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Israele può vincere la guerra di Gaza di Edward N. Luttwak 10 Gennaio 2009

Tutto lascia pensare che la maggior parte dei reporter e dei sapientoni occidentali sia d’accordo con gli islamici d’ogni

provenienza nel definire impossibile una vittoria israeliana a Gaza. Costoro sminuiscono e screditano l’attacco difensivo

di Israele contro Hamas profetizzando un inevitabile rafforzamento dell’islamismo tra i palestinesi e un nero futuro per lo

Stato ebraico.

Come hanno fatto i nostri opinionisti a giungere a questa conclusione? Quel che fanno con maggior frequenza è far

riferimento al conflitto del 2006 in Libano tra Israele ed Hezbollah e riecheggiare la rivendicazione di una grande vittoria

di Hezbollah. Stando a questa versione, la verità è che i leader di Hamas, nel lanciare i propri missili contro Israele, non

hanno fatto altro che imitare la strategia vincente di Hezbollah.

In realtà Hezbollah ha subito un profondo shock dai bombardamenti israeliani, ed è probabile che i suoi supporters, la

maggior parte dei quali vive nel Libano meridionale, non tollereranno un’ulteriore ondata di distruzione causata da un

altro attacco di Hezbollah. In Libano anche le inconcludenti azioni israeliane sul campo, che non hanno mai coinvolto più

di sei squadre (all’incirca seicento uomini), hanno avuto come risultato la morte di qualcosa come quattrocento miliziani

di Hezbollah nel combattimento diretto, faccia a faccia, mentre Israele ha subito soltanto trenta perdite.

Ovviamente nulla di tutto ciò ha impedito al capo di Hezbollah Hassan Nasrallah di sbandierare la sua grande vittoria nel

nome di Dio. Se le sue vittoriose dichiarazioni fossero state seriamente veritiere, Israele avrebbe dovuto rinunciare ad

attaccare Hamas. Sempre stando a questa logica, Israele avrebbe chinato il capo per paura di altri missili lanciati da

Hamas e di quelli, ancor più potenti, lanciati in tandem da Hezbollah. Di certo Nasrallah ha provveduto a incoraggiare

Hamas ad attaccare Israele con un linguaggio che implicava un suo intervento, una promessa credibile se davvero ce

l’avesse fatta a ottenere una vittoria nel 2006.

Ma non appena a Gaza ebbe inizio la battaglia, Nasrallah invertì i termini delle proprie dichiarazioni minacciando Israele

se avesse attaccato il Libano. Cosa che ovviamente in Israele nessuno aveva intenzione di fare. Quando giovedì dal Libano

sono stati lanciati tre missili, Hezbollah non ha indugiato ad assicurare agli israeliani che non aveva nulla a che fare con

l’episodio, e che anzi quel tipo di missili non fa neanche parte delle sue scorte. Si tratta di un familiare luogo comune

dell’esperienza palestinese. C’è sempre qualche leader estremista pronto a istigare i palestinesi alla lotta con la promessa

implicita di parteciparvi valorosamente. Fino a quando la lotta non comincia davvero e le promesse vengono dimenticate

per paura della rappresaglia israeliana.

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Un altro familiare luogo comune dell’esperienza palestinese insegna che gli estremisti possono sempre finire per

prevalere politicamente sui moderati, ma anche che, così facendo, non fanno che dividere la società palestinese. Una

valida scala di misurazione di tale dissonanza è, di fatto, il successo dell’attuale guerra d’Israele contro Hamas.

È il caso di rifletterci: stando alle fonti da Gaza, dall’inizio dell’offensiva di terra circa il 25 per cento dei cinquecento

morti erano civili innocenti. Gli israeliani sostenevano che il venti per cento delle vittime dell’attacco aereo fossero civili.

In un modo o nell’altro, è stata una campagna di bombardamenti estremamente accurata. (Anche nel 1991 e nel 2003,

nelle campagne aeree statunitensi contro l’Iraq, quando la maggior parte delle bombe era già ad alta precisione,

grossolani errori di mira uccisero un gran numero di civili).

Non sarebbe stato minimamente possibile ottenere una precisione di targetingdel 75 per cento (secondo la stima più

bassa) in base a fotografie effettuate dal satellite o da una aereo da ricognizione. Non foss’altro perché ben pochi degli

obiettivi di Hamas erano i classici bersagli “ad elevato contrasto” come può esserlo un bunker o un quartier generale. La

gran parte dei bersagli era costituita da piccoli gruppi di persone a bordo di veicoli anonimi che si nascondevano

confondendosi in mezzo al traffico o all’interno di normali edifici. E neanche le intercettazioni telefoniche potevano

fornire molte informazioni perché tutti i palestinesi sanno bene che gli israeliani hanno da molto tempo imparato a

coniugare i sistemi di riconoscimento vocale con la localizzazione dei telefoni cellulari per poter puntare accuratamente i

missili contro singoli veicoli in mezzo al traffico o persino contro singoli individui con il telefono cellulare spento.

Ma allora Israele come ha fatto? L’unica possibile spiegazione è che la gente di Gaza abbia informato gli israeliani su dove

esattamente si nascondono i militanti e i leader di Hamas e su dove le armi vengono tenute. Non c’è alcun dubbio sul

fatto che alcuni informatori siano nient’altro che degli agenti prezzolati e corrotti che cercano di guadagnarsi da vivere.

Ma qualcun altro deve aver deciso di fornire informazioni perché si oppone ad Hamas, il cui estremismo infligge povertà,

sofferenza, e adesso anche morte, alla popolazione civile per darsi al lancio di missili, nella gran parte dei casi inutili, su

Israele. Hamas manca della benché minima considerazione per il benessere quotidiano di tutta la gente di Gaza al solo

scopo di perseguire la propria millenaria visione di una Palestina islamica.

Qualcuno a Gaza potrebbe poi anche risentirsi per il ruolo rivestito dall’Iran nell’istigare le raffiche di missili contro

Israele. E tutti dovrebbero sapere che gli ordigni a più lungo raggio sono forniti proprio dall’Iran insieme al denaro per i

leader di Hamas, mentre la gente comune tra i palestinesi languisce nella miseria. Il leader di Hamas Nizar Rayan, ucciso

il primo giorno di gennaio, era un accademico dallo stipendio piuttosto modesto ma è morto in un arioso quartiere con le

sue quattro mogli e con dieci figli. Egli ovviamente aveva abbastanza denaro per seguire l’imposizione coranica che vieta

di sposare più mogli di quante non ci si possa permettere di mantenere. Anche questo dovrebbe contribuire a far montare

un’aspra opposizione fra i poveri civili palestinesi, inducendo magari qualcuno a dare una mano a Israele nel colpire

Hamas. E forse tra questi informatori c’è anche qualche membro di Fatah ulteriormente ostile a causa della persecuzione.

Sembra che solo la scorsa settimana circa cinquanta persone siano state torturate da Hamas.

Hamas ha vinto le elezioni del 2006 perché rappresentava l’unica alternativa a disposizione in un momento in cui una

maggioranza degli elettori era disgustata dalla smaccata corruzione di Fatah. Da allora in poi un gran numero di

palestinesi non fondamentalisti è stato oppresso dalle puritane proibizioni imposte da Hamas, mentre tutti i cittadini di

Gaza ne sono rimasti estremamente impoveriti.

D’altra parte, non c’è alcuna prova che il supporto per Fatah sia per questo motivo cresciuto, né che i sopravvissuti tra i

suoi leader possano ancora radunare i propri sostenitori. Una realtà del genere segna un limite massimo a ciò che di fatto

Israele può ottenere sul campo. Non può cambiare il regime.

Quel che Israele può fare è indebolire ulteriormente Hamas con le sue attuali operazioni di terra, concentrandosi su

bersagli che non è possibile colpire per via aerea (perché generalmente situati in seminterrati di palazzi estremamente

affollati) e impegnando in combattimento ravvicinato gli uomini armati di Hamas. Anche la semplice riduzione della

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forza di combattimento di Hamas è cruciale, come lo è stata nel 2006 contro Hezbollah. Perché se pure molti amano far

parata ammantati delle vesti del martire, quando c’è il combattimento vero l’entusiasmo svanisce velocemente.

Con poche eccezioni, le forze di terra israeliane non stanno avanzando frontalmente ma, al contrario, stanno effettuando

un gran numero di incursioni. Se le informazioni sugli obiettivi a loro disposizione resteranno buone come lo erano state

durante gli attacchi aerei, rimarranno a corto di bersagli nel giro di pochi giorni. Quando cioè un cessate il fuoco con un

monitoraggio di una certa credibilità sarà possibile e desiderabile per entrambe le parti come unica alternativa a una

rinnovata occupazione.

Hamas dichiarerà vittoria a prescindere da quel che accadrà, ma fece così anche Hezbollah nel 2006. E ancora, almeno in

gran parte, Hezbollah resta immobile e il confine settentrionale israeliano con il Libano rimane tranquillo. Allo stesso

modo, se Israele riuscirà a ottenere lo stesso con Hamas a Gaza avrà ottenuto una vittoria significativa.

© The Wall Strett Journal

Traduzione Andrea Di Nino

La guerra di Gaza è una totale sconfitta per Israel e L'inadeguatezza nel raggiungimento degli obiettivi della guerra rivela come quest'ultima rappresenti una totale sconfitta per Israele. Traduzione a cura di S.B. (Casco Bianco in Israele/ Palestina) Fonte: Caschi bianchi Apg23 - 28 gennaio 2009

Articolo di Gideon Levy tratto dal quotiano Ha'aret z del 22/01/2009

All’indomani del ritorno dell’ultimo soldato israeliano da Gaza, possiamo affermare con certezza che le truppe sono andate lì invano. Questa guerra si è conclusa con una sconfitta totale per Israele.

Questo va al di là di una profonda sconfitta morale, che di per sè sarebbe già una cosa grave, ma riguarda l’inadeguatezza nel raggiungere gli obiettivi prefissati. In altre parole, il dolore non bilancia il fallimento. Non abbiamo guadagnato niente da questa guerra se non centinaia di tombe, alcune molto piccole, migliaia di persone menomate, molta distruzione, e abbiamo infangato l’immagine di Israele.Quella che all’inizio della guerra sembrava una sicura sconfitta per una manciata di persone, lo diventerà per molte altre, quando il grido di vittoria sarà scemato. L’obiettivo iniziale della guerra era mettere fine al lancio di razzi Qassam. Questo non si è arrestato fino all’ultimo giorno di battaglia. L’obiettivo è stato raggiunto solo dopo che è stato decretato il cessate-il-fuoco. Gli ufficiali della difesa stimano che Hamas abbia ancora 1,000 missili. Nemmeno il secondo obiettivo della guerra, la prevenzione del contrabbando, è stato raggiunto. Il capo del servizio di sicurezza interna Shin Bet ha stimato che ricomincerà entro due mesi. La maggior parte del contrabbando che avviene oggi ha lo scopo di rifornire di cibo una popolazione sotto assedio, non di ottenere armi. Ma anche se accettassimo la campagna allarmistica sul contrabbando, con tutte le sue esagerazioni, questa guerra è servita a dimostrare che solo armi rudimentali e di bassa qualità sono passate attraverso i tunnel che collegano la Striscia di Gaza con l’Egitto.

Anche il raggiungimento del terzo obiettivo è in dubbio: la deterrenza. La dissuasione che avremmo dovuto ottenere con la seconda guerra in Libano non ha avuto il minimo effetto su Hamas, e quella che avremmo dovuto ottenere ora non sta facendo di meglio: il lancio sporadico di missili dalla Striscia di Gaza è continuato negli ultimi giorni. Il quarto obiettivo, che rimane non dichiarato, non è stato raggiunto. L’IDF non ha ristabilito la sua

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credibilità. Non avrebbe potuto, in una quasi - guerra contro organizzazioni miserabili e mal equipaggiate che contano su armi artigianali, i cui combattenti hanno a malapena incitato alla lotta.

Le descrizioni eroiche e i poemi di vittoria scritti sul “trionfo militare” non serviranno a cambiare la realtà. I piloti hanno volato in missioni di esercitazione e le forze di terra sono state impegnate in esercizi come arruolarsi e sparare.

I generali e gli analisti che si sono fatti carico dell’operazione, la descrivono come “una conquista militare”, è ridicolo.

Non abbiamo indebolito Hamas. La maggioranza dei suoi combattenti non è stata ferita e il supporto popolare è di fatto cresciuto. La loro guerra ha intensificato la filosofia della resistenza armata e determinato la loro resistenza agli attacchi. Un paese che ha curato un’intera generazione con la filosofia di alcuni versetti dovrebbe saperlo apprezzare al giorno d’oggi. Non c’era dubbio su chi fosse Davide e chi Golia in questa guerra.

La popolazione a Gaza, che ha subito un così duro colpo, non diventerà più moderata adesso. Al contrario, ora più di prima, il sentimento nazionale diventerà ostile contro chi ha inflitto quel colpo – lo Stato di Israele. Come l’opinione pubblica pende a destra in Israele dopo ogni attacco contro di noi, così farà Gaza in seguito al duro attacco che abbiamo scagliato contro la Striscia.

Se qualcuno è stato indebolito da questa guerra è Fatah, la cui fuga da Gaza e il cui abbandono hanno acquistato un significato particolare. La sfilza di fallimenti di questa guerra deve includere anche, certamente, quello della politica dell’assedio. Dobbiamo prendere atto che è del tutto inefficace. Il mondo boicottava, Israele assediava, e Hamas governava (e lo fa tuttora).

Ma il bilancio di questa guerra, per quanto riguarda Israele, non si esaurisce nell’assenza di successi. Ci ha caricato di un peso enorme, che graverà sulle nostre spalle per lungo tempo. Quando si tratterà di definire la posizione di Israele a livello internazionale non dobbiamo permettere di farci abbindolare dalla parata dei leader europei in nostro supporto, essi sono venuti per farsi scattare qualche foto d’occasione col Primo Ministro Ehud Olmert. Le azioni di Israele hanno inferto un duro colpo al consenso pubblico allo stato israeliano. Questo fatto non ha effetti immediati, l’onda d’urto arriverà prima o poi. Tutto il mondo ha visto le immagini. Hanno scioccato chiunque le abbia viste, anche se hanno lasciato freddi molti israeliani. La conclusione è che Israele è un paese violento e pericoloso, privo di ogni ritegno, che ignora apertamente le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, e se ne infischia del diritto internazionale. Le indagini sono iniziate. Ancora più grave è il danno morale che peserà sulle nostre spalle. Esso scaturirà da domande difficili come “cosa ha fatto l’IDF a Gaza”, nonostante il tentativo di offuscamento dei media assoldati.

Quindi cosa si è ottenuto in fin dei conti? Se era una guerra mossa per soddisfare ragioni di politica interna, in questo senso l’operazione ha avuto successo oltre le aspettative. Il leader del Likud Benjamin Netanyahu si sta rafforzando nei sondaggi. E perché? Perché non riusciamo mai ad averne abbastanza della guerra.

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CORRIERE della SERA , 01/03/2010, a pag. 16, l'articolo di Francesco Battistini dal titolo " Scontri alla Spianata delle Moschee. Si accende la contesa sui luoghi sacri ".

Francesco Battistini scrive : " Bibi Netanyahu ha annunciato il restauro dell’ «identità ebraica» di 150 siti archeologici e ha infilato nell’elenco pure le tombe dei Patriarchi e di Rachele, a Hebron e a Betlemme, che stanno nei Territori palestinesi e sono sacre anche all’Islam.". Il programma prevede il restauro dei luoghi sacri per gli ebrei. Il fatto che i due luoghi in questione siamo sacri anche per l'islam, non cambia la situazione, perciò non è ben chiaro da dove derivi l'irritazione degli arabi nè l'appoggio di Battistini. E' un progetto di restauro, e non ha nulla a che vedere con presunte mire espansionistiche. Battistini prosegue : "Non sarà l’inizio d’una mini-intifada, come dicono tutti, ma un po’ rischia di somigliarvi.(...) ricorda i disordini del ’ 96 per il Tunnel di Gerusalemme, anche allora contro Netanyahu. O la rabbia per la passeggiata di Sharon sulla Spianata". Il tunnel venne poi inaugurato con la soddisfazione di tutti, dimostrando così quanto le proteste fossero solo un pretesto. La passeggiata di Sharon sulla Spianata delle moschee non fu la causa scatenante della seconda intifada. Solo un ingenuo può crederlo. L'intifada era stata pianificata nei mesi precedenti, come dimostrato dai video prodotti dagli stessi palestinesi. Anche il titolo dell'articolo lascia perplessi. Perchè "Spianata delle Moschee"? Quel luogo ha un altro nome, Monte del Tempio. E, fino a prova contraria, lì c'erano le sinagoghe, prima delle moschee. Ma forse chiediamo troppo all'ormai pregiudizialmente ostile Battistini, anche se l'autore del titolo non è lui ma qualche "infarinato" della redazione. Ecco il pezzo:

GERUSALEMME — La guerra per le pietre diventa la guerra delle pietre. Un’altra volta. È cominciata senza troppo clamore una settimana fa, a Tel Hai, insediamento storico e memoria della lotta con gli arabi, dove Bibi Netanyahu ha annunciato il restauro dell’ «identità ebraica» di 150 siti archeologici e ha infilato nell’elenco pure le tombe dei Patriarchi e di Rachele, a Hebron e a Betlemme, che stanno nei Territori palestinesi e sono sacre anche all’Islam. S’è scaldata poche ore dopo a Gerico, nel giorno che commemorava la morte di Mosé, con la marcia sulla sinagoga d’alcuni ultraortodossi. S’è accesa lunedì scorso a Hebron, con le cinque giornate di guerriglia di centinaia di palestinesi. S’è allargata a Betlemme, al Campo dei Pastori. Alla fine è arrivata a Gerusalemme, ieri mattina, prevedibile e inesorabile, sulla Spianata delle Moschee e nella Città vecchia. Con le sassaiole di rito su quattro turisti, che secondo i palestinesi erano coloni israeliani. Coi lacrimogeni della polizia. Con 24 feriti, quattro agenti. Con sette arresti. Con un gruppo irriducibile deciso a picchettare l’Al Aqsa. Con una promessa: non finisce qui.

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Non sarà l’inizio d’una mini-intifada, come dicono tutti, ma un po’ rischia di somigliarvi. L’onda di proteste scatenata dal discorso di Tel Hai ricorda i disordini del ’ 96 per il Tunnel di Gerusalemme, anche allora contro Netanyahu. O la rabbia per la passeggiata di Sharon sulla Spianata. «La cosa più seria in cui ci siamo imbattuti dall’occupazione del 1967», avverte il governatore arabo di Hebron, Hussein al-Araj. «Un regalo ai fondamentalisti — prevedono dall’Anp di Abu Mazen —: si trasforma la questione in una guerra di religione». Il piano Netanyahu è semplice: 73 milioni di euro, stanziati per restaurare siti cari a Israele. E poco importa se la biblica Tomba dei Patriarchi sia anche la Moschea di Ibrahim, l’Abramo islamico. O se la Tomba di Rachele, terzo luogo santo dell’ebraismo, stia nel cuore palestinese di Betlemme circondata dal Muro. «Non vogliamo alterare lo status quo — ha spiegato il premier —. La libertà di culto rimarrà tale, per ebrei e musulmani. Noi sistemeremo la parte ebraica e il Wafq, l’autorità palestinese per i siti sacri, aggiusterà l’altra».La mossa di Bibi è stata sommersa di fischi. «Un barile di dinamite», scrive Ma’ariv. «Provocatoria è l’aggettivo usato in copia dall’amministrazione Obama, dall’Ue, dal Quartetto, dalla Conferenza islamica e dall’Unesco. A mezza bocca, una critica è arrivata anche dal presidente Shimon Peres. L’Anp ha proclamato tre giorni di sciopero, con la minaccia di denunciare gli accordi di Oslo e di pensare seriamente a una proclamazione unilaterale d’indipendenza, stile Kosovo. Senza dire della curva ultrà: dall’iraniano Ahmadinejad a Hamas, dai Fratelli musulmani del Cairo a Jihad, l’appello è alla mobilitazione violenta. Divisa l’opinione pubblica israeliana: «Questi siti sono le radici insostituibili della nostra esistenza » , dice Zeev Elkin, deputato della destra. «Sì, le nostre radici sono quelle, non certo i palazzi Bauhaus di Tel Aviv— ribatte un commentatore liberal, Haim Navon —. Ma ha senso rivendicarle adesso, mettendo a rischio tutto?».

La guerra-lampo che snatura Israele

martedì, 30 dicembre 2008

Rassegna Stampa , l'Ebraismo

Questo articolo è uscito su “Repubblica”. “Tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano”. Così pensava nella sua saggezza Mendel Singer, l’impareggiabile “Giobbe” di Joseph Roth. Magari ne serbassero memoria gli israeliani, esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l’importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia. Solo che al posto dei fanti straccioni del panarabista Nasser ora c’è l’islamismo di Hamas e Hezbollah. Al posto del generale Dayan e del capo di stato maggiore Rabin, c’è il ministro Barak, pluridecorato ma già politicamente logoro. E alla guida provvisoria del governo c’è un dimezzato Olmert che non crede fino in fondo in quel che fa, dopo aver condiviso negli ultimi anni l’autocritica strategica di Sharon. Il bene arriva piano piano. Tutto ciò che è improvviso è male. Non sono massime buone solo per deboli ebrei diasporici come quel Giobbe di un’Europa che non c’è più. E’ la sapienza antica d’Israele che ci ammonisce –da Davide e Golia in poi- come la superiorità militare non basti a dare sicurezza. Perché la forza non è tutto, anzi, può trascinare alla sconfitta le buone ragioni. Tre minuti di bombardamento micidiale preparati da mesi di lavoro d’intelligence possono schiacciare l’apparato visibile di Hamas ma non disinnescano il suo potenziale offensivo clandestino. Così i minuti si prolungano in giorni, mesi, anni. Seminando un odio tale da rendere sempre meno probabile che tra i palestinesi recuperi legittimità la componente moderata dell’Anp, destinata a soccombere dopo Gaza anche in Cisgiordania. Il risultato sarà un Israele che riesce a mettersi dalla parte del torto e del disonore pur avendo ragione

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nel denunciare la sofferenza delle sue contrade meridionali bombardate e, di più, la ferocia del regime imposto dagli sceicchi fondamentalisti alla popolazione di Gaza che tengono in ostaggio con la scusa di proteggerla. La competizione elettorale israeliana del prossimo 10 febbraio non offrirà più l’alternativa del 2005: di qua la coalizione che prospettava la pace in cambio di sacrifici territoriali, di là l’oltranzismo di chi considera gli arabi capaci d’intendere solo le bastonate. Ora tutti i contendenti gareggiano nel mostrarsi inflessibili, a costo di sacrificare le trattative con l’Anp e la Siria. L’opinione pubblica si rassegna all’inevitabilità della guerra, ma non per questo ritrova fiducia e combattività. All’indomani dell’attacco riaffiorano le divisioni. Gli stessi celebri scrittori, rappresentativi di un’intellighenzia minoritaria, dapprima hanno confidato che la rappresaglia di Tsahal rimanesse limitata, ma ora già chiedono un cessate il fuoco. Sono i primi ad avvertire, nel loro profetico distacco dalla politica, come il disonore possa trascendere nella perdizione d’Israele. Esprimono il malessere di una comunità frantumata cui riesce sempre più difficile riconoscersi in una cultura nazionale unitaria. L’affievolirsi della solidarietà esterna costringe Israele a guardarsi dentro, sottoponendo a autoanalisi pure le sofferenze indicibili, come il trauma della generazione ebraica sterminata. Si misurano i danni dell’ultimo lascito velenoso di Hitler, cioè il transfert nelle generazioni successive dei “sopravvissuti per procura”. E’ il richiamo terribile con cui scuote Israele l’ex presidente del suo parlamento, Avraham Burg: non hai un futuro di nazione come “portavoce dei morti della Shoah”; noi dobbiamo diventare altro che un’insana, dubbia rappresentanza delle vittime. Il nostro futuro pensabile è di compenetrazione con l’Oriente nel quale di nuovo gli ebrei provenienti da regioni lontane si sono fra loro mescolati; è di relazione con le altre vittime di questa terra. Perfino l’unico obiettivo politico realistico –due popoli, due Stati- come notava ieri Bernardo Valli, viene rimesso in discussione da un orizzonte storico in cui si registra il declino parallelo dei due nazionalismi (sionismo e panarabismo) in lotta da un secolo. Quanto al rimpianto per le innumerevoli occasioni perdute, la guerra lo confina in un ambito letterario e cinematografico. Si legga il bel romanzo dell’ebreo irakeno Eli Amir, immigrato in Israele nel 1951, “Jasmine” (Einaudi). Racconta l’incapacità di trarre frutto dalla consuetudine con gli arabi degli ebrei orientali, che pure sarebbe stata preziosa quando si cercava una soluzione per i territori occupati nella guerra-lampo. Invano zio Khezkel, reduce da una lunga detenzione per sionismo nelle prigioni di Bagdad, liberato dopo la vittoria del 1967, cerca di convincere una platea laburista di Gerusalemme: “Noi dobbiamo prestare ascolto al loro dolore, non ignorare la Nabka, la loro tragedia, ricordare che anche loro hanno una dignità. Dobbiamo ricordare che il debole odia il forte e chi oggi è sull’altare domani potrebbe ritrovarsi nella polvere”. La leadership ashkenazita non poteva intendere l’appello di zio Khezkel, i giovani gli danno del codardo. Mi ha fatto impressione domenica sera vedere al telegiornale il migliaio di musulmani convenuti di fronte al Duomo di Milano per pregare Allah dopo il bombardamento di Gaza. Ho ricordato la notte del 1982 in cui, per protestare contro la strage di Sabra e Chatila, ci ritrovammo in quella piazza arabi ed ebrei insieme, laicamente, non certo a genufletterci verso la Mecca. Oggi pare impossibile, costretti ad appartenenze irriducibili da un fondamentalismo che inferocisce la guerra nei suoi connotati religiosi. Hamas all’epoca non esisteva. Nasceva in Israele il movimento “Pace adesso” che avrebbe spinto al dialogo con i palestinesi. La rivoluzione iraniana degli ayatollah, nei suoi primi tre anni di vita, non era ancora riuscita a contagiare d’odio (suicida) l’islam globale. Oggi viviamo il pericolo di un conflitto che si estende e si assolutizza dall’una all’altra sponda del Mediterraneo, bersagliando Israele come tumore da estirpare. Distruggere Hamas, cioè l’islam fondamentalista penetrato fino a immedesimarsi nella causa nazionale palestinese, appare obiettivo difficilissimo da conseguire. Dubito che il governo di Gerusalemme, dichiarandolo, creda davvero che sia questa, chissà perché, la volta buona. Il rischio, al contrario, è che si consegni all’obbligo di combattere una guerra senza fine. Solo qualche settimana fa Ehud Olmert , un leader che non ha più niente da perdere e quindi s’è preso la libertà di dire le verità scomode, raccomandava ben altro futuro agli israeliani. Dobbiamo ripensare ciò in cui abbiamo creduto per una vita, anche se è doloroso. Rinunce territoriali, un lembo di Gerusalemme capitale palestinese. Olmert ha usato perfino una parola terribile, “pogrom”, per sanzionare le violenze messe in atto dai coloni contro i palestinesi di Hebron. Era prossimo a raggiungere un accordo con la Siria quando Hamas, rompendo la tregua e scatenando l’offensiva missilistica, ha trascinato l’establishment israeliano nella coazione a ripetere di questa guerra dei cent’anni. Spero di sbagliarmi, ma temo che i più entusiasti sostenitori dell’operazione “Piombo Fuso” saranno i primi a squagliarsi, quando si avvicineranno le ore fatali d’Israele. Gad Lerner.