il primo ha as-sunto capsule di vitamina B

1, il secondo solamente un placebo, cioè un farmaco inerte. A distanza di tre mesi, i ricercatori hanno potuto verificare una significativa riduzione della frequenza, dell’intensità e della durata dei crampi notturni nel gruppo che aveva fatto ricorso alla vitamina B

1. Ma non è certo solo la carenza di vitamina B1 (per altro diffusa sia negli alimenti di origine animale sia in quelli di origine vegetale, ma presente in quantità significativa solo in alcuni, come il maiale, le interiora e i cereali integrali) a causare i crampi. Il principale colpevole è di gran lunga l’affaticamento, mentre l’eccessiva sudorazione, di per sé, non gioca affatto un ruolo fondamentale. Il fatto che lo squilibrio chimico causato dalla sudorazione, e quindi la perdita di acqua e sali minerali, sia la cau-sa di una porzione minoritaria dei crampi è d’altronde dimostrato dal fatto che, in una giornata molto calda e afosa, chi si limita a stare sotto il sole, a riposo, non soffre di alcun crampo anche se suda abbondantemente. È quindi abbastanza inutile sovraccaricarsi di liquidi e sali in situazioni di riposo. «Sull’insorgere del crampo – precisa Mario Benazzi, traumatologo sportivo – che, nella sua espressione più nota, è lo spasmo acuto del gruppo muscolare del polpaccio, ma anche della pianta del piede o della coscia, possono inoltre, influire condizioni climatiche sfavorevoli, come il freddo, o posizioni anomale assunte nel sonno o, ancora, l’uso di diuretici, problemi circolatori, carenze e squilibri minerali, soprattutto di calcio, magnesio, potassio e sodio.» Il trattamento immediato è presto detto: ghiaccio e stretching graduale. Attenzione e cautela, invece, nel massaggio che deve essere molto delicato, visto che si va a toccare un muscolo sofferente. La prevenzione include un regolare programma di stretching, un’adeguata – ma non eccessiva – reintegrazione di liquidi e di sali, durante e dopo l’esercizio fisico, e una corretta igiene nutrizionale. «Diverso è il caso del dolore “crampiforme” – riprende Benazzi – che è tipico degli spor-tivi e ha come sede elettiva la parte anteriore della gamba dal collo del piede in su, verso la tibia. Il dolore crampiforme, in letteratura scientifica shin splint, è una vera e propria patologia da sovraccarico ed è assai frequente nei calciatori, nei danzatori, nei podisti, in chi fa jogging, ma anche nei sedentari che senza alcuna preparazione fisica affrontino lunghe e ripetute camminate.» «Questa patologia, ovvero la periostite, infiammazione della membrana che ricopre l’osso – conclude Benazzi –, è di pertinenza del traumatologo sportivo, perché entrano in gioco fattori costituzionali, come malallineamento degli arti inferiori, ginocchio valgo o varo, e così via.»

M.Bocchi,“corrieredellaSera”,2marzo2008

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e più in aria che con i piedi per terra!

Così ho iniziato a vivere in palestra, più in aria che con i piedi per terra.

Cominci dai primi allenamenti, dalle prime fatiche, dalle prime istruttrici, quelle meno esigenti, per poi passare ad un livello sempre più alto, quello agonistico dove pretendono molto di più e la fatica aumenta, ma anche i risultati. Che cosa è per me la ginnastica? Un luogo di ritrovo, dove puoi sfogarti, mettere in risalto le tue qualità, dimostrare a tutti le tue capacità, faticare ed essere felice di faticare per poi ottenere dei risultati. Si inizia a gareggiare con “la squadra”, dove conta il risultato collettivo per vincere, ed è bellissimo perché le ginnaste si sostengono a vicenda e si fanno coraggio, tutte. Ed ecco che passata ormai l’età, si passa alle gare individuali.E mi ritrovo a 12 metri da una pedana, in piedi, impaziente che il giudice chiami il mio nome. In quel momento la concentrazione è massima e riesco a distinguere ogni senso, perché nella quotidianità non ci rendiamo conto che mentre vediamo un oggetto, anche senza toccarlo, intuiamo le qualità costitutive di quell’oggetto, se è liscio, ruvido, caldo o freddo, e allo stesso tempo se in quel preciso istante passa qualcosa che fa rumore, non facciamo caso che il nostro udito lo ha percepito, perché abbiamo l’attenzione sull’oggetto in questione, e che siamo in piedi o a sedere, i nostri piedi non fanno caso alla durezza del pavimento o alla temperatura di questo, e se qualcuno sta cucinando in quel momento, il nostro olfatto lo percepisce ma non ci fa troppo caso, perché è abitudine, è normale che non ci facciamo caso, è la nostra composizione, abbiamo sei sensi e non li distinguiamo l’uno dall’altro. Ma quando sono in quella situazione tutto si fa chiaro: sento gli applausi del pubblico che sta elogiando probabil-mente un’altra ginnasta che ha finito il suo esercizio, e che in quel momento mi disturbano, perché ho bisogno di concentrazione, sento il pavimento scivoloso, perché sono scalza e sto sudando, sento il caldo che pervade il palazzetto, la polvere che si solleva e fa starnutire chi è allergico, sento il rumore della trave sulla quale una ginnasta sta eseguendo il suo esercizio, è un rumore cigolante, di lamento, ogni muscolo deve essere teso quando siamo sulla trave, dai capelli alle punte dei piedi, c’è bisogno di concentrazione e di un equilibrio assoluto, non ci possiamo permettere di cadere, perché se cadiamo perdiamo mezzo punto. Sulla trave dobbiamo fare acrobazie, salti, capriole, spaccate e pose anche su un piede solo e, allo stesso tempo, dimostrare grazia, espressività, sicurezza, eleganza, e soprattutto non bisogna farsi vedere impaurite o tremanti. È l’attrezzo che mi intimorisce di più, e che mi causa le maggiori ansie e preoccupazioni. Quando finisco l’esercizio sulla trave ho una fortissima sensazione di sollievo, il peggio è passato, rivolgo lo sguardo ai giudici e li saluto, con un enorme sorriso, e non perché devo dimostrarmi sicura di me, ma perché per quella mattina non devo più mettere piede sulla trave e perché ho finito l’esibizione senza cadere. Così passo al secondo attrezzo, sul quale do sfogo a tutte le tensioni che mi trattenevano sulla trave, il corpo libero, il mio cavallo di battaglia. Parte la musica, e con lei anche io, in quel momento do il meglio di me, sono dinamica, elegante, leggera come una piuma, non sento la fatica, non sento il peso, faccio dei salti incredibili senza il minimo sforzo, sono espressiva, sono un tutt’uno con la musica, con il lungo tappeto su cui sto ballando, con le sedie, con il pubblico, con le gradinate, con tutto il palazzetto, tutto diventa parte di me, come se non ci fosse più un esterno che mi sta guardando o giudicando, sono io che ballo per me, ed è bellissimo. Sono elettricità. Ma dura sempre troppo poco, intorno ai 3 minuti, vorrei poter ballare di più. Posa finale e fine della

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emusica, grosso sospiro, inizio a sentire la fatica delle rovesciate, delle corse, delle spaccate e dei salti, è una sensazione splendida. Sono felice, sento il profumo del mio fedele tappeto che sta sorreggendo il mio peso; prima non la sentivo, ma ballando e saltando su quel tappeto ho sollevato la polvere, e ora mi fa starnutire e sorridere. Quella polvere che rimane addosso quando finisci un esercizio, ti invade indumenti e capelli quando sfiori un attrezzo, quella polvere che respiri sempre e riesce sempre a sorprenderti, conosce ogni centimetro della mia pelle. Mi alzo, saluto i nuovi giudici e torno a sedere accanto alle mie istruttrici che mi hanno accompagnata, è sempre bello ricevere complimenti per una cosa fatta bene, per una cosa che sai fare te e non tutti sanno fare, e se la sanno fare, non sapranno mai farla come te. Così aspetto che tutte le ginnaste che devono esibirsi dopo di me finiscano.Ed ecco, sono qui, a 12 metri da quella pedana che aspetto che le giudici del volteggio chia-mino il mio nome, devo essere grintosa, e ogni minima parola, ogni minimo rumore mi dà noia, perché sono alla fine, devo sfidare quel tappeto alto 80 cm e devo vincerlo, non posso permettermi di distrarmi. Le mie compagne fanno il tifo per me, anche se nelle gare individuali siamo tutte contro tutte, ma non importa, è sempre bello che vinca almeno una ginnasta della nostra società. La facoltà della percezione si fa sempre meno distinta finalmente, i sensi che inizialmente riuscivano a farmi distinguere ogni forma e intuizione, stanno ricompattando-si, ma non solo, tutto si allontana e si fa unico, gli applausi delle famiglie con la musica, con il tifo delle compagne e con il rumore degli attrezzi colpiti dai nostri splendidi movimenti. Sento solo un eco lontano che si fa sempre più silenzioso, ora ci sono solo io, i giudici, e il volteggio. Ed ecco. «Silvia Cini». Grosso sospiro e inizio a correre, più veloce che posso, batto a piedi uniti sulla pedana che precede il tappeto, è più elastica di quella che uso durante gli allenamenti, meglio così, mi permette di saltare più in alto, così appoggio le mani, il primo volo è fatto, sono in verticale, ora mi ribalto, secondo volo, supino, atterro, tesissima. Ecco che la polvere mi accarezza di nuovo e sono più felice di quando finisco l’esercizio sulla trave e di quando ballo, ho finito. Mi alzo da sdraiata senza l’aiuto delle mani, saluto ai giudici, scendo dal tappeto e corro, corro, corro di nuovo verso le mie istruttrici e le mie compagne, che mi abbracciano. È bello ora sentire tutti quegli applausi, e me li prendo. Non importa se vinco o no, per me è già una vittoria gareggiare e poter partecipare.Ci sono i vincenti che sanno di essere vincenti. Poi ci sono i perdenti che sanno di esse-re perdenti. Poi ci sono quelli che non sono vincenti e non sanno di esserlo. Poi ci sono anche quelli che sono vincenti a prescindere dal risultato: sono quelli giusti per me, non mollano mai e sono la vera anima della squadra.Così sono ritornata a vivere in palestra, nella mia, della mia città, più in aria che con i piedi per terra!Se dovesse capitarvi di vedere un corpo muoversi con grazia femminile, alternando movi-menti di danza ad altri di velocità e di potenza, e se facilmente potreste comprendere come quel corpo riesca ad esaltare le sue capacità di coordinazione, di equilibrio, acrobatiche ed espressive, sfidando la forza di gravità in modo così evidente che in alcuni momenti vi potrebbe sembrare che stia per spiccare il volo, che da sempre è stato una delle maggiori ambizioni umane, e non riuscite a capire come possa fare quel corpo, spesso così giovane e esile, ad eseguire tutte quelle fantastiche evoluzioni, non crediate di essere immersi in un sogno, tutto ciò che vedete è realtà: state guardando la ginnastica artistica.

S.cini,vDliceoScientificog.carducci,piombinohttp://www.managementdellosport.com/lasfidadellosport/category/2-edizione/?premio=si,8aprile2010

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e Flop o campione? te lo dice la scarpa da calcio

Quanti scatti avete fatto? Quanto siete stati veloci? Quanto avete corso? Patiti del calcetto, ecco il momento che aspettavate. Da oggi la vostra partita sarà passata ai raggi X e la vo-stra prestazione vivisezionata a 360 gradi. Come? Grazie al sensore che Adidas ha infilato nelle scarpe di propria produzione. Nome tecnico miCoach Speed Cel, un microchip che si inserisce in un alloggiamento ricavato sotto la suola (per il momento nella sola scarpa modello adizero f50) e che vi svelerà se siete un flop oppure un portento del pallone: velocità media (registrata ogni secondo), velocità massima (registrata ogni cinque secon-di), numero di scatti, distanza complessiva e la distanza ad elevati livelli di intensità. La piccola memoria registra le misurazioni effettuate durante il gioco o l’allenamento fino a sette ore (beato chi ce la fa…) e poi trasmette via wireless questi dati al vostro iPhone, iPod touch, tablet, oppure al vostro computer, pc o Mac che sia. Ma non è tutto. I più “vanitosi” potranno condividere queste statistiche con gli amici su Facebook e sfidarli in modo divertente confrontando le statistiche. Invece gli “incurabili” nel 2012 potranno giocare on line con il proprio avatar al videogioco “miCoach”.Una scarpa intelligente dunque che pesa solo 165 grammi ma che ha il “difetto” di costare 255 euro. Con questa cifra vi daranno anche il sensore miCoach Speed Cell e un connet-tore per scaricare i dati. Una cifra non proprio per tutte le tasche ma dal 2 dicembre i due prodotti, scarpa e chip, saranno venduti separatamente. Il sensore potrà essere quindi inserito nelle stringhe di qualsiasi scarpa per fare altri sport, tipo l’atletica.

n.luca,“corrieredellaSera”,23novembre2011

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eL’incredibile scelta di Meche

«No a 12 milioni, non li merito.» Baseball, il lanciatore dei Royals rinuncia all’ingaggio perché si sente a disagio per non aver dato il suo contributo in campo. Così decide di abbandonare le scene.

Per chi si suda onestamente il proprio stipendio senza essere una stella dello sport pro-fessionistico sono cifre semplicemente folli. Milioni per un gol, un canestro, uno smash e via dicendo. Roba che diventa persino difficile riuscire a spenderli (tanti sono) in una sola vita (e forse anche in due). Parliamo dei guadagni stratosferici destinati ai big di tennis, calcio, baseball, football americano, basket, golf e via dicendo. Ma funziona così, leggi di mercato, no? E stare a dire che è immorale o meno (la carriera dura pochissimo, un infortunio e finisce tutto e poi quanto talento e sacrificio per giungere sin lì) non cambierà le cose.Così si può solo umanamente sospirare a leggere la cifra apposta dietro la firma su un nuovo contratto di un atleta-fuoriclasse. Peraltro – anche questo è risaputo – capita che gli atleti più pagati cerchino di rinviare sine die il ritiro dalle scene agonistiche e se ne infischino di eventuali lunghi infortuni, scadimenti di forma e di motivazioni, pur di intascare la somma pattuita fino all’ultimo giorno utile di contratto.Ma nel milionario business sportivo americano c’è chi ha detto no. Proprio così. Un at-leta che ha rinunciato a 12 milioni di dollari (avete letto bene) perché convinto di non meritarseli.Gil Meche è stato un gran lanciatore, prima dei Seattle Mariners e poi dei Kansas City Royals, ma a fine gennaio ha detto basta. Nel modo più sorprendente possibile. Gil, a lungo ko per guai fisici, era comunque considerato importante per il suo team anche dal punto di vista del gruppo, un uomo-spogliatoio e quei 12 milioni di dollari nessuno si sarebbe sognato di toccarglieli. A 32 anni, però, ha sentito che era troppo, i soldi non gli mancano dopo una lunga carriera e prendere quella somma senza dare un contributo concreto alla causa gli è parso ingiusto ed esagerato. Così li ha rimandati indietro, spiegando: «Il mio obiettivo era di guadagnarmeli sul cam-po, ma come è noto ho avuto dei problemi di salute e sinceramente prendere quei soldi senza aver fatto neppure un lancio mi fa sentire molto a disagio».La notizia è stata rilanciata e raccontata con enfasi in tutti gli Stati Uniti e in America Latina (dove gli sport Usa sono popolarissimi), ma è stata solo relegata nelle “brevi” sulla carta stampata specialistica e non italiana, sempre invasa dal calcio in ogni sua forma e manifestazione, tanto da togliere inevitabilmente spazio ad altre discipline e alle vicende agonistiche e umane di chi le pratica.In America, dunque, il caso-Meche ha aperto persino dibattiti ed è stato accolto con grande favore da tutti. L’arcivescovo Thimoty Dolan ha lodato il giocatore e ne ha fatto un esempio di comportamento virtuoso; la valanga di common people, di gente comune, ha salutato il gesto di Gil con entusiasmo e soddisfazione.Lui, dal canto suo, ha mantenuto la parola e non è più tornato in campo rinunciando a quella montagna di dollari. Ingaggiato nel 2007 dai Royals con un ricco contratto quinquennale, ha praticamente saltato due stagioni per i suoi guai fisici. Nessuno lo aveva messo in discus-sione ma lui, un giorno, disse a tutti: «Ok ragazzi, finisce qui, non voglio provare a essere

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per un’altra stagione ancora il ragazzo che guadagna 12 milioni di dollari senza riuscire a fare assolutamente nulla per aiutare la propria squadra».E ha aggiunto: «Quando firmai il contratto puntavo a ottenere quella cifra per ciò che avrei fatto in campo. Ma quando ho realizzato che stavo incassando una cascata di quattrini senza meritarmelo, senza neppure aver fatto un lancio, be’, allora mi sono detto che non era giusto. Mi sono sentito così a disagio che ho deciso di ritirarmi».Quel giorno qualcuno pensò a uno scherzo. O a un momento di profonda frustrazione. Non erano né l’uno né l’altro. Bravo Gil, ora goditi i tuoi soldi. Quelli che hai guadagnato con il tuo talento. Sul campo.

g.Marino,“larepubblica”,26maggio2011

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eChiude terzo, si fa premiare ma ha preso l’autobus

Il 31enne Rob Sloan sale sul podio della maratona di Newcastle col primato personale, ma viene smascherato. Ora rischia di essere bandito da tutte le maratone del Regno Unito.

Terzo al traguardo, fresco come una rosa e felice per il nuovo primato personale. Rob Sloan ha chiuso così domenica la maratona Salomon Kielder di Newcastle di cui è direttore l’ex grande Steve Cram. Unica macchia: durante la gara, ha preso un autobus. Il 31enne, dopo 48 ore di gloria immeritata, ha confessato l’inganno: dopo circa 30 km, si è infilato su un bus dell’organizzazione ed è sceso poco prima del traguardo. È sbucato da un bosco e ha concluso la prova in 2h51', abbassando di circa 21' la miglior prestazione personale. Dopo aver partecipato alla cerimonia di premiazione e dopo aver concesso interviste, è finito nel mirino degli organizzatori: qualcuno, evidentemente, aveva notato la furbata, probabilmente il quarto classificato. Sloan è crollato e ha confessato l’inganno. Ora rischia di essere bandito da tutte le maratone del Regno Unito.

“gazzettadellosport”,13ottobre2011