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Riconciliare la Chiesa Egidio Foscarari tra inquisizione, concilio e governo pastorale (1512-1564)

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Page 1: Introduzione · Web viewVita Ign. = J.A. de Polanco, Vita Ignatii Loiolae et rerum Societatis Jesu historia, Madrid, Tipographorum societas-Avrial, 1894 e ss. Epp. et instr. = Monumenta

Riconciliare la Chiesa Egidio Foscarari tra inquisizione, concilio e governo

pastorale (1512-1564)

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Abbreviazioni archivistiche

AABo = Archivio Arcivescovile, BolognaAAMo = Archivio Arcivescovile, ModenaACAMo = Archivio della Curia arcivescovile, ModenaACMo = Archivio Capitolare, ModenaACDF = Archivio della Congregazione per la Dottrina Fede

S.O. = Sanctum OfficiumSt. St. = Stanza Storica

ACFe = Archivio della Curia, FerraraACIBo = Archivio Cavazza-Isolani, BolognaACRE = Archivio della Curia, Reggio EmiliaAGOP = Archivum Generale Ordinis PraedicatorumARSJ = Archivum Hisoricum Societatis Jesu

Epp. NN. = Epistolae NostrorumEpp. Ext. = Epistolae ExternorumEpp. Episcop. = Epistolae EpiscoporumEpp. Divers. = Epistolae DiversorumOpp. NN. = Opera Nostrorum

ASBo = Archivio di Stato, BolognaASDBo = Archivio del Convento di San Domenico, BolognaASMn = Archivio di Stato, MantovaASMo = Archivio di Stato, ModenaASVe = Archivio di Stato, VeneziaBAV = Biblioteca Apostolica VaticanaBAMi = Biblioteca Ambrosiana, MilanoBCABo = Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio, BolognaBLBk = Bancroft Library, University of California, Berkeley BLOx = Bodleian Library, Oxford BNCas = Biblioteca Nazionale Casanatense, RomaCFCh = BAV, Chigi, L.III.58 [Carteggi di Egidio Foscarari, cod. Chigiano]CFBo = BUBo, Codice 1621 [Carteggi di Egidio Foscarari, cod. Bolognese]LM = ASV, Concilium Tridentinum, 42, [Lettere dei padri conciliari a Giovanni Morone] Prelormo = ASDBo, VII, 32900, Cronaca di frate Ludovico da Prelormo

Abbreviazioni bibliografiche

AFP = «Archivum Fratrum Praedicatorum».BCJ = Bibliothèque de la Compagnie de Jesus, Bruxelles-Parigi 1890-1960.CrMo = T. de’ Bianchi detto de’ Lancellotti, Cronaca modenese, Parma 1862-1884.CT = Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, Freiburg im Breisgau 1901 e ss.D’Amato =A. D’Amato, I domenicani a Bologna, Bologna 1988. DBI = Dizionario biografico degli italiani, Roma 1960 e ss. DSI = Dizionario storico dell’Inquisizione, diretto da A. Prosperi, con la collaborazione di V. Lavenia e J. Tedeschi, Pisa 2010.

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ILI = Index des livres interdits, directeur J.M. De Bujanda, Ginevra 1984-2002.LC = M. Calini, Lettere conciliari (1561-1563), a cura di A. Marani, Brescia 1963.LCB = A. Marani, Lettere di Muzio Calini a Ludovico Beccadelli, in «Commentari dell’Ateneo di Brescia», 1969, pp. 59-143.MB = G. Morandi (a cura di), Monumenti di varia letteratura tratti di manoscritti di monsignor Lodovico Beccadelli, Bologna 1797-1804.MHSI = Monumenta Historica Societatis Iesu

Epp. Mix. = Epistolae mixtae ex variis Europae locis, Madrid, Avrial, 1898 e ss.Vita Ign. = J.A. de Polanco, Vita Ignatii Loiolae et rerum Societatis Jesu historia, Madrid, Tipographorum societas-Avrial, 1894 e ss.Epp. et instr. = Monumenta ignatiana, Series Prima, Epistolae et instructiones, Madrid, Lopez del Horno, 1903 e ss.

PC = M. Firpo, D. Marcatto (a cura di), I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, 1557-1567, Città del Vaticano 2000.PM 1= M. Firpo, D. Marcatto (a cura di), Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone. Edizione critica, Roma 1981-1995. PM 2 = M. Firpo, D. Marcatto (a cura di), Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, con la collaborazione di L. Addante e G. Mongini, Città del Vaticano 2011 e ss.PS = M. Firpo, S. Pagano (a cura di), I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558). Edizione critica, Città del Vaticano 2004.Quétif-Echard = J. Quétif, J. Echard, Scriptores ordinis praedicatorum recensiti, Parigi 1719-1721. SCT = H. Jedin, Storia del concilio di Trento, Brescia 1949-1981.Šusta = J. Šusta, Die römische Kurie und das Konzil von Trient, Vienna 1904-1914Walz = A. Walz, I domenicani al concilio di Trento, Roma 1961.

AvvertenzePer agevolare la decifrazione delle abbreviazioni adottate si sono indicato in tondo i riferimenti a fonti archivistiche e in corsivo quelli a fonti a stampa. Nella trascrizione delle fonti si sono adottati alcuni adeguamenti per agevolare la lettura: nei casi equivoci si sono sciolti i dittonghi latini resi dalle fonti con e semplice o cedigliata; si è modernizzato l’uso di maiuscole e minuscole, degli apostrofi e dei segni di punteggiatura; si sono adeguati alla grafia corrente gli ordinali (ad es. «Clemente 7°» trascritto come «Clemente VII») e tra parentesi quadre si sono indicati minimi adeguamenti ortografici o precisazioni che consentono di identificare personaggi e questioni cui i testi fanno riferimento.

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«Beati mites quoniam ipsi possidebunt terram»(Matt. 5,5)

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Riforme, controriforme e altre vie: il caso Egidio Foscarari

Sulla diffusione delle idee eterodosse in Italia e sulle reazioni che ne seguirono si sono misurati, nel corso dell’ultimo mezzo secolo, punti di vista molto diversi. Per esaminare se e quanto la Riforma e i suoi principi fossero filtrati nelle pieghe della società italiana, si è posta attenzione ora alle élites politiche, ora all’Italia delle città, o ancora al mondo della predicazione itinerante, a quello dei conventi, e all’universo di artigiani, mercanti e artisti1. Ognuna di queste indagini – idealmente completate dalle vicende degli esuli religionis causa che abbandonarono la Penisola – ha sottolineato aspetti importanti della ricezione della Riforma in Italia, evidenziando adattamenti e applicazioni del dissenso religioso in un contesto su cui l’autorità ecclesiastica continuò a esercitare un controllo speciale. A questi studi si sono poi affiancate indagini rivolte a sondare la reazione della Chiesa di Roma e le misure elaborate o rivitalizzate dal concilio di Trento per riassorbire la protesta attraverso una moralizzazione in capite et in membris2. In questo quadro un ruolo decisivo fu svolto dai vescovi, impegnati a governare a livello diocesano le spinte centrifughe costituite dalle comunità eterodosse sorte nei decenni centrali del Cinquecento e nell’opera di restaurazione della cristianità. Le varie ricerche che si sono interrogate sull’azione degli ordinari diocesani nei contesti locali hanno indicativamente seguito tre impostazioni: nella maggior parte dei casi si è insistito sull’impegno profuso per l’affermazione della pietà e dell’ortodossia tridentina (la cosiddetta riforma cattolica) con un conseguente contrasto a gruppi ereticali e ad altre forme di deviazione religiosa3; una seconda opzione ha illustrato episodi di connivenza tra vescovi sospetti (erasmiani, valdesiani, filoriformati, ecc.) e dissidenti religiosi4; altri studi, infine, hanno dovuto constatare un superficiale interesse dei vescovi per il fenomeno ereticale, così come per la riforma del clero e dei fedeli, in nome di priorità di ordine politico, patrimoniale e familiare che li impegnarono su altri fronti5. Nella galleria dei vescovi che si trovarono al governo delle diocesi italiane negli anni del Tridentino è dunque possibile incontrare vescovi 1 Per gli orientamenti della storia religiosa e inquisitoriale in età moderna, cfr. in sintesi M. VALENTE, Nuove ricerche e interpretazioni sul Sant’Uffizio a più di dieci anni dall’apertura dell’archivio, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 2012, n. 2, pp. 569-592; S. PEYRONEL (a cura di), Cinquant’anni di storiografia italiana sulla Riforma e i movimenti ereticali in Italia, 1950-2000, Torino 2002; J. TEDESCHI (a cura di), The Italian Reformation of the sixteenth century and the diffusion of Renaissance culture: a bibliography of the secondary literature, ca. 1750-1997, Modena 2000. 2 Il dibattito sulle caratteristiche della reazione cattolica fu aperto dal celebre saggio di H. JEDIN, Riforma cattolica o Controriforma? Tentativo di chiarimento dei concetti con riflessioni sul concilio di Trento, Brescia 1957 [ed. or. Katholische Reformation oder Gegenreformation? Ein Versuch zur Klärung der Begriffe nebst einer Jubiläumsbetrachtung über das Trienter Konzil, Luzern 1946], poi variamente ripreso e spunto per numerose ricerche applicate a vari contesti diocesani. Su di esso torneremo tra breve.3 Basti ricordare i due modelli di vescovi esemplari rappresentati da Carlo Borromeo e Gabriele Paleotti. Ancora una volta, a fare scuola fu una raccolta di saggi di JEDIN: Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, Brescia 1950.4 Cito solo qualche esempio, nella lunga lista dei vescovi che, nel Cinquecento, incapparono a vario titolo nelle maglie del Sant’Ufficio o ne sollevarono i sospetti: dalle frequentazioni di Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, a Vittore Soranzo, vescovo di Bergamo, a Pier Paolo Vergerio, Giovanni Grimani, Jacopo Nacchianti, Giovanni Tommaso Sanfelice, e il caso forse più clamoroso, quello del cardinale Giovanni Morone, per lungo tempo vescovo di Modena.

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tolleranti nei confronti dei gruppi filoriformati di cui condivisero in tutto o in parte le opinioni; ostili a essi in quanto assertori di un’ortodossia allineata alle direttive romane, oppure vescovi scarsamente coinvolti nei vari livelli del governo pastorale, incluso il contrasto all’eresia.Dalle poche considerazioni sin qui svolte, non sfuggirà come al termine riforma e ai suoi derivati possano essere attribuite accezioni molto diverse, sulle quali il dibattito è ancora aperto. Come ha scritto John O’Malley6, dopo la soluzione suggerita da Hubert Jedin negli anni quaranta del secolo scorso, gli storici non hanno smesso di confrontarsi sulla terminologia da adottare e numerosi sono stati gli sforzi di ridefinizione concettuale, transitati perlopiù attraverso gli studi sui processi di confessionalizzazione e disciplinamento7. In tempi più recenti, la storiografia anglosassone ha inoltre elaborato proposte a maglie larghe, dall’«Early Modern Catholicism» dello stesso O’Malley8 al «Catholic Renewal» di Ronnie Po-chia Hsia9, che hanno accantonato periodizzazioni serrate, a favore di sguardi di più lungo periodo. La vivacità del dibattito pare inesaurita e l’oscillazione nelle definizioni di volta in volta adottate10 mostra in modo chiaro come il tema sia ancora oggetto di riflessione e, in certa misura, di revisione, secondo un’esigenza ben compendiata dal titolo una recente raccolta di saggi curata da Thomas Mayer (Reforming reformation)11. A questi tentativi, che mirano ad attenuare il ruolo di svolta della frattura cattolico-riformata, parte della storiografia italiana ha reagito rilanciando la validità della categoria di Controriforma12, sebbene rileggendola non come reazione ad extra, ma ad intra. Essa non sarebbe stata in primo luogo una risposta repressiva alla Riforma protestante, ma il tentativo di definire – o limitare – i caratteri del riformismo cattolico, anche attraverso strumenti coercitivi. Come si comprende, ognuna delle definizioni riportate è espressione di presupposti e di interpretazioni degli avvenimenti tutt’altro che neutri. Consapevoli della necessità, e dell’inevitabilità, di elaborare categorie con cui descrivere i fatti, ci pare che – se applicate in termini troppo rigidi – esse non consentano di comprendere fenomeni talora sfumati o, all’estremo opposto, 5 Non sono poche le ricerche su singole comunità eterodosse o contesti cittadini in cui il ruolo degli ordinari diocesani non pare emergere con particolare protagonismo.6 J.W. O’MALLEY, Trent and all that. Renaming Catholicism in Early Modern Era, Cambridge MA-London 2000, pp. 119 ss. [trad. it. Trento e dintorni: per una nuova definizione del cattolicesimo nell’età moderna, a cura di M. FANTONI, Roma 2004].7 Mi limito a rinviare a un testo fondamentale per la recezione italiana del dibattito: P. PRODI (a cura di), Disciplina dell’anima, disciplina del corpo e disciplina della società tra Medioevo ed età moderna, con la collaborazione di C. PENUTI, Bologna 1994.8 Un primo tentativo di applicare tale categoria è stato fatto proprio in una raccolta di scritti in onore di O’Malley: K.M. COMERFORD, H.M. PABEL (a cura di), Early modern catholicism: essays in honour of John W. O’Malley, Toronto 2001.9 R. PO-CHIA HSIA, The world of catholic renewal 1540-1770, Cambridge 1998. Si noti come, nel titolo, la traduzione italiana ricorra di fatto alla terminologia tradizionale: La Controriforma. Il mondo del rinnovamento cattolico, 1540-1770, Bologna 2001.10 Per l’ambito anglosassone cui si è accennato mi limito a segnalare: A. BAMJI, G.H. JANSSEN, M. LAVEN (a cura di), The Ashgate Research Companion to the Counter-Reformation, Farnham 2013, in cui accanto alla Controriforma evocata nel titolo, convivono il «Tridentine Catholicism» oggetto della riflessione di Simon Ditchfield, la «Confessionalization» indagata da Ute Lotz-Heumann e l’etichetta di «Counter-reformation» che domina la terza sezione del volume («Ideas and Cultural Practices»).11 T.F. MAYER (a cura di), Reforming reformation, Farnham 2012. 12 Da ultimo M. FIRPO, La presa di potere dell’Inquisizione romana (1550-1553), Roma-Bari 2014.

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rischino di annacquare le differenze, a tratti radicali, che animarono la Chiesa cinquecentesca. Il caso che esamineremo è indicativo della complessità ora ricordata, evidenziando – lo anticipiamo – l’esistenza di un riformismo cattolico (cioè non ispirato da dottrine eterodosse), rivelatosi incapace di incidere sulla realtà perché apertamente contrastato dall’ascesa dell’Inquisizione romana. Un riformismo, però, la cui memoria sembrò corservarsi sotto traccia per riemergere ciclicamente ogni volta che si prospettarono spiragli di cambiamento (nel Settecento riformatore, durante il concilio Vaticano II, ecc.). Senza volerci qui dilungare su un dibattito che continua a registrare una pluralità di voci e cercando di partire dagli eventi prima che dalle categorie concettuali, gioverà tornare al punto iniziale: il ruolo dei vescovi nell’opera riformatrice. Rispetto alle tre casistiche su elencate, la ricerca che segue ne delinea infatti una quarta: accanto a vescovi sospetti, a vescovi che procedettero a reprimere l’eresia in ossequio alle direttive dell’Inquisizione e, da ultimo, a vescovi assenti, si può riscontrare la presenza di vescovi che, non mettendo in discussione l’obbedienza al papa o alla Chiesa gerarchica né dissentendo dai cardini della teologia cattolica, si occuparono delle insorgenze eterodosse in chiave non repressiva e alternativa al tribunale inquisitoriale. Tra di essi vi fu il domenicano Egidio Foscarari, la cui biografia consente di ripercorrere le profonde trasformazioni della Chiesa tridentina. Esponente di una delle più influenti famiglie del patriziato bolognese, Foscarari entrò giovanissimo nell’ordine di San Domenico compiendovi una rapida ascesa che, nel 1547, lo condusse a Roma come maestro del Sacro Palazzo. In quella veste prese parte alle sedute della neoistituita congregazione del Sant’Ufficio, fino a quando, dopo il conclave del ‘49 e l’elezione di Giulio III, fu inviato come vescovo a Modena per raccogliere la delicata eredità lasciata dal cardinale Giovanni Morone, già titolare della diocesi dal 1529 al 1550. Dotato di speciali privilegi, gli fu concesso – o più probabilmente chiesto – di riconciliare in segreto i molti eretici presenti in città, dove a partire dagli anni trenta si era costituita una fiorente comunità eterodossa protetta dallo stesso Morone. Quando nel 1557 quest’ultimo fu arrestato e accusato di eresia dall’intransigente Paolo IV Carafa, anche Foscarari venne imprigionato. L’Inquisizione gli chiese conto dell’aiuto offerto a Morone con l’invio di documenti difensivi, ma nessun riscontro consentì di ipotizzare – come invece fu per altri prelati – una sua personale adesione a dottrine sospette. Anzi, la moralità rigorosa, l’attenzione ai poveri e la dedizione con cui cercò di riformare la chiesa modenese furono caratteristiche riconosciutegli persino dai suoi detrattori. Il proscioglimento da ogni accusa di complicità seguito alla morte di papa Carafa non valse però a riabilitarlo, e mai gli fu concessa la berretta cardinalizia che pure più volte fu in predicato di ricevere. Negli ultimi anni della sua vita, infine, lo sforzo di ottenere in concilio la proclamazione della residenza dei vescovi de iure divino scatenò una dura campagna di attacchi personali che minò la sua speranza in ogni possibile riforma della Chiesa. Quella di Foscarari fu insomma una vita di delusioni e amarezze, che dagli onori iniziali passò per il viatico della carcerazione, infrangendosi davanti alle insormontabili resistenze di un papato intimorito dal protagonismo dei vescovi. Come si è detto, la sua fu una “quarta via” in una stagione di straordinaria fluidità religiosa. Fu una posizione sfumata, per molti versi ambigua, tanto che i numerosi storici che ne hanno incrociato la figura lo hanno definito nelle maniere più diverse, segno di una difficoltà – tanto degli studiosi come di molti

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contemporanei del domenicano – di ridurre Foscarari dentro categorie troppo nette. C’è chi ha insistito sulla sua mitezza nei confronti degli eretici, interpretando il suo atteggiamento come un tentativo di assorbimento delle prerogative inquisitoriali all’interno dell’ufficio vescovile13; altri ne hanno descritto il governo come un regime di «blanda sorveglianza» antiereticale che produsse un «clima di tolleranza»14. Vi è stato ancora chi lo ha proposto come vescovo di «probabile matrice erasmiana»15 oppure ne ha sottolineato l’appoggio alle politiche del gruppo dei cosiddetti «spirituali», influenti membri della gerarchia cattolica ispirati alle dottrine dell’eretico spagnolo Juan de Valdés16. In altri casi se ne è offerta l’immagine di prosecutore della linea pastorale di Giovanni Morone17, enfatizzandone gli sforzi di pacificazione18 e le rare qualità teologiche e morali («arca scientiae»19, «soggetto di buone lettere e sincera conscienza»20, «esempio di bontà e di semplicità»21). Anche Foscarari, infine, è stato indicato tra i tanti esponenti della riforma cattolica, restauratore dell’ortodossia e del potere vescovile, prototipo dell’«Italian bishop»22. Questa rapida scorsa offre di per sé un esempio della complessità della figura del domenicano e della scivolosità sperimentata da quanti, incrociandone l’operato, lo hanno interpretato in modi diversi e talora antitetici. Ognuna delle definizioni su riportate, come vedremo, coglie un elemento di verità, una lettura di fatto plausibile (ma non esaustiva) della sua biografia. Per certi versi, Foscarari fu tutto questo insieme: ci pare però che l’indagine qui condotta consenta di individuare alcuni tratti distintivi per comprendere con maggiore esattezza chi fu e quale opzione rappresentò nelle discussioni religiose del suo tempo. Partendo da una formazione conventuale che lo ancorò profondamente alla tradizione scolastica e ai valori dell’osservanza domenicana (anzitutto alla povertà), Foscarari concepì se stesso inizialmente come teologo a servizio del pontefice, e in seguito come vescovo dedito al gregge a lui affidato. Convinto assertore della necessità di riformare la Chiesa evitando fratture o, per meglio dire, della possibilità di riconciliare i protestanti sanando gli abusi che li avevano allontanati dall’obbedienza a Roma, Foscarari

13 V. ad es. A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, p. 223: «Ci furono vescovi appartenenti all’ordine domenicano, come Egidio Foscarari, che sostennero l’opportunità della maniera ‘dolce’ per far rientrare gli eretici pentiti nella Chiesa». 14 A. ROTONDÒ, Anticristo e Chiesa romana. Diffusione e metamorfosi d’un libello antiromano del Cinquecento, in ID., Studi di storia ereticale del Cinquecento, Firenze 2008, I, pp. 45-199: 142, 158.15 L. FELICI, Al crocevia della riforma. Egidio Foscarari nella terza fase del Tridentino, in M. FIRPO, O. NICCOLI (a cura di), Il cardinale Giovanni Morone e l’ultima fase del concilio di Trento, Bologna 2010, pp. 79-116: 83. Un utilizzo di Erasmo da parte di Foscarari in chiave irenica è indicato anche da S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia, 1520-1580, Torino 1987, pp. 238 ss. 16 FIRPO, La presa di potere, cit., pp. 167 ss.17 S. FECI, Foscarari Egidio in DBI, 49, pp. 280-283; EAD., Foscarari Egidio in DSI, II, p. 615. 18 M. AL KALAK, Storia della Chiesa di Modena, Modena 2006, pp. 253-311.19 G. SILINGARDI, Catalogus omnium episcoporum Mutinensium, Modena 1606, p. 141. Cfr. l’analoga definizione di L.A. MURATORI, Opere varie critiche di Lodovico Castelvetro, Lione 1727, p. 37.20 P. SARPI, Istoria del Concilio Tridentino, Firenze 1966, 2, pp. 671-672.21 A. D’AMATO, Foscarari Egidio, in Enciclopedia cattolica, Città del Vaticano 1950, V, col. 1545.22 M.M. FONTAINE, For the Good of the City: the Bishop and the Ruling Elite in Tridentine Modena, in «Sixteenth Century Journal», XXVIII (1997), 1, pp. 29-43; EAD., Making Heresy Marginal in Modena, in R.K. DELPH, M.M. FONTAINE, J.J. MARTIN (a cura di), Heresy, Culture, and Religion in Early Modern Italy. Contexts and Contestations, Kirksville 2006, pp. 37-51.

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fu animato nel proprio ministero vescovile da alcune parole d’ordine: il precetto della residenza – che costituì qualcosa di molto simile a un tormento di coscienza –; la necessità di occuparsi personalmente della riforma del clero con strumenti quali i sinodi diocesani e, soprattutto, le visite pastorali; l’esigenza di essere di esempio a chierici e laici con una condotta di vita irreprensibile. In questo senso, Foscarari fu effettivamente un frate – con il suo carattere ascetico e severo – divenuto vescovo, un uomo chiamato a trasformare progetti teologici di riforma della Chiesa in progetti pastorali. Il modello di vescovo cui si richiamò, ben radicato nell’eredità medievale, rimandava alla Chiesa delle origini e ai grandi esempi dell’antichità, da Ambrogio ad Agostino. Il vescovo era il perno del governo diocesano e, dunque, il perno della riforma della Chiesa. A non trovare spazio nel disegno di Foscarari fu invece l’Inquisizione romana. Pur appartenendo all’ordine domenicano, egli infatti non sostenne le politiche inquisitoriali schierandosi, in vario modo, su fronti diversi rispetto al Sant’Ufficio. A determinare quella distanza furono verosimilmente molte ragioni: non solo l’insanabile incompatibilità – su cui torneremo – tra il suo riformismo e le rivendicazioni del tribunale di fede, ma anche la constatazione dell’uso strumentale che ne fecero uomini come Gian Pietro Carafa o Michele Ghislieri. Negli anni al servizio di Paolo III, e in maniera ancora più eclatante durante il governo del suo successore, Foscarari poté toccare con mano come l’azione dei giudici cercasse di aggirare i limiti imposti dai pontefici, screditando gli avversari alla tiara e alimentando una lotta più politica che religiosa. Durante la sua permanenza a Modena, poi, sperimentò come gli arresti e i processi del Sacro Tribunale potessero sconvolgere gli equilibri cittadini, innescare cacce all’uomo e non risolvere, se non addirittura aggravare, piaghe come l’immoralità del clero e l’ignoranza dei fedeli. Anche per questo, Foscarari si collocò su una linea alternativa a quella inquisitoriale, fatto tanto più interessante quanto più se ne può escludere la derivazione da dottrine eterodosse. Esaminando gli eventi che coinvolsero il vescovo di Modena e l’istanza che incarnò – riconciliare per via pastorale e non inquisitoriale gli eretici e, a livello più ampio, risanare gli scismi mediante la riforma della Chiesa –, non è pertanto eccessivo concludere che l’Inquisizione non si scagliò solo contro vescovi e prelati sospettati di eresia, ma anche contro uomini che elaborarono progetti non in linea con le priorità dei giudici (o, se vogliamo, con l’idea di riforma che l’Inquisizione veicolò).La prova evidente della percezione negativa dell’operato di Foscarari giunse pochi anni dopo la sua morte, quando diversi cardinali del Sant’Ufficio ne condannarono risolutamente l’azione. Le critiche che gli furono mosse riguardarono il suo atteggiamento nei confronti degli eretici e i metodi pastorali – mitezza e persuasione – con cui aveva fronteggiato il dissenso religioso. L’esperienza del domenicano e la riforma che aveva tentato, conferendo nuova centralità alla figura del vescovo, furono rigettate senza mezzi termini. La formula che i vescovi dovevano applicare era un’altra: scrivere sempre «lettere con li signori cardinali del Santo Officio», dare «aviso a loro di quanto occorre» e, soprattutto, eseguire «quanto da loro gli sarà ordinato»23. I vescovi dovevano 23 Lettera del cardinale Vincenzo Giustiniani al vescovo di Modena Sisto Visdomini (20 novembre 1571). Cfr. ACMo, cod. O.V.45, cc. 52r-v, edita in M. AL KALAK, Gli eretici di Modena. Fede e potere alla metà del Cinquecento, Milano 2008, pp. 211-212. Torneremo sul valore di questo testo nel capitolo conclusivo.

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mostrarsi deferenti nei confronti dei giudici di fede e subordinare le proprie decisioni pastorali alle direttive dell’Inquisizione.Scrivere la biografia di un personaggio come Foscarari significa dunque non solo aggiungere un tassello alla conoscenza delle questioni cruciali che attraversò (conclavi, sessioni conciliari, riforma dei libri liturgici e dell’Indice, ecc.), ma anche svelare le tensioni prodottesi nella Chiesa circa gli obiettivi da perseguire e i mezzi per raggiungerli. La vita di Foscarari – uomo di alta dottrina e specchiata reputazione, finito nel novero dei fautori di eretici – dimostra come in seno al cattolicesimo, in quella parte cioè della cristianità che non mise in dubbio la fedeltà al pontefice e i principi teologici definiti dalla Chiesa di Roma, maturarono opzioni di riforma diverse e in molti frangenti contrapposte. Nella delicata lotta per la definizione dell’identità della Chiesa tridentina le proposte furono molte. Ognuna di esse lottò, con maggiore o minore successo, per l’affermazione di un determinato modello ecclesiologico, fondato su presupposti teologici e pastorali differenti. Fu uno scontro in cui qualcuno vinse (il Sant’Ufficio), qualcuno perse (ad esempio i sostenitori della residenza dei vescovi o i propugnatori di una radicale riforma della curia romana) e qualcun altro si conformò alle indicazioni dei vincitori (si pensi ai processi di rimodellamento degli ordini religiosi24). Nel merito, la proposta di Foscarari – in parte simile a quella di altri vescovi tridentini, ma dotata di caratteri di originalità (dalla facoltà di poter assolvere gli eretici in privato alla carcerazione subita) – lottò per il primato degli ordinari diocesani e l’affermazione di un criterio di pastoralità (e dunque di adattabilità) nella conduzione delle chiese locali in nome di un obiettivo di pacificazione e riconciliazione della cristianità. La via scelta dall’istituzione ecclesiastica privilegiò invece altri valori: un adeguamento nei comportamenti che poteva prescindere, come ha mostrato Adriano Prosperi, dall’approfondimento individuale forgiando una sorta di «fede degli italiani»25; una struttura gerarchica fortemente sottoposta al controllo romano e dotata di ristretti spazi di autonomia per i vescovi; una difesa dei privilegi tradizionali dell’istituzione ecclesiastica; una rigida salvaguardia dell’ortodossia, intesa non solo come enunciazione di principi di fede, ma anche come conformità a determinati comportamenti (ivi inclusi i comportamenti pastorali). La risoluta condanna di ogni irenismo, il crescente controllo dell’Inquisizione anche in sede periferica e la possibilità per il clero di appellarsi ai tribunali romani contro le decisioni dei vescovi furono solo alcuni aspetti di un’impostazione che favorì anzitutto l’obbedienza e l’adeguamento disciplinare alle direttive provenienti dal centro. Gli esiti provocati nel lungo periodo dalla scelta romana sono ancora oggetto di discussione, e studi recenti hanno sottolineato il prodursi nei decenni post-conciliari di una situazione di degrado nei comportamenti del clero – con un aumento dei procedimenti vescovili contro religiosi e sacerdoti – e una parallela connivenza dei tribunali romani, inclini ad annullare sentenze e punizioni comminate dagli ordinari diocesani26. Solo uno studio sistematico potrà permettere un giudizio definitivo che consenta di misurare se e in che termini 24 Esemplare, a riguardo, il caso dei Barnabiti, su cui v. E. BONORA, I conflitti della Controriforma: santità e obbedienza nell’esperienza religiosa dei primi Barnabiti, Firenze 1998.25 V. l’introduzione alla raccolta Eresie e devozioni. La religione italiana in età moderna, Roma 2010, pp. VII ss. e A. PROSPERI, La fede italiana: geografia e storia, in Cristiani d’Italia. Chiese, società, Stato 1861-2011, diretto da A. MELLONI, Roma 2011, 1, pp. 3-22.26 Cfr. M. MANCINO, G. ROMEO, Clero criminale. L’onore della Chiesa e i delitti degli ecclesiastici nell’Italia della controriforma, Roma-Bari 2013, pp. V-VIII.

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la Controriforma (intesa come preponderanza degli aspetti coercitivi e della tutela delle gerarchie a discapito di un’incisiva moralizzazione) prevalse sul riformismo cattolico27. Certamente, con maggiore o minore enfasi, la storiografia sia cattolica sia laica ha ormai accertato il distanziamento tra gli orientamenti di riforma propugnati da molti dei padri conciliari e la successiva interpretazione e applicazione romana. Allargando poi lo sguardo dai decenni che segnarono la nascita e l’affermazione del sacro tribunale a un arco cronologico più ampio, gli interrogativi si moltiplicano e il quadro si fa più articolato. Molto resta da fare, ad esempio, per capire cosa accadde nelle periferie inquisitoriali nel Sei e Settecento e certamente l’alleanza tra vescovi e inquisitori che si venne delineando nei decenni successivi alla vittoria dell’Inquisizione non mancò di produrre ricadute anche sui processi di moralizzazione del clero e dei fedeli (si pensi al contrasto della sollicitatio ad turpia, al controllo dell’affettata santità o ancora alla codificazione della sacralità ufficiale in contrapposizione al magico e alla religiosità popolare). La biografia che segue, come accennato, non potrà che mantenersi in un periodo anteriore alle questioni appena evocate, concentrandosi sui decenni che videro lo scontro tra la riforma patrocinata dai giudici di fede e quella di Foscarari: una proposta improntata, per ammissione del suo stesso propugnatore, sul primato della misericordia, e condannata dai vertici della curia romana come anticamera dell’eresia. Una riforma non priva di contraddizioni, esemplificate dalle incertezze e dai cambi di rotta del suo fautore: un teologo che si trovò a guidare una diocesi, un domenicano che pensò di prestare obbedienza alla Compagnia di Gesù, un pastore esemplare incarcerato dall’Inquisizione, un vescovo che non poté non vedere e non conoscere l’eterodossia di molti personaggi cui si associò. Sullo sfondo, altre storie che restano da raccontare e rendono ancora più intricata la selva in cui lo storico deve addentrarsi: quella, tormentata, dell’ordine domenicano, divenuto solo dopo molti scontri interni l’ordine degli inquisitori; o ancora la storia di un’Inquisizione che, al termine della sua marcia trionfale, riscrisse il proprio passato, rimodellando il volto dei suoi padri fondatori e delle sue vittime (in primis Giovanni Morone e Reginald Pole). Tutti entrarono a far parte di un’altra narrazione – messa a nudo da Paolo Sarpi e dal suo racconto dell’«Iliade» conciliare – in cui le divergenze furono appianate dai moduli pacati e provvidenzialistici dell’apologetica.Non mancano poi punti oscuri su alcuni passaggi della vicenda di Foscarari, che avrebbero potuto consigliare di abbandonare l’impresa. Di fronte al silenzio delle fonti, si evidenzieranno con franchezza i limiti della ricostruzione storica, cercando di ricucire i pochi indizi disponibili e, allo stesso tempo, di ricreare i contesti in cui Foscarari si mosse, dal convento in cui si formò ai gruppi, politici e di curia, che appoggiò attraverso le proprie scelte. Come si vedrà, si potranno riscontrare presenze ricorrenti e convergenze che, quantomeno, richiedono una riflessione. Attraverso la trama di relazioni delineata e inseguendo il filo rosso rappresentato dall’emergere del nome di Foscarari in questa o quella vicenda, si tenterà così di fare luce sui primi passi del protagonista e sulle radici delle sue scelte.

27 Il dibattito a riguardo è stato recentemente ripreso da FIRPO, La presa di potere, secondo cui la categoria di Controriforma resta tuttora valida e preferibile a quella di riforma cattolica.

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Se poi, fortunatamente, per gli anni della maturità la documentazione risulta abbondante, è un’altra la difficoltà che si dovrà superare. Gli scritti del domenicano si presentano infatti come affascinanti trame di citazioni bibliche, allusioni patristiche e agiografiche, che fungono da lente di osservazione e di interpretazione della realtà descritta e vissuta. Poco è lo spazio lasciato a considerazioni personali, a notazioni che superino il piano della riflessione teologica o aggirino l’espressività del dettato biblico. Questo modo di argomentare, mentre nasconde il protagonista dietro una patina che ne sfuma i contorni, consente anche di coglierne un convincimento essenziale, di cui bisognerà tenere conto: un senso teologico della storia – guidata da Dio e affidata a lui –, una fiducia incrollabile nell’affermazione della verità attraverso vie misteriose e una visione del messaggio biblico come messaggio di misericordia e di pace, sebbene in un tornante drammatico per la cristianità. La riforma della Chiesa diviene così il mezzo e il presupposto di ogni possibile riconciliazione, la via per ottenere da Dio la tanto attesa ricomposizione della cristianità.Di questa biografia, i giudici di fede ritennero opportuno cancellare la memoria, procedendo a un’eliminazione – o nei casi migliori a una riscrittura – dell’eredità di Foscarari. È un motivo più che sufficiente per provare a ripercorrerne la vita, nella speranza che possa aggiungere qualcosa alla comprensione di un’epoca di straordinari cambiamenti.

Molti sono i debiti di riconoscenza che stanno dietro questo lavoro. Anzitutto quello nei confronti di Massimo Firpo, conoscitore come pochi del Cinquecento religioso e punto di riferimento costante per discussioni e consigli. Un ringraziamento particolare va poi a Mario Rosa che mi ha accompagnato con affetto e sapienza lungo tutto il percorso, a Gianvittorio Signorotto e Maria Antonietta Visceglia, lettori esperti e generosi. Ad Adriano Prosperi il merito di avermi avvicinato per primo alla figura di Foscarari e alle intricate vicende di cui fu protagonista. Preziosa è stata anche l’ospitalità di Alberto Melloni e la discussione dei risultati della ricerca presso la Fondazione di Scienze Religiose di Bologna. Un sostegno importante mi è venuto anche da Giuseppe Marcocci, Ilaria Pavan e Paolo Sachet. Non posso poi non ricordare tutto il personale delle biblioteche e degli archivi presso cui ho lavorato: senza la loro collaborazione non avrei potuto giungere al risultato sperato. In particolare mi è doveroso ringraziare p. Marco Salvioli, p. Massimo Mancini, Alberto Stignani e Andrea Zanarini dell’Archivio del convento di San Domenico di Bologna, e Daniel Ponziani dell’Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ringrazio ancora Euride Fregni, dell’Archivio di Stato di Modena, Annalisa Battini e Milena Ricci. Essenziale è stata la collaborazione dell’Arcidiocesi di Modena, e in particolare di mons. Giacomo Morandi cui va la mia riconoscenza più sincera. Un contributo importante è venuto anche da Livio Migliori e dall’Accademia dello Scoltenna, custode del patrimonio storico e antropologico della montagna modenese. Una gratitudine speciale va infine (e per primi) a Marco Iacovella e Michele Lodone che con la loro amicizia e la loro intelligenza hanno contribuito molto di più di quanto le mie parole possano esprimere. A Margherita, Giulio ed Elisabetta, un affetto che non ha confini per tutto il bene e l’aiuto che riescono a darmi ogni giorno.

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Capitolo PrimoUn domenicano nella Bologna del Cinquecento

Una famiglia potente

Il 27 gennaio 1512 era un giorno come tanti. La Chiesa ricordava san Giovanni Crisostomo, padre della tradizione orientale che aveva predicato nella Costantinopoli dell’imperatore Arcadio. Per l’illustre famiglia dei Foscarari, però, quel giorno non era uguale agli altri. Nella casa di Andrea e Orsina Lambertini veniva alla luce un figlio maschio, Obizzo, destinato a entrare nell’ordine domenicano con il nome di Egidio. L’unione dei due era stata allietata da altri quattro figli, Francesco, Camillo, Astorre e Lucrezia, che avrebbero sostenuto le sorti del casato28. Membri del patriziato cittadino, i Foscarari erano una delle famiglie più antiche di Bologna. La loro storia risaliva al cuore del medioevo: secondo un’etimologia leggendaria, quel cognome derivava da un certo Fosco, tesoriere dell’imperatore Federico Barbarossa nel 1163, «huomo saggio, prudente et humano», universalmente stimato per le «sue vertuti» e «buone qualitati». Insignito della cittadinanza bolognese, aveva lasciato ai suoi discendenti un nome che portava i segni del mestiere in cui si era distinto (Fosco-erario), dando inizio a una famiglia che di lì a poco si sarebbe saldamente radicata nel tessuto urbano29. Si diceva che alla casata fosse appartenuto san Guarino, canonico regolare lateranense, divenuto vescovo di Palestrina per volontà di Lucio II e dichiarato santo poco dopo la morte, avvenuta intorno al 115830. Un secolo più tardi, nel 1280, i Foscarari si erano inseriti nella fazione guelfa cui aderivano gli Asinelli, i Bentivoglio, i Beccadelli, i Bonaccorsi, i Gozzadini, i Lambertini, i Malvezzi, i Vivari (poi Aldrovandi) e un’altra ottantina di famiglie31. In quegli stessi anni, inoltre, grande fama circondava Egidio Foscarari, primo laico a tenere l’insegnamento di diritto canonico presso l’università cittadina32. Grazie al prestigio così guadagnato, i Foscarari si accreditarono come notai, accostando alla perizia giuridica l’attività di cambio, con cui accumularono ingenti ricchezze. Da allora diversi esponenti del casato parteciparono alla vita politica bolognese, sedendo nelle magistrature cittadine e segnalandosi per la capacità di mantenersi in equilibrio durante i repentini cambi di regime di quei

28 Cfr. BCABo, Ms. B 699, c. 91. Nell’albero genealogico dei Foscarari riportato nel manoscritto citato, si legge: «Egidio. Frate domenicano al secolo Obizo, vescovo di Modena». Il nome secolare di Egidio è confermato da P.S. DOLFI, Cronologia delle famiglie nobili di Bologna, Bologna 1670, p. 329 e dall’albero genealogico conservato in ASBo, Archivio De Bosdari, 591. Quest’ultimo documento attesta, forse per errore, la presenza di un altro figlio di nome Egidio. 29 Cfr. L. ALBERTI, Historie di Bologna, [Bologna, 1541-1543], Libro ottavo della deca prima, anno 1163 (qui citata); in termini analoghi si esprimono FILENO DALLA TUATA, Istoria di Bologna, a cura di B. FORTUNATO, Bologna 2005, I, p. 12 («Foscho texoriero delo Inperio [...] era tanto homo da bene che fu salvato e poi fato çitadin de Bologna e chosì chomençò la chaxa de Foschararii per m. Fusco; erario vol dire texoriero») e DOLFI, Cronologia, cit., p. 323. 30 Cfr. DOLFI, Cronologia, cit., pp. 323-324. Su san Guarino, v. la voce di G.D. GORDINI in Bibliotheca Sanctorum, Roma 1966, VII, pp. 435-436; per la controversa appartenenza del santo alla famiglia Foscarari, cfr. in part. G. MELLONI, Atti o memorie degli uomini illustri in santità nati o morti in Bologna, Bologna 1788, classe I, vol. II, pp. 64-67. I Foscarari curarono per decenni la regolare officiatura della chiesa intitolata al santo; cfr. registro delle «Messe cellebrate a S. Guarino» in ASBo, Archivio De Bosdari, 594.31 FILENO DALLA TUATA, Istoria di Bologna, cit., I, pp. 34-35. 32 Cfr. la voce di C. BOKOWSKA GORGONI in DBI, 49, pp. 277-280.

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decenni. Agli inizi del Quattrocento, uomini come Romeo Foscarari ricoprirono incarichi di prestigio sotto governi di segno opposto, dai Bentivoglio al regime visconteo, sino alla signoria di Baldassarre Cossa (divenuto in seguito papa Giovanni XXIII) e ai tentativi di restaurazione comunale33. Quando poi nel XVI secolo, proprio negli anni in cui Obizzo si affacciava alla vita, Bologna veniva definitivamente assoggettata dai pontefici, i Foscarari proseguirono la loro ascesa entrando a far parte delle famiglie senatorie. L’assemblea, che raccoglieva gli esponenti delle principali casate cittadine, sostituiva antichi organismi di autogoverno come i XL Consiglieri e, prima ancora, i XVI Riformatori dello Stato di Libertà: l’ingresso nel collegio, associato a rilevanti missioni diplomatiche, segnò per la famiglia il punto di arrivo di un percorso durato quatto secoli e il riconoscimento di un’appartenenza ormai indiscussa all’élite bolognese34. Con questa tradizione alle spalle, Obizzo entrò nel convento cittadino di San Domenico con cui la famiglia aveva da tempo solidi legami. Suo zio Stefano – fratello del padre Andrea35 – ne era priore e l’ingresso del giovane nell’ordine a metà degli anni venti fu quantomeno agevolato, se non dettato, da quella presenza. Poche o nulle sono le informazioni sulla sua prima formazione e si può solo congetturare quali fossero gli strascichi lasciati da un periodo tanto concitato come quello che coincise con la sua infanzia. L’anno in cui era nato si era aperto con l’assedio di Bologna da parte delle truppe ispano-pontificie, aderenti alla Lega Santa antifrancese. L’arrivo di Gaston de Foix non aveva salvato la città da incendi e devastazioni36. Restaurata per qualche mese la signoria bentivolesca, i ceti dirigenti, pur di affossare i piani di riconquista di Giulio II, appoggiarono il concilio scismatico di Pisa, convocato su impulso di Luigi XII ai danni del papa regnante37. Nel giro di pochi mesi, sui protagonisti di quei fatti calò il silenzio: la notte del 20 febbraio 1513 Giulio II si spense, e due settimane più tardi gli succedette Giovanni de’ Medici, divenuto pontefice con il nome di Leone X. Due anni dopo, alla morte di Luigi XII, a cingere la corona di Francia fu Francesco I, giunto peraltro a Bologna nel dicembre 1515 per incontrare il papa. Qui non perse l’occasione per mostrare i propri poteri taumaturgici e «guarire de le schrofe» quanti si presentarono al suo cospetto («a tuti fe’ la sanità e guarirno»), dando prova di come i sovrani francesi potessero portare sollievo a un’Italia ferita e insanguinata38. 33 Sull’attività di prestatori e notai e la partecipazione alla vita politica bolognese di alcuni esponenti della famiglia Foscarari, v. le voci dedicate da G. TAMBA a Francesco, Raffaello e Romeo Foscarari in DBI, 49, pp. 283-291. 34 Sugli assetti politici della Bologna tra tardomedioevo ed età moderna, cfr. A. DE BENEDICTIS, Repubblica per contratto. Bologna: una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna 1995, cap. II; più in generale Storia di Bologna, 3/I, Bologna nell’età moderna: istituzioni, forme del potere, economia e società, a cura di A. PROSPERI, Bologna 2008. Sui Bentivoglio e la loro signoria C.M. ADY, I Bentivoglio, [Varese] 1965 [ed. or. The Bentivoglio of Bologna. A study in despotism, London 1937].35 Cfr. di nuovo BCABo, Ms. B 699, c. 91.36 Per un esame delle vicende evocate basti il rinvio a M. PELLEGRINI, Le guerre d’Italia (1494-1530), Bologna 2009. 37 Sul sostegno della città al concilio di Pisa v. G. DALL’OLIO, Eretici e inquisitori nella Bologna del Cinquecento, Bologna 1999, pp. 24-26. Più in generale, cfr. A. LANDI, Concilio e papato nel Rinascimento (1449-1516). Un problema irrisolto, Torino 1997.38 L’episodio, risalente al 14 dicembre 1515, è riportato in FILENO DALLA TUATA, Istoria di Bologna, cit., II, p. 714. Sulle capacità taumaturgiche dei sovrani francesi d’obbligo il rimando a M. BLOCH, I re taumaturghi. Studi sul carattere sovrannaturale attribuito alla potenza dei re

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Nel frattempo, giungevano a Bologna notizie da mondi lontani. Tra la fine del 1516 e gli inizi del 1517, le mirabolanti imprese del Gran Turco alimentavano paura e ammirazione: si diceva che avesse «roto el soldan de Babilonia con la morte de 150 milia persone e tagliata la testa al soldan»; pochi giorni dopo le vittime erano salite a «doxentomilia» e sotto il suo giogo erano caduti «el Chaiero e [...] la nobele cità de Yerusalem»39. La minaccia proveniente da Oriente – che, intorno al 1291, era costata la vita anche a uno dei Foscarari, Balduino40 – sembrava farsi concreta il 4 giugno 1518, quando «5 ligni de’ Turchi veneno per intrare in lo porto de Rechanati»: il mare grosso allontanò l’approdo sulle coste marchigiane, ma non scongiurò il saccheggio di una «certa vila» in cui i pirati «roborno e amaçorno tuti»41. Mentre a Bologna gli occhi di Obizzo assistevano alle consuete violenze – dai sanguinosi scontri tra gli studenti alle pubbliche esecuzioni di malfattori e cospiratori politici –, la grande storia tornava in scena nel 1519. L’imperatore Massimiliano I d’Asburgo moriva aprendo una delicatissima successione, conclusasi con l’elezione di Carlo V, cui dieci anni dopo Clemente VII avrebbe posto in capo la corona imperiale nella basilica di San Petronio. Quegli eventi, gli eserciti che si muovevano attorno a essi e la devastazione che spargevano sembravano profetizzati da segni misteriosi, di cui era piena l’Italia della prima età moderna. L’11 aprile 1520 «fu portato in palagio al vicelegato et alli signori antiani un vitello nuovamente nato nella villa di Calderara [...] che havea sei piedi, così ne havea quattro adietro, et davanti due, con la vulva da un lato, et le ubere o tetole con la verga da l’altro lato». Non fu chiaro cosa significasse quell’essere deforme, ma «fu quasi da tutta la città veduto con gran curiosità con diversi pronostici»42. Passò qualche mese e, il 23 settembre, i bolognesi poterono celebrare un altro evento prodigioso: preceduto da una brinata fuori stagione – «cosa mostruosa» –, era giunto il giorno della morte di Elena Duglioli, ispiratrice della Santa Cecilia di Raffaello, divenuta famosa per la verginità in cui aveva vissuto il proprio matrimonio. La sua salma fu portata con solennità nella chiesa di San Giovanni in Monte, officiata dai canonici regolari lateranensi, impegnati a promuoverne il culto: la Duglioli, di cui si favoleggiavano le origini da Maometto II e da una discendente cristiana dei Paleologhi, avrebbe dovuto favorire la conversione degli infedeli e salvare i suoi concittadini. Il suo corpo – avevano predicato i canonici di San Giovanni in Monte – «rimarebbe [...] intiero senza alcuna lesione, uscendoli dala mamella sinestra il late, con molte altri simili cose». L’inchiesta ordinata dal vicelegato ritrovò le spoglie in avanzato stato di decomposizione, ma l’ostinazione interessata dei religiosi continuò a negare ogni evidenza e, di

particolarmente in Francia e in Inghilterra, Torino 1973. Per una dettagliata ricostruzione del clima culturale bolognese in età moderna, cui ci si richiamerà nelle pagine che seguono, cfr. Storia di Bologna, 3/II, Bologna nell’età moderna: cultura, istituzioni culturali, chiesa e vita religiosa, forme del potere, economia e società, a cura di A. PROSPERI, Bologna 2008.39 Le notizie risalgono rispettivamente al 17 novembre 1516 e 3 gennaio 1517; cfr. FILENO DALLA TUATA, Istoria di Bologna, cit., II, pp. 723-724. Sulla percezione del Turco in area padana, utile G. RICCI, Ossessione turca. In una retrovia cristiana dell’Europa moderna, Bologna 2002. 40 «Balduino di Provenzale, morì alla guerra santa con il soldano d’Egitto» (DOLFI, Cronologia, cit., p. 325).41 FILENO DALLA TUATA, Istoria di Bologna, cit., II, p. 747.42 L. ALBERTI, Historie di Bologna, 1479-1543, a cura di A. ANTONELLI, M.R. MUSTI, Bologna 2006, II, p. 456. Sul valore profetico dei parti mostruosi, cfr. O. NICCOLI, Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Roma-Bari 1987, pp. 47-87.

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fatto, riuscì a ottenere qualche perizia favorevole43. Era uno dei tanti segnali dell’inquietudine religiosa che caratterizzò i primi decenni del Cinquecento, dominati di lì a poco dalla dirompente protesta di Lutero. Anche in territorio felsineo iniziarono a diffondersi notizie e scritti del riformatore sassone. Il 16 ottobre 1519 l’umanista Johannes Jäger gli scriveva da Bologna per informarlo di avere provveduto a divulgare in città alcune sue opere arrivate persino Roma: vi erano teologi – a detta di Jäger – che avevano approvato quelle tesi, sebbene temessero di esporsi pubblicamente44.In effetti, molti interpretarono l’azione del monaco di Sassonia come parte di un più vasto quadro ordito da Dio per purificare la sua Chiesa. Le polemiche scatenate da Lutero e i tanti accadimenti che vedevano la cristianità sconfitta e umiliata erano interpretati da un cronista attento e colto quale Leandro Alberti, come le inevitabili punizioni meritate da una Chiesa corrotta e mondana: nel 1522 la conquista di Rodi da parte di Solimano «dicevasi esser stato giusto giudicio di Dio [...] per le grandi dissolutioni dei cavalieri [di Rodi, poi di Malta], et de’ mali che facevano trascorrendo per il mare»45. Sulla città emiliana si abbatteva poi la pestilenza, sorta di annuncio del sacco di Roma che, nel 1527, avrebbe mostrato la collera divina46:

In quel tempo – scrive Alberti – se levò un huomo che parea pacio et cridava per Roma: ‘O poveri romani, ecco che si avvicina il tempo della vostra rovina’, et vedendo gli acquaroli cioè quelli che cogli asinelli portano l’acqua del Tevere per la città [...] li diceva: ‘Lasciati, lasciati stare queste opere, imperoché da qui a pochi giorni guadagnerete assai delle robbe delli uccisi’. Et ciò cominciò a dire di 15 giorni avanti occurrese la rovina di Roma. Ma da tutti era tenuto pacio et erano fatte grandi risi [...] Alli 6 di maggio fu presa la città et saccheggiata, essendosi ritirato il papa con molti cardinali in castel Sant’Angelo.

Lo sguardo del cronista domenicano, chiamato a coadiuvare l’inquisitore di Bologna e in vecchiaia egli stesso inquisitore titolare47, non esitava a leggere in quell’evento una frattura epocale, che colpiva al cuore una Chiesa che nemmeno Lutero era ancora riuscito a scuotere. In quei giorni terribili e concitati il giovane Obizzo Foscarari si trovava già in convento e il suo nome era ormai cambiato in Egidio. La storia che, nel marzo 1526, lo aveva condotto lì era simile a quella di molti altri esponenti della sua generazione: lo spettacolo delle «guerre horrende», i disordini dovuti a sanguinosi cambi di governo, il diffondersi di inquietudini religiose e la presenza di fratture profonde all’interno della cristianità. Anche se non si

43 Le citazioni sono tratte da ALBERTI, Historie di Bologna, 1479-1543, cit., II, pp. 456-457. La vicenda della Duglioli è ricostruita da G. ZARRI, Le sante vive. Cultura e religiosità femminile nella prima età moderna, Torino 1990, pp. 165-196. Cfr. anche la voce di M. ROMANELLO in DBI, 41, pp. 799-802.44 Sulla prima diffusione degli scritti e delle dottrine di Lutero a Bologna, v. DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., pp. 51 ss.45 ALBERTI, Historie di Bologna, 1479-1543, cit., II, p. 498. 46 Ivi, pp. 526-527. I valori profetici assunti dal sacco sono noti. Cfr. per tutti U. ROBERTO, Roma capta. Il sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi, Roma-Bari 2012, pp. 227 ss. e, con particolare attenzione alle inquietudini religiose, M. FIRPO, Il sacco di Roma del 1527 tra profezia, propaganda politica e riforma religiosa, Cagliari 1990. 47 G. DALL’OLIO, Leandro Alberti, inquisitore e mediatore, in M. DONATTINI (a cura di), L’Italia dell’inquisitore. Storia e geografia dell’Italia del Cinquecento nella Descrittione di Leandro Alberti, Bologna 2007, pp. 27-39.

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possono istituire nessi diretti, è probabile che la Bologna rissosa e violenta dei primi decenni del Cinquecento avesse instillato in Egidio un’esigenza di pacificazione che, su versanti diversi, si sarebbe manifestata nella piena maturità, tra Modena, Trento e Roma. Così come è verosimile iscrivere anche Foscarari in quella generazione nata negli anni dieci che trovò in Erasmo e nel suo magistero uno dei principali maestri di lettere e di retorica, prima che l’umanista olandese fosse assimilato a Lutero dalla controversistica cattolica48.La permanenza nel convento di San Domenico, snodo cruciale della cultura bolognese del Cinquecento, avrebbe dato a Egidio la formazione giuridica e teologica che la sua famiglia da sempre aveva auspicato. Lo avrebbe preparato ai grandi incarichi che si profilavano, mettendolo a contatto con esponenti autorevoli dell’ordine e della Chiesa. Come questo accadde è quanto cercheremo di capire.

Un convento inquieto

Nell’Italia urbana del Cinquecento era consuetudine che esponenti dei patriziati e della nobiltà cittadina si insediassero ai vertici dei principali enti religiosi e fossero avviati a salire i gradi della gerarchia ecclesiastica. Seconda città dello Stato pontificio, Bologna non faceva eccezione e dalle sue famiglie più illustri continuavano a uscire vescovi, cardinali e membri insigni di nuovi e antichi ordini religiosi. Pienamente inseriti in questa cornice erano anche i Foscarari, legati a inizio Cinquecento al convento di San Domenico, titolari di numerosi giuspatronati e saldamente rappresentati tra i canonici della basilica di San Petronio49. Non sorprende dunque che il 14 marzo 1526 Foscarari, appena quattordicenne, entrasse nel convento dei frati predicatori50, dove più tardi lo avrebbe seguito il fratello Francesco51. Suo zio, che assunse la guida di molte case domenicane dell’Italia settentrionale, era in quel momento a Bologna in qualità di priore, e l’ingresso di Egidio dovette esserne certamente agevolato. L’ordine in cui il novizio aveva deciso di entrare viveva un momento decisivo della propria storia: non era trascorso molto tempo da quando, nel 1498, Savonarola era stato impiccato e arso sul rogo a Firenze. Allievo del convento bolognese, il frate si era impegnato in una predicazione dai forti accenti penitenziali e apocalittici che aveva portato, tra l’altro, alla separazione del convento fiorentino di San Marco dalla provincia di Lombardia, insieme con i vicini conventi di Prato, Pisa e Fiesole. Negli anni venti del Cinquecento la sua eredità non era affatto tramontata sebbene gli eventi politici e religiosi spostassero l’attenzione su altri problemi e la figura di Savonarola fosse 48 Sulla generazione del 1510, v. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia, cit., pp. 73-94: 79.49 Dal 1438 i Foscarari godevano del giuspatronato della cappella poi denominata di Santa Brigida in San Petronio; ottennero inoltre di poter sedere tra i canonici della basilica e tra quelli della chiesa cattedrale; cfr. M. FANTI, D. LENZI (a cura di), Una basilica per una città: sei secoli in San Petronio. Atti del Convegno di studi per il VI centenario di fondazione della Basilica di San Petronio (1390-1990), Bologna 1994, ad indicem; F. FILIPPINI, La cappella di Santa Brigida di Svezia nella Chiesa di S. Petronio di Bologna, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna», IV, XII (1921-1922), pp. 177-207. Cfr. anche ASBo, Archivio De Bosdari, 595, per altri giuspatronati, canonicati e benefici (Santa Maria de’ Foscarari, San Michele dei Coralupi, San Lorenzo di Gorgognano, ecc.). 50 ASDBo, III, 76200, Receptiones ad habitum in conventu Bononiensi; Prelormo, p. 254.51 Francesco Foscarari assunse il nome di Andrea. Entrato il 14 aprile 1537 (cfr. Prelormo, p. 255), il 30 maggio seguente donò tutti i suoi beni alla madre e ai fratelli Astorre e Camillo; cfr. ASBo, Archivio De Bosdari, 595, c. 31v; ivi, 596, «fascetto particolare n° 6», cc. non numm.

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interpretata nei modi più diversi, da precursore di Lutero a profeta di un’improcrastinabile riforma della Chiesa52. Nel convento bolognese ci si ricordava bene di lui. Fra Ludovico da Prelormo53 – che, intorno al 1528, mise mano a una raccolta di notizie tratte da varie cronache – dedicò alcune righe alla vicenda di quel «magnus predicator»: «Subtraxit se ab obedientia vicarii generalis congregationis Lombardiae – scrisse – et alteram congregationem instituit assai assai più stretta [...]; cum maxima ignominia ordinis nostri cum frate Dominico et frate Silvestro conbustus est»54. Al di là della vicenda savonaroliana, i domenicani uscivano da un secolo in cui si erano succeduti molti tentativi di riforma: l’ordine – come era capitato ai francescani – si era spaccato tra osservanti (riformati) e conventuali (non riformati), divisi sull’applicazione da dare al voto di povertà e sulla corretta interpretazione della regola. Il generale Raimondo da Capua (1330-1399), confessore di santa Caterina da Siena, aveva incoraggiato la nascita di un vicariato riformato, affidato nel 1393 a Giovanni Dominici. A quel primo sforzo di organizzare i frati che avevano abbracciato l’osservanza – cui nel 1426 aderì anche il convento bolognese55 – fece seguito l’istituzione della congregazione osservante di Lombardia, voluta da Pio II nel 1459 per unire i conventi riformati delle province conventuali di San Pietro Martire e San Domenico (rispettivamente Lombardia superiore e inferiore). Nel 1531, infine, Clemente VII elevò la congregazione al rango di provincia utriusque Lombardiae, dichiarando contestalmente le province di San Pietro Martire e San Domenico semplici vicariati56. Quando Foscarari vestì l’abito da novizio, gli equilibri interni all’ordine erano dunque in via di ridefinizione e la stessa geografia domenicana era in procinto di essere ridisegnata dall’intervento pontificio. Ciò che invece non era cambiato era il prestigio dello Studio che il convento bolognese ospitava.

52 Su Savonarola e agli ambienti che si richiamarono a lui v. in sintesi: S. DALL’AGLIO, Savonarola e il savonarolismo, Bari 2005 (con ampia bibliografia ragionata); L. POLIZZOTTO, The elect nation. The Savonarolan movement in Florence, 1494-1545, Oxford 1994.53 Così è tradizionalmente chiamato il frate sulla base della grafia reperibile nelle fonti da lui prodotte (grafia che qui manterremo). La sua terra di origine era in realtà Pralormo, piccolo paese a una trentina di chilometri da Torino. Nato intorno al 1492, Ludovico entrò nel convento domenicano di Alba il 30 ottobre 1515; nel 1528 venne assegnato alla custodia dell’arca di San Domenico a Bologna, ruolo che ricoprì ininterrottamente. Lavorò alla sua Cronaca, frutto della consultazione di vari documenti e altre cronache, fino al 1573. Cfr. Prelormo, pp. 3 ss., 50b, 253.54 Prelormo, p. 69. Sugli anni bolognesi di Savonarola: C. PIANA, Il diaconato di fra Girolamo Savonarola (Bologna, 1 marzo 1477), in AFP, 34 (1964), pp. 343-348 e ID., Il suddiaconato di fra Girolamo Savonarola, in «Rinascimento», serie II, 6 (1966), pp. 287-294.55 D’Amato, I, pp. 313 ss.56 M. TAVUZZI, Renaissance Inquisitors. Dominican Inquisitors and Inquisitorial Districts in Northern Italy, 1474-1527, Leiden-Boston 2007, pp. 48-77; R. CREYTENS, A. D’AMATO, Les actes capitulaires de la congrégation dominicaine de Lombardie (1482-1531), in AFP, 31 (1961), pp. 213-306. Per una breve storia dei conventi aderenti alla provincia, cfr. S.L. FORTE, Le provincie domenicane in Italia nel 1650. Conventi e religiosi. V. La provincia utriusque Lombardiae, AFP, 41 (1971), pp. 327-458. Sulla storia dell’ordine v., più in generale, W. HINNEBUSCH, I Domenicani. Breve storia dell’Ordine, Milano 1992.

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Oltre a un’egemonia sulla facoltà teologica cittadina57, lo Studio di San Domenico godeva di una fama che attirava frati da ogni angolo d’Italia e d’Europa. Basta scorrere la lista dei domenicani formatisi a Bologna per comprendere l’importanza del luogo che custodiva le spoglie del fondatore dell’ordine. Qui studiarono o insegnarono membri del Sant’Ufficio, diversi vescovi e cinque cardinali; nel XVI secolo, poi, la casa bolognese diede all’ordine dieci generali su sedici e nove maestri del Sacro Palazzo58. Fu questo contesto, strettamente connesso al vivace mondo universitario, a caratterizzare la formazione di Foscarari, favorendone la raffinata cultura. In assenza di documentazione specifica o di scritti a lui attribuibili59, non è semplice individuare con esattezza i testi o gli autori che il giovane Egidio frequentò nel corso dei suoi studi. Ancora una volta è necessario cercare indizi nel contesto in cui si formò, a partire dai maestri che ne seguirono il percorso. Come i suoi compagni, dopo l’anno di noviziato60 Foscarari dovette seguire tre anni di materie letterarie, due di logica, tre o quattro di filosofia (fisica, psicologia, metafisica) e un ulteriore quadriennio di teologia. Gli studi in realtà conobbero subito una battuta d’arresto a causa dell’epidemia di peste che, nel 1527, infuriò a Bologna, provocando la fuga dei frati verso il contado. Come attesta Ludovico da Prelormo, per effetto dell’epidemia «morse cierca desdotto frati et 14 scolares: restò in convento solo il padre frate Nicolò speciale e fra Iacomino, doi veramente sancti huomini»61. Tutto lascia intendere che anche Foscarari fosse riparato altrove, forse a Ronzano dove erano fuggiti altri frati, e che solo dopo qualche tempo potesse riprendere la propria formazione. Tra i docenti succedutisi dal ‘26 in poi ai vertici dello Studio compaiono personaggi illustri che, in molti casi, ricoprirono l’ufficio di maestro del Sacro Palazzo. Sono due le presenze su cui, in prima battuta, vale la pena soffermarsi: quelle di Bartolomeo Spina e Girolamo Papino. Con caratteristiche e stili a dir poco differenti, entrambi rivestirono incarichi di un certo rilievo e non è da escludere che qualcosa del modo in cui svolsero la propria missione prima o durante l’insegnamento bolognese filtrasse a studenti e novizi. Nel 1530-31 e di nuovo nel 1532-33 Spina fu reggente degli studi, mentre Papino fu maestro nel 1533-34, quindi baccelliere e reggente tra il 1544 e il 1549,

57 Sulla facoltà di teologia e il suo rapporto con lo Studio domenicano, cfr. A. D’AMATO, I domenicani e l’Università di Bologna, Bologna 1988; M. TURRINI, L’insegnamento della teologia, in Storia di Bologna, 3/II, pp. 437-494: 439-447; C. PIANA, La facoltà teologica dell’Università di Bologna nella prima metà del Cinquecento, in «Archivum Franciscanum Historicum», 62 (1969), pp. 196-266.58 D’Amato, I, pp. 488-489.59 Gli unici ad attribuire a Foscarari opere che potrebbero illuminare sulla sua formazione sono l’erudito Pompeo Dolfi che indica, tra la produzione «in stampa» del bolognese, «sermoni e prediche [e] molte opere theologiche e filosofiche» e Giovanni Niccolò Alidosi, che – oltre ad ascrivergli opere dell’omonimo canonista medievale – parla di «un libro di sermoni quadragesimali e uno di predicabili del tempo, e molte opere teologiche e filosofiche manoscritte». Di esse non è stato possibile trovare traccia nel corso della presente ricerca. Cfr. DOLFI, Cronologia, cit., p. 329; G.N. ALIDOSI PASQUALI, I dottori bolognesi di teologia, filosofia, medicina e d’arti liberali, Bologna 1623, p. 52. 60 Sulla formazione riservata ai novizi, qualche spunto in R. CREYTENS, L’instruction des novices dominicains à la fin du XVe siècle, in AFP, 22 (1952), pp. 201-225.61 Prelormo, p. 185. Cfr. anche AGOP, XIV.47 (H. Christinapolo, Chronica ordinis ab anno 1498 ad annum 1759), c. 30r.

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quando ormai Foscarari era maestro del Sacro Palazzo62. Essi rappresentavano due polarità opposte, proiettate su orizzonti diversi. Allievo prediletto di Silvestro Mazzolini63, nel 1519 Spina64 aveva ingaggiato una dura polemica sull’immortalità dell’anima con il filosofo aristotelico Pietro Pomponazzi e il potente cardinale di Gaeta Tommaso de Vio, anch’egli domenicano. Il testo in cui le sue posizioni erano confluite – una raccolta di opuscoli contenente il Propugnaculum contra Caietanum e la Tutela veritatis contra Petrum Pomponacium65 – era stato vietato dalle autorità conventuali bolognesi e messo sotto sigillo sulla base dei pronunciamenti del concilio Lateranense V che aveva proibito ogni discussione sull’immortalità dell’anima. Il tomismo rigoroso di Spina si era schierato contro le affermazioni del Caietano sull’impossibilità di fornire una prova filosofica dell’immortalità dell’anima, ritenuta da de Vio una semplice verità di fede, e aveva combattuto in qualità di inquisitore le conseguenze che potevano derivare dalla negazione di quell’assunto66. Non sappiamo se ai tempi di Foscarari, quando Spina era reggente degli studi, quegli scritti fossero ancora sotto chiave e cosa di quella polemica riecheggiasse in San Domenico. Tuttavia il contatto costante con gli ambienti dello Studio universitario dovette tenere desta l’attenzione sul tema e nel 1536 uno degli antichi maestri del convento, Crisostomo Iavelli da Casale, già coinvolto nell’affaire Pomponazzi, tornò sulla questione per ribadire una rigida interpretazione tomista67.Se Spina incarnava una tradizione ben precisa, impegnandosi tra l’altro a dimostrare la veridicità del volo notturno delle streghe, la cifra dell’operato di Papino fu assai diversa, come apparve dal modo in cui esercitò l’ufficio di inquisitore a Ferrara68. La sua linea accomodante e la costante collaborazione 62 D’Amato, I, pp. 503-504, 508. 63 M. TAVUZZI, Prierias. The life and works of Silvestro Mazzolini da Prierio, 1456-1527, Durham-London 1997.64 Su Bartolomeo Spina v. in sintesi la voce di M. DUNI in DSI, III, pp. 1471-1472, particolarmente attenta all’atteggiamento del domenicano nei confronti della stregoneria. 65 Opulscula [sic] edita per fratrem Bartholomeum de Spina [...] Propugnaculum Aristo, de immortalitate anime contra Tho. Caietanum [...] Tutela veritatis de immortalitate anime contra Petrum Pomponacium Mantuanum cognominatum Perettum [...] Flagellum in tres libros Apologie eiusdem Peretti de eadem materia. Utilis questio de ordine sacro, Venezia 1519. Sulla polemica tra Spina e il Caietano e la posizione di quest’ultimo sull’immortalità dell’anima v. l’introduzione di J. COQUELLE a T. DE VIO, Scripta philosophica. Commentaria in De anima Aristotelis, Roma 1938, I, pp. VII-LII: XLIII.66 V. il caso esaminato da C. GINZBURG, Un letterato e una strega al principio del ‘500: Panfilo Sasso e Anastasia la Frappona, in Studi in memoria di Carlo Ascheri, in «Differenze», IX (1970), pp. 129-137. 67 Giovanni Crisostomo Iavelli fu reggente dal 1518 e al 1521, dopo aver ricoperto il ruolo di maestro degli studi (1507-1508) e baccelliere (1514-1516). Nel 1536 affrontò la questione dell’immortalità dell’anima nel trattato Tractatus de animae humanae indeficientia, in quatruplici via scilicet peripatetica, academica, naturali et christiana, Venezia, Arrivabene, 1536. Cfr. TAVUZZI, Renaissance Inquisitors, cit. e D’Amato, I, entrambi ad indicem; Quétif-Echard, II, pp. 104-105. Una sintesi dell’intera polemica che coinvolse Iavelli, Spina, Pomponazzi e il Caietano in TAVUZZI, Prierias, cit., pp. 97-104; v. anche E. GILSON, Autour de Pomponazzi. Problématique de l’immortalité de l’âme en Italie au début du XVIe siècle, in «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», XXXVI (1961), pp. 163-279. 68 Su Girolamo Papino, PM 2, I, pp. 855-856; A. PROSPERI, Girolamo Papino e Bernardino Ochino: documenti per la biografia di un inquisitore, in ID., L’Inquisizione Romana. Letture e ricerche, Roma 2003, pp. 99-123; F. VALENTI, Il carteggio di padre Girolamo Papino informatore estense del Concilio di Trento durante il periodo bolognese, in «Archivio storico italiano», CXXIV (1966), pp. 303-417; R. RAFFAELLI, L’inquisitore inquisito, appendice a Notizie intorno a Francesco

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con il duca Ercole II dEste – sempre più in difficoltà con l’Inquisizione dopo il matrimonio con la calvinista Renata di Francia69 e il diffondersi dell’eresia nei suoi territori – sollevarono più di un dubbio sul suo conto. Un esempio eloquente è offerto dal processo all’eretico Camillo Renato, su cui pendevano accuse di notevole gravità. Nel 1540, dopo una permanenza a Bologna che aveva destato l’attenzione dei giudici di fede, Renato era fuggito a Modena, in terra estense, ponendosi sotto la protezione della comunità eterodossa locale, la cosiddetta Accademia, di cui facevano parte numerosi esponenti del patriziato cittadino. La sua causa assunse così una valenza politica oltre che religiosa, che consigliò al duca di avocare il processo alla propria giurisdizione. Durante il procedimento, svoltosi a Ferrara alla presenza di Stefano Foscarari, inquisitore di Bologna e zio di Egidio, Papino si distinse per l’esortazione a usare mitezza verso l’imputato, nell’evidente intento di smorzare il clamore sollevato dal caso e disinnescare i problemi che ne potevano derivare70. Mosso da ragioni di opportunità politica e da una crescente spregiudicatezza, il domenicano iniziò a guadagnarsi la fama di personaggio dalle simpatie sospette e dall’ortodossia vacillante, tanto che Ercole II, per difenderlo da eventuali attacchi all’indomani della sua nomina a inquisitore di Ferrara, pensò di scrivere nel 1541 al provinciale di Lombardia: «sendomi el Papino quello charo che sempre m’è stato, quello fareti contra de lui lo havereti fatto al ducha di Ferrara»71.La minuta lasciava intendere conflitti interni all’ordine domenicano provocati dall’operato di Papino (che del resto aveva steso il documento). Tanto chiara fu la sua propensione alla composizione dei conflitti religiosi in nome di interessi di ordine politico, quanto ambigua la sua posizione dottrinale. In anni successivi a quelli che lo videro ai vertici dello Studio domenicano durante la formazione di Foscarari, avrebbe assunto atteggiamenti contrastanti, da una severa repressione del dissenso pur di ottenere l’agognata nomina a inquisitore da parte del Sant’Ufficio sino all’apprezzamento mostrato per gli insegnamenti di un eretico del calibro di Giorgio Siculo72. A questo si accompagnavano, nelle confidenze inoltrate al duca di Ferrara, gli auspici per una riforma degli abusi ecclesiastici e giudizi aspri sull’effettiva volontà del papato di condurre in porto il concilio73. Ma più del tomismo antistregonesco di Spina e della subordinazione dell’ortodossia alle ragioni della politica di cui Papino era espressione, a influenzare Foscarari nel corso della sua formazione fu senza dubbio la personalità dello zio Stefano. Entrato nelle fila dei domenicani bolognesi il 2 agosto 1491, nel 1501 era stato ordinato prete intraprendendo una carriera che lo aveva condotto al priorato nei conventi di Faenza, Venezia, Ferrara, Vicenza, Verona, Mantova. Per sette volte fu priore a Bologna (1515-16, 1525-

Severi, «il medico d’Argenta», in «Studi urbinati», LVI (1983), pp. 127-136.69 Rimando in sintesi a E. BELLIGNI, Renata di Francia (1510-1575): un’eresia di corte, Torino 2011. 70 Sulla vicenda cfr. C. RENATO, Opere. Documenti e testimonianze, a cura di A. ROTONDÒ, Firenze-Chicago 1968; DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., pp. 101-108. 71 La minuta, citata in PROSPERI, Girolamo Papino, cit., p. 114, è conservata in ACFe, Residui ecclesiastici, Inquisizione, 1, fasc. «Papino». 72 A. PROSPERI, L’eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, p. 166.73 V. il carteggio tra Papino e il duca di Ferrara in appendice a VALENTI, Il carteggio, cit., pp. 320-417, passim.

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26, quando Egidio vestì l’abito domenicano, 1528-29, 1531-33, 1535-37, 1539-41, 1543-44), e – altro dato da non sottovalutare – dal 1526 al 1543 assunse l’ufficio di inquisitore nella città di origine. Il suo percorso giunse al culmine prima con la nomina a vicario della congregazione di Lombardia per il biennio 1529-1531, quindi con l’elezione a provinciale utriusque Lombardiae dal 1546 al 1547, anno in cui si spense74. Da lui, definito dai bolognesi pater pauperum75, Egidio assorbì forse l’attenzione per i poveri che avrà occasione di soccorrere ripetutamente durante gli anni alla guida della diocesi di Modena. Un’ulteriore prova della sensibilità di Stefano Foscarari è ravvisabile nella chiamata a Bologna del predicatore domenicano Giuseppe da Catania che, nel 1529, si era impegnato a risollevare le sorti dei ceti più indigenti. Le motivazioni che avevano spinto Foscarari a rivolgersi al siciliano furono esposte con lucidità da Leandro Alberti, che volle sottolineare come fra Giuseppe riuscisse «a commovere li cittadini a pietà di provvedere alli poveri»76: In tali afflittioni essendo Italia et massimamente Bologna che murivano dile persone di fame, et senza respetto alcuno cavandone li danari tanto dal popolo quanto dal chericato il papa, accrescendo di continovo la fame, parvi al venerando padre frate Stephano Fonschararo priore del convento di S. Domenico di far venire a predicare in San Petronio il vicepadre frate Giuseppe Siciliano huomo buono et letterato et eloquente predicatore. Il quale havendo predicato la Quaresima a Modena, havea fatto far buone provisione alli poveri. Et ciò fece acciò che ‘l se vedesse di dar aiuto alli poveri che non morisseno di fame.

Per soccorrere i bolognesi e alleviare quella fame, gli stessi frati avevano dovuto vendere proprietà e beni stabili, rimediando alla grave carenza di frumento che colpiva il convento77. Più complicato invece stabilire se l’esempio offerto da Stefano Foscarari nella conduzione del tribunale di fede bolognese instillasse nel giovane Egidio l’idea di una composizione mite dei conflitti religiosi e delle deviazioni dall’ortodossia. Come è stato notato, quella di Foscarari fu una «delle nomine inquisitoriali che non sembrano aver avuto come loro motivo principale l’efficace svolgimento del lavoro» di contrasto all’eresia78. La documentazione relativa al periodo in cui il domenicano fu inquisitore a Bologna è molto scarsa e non consente un’interpretazione univoca: se si ritrovano tradizionali misure antiereticali come editti, roghi di libri proibiti e processi, restano varie zone d’ombra, tra cui 74 TAVUZZI, Renaissance Inquisitors, cit., pp. 247-248; R. CREYTENS, Les vicaires généraux de la congrégation dominicaine de Lombardie (1459-1531), in AFP 32 (1962), pp. 211-284: 263-264. I dati sui periodi di priorato sono corretti sulla base di Prelormo, pp. 241-242. Un libro di note amministrative del Foscarari è conservato in ASDBo, III, 12000: oltre a molti dati riguardanti la fabbrica di San Domenico, compaiono come naturali vari nomi dei protagonisti delle vicende qui trattate (v. a titolo di curiosità, c. XXIr: «Fra Egidio nostro nepote de’ dare a dì 5 de ottobre 1540 £ tre; tolsi da mi impresto»). 75 D’Amato, I, p. 460. L’espressione si ritrova anche in Prelormo, p. 273: «Iste fuit pater pauperum». 76 ALBERTI, Historie di Bologna, 1479-1543, cit., II, pp. 536-537. Giuseppe da Catania, domenicano, fu pretestuosamente accusato di eresia dai francescani, convocato a Roma e infine assolto, per la presunta diffusione di dottrine non ortodosse in materia eucaristica. Per la vicenda cfr. DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., pp. 28-29. 77 ASDBo, III, 4000, Consilia conventus seu Libri consiliorum, I, p. 40 (18 maggio 1529); AGOP, XIV.47, c. 32r («Bononiensium inopia a fratribus praed. levatur»).78 M. TAVUZZI, Gli inquisitori di cui fra Leandro Alberti non parla nel De viris illustribus ordinis praedicatorum (1517), in DONATTINI (a cura di), L’Italia dell’inquisitore, cit., pp. 41-50: 47.

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spicca la vicenda, appena ricordata, di Camillo Renato. Dopo l’abiura ferrarese e la condanna al carcere perpetuo, l’eretico era stato trasferito nelle prigioni bolognesi, da dove era evaso per riparare nei Grigioni. Fa poi riflettere il fatto che dal 1533, a causa delle frequenti assenze da Bologna, Foscarari si servisse di Alberti come vicario inquisitoriale, scegliendo un uomo che, come è stato scritto, teneva assieme durezza in materia di stregoneria e volontà di mediazione con i dissidenti79. Nei tardi anni trenta, ad Alberti toccò ad esempio raccogliere le deposizioni contro l’agostiniano Giulio Della Rovere, collaborare a un tentativo di chiusura del processo contro il minorita Giovanni Buzio da Montalcino, e ascoltare in giudizio l’agostiniano Lattanzio da Romano, tutti colpevoli di clamorose predicazioni eterodosse80. Nei tre casi il domenicano mostrò di sapersi muovere con abilità e pragmatismo, senza di fatto sposare una linea intransigente. Dati i saldi legami tra i vertici dell’ordine e gli inquisitori di volta in volta nominati81, di tutto questo si dovettero avvertire quantomeno i riflessi nel convento di San Domenico in cui lo stesso fra Leandro risiedeva. L’esempio che studenti e novizi bolognesi ebbero quotidianamente sotto gli occhi fu dunque improntato non allo scontro diretto, ma alla ricerca di soluzioni ispirate da un equilibrio tutt’altro che insensibile a ragioni di opportunità. Quelli appena citati non furono gli unici esempi di impegno inquisitoriale con cui il giovane Egidio poté confrontarsi, guardando ai maestri o ai frati più anziani presenti in convento. Tra i suoi superiori vi fu anche Tommaso Maria Beccadelli, prima magister studiorum (1518-19), quindi baccelliere (1530-32), reggente degli studi (1535-36, 1538-39, 1543-46) e infine eletto provinciale dal capitolo di Modena del 153682. Durante il suo incarico come inquisitore nei domini estensi, risalente al 1533, Beccadelli designò Papino come suo vicario per la città e diocesi di Ferrara (6 giugno 1536)83, spianando di fatto la strada a una conduzione del sacro tribunale gradita al potere estense. Che la cosa non fosse priva di implicazioni, lo dimostra un episodio di cui fu protagonista proprio Papino. Secondo la testimonianza di Ludovico da Prelormo84, nel 1538 il convento bolognese di San Domenico fu turbato dalle lotte innescate dal braccio di ferro tra il procuratore e vicario generale dell’ordine Agostino Recuperati85 e l’allora provinciale Beccadelli. Il primo aveva fatto incarcerare a Venezia il «famosissimum lectorem Papinum», membro della provincia utriusque 79 DALL’OLIO, Leandro Alberti, cit., p. 33.80 DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., pp. 80-100.81 Sulla stretta connessione tra le nomine degli inquisitori bolognesi e i vertici dell’ordine domenicano, rinvio alle considerazioni di G. DALL’OLIO, Predicatori o inquisitori? Il rapporto tra domenicani e Inquisizione nelle fonti bolognesi del Cinquecento, in C. LONGO (a cura di), I domenicani e l’Inquisizione Romana [Praedicatores, inquisitores - III], Roma 2008, pp. 367-394.82 D’Amato, I, ad indicem; Prelormo, pp. 108, 251 (che dà notizia della sua ammissione in convento il 21 settembre 1497), 304-308; ASDBo, II, 21000, Seconda Parte, c. 8r. Si addottorò in teologia il 19 giugno 1532; cfr. PIANA, La facoltà teologica, cit., p. 260. 83 PROSPERI, Girolamo Papino, cit., p. 110; ACFe, Residui ecclesiastici, Inquisizione, b. 1.84 Prelormo, pp. 188-190. Della vicenda, allo stato attuale della ricerca, non ho trovato altre testimonianze. 85 Agostino Recuperati fu eletto generale nel 1539. Morì a causa della malattia che lo colpì il 20 dicembre 1540. Cfr. Quétif-Echard, II, p. 106; in Acta capitulorum generalium ordinis praedicatorum, a cura di B.M. REICHERT, Roma 1901, IV, pp. 266-290: 274. Per questo e gli altri maestri generali citati nel corso della ricerca v. anche D.A. MORTIER, Histoire des Maitres généraux de l’Ordre des Frères prêcheurs, Parigi 1903-1920, vol. V (1487-1589).

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Lombardiae, senza però informarne il secondo cui spettava la giurisdizione sul caso. Per risolvere il contenzioso ci si appellò al viceprotettore dei domenicani, lo zelante Gian Pietro Carafa86, che convocò le parti a Roma. Per motivi non del tutto chiari, Beccadelli rinunciò agli aiuti offertigli da vari esponenti di curia, perdendo la causa e, dopo essere stato deposto dal provincialato, decise di entrare «nelli frati della zatrosa»87. La vicenda sollevò clamore e, per molti versi, provocò un trauma all’interno del convento bolognese che, come attesta Prelormo, continuò a essere «tribulato» da Recuperati anche in seguito. I frati dovettero assistere sbigottiti all’abbandono del chiostro da parte del provinciale di Lombardia, che scelse un altro ordine religioso per trovare pace dopo la sconfitta. I cittadini bolognesi, tuttavia, richiesero a gran voce al papa il ritorno di Beccadelli e, non sappiamo in che termini, di fatto egli fu reintegrato. Per quanto si può dedurre dalle fonti a noi pervenute, gli eventi abbattutisi su di lui colpirono profondamente gli ospiti del convento di San Domenico, ed è lecito supporre che anche Egidio si interrogasse su quanto accaduto in quei giorni, forse iniziando a inquadrare la figura di quel Carafa che, in altre vesti, avrebbe incontrato di persona una decina di anni più tardi. A ogni modo, al rientro di Beccadelli fu necessario mettere in campo alcuni accorgimenti: quando gli furono riaffidati incarichi inquisitoriali88, Papino dovette essere accantonato e bisognò adottare una linea più prudente. Nel 1547 per l’Inquisizione ferrarese Beccadelli nominò come suo vicario il lettore di teologia Andrea da Imola, precisando che si doveva procedere a una più rigorosa stretta antiereticale per arginare il contagio della «labes haeretica» dilagante in città89. È però significativo che nello stesso periodo l’ex-provinciale, succeduto a Stefano Foscarari come inquisitore di Bologna (1543-1548), mantenesse come vicario e sostituto il moderato Leandro Alberti90, e si vedesse affidato dal cardinale Giovanni Morone un caso delicatissimo come quello del francescano Bartolomeo della Pergola91. Personaggio notoriamente sospetto, nel 1544 il Pergola era stato inviato a Modena dallo stesso Morone, allora vescovo della città emiliana, per tenervi un ciclo di prediche. A causa del clamore suscitato, il cardinale fu costretto a intimargli una pubblica ritrattazione, il cui testo fu riveduto e corretto da Beccadelli. Tornato a Modena il 15 e 16 giugno 1544, il Pergola «ore retractavit vel potius haereticorum more declaravit magnam partem articulorum sibi oppositorum», confermando di fatto ciò che apparentemente condannava. La vicenda, risoltasi con una condanna a pene leggere e una temporanea interdizione dalla predicazione, dimostrava quanto Morone in situazioni spinose e compromettenti come quella

86 Carafa fu viceprotettore dell’ordine all’incirca dal 1537 al 1540. Cfr. S.L. FORTE, The cardinal-protector of the Dominican Order, Roma 1959 («Dissertationes historicae», XV), p. 67. 87 Le sorti di Beccadelli e il suo ingresso nella Certosa sono ribaditi da Prelormo, p. 308: «Nota che il soprascritto maestro Thomaso Maria Beccadello il 2° anno dil suo provincialato fu chiamato a Roma dal maestro Augustino generale e fu casso, ho con raxon ho senza raxon: molti prelati il volseno aggiutare sed ille noluit, ma al tempo opportuno si fece fra della zatrosa».88 A quanto si può dedurre, per alcuni anni Beccadelli ricoprì contemporaneamente l’incarico di inquisitore di Bologna e di Ferrara. 89 PROSPERI, Girolamo Papino, cit., pp. 114-115; ACFe, Residui ecclesiastici, Inquisizione, b. 1.90 DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., pp. 174-175, nota 39. 91 Sul Pergola v. PM 2, I, pp. 318-322 (con bibliografia). Per la predicazione modenese cfr. C. BIANCO, Bartolomeo della Pergola e la sua predicazione eterodossa a Modena nel 1544, in «Bollettino della Società di Studi Valdesi», 151 (1982), pp. 3-49.

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del Pergola potesse contare su Beccadelli e sul gruppo di cui era espressione. Del resto, già l’anno prima, in occasione del processo all’eretico bolognese Giovan Battista Scotti92 a cui Foscarari ricordò di avere assistito93, i nomi di uomini molto vicini al cardinale giunsero alle orecchie dei frati di San Domenico che concessero a Scotti di abiurare, ricoprendo così complicità e passi falsi di Morone. Il convento bolognese era insomma animato da orientamenti morbidi nei confronti del dissenso ereticale, tanto più quando questo coinvolgeva esponenti della gerarchia ispirati da posizioni moderate nei confronti del mondo riformato. Se ne possono ritrovare tracce anche nella condotta di altri due personaggi che, pur non rientrando tra i maestri con cui il giovane Egidio si confrontò direttamente, mantennero con ogni probabilità contatti con lo Studio e la città in cui si formò. Si tratta dei domenicani Pietro Bertano94 e Tommaso Badia95, entrambi di origine modenese, che, dopo avere studiato assieme a Bologna, sarebbero finiti nella lunga lista dei sospetti di simpatie ereticali. Bertano, che insegnò in San Domenico e in altri conventi della provincia lombarda96, nel 1534 fu chiamato a Roma come predicatore da Paolo III. Divenuto vescovo di Fano nel ‘37 grazie alla protezione del cardinale Ercole Gonzaga, si segnalò per posizioni non in linea con l’ortodossia tanto che nell’agosto 1546 veniva indicato tra quanti erano «conformi a’ lutherani nel decreto de la iustification et ne le altre materie»97. La sua biografia, come quella dei suoi confratelli, si intrecciò più volte con l’azione di Morone che, dopo averlo coinvolto nei tentativi di riassorbimento del dissenso religioso nella diocesi di Modena98, nel 1545 lo avrebbe voluto come suo successore nella sede emiliana. Le accuse di vicinanza ai luterani, agitate dai cardinali Juan Álvarez de Toledo e Gian Pietro Carafa, ne compromisero poi la candidatura durante i conclavi del 1555, cui partecipò in seguito al conferimento della porpora da parte di Giulio III nel ‘51. Accuse simili colpirono anche Badia, novizio a Bologna dal 150999 e undici anni più tardi magister in San Domenico. Designato maestro del Sacro Palazzo da Clemente VII (1529), operò per la riuscita dei colloqui cattolico-riformati di Ratisbona del 1541, ottenendo al suo rientro in Italia la taccia di eretico e luterano100. Il suo nome, inoltre, fu associato alla presunta approvazione del 92 Su Giovan Battista Scotti, si veda PM 2, I, pp. 3-6 e DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., ad indicem.93 Così ricordò Foscarari nel 1560: «Quo ad Ioannem Baptistam Scotum, hic abiuravit plures haereses me praesente iam multi sunt anni, deinde relapsus est» (PM 2, II, p. 1000).94 Su Bertano v. G. RILL in DBI, 9, pp. 467-471.95 Su Badia v. G. ALBERIGO in DBI, 5, pp. 74-76.96 Queste le informazioni riportate da Gerhard Rill. Stando a quanto in Prelormo, pp. 300 ss. Bertano non ebbe comunque incarichi di vertice nello Studio domenicano. 97 G. BUSCHBELL, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI Jahrunderts, Paderborn 1910, pp. 256-257, cit. in PM 2, I, pp. 35-37, da cui traggo, dove non diversamente precisato, le informazioni che seguono.98 Sulla vicenda che nel 1542 vide Morone impegnato a far sottoscrivere agli eretici modenesi una dichiarazione di ortodossia per evitare l’intervento romano torneremo meglio in seguito. Cfr. M. FIRPO, Gli «spirituali», l’Accademia di Modena e il formulario di fede del 1542: controllo del dissenso religioso e nicodemismo in ID., Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Giovanni Morone (1509-1580) e il suo processo d’eresia, Brescia 2005, pp. 55-129.99 Cfr. Prelormo, p. 302, che ne indica l’ingresso a Bologna (e non a Modena come ipotizzato da Alberigo) il 12 gennaio 1509. 100 V. la lettera scritta da Contarini ad Alessandro Farnese nel 1541 in cui si dava conto delle accuse: F. DITTRICH (a cura di), Regesten und Briefe des Cardinals Gasparo Contarini (1483-

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Beneficio di Cristo, testo tra i più diffusi nei circoli eterodossi italiani e riconducibile al gruppo degli «spirituali» di cui facevano parte Reginald Pole, Giovanni Morone, Marcantonio Flaminio, Vittoria Colonna e molti illustri esponenti della gerarchia ecclesiastica101. I domenicani sin qui richiamati non furono tuttavia gli unici, le cui vicende si sarebbero intrecciate con la biografia di Foscarari. Indizi preziosi sui frati che incontrò durante la sua formazione bolognese vengono da un documento dell’archivio di San Domenico sopravvissuto alla dispersione. Il testo raccoglie i nomi quanti si trovavano in convento nel 1533 – l’anno in cui, il 29 marzo, Egidio ricevette l’ordinazione sacerdotale102. Sui 104 ospiti, si contavano 56 sacerdoti, 14 «iuvenes», 7 novizi, 25 conversi e 2 terziari. La lista dei frati più anziani si apriva con i personaggi di cui si è già detto: il priore Stefano Foscarari, il magister Bartolomeo Spina, Leandro Alberti, vicarius inquisitorialis, Tommaso Maria Beccadelli e il maestro degli studi Girolamo Papino. Tra i «reverendi patres sacerdotes» figurava poi Reginaldo Nerli da Mantova, personaggio su cui è opportuno soffermarsi103. Entrato in San Domenico nel 1513, Nerli iniziò a prendere parte all’organizzazione dello Studio poco prima che Egidio vi assumesse l’insegnamento: nel 1539 divenne magister, quindi baccelliere (1549-51) e infine reggente (1552-55)104. In quello stesso periodo visse in prima persona alcuni passaggi cruciali della vita religiosa italiana, a partire dall’esperienza pastorale del vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, che servì per undici anni: su suo incarico, nel 1537, svolse una pubblica predicazione sulle lettere di san Paolo e, al suo fianco, ebbe un uomo in odore di eresia come Tullio Crispoldi, cui fu affidato il compito di spiegare i vangeli105. Incaricato di esaminare il Beneficio di Cristo ancora manoscritto, avvertì Giberti della sua pericolosità. In seguito avrebbe assistito il più volte citato Giovanni Morone, predicando la Quaresima a Modena e adoperandosi nella visita della diocesi emiliana del 1545, oltre a collaborare con il Sant’Ufficio locale in qualità di vicario106. Tornato a Bologna, prese parte ai lavori conciliari e assunse la carica di inquisitore dal 1552 al 1554, nonostante nel 1550 avesse concesso la licenza di stampa a un libro “infetto” come l’Espositione sulla lettera ai Romani di Giorgio Siculo107.

1542), Braunsberg 1881, pp. 346-347.101 L’approvazione del Beneficio da parte di Badia emerse, ad esempio, durante gli interrogatori dall’eretico Giovan Francesco Alois («Il soprascritto libro del Beneficio di Christo [...] in Roma fu approbato per santissimo et ottimo libro sì dal cardinal Badia, che fu maestro di Sacro Palazzo, come dal cardinal Cortese»; cfr. PM 1, I, p. 228) e nella deposizione dell’inquisitore di Bergamo Domenico Adelasio che ricordò come l’allora coadiutore vescovile Vittore Soranzo gli avesse confermato «che il decto libro era stato approbato in Roma da alcuni cardinali, et specialmente dal reverendissimo cardinal San Silvestro [Badia]» (PS, 1, p. 170).102 ASDBo, III, 76200, La comunità di San Domenico di Bologna nel 1533 [titolo archivistico]. Nell’elenco, Egidio figura tra i «sacerdotes noviter ordinati». Della sua ordinazione resta notizia nei registri conservati in AABo, Cancelleria vecchia, Ordinazioni, 1 (1400-1534), c. non num. 103 Le notizie biografiche riportate di seguito sono tratte, dove non diversamente precisato da PM 2, I, pp. 26-31. In ASDBo, II, 21000, Seconda Parte, c. 10r lo si dice anche «inquisitor Brixiae». La data di ingresso di frate Reginaldo, figlio di Antonio, è fissata da Prelormo, p. 253 al 14 gennaio 1513.104 Cfr. D’Amato, I, pp. 506, 509.105 A. PROSPERI, Tra Evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma 1969, p. 242. 106 G. TRENTI, I processi del tribunale dell’Inquisizione di Modena. Inventario generale analitico (1489-1784), Modena 2003, p. 312.107 PROSPERI, L’eresia del libro grande, cit., pp. 167-168.

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Scorrendo la lista dei frati presenti a Bologna nel 1533, vi è poi un altro personaggio – più o meno coetaneo di Foscarari – destinato ad assumere un ruolo-chiave nelle vicende che affronteremo: il bolognese Girolamo Muzzarelli108. Entrato nel convento cittadino nel 1525, dopo avervi compiuto gli studi fu eletto priore nel 1547 (nomina annullata per incompatibilità con la carica di lettore che già rivestiva109); il 29 dicembre 1548 fu destinato alla guida dell’Inquisizione bolognese, distinguendosi per un’efficace azione di contrasto alle conventicole eterodosse presenti in città, corredata da una certa autonomia rispetto alla congregazione romana che lo sollecitò a tenerla informata sui processi di volta in volta istruiti. Nel 1550, dopo qualche mese di priorato, venne destinato a succedere a Foscarari come maestro del Sacro Palazzo. La sua nomina, come vedremo meglio in seguito, fu voluta da Giulio III, che lo utilizzò come uomo di fiducia per controllare l’azione del Sant’Ufficio contro vescovi e cardinali più volte evocati: Giovanni Morone, Reginald Pole, Vittore Soranzo, Giovanni Grimani e tanti altri. Sebbene assente dall’elenco del 1533, vi è infine un’ultima presenza che salta agli occhi esaminando la documentazione sul convento di San Domenico negli anni della formazione di Foscarari. Qualche giorno prima di Egidio, era stato infatti ammesso tra i novizi anche Domenico da Imola. Personalità poco nota e non censita nei principali repertori domenicani, il frate intraprese il suo itinerario il 16 febbraio 1526110. Non è chiaro dove trascorresse gli anni successivi e quali incarichi gli fossero eventualmente affidati. Fatto sta che dal 1553111 Domenico, divenuto più tardi inquisitore di Modena, venne chiamato come coadiutore da Foscarari, ormai vescovo, per gestire la comunità eterodossa cittadina112. Alcune indagini svolte dal sacro tribunale negli anni sessanta e settanta lascerebbero intravedere un alone di sospetto per il sostegno dato dal frate alla politica di riconciliazione promossa dallo stesso Foscarari nei confronti degli eretici modenesi, per la quale – comprensibilmente – l’allora vescovo non poté che rivolgersi a uomini di stretta fiducia. Il convento di San Domenico, dunque, non costituì per il giovane Egidio un semplice luogo di formazione, configurandosi piuttosto come scenario di durature relazioni destinate a riaffiorare nel corso della sua vita. Con i domenicani che lo accompagnarono negli anni bolognesi come maestri o compagni sembrò condividere sia un comportamento moderato nei confronti del dissenso religioso sia un’accondiscenza nei confronti degli «spirituali» e delle iniziative che li videro protagonisti. Si tratta, come si è visto, di indizi e di accostamenti attraverso i quali ricostruire il contesto in cui Foscarari si formò e, molto probabilmente, imparò a leggere le forti contrapposizioni interne alla Chiesa degli anni trenta e quaranta. 108 Su Girolamo Muzzarelli, v. la voce di G. DALL’OLIO in DBI, 77, pp. 629-631. 109 Cfr. a riguardo Prelormo, p. 192.110 Prelormo, p. 254.111 La data è desumibile da una lettera di Domenico all’inquisitore Eliseo Capys in cui si dava conto delle assoluzioni amministrate da Foscarari: «Io andai a stare con la felice memoria di monsignore Egidio 1553 a 24 di maggio» (ASMo, Inquisizione, 293, XI/47; lettera del 13 ottobre 1575). 112 TRENTI, I processi, cit., p. 311; PM 2, I, ad indicem. Sui rapporti tra Foscarari e Domenico da Imola, cfr. FONTAINE, Making Heresy Marginal in Modena, cit., pp. 44-45. Molti studiosi hanno indicato erroneamente in Domenico da Imola uno dei vicari diocesani di cui Foscarari si servì. Sul suo ruolo torneremo più distesamente in seguito.

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Il quadro tracciato non deve tuttavia far dimenticare l’esistenza di altre voci all’interno del convento bolognese e la presenza di profonde lacerazioni nell’ordine domenicano. Fu soprattutto con l’ascesa dell’Inquisizione e il declino di Giulio III che anche per il convento di San Domenico si aprì una stagione nuova, in cui comportamenti come quelli di Stefano Foscarari, Leandro Alberti o Reginaldo Nerli non furono più ammissibili. Un episodio chiarisce meglio di altri il senso di quella svolta e il confronto che si innescò tra le diverse anime del mondo domenicano. Il 30 maggio 1554, Nerli scriveva a Morone per informarlo della sua rimozione dall’incarico di inquisitore di Bologna. A sostituirlo era stato chiamato Eustachio Locatelli, al quale erano riservate parole durissime113:

La priego di due cose – supplicava Nerli –. Prima a mantenere l’honore di Nostro Signor Dio in me [...], sendo io tenuto non solo qui [a Bologna], ma in Ferrara et altrove, come nemico della santissima fede et per tale meritissimamente privo dell’Inquisitione. Secondo, a provedere che [...] opportunamente succeda uno idoneo, meritevole et sanza ingiuria d’altri [...] Il padre fra Eustachio da Bologna, giovane di 33 anni, et dovria secondo le legi haverne 40, [è] inferiore a molti del convento nostro in ogni modo [...] Non so come un novo bolognese, giovane, di bassa conditione, di puoca stima, potrà far quanto conviene.

Nato a Bologna intorno al 1518114, Locatelli aveva fatto il suo ingresso in San Domenico nel 1537 e sette anni dopo, come visto, era stato nominato inquisitore per volontà del cardinale Juan Álvarez de Toledo, autorevole membro del Sant’Ufficio. A completare quella rapida ascesa e a premiare la sua rigida fedeltà alle disposizioni romane, era poi divenuto priore del convento (1557), procuratore dell’ordine (1560) e infine confessore di Pio V Ghislieri115. Non è difficile constatare quale distanza corresse rispetto ai personaggi che guidarono San Domenico fino alla metà del secolo. Con la destituzione di Nerli – significativamente additato come nemico della fede per i suoi rapporti “pericolosi” con Morone e compagni – si chiudeva di fatto una fase storica. Nell’ordine domenicano e nelle gerarchie ecclesiastiche si aprivano spazi nuovi per chi, anche privo di nobili natali o di requisiti soddisfacenti, si era dimostrato buon servitore del Sant’Ufficio.

Libri e insegnamenti

Guardando agli anni sin qui esaminati, è inevitabile porsi una domanda: quale fu il ruolo della ricca biblioteca conventuale? Quali letture influenzarono il pensiero di Foscarari e ne guidarono la formazione? Ancora una volta la risposta non è semplice. I locali che ospitavano l’ingente patrimonio librario furono oggetto di importanti risistemazioni nel corso del Quattrocento116. Nell’ultimo scorcio del secolo, Ludovico e Giovanna Bolognini avevano fatto erigere un ampio salone ricoperto

113 BAV, Vat. lat., 6407, cc. 56r-57v; PM 2, I, pp. 28-29. 114 La lettera di Nerli su citata, che vuole Locatelli trentatreenne nel 1554, sposterebbe la data di nascita al 1521. La data del priorato bolognese, durato dal 1557 al 1559, è desunta da Prelormo, p. 243.115 Su Locatelli v. G. DALL’OLIO in DSI, II, p. 929; PM 2, I, pp. 203-204. 116 Sulle vicende storiche della biblioteca v. V. ALCE, P.A. D’AMATO, La biblioteca di S. Domenico in Bologna, Firenze 1961.

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a cassettoni dorati per custodire i volumi accumulati dai religiosi e certamente, durante la sua permanenza a Bologna, Egidio ebbe modo di trascorrere molte ore in quelle stanze. La disponibilità di testi era andata crescendo, sin dalla fondazione dello Studio, grazie ai lasciti di vari benefattori che avevano destinato al convento manoscritti e libri a stampa, presto ammessi alla pubblica consultazione. Uno strumento prezioso per sondare a quali opere Foscarari poté accedere è l’inventario steso a inizio Cinquecento dall’umanista Fabio Vigili117. Il documento offre uno sguardo d’insieme sulla dotazione della biblioteca tra il 1508 e il 1512118, ovvero una quindicina di anni prima del noviziato di Egidio.Prevedibilmente abbondante è la presenza dei testi sacri (disponibili anche in greco ed ebraico)119 e di commenti dedicati ai libri della Scrittura. A spiccare sono soprattutto commenti alla Genesi, al salterio (base della preghiera quotidiana dei frati), ai vangeli e alle lettere di san Paolo120. Numerose poi le glosse all’Apocalisse121, corredate da testi legati alle profezie gioachimite riaffacciatesi prepotentemente nell’Italia di quegli anni122. Particolarmente ampia la rassegna di padri della Chiesa a partire da Agostino, con le opere al centro della polemica cattolico-riformata, Giovanni Crisostomo, Isidoro di Siviglia e Boezio – forse i padri più rappresentati123 –, sino a Giovanni Damasceno, Gregorio Magno, Dionigi Areopagita, Girolamo, Eusebio, Origene, Beda, Ambrogio e molti altri124. Alla cultura classica erano riservati vari scaffali, su cui trovavano spazio opere, commenti e traduzioni di Omero, Seneca, Cicerone e Prisciano125. Sotto il profilo filosofico, la tradizione aristotelica e scolastica era ovviamente dominante, con Tommaso d’Aquino126, Alberto Magno127, Aristotele e i relativi commentari128, Avicenna e Averroè129, cui si affiancava, in misura minore, la produzione platonica130. Molti degli studenti del convento erano destinati a una carriera come legisti e canonisti e non stupisce

117 M.H. LAURENT, Fabio Vigili et les bibliothèques de Bologne au debut du XVe siècle d’après le ms. Barb. Lat. 3185, Città del Vaticano 1943, pp. 11-107 (Inventario del convento di San Domenico = InvSD). Nelle note successive si riporta solamente il numero progressivo assegnato da Laurent alle opere citate. A oggi, i manoscritti non sono più conservati nella biblioteca conventuale. 118 LAURENT, Fabio Vigili, cit., pp. XXI-XXII.119 InvSD, nn. 4-5, 317. Quando non diversamente precisato, si rimanda alla bibliografia critica riportata da Laurent.120 Rispettivamente ivi, nn. 7, 9-11; nn. 19-22, 24-26, 309; nn. 38-50 e nn. 51-56.121 Ivi, nn. 59-60, 62-64.122 Ivi, nn. 64, 66. Cfr. R. RUSCONI (a cura di), Storia e figure dell’Apocalisse fra ‘500 e ‘600, Roma 1994. 123 Rispettivamente InvSD, nn. 269-271, 276, 278, 281-283; nn. 285-286, 288-289; nn. 210, 273, 280, 291-292, 301, 305 e nn. 267, 318-319, 321-322. Come noto, le opere di Isidoro di Siviglia costituirono per larga parte dell’età medievale una delle fonti principali della formazione religiosa e profana. 124 Rispettivamente ivi, nn. 267, 302; nn. 323-327; nn. 264-266; n. 293; n. 295; nn. 7, 269; nn. 345-347; nn. 331, 362. Altri padri di cui si trovano scritti sono Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa, Gregorio Nazianzeno e Ilario di Poitiers.125 Rispettivamente ivi, nn. 306-308; nn. 193-194, 207; nn. 188-189; nn. 215-216. Sono presenti ancora opere di Diogene, Valerio Massimo, Frontino, Ovidio, Plutarco ed Esopo. 126 Ivi, nn. 65, 67-70, 169, 182, 183.127 Ivi, nn. 33, 50, 74, 138, 144, 147, 168, 178, 266, 414.128 Ivi, nn. 132-137, 139-141, 143, 145-151, 153-154, 157-163, 166, 168, 174, 180, 312. 129 Ivi, nn. 137, 142, 156, 174, 177.

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perciò ritrovare una corposa collezione di testi giuridici131. Allo stesso modo, la famiglia domenicana formava da sempre predicatori (che dovevano poter disporre di sermonari, manuali di omiletica e così via)132, inquisitori (vari i testi anticatari e antivaldesi, le summae di casi di coscienza e gli scritti contro ebrei e musulmani)133 e uomini destinati a incarichi di rilievo nelle università o nelle cancellerie, cui erano rivolti libri di epistolografia, retorica e grammatica134. A lato, vi era spazio per opere di astronomia e astrologia giudiziale, geometria, geografia e scienze naturali135; libri di storia sacra e profana136 e molti testi di spiritualità, che spaziavano dalle vite dei grandi santi della famiglia domenicana – Caterina da Siena, Tommaso d’Aquino e Antonino Pierozzi137 – alle meditazioni sulle regole di altri ordini religiosi, sui vizi e le virtù, ecc.138

Se questo era il quadro generale, alcuni testi conservati in San Domenico evidenziano l’attenzione posta su temi scottanti, tra cui le questioni della povertà e dell’autorità pontificia. Balza agli occhi ad esempio la presenza del Tractatus de paupertate Christi del bolognese Giovanni Calderini, insigne canonista, morto nel 1365 e sepolto nella chiesa di San Domenico139, e dell’omonima opera di Roberto d’Angiò (De paupertate Christi vel Ecclesiae), in cui l’autore si pronunciava, con diverse cautele, per la povertà della Chiesa e dei successori di Pietro140. Sui papi e sull’estensione della loro autorità riflettevano anche altri testi: nell’inventario compilato da Vigili compare un Tractatus de authoritate summi pontificis ex variis opusculis Thomae Aquinatis collectus di Juan de Torquemada, presumibilmente steso durante il concilio di Basilea141; il De planctu Ecclesiae del francescano Álvaro Pelayo – canonista, docente a Bologna e penitenziere ad Avignone – in cui si difendeva il potere spirituale dei pontefici pur criticando gli abusi degli ecclesiastici142; il De 130 Ad esempio quella di Anselmo d’Aosta (cfr. ivi, nn. 270, 274, 299), oltre che opere di Platone (nn. 175, 179).131 Ivi, nn. 71-73, 75, 77-79, 81, 85, 91-104, 107, 111, 114-120, 220-224, 226-233, 235-237, 239-243, 251-255, 258.132 Ivi, nn. 30, 376, 383-384, 387-396, 398-400, 402-406, 408-414, 416-418, 420-432. Si noti al n. 30 l’edizione a stampa della Aurea Rosa di Silvestro Mazzolini (Aurea rosa idest preclarissima expositio super evangelia totius anni de tempore et de sanctis [...], Bologna 1503).133 InvSD, nn. 124-125, 234 (Juan de Torquemada, De potestate ecclesiastica videlicet contra hereticos), 261 (Giovanni Calderini, Instructorium inquisitorum), 256-260, 263 (Summae confessorum, tra cui quella di Raimondo di Peñafort), 262 (Trattato de censuris di Antonino Pierozzi). Contro musulmani ed ebrei, v. rispettivamente nn. 338-339, 341 e nn. 245, 340-343.134 InvSD, nn. 196, 200, 202-203, 205-206, 219 (raccolte di lettere e manuali di epistolografia); nn. 217-219, 238 (testi di ortografia e grammatica).135 Ivi, nn. 145, 171-173 (astrologia e astronomia); 164 (Euclide), 165 (Tolomeo).136 Ivi, nn. 350-362.137 Ivi, nn. 367-370. Al n. 358 è censito anche un esemplare della Legenda aurea di Jacopo da Varazze.138 InvSD, nn. 371-372, 377, 379, 381, 415, 419, 433-435, 442-446.139 Ivi, n. 66. Il Tractatus è menzionato da G. FANTUZZI, Notizie degli scrittori bolognesi, Bologna 1783, III, p. 22, che attesta l’irreperibilità dell’opera manoscritta presso la biblioteca di San Domenico. Su Calderini v. la voce di H.J. BECKER in DBI, 16, pp. 606-608.140 InvSD, n. 112. Sul Tractatus de apostolorum ac eos precipue imitantium evangelica paupertate, v. D.N. PRYDS, The King Embodies the Word. Robert d’Anjou and the Politics of Preaching, Leiden 2000, pp. 88-91 (con bibliografia precedente).141 InvSD, n. 69. Laurent ipotizza che si tratti di un’altra opera rispetto a quella scritta durante il Concilio di Firenze e recante lo stesso titolo (LAURENT, Fabio Vigili, p. 21, nota 3). 142 InvSD, n. 243. Per una bibliografia su Pelayo (o Pelagio) v. A. PARAVICINI BAGLIANI, Il papato nel secolo XIII. Cent’anni di bibliografia (1875-2009), Firenze 2010, p. 125 (cui si rinvia per una più

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potestate papae et praelatorum di Pietro della Palude, domenicano, che in altre sedi si era espresso sulla povertà di Cristo e della Chiesa primitiva143; la Summa de ecclesiastica potestate dell’eremitano Agostino da Ancona, di impianto nettamente teocratico144; un Liber de gestis Basiliensis concilii et an ei licuerit Eugenium IIII pontificem suspendere vel deponere seguito dal De potestate papae et concilii generalis elaborato dall’Università di Cracovia145, e un non meglio precisato Liber de posse papae et translatione Romani imperii146. Nel complesso le opere citate non mostravano una linea divergente dalle posizioni ierocratiche del papato medievale; segnalavano però un’attenzione ai nodi della povertà, del potere pontificio e delle sue relazioni con l’autorità del concilio. Tra le opere che verosimilmente furono al centro dell’istruzione dei frati, anche in relazione ai temi appena citati, figura poi il monumentale commento alla Summa redatto da Tommaso de Vio a partire dal 1508147. Nella molteplicità delle questioni toccate, il cardinale di Gaeta dedicava un apposito spazio alla residenza dei vescovi de iure divino, di cui l’Aquinate si era occupato nella quaestio 185 della Secunda Secundae. Come vedremo, fu probabilmente di qui che Foscarari trasse ispirazione per lo svolgimento dell’ufficio vescovile conferitogli nel 1550, sebbene non si possa escludere che a determinare la sua posizione contribuissero anche altri modelli. La formazione dei frati tuttavia non passava prioritariamente per opere riguardanti il ruolo dei vescovi. Tra i testi di cui il convento poteva disporre vi erano tracce delle grandi dispute tra scotisti e tomisti intorno all’Immacolata concezione e al sangue di Cristo148: la prima aveva visto l’ordine di san Francesco propugnare l’assenza di peccato originale nel concepimento di Maria, in opposizione a quanto sostenuto, non senza sfrangiamenti149, dai domenicani; nella seconda si misuravano la tesi francescana di una separazione della divinità di Cristo dal sangue che aveva versato sulla croce e quella domenicana favorevole a una riassunzione dello stesso sangue al momento della resurrezione150. Quelle dispute, che avevano infiammato i due ordini sul finire del Quattrocento, sarebbero state offuscate nel giro di poco tempo dalle questioni, assai più radicali, poste dalla Riforma protestante. Anche su di esse la biblioteca di San Domenico poteva offrire spunti di riflessione, annoverando, oltre alle tradizionali opere alla base della formazione teologica, testi utili per affrontare i temi caldi della polemica cattolico-ampia introduzione sulla questione della sovranità pontificia nella discussione medievale). 143 InvSD, n. 243. Su Pietro della Palude e il De potestate v. G.C. GARFAGNINI, Una difficile eredità: l’ideale teocratico agli inizi del XIV secolo. Il Tractatus de potestate papae di Pietro de Palude, in «Documenti e studi sulla tradizione filosofica medievale», 3, 1 (1992), pp. 245-270.144 InvSD, n. 244. Su Agostino da Ancona (o Trionfo) v. la voce di B. MINISTERI in DBI, 1, pp. 475-478, con ampi riferimenti all’opera in questione; cfr. anche PARAVICINI BAGLIANI, Il papato, cit., p. 125.145 InvSD, n. 245. 146 Ivi, n. 248. 147 Cfr. E. STÖVE in DBI, 39, pp. 567-578.148 Cfr. ad es. InvSD, n. 66 (Tractatus de sanguine Christi ad Pium II); nn. 113, 122 sull’Immacolata Concezione. 149 Richiamo soltanto la clamorosa “defezione” del domenicano Ambrogio Catarino Politi e dei domenicani senesi, per cui v. G. CARAVALE, Sulle tracce dell’eresia. Ambrogio Catarino Politi (1484-1553), Firenze 2007, pp. 2-3, 33-47.150 Per un inquadramento delle due polemiche v. C. VASOLI, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P.C. PISSAVINO, Milano 2002, cap. 8.

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riformata, dalla presenza eucaristica al libero arbitrio, alla predestinazione151. A fronte di tanta varietà e disponibilità di libri non è semplice stabilire che cosa leggessero Foscarari e i suoi compagni e come valutassero i contenuti di quegli scritti. Non si può poi dare troppo peso ai silenzi della biblioteca conventuale. Le fonti consultate non rivelano, ad esempio, tracce di Erasmo (in realtà agli esordi della sua produzione al momento della stesura dell’inventario) e tra le poche cinquecentine ancora conservate presso il convento non figura nessun volume dell’umanista olandese152. Ciò nonostante, gli scritti di Erasmo, Lutero e degli altri riformatori varcarono certamente la soglia di San Domenico, se non altro per raggiungere le stanze dell’inquisitore e dei molti controversisti transitati di lì, così come è irrealistico pensare che di quelle opere e dei popoli che erano state capaci di coinvolgere non parlassero i frati giunti nello Studio domenicano dalle terre del contagio (nel 1533 ad esempio vi erano religiosi provenienti da Anversa, dalla Polonia e dalle inquiete periferie della Repubblica di Venezia)153. Come vedremo, Foscarari, Muzzarelli, Beccadelli e gli altri teologi di San Domenico dimostrarono di essere a conoscenza delle tesi dei principali autori protestanti, tanto da pronunciarsi dettagliatamente su di esse nel corso delle discussioni conciliari del 1547. La teologia riformata e il pensiero dei suoi esponenti più importanti erano dunque ben noti ai frati che in San Domenico rivestivano funzioni di insegnamento o, più in generale, avevano un ruolo istituzionale.Ma formazione non significava solo teologia o contrapposizioni dottrinali: nel percorso dei frati una parte non secondaria era riservata alle lettere e alla tradizione umanistica di cui l’Italia era imbevuta. In questo senso, sono da ricondurre agli anni conventuali alcuni dei tratti caratteristici della cultura di Foscarari, in particolare la buona conoscenza del greco e dell’ebraico così come la confidenza del tutto particolare con la storia sacra e il testo biblico. Indizi a riguardo giungono dall’epistolario del domenicano che, pur riferito a un periodo successivo, mostra tracce evidenti dell’istruzione ricevuta a Bologna. La perfetta padronanza della lingua greca – nello specifico quella dei padri della Chiesa e dei vangeli – è testimoniata, ad esempio, dalla richiesta che nel 1562 Morone inoltrò a Foscarari per verificare, sotto il profilo filologico, la correttezza di una traduzione latina dei canoni del concilio di Sardica rispetto all’originale greco154. Significativo poi il coinvolgimento del domenicano nella vita di alcune accademie bolognesi, come quella di casa Bolognetti, dove si tenevano dispute in cui si confrontavano cultura sacra e cultura profana155.

151 Cfr. ad es. InvSD, nn. 79, 83, 89, 126, 444. 152 Uno studio di eventuali ex-libris, segnature antiche e note di versamento potrebbe forse portare all’individuazione di testi passati dalla biblioteca di San Domenico alle biblioteche pubbliche. La ricerca, particolarmente complessa e non priva di scivolosità, non consentirebbe tuttavia di stabilire con esattezza la presenza di tali opere nella biblioteca conventuale negli anni qui indagati. 153 Cfr. ASDBo, III, 76200, La comunità di San Domenico di Bologna nel 1533. 154 LM, cc. 317-318 (Trento, 11 giugno 1562).155 V. di nuovo CFCh, cc. 220v-221r, in cui Foscarari così scrive a Bolognetti: «Il saggio et gusto solo datomi della ingeniosa disputta della grandezza della terra in comparatione dell’acqua fatta in casa di V.S., vera accademia delle buone lettere, mi è stato di grandissimo contento. Da questo sarà facile il giudicare quanto volentieri vi sarei stato presente et tanto più che non ho mai tenuto quel problema per paradosso, anzi non solo corrispondente a molte humane persuasioni ma che è più accennato nelle scritture et particolarmente nelle canzoni di Davide».

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Alla dimestichezza con la lingua greca e latina si accompagnava inoltre quella con la tradizione classica ed ellenistica. Defilandosi da una lite in cui lo si voleva come giudice, Foscarari si appellò all’esempio di «Agesipolo [che], havendo eletti gli Atheniesi i Megaresi per arbitri d’una diferenzia che haveano con lui, disse non essere ragionevole che i Magaresi s’intendessero più di quello che era giusto che i Greci»156. Nel raccomandare un magistrato per la Rota di Firenze, ricordò invece la diversa condotta dei cristiani rispetto alla democrazia di Atene: «Anchorché nella repubblica atheniese fosse crimen capitale raccomandare una causa ad alcun giudice, parendo loro che tal raccomandatione fosse specie di corruttione, non è però così nella repubblica christiana, anzi si lauda chi lo fa et non si corrumpe il giudice, ma gli si rende testimonio di quello che si fa»157. Non vi è dubbio poi che il domenicano avesse una buona confidenza anche con l’ebraico, dato il suo coinvolgimento in una traduzione dei Salmi su cui avremo modo di tornare158. La conoscenza delle lingue antiche derivava del resto dalla necessità di maneggiare e comprendere le Scritture. Le citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento dominano gli scritti di Foscarari, e in merito bastano pochi esempi. Il 16 dicembre 1560, scrivendo al cardinale Michele Ghislieri, gli raccomandava l’anonimo latore della missiva chiedendo per lui misericordia parafrasando l’episodio del figliol prodigo159. A un prete sfiduciato dalla durezza del lavoro pastorale, rispondeva con esortazioni tratte dai Salmi: «Confidite! [...] Crediamo più a questi oracoli certissimi [di Dio] che a tutti quelli che dicono: ‘Non est salus ipsi in Deo eius’. Vivete sicuro che plures nobiscum sunt quam cum illis»160. Schermendosi da chi gli chiedeva di prendere posizione sul razionamento del pane che aveva colpito Modena, spiegava: «L’officio mio [...] non è d’intricarmi ne’ governi civili della città, raccordandomi ch’el Signor Nostro a chi lo domandava che fosse giudice in una causa, disse: ‘Quis me constituit iudicem inter vos?’»161.Se la conoscenza del testo biblico e delle lingue in cui era stato scritto risalivano certamente agli anni di San Domenico, qualcosa di più preciso sugli insegnamenti impartiti nel convento viene infine dai registri che ne conservano memoria. Al solito, per queste date non è molto ciò che si può ricavare. Nel 1534 il lettore Vincenzo Patina da Quinzano teneva lezioni di logica e filosofia naturale162; l’anno successivo, il 24 settembre, Tommaso Maria Beccadelli, subentrato come reggente a Giovanni Ceresoli da Bergamo, iniziava leggere la «quaestionem de providentia»163, mentre nel 1537 Battista da Milano, nuovo 156 CFCh, cc. 222v-223r; lettera non datata relativa a una lite che coinvolse alcuni francescani. L’episodio citato da Foscarari e riportato nei Detti dei Lacedemoni di Plutarco si riferisce ad Agesipoli, figlio di Pausania, che rifiutò di sottoporsi all’arbitrato dei Megaresi per dirimere una lite tra Sparta e Atene.157 CFCh, c. 209r (Modena, 19 ottobre s.a.).158 Cfr. infra, pp. xxx159 «Il presente portatore è uno di quell’ovile che particolarmente è raccomandato a V.S. reverendissima et illustrissima. Abiit questo poverello in regionem longinquam et ha dissipata tutta quella gran richezza che il celeste padre gli havea data per sua portione . Viene illuminato dal Signor Dio a V. illustrissima Signoria per dirle con tutto il cuore: Pater peccavi in coelo et in terra, iam non sum dignus vocari filius» (CFCh, cc. 207r-v; i riferimenti biblici – qui segnalati in corsivo – sono a Luca, 15,11-32).160 CFCh, cc. 272r-v. Lettera senza data a don Nicolò Martelli. La citazione è dal Salmo 3. 161 CFCh, c. 262v. Lettera non datata a don Nicolò Pappa. Il riferimento è a Luca 12,14. 162 ASDBo, II, 21000, Prima Parte, c. 12r. Cfr. D’Amato, I, p. 505.163 Summa Theologiae, I, q. 22; ASDBo, II, 21000, Prima Parte, c. 12r.

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reggente, espose il «tractatus de malitia angelorum», coadiuvato dal baccelliere Pietro Martire Sangervasi – futuro maestro del Sacro Palazzo – che trattò la questione «de incarnatione»164. Le annotazioni relative al 1538, quando Foscarari era al termine degli studi e si accingeva a intraprendere l’insegnamento, restituiscono con insolita precisione la scansione delle giornate presso lo Studio domenicano. L’11 giugno di quell’anno il reggente Beccadelli iniziò la lettura della prima parte della Summa; due giorni dopo il baccelliere Giacomo da Ceriana cominciò le lezioni sul quarto libro delle Sentenze di Tommaso («de sacramentis»), Girolamo da Fano fu incaricato di esporre il sesto libro della Metafisica, mentre il lettore Angelo Valentini e Giorgio da Vercelli commentarono rispettivamente la lettera ai Romani e la «Logica parva»165. Nel 1541, poi, toccò allo stesso Foscarari, nominato lector, assumere incarichi di insegnamento tenendo lezioni sul terzo libro della Fisica di Aristotele166.Ciò che si può ricavare mostra poche increspature rispetto agli orientamenti più generali del mondo domenicano e al curriculum consueto di studenti e novizi. Come si è accennato, è piuttosto nelle personalità che si avvicendarono alla guida del convento e negli avvenimenti di quel periodo che vanno ricercate le radici dell’atteggiamento tenuto da alcuni domenicani bolognesi, tra cui lo stesso Foscarari. Per completare il quadro resta dunque da valutare un ultimo aspetto che certamente influì sul giovane Egidio: il contesto cittadino e i personaggi, piccoli e grandi, che lo attraversarono negli anni della sua ascesa all’interno dell’ordine. Una città di fronte alla storia

Durante la sua formazione, Foscarari poté assistere, con i suoi confratelli, ad avvenimenti che portarono nella città di san Petronio vicende e protagonisti della convulsa storia di quei decenni. A inaugurare la serie fu senza dubbio l’incoronazione di Carlo V167. Il 24 febbraio 1530, dopo lunghe trattative, Clemente VII pose sul capo dell’imperatore la corona che attendeva da dieci anni. Finita la cerimonia, Carlo volle fare sosta nella chiesa di San Domenico, dove si era già recato a venerare le reliquie del fondatore dell’ordine il 5 dicembre 1529168. Ludovico da Prelormo nella sua cronaca ricordava come

164 Summa Theologiae, I, q. 63 (sulla malvagità degli angeli) e III, qq. 1ss. (sull’incarnazione); ASDBo, II, 21000, Prima Parte, c. 12v.165 ASDBo, II, 21000, Prima Parte, c. 13r, che riporta anche la distribuzione delle lezioni nel corso della giornata: «Lectiones de anno 1538 fuerunt haec: a reverendo regente [Tommaso Beccadelli], principium primae partis Sancti Thomae post officium ante prandium; a venerando baccalaureo [Giacomo da Ceriana] de sacramentis in principio 4 i libri sententiarum ante officium inter duo signa in mane; medietas metaphysicae videlicet 6 liber a venerando patre frate Hieronymo de Fano, inter duo signa in mane; epistula divi Pauli ad Romanos a venerando biblico patre fratre Angelo de Mutina in scholis, in loco inferiori in quo stat societas Sancti Dominici; logica parva per venerandum patrem fratrem Georgium de Vercellis». Cfr. D’Amato, I, pp. 505-506 (e altri riferimenti ad indicem per i vari personaggi citati). 166 Così, ci pare, vada interpretata la sintetica indicazione di ASDBo, II, 21000, Prima Parte, c. 14r: «Lectio patris lectoris [...] Aegidii de Bononia 3 phys.». Parla genericamente di insegnamenti di teologia D’Amato, I, p. 507. 167 Sull’incoronazione bolognese v. R. RIGHI (a cura di), Carlo V a Bologna, 1530. Cronache e documenti dell’incoronazione, Bologna 2000. 168 Cfr. ad es. ALBERTI, Historie di Bologna, 1479-1543, cit., II, p. 562: «Alli 5 di decembre Cesare passò alla chiesa di S. Domenico et vi fece cantare la messa, et con gran divotione fece

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Bologna fosse divenuta per l’occasione una seconda Roma, tanto che il convento domenicano era stato elevato al rango di novello Laterano: «Clemente VII batizò San Petronio et glie impose nome San Pietro di Roma, et la chiesa di San Domenico glie pose nome San Giovanni Laterano»169. Al di là dei riflessi emiliani, nella discesa di Carlo V e nel suo incontro con Clemente VII si condensavano la sottomissione dell’Italia alla Spagna e l’attesa di un concilio per la riforma della Chiesa promesso dal pontefice. Che l’aspettativa di un rinnovamento morale della struttura ecclesiastica per mano dell’imperatore fosse oggetto di speranze anche all’interno del convento bolognese, risulta da vari segnali provenienti dalle stesse cronache domenicane. Leandro Alberti, che non aveva perso occasione per criticare la rapacità del pontefice in tempi calamitosi, descrisse gli eventi dei mesi che precedettero l’incoronazione imperiale con toni inequivocabili. A proposito di un arco ornamentale sormontato dalle «armi della Chiesa, del papa et di Cesare», scriveva170:

Vedeasi [...] dentro del arco dipinta un’historia ch’era tale: scorgevasi Sigismondo imperadore haver tre pontefici scismatici nelle mani, et farli dipore il pontificato, cioè a Giovanni XXIII, Gregorio XII et Benedetto XIII. Li quali nel 1417 in Costanza dal concilio per opera di detto Sigismondo furono deposti et eletto Martino quinto; et anche si vedea Giovanni Hus et Geronimo discepolo di Giovanni Viglef legati ad un palo nel mezzo del fuogo brusciati sicome heretici et scismatici.

La descrizione di fra Leandro esaltava, sulla scorta della decorazione, la restaurazione cui l’imperatore era chiamato: deporre pontefici indegni, sovrintendere a un concilio e bruciare gli eretici. Così grandi erano le speranze suscitate dal sovrano che il papa mostrò una certa insofferenza per la calorosa accoglienza riservatagli dai bolognesi. Gli Anziani erano andati a ricevere l’imperatore alle porte della città, ponendolo su un baldacchino dorato al grido di «imperio, imperio, Carlo, Carlo», prontamente replicato dalla folla accorsa da ogni parte. «Cosa – nota l’Alberti – che non piacque molto al papa»171. Né dovette piacergli quanto accadde, nel dicembre del 1529, quando i soldati tedeschi al seguito di Carlo – tra i quali molto probabilmente qualche reduce dal sacco del ‘27 – si abbandonarono ad atti di spregio nei confronti del pontefice172:

Li thedeschi [...] forse imbriachi getarono a terra l’imagine del pontefice fatta di stucho, ch’era posta sopra l’arco trionfale della porta del palagio [...] Et havendogli legato al colo una fune, la strassinarono per tutta piaza, molto vituperosamente battendola, et poscia havedole tagliato il capo l’abbrusciarono.

Meno evidenti sono le tracce di critiche antipapali nella cronaca del Prelormo. Nonostante una minor acutezza di analisi, anche fra Ludovico guardava con diffidenza il papato di Clemente VII. Nello stesso anno dell’incoronazione di Carlo V, si era infatti verificato un episodio increscioso che aveva messo a rischio l’autonomia dell’ordine: durante il capitolo romano che avrebbe eletto

riverentia al capo de S. Domenico, et visitò il suo santissimo corpo». 169 Prelormo, p. 180.170 ALBERTI, Historie di Bologna, 1479-1543, cit., II, p. 550. 171 Ivi, p. 556. 172 Ivi, p. 563.

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generale Paolo Bottigella173, il papa, per tramite del Caietano e del cardinale Garcia de Loaysa174, aveva cercato di influenzare l’assemblea per far votare l’allora maestro del Sacro Palazzo, Tommaso Badia. «Né a preghiere e persuasioni dil sommo pontefice né de cardinali, [gli elettori] non volseno far nulla: sed [...] ceteris constanter perseverantibus in sancta libertate ordinis ellegerun<n>t reverendum patrem fratrem Paulum Butigella». La santa libertà dell’ordine era salva e solo un domenicano divenuto papa – Pio V Ghislieri – sarebbe stato capace di affossarla sotto lo sguardo attonito del Prelormo, che metteva a confronto i due episodi: «Questo istesso rumore è stato questo anno 1571, mha [sic] la corte romana l’à vinta et il papa ha fatto un provinciale et ha privo di voci quelli a chi tocava farlo e non l’ànno fatto. Cosa mai più audita!»175. L’ormai vecchio frate Ludovico, che come custode dell’arca di San Domenico aveva probabilmente scortato Carlo V durante la sua visita, doveva constatare che i tempi erano cambiati, e che cose «mai più audite» potevano ora verificarsi. Anche agli occhi dei frati il passaggio bolognese dell’imperatore e la solenne cerimonia di incoronazione assunsero una valenza religiosa, tale da far affiorare lo strisciante malessere nei confronti delle gerarchie romane. Il giovane Egidio, dopo quattro anni di vita conventuale, dovette essere partecipe di quelle attese ed ebbe modo di assistere allo straordinario spettacolo svoltosi nella basilica di San Petronio, alla presenza non solo delle due supreme autorità del mondo cristiano, ma di principi e cardinali nelle cui mani riposavano le sorti di un’Europa insanguinata e assetata di pace. Tuttavia, le questioni religiose che agitavano le coscienze si innestavano sui conflitti politici e li amplificavano, e il caos che dominava nella Chiesa sembrava coinvolgere appieno anche i domenicani. A Bologna, nel cuore dello Stato pontificio, l’emergenza luterana era tutto fuorché archiviata e proprio ai frati predicatori spettava il compito di custodire l’ortodossia per mezzo del Sant’Ufficio locale. Dal canto suo, Foscarari non poté essere estraneo all’opera dei giudici di fede: nipote dell’inquisitore e allievo di personaggi implicati nell’organizzazione del tribunale, è improbabile che alle sue orecchie non arrivassero i clamori eterodossi che percorrevano le strade di Bologna176. Tra il 1530 e il 1540, nel vivo della sua formazione, ebbe certamente notizia non solo delle tesi diffuse da Giulio da Milano, Giovanni Buzio e Camillo Renato, ma si trovò immerso in un contesto in cui fiorivano circoli eterodossi di estrazione popolare, conventicole pericolose come quella di Benedetto Accolti177, e iniziative proselitistiche di eretici come il già ricordato Giovan Battista Scotti, prima relapso, poi informatore del Sant’Ufficio. L’inizio degli anni quaranta, inoltre, segnò per Bologna l’arrivo di dottrine provenienti dal Sud della Penisola e destinate a giocare un ruolo fondamentale nei successivi sviluppi della storia religiosa italiana. Gli insegnamenti eterodossi dell’esule spagnolo Juan de Valdés, rifugiatosi a Napoli intorno al 1534-35, avevano accomunato le sorti di personalità di primo piano come Marcantonio Flaminio, Vittoria Colonna, Giulia 173 Su Paolo Bottigella, v. TAVUZZI, Renaissance Inquisitors, cit., p. 243. 174 Rispettivamente protettore e viceprotettore dell’ordine domenicano; cfr. FORTE, The cardinal-protector, cit., p. 67. 175 Prelormo, p. 187. Per le vicende connesse all’elezione di Bottigella e «l’appui discret» del papa a Tommaso Badia, v. MORTIER, Histoire, cit., V, p. 287. 176 Cfr. DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., Parte Prima. 177 Su Accolti, v. R. RISTORI, Benedetto Accolti: a proposito di un riformato toscano del Cinquecento (Testi e documenti), in «Rinascimento», II (1962), pp. 225-317.

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Gonzaga, Pietro Carnesecchi, Pietro Antonio Di Capua e tanti altri178. Se e come Foscarari venisse a contatto con tale circuito (i già evocati «spirituali» autorevolmente rappresentati da Reginald Pole e Giovanni Morone) è un problema di cui ci occuperemo più avanti. Vero è che il fermento religioso che pervadeva la città lo pose di fronte alle grandi questioni teologiche al centro del dibattito, stimolandone la riflessione. A dimostrazione del posto occupato dalle questioni dottrinali e dalle attese di riforma nella Bologna di quegli anni, basta scorrere le pagine di una cronaca solitamente attenta a eventi che impressionavano l’immaginario popolare come quella di Giacomo Rinieri. Il 26 giugno 1536 il cronista registrava «la novva del conzilio, el quale se avea a selebrare in la città de Mantoa a li 23 de magio prosemo [1537]»179; un anno più tardi dava conto del san Francesco redivivo che aveva predicato in città: «Avea nome fra Bernardino da Siena [...] e disìeano che questo fra era de l’ordino proprio de santo Francesco, e che santo Francesco andava vestido a questo modo, e li andò assai gente alla predicha e ogni homo romaxe contento». Il giorno dopo ad ascoltare Bernardino Ochino – generale dei cappuccini, poi fervente valdesiano – «andò asaisima gente, più che non fé el giorno innanzo», tanto che Bologna lo avrebbe richiamato sul pergamo diverse volte180. Queste notazioni sono indizi di una città attentissima ai sommovimenti religiosi che la attraversavano e teatro essa stessa di grandi avvenimenti destinati a segnare la storia della Chiesa. Sotto questo profilo, non si può dunque dimenticare cosa fu la Bologna in cui Foscarari visse gli anni della maturità: la città delle legazioni di Gasparo Contarini e Giovanni Morone e, dal 1547, del concilio. Non è chiaro quanto la breve legazione bolognese di Contarini – durata dal 25 marzo al 24 agosto 1542, giorno della sua morte – incidesse effettivamente sugli ambienti domenicani181. La presenza del veneziano, reduce dal fallimento dei colloqui di Ratisbona, era il simbolo della direzione verso cui la Chiesa si incamminava. Il naufragio delle sue proposte mostrava la fragilità di ogni linea di conciliazione, e quando nella primavera/estate del ‘42 l’allora vescovo di Modena Morone gli chiese di redigere un formulario di fede per riconciliare i dissidenti della sua diocesi, emerse l’impossibilità di contenere il dissenso religioso con politiche ireniche182. Nonostante tutto, Foscarari sembrò comunque considerare praticabile la via di pacificazione che Contarini aveva delineato, come mostrerebbero i suoi richiami agli articoli di Ratisbona già dalla fase bolognese del concilio (1547) 183. È plausibile che l’impianto teologico del veneziano, giunto nei suoi ultimi anni a una rivalutazione del tomismo mediata (e corretta) dall’agostinismo e dal

178 Su Valdés v. M. FIRPO, Valdesiani e spirituali. Studi sul Cinquecento religioso italiano, Roma 2013.179 G. RINIERI, Cronaca, 1535-1549, edizione a cura di A. ANTONELLI, R. PEDRINI, Bologna 1998, p. 15.180 RINIERI, Cronaca, cit., p. 43. Su Ochino v. in sintesi M. GOTOR in DBI, 79, pp. 90-97.181 Su Contarini e il breve periodo trascorso a Bologna, v. E.G. GLEASON, Gasparo Contarini: Venice, Rome and Reform, Berkeley 1993, pp. 276-301. Per la corrispondenza bolognese, cfr. A. CASADEI, lettere del cardinale Gasparo Contarini durante la sua legazione di Bologna (1542), in «Archivio storico italiano», CXVIII (1960), pp. 77-130, 220-285. Una sintesi biobibliografica nella voce di G. FRAGNITO in DBI, 28, pp. 172-192.182 Sull’intera vicenda v. FIRPO, Gli «spirituali», cit., pp. 55-129.183 Si veda a riguardo infra, pp. xxx-xxx.

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paolinismo184, non risultasse distante dai convincimenti di fondo di Foscarari, e certamente il tentativo di conciliazione promosso dal cardinale rappresentò per il domenicano una strada da non abbandonare. Pare invece da scartare l’ipotesi che Foscarari avesse letto il De officio episcopi, trattato sulla figura del vescovo composto da Contarini nell’estate del 1517 e dato alle stampe oltre mezzo secolo dopo185. Un sommario raffronto tra i contenuti dell’opera e le linee del successivo governo episcopale di Foscarari porterebbero a escludere un’influenza visibile del testo che, ad esempio, non riservava particolare spazio a strumenti come i sinodi e le visite pastorali o al dovere di residenza. Contarini però non aveva portato a Bologna solo le proprie idee e i propri scritti; al suo seguito vi era, in qualità di segretario, quel Ludovico Beccadelli destinato a diventare uno degli amici più intimi di Foscarari, suo alleato e compagno nelle ultime battaglie conciliari. Appartenente a un’importante famiglia bolognese, Beccadelli era nato nel 1501186. Per coltivare gli studi umanistici si trasferì a Padova dove venne in contatto con alcune delle personalità più significative della crisi religiosa di quegli anni (Gian Matteo Giberti, Pietro Bembo, Alvise Priuli, ecc.). Entrato al servizio di Contarini, strinse legami di amicizia con Bernardino Maffei e Marcello Cervini, allora segretari del cardinale Alessandro Farnese; dopo l’esperienza di Ratisbona giunse a Bologna, trovandovi tra l’altro il Beneficio di Cristo manoscritto inviatogli da Marcantonio Flaminio. Non sappiamo se il soggiorno nella città emiliana, durato qualche mese, fosse stato l’occasione per conoscere Foscarari o se – com’è più probabile – la conoscenza tra i due vada ricondotta a un periodo successivo, coincidente con gli anni in cui Egidio fu maestro del Sacro Palazzo 187. A ogni modo, la stima e la devozione per Contarini costituirono per entrambi un motivo di incontro. Di Beccadelli e delle sue capacità si sarebbe avvalso, benché per brevissimo tempo, anche il legato designato a sostituire Contarini, Giovanni Morone, che il 6 maggio 1544 fece il suo ingresso a Bologna, dove sarebbe rimasto fino al 13 luglio 1548. In città qualcuno si insospettì per la sua scarsa devozione alla Vergine, ai santi, alle reliquie e, ancor più, per il favore accordato ai «lutherani» bolognesi. Dopo la «conversione» valdesiana avvenuta per opera di Reginald Pole e Marcantonio Flaminio sulla strada verso Trento (estate/autunno 1542), un Morone animato da nuovi fervori religiosi si espose incautamente, ed è certo che anche i domenicani ebbero a discutere ripetutamente dei comportamenti

184 A. STELLA, Spunti di teologia contarianiana e lineamenti di un itinerario religioso, in F. CAVAZZANA ROMANELLI (a cura di), Gaspare Contarini e il suo tempo, Atti del convegno, Venezia, 1-3 marzo 1985, Venezia 1988, pp. 147-166. 185 G. CONTARINI, Opera, Parigi 1571, pp. 399-431. Un’analisi del trattato in G. CONTARINI, The office of a bishop / De officio viri boni et probi episcopi, introduced, translated and edited by J.P. DONNELLY, Milwaukee 2002 e G. FRAGNITO, Cultura umanistica e riforma religiosa: il «De officio episcopi», in EAD., Gasparo Contarini: un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988, pp. 79-211. Cfr. anche GLEASON, Gasparo Contarini, cit., pp. 93-98. L’ipotesi che Foscarari avesse letto il De officio è stata formulata da FONTAINE, For the Good of the City, cit., p. 41. 186 Le notizie biografiche su Beccadelli sono tratte da G. ALBERIGO in DBI, 7, pp. 410-413.187 Se non a Bologna, i due si conobbero certamente a Roma. Lo si evince da una lettera del 7 luglio 1550 in cui, con toni confidenziali, Foscarari ringraziava Beccadelli per gli auguri inviatigli dopo la nomina a vescovo di Modena e lo aggiornava su varie questioni che rivelavano un rapporto consolidato. Cfr. BPPr, Ms. pal., 1033/13, cc. 6r-7v.

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da lui tenuti. Lo conferma una deposizione resa da Reginaldo Nerli nel corso del processo inquisitoriale a carico del cardinale milanese188:

Mi ricordo – disse Nerli – che essendo legato monsignor Morone reverendissimo di Bologna, visitando il capo di san Dominico, credo che fusse il dì della sua festa, scandalizò molto i frati che furono presenti, perché a modo loro Sua Signoria reverendissima non s’inginocchiò. Io le lo dissi. Mi rispuose che non parevali che se dovesse far tanta reverenza alle reliquie di sancti come allo santissimo sacramento et a nostro signor Dio, et che molto se maravigliava che i nostri padri dotti et prudenti comportassero tanti lumi alla testa et arca di san Domenico et così puochi nanzi al santissimo sacramento.

Il gesto di Morone palesò, al di là di ogni dubbio, i suoi convincimenti e – come gli inquisitori di San Domenico sapevano – il rifiuto di venerare le reliquie era il sintomo di un contagio più profondo. Sulla base di atteggiamenti analoghi in tutta Italia venivano allora imbastite centinaia di processi, e ai frati predicatori non mancava certo la capacità di capire la portata dello scompiglio che Morone aveva provocato. Con tutto ciò Nerli continuò a difendere l’antico patrono, rivelando il favore di cui il cardinale godeva presso i superiori di San Domenico che, peraltro, non parvero dare seguito a quel trambusto. In convento dunque non si poteva non sapere, e lo stesso Nerli ebbe un colloquio quasi surreale con Morone proprio su quei temi189.

Con monsignor reverendissimo Morone, essendo legato in Bologna [...], parlassimo non so che de l’adoratione della santa croce et delle reliquie di sancti. Monsignor reverendissimo ne parlò falsamente et hereticamente. Io dissi che non stava così la verità et, dichiarando io come si doveva tenere secondo la santa Chiesa catholica romana, rispuose Sua Signoria reverendissima: ‘Et io credo quel tanto che tiene et insegna la santa madre Chiesa catholica romana et, tenendo come dite voi, così tengo io ancora: havete a perdonarmi l’errore ch’io ho detto, perché per molti mei travagli non ho potuto studiare quelle cose, come fu sempre l’animo mio’. A questo dissi io: ‘Signor mio, Vostra Signoria reverendissima non parli di tal cose che non sa, perché si fa tenere puoco catholico, come ho sentito io da molti’. Rispuose: ‘Havete ragione, non parlarò più se non quanto sarò certo essere dottrina della santa madre Chiesa’. Et con tutto ch’io habbi pur parlato con Sua Signoria reverendissima, non ho mai più sentito della bocca sua se non bene et catholicamente.

Legato al concilio di Trento, diplomatico di lungo corso, vescovo e cardinale, Morone si scusava con Nerli per non avere potuto studiare teologia. A meno di non ritenere frate Reginaldo un ingenuo cui toccò in sorte di presiedere numerosi tribunali inquisitoriali, è evidente che le deviazioni dottrinali del legato furono almeno in parte note a quanti allora erano ai vertici di San Domenico, così come alla città di Bologna, agli eretici emiliani, alla curia romana e al Sant’Ufficio. Per capire quanto Foscarari potesse essere coinvolto in tutto ciò, se non altro sotto il profilo istituzionale, è sufficiente valutare gli incarichi che rivestì negli anni della legazione di Morone. Sebbene le biografie segnalino, senza precisazioni, gli insegnamenti da lui svolti in diversi conventi, il ruolo di priore in molte case della provincia utriusque Lombardiae e la nomina a inquisitore di

188 PM 2, I, p. 136 (deposizione del 12-13 luglio 1555).189 PM 2, I, pp. 135-136.

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Bologna, è verosimile che egli sia stato confuso con lo zio190. A quanto si può ricostruire sulla base delle fonti disponibili, negli anni quaranta Foscarari restò in San Domenico, probabilmente in qualità di docente; nel 1546 si addottorò presso l’università di Bologna191 e in quello stesso anno fu designato priore del convento, succedendo al genovese Stefano Usodimare192, allora stretto collaboratore del generale Francesco Romeo da Castiglione, cui sarebbe succeduto193. Il priorato non durò però a lungo per la nomina a maestro del Sacro Palazzo agli inizi dell’anno successivo. La legazione di Morone coincise pertanto con un momento di eccezionale potere dei Foscarari, non solo nella città, ma anche all’interno dell’ordine: nel 1546-47, Stefano era provinciale di Lombardia dopo sette priorati e un lungo mandato come inquisitore, mentre il nipote Egidio si trovava ai vertici del convento bolognese, si preparava a prendere parte alle discussioni conciliari come teologo e, in qualità di priore di San Domenico, suggellava il prestigio raggiunto costituendo un giuspatronato di famiglia in una cappella fuori porta Santo Stefano194. Con ogni evidenza Foscarari e Morone furono in relazione in quegli anni e, tra il contenimento dell’eresia dilagante a Bologna, l’imminente trasferimento del concilio in città e la successione al maestro del Sacro Palazzo Bartolomeo Spina, morto agli inizi del ‘47, i rapporti tra i due dovettero rafforzarsi. Il 4 gennaio 1560 fu lo stesso domenicano a confermare di aver conosciuto Morone la prima volta durante la sua legazione bolognese: il cardinale era solito convocare «frequentissime» l’inquisitore Leandro Alberti per discutere con lui dei casi di eresia che si trovava a fronteggiare e, ogni settimana, i due mangiavano assieme. «Ego – concludeva Foscarari – secum aliquando ibam»195. I colloqui tra Morone e Alberti, cui di quando in quando assistette anche Foscarari, dimostravano quanto l’ufficio inquisitoriale, il governo del convento e la legazione pontificia fossero connessi tra loro e come i priori di San Domenico, al pari dei legati, fossero costantemente informati sulle cause che l’inquisitore si trovava a giudicare. Morone approfittò dell’appoggio di frate Egidio anche in altre circostanze, non ultima la possibilità di servirsi di alcuni dei frati bolognesi per l’insegnamento o la predicazione nella diocesi di cui era titolare196. Come il domenicano ebbe a ricordare, il

190 Così Quétif-Echard, II, p. 184, su cui si basano gli scrittori successivi: «Variis provinciae suae locis et gymnasiis professoris publici munus obire jussus est [...], saepius etiam variisque provinciae Lombadiae locis praefuit in priorem electus». Il nome di Egidio Foscarari, a differenza di quello dello zio, non risulta nei principali repertori degli inquisitori bolognesi; cfr. ad es. il catalogo conservato in ASDBo, III, 77020 e DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit.191 ALIDOSI PASQUALI, I dottori bolognesi, cit., p. 52.192 Su Usodimare cfr. Quétif-Echard, II, p. 143; I. TAURISANO, Hierarchia ordinis praedicatorum, Pars Prima, Roma 1916. 193 Sottoscrizioni di Usodimare in ASDBo, III, 4000, Consilia conventus seu Libri consiliorum, I, pp. 51-52 e ASBo, Fondo Demaniale, S. Domenico, 121/7455 (fasc. C.II°.7). Il suo priorato e quello di Foscarari sono attestati da Prelormo, p. 242 e ASDBo, III, 37050 (registro manoscritto dello stesso Prelormo che in apertura riporta una lista dei priori).194 ASDBo, III, 80502, Annali del convento di San Domenico, II, p. 846 (atto del 19 ottobre 1546). Se ne ha puntuale riscontro tra le carte della famiglia Foscarari in ASBo, Archivio De Bosdari, 595, c. 35v. 195 PM 2, II, p. 966.196 Così fu, ad esempio, per l’invio a Modena di frate Domenico da Bologna, che chiese il permesso a Foscarari, allora priore del convento («instantissime petiit a me, tunc priore Sancti Dominici de Bononia»; PM 2, II, p. 976).

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cardinale fu più volte ospite nel palazzo dei Foscarari197, con i quali strinse un rapporto così solido da poter contare, nel suo processo difensivo, sulla testimonianza non solo di Egidio, ma anche di suo zio Romeo, influente membro del Senato bolognese e più volte ambasciatore a Roma per conto della città198. Sebbene sotto il profilo documentario la formazione di Foscarari rappresenti uno dei periodi più oscuri della sua biografia, non vi è dubbio che in essa vadano cercate le premesse dell’azione da lui svolta dalla fine degli anni quaranta in avanti. Di fronte alla reticenza delle fonti e alle labili tracce rimaste, non si può che procedere per congetture, cercando anzitutto di ricostruire la cornice in cui il domenicano operò. Come si è visto, in San Domenico nacquero amicizie mai rinnegate, affiorarono sensibilità religiose peculiari e si formarono inquisitori postisi su un crinale ambiguo. La compresenza all’interno del convento di alcuni tra i protagonisti della complessa guerra di posizione svoltasi – dentro e fuori la Chiesa – negli anni pre e post-tridentini colloca il chiostro bolognese sotto una luce particolare. Per almeno due generazioni i suoi figli, con temperamenti e modalità differenti, si segnalarono per una posizione originale all’interno dell’ordine, con inevitabili ricadute nel controllo delle insorgenze eterodosse che furono chiamati a fronteggiare come inquisitori, maestri del Sacro Palazzo e teologi. Non è immediato né semplice afferrare cosa tenesse assieme il mite Foscarari, Girolamo Papino o, ancora, Tommaso Maria Beccadelli, Girolamo Muzzarelli e Reginaldo Nerli. Il silenzio della documentazione non ci permette di andare oltre la soglia delle ipotesi, ma un dato emerge senza ombre e impone una riflessione: quegli uomini furono interpreti e promotori di un’altra via nell’intricata contrapposizione cattolico-protestante e, per quanto poterono, nella conduzione del Sant’Ufficio a livello centrale e periferico. Di lì a qualche anno quella stagione fluida, ancora aperta a soluzioni diverse, si sarebbe conclusa e i ranghi dell’ordine si sarebbero compattati. Nel 1547, però, i giochi non erano ancora fatti e, il 3 aprile, per Foscarari si aprirono le porte del Sacro Palazzo199.

197 PM 2, II, p. 979: «Semper familiaritatem habebat cum personis probis et fidei zelatoribus, ut Bononiae cum inquisitore et magistro Thoma Maria Beccatello et archiepiscopo Ragusino [Ludovico Beccadelli] et diversis nobilibus Bononiensibus, ut puta de familia de Castello, de Fuscarariis».198 Per la deposizione di Romeo Foscarari, che difese senza indugi Morone, cfr. PM 2, II, pp. 1533-1543.199 Copia del provvedimento di nomina in ASV, Armadio XLI, vol. 38, c. 350 (n. 196). Cfr. anche TAURISANO, Hierarchia ordinis praedicatorum, cit., pp. 52-53; Prelormo, p. 192 («1547. Circa festa pascalia mortuus est magister sacri palatii frater Bartholomeus Pisanus; successit superius reverendus pater Aegidius Fuscararius»).

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Capitolo SecondoTra teologia e politica

Una teologia di riconciliazione

Benché a inizio aprile Foscarari fosse stato nominato maestro del Sacro Palazzo, un’ultima incombenza ne ritardò la partenza per Roma, trattenendolo, forse fino alla metà del mese, nella città natale. Come noto, dopo false partenze, tentativi di convocazione e veti incrociati, il concilio che avrebbe dovuto pacificare cattolici e riformati prese avvio a Trento il 13 dicembre 1545200. La curia romana non vide mai di buon occhio l’assemblea e, nel 1547, decretò il trasferimento dei lavori a Bologna. Con profonda irritazione di Carlo V, l’assise fu così solennemente riaperta in San Petronio e, come prevedibile, i domenicani bolognesi approfittarono del cambiamento di sede per attingere alla grande riserva di teologi dello Studio: in aula intervennero, tra gli altri, Tommaso Maria Beccadelli, Girolamo Muzzarelli, Reginaldo Nerli e Girolamo Papino, tutti protagonisti, a vario titolo, della trama di relazioni e conoscenze delineata nel capitolo precedente201. Non sono molti i resoconti relativi all’azione di Foscarari e alle posizioni da lui espresse in assemblea. Vale però la pena analizzarle, anche in relazione a quelle degli altri frati appena menzionati per verificare se e in che termini sia possibile individuare orientamenti affini. Durante i lavori bolognesi la discussione si incentrò sul valore del sacrificio eucaristico e della confessione, oltre che sui sacramenti dell’ordine, dell’unzione degli infermi e del matrimonio. La sensibilità di Foscarari iniziò a definirsi sin dalle poche battute che lo videro protagonista. Il 4 aprile 1547, a proposito della penitenza e della confessione auricolare, molti teologi ammisero l’inesistenza di prove scritturistiche convincenti, pur non contestando lo ius divinum che sottostava a una pratica invalsa da secoli nella consuetudine della Chiesa. All’indeterminatezza di queste affermazioni Foscarari rispose richiamandosi non solo alla Confessio Augustana e agli articoli di Ratisbona che avevano riconosciuto la necessità della penitenza, ma anche alla tradizione apostolica: il sacramento e le forme in cui era amministrato risalivano alla Chiesa primitiva («a tempore apostolorum») e, dunque, poggiavano su fondamenta più che solide202. Il ragionamento del domenicano, che in parte rivedrà la sua posizione nel 1551, alla ripresa del concilio sotto Giulio III, mirava a trovare una giustificazione ancorata alla Scrittura e al modello della Chiesa delle origini mostrandosi così sensibile alle esigenze di distensione con il mondo riformato. La stessa attenzione ai protestanti e una tendenza blandamente «antipelagiana» affioravano poi dalle posizioni espresse da Muzzarelli che ricordò come la soddisfazione – l’atto conclusivo del sacramento – potesse realizzarsi solo mediante l’intervento della grazia203. Prova di come quell’impostazione potesse incontrare il favore di uomini inclini a posizioni non 200 Sulla laboriosa preparazione del Concilio, v. SCT, I; per l’apertura II, pp. 20 ss. Uno sguardo di sintesi storica e storiografica in A. PROSPERI, Il Concilio di Trento: una introduzione storica, Torino 2001. 201 Accanto a loro furono anche altri i domenicani di stanza a Bologna che presero parte ai lavori, come Angelo Valentini, Aurelio da Priero ed Eustachio Locatelli. Cfr. Walz, p. 235; CT, VI/1, pp. 837-838. 202 CT, VI/1, pp. 26-27; SCT, III, p. 84. 203 SCT, III, p. 85.

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ortodosse venne dalle adesioni che i due domenicani raccolsero nel corso del confronto. Nel prosieguo delle discussioni, al loro fianco si schierarono personaggi circondati di lì a poco da sospetti di eresia: sulla linea di Muzzarelli si posero l’agostiniano Stefano da Sestino204, collaboratore di Girolamo Seripando, sostenitore della duplice giustizia e vicino agli ambienti valdesiani di Napoli, e fra Padovano Grassi, detto il Barletta, francescano conventuale che avrebbe lasciato l’abito e, arrestato dall’Inquisizione nel 1549, sarebbe stato costretto a rettificare pubblicamente il proprio credo205. Quella convergenza era un’anticipazione di ciò che i due bolognesi avrebbero sperimentato in seguito: l’ispirazione teologica e l’irenismo da cui erano animati si potevano facilmente accostare e accordare, quantomeno operativamente, a sensibilità molto diverse dalla loro, dal pensiero valdesiano all’agostinismo.La volontà di trovare soluzioni condivise (o condivisibili) che potessero riaprire la porta al dialogo con il mondo protestante emerse anche in altre occasioni. Il 22 agosto, ad esempio, Muzzarelli svolse una riflessione sull’eucarestia simile, nei metodi e nello spirito, all’intervento di Foscarari di cui si è detto: partendo dalla Confessio Augustana, il domenicano argomentò che i presupposti teologici dei luterani potevano condurre a individuare nella celebrazione della messa un sacrificio di lode e un rendimento di grazie. Citando Agostino, la tradizione neotestamentaria e gli antichi concili della Chiesa, il frate concluse che, per inevitabile conseguenza logica, gli stessi protestanti avrebbero dovuto riconoscere il valore di sacrificio incruento del sacramento eucaristico206. Sulla capacità dell’eucarestia di conferire la grazia insistette anche Tommaso Maria Beccadelli che, pur non citando i colloqui del ‘41 o gli articoli di Augusta, si sforzò di ricondurre quelle verità alla tradizione apostolica e alle origini della Chiesa207. Erano ragionamenti per molti aspetti contorti e talora cavillosi, che con un richiamo non polemico alle professioni di fede riformate segnalavano il tentativo, illusorio, di promuovere una qualche forma di conciliazione.Quelle sin qui ricordate non furono le uniche circostanze in cui i tre domenicani cercarono di richiamarsi a temi graditi al mondo protestante, come la centralità della mediazione di Cristo e dell’azione divina. Così fu ad esempio per l’applicazione ai defunti delle opere con cui si potevano lucrare le indulgenze: i vivi, spiegò Muzzarelli nella seduta del 13 luglio, pregano Dio perché applichi ai morti il beneficio di tali opere. In questo modo, come notò qualcuno, si depotenziava il significato tradizionale delle indulgenze, accentuandone il carattere di suffragio e favorendo un’assimilazione delle opere fatte per acquistare le indulgenze a buone azioni compiute con l’intento di alleviare la purgazione ultraterrena dei defunti («prosunt indulgentiae defunctis per 204 Su di lui v. P. LOPEZ, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli 1976, pp. 56-58. Un rapido cenno al sostegno da lui dato alle dottrine di Seripando in A. MARRANZINI, Il problema della giustificazione nell’evoluzione del pensiero di Seripando, in A. CESTARO (a cura di), Geronimo Seripando e la Chiesa del suo tempo, nel V centenario della nascita, Roma 1997, pp. 227-269: 262. 205 Sul Barletta v. PM 2, I, pp. 833-834. Per la sua ritrattazione del 1549, stilata peraltro da Foscarari, allora maestro del Sacro Palazzo, cfr. A. BORROMEO, Il dissenso religioso tra il clero italiano e la prima attività del Sant’Ufficio romano, in M. SANGALLI (a cura di), Per il Cinquecento religioso italiano, Clero cultura soietà, Roma 2003, pp. 454-485: 472-473. 206 «Lutherani confitentur quod eucharistia sit commemoratio passionis Christi; ergo necesse est ut etiam confiteantur esse sacrificium; alias ad quid haec simplex commemoratio? [...] Simul cum commemoratione Deo Patri eius [Christi] corpus et sanguinem offeramus». CT, VI/1, pp. 389-390; Walz, pp. 202-203.207 CT, VI/1, pp. 327-328; Walz, pp. 199-200 (2 agosto 1547).

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modum suffragii, non iurisdictionis»). Se poi, evitando forzature storiche, Muzzarelli riconduceva la pratica delle indulgenze a Gregorio Magno e non all’età apostolica, ribadiva tuttavia la piena legittimità per il papa di disporre di quello strumento208. Allo stesso modo Beccadelli, il 23 giugno, pur dubitando dell’esistenza di attestazioni chiare del purgatorio nella Scrittura, si appellava al valore supremo dell’interpretazione ecclesiastica nei casi controversi («in rebus dubiis Scripturae standum est interpretationi Ecclesiae»). Poiché il purgatorio esisteva, come insegnavano la Chiesa e il concilio, anche le indulgenze acquisivano il loro senso: «Il papa – precisava Beccadelli – deve usare di tale autorità secondo l’intenzione di Dio, poiché è dispensatore del suo tesoro»209. Volendo semplificare, le argomentazioni dei tre domenicani si muovevano su binari simili ed erano imperniate sul rigore scritturistico, su un’attenzione al ruolo della grazia e un rinvio frequente alle origini apostoliche. Allo stesso tempo, si adottavano le autorità privilegiate dal mondo protestante, dalla Scrittura ad Agostino, tentando di costruire con le armi della logica un punto di equilibrio fondato sull’accoglimento di alcune premesse della Confessio Augustana, sia pure nel pieno riconoscimento dell’autorità pontificia e dell’unità che scaturiva dall’obbedienza a essa. Le prime battute conciliari di Foscarari e compagni confermerebbero dunque una certa uniformità di metodo e di merito dei vertici del convento bolognese, sebbene non esente da eccezioni. Accantonando posizioni moderate e poco incisive come quelle di Angelo Valentini – personaggio che Foscarari avrebbe ritrovato come inquisitore durante il suo governo vescovile a Modena210 –, l’unica sostanziale divaricazione fu rappresentata da Girolamo Papino, la cui vicenda, del resto, si distingue per spregiudicatezza da quella di tutti gli altri confratelli di San Domenico. Forse per guadagnare visibilità e ingraziarsi la curia romana, il 30 giugno 1547 Papino non esitò a farsi promotore di tesi rigidamente conservatrici (mentre, si ricorderà, inviava al duca di Ferrara dispacci critici sul concilio e la riforma della Chiesa o esortava a mitezza verso gli eretici più pertinaci). Egli riteneva che si dovesse considerare la concessione delle indulgenze un puro atto di giurisdizione – atto di giustizia e non di misericordia – con cui il papa estingueva la pena temporale applicando i meriti di Cristo e dei santi; valido sempre e comunque anche se ispirato da finalità di guadagno211. Mosso verosimilmente dalle attese per la propria carriera, Papino chiudeva a ogni possibile mediazione e, con un doppio gioco senza scrupoli, utilizzava la carta dell’ortodossia e del lealismo dottrinale come patente di abilitazione per gli incarichi cui aspirava.Comunque si posizionassero i domenicani di Bologna, le sorti del concilio sembravano segnate e la fase bolognese ratificò un allontanamento dai

208 SCT, III, pp. 113, 116; CT, VI/1, pp. 288-289 (da cui è tratta la citazione precedente).209 «Pontifex autem debet hac auctoritate uti secundum mentem divinam, ut sit dispensator illius thesauri». Cfr. SCT, III, pp. 118-119. Le due citazioni sono tratte da CT, VI/1, pp. 226-227.210 Valentini fu maestro degli studi in San Domenico (1537-1538), lettore biblico (1538-1539), quindi baccelliere (1547-1548) all’epoca della fase bolognese del Concilio (v. D’Amato, I, pp. 505-506, 508). I suoi interventi in concilio non si distanziarono troppo da posizioni tradizionali, pur segnalandosi per una certa attenzione al testo biblico. Cfr. Walz, ad indicem. Per il ruolo da lui svolto come inquisitore a Modena v. PM 2, pp. 99-100; v. anche FONTAINE, Making Heresy, cit., pp. 44-45. Fu fratello del canonico eretico Bonifacio Valentini, come si evince dal testamento di quest’ultimo in ASMo, Notarile, Modena, 1766, n. 261 (17 novembre 1558). 211 SCT, III, p. 110; CT, VI/1, pp. 245-246.

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protestanti. All’imperatore non restò che intervenire direttamente per cercare un compromesso, evidentemente vitale per i suoi Stati: dopo la vittoria di Mühlberg con cui era riuscito a piegare la lega di Smalcalda, nel 1548 Carlo V impose l’Interim di Augusta, un provvedimento che congelava la situazione esistente, mantenendo i capisaldi della dottrina tradizionale, con deroghe sul celibato ecclesiastico e la comunione sub utraque specie ai laici. Quell’atto costituì agli occhi del papa un’inaccettabile invasione di campo. Per rispondere con argomenti teologici, che tuttavia non tenevano conto delle tensioni politiche che avevano spinto l’imperatore a intervenire, anche a Foscarari fu chiesto di esprimersi in qualità di maestro del Sacro Palazzo. Secondo Hubert Jedin, del suo pensiero resterebbe traccia in uno scritto – una raccolta di considerazioni sull’Interim – sollecitato, forse a margine dei lavori conciliari, da un non meglio precisato cardinale212. Rivolto a Paolo III, il resoconto mirava a mostrare in che cosa l’Interim si discostasse dall’ortodossia e quali proposizioni presentassero cedimenti o ambiguità pericolose sotto il profilo teologico. Dopo aver premesso che solo al papa e al concilio da lui indetto spettava legiferare in materia di fede, l’autore glossava vari passaggi del provvedimento sollevando obiezioni e critiche. In particolare, tra le righe si percepiva la volontà di richiamarsi ai decreti conciliari già esistenti per mostrarne la divergenza dall’Interim e legittimare il concilio come unica sede per la definizione di quelle materie. Sotto il profilo dottrinale si procedeva poi a sviluppare alcune argomentazioni che, a ben vedere, conservavano spiragli di dialogo con il mondo protestante. Contestando l’errato ordine degli «actus poenitentiae», si precisava ad esempio che l’impulso divino produceva anzitutto la fede e in seconda battuta l’odio per il peccato (e non viceversa); si accordava che le opere potevano dare vita eterna solo in virtù della promessa di Dio, pur precisando che il principio dei meriti era il libero arbitrio guidato dalla grazia. Interessanti anche le riflessioni ecclesiologiche che, per individuare l’essenza dell’unità, puntavano anzitutto sull’obbedienza al papa: «L’unità, che è vero segno della Chiesa, consiste in questo: che siamo pecore di un unico ovile e di un unico pastore». Attorno alla potestà pontificia, poi, si addensavano molte altre precisazioni, in base alle quali chi metteva in discussione il primato di Pietro e le definizioni dogmatiche e giurisdizionali che ne discendevano non poteva che essere considerato eretico.Come si è notato a proposito dei pronunciamenti conciliari del gruppo bolognese, anche il testo sull’Interim, forse di Foscarari, sembra confermare una linea basata su una moderata apertura al ruolo della grazia, inderogabilmente subordinata alla conservazione dell’unità della Chiesa sotto la guida del papa. La scivolosità dei testi e le ambiguità delle formule teologiche rendono difficile spingersi oltre. Ciò nonostante, è possibile ipotizzare un quadro dei convincimenti dottrinali di Foscarari che, in buona misura, avrebbero determinato scelte e alleanze successive. Al centro della riflessione del domenicano rimase sempre il valore dell’unità della Chiesa, da cui derivava la necessità di ricomporre gli scismi. In questo senso, la teologia fu, nella concezione di Foscarari, uno strumento attraverso il quale tentare una mediazione e costruire nuovi equilibri, così come aveva fatto 212 CT, XIII/1, pp. 92-98 (che trascrive BAV, Vat. lat., 3931, cc. 1r-39v). Di qui sono tratte le citazioni che seguono (in parte tradotte). Per la probabile attribuzione dello scritto a Foscarari cfr. ivi, p. 92, n. 1. Altre copie manoscritte sono segnalate da Jedin in BAV, Vat. lat., 3554, cc. 290r-316v e Vat. lat., 6209 cc. 266r-277v.

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a Ratisbona Gasparo Contarini quando aveva ottenuto un accordo con i protestanti attraverso definizioni teologiche sfumate. Da questa sensibilità derivava un’ecclesiologia in cui il primato dell’unità sotto la guida dei successori di Pietro si realizzava con il dialogo, la mitezza e la pazienza. L’obiettivo, teologico e pastorale, era unire nel segno della misericordia, e l’eresia più grave era quella che infrangeva la comunione ecclesiale. Qualunque interpretazione si voglia dare dell’esperienza del domenicano, è evidente che, se questi erano i suoi presupposti (desumibili, almeno in parte, dai suoi comportamenti e delle posizioni assunte), egli poté facilmente convergere su concetti che dominarono la discussione religiosa di quei decenni: temi come il «perdono generale», il «cielo aperto», il «beneficio di Cristo» – che costituirono le parole d’ordine dei gruppi orientati a una ricomposizione con il mondo protestante – dovettero suonargli familiari e, per molti aspetti, condivisibili ancorché derivanti da ispirazioni teologiche diverse dalla sua. Lo confermò lo stesso Foscarari nel gennaio 1560 nel corso del processo a carico di Giovanni Morone. Tra i molti punti che fu invitato a chiarire, gli fu chiesto «quid imprimis considerandum sit in Deo, iustitiam an misericordiam». Era una domanda apparentemente semplice, che però toccava il cuore dei convincimenti di chi era chiamato a rispondervi. Citando le Scritture e Tommaso d’Aquino – i cardini della sua formazione –, l’ormai vescovo di Modena espose la sua visione:

Dico che è scritto che la misericordia è superiore al giudizio; di qui ne discende che tra le virtù al primo posto si trova la misericordia, cosicché la si può definire massima, e Dio per questa via manifesta la sua onnipotenza; e [si legge] presso san Tommaso che, benché l’amore negli angeli e negli uomini sia superiore alla misericordia, in Dio invece la misericordia ha il primo posto213.

Il contesto in cui quelle parole erano pronunciate – un tribunale inquisitoriale, dove sedevano gli stessi giudici che, come vedremo, avevano incarcerato Foscarari nei mesi precedenti – rendeva la dichiarazione ancora più significativa. Il primato della misericordia era proclamato senza ambiguità, e la mitezza veniva proposta come l’attributo principale di Dio e la maggiore delle virtù cui l’uomo potesse aspirare. Non sorprende perciò che, pur lontano dall’adesione a dottrine eterodosse, Foscarari finisse con l’avvicinarsi a personaggi sospetti – in primo luogo gli «spirituali» –, alla ricerca di una riforma della Chiesa.

Il controllo della stampa: dall’Indice dei libri proibiti agil Esercizi spirituali

La teologia proposta da Foscarari, incentrata sulla misericordia e sulla ricomposizione dell’unità della Chiesa, avrebbe presto dovuto fare i conti con gli scontri che laceravano la curia romana. Dopo la breve partecipazione alla fase bolognese del concilio, il trentacinquenne Egidio partì infatti per Roma per ricoprirvi l’incarico di maestro del Sacro Palazzo. La sua candidatura era prevalsa su quella del confratello Vincenzo Villa da Piacenza, già reggente degli

213 Traduzione da PM 2, II, p. 986 («Dico scriptum esse quod misericordia superexultat iuditium, dehinc quod primum inter virtutes locum tenet misericordia ita ut maxima dicatur, et Deus omnipotentiam suam hac ratione manifestat; et apud divum Thomam, licet charitas in angelis et hominibus maior sit misericordia, in Deo tamen misericordia primum habet locum»).

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studi a Bologna e raccomandato al papa da alcuni illustri prelati214. Paolo III decise tuttavia di accondiscendere alle richieste del Senato bolognese che caldeggiò con insistenza la nomina di un esponente del patriziato cittadino. «Oltra le molte altre parole dette honoratamente verso le singulari virtù et meriti di esso frate Egidio», il papa si era «risoluto di fare la elettione predetta per rispetto di questa città»215, dovendo in ciò superare resistenze autorevoli come quelle dei cardinali Morone – le cui relazioni con Foscarari non dovevano ancora essere così solide come in seguito216 –, Sadoleto, Cortese, Gambara e Duranti217. Quando giunse a Roma, il nuovo maestro del Sacro Palazzo trovò sul tavolo questioni che lo assorbirono in misura crescente, portandolo a confrontarsi con le grandi sfide che si prospettavano alla Chiesa in quegli anni. Dopo l’istituzione dell’Inquisizione nel 1542, prese sempre più corpo l’idea che, per arginare gli errori sparsi dai protestanti, non si potesse prescindere da un intervento sulla stampa che, in effetti, era stata uno dei principali canali di diffusione delle idee riformate in Italia e in Europa218. In questo contesto, una serie complessa – e non del tutto chiara – di circostanze condusse Foscarari a occuparsi della stesura del primo Indice dei libri proibiti predisposto dalle autorità romane. Come noto, ai maestri del Sacro Palazzo, in quanto teologi papali, spettava un compito di controllo sulla produzione libraria a Roma e nel suo distretto, esercitato anche all’indomani della nascita del Sant’Ufficio e persino della congregazione dell’Indice219. Nel 1549, quando Foscarari fu coinvolto nella stesura di un primo Indice romano, erano già comparsi i cataloghi delle Università di Parigi e Lovanio e quello dell’Inquisizione spagnola220. Anche a Venezia, il maggiore centro editoriale italiano, il nunzio Giovanni Della Casa si era fatto promotore di un Indice che consentisse ai librai di stabilire quali testi avessero contenuti eterodossi e, il 7 maggio del ‘49, dai torchi dell’editore Valgrisi uscì un elenco di 149 titoli proibiti221. Grazie all’appoggio del governo veneto, i librai riuscirono 214 Villa fu raccomandato al cardinale Alessandro Farnese dal vescovo di Matera Giovanni Michele Saraceno, come «huomo daben et dotto [...], vertuoso et da Piacenza»; cfr. CT, VI/1, p. 24, n. 10; ivi, XI, 160, n. 2.215 Cfr. ASBo, Senato, Lettere, serie I, registro 8, c. 249v; lettera dei Quaranta all’oratore bolognese a Roma, in cui si riprendeva quanto riferito da quest’ultimo (minuta; 13 aprile 1547). 216 Lo ricordò lo stesso Foscarari ricostruendo i suoi rapporti con Morone: «Aucta est cognitio [cardinalis Moroni] cum hic essem Romae magister Sacri Pallatii» (PM 2, II, p. 966).217 La notizia è contenuta in una lettera inviata da Alessandro Marsili a Folco Lombardo (Roma, 2 aprile 1547), in cui così si legge: «Messer Antonio di Castello et io havemo messo sosopra tutta questa corte perché frate Egidio Fuschararo sia magistro Sacri Palatii, et così hieri ne fu fatta la gratia, non ostante che ci fussero adversarii Morone, Sadoletto, Cortese, Gambaro et Durante, et hiersera ne basciai li piedi al papa» (ASBo, Archivio Malvezzi Campeggi, serie III, b. 532). Le fonti non rivelano le ragioni di tale opposizione né quale fosse il candidato eventualmente proposto dai cardinali menzionati. 218 Cfr. in sintesi M. INFELISE, I libri proibiti. Da Gutenberg all’Encyclopedie, Roma-Bari 2007; V. FRAJESE, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia 2006. 219 Cfr. G. FRAGNITO, La censura libraria tra Congregazione dell’Indice, Congregazione dell’Inquisizione e Maestro del Sacro Palazzo (1571-1596), in U. ROZZO (a cura di), La censura libraria nell’Europa del secolo XVI, Udine 1997, pp. 163-175. 220 V. nell’ordine ILI, 1, 2 e 4.221 Per l’Indice veneziano, v. ILI, 3, pp. 41 ss.; P. GRENDLER, L’Inquisizione romana e l’editoria a Venezia (1540-1605), Roma 1983 [ed. or. Princeton 1977]; A. DEL COL, Il controllo sulla stampa a Venezia e i processi di Antonio Brucioli (1548-1559), in «Critica storica», III (1980), pp. 457-510; M. JACOVIELLO, Proteste di editori e librai veneziani contro l’introduzione della censura sulla

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immediatamente a bloccarne l’applicazione, sollevando l’argomento della mancata esistenza di norme analoghe a Roma, città del papa, dove non era in vigore alcun Indice («a Roma non si è fatto catalogo alcuno, anzi si vendono ogni sorte di libri»222). Se a Roma non si proibiva alcun libro, perché farlo a Venezia? L’obiezione era di non poco conto e, potenzialmente, avrebbe potuto offrire più di un alibi a quanti desideravano opporre resistenza ai provvedimenti censori delle autorità cattoliche. Contrariamente a quanto si protestava da Venezia, nell’Urbe però non si era con le mani in mano: il 7 maggio 1549 – lo stesso giorno in cui si era stampato il catalogo veneziano – erano comparsi di fronte ai commissari del Sant’Ufficio e a Foscarari alcuni librai romani capeggiati da Francesco Tramezzino223. Quest’ultimo chiedeva e otteneva che il domenicano Teofilo Scullica224, stretto collaboratore di Carafa e commissario del Sant’Ufficio, tenesse aggiornata una lista dei testi «suspecti, scadalosi aut heretici», trascrivendola in un apposito libretto che lo stesso Tramezzino avrebbe conservato e diffuso presso gli altri librai225. Non è chiaro che sorte ebbe il libretto di Scullica, probabilmente rimasto manoscritto presso Tramezzino; ma sulla base di quella delibera l’azione del domenicano dovette proseguire per qualche tempo, se non altro sul mercato romano226. A determinare quella decisione erano stati verosimilmente più fattori concomitanti, dal protagonismo di Carafa, sempre in prima linea nell’azione repressiva del Sant’Ufficio, all’opportunità intravista da Tramezzino di poter acquisire una posizione dominante nel mercato librario romano. stampa a Venezia, in «Archivio storico italiano», CLI (1993), pp. 27-56; FRAJESE, Nascita dell’Indice, cit., pp. 60-65. Su Della Casa v. C. MUTINI in DBI, 36, pp. 699-719.222 Lettera del nunzio Della Casa al cardinale Alessandro Farnese dell’8 giugno 1549; edita in L. CAMPANA, Monsignor Giovanni Della Casa e i suoi tempi, in «Studi storici», XVII (1908), pp. 145-282: 273-274. La lettera è stata ripresa in molte delle opere citate di sopra.223 Su Tramezzino v. F. ASCARELLI, M. MENATO, La tipografia del ‘500 in Italia, Firenze 1989, ad vocem; A. TINTO, Annali tipografici dei Tramezzino, Venezia 1966.224 Su Scullica v. la nota biobibliografica in M. FIRPO, Il primo processo inquisitoriale contro il cardinal Giovanni Morone (1552-53), in ID., Inquisizione romana e Controriforma, cit., pp. 243-314: 258-259, n. 57, e H. SCHWEDT, Die Anfänge der römischen Inquisition. Kardinäle und Konsultoren 1542 bis 1600, Freiburg im Breisgau 2013, p. 234.225 ACDF, S.O., Decreta 1548-1558, cc. 9r-v: «Tremezinus una cum Salamancha et nonnullis aliis librariis in fine congregationis co<m>paruerunt coram reveredissimis et petierunt sibi dari listam librorum omnium vendi prohibitorum ne contraveniant inadvertenter et signanter. Dictus Tramezinus petiit describi illos per magistrum Theophilum in quodam libello qui sit penes ipsum Tramezinum et ipse Tramezinus suscepit in se onus aliis omnibus librariis denunciare et sic illi presentes consenserunt et institerunt una cum dicto domino Francisco Tramezino. Ex tunc prefati reverendissimi domini cardinales mandaverunt magistro Theophilo eorum subdelegato presenti, quod annotet in dicto libro omnes libros vendi prohibitos et retineat copiam illorum penes se et sic in dies prout evenerint libri suspecti, scandalosi aut heretici qui veniant prohibendi in dicto libretto annotet manu sua et dictus dominus Tramezinus, ibidem presens et acceptans, significet aliis librariis prout onus huiusmodi petens ex se et acceptans promisit eisdem reveredissimis dominis cardinalibus et ita dicti reverendissimi mandaverunt ad predictam petitionem et instantiam ut librarii sint certi quos prohibeantur vendere libros». La trascrizione è tratta dall’originale. Cfr. anche P. GODMAN, The saint as censor. Robert Bellarmine between Inquisition and Index, Leiden 2000, p. 313, con qualche lieve divergenza. Sull’Indice romano v. ILI, 8, pp. 29-30 per le vicende qui trattate.226 Questo lascerebbe intuire la confisca di alcuni libri consegnati alla Biblioteca Vaticana nel 1551 e riposti in una «camera secreta»; cfr. A. BORROMEO, Aspetti della riforma della Chiesa dopo il concilio di Trento nelle fonti della Biblioteca Vaticana, in: Storia della Biblioteca Apostolica Vaticana, 2, La Biblioteca Vaticana tra Riforma cattolica, crescita delle collezioni e nuovo edificio (1535-1590), a cura di M. CERESA, Città del Vaticano 2013, pp. 237-259: 242.

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A ogni modo, poche settimane dopo quei fatti, il 25 giugno, la congregazione inquisitoriale si riuniva di nuovo incaricando il procuratore dei domenicani Stefano Usodimare e il maestro del Sacro Palazzo Foscarari di prendere in esame i cataloghi di Lovanio e Parigi e, valutato ciò che mancava o si doveva correggere, procedere a redigere un nuovo elenco227. La povertà delle fonti non esplicita le ragioni di quella sostituzione, così come è difficile esprimersi sugli eventuali nessi tra il libretto di Scullica e il lavoro dei due designati. Non è tuttavia eccessivo ricondurre quell’avvicendamento alla strategia di contenimento del Sant’Ufficio avviata da Paolo III – impegnato nei suoi ultimi tempi a «raffrena[re] il rigore degli inquisitori»228 – e culminata durante il pontificato del suo successore. Arenatisi i lavori, ci vollero ci vollero altri tre anni perché il 14 giugno 1552 il Sant’Ufficio riesaminasse la questione: si decise così di affidare al nuovo maestro del Sacro Palazzo, Girolamo Muzzarelli, a Stefano Usodimare e ad Arcangelo Bianchi da Pavia229 la stesura di un Indice romano dei libri proibiti230, fattosi sempre più urgente anche a causa delle richieste provenienti da Inquisizioni locali come quelle di Firenze e Venezia. I tre incaricati – i primi due uomini di fiducia del regnante Giulio III, il terzo dell’intransigente Michele Ghislieri – erano la prova delle contrapposizioni che caratterizzavano il sacro collegio e dei precari equilibri che si erano venuti a creare. Ancora una volta, però, i lavori non condussero all’esito sperato e il catalogo romano non vide la luce. Sulle traversie di quegli anni si espresse, nel 1555, lo stesso Ghislieri, ormai rassicurato dall’elezione al soglio pontificio di Paolo IV Carafa che, nel giro di pochi anni, avrebbe emanato il primo severissimo Indice pontificio. Interrogato dall’ambasciatore veneziano Domenico Morosini, riportò una versione dei fatti che aggiungeva dettagli rispetto a quanto riportato nei documenti ufficiali. Secondo fra Michele, «il carico» di compilare «un catalogo delli libri che chiaramente erano heretici et un altro di quelli che loro haveano per dubii» era stato conferito nel 1549 «al mastro di Sacro Palazzo, che hora è vescovo di Modena [Foscarari], et al reverendissimo cardinal di Fano [Pietro Bertano], che all’hora non era cardinale». Pochi anni dopo, verso il 1552, quando il vicario del vescovo di Firenze aveva richiesto a Roma una lista di libri proibiti per «sapere come proceder nelle cause di heresia», gli era stato spedito un Indice manoscritto «fatto dal mastro di Sacro Palazzo» (in quel momento Girolamo Muzzarelli). Giunta un’analoga richiesta dal nunzio di Venezia, gli venne inviato «lo istesso [Indice] mandato al vicario di Fiorenza», che – secondo Ghislieri – venne poi stampato a Venezia nel 1555231. 227 ACDF, S.O., Decreta 1548-1558, c. 13r: «Magister Stephanus procurator et magister sacri palatii videant cathalogos Lovaniae et Parisiorum et considerent si quid sit addendum, adhibitis relligiosis doctis, si eis videbitur quos maluerint. Considerent et faciant cathalogum et referant»; cfr. GODMAN, The saint as censor, cit., p. 313. 228 Così lo descrisse Girolamo Federici; cfr. PM 2, II, p. 1019.229 Dal 1551 fu collaboratore di Michele Ghislieri presso il Sant’Ufficio. Dopo aver svolto il ruolo di priore in molti conventi (Cremona, Milano e Santa Sabina a Roma), fu nominato commissario del Supremo Tribunale, inquisitore a Genova, cardinale e infine prefetto della Congregazione dell’Indice. Su di lui, si veda la scheda bio-bibliografica in SCHWEDT, Die Anfänge, cit., pp. 77-78. 230 ACDF, S.O., Decreta 1548-1558, c. 70v: «Fiat cathalogus librorum proibendorum per magistrum sacri palatii, magistrum Stephanum, fratrem Arcangelum et alios fratres quos elegerint coadiutores ad videndum»; cfr. in GODMAN, The saint as censor, cit., p. 315.231 Lettera di Domenico Morosini ai membri laici dell’Inquisizione veneziana (6 luglio 1555), conservata in ASVe, Santo Uffizio, Processi (librai e libri proibiti, 1545-1571), b. 156; edito in

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Come si vede, il racconto appena riportato delinea una situazione alquanto articolata che complica la ricostruzione. Combinando il resoconto di Ghislieri e le scarne annotazioni dei verbali del Sant’Ufficio, dopo aver ripreso gli Indici di Lovanio e Parigi nel 1549, le autorità romane avvertirono la necessità di elaborare un elenco che non si limitasse a recepire gli indici stilati altrove. Si imbastì pertanto un lavoro di revisione dei cataloghi esistenti, in cui fu certamente coinvolto Foscarari, assistito da Stefano Usodimare o, secondo le parole di Ghislieri, da Pietro Bertano, non ancora cardinale232. Sulla base dell’incarico ricevuto, Foscarari e i suoi coadiutori avrebbero compilato due elenchi – mai stampati in attesa di ulteriori valutazioni –, il primo contenente libri palesemente eretici, il secondo relativo a testi di dubbia ortodossia. Nel giugno del ‘52 Muzzarelli raccolse il testimone dal predecessore e, su ingiunzione del Sant’Ufficio, riprese il lavoro dell’Indice, probabilmente aggiornando e completando l’elenco di Foscarari. Intorno a quella data, le Inquisizioni di Firenze e Venezia chiesero alle autorità romane indicazioni puntuali su libri e testi da proibire anche in relazione alla crescente attività dei rispettivi tribunali. Il 28 marzo 1552 i giudici fiorentini avevano già emanato il decreto Ad extirpandas omnes haereses con cui proibivano ogni libro sospetto, «praesertim omnia opera fratris Bernardini Ochini, fratris Iulii Mediolanensis et Antonii Brucioli» – una goccia nel mare della produzione filoriformata dell’epoca233. Data la genericità del provvedimento, tra la seconda metà del 1552 e gli inizi del ‘53 il vicario del vescovo di Firenze interpellò il Sant’Ufficio per avere disposizioni più precise, ricevendone il catalogo manoscritto e mai stampato di Foscarari aggiornato da Muzzarelli234. Una situazione simile si verificò un anno più tardi, quando il nunzio a Venezia Filippo Archinto235 – nominato il 26 giugno 1554 – chiese alla congregazione romana delucidazioni sui libri da proibire, ottenendo nuovamente l’Indice Foscarari-Muzzarelli. Forse per la continuità operativa tra i due maestri del Sacro Palazzo, forse per un banale lapsus236, nel ricostruire la genesi dell’elenco spedito da Roma Ghislieri menzionò il solo Foscarari senza esplicitare l’apporto dato dal suo successore. Ciò nonostante, la ricostruzione offerta a Morosini consentirebbe di identificare, almeno in parte, l’indice Foscarari-Muzzarelli con il Cathalogus librorum haereticorum stampato a Venezia nel 1554 e revocato, con il tacito assenso di Roma, il 29 settembre 1555237.

JACOVIELLO, Proteste di editori, cit., pp. 50-51; ILI, 3, pp. 50-51, n. 56.232 La partecipazione di Bertano (e non di Usodimare) alla compilazione del primo Indice è l’unico punto in cui la testimonianza di Ghislieri e i Decreta del Sant’Ufficio divergono in modo sostanziale. È possibile che l’aiuto prestato da Bertano si profilasse in un momento successivo alla delibera del Sant’Ufficio, forse in sostituzione o in aggiunta a Usodimare. 233 M. FIRPO, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino 1997, p. 373.234 Per la datazione della richiesta fiorentina, cfr. ILI, 3, p. 52, che rinvia a F. HUBERT, Vergerios publizistische Thätigkeit nebst einer bibliographischen Übersicht, Göttingen 1893, pp. 257-258. L’Indice fiorentino è datato tra la fine del 1552 e gli inizi del 1553 anche da U. ROZZO, Pier Paolo Vergerio censore degli Indici dei libri proibiti, in ID. (a cura di), Pier Paolo Vergerio il Giovane, un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento, Udine 2000, pp. 143-177; v. anche le precisazioni di E. GARAVELLI, Lodovico Domenichi e i «Nicodemiana» di Calvino. Storia di un libro perduto e ritrovato, Manziana 2004, p. 97. 235 Su Archinto, v. G. ALBERIGO in DBI, 3, pp. 761-764.236 Questa l’interpretazione di FRAJESE, Nascita dell’Indice, cit., p. 66, n. 71.237 JACOVIELLO, Proteste di editori, cit., p. 53, n. 57, che cita ASVe, Santo Uffizio, Processi (librai e libri proibiti, 1545-1571), b. 159, fasc. V, f. 5.

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Il controllo della stampa e l’elaborazione di un primo Indice romano rappresentarono per Foscarari l’avvio di un percorso ripreso e portato a termine negli ultimi mesi di vita, quando nel 1564 gli sarà affidato l’incarico di redigere l’Indice tridentino. L’ufficio di maestro del Sacro Palazzo e l’inevitabile coinvolgimento nelle questioni censorie non furono tuttavia solo fonte di difficoltà. In quell’ufficio, Foscarari seppe infatti guadagnare un credito rilevante da parte di uno degli ordini destinati a influire maggiormente sugli equilibri politico-religiosi degli anni successivi: la Compagnia di Gesù. Nella loro elusività238, le fonti gesuitiche sono concordi nell’annoverare il domenicano tra i fautori della Compagnia, riferendosi in particolare al ruolo svolto nel processo di revisione e approvazione degli Esercizi ignaziani. Senza poter qui ripercorrere nel dettaglio la complessa vicenda del testo, basti ricordare come accanto al cosiddetto Autografo – l’esemplare in castigliano corretto dallo stesso Ignazio – esistessero due versioni latine (denominate Vulgata e Versio prima) basate sulla copia rivista da Ignazio e approvate da Paolo III prima oralmente (1547), poi in via ufficiale (31 luglio 1548)239. Papa Farnese le aveva sottoposte a una commissione teologica composta dal cardinale Juan Álvarez de Toledo, da Foscarari e dal governatore di Roma Filippo Archinto. I giudizi espressi su entrambe le versioni erano stati positivi; non vi è dubbio però che le parole del maestro del Sacro Palazzo sovrastassero quelle dei colleghi per entusiasmo. Se dopo aver letto la prima traduzione latina Álvarez aveva considerato i contenuti degli Esercizi «ad animarum salutem conducibilia» e Archinto aveva parlato di «opus omni laude dignum et christianae professioni proficuum», Foscarari era andato oltre: «Non poterunt tam sancta exercitia non maximum commodum praestare cuilibet studioso. Ideo obviis etiam ulnis amplectenda sunt». Un anno dopo la valutazione si faceva ancora più articolata e lusinghiera: «Cum nequeat subsistere diu christiana religio sine exercitiis et meditationibus aliquibus spiritualibus (in meditatione enim, inquit vates, exardescit anima mea) nullas arbitror magis opportunas his, quae proculdubio ex Scripturarum studiis et longo rerum usu natae sunt»240. Foscarari formulava un giudizio fondato sulla centralità del testo biblico da cui gli Esercizi erano scaturiti: poiché la fede non poteva durare a lungo senza il sostegno di meditazioni ed esercizi spirituali, niente era più indicato dell’opera ignaziana. Ancora una volta non è difficile scorgere dietro le parole del bolognese un’attenzione ad argomenti teologici ben precisi, a partire dal valore della Scrittura. Di fronte al silenzio delle fonti sugli anni romani di Foscarari, è difficile capire se dietro quella convergenza stessero anche motivazioni di altro tipo, legate agli equilibri interni alla curia romana. Comunque sia, quell’appoggio convinto non sfuggì ai gesuiti e al loro fondatore, che apprezzarono costantemente il domenicano come speciale

238 Sui problemi posti dalle fonti relative alle origini della Compagnia v. G. MONGINI, Ad Christi similitudinem. Ignazio di Loyola e i primi gesuiti tra eresia e ortodossia. Studi sulle origini della Compagnia di Gesù, Alessandria 2011. 239 Non si entra qui nelle complesse questioni filologiche poste dalla stratificazione testuale degli Esercizi, su cui anche la storiografia gesuitica continua a dibattere. V. per tutti IGNAZIO DE LOYOLA, Exercitia spiritualia, a cura di J. CALVERAS e C. DE DALMASES, Roma 1969, con ampia introduzione.240 Per i pareri citati ivi, p. 417. L’approvazione di Foscarari, Álvarez e Archinto era esplicitata anche nella lettera di Paolo III Pastoralis offici cura del 31 luglio 1548: ivi, pp. 76-78.

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amico della Compagnia241. A restituire in maniera vivida quel debito di gratitudine è, tra le altre, una lettera scritta da Juan de Polanco, a lungo segretario dell’ordine: «Io per me et tutta nostra minima Compagnia – confidò a Foscarari il 13 dicembre 1551 – haveriamo charissimo poter [...] servire a Vostra Signoria in servitio de Dio nostro Signore, come siamo specialmente obligati, cominciando dal tempo che Vostra Signoria reveredissima era maestro del Sacro Palacio et, sì nel testimonio delli nostri Essercitii spirituali sì etiam in molte altre cose che occorseno, ci dimostrò tanta charità et benevolentia nel Signor nostro, che saria tropo ingratitudine se mai ci dimenticassimo»242. Tra le «molte altre cose» cui alludeva Polanco ci fu, forse, il sostegno alla Casa dei catecumeni che Ignazio aveva istituito a Roma243; ma più di tutto nella memoria della Compagnia si fissò la riconoscenza per l’approvazione degli Esercizi. Nell’accostarsi, in virtù del proprio incarico, a un tema delicatissimo come quello della censura e del controllo della stampa, Foscarari ebbe dunque modo di affrontare sia le secche del primo Indice romano sia l’approvazione degli Esercizi spirituali. Quegli episodi lo misero a contatto con le diverse istanze che si andavano profilando dentro e fuori la Chiesa e che, verso la fine del suo mandato romano, si sarebbero riproposte non più in materia di libri, ma di uomini.

Tra Sant’Ufficio e «spirituali»

Un altro fronte su cui Foscarari dovette misurarsi durante i suoi anni a Roma fu il contrasto al dissenso religioso. Lo strutturarsi della congregazione del Sant’Ufficio e, soprattutto, l’utilizzo che ne fece il suo padre fondatore, Gian Pietro Carafa, posero non pochi problemi. Il cardinale Teatino non mancò infatti di servirsi del nuovo tribunale e dei suoi agenti per raccogliere prove contro il gruppo degli «spirituali», seguaci dell’eterodosso spagnolo Juan de Valdés e del suo «erede» Marcantonio Flaminio. Per il ruolo che ricopriva, Foscarari non poté non prendere una posizione, specialmente quando si iniziò a profilare una crescente divaricazione tra le strategie del Sant’Ufficio e la politica papale. A offrire un aiuto per decifrare la posizione del domenicano è una sequenza ravvicinata di eventi, su cui di seguito cercheremo di fare luce. Nel giro di un anno, dall’estate del ‘49 a quella del ‘50, Foscarari fu coinvolto in tre avvenimenti che possono essere letti l’uno in relazione all’altro: il processo al canonico Ippolito Chizzola, legato agli «spirituali», il presunto ritorno all’ortodossia di Marcantonio Flaminio, morto nel febbraio 1550, e la successione al vescovato di Modena, fino ad allora governato da Giovanni Morone che nella diocesi emiliana aveva lasciato ampie prove dei suoi convincimenti eterodossi. Sullo sfondo, il burrascoso conclave dell’inverno 1549, in cui Carafa ostacolò l’elezione di Reginald Pole esibendo scritture (vere o presunte) sull’eresia del cardinale d’Inghilterra. Andiamo con ordine. Nel luglio 1549, sulla base di notizie provenienti da varie parti d’Italia, la congregazione del Sant’Ufficio decise di convocare a Roma il 241 Cfr. in sintesi M. SCADUTO, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, III, L’epoca di Giacomo Lainez, Il governo 1556-1565, Roma 1964, p. 521.242 MHSI, Epp. et instr., IV, p. 25. 243 Nel luglio 1550, Foscarari indirizzava presso la Casa di Roma un certo Lazzaro suo «amicissimo» che aveva «lasciata la caligine hebrea». Nella missiva riservava parole di apprezzamento per l’iniziativa dei gesuiti in campo conversionistico. Cfr. BPPr, Ms. pal., 1033/13, cc. 6r-7v.

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bresciano Ippolito Chizzola, un canonico regolare lateranense che, dopo aver suscitato clamori a Cremona, aveva predicato in modo sospetto a Venezia. Il religioso aveva messo in dubbio la dottrina tradizionale della confessione e vari capisaldi dell’ortodossia cattolica244. Nel giro di qualche anno avrebbe abiurato i propri convincimenti, diventando agente di Cosimo I de’ Medici e solerte controversista antiprotestante. Nell’estate del 1549, evidentemente, di quella carriera al servizio della Chiesa romana non si immaginava ancora nulla, e a giudicare il canonico per le sue deviazioni furono chiamati Foscarari e Scullica, i cui nomi si erano già trovati uno affianco all’altro nella vicenda dell’Indice dei libri proibiti. L’accostamento di due teologi tanto diversi – il primo uomo di fiducia di Paolo III, il secondo di Gian Pietro Carafa – è stato letto come una prova della volontà del papa di vigilare sull’operato dei giudici di fede245. A una prima lettura, gli atti del processo Chizzola non mostrano particolari divergenze di comportamento tra i due teologi, se non per quanto riguarda l’impostazione che diedero agli interrogatori. A ben guardare, infatti, il costituto del 15 luglio 1549246 – l’unico cui Foscarari prese parte – puntò ad accertare i contorni dottrinali attribuiti dall’imputato alla confessione e, in misura minore, all’ordine sacro e all’eucarestia, con un’attenzione specifica alle implicazioni ecclesiologiche che ne derivavano. Il religioso fu interrogato, ad esempio, sulla validità del precetto ecclesiastico della confessione annuale, sulla legittimità dell’istituzione dei confessori da parte della Chiesa, sull’articolo di fede «credo unam sanctam Ecclesiam catholicam», sul primato di Cristo come «caput Ecclesiae» e sulle ricadute di quel principio sulla potestà pontificia. Per accertare poi il possesso di libri eretici o sospetti precisò che tali erano da intendersi quelli «contra dogmata romanae Ecclesiae obloquentes», sottolineando di nuovo l’esigenza di preservare la comunione ecclesiale. Le domande ora ricordate potrebbero sembrare, e in certa misura furono, semplici domande di routine. Eppure se si confrontano con quelle poste negli interrogatori precedenti247, presenziati da Scullica, si può osservare come l’obiettivo del teologo di Carafa fosse la ricostruzione della trama di complicità e coperture di cui il bresciano aveva goduto, piuttosto che un’analisi dei contenuti della sua predicazione. Una prova ulteriore è offerta dagli ultimi esami cui Chizzola fu sottoposto: il 1° agosto 1549, come in precedenza, Scullica accordò ampio spazio alle connivenze dell’imputato, cercando sotto il profilo dottrinario segni scoperti di eresia, dall’adesione alla giustificazione per fede sino alla lettura del Beneficio di Cristo248. Insomma, più che deviazioni teologiche si cercavano complici.A chiudere il processo fu però un altro evento, giunto inaspettato. Le compromissioni di Chizzola furono svelate oltre ogni dubbio da una lettera scrittagli dal confratello Celso Martinengo, di lì a poco esule religionis causa in Svizzera, e intercettata dai giudici. Nella missiva, del 15 febbraio 1551, Martinengo sottoponeva all’amico «tre dubii lutherani da consultare col reverendissimo d’Inghilterra [Pole], Morone, il patriarca d’Aquileia [Giovanni Grimani] e ‘l vescovo di Bergomo [Vittore Soranzo]»: erano i nomi e le prove

244 Sulla vicenda di Chizzola: G. CARAVALE, Predicazione e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento. Ippolito Chizzola tra eresia e controversia antiprotestante, Bologna 2013. 245 Ivi, p. 58. 246 Edito ivi, pp. 193-210. 247 Cfr. primo costituto di Chizzola, 14 luglio 1549: ivi, pp. 185-192.248 Cfr. terzo costituto di Chizzola: ivi, pp. 211-223.

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che Scullica e Carafa desideravano249. Mentre dunque gli interrogatori di Foscarari si rifugiavano nelle formule sfuggenti della teologia, probabilmente per offrire al canonico una qualche via di uscita e alleggerirne la posizione, Scullica mirava a fissare sui verbali inquisitoriali la complicità degli «spirituali». Il processo Chizzola restituiva in maniera visibile le divisioni della curia romana che avevano nel Sant’Ufficio uno dei loro scenari principali. Tuttavia, il processo Chizzola non costituì un caso isolato. Se guardiamo i verbali della congregazione, la partecipazione del maestro del Sacro Palazzo è un dato costante a partire dall’autunno del ‘48: Foscarari risulta presente, insieme ai cardinali inquisitori e, molto spesso, ai confratelli Scullica e Usodimare, a pressoché tutte le sedute, da quella del 24 ottobre 1548250 – la prima appuntata nei Decreta del Sant’Ufficio – a quella del 20 maggio 1550251

(tre giorni prima di essere nominato vescovo di Modena). L’intervento di Foscarari al processo Chizzola si inseriva pertanto in una prassi già avviata che, almeno dagli ultimi mesi del 1548, vedeva una sorveglianza dei giudici di fede da parte di fiduciari del pontefice. Se da un lato questo consente di anticipare alla fine del regno di Paolo III lo scontro tra papa e Inquisizione che divamperà in modo clamoroso durante il governo del suo successore, dall’altro svela il ruolo “anti-inquisitoriale” che sin dal ‘48 Foscarari svolgeva. Di fronte a tali considerazioni, può acquistare nuova luce un secondo episodio su cui, con racconti di segno opposto, si misurarono le tradizioni che facevano capo agli «spirituali» e a Carafa: la morte di Flaminio. Foscarari fu chiamato in causa da alcuni dei protagonisti di quei giorni, secondo una cronologia cui bisogna porre particolare attenzione. La prima e unica volta in cui venne esplicitamente menzionato fu nel 1553. Il 29 aprile di quell’anno Filippo Gheri, fidato segretario di Morone, scriveva all’amico e nunzio a Venezia Ludovico Beccadelli per informarlo dell’incontro svoltosi nella basilica di San Paolo fuori le Mura tra il cardinale d’Inghilterra e il cardinale Teatino, a tre anni dal burrascoso conclave in cui, come accennato, la candidatura di Pole era stata affossata dalle «scritture» portate in aula da Carafa252. Secondo la versione fornita da Marcello Cervini a Gheri, continuavano a circolare voci sulla compromissione del cardinale inglese a causa della sua amicizia con Flaminio e delle sue opinioni in materia di giustificazione, su cui il Sant’Ufficio aveva ormai raccolto numerose prove. Durante il colloquio tra Pole e Carafa, lo scomodo rapporto con Flaminio in effetti tornò a fare la sua comparsa e divenne il fulcro di un lungo ragionamento. Dopo aver reclamato la propria ortodossia, il 249 La lettera di Martinengo a Chizzola, è edita in PM 2, I, pp. 1077-1080. La citazione su riportata, relativa alla ricostruzione dei fatti offerta dall’inquisitore Domenico Adelasio, è tratta da PM 1, VI, p. 251. Cfr. anche CARAVALE, Predicazione e Inquisizione, cit., pp. 106-108. 250 ACDF, S.O., Decreta 1548-1558, c. 1r.251 Ivi, c. 20r.252 La missiva di Gheri a Beccadelli è edita in MB, I/2, pp. 347-353. Il presunto originale si conserva in BPPr, Ms. pal., 1023/7, cc. 71r-76v. La lettera si presenta come un lungo memoriale («Questa voglio che sia una lettera appartata sopra li fatti del reverendissimo Polo», si legge nella prima riga), privo di sottoscrizione. Il nome di Gheri compare a c. 76v, dove si trovano le indicazioni di mittente e destinatario, oltre che tracce del sigillo di chiusura. La missiva reca piccole correzioni e aggiunte in diversi punti. Sulla morte di Flaminio, cfr. A. PASTORE, Marcantonio Flaminio. Fortune e sfortune di un chierico nell’Italia del Cinquecento, Milano 1981, pp. 164 ss., con rinvii bibliografici alle diverse interpretazioni della lettera di Gheri a Beccadelli, tra cui v. in part. P. SIMONCELLI, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma 1977, pp. 81-85. Un inquadramento dell’episodio nella più ampia strategia degli «spirituali» in FIRPO, La presa di potere, pp. 171 ss.

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cardinale inglese passò a dipingere un quadro degli ultimi giorni di vita dell’umanista, spentosi il 17 febbraio 1550.

Quanto al Flaminio [...] – spiegava Gheri – [Pole] non negaria che non havesse potuto titubare in alcuna cosa quando venne in casa sua, et che esso per levarli ogni scrupulo lo haveva persuaso a leggere i dottori della Chiesa et acquetarsi [...] Che riuscita poi facesse il Flaminio in casa sua, ne fa fede la sua morte che fu santissima et tale che ogn’uno devria desiderare et pregare Dio di farla tale. Et ne potria anco fare testimonianza, il mastro Sacri Palatii d’all’hora, hora vescovo di Modena [Foscarari], il quale confessò et esaminò il Flaminio poco inanzi la morte sua253.

Stando a quella ricostruzione, il colloquio tra i due cardinali sarebbe terminato con piena soddisfazione di Carafa che, con sfoggio di ipocrisia, spiegò che «il cardinale Polo è il miglior homo et più incolpabil che viva, et quando Dio facesse altro di papa Iulio ch’egli non vorrebbe altro papa che Polo». Basterebbero queste parole per comprendere il registro che caratterizzò lo scambio di battute consumatosi in San Paolo, con la regia discreta – si noti – del maestro del Sacro Palazzo Girolamo Muzzarelli, fiduciario di Giulio III in tutta la vicenda. Quanto qui interessa rimarcare è il ruolo assegnato a Foscarari, presunto garante del ritorno di Flaminio al grembo della Chiesa.Il suo nome tuttavia non era sempre stato presente nei racconti sulla morte dell’umanista e, a quanto si può dedurre, era comparso solo nel ‘53 nel punto più alto della contrapposizione tra Carafa e gli «spirituali». Prima di allora, la versione dei fatti divulgata dall’entourage del cardinale di Inghilterra si limitò a ricordare un generico ravvedimento finale di Flaminio. A un anno dalla sua scomparsa, don Nicolò Bargellesi254, prete bolognese su cui invano si era esercitato il proselitismo dello stesso Flaminio, ne diede conto nel corso del processo contro Vittore Soranzo. Interrogato dai giudici il 12 aprile 1551, addossò a Bernardino Ochino e Juan de Valdés la responsabilità di aver traviato l’umanista, suo amico dai tempi veronesi di Giberti e fortunatamente ricredutosi sul finire della vita: «Non penso che lui né alla morte sua né un bon tempo inanti restasse [nei suoi errori], perché ho udito da messer Emanuele [il medico Emanuele da Chio] et da messer Tullio Crispoldio, i quali si trovarono alla morte sua, cose che mi hanno fatto pensare che se sia adveduto molto bene de gli inganni de fra Bernardino et de questi altri et che se sia redutto alla santa Chiesa»255. Di quella conversione lo stesso Bargellesi avrebbe offerto nel 1557 una versione meno circostanziata, che però confermava la tesi di fondo: «Poi la morte del Flaminio intesi in Bologna et in Roma, ma non mi ricordo da chi, simil parole: ‘El poveraccio – parlando del Flaminio – alla fine, verso la sua morte, se era aveduto delli errori soi’, et [...] diluerat multis lachrymis»256. Tre anni dopo un personaggio di tutt’altra estrazione come il senese Claudio Saraceno, agente romano di Cosimo de’ Medici, avrebbe fornito una versione analoga. Era la prova che le voci sparse da Pole, per tramite del medico Emanuele da Chio257 e altri uomini di sua fiducia, erano diventate opinione 253 Trascrivo dall’originale; v. BPPr, Ms. pal., 1023/7, c. 73v. 254 Collaboratore di Gian Matteo Giberti a Verona e amico di Tullio Crispoldi e Flaminio, coadiuvò Gabriele Paleotti nella riforma della diocesi bolognese; cfr. PM 2, I, pp. 207-208.255 PS, I, pp. 160-161.256 PC, I, p. 6; deposizione dell’8 giugno 1557. 257 Anche Girolamo Federici, l’8 gennaio 1560, ricorderà il ruolo di Pole come convertitore di Flaminio. A riferirgli della conversione finale dell’umanista era stato Emanuele da Chio: «Del

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comune: «Ho inteso de lui [Flaminio] da un servitore del cardinale d’Ingletera, che quando morse teneva un crucifisso in mano et morse christianissimamente con molte lachrime et con gran remorso della sua conscientia»258. Nessuno dei due testimoni, però, fece cenno della presenza di Foscarari che, dopo essere affiorata nel ‘53 come estremo colpo di coda degli «spirituali», tornò nell’ombra alcuni anni più tardi, quando altre ragioni consigliarono di tacerne la presenza. Lo si evince dalla Vita di Pole terminata intorno al ‘61 da Beccadelli, cui ovviamente era nota la descrizione dei fatti fornitagli da Gheri nel ‘53: secondo il racconto, per aiutare Flaminio Pole «andò con tanta destrezza in processo di tempo domesticandolo che lo fece senza contesa capace della verità catholica, sì che restò di sana et netta dottrina, nella quale continuando et versi sacri scrivendo, morì da buon cristiano in casa di Sua Signoria in Roma»259. Era una ricostruzione più stringata e meno compromettente, che probabilmente dipendeva dalla volontà di non appesantire la posizione di Foscarari, reduce – lo anticipiamo – dal processo per eresia intentatogli da Paolo IV tra il 1558 e il ‘59. Eppure la possibile presenza del domenicano al capezzale di Flaminio si fissò nella memoria degli inquisitori, tanto che nel 1566, nel processo a carico del protonotario apostolico Pietro Carnesecchi, il suo nome tornò a emergere non appena l’imputato ricordò la morte del «Flaminio de l’anno 1550». A quelle parole, infatti, i giudici chiesero a Carnesecchi se avesse mai conosciuto «quondam fratrem Egidium Fuscararium episcopum Mutinensem», scomparso due anni prima, ricevendo una risposta che rivelava la considerazione in cui era tenuto dagli «spirituali»: «Una delle maggior disgratie che io reputi havere hauto in questo mondo è che quel santo huomo sia morto inanzi che io l’habbia cognosciuto perché io ero talmente inamorato di lui per fama che havevo deliberato d’andare a stare a Modena un anno per godere la sua santa conversatione»260. In questa oscillazione delle fonti, non è semplice stabilire quale fosse stato l’effetivo andamento dei fatti e se Foscarari raccolse o meno un’improbabile confessione di Flaminio. Di certo, avallò la versione degli «spirituali», dando la propria disponibilità a essere chiamato in causa, con un gesto che denotava una partecipazione allo scontro politico e religioso allora in corso e un appoggio più che consapevole ai discepoli di Juan de Valdés.Ciò che poi colpisce e, a suo modo conferma la fortuna della versione elaborata dalla cerchia di Pole, è la fantasiosa rielaborazione che ne diede, mezzo secolo dopo, il biografo di papa Carafa, Antonio Caracciolo. Nel 1612, in un contesto completamente mutato, il teatino ricordava infatti come, grazie all’intervento del futuro Paolo IV, Flaminio fosse morto «catholice ac pie [...], receptis devote poenitentiae ac sacri viatici mysteriis». Accodatosi al sacerdote che recava all’umanista gli ultimi conforti, Carafa lo istruì su come comportarsi e, nascostosi dietro di lui, lo accompagnò nella casa del moribondo, suggerendo di chiedergli la professione di fede e di interrogarlo sulla transustanziazione. Ottenuta la piena adesione di Flaminio alla dottrina cattolica, si rivelò

Flaminio [...] io intesi da mastro Emanuele medico che fece una santissima morte» (PM 2, II, p. 1009). 258 PC, I, p. 240; deposizione del 17 agosto 1560. 259 MB, I/2, p. 326.260 PC, II, p. 266; deposizione del 7 ottobre 1566.

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finalmente ai suoi occhi, avendo ormai riportato all’ovile la pecorella smarrita261. Gli intenti della narrazione e la sua inattendibilità sono chiari: essa rivela però come a decenni di distanza la notizia della conversione di Flaminio sopravvivesse ancora e, soprattutto, come essa fosse oggetto dell’appropriazione dei sostenitori di Paolo IV. Che su quell’evento si fossero concentrate le energie degli opposti schieramenti risulta ancora più comprensibile se si tiene conto di quanto era accaduto pochi giorni prima della morte dell’umanista. Il 7 febbraio 1550, con l’elezione di Giulio III si era chiuso un conclave in cui gli «spirituali» avevano subito un attacco che, in breve tempo, ne determinò la disfatta262. Come è noto, in quell’occasione l’Inquisizione fece per la prima volta la sua comparsa come strumento per escludere o favorire le candidature alla tiara e l’accusa di eresia fu portata all’interno delle stanze in cui si sarebbe dovuto eleggere il successore di papa Farnese. Benché Foscarari non prendesse parte ai lavori, fu certamente ben informato sui metodi e la spregiudicatezza con cui venne condotta la battaglia per la cattedra di Pietro e, come capitò agli ambasciatori e ai pasquinisti, oltre che ai moltissimi agenti politici che si accalcarono a Roma in quei giorni, anche al suo orecchio arrivarono gli echi della lotta senza quartiere che si stava consumando dentro le mura vaticane. Il 3 dicembre, nel corso del primo scrutinio, era subito emersa la candidatura di Pole, considerato da molti il vincitore annunciato. I 21 voti inizialmente raccolti crebbero lentamente e, accantonata l’ipotesi di un’elezione per via di adorazione, si raggiunse la soglia dei 25 voti, appena due al di sotto del quorum. Nel frattempo, tra i cardinali si erano sparse voci su processi e documenti con cui Gian Pietro Carafa avrebbe potuto dimostrare l’eresia dell’inglese e, a causa di quelle accuse, una vittoria data per certa sfumò per sempre. Come ha ipotizzato Massimo Firpo, quello del Teatino fu «un azzardo, se non un vero e proprio bluff, al quale egli si vide costretto per impedire l’elezione del Pole»263; tuttavia con quel gesto l’Inquisizione guadagnava un posto di prim’ordine nelle dinamiche per la successione al soglio pontificio, spianando la strada, direttamente o indirettamente, a personaggi come Cervini, Carafa e Ghislieri. Dopo quanto detto, non è difficile immaginare come Foscarari, rispetto al suo arrivo a Roma nel 1547, avesse acquisito una conoscenza profonda delle dinamiche che guidavano la curia e degli scontri che la laceravano. In tre anni aveva toccato con mano le ricadute politiche delle diverse proposte di riforma, schierandosi con Pole e Morone, nonostante una distanza dalle loro posizioni teologiche; il lavoro a contatto con il Sant’Ufficio, poi, gli aveva mostrato come le accuse di eresia potessero essere utilizzate per screditare membri autorevoli 261 A. CARACCIOLO, De vita Pauli quarti pontificis maximi collectanea historica, Colonia 1612, pp. 54-55. Diverge leggermente dal testo a stampa (pur concordando negli esiti) la versione manoscritta in BNCas, ms. 994, cc. 278v-279v (cit. in FIRPO, La presa di potere, cit., p. 171, n. 14). Sugli intenti e la genesi dell’opera cfr. PM 1, I, pp. 91 ss. e A. AUBERT, Paolo IV. Politica, Inquisizione, storiografia, Firenze 1999, pp. 202 ss. 262 Sul conclave del 1549 rinvio a T.F. MAYER, Il fallimento di una candidatura: il partito della riforma, Reginald Pole e il conclave di Giulio III, in «Annali dell’Istituto storico italo-germanico di Trento», XXI (1995), pp. 41-67 (ora nella raccolta dello stesso autore Cardinal Pole in European Context. A «via media» in the Reformation, Aldershot 2000), PROSPERI, L’eresia del libro grande, cit., pp. 171 ss. e FIRPO, La presa di potere, cit., pp. 3-51. Per un quadro più ampio sulle tensioni, anche politiche, che caratterizzarono il conclave del ‘49, cfr. E. BONORA, Aspettando l’imperatore: principi italiani tra il papa e Carlo V, Torino 2014. 263 FIRPO, La presa di potere, cit., p. 46.

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del sacro collegio e, verosimilmente, i metodi di Carafa dovettero apparirgli dannosi per l’unità della Chiesa. Fu con ogni probabilità quell’insieme di considerazioni a spingerlo a garantire la propria collaborazione al nuovo papa, arginando per quanto possibile l’operato degli inquisitori. Come dunque era stato fedele a Paolo III, che aveva voluto la sua partecipazione alle sedute del Sant’Ufficio e forse lo aveva orientato alla collaborazione con gli «spirituali», allo stesso modo rinnovò la sua vicinanza al nuovo papa Giulio III. Volendo infine provare a capire cosa, dall’altra parte, rendesse Foscarari affidabile agli occhi degli «spirituali», una risposta – la più verosimile – viene non solo dal sostegno alle politiche di Paolo III e Giulio III di cui si è detto, ma anche dai convincimenti espressi dal domenicano sin dai suoi primi passi in concilio nel 1547: l’aspirazione – ancora viva negli anni sessanta – a una pacificazione con i protestanti, la ricerca di un accordo, lo sguardo rivolto alla comunità delle origini e un atteggiamento di misericordia che avrebbe potuto ripristinare la concordia della Chiesa. Si trattava di un irenismo che, se ben impiegato, poteva offrire garanzie importanti agli «spirituali», tanto più nelle mani di un personaggio che, a differenza di altri vescovi e teologi, non aveva condiviso in alcun modo le dottrine valdesiane e per questo avrebbe potuto godere di maggiore autorevolezza. Questo complesso intreccio di eventi e scelte strategiche fu probabilmente alla base dell’ultimo dei tre episodi che interessarono Foscarari tra il luglio del 1549 e l’estate del ‘50, legando per sempre le sue sorti a quelle di Morone.

La diocesi infetta

Appena tre mesi dopo l’elezione di Giulio III, per Foscarari si profilò all’orizzonte un cambiamento destinato a ripercussioni profonde: il 23 maggio 1550 papa Del Monte lo designò ufficialmente vescovo di Modena, in sostituzione del dimissionario Morone. Per capire a fondo la peculiarità e l’atipicità di quella nomina è necessario osservare le carriere di quanti, prima e dopo Foscarari, si succedettero alla guida del Sacro Palazzo. In pochi ebbero un percorso assimilabile al suo e l’incarico in una sede in qualche modo paragonabile a Modena fu l’eccezione264. Il suo predecessore Bartolomeo Spina (maestro dal 1545 al 1547) si era spento poco dopo la sua nomina; prima di lui c’erano stati Pietro Martire Sangervasi (1542-1545)265, già provinciale di Lombardia e inquisitore a Brescia, anch’egli morto mentre era in carica; Tommaso Badia, elevato alla porpora al termine del suo lunghissimo servizio (1529-1542), ma mai divenuto vescovo266, e Silvestro Mazzolini (1515-1527), rimasto semplice frate fino alla sua scomparsa durante il sacco di Roma267. Tra i successori di Foscarari, Girolamo Muzzarelli (1550-1553) fu insignito al termine del suo mandato dell’arcivescovato di Conza e della nunziatura presso l’imperatore, fino a che, dalla metà del ‘56, fu impiegato a Roma come consultore del Sant’Ufficio; Pietro Paolo Giannerini (1553-1558), Daniele Bianchi da Crema (1558-1565) e Tomás Manrique (1565-1573), infine, non giunsero mai alla 264 I dati riportati di seguito, quando non diversamente precisato, sono tratti da TAURISANO, Hierarchia ordinis praedicatorum, cit., pp. 51-53 (più attendibile di G. CATALANI, De magistro Sacri Palatii apostolici [...], Roma 1751).265 V. D’Amato, I, p. 476; TAURISANO, Hierarchia ordinis praedicatorum, cit., p. 52.266 Cfr. G. ALBERIGO in DBI, 5, pp. 74-76. Secondo alcune voci, avrebbe rifiuto il vescovato di Urbino. 267 V. TAVUZZI, Prierias, cit., pp. 75-131.

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mitra. Per trovare un altro maestro divenuto vescovo bisogna attendere sino al 1591, quando Vincenzo Bonardi sarà nominato vescovo di Gerace268. Al termine della loro carriera, i maestri del Sacro Palazzo rimanevano dunque a servizio dell’ordine domenicano o della curia romana e non venivano di norma destinati a incombenze pastorali. Solo Foscarari trascorse quattordici anni impegnato nel governo di una diocesi scottante come quella modenese e non si va lontani dal vero nell’ipotizzare che l’incarico rivestisse un valore di molto superiore alla semplice sostituzione di Morone. Quella nomina aveva infatti chiare implicazioni politiche e mirava ad assicurare una gestione accorta della Chiesa che il milanese aveva retto compiendo più di un passo falso. Né stupisce che alla missione di “continuità” nella diocesi emiliana – da Morone a Foscarari – se ne affiancasse una altrettanto evidente al Sacro Palazzo, dove fu chiamato Girolamo Muzzarelli. Quest’ultimo, come si è visto nel capitolo precedente, era stato compagno di studi di Foscarari a Bologna sin dagli anni venti, era animato da convincimenti simili e, in qualità di teologo pontificio, si sarebbe dimostrato fedele prosecutore dell’azione di controllo del Sant’Ufficio avviata da Paolo III e proseguita da papa Del Monte. La nomina di frate Egidio era pertanto parte di una strategia articolata che si muoveva su più fronti. A suggerire il nome di Foscarari come possibile successore di Morone fu probabilmente Reginald Pole269: Modena era stata teatro di eventi che avevano avuto ampia risonanza, dalla revoca del pulpito cittadino al gesuita Alfonso Salmerón, cacciato nel 1543 da Morone270, al ciclo di prediche di sapore eterodosso tenuto da Bartolomeo della Pergola l’anno successivo. Entrambe le vicende richiamarono le attenzioni di personaggi di spicco della gerarchia, in un caso coinvolgendo Marcello Cervini, cui fu chiesto di tutelare il buon nome della Compagnia di Gesù271, nell’altro il Sant’Ufficio che aprì un procedimento contro il Pergola costringendolo a una pubblica ritrattazione delle dottrine predicate a Modena272. Erano appena due episodi, forse i più clamorosi, tra i tanti che sarebbero stati dibattuti qualche anno dopo nel corso del processo contro Morone. Erano tuttavia più che sufficienti per consigliare prudenza e ponderare una nomina che tenesse il Sant’Ufficio lontano da Modena. Foscarari fu ritenuto a buon diritto una delle personalità più adatte ad assumere un incarico tanto delicato: «huomo di vita et dottrina tenuto universalmente inreprehensibile»273, come disse Pietro Carnesecchi, sarebbe spettato a lui risolvere l’emergenza ereticale che attanagliava la città di Modena. Comprensibilmente, Morone non perse occasione per ribadire in 268 V. Quétif-Echard, II, pp. 328, 349. 269 Fu il vescovo di Camerino Berardo Bongiovanni a riferire del suggerimento dato da Pole a Morone circa la nomina di Foscarari: «Morrone ha provisto alla chiesa di Modena del vescovo moderno [Foscarari], che nel concilio o tenemo noi atri prelati per un grande homo da bene. Et so certo che il cardinale fece questa risegna per provedere alla heresia di questa città, ansi me recordo che il cardinale d’Ingliterra li messe questo vescovo inanzi, atto ad fare questo officio et provedere contra li heretici di quella città, domandandoli il cardinale Morrone chi fusse a proposito ad fare tal offitio. Et questo lo so perché il cardinale Morrone me l’ha detto più volte » (PM 2, II, pp. 819-820). 270 Per la vicenda che coinvolse Salmerón e la sua deposizione nell’ambito del processo Morone, v. PM 2, I, pp. 189 ss. 271 C. QUARANTA, Marcello II Cervini (1501-1555). Riforma della Chiesa, concilio, Inquisizione, Bologna 2011, pp. 142 ss. 272 Gli atti del suo processo, risalenti al 1556, sono conservati in ACDF, S.O., St. St., S 5-c e editi in PM 2, I, pp. 318-392.273 Cfr. PC, II, p. 269.

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pubblico e in privato che quella era la priorità che sottostava alla nomina del domenicano. Nell’avvertire Ercole II d’Este dell’elezione, il cardinale milanese dipinse il suo successore come «persona di vita et costumi essemplarissima et molto destra in ogni attion sua» che, con la sua residenza, avrebbe offerto un rimedio «utilissimo a quella città la qual è tanto calunniata»274. «Resignai il vescovato in mano di papa Giulio III in favore del mastro Sacri Pallatii il quale, essendo dell’ordine di san Domenico, di ottima vita et dottrina, potesse con assiduità et destrezza et col aiuto divino ridurre quell’anime smarrite», ribadirà alcuni anni dopo. Per raggiungere lo scopo, Morone consigliò al suo successore di procedere «con la buona dottrina et con l’assiduità et patientia et con ogni amorevolezza et carità» così da poter «ridurre quelli cervelli gagliardi»275. La cerchia vicina al cardinale ricorderà con insistenza che Foscarari era stato scelto «ad extirpandum haereses»276. Il canonico regolare Arcangelo Rossi, bolognese e frequentatore assiduo dello stesso Foscarari, dipinse un Morone che «disperato di non potere convincere né castigare li heretici de Modena per non potere stare presente per le occupatione che gli venivano date dalla santa sede apostolica, se rissolse di procurare che detta Chiesa fosse comessa al reverendo padre maestro del Sacro Pallazzo [...], huomo reputato de santa vita et santi costumi et santa dottrina et molto atto ad estirpare tal maledicione». A riportare quella notizia era stato Endimio Calandra, segretario di Ercole Gonzaga, segno che la successione di Morone era stata frutto di una riflessione estesa a quanti gravitavano attorno al gruppo degli «spirituali»277. Ma il cardinale non abbandonò il nuovo vescovo a se stesso e continuò a essere fortemente presente nella vita della diocesi, riservandosi il diritto di regresso e una robusta pensione derivante da rendite e benefici sparsi nel territorio modenese278. Sebbene quelle misure rispondessero in primo luogo a esigenze di natura economica, non è fuori luogo intravedervi la volontà di mantenere un certo controllo sulla sede emiliana. Lo stesso Foscarari in più occasioni si dirà privo dei mezzi necessari a sostenere questo o quell’istituto caritativo a causa delle magre entrate su cui poteva contare, e il ricorso alla munificenza di Morone sarà spesso l’unica via di uscita dallo stallo finanziario che complicava il governo vescovile279. Nonostante il cardinale mostrasse piena fiducia nell’azione del suo successore, tanto da nominarlo suo amministratore («negotiorum nostrorum gestorem») per le rendite modenesi280, il domenicano dovette ammettere l’ampio potere mantenuto da Morone dopo le sue dimissioni: «Il reverendissimo cardinale – dirà in seguito – mi nominò a papa 274 La lettera del 7 giugno 1550, conservata in ASMo, Giurisdizione sovrana, 264, edita in M. AL KALAK, L’eresia dei fratelli. Una comunità eterodossa nella Modena del Cinquecento, Roma 2011, pp. 62-63, n. 14. 275 PM 2, I, pp. 465-466.276 L’espressione è tratta dagli Articuli difensivi presentati dallo stesso Morone; PM 2, II, p. 178. Il ruolo determinante di Morone nella designazioni di Foscarari è attestato in moltissime deposizioni; cfr. PM 2, II, pp. 120, 126, 788, 802, 879, 928, 1079. 277 PM 2, II, p. 1363. Per un profilo biografico di Rossi, v. ivi, pp. 1320-1321.278 Morone si riservò, oltre ad altre pensioni, una rendita annua di 650 ducati. Cfr. ASV, Archivio Concistoriale, Acta Miscellanea, 19, cc. 31r-v; v. anche M. FIRPO in DBI, 77, p. 70. 279 Un esempio si ebbe in occasione della fondazione del collegio gesuitico di Modena. Scrivendo a Ignazio nel novembre 1551, Foscarari si diceva «indebitato grossamente»: ciò nonostante si sarebbe impegnato in ogni modo a sostenere l’opera modenese dei gesuiti. Per molti anni un aiuto fondamentale derivò tuttavia dalle elemosine che Giovanni Morone non fece mancare. Cfr. ad es. MHSI, Epp. Mix., V, pp. 520-521, 740-742; MHSI, Vita Ign., VI, p. 210. 280 La procura affidata a Foscarari è conservata in ASMo, Notarile, Modena, 1766, n. 23.

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Giulio e mi sostenne nel governo della Chiesa di Modena: senza la sua autorità non avrei potuto fare nulla, avendone seguito in ogni cosa gli esempi e i consigli»281. A ogni modo, Foscarari non avrebbe potuto portare sino in fondo la missione che gli era stata affidata – il riassorbimento dell’eresia – senza strumenti adeguati. A due mesi dall’elezione a vescovo, il 21 luglio 1550, gli fu consegnato un privilegio speciale che, a determinate condizioni, affidava alla sua giurisdizione gli eretici presenti in città. Grazie a esso, il domenicano avrebbe potuto assolvere segretamente gli eterodossi modenesi, ingiungendo loro le penitenze ritenute convenienti. Il provvedimento si collocava sulla scia degli editti di grazia medievali, variamente reiterati in età moderna, e seguiva di poco i brevi Cum meditatio cordis nostri e Illius qui misericors – riguardanti rispettivamente il possesso di libri proibiti e le opinioni ereticali –, emanati dal pontefice il 29 aprile 1550282. Già questo sarebbe sufficiente a segnalare una qualche anomalia, un trattamento particolare riservato al successore di Morone, cui erano assegnate facoltà straordinarie nonostante la presenza dei due provvedimenti citati. Benché non unico, Foscarari fu uno dei primi vescovi, se non il primo, a ricevere dalle mani di papa Del Monte poteri tanto ampi in materia di eresia283. Ma, oltre ai contenuti, ciò che colpisce sono altri due aspetti: il valore simbolico e politico che il breve assumeva nel contesto delle frizioni tra papa e Sant’Ufficio e la tempistica con cui era stato promulgato. Il potere conferito al vescovo di Modena era effettivamente ampio e aveva lo scopo, nemmeno troppo celato, di scalzare gli inquisitori mediante la celebrazione di procedimenti informali, non verbalizzati da alcun notaio (ovvero non riutilizzabili dal sacro tribunale come traccia per successivi processi). Rileggendo quell’esperienza molti anni dopo, fra Domenico da Imola, stretto collaboratore di Foscarari, avrebbe ricordato come con quel privilegio il vescovo fosse diventato «papa della diocesi»: «Iulio III felice memoria fece il vescovo papa di Modona con aspettarli tutti a penitenza, ch[i] in voce sola senza scritti chi con testimonio che senza. Purché tornassero, si accettavano tutti come ap[a]re nel breve suo»284. Tanta ampiezza di prerogative si potrebbe spiegare considerando la gravità della situazione: anche la cronologia, però, risulta sospetta. Secondo quanto recitava il testo del provvedimento, esso era stato richiesto dallo stesso Foscarari a seguito delle condizioni riscontrate nella sua diocesi. Promulgato il 281 Traduco da PM 2, II, pp. 966: «Ipse reverendissimus [...] me nominavit eidem papae Iulio, et ab eo tempore ipse reverendissimus favit mihi in gubernatione dictae ecclesiae Mutinensis et sine cuius auctoritate nihil effecissem, cum eius vestigia et consilia sim per omnia sequutus».282 Per un esame analitico della questione rinvio a E. BRAMBILLA, Alle origini del Sant’Uffizio. Penitenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Bologna 2000, pp. 381-402, che ricorda anche precedenti relativi agli ultimi anni del pontificato di Paolo III. V. anche EAD., La giustizia intollerante. Inquisizione e tribunali confessionali in Europa (secoli IV-XVIII), Roma 2006, pp. 68 ss.283 Un anno dopo prerogative simili sarebbero state conferite anche al cardinale Durante Duranti, incaricato di risolvere l’emergenza ereticale a Brescia; cfr. E.A. RIVOIRE, Eresia e Riforma a Brescia, in «Bollettino della Società di studi valdesi», 105 (1959), pp. 33-57; 106 (1959), pp. 59-90: 65. 284 Lettera di Domenico da Imola del 13 ottobre 1575 all’inquisitore di Ferrara Eliseo Capys: ASMo, Inquisizione, 293, XI (tra parentesi quadra alcuni adeguamenti rispetto alla grafia dell’originale). Cfr. anche A. ROTONDÒ, Atteggiamenti della vita morale italiana del Cinquecento e la pratica nicodemitica, in ID., Studi di storia ereticale, cit., I, p. 243, n. 122.

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21 luglio – ottavo anniversario della Licet ab initio –, il breve era giunto a soli due mesi dalla nomina del domenicano, troppo pochi per pensare che si fosse effettivamente reso conto dello stato di salute di una diocesi in cui fino ad allora non aveva mai messo piede e di cui, al più, aveva sentito parlare. Una conferma inequivocabile viene dal tardivo ingresso di Foscarari a Modena: l’11 luglio gli agenti del nuovo vescovo erano ancora in trattative con i magistrati modenesi, e solo quattro giorni più tardi il neoeletto entrava finalmente in città, accolto dai sentimenti contrastanti dalla popolazione: «Martedì, a dì 15 luglio, el reverendo vescovo de Modena fra Egidio di Foscarari bolognese del ordino de santo Domenico è venuto questo dì da hore 22 in Modena vestito da frate et con certi frati et la sua famiglia [...] Ogni homo diceva che lui haveva una trista chiera de homo, ma el coro serà forse migliore che la chiera»285. Dal momento in cui quell’uomo dall’aspetto severo arrivò nella sua diocesi al momento in cui da Roma si emanò ufficialmente il decreto trascorsero solo sei giorni, un tempo in cui difficilmente si sarebbero potute istruire le pratiche necessarie a ottenere dal papa un provvedimento di tale portata, la cui stesura, tra l’altro, dovette essere non poco tormentata a giudicare dalla bozza conservata nei registri vaticani, fitta di correzioni, aggiunte e riscritture. È più che probabile che quel documento fosse stato preparato o almeno concordato con Foscarari prima della sua partenza e, forse per destare minori sospetti, in esso si dava grande risalto al degrado del clero e alla necessità di rimediarvi, nascondendo tra le righe il vero obiettivo286. Stando alla lettera del testo, il vescovo, residente nella sua diocesi, aveva reso noto al pontefice che a Modena molti parroci, cappellani e frati non idonei a predicare e confessare per convincimenti sospetti avevano seminato i loro errori e scandalizzato la popolazione. Di fronte a ciò, il papa concedeva al vescovo la facoltà di sospendere dall’ufficio della predicazione e delle confessioni qualunque prete o religioso fosse ritenuto inadatto e pericoloso. In più, consentiva a Foscarari di assolvere in utroque foro quanti fossero caduti in scomunica, censure o altre pene a causa di quella situazione, purché pentiti, non relapsi e disposti ad accettare la penitenza salutare loro ingiunta. Infine, si dava facoltà al vescovo di ristabilire nelle loro prerogative sacerdoti e religiosi già sospesi o limitati nell’amministrazione dei sacramenti e degli uffici divini per colpa delle eresie in cui erano incorsi287. Il privilegio di Giulio III era dunque confezionato con 285 CrMo, X, p. 256.286 Il documento è conservato in ASV, Armadio XLI, tomo 57, cc. 195r-196r [n. 684]. Si tratta della prima stesura del provvedimento, come mostrano le correzioni, cancellature e riscritture cui si è accennato. Il regesto coevo è stato pubblicato da B. FONTANA, Documenti vaticani contro l’eresia luterana in Italia, in «Archivio della Società romana di storia patria», XV (1892), pp. 71-165, 365-474:. 419. 287 Data l’importanza del provvedimento, se ne riporta un ampio stralcio: «Venerabili fratri Egidio episcopo Mutinensi. Iulius etc. Venerabilis frater, salutem etc. Cum sicut nobis nuper exponi fecisti certo tempore citra in civitate et tua diocesi Mutinensi quam plures parrochialium ecclesiarum rectores vel eorum vicarii seu capellani et diversorum ordinum etiam mendicantium professores ad officium predicationis verbi Dei et confessiones a Christifidelibus audiendum non idonei et, quod deterius est, de catholica orthodoxa fide non bene sentientes verbum Dei ipsis Christifidelibus praedicare et eorum confessiones audire presumpserint et presumunt, qui propter eorum imperitiam ac pravam doctrinam populum civitatis et diocesis predictarum non solum verbo et exemplo ad bene vivendum non instituunt [...], sed erroribus et malis moribus inficiunt in animarum suarum et Christifidelium prefatorum periculum ac scandalum plurimorum, quare nobis humiliter supplicari fecisti ut in premissis opportune providere de benignitate apostolica dignaremur; nos igitur quibus universalis eorundem Christifidelium cura incumbit [...], premissis obviare volentes tuis in hac parte supplicationibus

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un’attenzione apparentemente prioritaria al clero secolare e regolare e ai predicatori che, come era capitato negli anni quaranta, avevano diffuso idee e dottrine ereticali. Eppure, a fronte di tanta urgenza nei confronti di un clero descritto come troppo permeabile al dissenso religioso, l’operato concreto di Foscarari sembrò muoversi su altre direttrici: i preti furono oggetto di intense misure pastorali, mentre il privilegio pontificio conferito al vescovo al suo ingresso a Modena fu utilizzato nei confronti dei membri, perlopiù laici, del movimento eterodosso cittadino. Questa discrepanza tra gli obiettivi dichiarati e quelli effettivamente perseguiti consente di individuare la reale natura del privilegio di Foscarari, riconoscendo in esso il tentativo di nascondere, sotto le insegne dell’urgente moralizzazione del clero e di un controllo della predicazione, l’eredità di Morone. Il nuovo vescovo aveva in mano uno strumento eccezionale con cui dilazionare l’intervento degli inquisitori assolvendo egli stesso quegli eretici che nel cardinale avevano riconosciuto, da un certo punto in avanti, un compagno di fede288.

Nuove prospettive: da teologo a vescovo

Formatosi nel convento bolognese e divenuto maestro del Sacro Palazzo per la sua raffinata cultura teologica, a metà del 1550 Foscarari si preparava a prendere le insegne vescovili. Ciò che probabilmente si era figurato ai tempi dello Studio bolognese era una carriera interna all’ordine e, forse, incarichi come professore o priore in uno dei conventi dell’osservanza. La vita e un frangente storico particolarmente delicato gli avevano invece riservato altro. Nei tre anni a Roma Foscarari aveva dovuto riadattare i suoi orientamenti e il progetto di riforma della Chiesa che aveva in mente. La prospettiva da cui era stato inizialmente animato e che aveva trovato un suo canale di espressione nelle discussioni conciliari del ‘47 era essenzialmente teologica. Come si è cercato di mostrare, l’irenismo dottrinale di Foscarari poggiava su una teologia il cui compito era creare soluzioni che favorissero la riconciliazione con i protestanti. Il lavoro accanto agli inquisitori in qualità di maestro del Sacro Palazzo sembrò confermarlo, evidenziando la costante ricerca da parte di Foscarari dei convincimenti dottrinali degli imputati e la loro gravità in rapporto

inclinati tibi, de cuius doctrina, probitate, religione ac prudentia plurimum in Domino confidimus, quamdiu et quolibet apud ecclesiam Mutinensem cui preesse dignosceris personaliter residens omnes et singulos ipsarum ecclesiarum rectores ac eorum vicarios seu cappellanos et alios quoscumque [...], quos ob eorum imperitiam minus sufficientes et idoneos seu propter illorum pravam doctrinam de fide catholica male sentientes repereris ac propterea ad ipsis Christifidelibus verbum Dei predicandum et docendum illorumque confessiones audiendum minime aptos et probatos esse arbitraveris, ab officio predicandi et confessiones audiendi huiusmodi perpetuo vel ad tempus de quo tibi videbit suspe<n>dere illisque officium huiusmodi interdicere [...], quodque quoscumque heresis labe infectos et qui tam in heresim inciderunt non tamen relapsos ad cor reversos ab excessibus huiusmodi et excommunicationis ac quibusmodo aliis sententiis, censuris et penis per eos propterea quomodolibet incursis previa tamen abiuratione ac tuo arbitrio previa salutari eis iniuncta, in utroque foro absolvere et liberare [...] concedimus et indulgemus».288 Significative, ad esempio, le parole con cui nel febbraio 1543 gli eretici modenesi accolsero alcune istruzioni pastorali inviate da Morone, allora a Trento: «Rengratiato sia Dio ch’el nostro pastore, il reverendissimo cardinal Morone [...], è doventato de nostri». Al suo rientro a Modena, notarono vari testimoni, «molti lutherani di Modena [...] facevano gran festa et allegrezza, con dire che il detto reverendissimo Morone era stato illuminato della verità et era devenuto loro fratello nelle cose della fede» (cfr. FIRPO, Gli «spirituali», cit., pp. 127-128).

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alla conservazione della comunione ecclesiale. L’ambiguità delle formule teologiche, i margini di interpretazione che lasciavano e la loro adattabilità divenivano così uno strumento per ricucire le lacerazioni della cristianità. Ma proprio negli anni romani al servizio di Paolo III, Foscarari aveva dovuto constatare quanto quell’ipotesi di riforma fosse osteggiata da ampi settori della curia che nutrivano un altro progetto di Chiesa e che si servivano dell’Inquisizione come strumento di lotta interna e di ascesa nelle gerarchie. Fu questa presa di coscienza, che si può ipotizzare sulla base delle poche fonti a disposizione, a costringere il domenicano a schierarsi e a prestarsi a operazioni i cui intenti non potevano essergli ignoti. La drammaticità del momento e la lotta senza esclusione di colpi che aveva raggiunto persino il conclave conferirono alle speranze nutrite da Foscarari una dimensione politica e la linea di cui fu promotore dovette piegarsi al compromesso – come l’invio a Modena per rimediare alle prove di eresia lasciate da Morone – e, forse, a verità addomesticate – come la conversione di Flaminio. Non è poi fuori luogo chiedersi quanto le scelte del domenicano potessero essersi intrecciate alle manovre del cosiddetto partito filoimperiale, ovvero di quei settori della curia romana favorevoli alle politiche di Carlo V e alla necessità di pacificare l’impero. Se da un lato si può constatare il saldo legame di Foscarari con personaggi tra i più graditi agli Asburgo, in primo luogo Morone, dall’altro non vi sono indizi di un forte senso di appartenenza allo schieramento filoimperiale. Le ragioni della diplomazia e della politica sembrano essere costantemente confinate sullo sfondo – e nella maggior parte dei casi nemmeno evocate –, subordinate di fatto a considerazioni di carattere religioso e teologico. Ciò nonostante, è evidente che Foscarari fu a conoscenza delle implicazioni politiche dei suoi comportamenti e non esitò ad aderire alle istanze di riforma religiosa e di conciliazione auspicate da Carlo V.La scelta di assumere il vescovado di Modena e di convergere sulle strategie del partito filoimperiale non si risolsero tuttavia nell’abbandono della teologia come mezzo di pacificazione della Chiesa né in un affiancamento acritico degli «spirituali»: il nuovo scenario su cui Foscarari si collocò assumendo la mitra vescovile incanalò i suoi ideali di riforma in un ambito pastorale, producendo una trasformazione e una ridefinizione dei suoi progetti. Accettando l’invio a Modena, egli smise di essere un semplice frate e teologo di curia, diventando un vescovo. L’ottica conventuale e quella teologica cedevano il passo a una visione dei problemi della Chiesa filtrata dalla condizione delle periferie, e accanto alla riconciliazione degli eretici si profilava una vasta serie di emergenze, dalla moralizzazione del clero al governo delle anime.Fu proprio nel cuore della tradizione domenicana, da cui peraltro erano usciti vescovi esemplari come sant’Antonino289, che Foscarari poté trovare una delle elaborazioni più solide del magistero vescovile. Come si è accennato a proposito degli anni in San Domenico, si può dare per certo che in convento circolasse il commento di Tommaso de Vio alla Summa dell’Aquinate, al cui interno si trovavano indicazioni che la successiva trattatistica avrebbe abbondantemente ripreso290. Il Commento del Caietano, apparso a partire dal 289 Sul modello offerto da sant’Antonino cfr. M. PELLEGRINI, Antonino come modello di vescovo riformatore del Quattrocento, in L. CINELLI, M.P. PAOLI (a cura di), Antonino Pierozzi O.P. (1389-1459): la figura e l’opera di un santo arcivescovo nell’Europa del Quattrocento, Firenze 2013, pp. 381-401. 290 Rimando sinteticamente al contributo di G. ALBERIGO, I vescovi italiani al Concilio di Trento (1545-1547), Firenze 1959, pp. 395-441. Sul valore fondamentale della residenza nella

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1508 e oggetto di numerose riedizioni, dedicava ampio spazio alla glossa della quaestio CLXXXV della Secunda Secundae, dedicata alle prerogative dei vescovi («de iis quae pertinent ad statum episcoporum»). Scorrendo le parole del porporato, poi riprese nel Consilium sulla riforma della Chiesa indirizzato nel 1522 ad Adriano VI291, è possibile ricostruire la filigrana dell’episcopato di Foscarari. La prima precisazione, scontata, riguardava la gravità di aspirare alle cariche pastorali per ragioni di lucro: «Non è lecito ambire all’episcopato per i beni che esso offre [...] Questo è peccato mortale»292. L’appetito disordinato per i vantaggi e i profitti che potevano derivare dalla cattedra vescovile distraevano dal compito principale del pastore «che è la cura delle anime». Oltre a ribadire la necessaria moralità degli aspiranti all’episcopato, tenuti a rinunciare se si fossero trovati in peccato mortale, de Vio ne disegnava le qualità essenziali:

Anzitutto, si dovrà eleggere chi sia adatto per quanto concerne la carità. Nessun peccatore è eleggibile – e parlo di peccato mortale. In secondo luogo [il vescovo] dovrà essere capace e idoneo nel governo della Chiesa che consiste in tre azioni principali: istruzione, difesa e pacifico governo (instructio, defensio et pacifica gubernatio). Terzo, dovrà essere il più idoneo a questo incarico, ovvero migliore di chiunque altri sia possibile nominare.

Non era tutto. Discutendo se i vescovi dovessero essere o meno esperti di diritto canonico – caratteristica che peraltro non mancava a Foscarari –, il Caietano ricordava che non era quello il cuore del loro ministero: «l’ufficio imposto ai vescovi con la consacrazione è quello di predicare: e l’oggetto della predicazione non è il diritto ma il vangelo (non ius sed evangelium)». Oggi – precisava il glossatore – i vescovi non sono tenuti a predicare meno di un tempo. Dietro quei richiami stava la critica a una Chiesa in cui il diritto dei legisti, costruzione umana e non divina, si era sostituito alla Scrittura con gravi conseguenze morali: «Il vescovo è chiamato a insegnare al popolo il rispetto di ciò che riguarda i buoni costumi, le cose che Gesù Cristo comandò di osservare, piuttosto che istruirlo nei sacri canoni che gli uomini, e non il Signore, hanno costruito». Per questi motivi i vescovi, concludeva de Vio, «sono sempre tenuti a essere teologi», cioè fondati nella dottrina. Se questa visione, tipicamente domenicana, era il quadro di riferimento della missione episcopale, non sorprende ritrovare nell’impianto del Caietano la centralità assoluta della residenza, saldamente ancorata al diritto divino. Il commento all’articolo V della centottantacinquesima quaestio («utrum liceat episcopo propter aliquam persecutionem corporalem deserere gregem sibi commissum») era il più lungo di tutti e di fatto costituiva il presupposto pratico e logico del profilo di vescovo disegnato da de Vio. «Il vescovo è obbligato per precetto di diritto divino a risiedere personalmente nella sua diocesi»: la residenza è indispensabile per adempiere al fine stesso del ministero, la cura delle anime. Concretamente tale cura si esplicitava «attraverso atti personali, cioè la dottrina, l’amministrazione dei sacramenti, le consacrazioni, la visita, la

creazione di un modello esemplare di episcopato, cfr. anche H. JEDIN, Il tipo ideale di vescovo secondo la riforma cattolica, Brescia 1950.291 T. DE VIO, Consilium datum summo pontifici super reformatione Ecclesiae christianae, in CT, XII, pp. 32-39; cfr. ALBERIGO, I vescovi italiani al Concilio di Trento, cit., p. 404.292 Qui e in seguito cito e traduco dalla seguente edizione: Secunda secundae Summae theologiae [...] cum commentariis [...] Thomae de Vio Caietani, Roma, 1570, ff. 446v-451v.

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custodia e la diligenza». Non si potevano affidare quei compiti ai mercenari; i vescovi erano i «pastori delle pecorelle di Cristo» e a loro toccavano le sei azioni comandate dalla Scrittura: «sostenere l’infermo, sanare l’ammalato, medicare il ferito, ricondurre il disperso, cercare lo smarrito, custodire il forte e il debole». Il Caietano faceva poi notare le distorsioni operate sulla Scrittura. Ai vescovi era detto: «Vai, predica al popolo di Dio», e non: «Manda qualcuno a predicare». Allo stesso modo Pietro aveva ricevuto un mandato preciso: «Pasci i miei agnelli», non: «Fai pascere i miei agnelli». Quei compiti, assieme all’azione di pacificazione («i vescovi sono legittimamente designati a comporre la pace tra i principi cristiani»), dovevano essere svolti dal vescovo personalmente e con continuità, anche se non mancavano circostanze – limitate e ben definite – che consentivano l’assenza per un bene superiore. Citando una sentenza di san Girolamo, de Vio puntava il dito contro quanti, pur insigniti della dignità vescovile, non rispettavano il dovere della residenza ed erano carenti delle qualità di cui il pastore non poteva fare a meno per precetto divino: «Non tutti i vescovi sono effettivamente tali». Chi non voleva assumere gli oneri del governo diocesano, non doveva accettare la consacrazione vescovile: «Si riconosca turpe chi tiene per sé il nome, il potere, l’onore e le ricchezze del vescovo e ne delega però l’ufficio a qualcun altro». Quelli sin qui esposti erano i passaggi fondamentali del profilo delineato dal Caietano che non aveva lesinato giudizi duri e talora polemici che assurgevano a manifesto per una riforma della Chiesa che ripartisse proprio dai vescovi e, a seguire, dal clero regolare. È fuori di dubbio che Foscarari conoscesse il testo di de Vio così come la successiva ripresa fattane da Francisco de Vitoria: molti indizi lasciano intendere che il vescovo descritto nel Commento costituisse un modello di riferimento per il maestro del Sacro Palazzo improvvisamente trovatosi a guidare la diocesi di Modena e, come è stato scritto, i due teologi domenicani ebbero «una grande influenza sulle generazioni formatesi tra il 1520 e il 1540»293, cioè la generazione di Egidio e dei suoi compagni. Un qualche influsso poté inoltre esercitare l’aspra discussione che proprio negli anni in cui Foscarari fu maestro del Sacro Palazzo contrappose due uomini di punta dell’ordine domenicano, come Bartolomé Carranza, che aveva corroborato le tesi di de Vio su basi scritturistiche in un trattato pubblicato a Venezia nel 1547, e Ambrogio Catarino Politi – contestato con sprezzo da Foscarari in anni successivi294 – che invece sostenne la natura esclusivamente canonica della residenza295. Comunque sia, il richiamo insistito alla residenza e alla cura animarum presente nella trattazione del Caietano fu una costante dell’azione di Foscarari, che ribadirà, in pubblico e in privato, il dovere della residenza. Non solo: la

293 ALBERIGO, I vescovi italiani al Concilio di Trento, cit., p. 410.294 Foscarari riterrà illegittime le posizioni di Catarino perché fondate su presupposti canonistici e non teologici: «Non posso nominare il Catarino per theologo, essendo la profession sua di leggi et di canoni, et non di Scrittura», scriverà a Morone il 18 maggio 1562 nel vivo della battaglia sulla residenza de iure divino. «Sono io oculato testimonio d’alcuno che per haver letto l’opera del Miranda [...] ha rinonciato quei beneficii alli quali non potea fare residenza; non credo che questo sia mai avenuto per haver letta l’opera del Catarino, né anche credo che per simili lettioni alcuni si siano infammati a fare residenza, ma sì molti ritardati». Cfr. LM, cc. 291-300, qui cit. c. 292).295 Cfr. SCT, IV/1, pp. 184-185 e, più diffusamente, CARAVALE, Sulle tracce dell’eresia, cit., pp. 243 ss.

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moralità rigorosa, l’irreprensibilità dei comportamenti, la povertà, l’opera di pacificazione svolta sul versante politico e su quello religioso, la cura del gregge e le visite pastorali saranno le colonne del ministero del domenicano. Su questi presupposti, che non confliggevano né prescindevano dalle finalità politiche del suo invio a Modena, Foscarari costruì una proposta di riforma che, secondo i suggerimenti dello stesso de Vio, partiva da una teologia fondata non sulla precettistica e i canoni del diritto, ma sulla Scrittura e sulla residenza. Va poi notato come le aspettative dei modenesi all’arrivo del domenicano fossero già orientate su di un pastore che potesse garantire la sua presenza. Nelle cronache cittadine di Tommasino Lancellotti296 sono registrate le attese che circondavano il nuovo vescovo: «Assai anni fa nui modenesi non habiamo havuto vescovo almancho da 50 anni in qua, perché [...] non g’è mai stato nisuno salvo questo che è venuto questo dì; forse che lui driciarà quelle persone che non vano per la via de Dio drittamente [...] El tutto è stato per li mali pastori che hano tondato et havuto el latto del vescovato et hano lasato andare le pecore in bocha delli lupi»297. La mancata residenza era, nel racconto del cronista, il principio di tutti i mali e la causa del traviamento che aveva colpito la città. Foscarari condivise quell’analisi, come si può desumere dai richiami ai doveri del vescovo presenti nel suo epistolario. Così, ad esempio, ricordò ai canonici modenesi che «Dio [...] da’ pastori desidera principalmente la cura dell’anime»298. L’allontanamento dal gregge non poteva che provocare dolore, anche quando a determinarlo erano cause legittime come la partecipazione a un concilio ecumenico299:

Felice me – scrisse nel 1561 in procinto di partire per Trento – se un corpo in uno stesso tempo potesse essere in diversi luoghi o, sì come santo Ambrosio nella medesima hora si ritrovò in Melano et a Turone alla sepoltura di santo Martino, così anchora io potessi restarmene a Modona almeno per fino alla festa di Pasqua et essere a Trento come sono ubligato esser per commandamento di Sua Santità [...] Hora perché questo non è possibile, desidero almeno di stare a Modona il più che io potrò [... e] ordinar le cose di questa chiesa.

L’ufficio del pastore era «pascer[e] [le anime] et procurar che sian bone et che gustino le cose di Dio»300. Fin dal suo insediamento fu chiaro che il nuovo vescovo si sarebbe distinto dai predecessori: avrebbe praticato la residenza e si sarebbe occupato personalmente del clero e del popolo, secondo un’ispirazione teologica che affondava le radici nella Scrittura e in un richiamo costante alla Chiesa delle origini. Edificati su un solido impianto teologico, gli impulsi riformatori di Foscarari subirono dunque una profonda trasformazione all’indomani della sua 296 Su Lancellotti e la sua cronaca in relazione ai rivolgimenti religiosi qui descritti cfr. A. BIONDI, Tommasino Lancellotti, la città e la chiesa a Modena (1537-1554), in ID., Umanisti, eretici, streghe. Saggi di storia moderna, a cura di M. DONATTINI, Modena 2008, pp. 585-601; R. MEMEO, Tommasino Lancellotti, un cronista modenese del ‘500 tra eresia ed ortodossia, in «Atti e memorie dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria», LIX (1994), pp. 137-161.297 CrMo, X, pp. 256-257.298 Lettera del 15 ottobre 1551, in ACMo, Capitolo, 109, edita in AL KALAK, Gli eretici, cit., pp. 184-185.299 CFCh, cc. 236r-v; lettera al suffraganeo di Mantova (Modena, 9 marzo 1561).300 CFCh, c. 271v. La lettera, indirizzata al vicario della diocesi di Modena, non è datata, ma risale verosimilmente al 1561.

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destinazione a Modena: la declinazione pastorale cui dovettero adattarsi conferì nuove sfumature – e per molti aspetti maggior concretezza – al progetto di pacificazione e restaurazione della cristianità che il domenicano aveva in mente, ponendo al centro della riflessione non più le formule flessibili della teologia, ma gli equilibri del governo ecclesiale e gli spinosi rapporti tra il centro romano e le autorità diocesane.

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Capitolo TerzoIl vescovo riformatore

Pacificare la società

Il 23 maggio 1550 Foscarari fu nominato vescovo di Modena301 e, come si è visto nel capitolo precedente, a luglio raggiunse la diocesi che avrebbe guidato fino alla morte. La città non gli era completamente sconosciuta poiché sua madre, Orsina Lambertini, era imparentata con la famiglia modenese dei Molza302. La sua missione però era tutta da costruire, anche se non ci volle molto perché si definissero con precisione le priorità del suo governo. La residenza che intendeva svolgere si conciliava con un’azione concreta all’interno del tessuto cittadino, rivolta soprattutto su due versanti: da un lato il contrasto alla povertà diffusa, dall’altro un’opera di pacificazione che dalla città si estese presto alle periferie del territorio diocesano. L’attenzione ai poveri si era fissata nell’animo del nuovo vescovo sin dai tempi in cui suo zio e gli altri frati del convento di San Domenico si erano adoperati per rimediare alla carestia che aveva colpito Bologna303. Non appena giunto a Modena, Foscarari dovette trovare, almeno in alcune fasce della popolazione, una situazione non troppo diversa da quella vissuta allora, impegnandosi a promuovere un’opera pia che erogasse elemosine a sostegno degli indigenti. Il 6 ottobre 1550, dopo aver predicato in duomo, invitò i cappellani della città a radunare i fedeli per sollecitare la raccolta di aiuti304; il 2 novembre, sull’esempio di analoghi provvedimenti presi a Bologna, sperava di poter fare «ispexare li poveri», sebbene non mancassero forti ostacoli alla realizzazione del suo piano305. Sul finire dell’anno, tutto era finalmente pronto. Il 31 dicembre il cronista Lancellotti annotava che, su impulso del vescovo, si era dato principio a un’opera per la quale «molti se sono tassati de pagare ogni meso certa quantità de dinari [...] e Sua Signoria despensa tutto el sopravanzo della sua intrata del vescovato»306. Pur non potendo disporre di rendite alte a causa delle tante pensioni che il dimissionario Morone si era riservato307, Foscarari non mancò di devolvere ai poveri tutto quanto avanzava dalle sue entrate e il 19 gennaio 1551, intervenendo nell’assemblea della Comunità, esortò i

301 G. VAN GULIK, C. EUBEL (a cura di), Hierarchia catholica medii et recentioris aevi, Münster 1910, III, p. 252. Molte le attestazioni della sua elezione: la bolla di nomina è conservata in ACMo, T.4.XCIII; altra documentazione in ASV, Archivio Concistoriale, Acta Miscellanea, 19, cc. 31r-v; ASV, Archivio Concistoriale, Acta Miscellanea, 9, cc. 142r-v; ASV, Archivio Concistoriale, Acta Camerarii, 8, c. 154r; ASV, Registri Vaticani, 1729, cc. 201v-204r.302 Lo riferisce il cronista Tommasino Lancellotti, che parla di «monsignor vescovo Egidio Foscarare bologneso, nato da una modenesa di Molza» (CrMo, XI, p. 176). Nell’epistolario del vescovo si ritrova in effetti una missiva a Giovanni Battista Molza, definito «parente» dallo stesso Foscarari. Cfr. CFCh, cc. 256r-v; altra copia in CFBo, Parte Prima, cc. 14r-15r.303 Cfr. supra, pp. xxxx304 CrMo, X, p. 292. Lo stesso metodo sarebbe stato adottato anche negli anni successivi; cfr. ivi, XII, p. 111.305 Ivi, X, p. 306.306 Ivi, X, p. 326.307 «Ei fu liberalissimo sovvenitore de’ poveri e il celebre arcivescovo di Braga Bartolommeo de’ Martiri, che ne fu testimonio, non poté non istupire altamente che un vescovo che appena avea mille ducati di entrata potesse esser sì prodigo nelle limosine» (G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana, Milano 1824, VII/1, pp. 496-497).

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magistrati a sovvenire alle necessità dei molti disperati che vagavano per le vie cittadine308.La fama di quel vescovo attento a lenire la povertà del suo gregge non tardò a diffondersi, come testimoniano le memorie di Ludovico da Prelormo: «Frater Egidius de Bononia lettore si fecce honor grandissimo in disputare [...] al sacro concilio, ma più nel suo vescovato de Modena dove dava ogni cosa, etiam li propri annelli che si portino in dito et le proprie veste, ita che per forza acomprò il santo paradiso»309. La povertà personale trovava fondamento nel cuore della Scrittura. La lunga lettera che il 28 novembre 1551 scrisse ai Conservatori – i membri del consiglio cittadino – per ringraziarli dell’attenzione che avevano deciso di riservare ai bisognosi era quasi un manifesto sul primato dell’elemosina310. Secondo gli schemi retorici e argomentativi cui era solito ricorrere, il vescovo citava ampiamente il Nuovo e l’Antico Testamento per dimostrare che con quell’opera i magistrati modenesi si garantivano le promesse divine e la vita eterna. Il modello era il «prencipio della repubblica christiana», la Chiesa primitiva in cui, «essendo ogni cosa commune [...], per il mezzo delle collette et elemosine si provedeva copiosamente a tutti i bisognosi». La scelta dei Conservatori, spiegava Foscarari, era inoltre «di grandissima utilità» perché «i poveri [erano] una grossissima parte della città, onde mantenendo quelli si mantiene l’istessa città». Da quella moltitudine in cui erano «molti poveri fanciulli che saranno anchora splendore alla città» sarebbero potuti provenire un giorno grandi uomini, come la storia insegnava; e soprattutto si sarebbe ottenuta «la infallibile et certa promissione del nostro Redemptore [...]: ‘Quello che si fa a un povero in nome mio, si fa a me’; sì che vestendo un povero o nodricandolo o sostentandolo, nodride et sostentati il nostro Signor et salvatore». «Gli atti della religione – argomentò – sono senza dubio necessari a qualunque christiano, ma assai più necessario a fare bene a’ poveri»: la carità è superiore a ogni sacrificio e non vi è digiuno, per quanto lodevole, che possa valere come un gesto di amore fraterno. Per sfamare gli abitanti della città, il vescovo aveva anche chiesto al duca di poter derogare al bando che imponeva l’invio a Ferrara dei raccolti delle tenute di Massa e Finale, ai confini settentrionali della diocesi. Richiamando le esenzioni di cui godevano le proprietà del vescovado, supplicava di dirottare a Modena i frutti di quelle terre in modo da nutrire «molti poveri a quali [....] fare larghissimamente elemosine»311. La preoccupazione per gli indigenti fu costantemente in cima ai pensieri di Foscarari, che non mancò di intercedere a loro favore presso le magistrature cittadine e la corte ferrarese312, fino a sollecitare nel 1555 la fondazione di un secondo Monte di pietà per alleviare le condizioni in cui si trovavano i

308 ASCMo, Vacchette, 1551, c. 18v. 309 Prelormo, p. 192.310 La missiva è conservata in ASCMo, Lettere di personaggi illustri, filza II, frate Egidio Foscherari. Di qui sono tratte le citazioni che seguono.311 ASMo, Giurisdizione sovrana, 265B, lettera del vicario diocesano Francesco Fantino al duca (Modena, 4 luglio 1551).312 Cfr. ad es. le lettere riguardanti la lite tra i poveri della città e Vincenzo Codebò per cui Foscarari si adoperò con il duca: ASMo, Giurisdizione sovrana, 261, fsc. 66, cc. 106-107, 108-109 e ASMo, Rettori dello Stato, Modena, 62, passim (fine 1550-inizio 1551). Altre missive in cui il vescovo patrocinò bisognosi e indigenti in ASMo, Giurisdizione sovrana, 261, fsc. 66, cc 137-138, 146-147.

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modenesi313. Ancora nel 1560, presiedeva una solenne processione per raccogliere fondi «pro alendis rusticis qui fame moriebantur»314 e tre anni dopo istituì un collegio per giovani orfane (le «putte del vescovo») da avviare al matrimonio o alla vita monastica315. Quando poi si trattò di risistemare una parte del palazzo vescovile, Foscarari decise di costruire una fontana di pubblico accesso, alleviando le condizioni della popolazione e aprendo di fatto la residenza del vescovo alla città316. Ma accanto alla povertà, che sin dagli anni quaranta aveva richiesto alla Comunità di accorpare e coordinare le varie opere assistenziali cittadine attraverso la cosiddetta Santa Unione317, problemi altrettanto gravi venivano dai conflitti e dalle faide che insanguinavano Modena e le sue campagne. A riguardo, il vescovo si occupò soprattutto della dura contrapposizione che opponeva due importanti famiglie modenesi, i Bellincini e i Fontana. La lite si trascinava dal 1546 quando i giovani dei due casati si erano scontrati in una rissa presto trascesa in una lunga serie di vendette e omicidi318. A seguito di quegli eventi l’intera città si era schierata, chi a favore dei Bellincini (Forni, Molza, Balugola, Cambi, Carandini e Morano), chi per i Fontana (Boschetti, Rangoni, Montecuccoli e Cesi). Il duca, preoccupato dall’instabilità che derivava da quella situazione, tentò di porre un argine alla faida esiliando i capifazione e cercò aiuto nel nuovo ordinario, «persona non meno amatrice della pace [...] che officiosa a disporre li animi»319. I carteggi tra Ercole II d’Este e Foscarari conservano ampie tracce del lavoro svolto dal domenicano che, per riconciliare le parti, si avvalse della mediazione di Camillo Bellincini, «diligentissimo procuratore della pace»320. Il 3 maggio 1556, dopo intense trattative, l’accordo sembrava vicino e Modena intravedeva la fine di un conflitto che aveva lasciato sul campo più di una vittima321. Successivamente il vescovo fu chiamato a dirimere molte altre liti e contenziosi riguardanti sia membri del clero sia laici, a riprova di un impegno ininterrotto per la pacificazione322.313 Cfr. FONTAINE, For the Good of the City, cit., pp. 40-41. 314 L. VISCHI, T. SANDONNINI, O. RASELLI (a cura di), Cronache modenesi di Alessandro Tassoni, di Giovanni da Bazzano e di Bonifazio Morano, Modena 1888, p. 346. Furono raccolti mille scudi d’oro.315 D. GRANA, Per una storia della pubblica assistenza a Modena. Modelli e strutture tra ‘500 e ‘700, a cura di G. BERTUZZI, Modena 1991, pp. 114-122.316 Gli stemmi di Foscarari si trovano ancora oggi sulla porta di ingresso del palazzo vescovile e sulla fontana che fece edificare; cfr. G. PISTONI, Il palazzo arcivescovile di Modena, Modena 1976, p. 50. 317 Sulla Santa Unione e le frizioni tra magistrature civili ed ecclesiastiche che la sua istituzione produsse cfr. S. PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi nel Cinquecento modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Morone, Milano 1979, pp. 147-161; GRANA, Per una storia, cit., pp. 9-19; C. SANTUS, La nascita della Santa Unione e l’assistenza cittadina (1541-1542), in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi», XI, XXXIII (2011), pp. 85-102.318 Cfr. L. VEDRIANI, Historia dell’antichissima città di Modona, Modena 1666-1667, II, pp. 563-564. 319 Cfr. ASMo, Giurisdizione Sovrana, 261, fsc. 66, c. 120; minuta ducale a Foscarari del 15 aprile 1556.320 Ivi, 261, fsc. 66, c. 135 (lettera di Foscarari al duca del 17 ottobre 1555). Per i meriti acquisiti, Bellincini fu raccomandato da Foscarari al duca come magistrato delle acque (cfr. ivi, 261, fsc. 66, c. 144). 321 Cfr. Ivi, Appendice B (lettera di Foscarari al duca).322 Molte sono le cause per motivi economici o di residenza del clero attestate in ASMo, Notarile, Modena, 1760-1772, passim. Anche da Roma si ricorse agli uffici di Foscarari, come dimostra

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La sua capacità di porsi al di sopra degli interessi particolari fu chiara ai modenesi sin dal suo ingresso. In un primo momento non mancarono addirittura timori dovuti a quell’estraneità agli equilibri cittadini, poi rivelatasi tanto preziosa: nel luglio del 1550 i Conservatori opposero agli agenti di Foscarari alcune eccezioni procedurali pur di ritardarne l’insediamento e, soprattutto, per ribadire la propria autorità. Se essa doveva essere subordinata a qualcuno, non era al pontefice che aveva nominato il nuovo vescovo, ma al duca di Ferrara, cui si chiedeva un assenso formale all’ingresso del domenicano323. Era una situazione che denunciava uno stato di tensione tra il Consigio cittadino e le autorità religiose, specie di fronte alla designazione di un esponente dell’ordine degli inquisitori. A questo proposito, un lapsus del cronista Tommasino Lancellotti rivela le voci e le preoccupazioni che dovettero precedere l’arrivo di Foscarari. Il 30 aprile 1550 il cronista registrava la «nova» che Morone aveva «renontiato detto vescovato a frate Liandro di Fuscarari da Bologna del ordine de Santo Domenico»324, equivocando evidentemente il nome del nuovo vescovo con quello del suo confratello Leandro Alberti, da tempo impegnato nella gestione del Sant’Ufficio bolognese. Di Foscarari dunque si sapeva poco, e ciò che si temeva in città era l’arrivo di un vescovo-inquisitore che avrebbe creato scompiglio tra i Conservatori e le famiglie che rappresentavano. Di lì a breve, tuttavia, quelle ansie si sarebbero rivelate infondate e il domenicano avrebbe mostrato un impegno mai registrato prima a favore della sua diocesi. Pur guardandosi da ingerenze o indebite invasioni di campo («l’officio mio in Modona non è d’intricarmi ne’ governi civili della città», scriverà)325, il vescovo sarebbe stato ascoltato più volte dal Consiglio cittadino che raccolse ripetutamente i suoi consigli per guarire una società scossa da violenze e miserie.

La restaurazione dell’autorità vescovile

Per ristabilire la pace fu necessario anzitutto accompagnare agli sforzi di conciliazione una restaurazione dell’autorità vescovile. Fin dai primi giorni a Modena, Foscarari si distinse per gesti e pratiche in grado di dare nuovo lustro alla chiesa modenese e ai suoi ordinari, dopo che anni di mancata residenza ne avevano minato il prestigio. Appena arrivato rivitalizzò la prassi liturgica e la devozione ai santi, presenziando solennemente ad alcuni appuntamenti: celebrò con grandi apparati la festività dell’Assunta, dedicataria della cattedrale326, ordinò ai canonici di recitare con più decoro l’ufficio della Madonna327, e il 31 gennaio 1551 presiedette la cerimonia in onore del santo impartendo la benedizione con il prezioso reliquiario che ne custodiva le ossa328. Negli anni successivi avrebbe ammonito i fedeli dal pulpito sul dogma della Trinità e sull’importanza delle processioni, in particolare quella del Corpus una lettera di Reginald Pole al duca di Firenze in cui indicava il domenicano come giudice in una controversia sul trasferimento di alcune reliquie; cfr. BAV, Vat. lat., 6754, c. 275r (un regesto in T.F. MAYER, The correspondence of Reginald Pole, Aldershot 2003, 2, p. 136).323 La vicenda è ripercorsa in AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 61-62.324 CrMo, X, p. 215.325 CFCh, c. 262v; lettera non datata a don Nicolò Papa.326 CrMo, X, pp. 275, 278. 327 Ivi, X, p. 294. 328 Ivi, X, p. 340.

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Domini329, e con la sua predicazione si sarebbe guadagnato la stima e l’approvazione di quanti a Modena videro la possibilità di un ritorno all’ordine e alla fede cattolica: «Se li vescovi passati havesseno tenuto questo stilo – commentò Lancellotti –, li cristiani seriano devoti»330. Come notò il cronista, dalla presenza e autorevolezza del vescovo, rafforzate dai riti appena descritti331, dipendeva la riforma della diocesi, che Foscarari promosse con energia cercando anzitutto di riprendere il controllo del clero e delle parrocchie cittadine. Il 9 aprile 1553, ottava di Pasqua, impose ai parroci della città di compilare una lista degli inconfessi e incomunicati sopra i 14 anni332; si preoccupò di amministrare le cresime, di predicare nelle parrocchie visitate333 e di procedere all’esame e all’ordinazione degli aspiranti sacerdoti334. Fece inoltre ricorso ai tradizionali stumenti del governo episcopale. L’8 aprile 1551 «tutti li preti della diocesi [erano] venuti a Modena al sinodo»335. Presieduta la messa dello Spirito Santo e coadiuvato dal nuovo vicario Francesco Fantino, Foscarari riunì il clero «in la sala del vescovato [e] lui in persona ge ha detto el modo come se hano a governare per l’anima e per el corpo a honore de Dio e della santa madre Giesia»336. Forse a quell’iniziativa è da ricondurre un libretto uscito dai torchi dello stampatore Gadaldino, in cui erano elencati i rudimenti della dottrina e della liturgia, probabilmente a uso di preti e religiosi337. Che ve ne fosse bisogno lo dimostrarono i risultati della visita pastorale che, a differenza di molti predecessori, il vescovo volle compiere di persona. Sin dall’agosto del 1550, secondo i progetti esposti a Ercole II, il domenicano era intenzionato a ispezionare le varie parrocchie della diocesi. Lo scopo principale era la «reformatione delle persone ecclesiastiche et delle chiese» e, a quanto è dato capire, i mezzi di cui si sarebbe avvalso non sarebbero stati dei più morbidi: «Essendo io per visitar al presente questa mia diocesi – scriveva al duca il 22 agosto – [...] supplico Vostra illustrissima Eccellentia a concedermi una patente a tutti gli ufficiali suoi che, recercandoli, mi prestano il brazo seculare acciò che la predetta visita conseguischa l’effetto suo pienamente»338. Convocato a Trento per il concilio, il domenicano dovette sospendere i suoi progetti, ma appena rientrato iniziò la visita della diocesi, «cossa che non ha mai fatto li vescovi de Modena alli anni passati»339.

329 Cfr. Ivi, XI, p. 427.330 Ivi, XI, p. 219; commento alla predica che il vescovo tenne il 15 maggio 1552 nella chiesa di San Barnaba.331 Lo ha notato opportunamente FONTAINE, Making Heresy cit.332 CrMo, XI, p. 389. 333 Cfr. ad es. ivi, X, p. 290; XI, p. 264; XII, p. 86. Anche i verbali delle visite pastorali, conservati in ACMo, O.I.33, riportano l’attività di predicazione svolta dal vescovo nelle varie pievi visitate («reverendus episcopus habuit concionem» ed espressioni simili).334 CrMo, X, pp. 293, 322; XI, p. 264.335 Ivi, X, p. 377. 336 Sebbene secondo il cronista gli atti del sinodo avrebbero dovuto essere pubblicati («el tutto farà stampare»), non è stato possibile ritrovarne traccia. 337 Si tratta di un breve opuscolo, stampato a Modena da Antonio Gadaldino in data imprecisata. Il testo sembra raccogliere i contenuti essenziali di cui il clero doveva essere in possesso. L’unico esemplare reperito nel corso della ricerca è in BEUMo, .H.7.5.2.338 ASMo, Giurisdizione sovrana, 261, fsc. 66, c. 102.339 CrMo, XI, p. 288. Sulle visite pastorali e il loro utilizzo come fonti cfr. in sintesi C. NUBOLA, A. TURCHINI (a cura di), Fonti ecclesiastiche per la storia sociale e religiosa d’Europa (XV-XVIII secolo), Bologna 1999.

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Ad attenderlo c’era una situazione di crisi che perdurava da secoli340. La visita fu suddivisa in tre tornate: la prima nel maggio-giugno del ‘52 interessò la città, la seconda dal 17 luglio al 21 agosto toccò le parrocchie dell’area pedemontana e appenninica, la terza tra maggio e luglio del 1553 riguardò le pievi principali dell’ampia fascia rurale a nord della diocesi. In tutto furono ispezionate quasi novanta parrocchie, che il domenicano – come si legge nella motivazione della visita – volle vedere con i propri occhi, «cogitans quanto melius ea quae occulis cernuntur quam quae auribus audiuntur perspici dignoscique possint»341. Secondo uno schema consolidato, in ogni chiesa il vescovo celebrò la messa, tenne un’omelia al popolo, impartì le cresime ed esaminò le specie sacramentali e gli arredi sacri (fonte battesimale, tabernacolo, suppellettili, altari, ecc.), dando disposizioni per migliorare o adeguare gli spazi sacri. In molti casi la visita costituì l’occasione per nominare massari che curassero l’amministrazione dei beni comuni e stilare un inventario degli arredi. Talvolta si presentarono al vescovo coppie di sposi, desiderosi di regolarizzare la propria posizione dopo avere contratto matrimonio entro il quarto grado di parentela (condizione vietata dalle prescrizioni canoniche): allo scopo, Foscarari chiese a Roma la facoltà di dispensare i consanguinei sposatisi senza le necessarie licenze342, in modo da evitare che i fedeli dovessero separarsi a causa degli insostenibili costi richiesti per rimediare a quelle situazioni («ad obviandum scandalis et periculis quae exinde inter eos atque eorum parentes [...] si divortium fieret facile oriri possent»). L’8 marzo 1553 Giulio III indirizzò a Modena un breve che consentiva di risolvere un problema dalle gravi implicazioni di ordine sociale343, sul quale lo stesso Foscarari sarebbe intervenuto in concilio chiedendo che gli ordinari potessero sanare irregolarità di quel genere344. Quello dei matrimoni non fu però l’unico problema che incontrò lungo il suo itinerario. A Vignola, Sassomolare, Maserno, Verica e in altre località rimediò all’ignoranza del clero prescrivendo alcuni libri da studiare e utilizzare nella pratica quotidiana: «la santa Bibia, un espositore di quella overo d’una parte», «una summa di conscienza di quelle che sono per alphabetto» (cioè in ordine alfabetico), gli Avisi di coloro che hanno cura di anime del vescovo spagnolo Juan Bernal Díaz de Luco, conosciuto nel 1551 a Trento345, e il Manipulus 340 Per quanto concerne il vescovo Foscarari, il registro delle visite pastorali della diocesi di Modena conserva i verbali delle visite svoltesi dal 15 maggio al 21 agosto 1552 e dal 17 maggio al 30 luglio 1553; cfr. ACMo, O.I.33, cc. 1r-58v. Gli atti della visita alla cattedrale (11 giugno 1552) e alla pieve di Ganaceto (25 giugno 1553) si trovano anche in ASMo, Notarile, Modena, 1761, n. 591. Sulla radicata situazione di decadenza della chiesa modenese v. in sintesi M. AL KALAK, «La chiesa sta malissimo». Giovanni Morone e le cure di una diocesi post-tridentina, in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 2013, pp. 131-164: 135-136 e rinvii bibliografici ivi reperibili. 341 ACMo, O.I.33, c. 1r. 342 Cfr. ad es. ivi, cc. 5r (Vignola), 19r (Montalbano). 343 BAV, Vat. lat., 7160, cc. 250v-251v, «Facultas pro episcopo Mutinensi de dispensando cum copulatis et coniunctis matrimonialiter». Il provvedimento reca la data dell’8 marzo, senza indicazione dell’anno. Un riferimento alla visita pastorale intrapresa dal destinatario («diocesim tuam visitando») consente tuttavia di assegnare il testo al 1553, quando Foscarari aveva quasi completato l’itinerario tra le parrocchie della diocesi. 344 Cfr. CT, IX, pp. 710-711 (16 agosto 1563). Sulle discussioni conciliari relative al matrimonio cfr. D. LOMBARDI, Storia del matrimonio, dal medioevo a oggi, Bologna 2008.345 Avisi di coloro che hanno cura di anime [...] Opera utilissima e pure hora recata da la lingua spagnola in questa nostra da messer Giovan Tarcagnota, Venezia 1551. L’originale spagnolo era stato pubblicato nel 1539.

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curatorum di Guy de Montrocher346. A tutti comandò inoltre di ripristinare le congregazioni rurali – riunioni periodiche del clero convocate da un vicario designato dal vescovo347. Accanto alla preoccupazione per la frequenza dei fedeli ai sacramenti348, l’attenzione allo stato dei parroci e dei cappellani fu prioritaria: in molte località il vescovo convocò i sacerdoti «docendo quem ordinem et modum tenere debeant in grege suo curando et docendo ut cura non conveniat aliquam artem exercere»349, né mancò di minacciare, come aveva preannunciato al duca, l’«auxilio bracchii saecularis» qualora le sue disposizioni fossero state disattese350. Foscarari utilizzò dunque la visita come momento di incontro e istruzione del clero. Ma per tentare di riformare la diocesi e rafforzare l’autorità vescovile, oltre all’impegno personale era necessario circondarsi di collaboratori in grado di intervenire efficacemente. I ruoli-chiave furono quasi sempre destinati a personaggi non provenienti dalla chiesa modenese così da evitare condizionamenti. All’inizio Foscarari si servì del vicario di Morone, Gian Domenico Sigibaldi, di cui poté sfruttare la lunga esperienza (aveva ricoperto il suo ufficio per oltre trent’anni). Ormai vecchio, Sigibaldi morì il 16 dicembre 1550351 e a succedergli in via provvisoria fu l’arciprete del Capitolo, Annibale Tebaldi, nominato il 28 gennaio 1551352. Meno di tre mesi dopo, a inizio aprile, il suo posto fu assegnato al già menzionato Fantino, quarantenne canonico di Ferrara e doctor utriusque, rimasto in carica fino al 1553 inoltrato353. Nonostante il duca caldeggiasse la nomina di un certo don Eufemio Guerrieri354, per sostituire Fantino Foscarari designò Giovanni de Benedictis, magister in teologia e dottore in diritto. Originario di Conselice, de Benedictis svolse il suo ufficio dal 1554 ai primi mesi del 1560355, seguito dal modenese Matteo Maria 346 L’opera, composta negli anni trenta del XIV secolo, ebbe una fortuna straordinaria con oltre un centinaio di edizioni a stampa. Cfr. M. MILWAY, Forgotten best-sellers from the dawn of the Reformation, in R.J. BAST, A.C. GOW (a cura di), Continuity and Change. The Harvest of Late-Medieval and Reformation History. Essays presented to Heiko A. Oberman on his 70th Birthday, Leiden 2000, pp. 113-142. 347 ACMo, O.I.33, cc. 7v (Vignola), 24v (Sassomolare), 29v (Maserno). Sulle congregazioni di preti nel modenese, v. G. RUSSO, Il primo sinodo modenese dopo il Concilio di Trento, in «Atti e Memorie della Deputazione di storia patria per le antiche provincie modenesi», X, III (1968), pp. 117-124: 120-122. 348 In molte parrocchie compaiono annotazioni su inconfessi e incomunicati; cfr. ad es. ACMo, O.I.33, cc. 15v (Castellino), 18r (Susano), 21r (Semelano), 23v (Villa d’Aiano), 34r (Castagneto), 35r (Verica), 39r (Camatta), 42v (Castellaro), 44v (Montecreto).349 Cfr. ad es. ivi, cc. 29r (Montespecchio, cui si riferisce la citazione su riportata), 35r (Verica).350 Ivi, c. 14v.351 CrMo, X, p. 320. 352 Il decreto di nomina in ASMo, Notarile, Modena, 1760, n. 252. Su Tebaldi, divenuto arciprete del Capitolo il 6 febbraio 1549 per la morte di don Andrea Civolini, cfr. ACMo, O.II.29, c. 16v.353 Per il suo ingresso a Modena, cfr. CrMo, X, pp. 377, 388. L’ultima attestazione del suo operato reperita nel corso della presente ricerca risale al giugno 1553; cfr. ASMo, Notarile, Modena, 1762, n. 139. 354 Il duca raccomandò Guerrieri a Foscarari sul finire del 1551 e, di nuovo, nel dicembre 1557. Cfr. ASMo, Giurisdizione Sovrana, Appendice B, c. non num. (28 novembre 1551; minuta ducale a Foscarari); ivi, 261, fsc. 66, cc. 146-147 (Modena, 13 dicembre 1557; Foscarari al duca). 355 De Benedictis compare in un primo rogito il 30 maggio 1554 (ASMo, Notarile, Modena, 1763, n. 411) e in un ultimo l’8 febbraio 1560 (ACAMo, Acta beneficialia, Rogiti vari, serie II, filza I, n. 4). Il 14 ottobre 1556 chiedeva al duca di potere condurre a Modena i frutti di un beneficio di cui godeva a Conselice; cfr. ASMo, Giurisdizione sovrana, 265B.

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Maresani, in carica tra la primavera del 1560 e gli inizi del ‘63356. Dopo di lui fu la volta del chierico bolognese Maccagnano Azzoguidi, dottore in utroque e vicario dal 1563 al settembre del 1564357, quando Foscarari, ormai al termine della sua vita, nominò il modenese Gaspare Silingardi358, destinato a divenire uno dei principali coadiutori di Morone dopo il suo ritorno a Modena nel 1565. Per la maggior parte degli anni in cui fu vescovo, il domenicano considerò preferibile non servirsi di uomini troppo coinvolti negli equilibri della società modenese, né – come nel caso di don Eufemio Guerrieri – patrocinati dal duca di Ferrara, utilizzando piuttosto personaggi super partes, in grado di non cadere vittime dell’irrequieto clero locale o del gioco politico tra le famiglie della nobiltà cittadina.Una linea di intervento simile è desumibile anche da un’altra nomina promossa da Foscarari, quella del visitatore diocesano fra Girolamo Tinelli da Montalcino359. Vari atti amministrativi mostrano come dal 1557, il vescovo avesse deciso di affidare al frate, un minore conventuale di origini toscane, l’incarico di «visitator generalis»360. Il francescano, già distintosi per la lotta all’eresia e per l’opera di pacificazione svolta come cappellano a Finale, fu incaricato di visitare pievi e parrocchie della diocesi e in molti casi intervenne per risanare le fabbriche delle chiese, restaurare la disciplina e tutelare i diritti ecclesiastici usurpati dai laici. Secondo alcuni repertori, avrebbe seguito Foscarari in concilio in qualità di teologo361 – era magister theologiae – e certamente meritò di essere da lui celebrato con parole di profonda gratitudine: «È huomo di grandissima bontà», scrisse il domenicano, e «per le molte fatiche fatte per me [merita che] io gli habbia obligo immortale»362.Non vi è dubbio poi che un sostegno fondamentale ai piani di Foscarari provenne anche da un altro centro che godette di una certa autonomia dal gioco politico locale: il convento cittadino di San Domenico. Comprensibilmente la famiglia domenicana continuò a essere per il vescovo un punto di riferimento, e i confratelli di stanza a Modena non mancarono di agevolare in vario modo il progetto di riforma e pacificazione da lui dispiegato. Anzitutto Foscarari elesse come suoi procuratori ed economi personali i confratelli

356 Cfr. rogiti del 22 maggio 1560 e 12 gennaio 1563 in ASMo, Notarile, Modena, 1768, n. 106 e 1771, n. 300. Maresani risulta ancora vicario il 26 febbraio 1563; cfr. ACAMo, Acta beneficialia, Rogiti vari, serie I, filza II, n. 43.357 Cfr. rogito del 29 aprile 1563 in ASMo, Notarile, Modena, 1771, n. 390 e la lettera di Foscarari ai canonici del 9 settembre 1564 in cui si annunciavano le dimissioni di Azzoguidi e la nomina di Silingardi in attesa che un altro candidato patrocinato dal vescovo – non è chiaro chi fosse – si rendesse disponibile (ACMo, Capitolo, 109).358 Su Silingardi che, dopo Foscarari e Morone, servì come vicario a Piacenza, Napoli e Ravenna, fino a diventare vescovo di Ripatransone (1582) e di Modena (1593), v. L. VEDRIANI, Catalogo de vescovi modonesi, Modena 1669, G. TIRABOSCHI, Biblioteca modenese, Modena 1781-1786, V, pp. 119-124, B. RICCI, Le ambascerie estensi di Gaspare Silingardi, vescovo di Modena, alle corti di Filippo II e di Clemente VIII, in «Rivista di scienze storiche», II (1905) e III (1906).359 Su Tinelli rinvio a quanto reperibile in AL KALAK, «La chiesa sta malissimo», cit., pp. 133-134. 360 Cfr. ASMo, Notarile, Modena, 1769, nn. 530-533, in cui si ricorda la nomina risalente al 13 agosto 1557.361 V. R. VARESCO, I frati minori al Concilio di Trento, in «Archivum Franciscanum Historicum» 42 (1950), pp. 95-158: 140. 362 CFCh, cc. 208r-v, lettera senza data (1561?) di Foscarari a un non meglio precisato «messer Ghisiliero». Nello stesso manoscritto si trova un’altra missiva riguardante Tinelli, allora in lite con il convento di Montalcino: cfr. ivi, cc. 222v-223r (lettera senza data di Foscarari al generale di San Francesco).

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Vincenzo Scotti da Vigevano – cugino del più celebre Tommaso363 – e Domenico da Imola. Il primo venne nominato il 17 gennaio 1551, mentre il secondo lo affiancò a partire dal 18 ottobre 1558 quando per Foscarari iniziò a profilarsi la dura esperienza della prigionia364. Entrambi avevano coadiuvato il bolognese dagli esordi del suo episcopato: se fra Domenico aveva raggiunto Modena verso la metà del ‘53 e anche dopo la nomina a inquisitore, giunta quattro anni più tardi, aveva forse continuato a vivere in vescovado365, Scotti era a servizio di Foscarari addirittura dagli anni romani quando svolse per lui l’incarico di segretario366. Un aiuto gli venne anche dai due confratelli che si avvicendarono alla guida dell’Inquisizione modenese negli anni cinquanta, fra Michele della Coltre367 e Angelo Valentini, che spalleggiarono ripetutamente le sue scelte in materia di controllo anti-ereticale. Tale era la solidarietà tra il vescovo e gli inquisitori di Modena che questi ultimi chiesero le sue raccomandazioni per ottenere trasferimenti, cambi di mansione e promozioni dai loro superiori368. La fiducia reciproca si conservò salda fino agli ultimi anni del mandato di Foscarari come si evince dagli auguri che indirizzò, intorno al 1562, al neoeletto priore Gregorio Boldrini369: Giudico [il priorato di Vostra Reverentia] grande perché infatti è grande, ma alli miei commodi grandissimo. Io non ho cosa che più mi sia al cuore che la città di Modona: di quella penso et ragiono sempre, et i suoi commodi sono unicamente desiderati da me. Et in Modona il mio cuore è il convento di San Domenico, del quale è in parte la famiglia che sta in vescovato, et a questi non dubito che sarà grandissima l’utilità che gliene verrà [...] Prego lei ad accettare la famiglia del vescovato nell’istesso modo che accetta quelli che stanno nel convento di Santo Domenico et usandola in tutte le sue occasioni et havendone cura come di sue pecore370.

363 Su Tommaso Scotti, commissario generale del Sant’Ufficio, v. PM 2, II, pp. 51-52.364 Non mi è stato possibile reperire l’originale della procura conferita a Scotti, di cui tuttavia fanno esplicita menzione gli atti da lui rogati per conto del vescovo (cfr. ad es. ASMo, Notarile, Modena, 1768, nn. 120, 154, 160, 186, 194, 281, 303, ecc.). La procura a Domenico da Imola è reperibile ivi, 1766, n. 232. L’azione dei due domenicani come procuratori di Foscarari è attestata anche dai registri della mensa vescovile; cfr. AAMo, Registri della mensa vescovile, n. 46 («A. Ab anno 1550 ad 1562»).365 Lo suggerisce un promemoria amministrativo del 28 gennaio 1559 che il notaio di curia Annibale Cavallerini indirizzò «in Modona, in vescovato», «al molto reverendo padre fra Dominico da Imola mastro di casa del reverendissimo monsignor vescovo di Modona» (ASMo, Notarile, Modena, 1767, n. 341).366 Lo rivelano i registri dei procuratori dell’Ordine domenicano: «Reverendo patri magistro sacri pallatio frati Egidio bononiensi concessum fuit ut possit acceptare episcopatum Mutinensem etc. Item ut possit penes se retinere ut antea fratrem Vincentium de Viglevano» (AGOP, IV.29, Regestum actorum regiminis Stephani Usodimare, c. 25r; la notizia risale a un periodo imprecisato tra il maggio e il novembre del 1550). 367 Il domenicano Michele della Coltre nacque verso il 1501. Trascorse la sua vita tra Bologna, Roma e Modena, di cui era originario. Intimo del Morone, nel 1550, all’arrivo di Foscarari, era a Modena in qualità di commissario apostolico contro l’eresia. Secondo la testimonianza di Reginaldo Nerli, era già morto nel marzo del 1558. V. PM 2, I, pp. 248-250.368 Significativa a riguardo la richiesta inoltrata da Foscarari al provinciale di Lombardia: «Quando piacerà anchora d’essaudire il padre inquisitore di Modena et commettere quello officio ad un altro, credo che sarà bene. Egli mi fa instanza che ne scriva a Vostra Reverentia et io la rimetto al suo prudente giudicio»; lettera non datata in CFCh, cc. 216v-217r. 369 Su Boldrini, divenuto priore nel 1562-63 e più tardi vescovo di Mantova, v. PM 2, I, pp. 120-121. 370 CFCh, cc. 252v-253r (lettera non datata, ascrivibile al 1562/63 inizio del priorato di Boldrini).

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La missiva consente di cogliere il doppio binario dell’esperienza di Foscarari: mai accantonata la spiritualità domenicana, il bolognese accettò la mitra vescovile con lo zelo riformatore che la tradizione del suo ordine seppe consegnargli. Se Modena e il suo gregge furono costantemente in cima ai suoi pensieri, il cuore della città fu, significativamente, il convento domenicano. Persino il vescovado, con i frati che Foscarari portò con sé ricreando un microcosmo conventuale, divenne una propaggine ideale di San Domenico. Al di là di quanto i mutamenti politici e l’ascesa del Sant’Ufficio ai vertici della Chiesa avrebbero prodotto, gli aiuti su cui il vescovo poté contare – da quelli del suo ordine al contributo dei collaboratori di cui si circondò – furono un valido strumento per sostenere il progetto di riforma che aveva in mente. Il duro confronto con i preti della diocesi e le resistenze opposte da più parti avrebbero tuttavia dimostrato che la strada era tutta in salita.

La riforma del clero e dei religiosi

Nei piani di Foscarari, la sorveglianza sul clero non si limitò ai provvedimenti presi all’inizio degli anni cinquanta: l’indizione di un nuovo sinodo nel 1556371, una visita pastorale compiuta – in spirito di povertà – in quello stesso anno372 e la nomina di frate Girolamo Tinelli a visitatore diocesano (1557) confermarono che l’azione riformatrice non si sarebbe esaurita nel giro di poco tempo. Da Roma, dove – ormai regnante Paolo IV – si era più preoccupati del contrasto all’eresia che di questioni pastorali, si chiesero informazioni sullo stato in cui versava la diocesi emiliana e nel settembre del ‘56 Foscarari inviò il canonico Antonio Fiordibello373 come suo agente ad limina374. Quella serie articolata di iniziative mostrava, su piani diversi, come l’impegno del domenicano non si fosse esaurito e, anzi, fosse rimasto più che desto su un punto cruciale: la moralizzazione del clero. Sinodi e visite pastorali, come visto, si erano già concentrati sul problema; restava però ancora molto da fare e il vescovo si adoperò in vari modi per riportare una qualche disciplina. Alcune speranze – rivelatesi vane – avevano suscitato i canonici della cattedrale. Foscarari non perse mai occasione per ricordare loro a quale missione fossero chiamati: i preti della cattedrale dovevano essere «le colonne» della Chiesa, scriveva il domenicano da Trento nell’ottobre del ‘51, e – proseguiva – «ho ragione di persuadermi ch’il Capitolo mi debba aiutare». Quanto il vescovo chiedeva era che i canonici collaborassero nell’«aiutare quel clero accioché camini per la via de ‘l Signor: aiutateli con gli essempii, con le

371 Poche le tracce del sinodo menzionato. In un documento notarile del 5 maggio 1556 così si legge: «Hodie reverendissimus in Christo pater dominus Aegidius Fuscherarius Bononiensis Dei et apostolicae sedis gratia episcopus Mutinensis celebrare intend[i]t sacram synodum et cup[i]t penes ipsum residere reverendum dominum vicarium suum ut de his quae iuris fecerint consulere ipsum valeat» (ASMo, Notarile, Modena, 1764, n. 113).372 Foscarari compì probabilmente una seconda visita pastorale nel 1556, come rivelano alcune fonti gesuitiche. Il vescovo «pedes ad visitanda loca dioecesis suae, in montibus sita, proficiscebatur ne expensis pauperes sacerdotes gravaret» (MHSI, Vita Ign., VI, p. 206). 373 Su Fiordibello, canonico della cattedrale di Modena, poi vescovo di Lavello, v. la voce di F. PIGNATTI in DBI, 48, pp. 119-121.374 In ASV, Camera Apostolica, Diversa Cameralia, 183, cc. 218r-v, si conservano le «patentes visitationis liminum pro reverendo patre domino episcopo Muttinensi» del 15 settembre 1556. Nel documento si legge che il vescovo, tenuto a compiere la visita ad limina «singulis biennis», non vi aveva potuto adempiere personalmente «propter varia impedimenta».

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admonitioni et con la vostra autorità»375. Parole simili tornavano nel febbraio successivo, quando Foscarari era ancora impegnato in concilio: «Voi, signori, seti il sale di quella terra, il quale se per nostra disaventura svanesse et venesse insulso, non è poi utile ad alcuna cosa che d’essere conculcato»376. L’esempio era il primo e più efficace rimedio per ristabilire le sorti del clero modenese che nei canonici aveva i suoi vertici. Dalla cattedrale, però, non arrivò l’aiuto richiesto come mostra la dura reprimenda rivolta dal vescovo al Capitolo:

Io ordinai più mesi sono alcuni congregationi di sacerdoti rurali, le quali credeva dovessero essere più favorite dalli signori canonici che da tutti gli altri, perché non potendo loro attendere personalmente a quell’anime delle quali sono tenuti a renderne ragione a messer Domenedio restava almeno havere capitani sufficienti i quali perpetuamente con li studii sacri et la diligenza pastorale dovessero attendere a quel grege; et vedo essermi ingannato [...] N’aspettava questo da voi n’haveva ragione d’aspettare se le congregationi non hanno quel giovamento che spero io et per il quale le ho instituite. È ufficio vostro come coadiutori del vescovo d’avisare il vicario ove si mancha quello che bisognaria fare [...] Ma pensare di levarle, non me ne contentarò mai.

A quanto si intende, prima di partire per Trento Foscarari aveva istituto delle congregazioni di sacerdoti delle campagne che, sotto la guida dei canonici e del vicario, dovevano riunirsi periodicamente per esaminare casi di coscienza e questioni pastorali. Per non tenere quelle riunioni, qualcuno aveva pretestuosamente ricordato le spese che esse comportavano, provocando la reazione sdegnata del vescovo che mai le avrebbe abolite per risparmiare un po’ di «pane et formaggio» (a questo si riducevano i costi organizzativi). Messo alla prova, il Capitolo si era rivelato un ostacolo ai provvedimenti di riforma del domenicano che, dieci anni dopo, continuava a ricordare ai canonici di officiare con decoro nella cattedrale e, almeno, «di fare quello volentieri che molti altri fanno a forza, cioè di obedire al concilio»377. Non senza ragioni, Foscarari individuava nel cattivo comportamento e nella mancanza di devozione dei canonici uno dei motivi da cui «nascono le vendette contro di noi di Nostro Signor et il dispreggio nel quale hoggi è la Chiesa»: in duomo – si lamentava – «el culto [...] è malissimamente celebrato et senza alcuna religione» e non ci poteva essere cosa peggiore perché «andando questo male non mi resta rimedio alcuno»378. La condotta dei preti della cattedrale costituiva dunque motivo di scandalo, e il resto del clero diocesano non poteva che comportarsi di conseguenza. La decadenza del culto assumeva forme odiose, come nelle campagne di Finale, dove il curato don Francesco Cozza venne rimproverato per certe «sordidezze usate da i sacerdoti nel sacrificio della messa, bastevoli a scandalizzare i profeti». Il giorno di Natale si erano raccolte offerte «a tutte le tre messe (il che è atto d’avaritia et brutta cosa da vedere)» e si era proceduto, contrariamente alla prassi, a passare in rassegna i fedeli uno per uno: «Questo non è altro che

375 ACMo, Capitolo, 109, lettera del 15 ottobre 1551. 376 Ivi, lettera dell’11 febbraio 1552, da cui sono tratte anche le citazioni che seguono.377 Ivi, lettera del 23 settembre 1564. 378 CFCh, cc. 279v-280r; lettera non datata (verosimilmente 1561 ). Contenuti simili nella lettera scritta da Trento a don Nicolò Mescolo, ivi, cc. 245v-246r: «Mi reputerei felicissimo vescovo ogni volta ch’el choro fosse nella divotione et riverenza che dee».

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turpe luchrum [...] – sbottava il vescovo – et mostrare a gli huomini che non cerchiamo la salute dell’anime loro, ma le sue richezze, in questo modo scacciandoli dalla Chiesa et dalli sacrifici del Signor». Consapevole di quante anime l’avarizia di preti e frati potesse allontanare dalle pratiche religiose, Foscarari promulgò uno speciale editto perché non si ripetessero quei comportamenti, convocando in vescovado il sacerdote che più di altri si era macchiato di questa pratica, don Francesco Luna. «Querite quae Dei sunt – ammoniva richiamando le Scritture –, caetera adiicientur vobis»379. Per prevenire almeno in parte atteggiamenti come quelli del clero di Finale, Foscarari dispose di non ammettere nessuno all’ordine sacro «se oltre la sufficienza delle lettere non si certifica di sufficiente patrimonio et di costumatezza degna di quel grado; perché altramente non mi par possibile che si fugga la simonia»380. Per evitare che la tonsura rispondesse a esigenze terrene era necessario che gli aspiranti preti fossero preparati, virtuosi, ma anche di condizioni non troppo miserevoli. Il requisito minimo da cui nessuno poteva esimersi restava tuttavia la residenza. Il 19 aprile 1551, ad esempio, il vescovo chiese al duca di intervenire perché la lite tra due pretendenti alla chiesa di Gallinamorta avesse fine e potesse così cessare il disagio che si era venuto a creare381. Il sovrano fu chiamato in causa anche nel 1555 quando il podestà di Guiglia tentò di intromettersi, secondo una prassi invalsa, nella nomina di due benefici vacanti, respingendo tra l’altro il parroco di Samone – un paese della podesteria – che «desidera[va] d’andar a pascere il suo gregge»382. Le ingerenze dei laici non erano una novità nel groviglio di diritti e giuspatronati delle diocesi italiane: a messer Antonio Lombardo, che doveva designare il curato di Brandola, Foscarari espresse tutta la propria disponibilità, purché il prescelto garantisse di risiedere nella sua chiesa383, e in un’altra circostanza si disse disposto ad assecondare le richieste del potente conte Fulvio Rangoni per il decanato di Modena a patto che il candidato, Lucrezio Tassoni, adempisse ai suoi doveri: «Tra le maggiori deformità che hoggidì habbia la Chiesa – spiegava – è che ogni cosa sia piena di titoli et non vi sia ch[i] gli esserciti: la Chiesa fa ogni dì hostiarii, lettori, essorcisti, acoliti, hippodiaconi et diaconi et non è che gli esserciti»384. Non erano pochi i preti che, una volta nominati, abbandonavano la parrocchia loro affidata, talora intraprendendo una vita di crimini piccoli e grandi. Capitò per don Nicolò Bertacchi che Foscarari rimproverò per avere lasciato la sua cura, oltre a essersi macchiato di furti e scontri con altri sacerdoti385; o ancora per il diacono Cesare Castaldi che, dopo una lunga serie di arresti, imprigionamenti e scandali, fu «condennato alla morte» a Bologna

379 Ivi, cc. 261v-262r; lettera non datata.380 Ivi, cc. 271v-272r; lettera non datata (forse 1561) al vicario di Modena. 381 ASMo, Giurisdizione Sovrana, 261, fsc. 66, cc. 110-111. La lite riguardò i fratelli Federico e Galeotto Montecuccoli, esponenti di un’insigne famiglia nobiliare. Il conflitto si risolse poco dopo; cfr. ivi, Appendice B, c. non num. (lettera del 2 maggio 1551, in cui il vescovo ringrazia il duca per l’avvenuta conciliazione) e ivi, 265B, lettera del 5 maggio 1561 del vicario Fantino al duca. 382 Ivi, 261, fsc. 66, cc. 131-132, 133-134 (lettera di Foscarari al duca del 9 aprile e 17 giugno 1555).383 CFCh, c. 222r; lettera non datata.384 Ivi, cc. 273v-274r; lettera non datata. 385 CFBo, Parte Prima, cc. 16v-17r; lettera non datata di Foscarari a Bertacchi.

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per latrocinio386. Se questa era la situazione del clero secolare, il clima non era migliore su altri fronti. Molto filo da torcere venne dai monasteri in cui, fin dai tempi di Morone387, non mancavano tensioni. Nei primi giorni a Modena, Foscarari fu coinvolto più di un volta dal governatore estense Ferrante Trotti per districare le liti che nascevano nell’inquieto mondo dei conventi femminili. Il magistrato cercò l’aiuto del vescovo per placare l’aspra contesa che aveva contrapposto suor Lucia dal Forno alla consorella Margherita Cavallerini: la prima era stata accusata di compromettere la clausura e il buon nome del convento di San Paolo e per questo ne era stata espulsa, trovando riparo nel monastero di San Geminiano. La situazione, tuttavia, non si limitava a semplici liti fra suore, ma coinvolgeva le potenti famiglie che stavano alle loro spalle: ne nacque così un vero e proprio caso che agitò l’intera città per molti mesi. Per cercare di rimediare, Foscarari – fresco di nomina – invocò l’aiuto di Roma, che gli garantì con un apposito breve pieni poteri per riportare la pace: suor Lucia fu obbligata al silenzio e lasciata nel monastero di San Geminiano388. Gli anni che seguirono non furono più tranquilli. Ancora nel 1561, per tramite di Angelo Miglioli389, stretto collaboratore di Morone, il vescovo supplicava di poter effettuare una visita alle monache di San Lorenzo, direttamente soggette alla Santa Sede: poiché «se ne sentano spesso scandali» – spiegava – era ora di procedere a un’ispezione che verificasse come stavano effettivamente le cose390. Tra quegli scandali c’erano i rapporti poco cristallini tra le suore e il loro maestro di canto figurato. Alla sua morte, il vescovo colse l’occasione e impose al suo vicario di non nominare nessun sostituto391. In un altro caso, invece, tentò di convincere don Francesco Falloppia a non lasciare il suo incarico come confessore delle monache benedettine di Sant’Eufemia, cui il prete aveva prestato un servizio impareggiabile392. Riforma del clero e dei monasteri erano, come naturale, strettamente intrecciate e dipendenti l’una dall’altra e, per quanto poté, Foscarari non mancò di sollecitare i superiori dei vari ordini religiosi affinché inviassero uomini e donne esemplari: «Non ho potuto fare che non la prieghi di quelle cose che spero le siano in animo di fare – scrisse al vicario del Carmelo –, et cioè di provedere [il convento di Modena] di frati che possino col buono essempio loro essere di giovamento a questa città, la quale è molto oculata nella vita delle persone ecclesiastice»393. Il vescovo si preoccupava che i religiosi mandati a Modena non aggravassero il male che si cercava di curare:

386 CFCh, cc. 214r-v; lettera senza indicazione dell’anno (verosimilmente 1561). Nella missiva il vescovo implorava il vicelegato di Bologna di commutare la pena di Castaldi, «il quale anchora che mi sia stato disobediente, m’è pur figliolo». Su Castaldi e la lunga serie di scandali e dissolutezze perpetrate v. PM 2, I, pp. 990-991. Il cronista Lancellotti lo definisce prete sin dai tempi di Morone, sebbene la lettera su citata lo dica semplicemente diacono («in sacris per havere il diaconato»). 387 Cfr. PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi, cit., pp. 172 ss.388 L’intera vicenda, con abbondanti rinvii archivistici, è ripercorsa in PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi, cit., pp. 188-189. Per il breve concesso da Giulio III a Foscarari il 26 settembre 1550 cfr. anche ASV, Armadio XLI, tomo 57, cc. 484r-485v [n. 844].389 Su Miglioli, v. PM 2, I, p. 1170.390 CFCh, cc. 235v-236r; lettera di Foscarari a Melioli del 22 febbraio 1561.391 Ivi, cc. 276v-277r; lettera senza indicazione dell’anno. 392 Cfr. le quattro missive ivi, cc. 277r-v, 278v, 278v-279r, 279r-v. 393 Ivi, cc. 251r-v; lettera non datata.

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dal loro esempio e dalle loro parole poteva dipendere la salvezza di molti, a partire da quegli eretici che nella corruzione del clero vedevano la prova vivente dei loro convincimenti.

La predicazione

Appena giunto in città, Foscarari non esitò a servirsi del sostegno degli ordini religiosi vecchi e nuovi in vari ambiti, da quelli più tradizionali, come la predicazione, alle visite pastorali. Una delle figure di maggiore rilievo fu senza dubbio quella del gesuita Silvestro Landini394 che, giunto a Modena nel maggio 1550 (prima ancora di Foscarari), trovò una situazione incresciosa di cui non tardò a riferire al sempre informato Ignazio di Loyola395. I frutti che aveva ottenuto nell’opera di pacificazione delle campagne furono subito riconosciuti dal vescovo che decise di accoglierlo nella sua residenza, chiedendo a Ignazio di poterlo tenere al suo fianco396. «La pietà et bontà d’il detto padre è miracolosa – ribadiva a Loyola l’8 novembre 1550 –; gli effetti ch’il Signor Dio fa per lui sono maggiori di quello che si possa pensare da qualunque»; la grazia di quella presenza, concludeva, «mi pare la maggiore ch’habbia conseguito in vita mia, et consequentemente ne remango obligatissimo a Vostra Signoria»397. Nelle terre visitate da Landini a ridosso della nomina di Foscarari furono ricomposte faide familiari vecchie di generazioni e molti contendenti riuscirono ad arrivare a una tregua che sembrava impossibile. A Levizzano il gesuita rappacificò antichi nemici e fondò confraternite per l’assistenza ai poveri e ai malati; a Fogliano, nella collina modenese, istituì una sorta di magistratura preposta a dirimere le controversie e dovunque operò per istruire i parroci e i fedeli alla concordia398. Erano le stesse linee su cui si sarebbe mosso Foscarari nei mesi immediatamente successivi. La collaborazione tra Landini e il nuovo vescovo sembrava dunque essere partita con il piede giusto. A rompere quell’armonia intervenne però la predicazione di un personaggio di ben altro orientamento, il canonico regolare Giovanni Francesco da Bagnacavallo, che avrebbe creato scompiglio dentro e fuori le mura del palazzo vescovile. Dopo essere passato in molte città (Ferrara, Reggio, Piacenza, Gubbio e Roma), il Bagnacavallo era salito sul pulpito modenese nell’Avvento del 1550 e nella successiva Quaresima (gennaio-marzo 1551)399. A quanto è 394 Su Landini v. S. RAGAGLI in DBI, 63, pp. 423-425, e bibliografia ivi riportata, cui si aggiunga ora B. MAJORANA, «Siendo y mostrándose». Silvestro Landini missionario gesuita: fondamenti spirituali di un modello di apostolato (1540-1554), in G. DALL’OLIO, A. MALENA, P. SCARAMELLA (a cura di), La fede degli italiani. Per Adriano Prosperi, Pisa 2011, I, pp. 333-345 e C. LUONGO, Silvestro Landini e le nostre Indie, Scandicci 2005, pp. 197 ss. per le missioni in terra estense. 395 Cfr. lettera di Landini a Ignazio di Loyola, Modena 16 maggio 1550 in MHSI, Epp. Mix., V, pp. 698-702. Landini dunque arrivò in città due mesi prima di Foscarari e prima ancora della nomina ufficiale del domenicano a vescovo di Modena.396 Il 23 agosto 1550 Ignazio scrisse a Foscarari promettendo la disponibilità di Landini ad adoperarsi come coaudiutore del vescovo. Cfr. MHSI, Epp. et instr., III, pp. 155-156. 397 ARSJ, Epp. Ext., 9 [Epp. Episcop. 1540-1559], c. 182r; la missiva, trascritta dall’originale, è edita in MHSI, Epp. Mix., V, pp. 711-712.398 LUONGO, Silvestro Landini, cit., pp. 206-207.399 Sul Bagnacavallo v. ROTONDÒ, Atteggiamenti, cit., pp. 234 ss., che propone l’identificazione del romagnolo con un certo Francesco da Bagnacavallo indicato da Delio Cantimori tra gli eretici riparati in Svizzera, e C. GINZBURG, A. PROSPERI, Giochi di pazienza. Un seminario sul Beneficio di Cristo, Torino 1975, pp. 26-29. Grazie a una nota delle cronache modenesi, si può stabilire che nel 1551 avesse all’incirca 45 anni (cfr. CrMo, X, pp. 370-371).

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possibile ricostruire, a chiamarlo erano stati i Conservatori su suggerimento del vescovo che, avuti diversi pareri positivi400, ritenne il predicatore personaggio in grado di contribuire al ristabilimento della pace sociale. Così almeno scrissero il 10 dicembre 1550 i magistrati al generale dei canonici regolari insistendo perché il Bagnacavallo si fermasse anche per il ciclo quaresimale visti i risultati sin lì ottenuti401:

Padre don Zanfrancesco da Bagnacaval […], illuminato da Dio et riscaldato dal predetto diligentissimo pastore nostro [Foscarari], subito ha scoperto il male de questa [terra] et dato principio de estinguere un fuoco di inimicitie et odii crudelissimi nati alli passati in detta città fra un cittadino et l’altro, et col suo ardentissimo fervore et gratia del predicare placare li duri animi de cittadini con santa dottrina […] Et più [ha adempiuto] ad un officio singolare di carità disponendo il populo a fare elemosine per pascere li poveri famelici nel presente tempo penurioso.

Quando il romagnolo era arrivato in città, in effetti Foscarari aveva discusso con lui «de moribus et peccatis civitatis et de remediis», concordando, secondo la prassi, gli argomenti di cui avrebbe dovuto trattare. I risultati, se prestiamo fede alla richiesta dei Conservatori, non mancarono, tanto che si pregò il generale dei Lateranensi di prolungare la permanenza del Bagnacavallo. Parrebbe che nemmeno Landini avesse da eccepire sui contenuti di quelle prime omelie, sebbene tale silenzio sia probabilmente da ricondurre all’assenza del gesuita, forse ancora impegnato nelle campagne modenesi per «far la visita»402. In Quaresima tuttavia qualcosa cambiò: il canonico iniziò a toccare temi scottanti che, a causa di formulazioni ambigue, si prestavano a interpretazioni in chiave eterodossa. Foscarari, che presenziò a tutti i sermoni, dopo ogni omelia ritenne opportuno indicare al romagnolo i punti da esporre con più chiarezza, in modo da non confondere gli ascoltatori. Tra le enunciazioni dubbie vi erano passaggi «de observatione legis et de necessitate eius, de iusticatione per fidem». Sentendo quei ragionamenti, qualcuno giudicò che il Bagnacavallo fosse «infectum» e tra questi – ricordò il vescovo – c’erano Alessandro Tassoni403, che vi aveva ritrovato i principi della giustificazione per fede, o il domenicano Reginaldo Nerli, al quale era parso di udire proposizioni in odore di eresia, benché prive di attacchi espliciti ai dogmi della Chiesa404. Edificati dalle 400 L’informazione è desumibile dal processo aperto nel 1558 contro il Bagnacavallo (sul valore del procedimento torneremo più sotto). «Interrogatus si aliquid audierit de concionibus factis in aliis locis, [Foscarari] respondit se audisse maxime commendatum Ferrariae, Regii, Placentiae, Eugubii et Romae» (ASMo, Inquisizione, 3,24). Quando non diversamente precisato informazioni e citazioni che seguono sono tratte da qui. 401 ASCMo, Ex actis, dicembre 1550. Cfr. anche ASCMo, Vacchette, 1550, c. 123v. Oltre alla lettera dei Conservatori qui citata, non si sono trovate ulteriori testimonianze sulla sua predicazione nell’Avvento del 1550.402 Il 16 ottobre 1550 Landini, scrivendo a Ignazio, si diceva ancora coinvolto nella visita della diocesi modenese «predicando ogni giorno in 4 terre»; cfr. MHSI, Epp. Mix., II, pp. 475-475; MHSI, Vita Ign., II, p. 26.403 Nato nel 1488, il notaio Alessandro Tassoni fu esponente del patriziato urbano e membro dell’élite di governo della città di Modena. Vicino ai gesuiti, fu sempre attento e informato sulle vicende religiose che attraversò. Morì nel 1562. V. PM 2, I, p. 294. 404 Il richiamo del Bagnacavallo alle dottrine protestanti fu confermato anche da altri testimoni, come Giovanni Pellotti («Non ex operibus iustitiae quae fecimus nos sed ex misericordia sua salvos nos fecit [...] Predicando de baptismo, ipse predicator omnia videbatur attribuere misericordiae Dei et fidei, nihil dicendo de operibus») e Angelino Zocco.

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parole del romagnolo furono invece uomini di indubbia ortodossia come Antonio Fiordibello e il giurista Giovanni Castelvetro405, che – a detta di Foscarari – non avevano trovato nulla di irreligioso. L’ambiguità del canonico disorientò lo stesso fronte antiprotestante cittadino che, diversamente da quanto accaduto in altre occasioni, non si pronunciò compattamente sull’eterodossia del predicatore. Un fervente cattolico come Tommasino Lancellotti, che non aveva esitato in anni precedenti a denunciare la circolazione del Beneficio di Cristo o del Sommario della Sacra Scrittura406, non solo non rilevò alcunché di eretico, ma notò il carattere «antiluterano» della predicazione del canonico407, augurandosi che si moltiplicasse il «bon frutto in nui modenesi»408. Se il romagnolo aveva creato un certo disorientamento, molto lucida fu per contro l’analisi di Landini che nella presenza del Bagnacavallo intravide il rischio di vanificare gli sforzi compiuti sino a quel momento. I suoi rapporti con il vescovo cominciarono a incrinarsi proprio a causa della libertà concessa al predicatore, come testimonia il fitto scambio di lettere che intercorse in quei mesi tra Landini, i vertici della Compagnia e lo stesso Foscarari. Il primo a prendere la penna con il preciso scopo di denunciare quanto stava accadendo sotto i suoi occhi fu il gesuita che, il 6 febbraio 1551, scrisse a Paschase Broët409, perché questi ne riferisse a Ignazio. La lettera accostava esplicitamente i contenuti della predicazione del Bagnacavallo a quelli, altrettanto clamorosi, di Bartolomeo della Pergola, salito sul pulpito modenese nel 1544. Pur non essendo a conoscenza delle letture del canonico, Landini individuò subito l’impronta buceriana delle argomentazioni sottoposte alla piazza410. Dopo avere evitato di definire santo il patrono cittadino («no[n] volse mai chiamare santo [il glorioso santo Geminiano]»), Bagnacavallo era stato «constretto a trattare della invocation di santi»: «Disse che s’à pregare Dio che facia pregare li santi per noi [...]; questa è dottrina di Bucero!». Sentendo quelle parole, Landini aveva ammonito il vescovo a non lasciare predicare il romagnolo che ricalcava le orme del Pergola: «Sua Signoria reverendissima dice che vole che predica, ma che farà et darà pharmachi, che guai a questa terra. Dicono esser tutta dottrina del Pergola, e monsignor dice si mentono per la gola».

405 Banchiere e membro del consiglio cittadino dei Conservatori, vicino ai gesuiti, fu particolarmente attivo in ambito confraternale e nelle opere di assistenza. Morì nel 1557. V. PM 2, I, pp. 271-272.406 Cfr. S. PEYRONEL, Dai Paesi Bassi all’Italia. «Il Sommario della Sacra Scrittura». Un libro proibito nella società italiana del Cinquecento, Firenze 1997, p. 59; C. BIANCO, Introduzione a ID. (a cura di), Il sommario della Santa Scrittura e l’ordinario dei cristiani, introduzione di J. TRAPMAN, Torino 1988, pp. 25 ss. 407 «Questa Quaresima [1551] non s’è predicato in giesia nisuna perché el non acascasse contradictione come è acascata alli anni passati che el se predicava in più giesie de questa città di Modena, de modo che ge andavano introduti li luterani eretici, quali sono cesati a non predicare se non in la giesia cathedrale e alla presentia del reverendissimo vescovo Egidio valento homo del ordino de predicatori de Santo Domenico persona da ben et vescovo di questa città el quale ge stato presente a dette predicatione tutta questa Quaresima che Dio lo conserva in santità e sanità» (CrMo, X, p. 368).408 Ivi, X, pp. 370-371.409 Su Broët, v. in breve BCJ, 2, p. 1099. Per un quadro generale sugli esordi della Compagnia cfr. J.W. O’MALLEY, The first Jesuits, Cambridge MA 1993 [trad. it. I primi gesuiti, Milano 1999].410 ARSJ, Epp. NN., 67, c. 87r, n. 54 (da cui si trascrive e si traggono le citazioni che seguono). La lettera è edita in MHSI, Epp. Mix., II, pp. 501-502.

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Per manifestare la gravità e la pericolosità di quella situazione, Landini allegò alla missiva un memorandum che non lascia dubbi sul fatto che i vertici della Compagnia fossero puntualmente informati su quello che accadeva a Modena e sulle responsabilità di Foscarari411:

Tutti attendono alla via larga, non c’è se non contrarii alle confessioni, comunioni et al bene: et quando lo dico a monsignor [vescovo], dice che non li può astringere. Hanno havuto uno che nega il purgatorio, l’auttorità dil papa: convinto, l’hanno lassato colla penitenza di dire non so quante volte i salmi penitentiali; quasi tutte l’heresie et peccati et offese de Dio et mali costumi mi pare a me che siano difesi et coperti dal suprascritto monsignor vescovo. Io tante volte ce l’ò detto et dico che meraviglia che lui me voglia più in casa, ma disse al predicatore che lui me teniva per testimonio della sua vita et dottrina, ma non vol fare cose che li dico o poche; tutto il modenese già saria convertito alla santissima comunione s’havesse Sua Signoria perseverato.

Quelle parole erano un atto di accusa contro la cedevolezza e la connivenza di Foscarari, cui Landini aveva esplicitamente fatto notare le gravi mancanze di cui si era macchiato. Il giorno dopo la lettera scritta da Landini a Broët, Foscarari decise di interpellare Ignazio di Loyola, non per lamentarsi dell’insolenza del gesuita, ma – sorprendentemente – per chiedere che potesse restare a Modena. Il 7 febbraio, infatti, ringraziava il generale per avergli concesso come «coadiutore il reverendo padre don Silvestro dal qual questo popolo n’ha recevuto et receve ogni giorno tanto utile et commodo spirituale, che da san Geminiano [patrono della città] in qua non è forsi stato da chi n’habbia recevuto più». Come san Geminiano alle ultime luci dell’Impero romano, Landini aveva portato la fede agli abitanti della «mal coltivata vigna» di Modena: per questo non si poteva sottrarlo al popolo che da lui aveva ricevuto «maravigliosissimi frutti spirituali» e anzi bisognava confermarlo «per guida di queste smarite pecorelle»412. Il gesuita non era tuttavia disposto a tollerare una presenza che vanificava i suoi sforzi missionari. Una lettera indirizzata a Juan de Polanco il 5 aprile 1551, poco dopo la conclusione del ciclo di prediche del Bagnacavallo, rivelava l’irritazione e lo sconforto che avevano colpito Landini413. Coloro che osavano puntare il dito contro il canonico erano messi alla berlina «sia perché quasi tutti li grandi lo favoriscono, et disfidono alcuni a combattere a chi vole dire contra costui, sia che, peggio de tutti, l’autorità de l’ordinario, che sempre è stato presente et l’à difeso». Secondo il gesuita, il vescovo era complice manifesto del predicatore, e non mancano riscontri della stima di Foscarari per il romagnolo, «ministro charo al Signor Nostro»414. L’unica possibilità, a giudizio di Landini, era l’intervento del papa: qualora il pontefice avesse mandato «alcun gran prelato con grande autorità», avrebbe potuto raccogliere deposizioni sufficienti a inchiodare il canonico; deposizioni che sarebbero prontamente arrivate da amici modenesi della Compagnia (Alessandro Tassoni 411 ARSJ, Epp. NN., 67, c. 88r. 412 ARSJ, Epp. Ext., 9 [Epp. Episcop. 1540-1559], c. 192r; edita in MHSI, Epp. Mix., V, pp. 721-722.413 ARSJ, Epp. NN., 67, c. 89r, n. 56, edita in MHSI, Epp. Mix., II, p. 540. Da questo documento sono tratte le citazioni che seguono quando non diversamente precisato.414 Così lo definì Foscarari quando la città di Ravenna ottenne la nomina del Bagnacavallo a predicatore. Cfr. CFCh, cc. 223r-v; CFBo, Parte Prima, c. 8r. Un’edizione del documento in M. AL KALAK, Ridere e riformare. Egidio Foscarari e il presunto novelliere di Francesco Ghini, in «Rinascimento», LII (2012), pp. 211-242.

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e Gaspare Carandini415) che per il momento preferivano rimanere segreti. L’appello all’intervento pontificio derivava dall’impossibilità di sperare che a muoversi fosse l’Inquisizione locale: «L’inquisitor di Santo Domenico, essendo ricercato et da’ suoi frati che facia inquisitione contra questo predicator che loro vogliono defendere la verità, non ha voluto fare niente: è tutto del vescovo, siché la cosa va mal s’el Signor non li proveda». Il quadro dipinto da Landini rivelava la solidarietà tra Foscarari e l’inquisitore Michele della Coltre, per nulla intenzionato ad aprire un procedimento contro il predicatore. Per vedere un fascicolo inquisitoriale intestato al Bagnacavallo bisognò effettivamente attendere fino al 1558, quando ormai del romagnolo si conservava appena il ricordo. A essere cambiato rispetto al ‘51 era il quadro politico-religioso: nel 1557 Paolo IV aveva fatto incarcerare Morone, si vociferava che anche Foscarari potesse essere convocato dall’Inquisizione, e il regolamento di conti messo in atto da papa Carafa sembrava non fermarsi davanti a nessuno. Per questo forse i protagonisti di quella incresciosa vicenda convenirono sull’opportunità di affermare con un atto formale la propria innocenza. L’incartamento, privo di sentenza, conserva le deposizioni di Foscarari, Angelo Valentini, Vincenzo Scotti e di alcuni laici raccolte dall’ormai inquisitore Domenico da Imola. Il vescovo ricordò il suo impegno per correggere le proposizioni ambigue del predicatore dopo ogni omelia; Valentini esibì una lettera fatta recapitare al romagnolo in cui lo rimproverava per le sue deviazioni dottrinali e Scotti sostenne di averlo accusato a suo tempo di luteranesimo. Sullo sfondo, emergeva anche l’apporto di un altro domenicano, Reginaldo Nerli, che aveva percepito la natura ereticale delle omelie del Bagnacavallo. I tentativi di discolparsi finivano però con il diventare involontarie ammissioni di colpa: Foscarari, accortosi dell’ambiguità di alcuni contenuti, aveva lasciato che il romagnolo continuasse a predicare; Scotti – che aveva trascorso i suoi anni migliori al servizio della chiesa modenese416 – non aveva mosso un dito; Valentini, inquisitore dal 1552 al ‘57, si era guardato dall’aprire un procedimento durante il suo mandato. Era una situazione paradossale, che rivelava la solidarietà e il sostegno che il convento di San Domenico era stato in grado di fornire al vescovo e che, ora, rischiava di gettare un’ombra sinistra sui frati. Ma, al di là dell’inutile e tardivo procedimento inquisitoriale, il comportamento tenuto da Foscarari nella vicenda del Bagnacavallo non è del tutto chiaro e non è facile darne un’interpretazione univoca: è possibile che, dopo l’Avvento, il canonico avesse cambiato in parte la propria linea di predicazione, mettendo in difficoltà il vescovo, insediatosi da poco con il mandato di smorzare i clamori in materia di fede. Né è da escludere che di fronte allo spettro di un nuovo caso come quello del Pergola Foscarari avesse scelto di essere presente a tutte le prediche, verificandone i contenuti e predisponendo di volta in volta le 415 Membro di un’importante famiglia modenese, Carandini fu coinvolto, come detto, nella vicenda del Pergola; cfr. PM 2, I, ad indicem.416 Così si legge in una lettera che Scotti, intenzionato a ottenere una qualche prebenda al nipote, inviò al cugino Tommaso: «Vostra Reverentia sa quanto tempo ho servito il vescovo di Modona in vescovato [...] Hora mi vene in mente di domandare o fare domandare qualche cosa al cardinale Morone per mio nepote chierico a Vigievano sottodiacono a vedere se Sua Signoria illustrissima et reverendissima volesse dargli qualche pensione o beneficio sopra la diocesi di Modona per la servitù usata a quello vescovato et utilità fatta in quella chiesa [...] Tutta la mia gioventù l’ho consumata in servitio di quella chiesa» (ACDF, S.O., St. St., TT 1-a, cc. 99r-v, 127r-v; Trento, 26 ottobre 1562). Altre due lettere recanti aggiornamenti sui lavori conciliari, ivi, cc. 98r-v, 128r-v (18 gennaio 1563); 103r-v, 129r-v (1 marzo 1563).

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opportune rettifiche senza sollevare clamori. L’impressione è che il domenicano si fosse trovato tra due fuochi: da un lato l’irruente critica di Landini, dall’altro la necessità di evitare troppo rumore attorno a quelle omelie imbarazzanti. L’ambiguità del Bagnacavallo e l’aiuto dei confratelli che presiedevano l’Inquisizione gli consentì di evitare conseguenze peggiori, ma per cautelarsi decise di emanare apposite norme in materia di predicazione. In quello stesso periodo, e verosimilmente dopo quei fatti, venne promulgato un Aviso di quanto si ha da osservare dalli predicatori nella città et diocese di Modena per ordine del reverendissimo et illustrissimo cardinale Morone, testo probabilmente redatto da Foscarari e pubblicato sotto l’egida del cardinale milanese417. La promulgazione di un provvedimento spettante al governo diocesano sulla base dell’autorità di Morone solleva ulteriori interrogativi e, forse, potrebbe indicare un coinvolgimento del predecessore di Foscarari. Si potrebbe ipotizzare che fosse stato Morone a caldeggiare l’invio a Modena del predicatore o che la chiamata del Bagnacavallo, pianificata come spesso accadeva per i cicli avventizi e quaresimali con largo anticipo, risalisse ai suoi ultimi mesi di governo – ipotesi che peraltro renderebbe più comprensibile la copertura che Foscarari offrì al canonico romagnolo. Comunque sia, il secondo dei venti punti in cui si articolava l’Aviso pareva alludere a ciò che era accaduto durante le omelie del 1551 o, quantomeno, si attagliava perfettamente a quanto accaduto:

Quanto alla dottrina […] esshortiamo et comandiamo nel Signore [i predicatori] che si voglino scoprire nelle sue prediche per catholici et ubbidienti alla santa Chiesa romana, insegnando il vero in tutti quelli articoli che hoggi sono impugnati dalli heretici, come delle autorità delle divine apostolice et ecclesiastice traditioni per mezzo delle quali si è sempre governata la Chiesa. Dil modo di esporre la Scrittura che, quando non è chiaro il senso, si dee stare al giudicio della Chiesa, certissima interpetre delle Scritture, et, non essendo determinato dalla Chiesa, seguir il parere de’ santi dottori.

Quello che si raccomandava in primo luogo ai predicatori era di uscire da ogni ambiguità, dichiararsi apertamente cattolici e riverenti nei confronti dell’autorità ecclesiastica; in più, qualora si fosse esaminata la Scrittura, ci si sarebbe dovuti attenere all’interpretazione della Chiesa e dei dottori. Erano due delle accuse principali mosse al Bagnacavallo, ed è certo che con quel provvedimento sia il vescovo sia Morone intendevano prendere le distanze da ogni deviazione di cui il romagnolo si fosse fatto promotore.Se di lì a breve le acque si sarebbero calmate per la partenza del Bagnacavallo alla volta di Reggio, l’intera vicenda che lo riguardava chiamava in causa ai massimi livelli anche la Compagnia di Gesù. Ignazio giocò infatti una partita spregiudicata e non reagì alle notizie allarmanti che giungevano da Modena: l’intento era con ogni probabilità quello di conservare l’ottimo rapporto con Foscarari che nei mesi seguenti diede aperti segni di stima per la Compagnia. Il 17 novembre 1551, ad esempio, mentre si rallegrava dei frutti che Landini produceva nella diocesi, si diffondeva in espressioni che andavano ben oltre le cortesie epistolari418: «La prego – scriveva a Ignazio – che la mi tenga per tale et come di cosa obligata a sé ne disponga perché son come certo che non 417 L’Aviso è edito in PM 2, II, pp. 629-636, da cui traggo le citazioni che seguono. 418 ARSJ, Epp. Ext., 9 [Epp. Episcop. 1540-1559], cc. 217r-v; edita in MHSI, Epp. Mix., V, pp. 740-742.

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disponerà mai meglio di me istesso quanto farò obedendola, lei nel cuore et nella boccha de’l quale tanto espressamente parla il nostro Christo». «Bene mi reputarei felice – concludeva – quando quella come di cosa sua pigliasse cura di me, et con le sue sante admonitioni et precetti mi aiutasse ad indirizzare le mie pedate nella via della pace [...] Come i Galati a san Paolo, così io a questa Compagnia volontiera li donarebbe gli occhi». Erano parole di affetto e devozione che preannunciavano quanto Foscarari avrebbe svelato qualche mese dopo. Rientrato a Modena da Trento nella primavera del ‘52, vi trovò una situazione grave419, cui Landini aveva cercato di rimediare in ogni modo, confermando l’alta considerazione in cui era tenuto dal vescovo. Quello sforzo dovette apparire a Foscarari come l’ennesima conferma della santità del padre Silvestro che, il 18 maggio, avvertì Ignazio di «uno gran prelato [...] inspirato dal Spirito Santo», il quale gli faceva «molta instantia ch’io voglio accettare il suo voto d’ubidienza et regersi sotto di quello»420. Come indica una nota del segretario Polanco, ancor oggi leggibile a margine della missiva, «questo era il vescovo di Modena»421. Lo Spirito Santo aveva suggerito a Foscarari di consegnare il suo voto di obbedienza all’uomo che non aveva esitato a rimproverarlo nella burrascosa vicenda del Bagnacavallo, mostrando di nuovo un comportamento per nulla semplice da decifrare, se non contraddittorio. Nell’incertezza sulla possibilità di corrispondere a quel desiderio, Landini e il vescovo si erano ritirati insieme in preghiera, in attesa di un’illuminazione che – nella migliore tradizione gesuitica – venne dai vertici dell’ordine. Il 18 giugno, a un mese esatto dalla richiesta, le istruzioni di Ignazio disponevano di assecondare i desideri di Foscarari «et che [Landini] facessi al modo del vescovo quanto a quello che egli ricercava, id est de pigliarlo a obedientia»422. Il legame non sarebbe durato molto: l’insistenza della repubblica di Genova e del pontefice portò Landini, nel settembre 1552, a lasciare Modena alla volta della Corsica, dove lo attendeva la difficile missione di rievangelizzare l’isola. Non sappiamo se dopo quella data e fino alla morte del gesuita, occorsa il 3 marzo 1554, i due restassero in contatto. Certamente il vescovo continuò a coltivare una speciale vicinanza ai gesuiti, e l’8 ottobre 1552 si confessava «obligatissimo» a Ignazio, cui prometteva obbedienza «usque ad mortem»423. Il generale dei gesuiti iniziava a raccogliere i frutti che aveva seminato chiudendo gli occhi di fronte alla situazione esplosiva di cui lo avevano avvisato da Modena Landini e molti altri. L’obiettivo di fondare un collegio e di strutturare la presenza della Compagnia poteva far passare in secondo piano l’emergenza ereticale. Anzi, anche quella poteva diventare un’occasione.

419 Questo l’eloquente resoconto che il modenese Ercole Porrino, fautore dei gesuiti, inviò a Ignazio di Loyola: «Nui miseri [...] siamo qui in questa povera cità de Modena, la quale è poverisima de fede de Iesu Cristo, che certo, se al non fuse li boni fruti che à facto e cotedianamente fa al padre dun Silvestro, a questa ora seria pocho mancho che tuta ereticha de eresia luterana» (Modena, 28 marzo 1552; ARSJ, Epp. NN., 67, c. 306r, n. 186, edita in MHSI, Epp. Mix., II, p. 692).420 ARSJ, Epp. NN., 67, c. 98r, n. 65; edita in MHSI, Epp. Mix., II, pp. 718-719.421 Il segretario riportò l’episodio anche nella Storia della Compagnia da lui scritta; v. MHSI, Vita Ign., II, p. 452.422 MHSI, Epp. et instr., IV, p. 294.423 ARSJ, Epp. Ext., 46 [Epp. divers. 1538-1607], c. 80r; edita in MHSI, Epp. et instr., IV, pp. 426-427.

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Il ruolo dei gesuiti

Il primo ingresso dei gesuiti a Modena risaliva al 1546, quando il vescovo Giovanni Morone aveva chiamato i padri nella sua diocesi offrendo loro appoggio e sostegno economico. Le trattative per un loro insediamento più stabile erano però entrate nel vivo agli inizi del governo di Foscarari. A quegli anni risale infatti il progetto di istituire un collegio per cui si erano già trovati influenti benefattori, dalla nobildonna Costanza Pallavicino a Giovanni Castelvetro, Benedetto Carandini e Ercole Porrino424. Forte delle offerte di Morone e degli esponenti del patriziato modenese, il 10 settembre 1552 Ignazio di Loyola consegnò ai gesuiti designati una «instructión del modo de proceder in Módena»425. L’ammonizione si concentrava su tre nodi essenziali: incrementare i membri della Compagnia, contribuire al progresso spirituale della città (il punto che più stava a cuore a Foscarari) e consolidare il patrimonio del collegio. Se, come era prevedibile, si raccomandava di insegnare la dottrina cristiana, di visitare i carcerati e gli ospedali, di amministrare i sacramenti e così via, disposizioni puntuali erano offerte anche sul contrasto all’eresia: «Habbiase special advertenza circa le heresie, et [gli uomini della Compagnia] siano armati contra li tali, tenendo a memoria le cose controverse con loro et procurando star presente in quelle per scuoprir le piaghe et curarle o, se questo non si potrà, per impugnar la loro mala dottrina; ma questo con destreza et non essasperandoli, ma con amore procurando retirarli». Era sostanzialmente la linea assunta da Foscarari, e i gesuiti sapevano che anche da lì passava l’esito della loro missione. Lo stesso Ignazio aveva poi messo nero su bianco la ricetta per garantire la prosperità dell’opera appena intrapresa: bisognava «sforzarse de tratener et acrescer la benevolencia del duca et del vescovo et della città» e «farse benevoli l’altre persone de più importanza et benefactori». Foscarari non deluse le attese: dispose che i predicatori in cattedrale perorassero la causa del collegio da istituire e, per evitare che la situazione si protraesse a lungo, assegnò ai gesuiti una sede provvisoria in attesa di un luogo più adatto in cui sistemarli. Il 24 settembre il giovanissimo don Cesare Aversano, il belga Adrien de Witte426 e otto maestri poterono così entrare in città; due giorni dopo, aperto il collegio e un piccolo oratorio, inaugurarono le lezioni sotto la direzione dello spagnolo Francesco Scipione. Il primo anno risultarono iscritti un centinaio di allievi, saliti a 150 l’anno successivo. Dal canto suo, Aversano esprimeva al generale della Compagnia la soddisfazione per l’accoglienza ricevuta dal vescovo, che in più di un’occasione visitò il collegio da cui sperava «l’utilità et frutto delle lettere, accioché le persone se muovessero a mandar li suoi figliuoli»427. Non solo, secondo quanto gli stessi gesuiti notarono, il collegio poteva svolgere una funzione di riassorbimento

424 Dove non diversamente precisato i dati sull’avvio del collegio modenese sono tratti da MHSI, Vita Ign., II, pp. 448-461. Si noti che M. SCADUTO, Storia della Compagnia di Gesù in Italia, IV, L’epoca di Giacomo Lainez, 1556-1565. L’azione, Roma 1974, pp. 415-418, riferisce di un precoce «distacco con cui il vescovo Egidio aveva seguito i rapporti con i gesuiti a Modena e il disinteresse per il loro collegio». Il resoconto di MHSI, Vita Ign., utilizzato dallo stesso Scaduto, costringe però ad articolare diversamente il giudizio. 425 Edita in MHSI, Epp. et instr., IV, pp. 408-414, da cui sono tratte le citazioni che seguono. Un’istruzione più sintetica denonimata «Ricordi di quello che s’ha a fare in Modena», è riportata ivi, pp. 407-408. 426 Su di lui, v. BCJ, 8, col. 1183.

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dell’eresia attraverso un insegnamento ispirato a principi ortodossi: «inter scholasticos – annotava Polanco – aliqui admissi sunt, qui opinionibus haereticis infecti fuerant; et id pergratum erat episcopo, ut hac ratione simul cum bonis litteris in catholica etiam religione proficerent»428. Ma i problemi non tardarono a emergere. Molti dei maestri erano stranieri e alcuni, come De Witte, manifestarono qualche «difficultas idiomatis italici», non riuscendo a spiegare «admodum feliciter» la dottrina che dovevano esporre429. I locali a disposizione per le scuole, inoltre, erano troppo angusti; spesso nasceva confusione a causa del gran numero di studenti e l’assenza di correttori (che pure il vescovo si era offerto di stipendiare) impediva che gli allievi potessero progredire. Peggio ancora, la scarsa salubrità del luogo in si svolgevano le attività portò al diffondersi di un’epidemia, tanto da consigliare il trasferimento dei padri fuori Modena. Nonostante Foscarari continuasse a invocare l’aiuto del duca, l’impasse convinse Ignazio a rompere gli indugi, avvertendo il vescovo che avrebbe tolto i gesuiti malati «de Modena con parere del medico» per «distribuirli per li altri collegii vicini»430; se poi, terminata l’emergenza, si fosse trovata un’altra casa più sana in cui ospitarli, sarebbero tornati in città431. Il 20 ottobre Foscarari ribadiva che avrebbe cercato «con quella maggior diligenza che si potrà, di procurare nuove habitationi»432, e il rettore del collegio Filippo Fabbro (Leerno) confermava ai vertici della Compagnia «il favore et agiuto che da monsignore reverendissimo riceviamo»: «Penso che ci ama in Domino et [...] per favore di Sua Signoria siamo privi di molte contradittioni che haveressimo per la terra, massime di questi inimici della fede»433. Quella situazione di difficoltà ebbe ripercussioni anche sulle scuole e, nel 1554, gli studenti passarono dalla settantina di inizio anno a 30 alle soglie dell’estate434. Di fronte a tanta penuria di allievi, Ignazio permise in via eccezionale l’ammissione di giovani illetterati, in attesa di vedere come le cose si sarebbero evolute. Ma in quei mesi, il rapporto tra la città e la Compagnia cominciò a incrinarsi, per cause non del tutto chiare: il padre Fabbro poteva indicare tra i sostenitori dell’ordine solo una quarantina di donne e, scriveva, se mai i gesuiti se ne fossero andati, nessuno li avrebbe rimpianti. Persino il vescovo pareva essersi raffreddato, forse influenzato dalle profezie sulle sorti della Compagnia diffuse dai domenicani modenesi: presto, si vaticinava, i gesuiti sarebbero scomparsi come presagiva il loro declino nella vicina Bologna435. Non è poi da escludere 427 Cfr. ARSJ, Epp. NN., 67, c. 308r, n. 187 (lettera del 13 novembre 1552); edita in MHSI, Epp. Mix., II, p. 822.428 MHSI, Vita Ign., II, p. 460.429 Ivi, III, pp. 146-164, da cui traggo anche le informazioni che seguono.430 MHSI, Epp. et instr., V, pp. 398-399.431 Così una lettera di Polanco al provinciale Francesco Palmio; cfr. ivi, V, pp. 401-402. Su Palmio (1520-1585), cfr. BCJ, 6, col. 157.432 ARSJ, Epp. Ext., 46 [Epp. diversorum, 1538-1607], c. 135r; edita in MHSI, Epp. et instr., V, p. 555.433 Lettera di Fabbro a Ignazio del 29 dicembre 1553, edita in MHSI, Epp. Mix., III, pp. 687-691, qui cit. p. 690. 434 Qui e in seguito v. MHSI, Vita Ign., IV, pp. 92-108, da cui sono tratte anche le citazioni.435 La profezia sulla fine della Compagnia alla morte di Ignazio prese piede anche tra i gesuiti modenesi. Il 25 agosto 1554 così scrisse Polanco a Fabbro: «Circa la prophetia d’alcuni et iam spirituali che la compagnia habbia de finirse col capo che hoggi vive, non penso siamo obligati a crederla né manco il suo parlar pare de persone che mostrino molta prudentia spirituale perché il fundamento de questa compagnia è Christo qui manet in eternum et non è nostro

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che Foscarari avesse dismesso gli entusiasmi iniziali a causa dei risultati sempre meno incoraggianti delle scuole gesuitiche e auspicasse – come capitò in seguito – l’utilizzo dei padri in altre mansioni più propriamente pastorali. Oltre a ciò, la presenza dei gesuiti sul fronte dell’istruzione si scontrava con una tradizione cittadina che poteva contare su «vigintiquinque aut triginta ludimagistros», che la gioventù modenese, «ad libertatem satis propensa», preferiva ai padri. La stessa presenza di tafferugli e lanci di pietre promossi da studenti locali ai danni del collegio gesuitico mostrò quanto la protesta stesse montando. Nei mesi seguenti i dubbi di Foscarari trovarono conferma: alcuni degli insegnanti migliori morirono, altri furono inviati nei collegi vicini e gli studenti si ridussero a una ventina436. Forse per rimediare alla débâcle delle scuole e dirottare gli uomini della Compagnia su altri incarichi, il vescovo cercò allora di coinvolgere i gesuiti nel programma di riforma della diocesi, chiedendo a Fabbro di accompagnarlo nella visita pastorale e offrendo ai suoi confratelli – «si scholae relinquerentur» – di alloggiare in vescovado per dedicarsi alla predicazione, alle confessioni e alle opere di pietà. La proposta cercava evidentemente di concentrare le forze della Compagnia su quanto Foscarari aveva a cuore e – dato non accessorio – mirava probabilmente a distrarre i gesuiti dal progetto di edificare la loro casa in un sito che aveva scatenato le rivendicazioni del convento di San Domenico. I frati modenesi infatti accampavano pretese sui terreni assegnati dal duca ai gesuiti e, dopo avere investito il Consiglio cittadino della questione, si dissero pronti a dar fondo a tutte le loro risorse pur di non far costruire i casamenti destinati agli scomodi vicini. Un altro episodio, avvenuto l’anno successivo, rivela la tensione che caratterizzò i rapporti tra gesuiti e domenicani, quanto meno in terra emiliana. Un frate di Parma aveva sparso la voce che il vescovo di Modena volesse cacciare i gesuiti dalla sua diocesi e solo le lettere «in favorem Societatis» scritte da Foscarari e consegnate al padre Giovanni Battista Viola437, commissario in vari collegi italiani, poterono placare il clamore suscitato438. Nel frattempo a Modena l’inesorabile assottigliarsi degli studenti, rimasti in 14, portò alla chiusura delle scuole nell’estate del 1555. La decisione, tuttavia, non placò gli animi di una città in subbuglio, come mostrarono gli avvenimenti occorsi pochi mesi dopo. A ottobre Paolo IV reclamò dal duca di Ferrara la consegna di quattro illustri membri della comunità eterodossa: l’umanista Ludovico Castelvetro, esponente del patriziato cittadino, il libraio Antonio Gadaldino, il canonico Bonifacio Valentini e suo cugino Filippo, già collaboratore di Contarini negli anni trenta439. Il Consiglio comunale additò i gesuiti come i veri ispiratori del provvedimento e delatori dei presunti luterani di Modena: papa Carafa – si diceva – apparteneva al loro ordine e negli stessi registri comunali i religiosi, con un lapsus rivelatore, erano indicati come «preti

Padre il qual però como ci aggiuta nella terra ci aiutarà et anche più nel Cielo» (ARSJ, Ital., 105 I [1553-1554], c. 227r).436 MHSI, Vita Ign., V, pp. 142-153.437 Su di lui v. BCJ, VIII, col. 831.438 Questa e le notizie che seguono, dove non diversamente precisato, sono tratte da MHSI, Vita Ign., VI, pp. 202-210. 439 Il breve con cui Paolo IV chiedeva a Ercole II l’estradizione dei quattro è in ASV, Armadio XLIV, tomo 4, n. 242, edito in TIRABOSCHI, Biblioteca modenese, cit., VI, p. 59. Per i risvolti della vicenda cfr. AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 85 ss. Rimandi biobibliografici sui personaggi citati in PM 2, I, ad indicem.

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riformati chiamati chietini»440. Come se non bastasse, la Comunità si riteneva danneggiata dall’edificazione della nuova casa dei padri su un terreno di sua pertinenza: nel novembre 1555 un’ambasceria dei Conservatori raggiunse il duca per «dolser[s]i che la robba del Comune sia usurpata» e i lavori, che già erano stati tirati per le lunghe, subirono un ulteriore rallentamento. A completare il tentativo di screditare i gesuiti, infine, uno di essi fu accusato in assemblea di aver insidiato una monaca: il vescovo – coerentemente alla politica di moralizzazione perseguita – sollecitò il duca perché il colpevole fosse messo in carcere, finché uno dei Conservatori confessò che si trattava di calunnie sparse ad arte. Stretto tra le proteste dei Conservatori, le rimostranze dei domenicani e lo scontro tra il papa e gli Estensi per l’estradizione degli eretici modenesi, Foscarari iniziò ad arrancare di fronte alla Compagnia e, forse per riportarla sotto un più saldo controllo vescovile, chiese per l’ennesima volta ai padri di impegnarsi in mansioni pastorali quali la predicazione in cattedrale, le lezioni di teologia per i preti e la cura dei carcerati. La risposta suggerita da Roma fu, al solito, accorta e scaltra: «Non essendo collegio alcuno in Modena, né casa né chiesa – scrisse Polanco a Fabbro il 1° aprile 1556 – pare non è poco trattener li duoi sacerdoti che costì sono [per tenere lezioni al clero]. Quando dessino chiesa e casa e modo di trattener un collegio, si potria veder se si trovarebbe alcuno qual si domanda»441. Le richieste del vescovo divenivano un elemento di trattativa e, da allora, la situazione cominciò effettivamente a sbloccarsi: nell’aprile 1557 Fabbro annunciava l’acquisto di una casa in via della Cerca, cui si aggiunse di lì a breve l’edificazione di una chiesa442. Nel giro di quattro anni i lavori arrivarono a un primo compimento, nonostante colpi di mano piccoli e grandi cercassero fino all’ultimo di ritardare le cose. Nel maggio 1557 un decreto del vicario diocesano, di cui il vescovo si disse all’oscuro, proibì di proseguire nella costruzione e solo dopo molte discussioni le autorità civili e religiose si rassegnarono all’edificazione del nuovo sito443. E mentre in città la Compagnia continuava a essere circondata da sospetti, Foscarari progettava di ristabilirne il buon nome attraverso validi predicatori: «Se fosse possibile di havere qualche persona [...] per predicare», vagheggiava, «tutta Modena li correrebbe drietto et [...] darebbe grande credito alla Compagnia»444.Non si può negare che il quadro dei rapporti tra i gesuiti e i poteri cittadini, dal vescovo al Comune, presenti zone d’ombra che continuano a sollevare interrogativi: la calcolata ambiguità delle fonti gesuitiche rende difficile fare 440 Cfr. ASCMo, Vacchette, 1555, c. 149r (8 novembre 1555), da cui è tratta anche la citazione che segue. Altre carte riguardanti al trattativa in ASCMo, Ex actis, 9/1 (1555-1557), sub novembre 1555. Sulla diffusa confusione tra teatini e gesuiti, in particolare nei primi anni di vita dei due ordini, cfr. A. VANNI, «Fare diligente inquisitione»: Gian Pietro Carafa e le origini dei chierici regolari teatini, Roma 2010, pp. xxx-xxx. 441 MHSI, Vita Ign., VI, p. 205, n. 1.442 Cfr. ARSJ, Ital., 108 [1557], cc. 46r-47v; lettera di Fabbro a Polanco, 13 aprile 1557.443 «Cominciando noi a fabricare ecco subito ch’il demonio, il quale non ha potuto estirpare il colleggiolo, volendo impedirlo, procura [...] che il vicario del vescovo [...] ci manda un precetto assolutissimo [...] che sotto pena di excomunicatione et 100 scudi non fabrichiamo più». Il decreto sosteneva che la costruzione avrebbe pregiudicato le ragioni di un vicino. Nonostante la severità del provvedimento, il vescovo e il vicario sostennero di «non saperne niente», sebbene il secondo si dimostrerà in realtà al corrente della questione. Cfr. ARSJ, Ital., 108 [1557], cc. 203r-204v; lettera di Fabbro a Polanco, 25 maggio 1557. 444 Questo il giudizio del vescovo secondo la versione datane da Fabbro; cfr. ARSJ, Ital., 108 [1557], c. 46r.

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completa luce su alcuni dei passaggi cui si è accennato, ma gli indizi ricavabili da documenti di diversa provenienza confermano la presenza di significative tensioni tra la Compagnia e la classe dirigente locale. I gesuiti furono percepiti dall’élite di governo come longa manus dell’Inquisizione romana, stranieri venuti a compromettere gli equilibri di una città gelosa della propria autonomia. Tra questi flutti, il vescovo navigò con crescente difficoltà passando, nel giro di pochi anni, dall’entusiasmo a una condotta più prudente. Se da un lato la Compagnia cercò di mantenere le sue posizioni a Modena continuando a considerare Foscarari un «amico» e assecondandone, come vedemo tra poco, le scelte nei confronti del dissenso religioso, dall’altro il vescovo non rinunciò mai a una collaborazione, a tratti più problematica che risolutiva, con i discepoli di Ignazio.

Il controllo dell’eresia

Come si è avuto modo di accennare, gli sforzi riformatori di Foscarari dovettero ripetutamente misurarsi con un contesto cittadino animato da un movimento ereticale tra i più vivaci nel panorama italiano. Per fronteggiare una situazione che rischiava di consegnare la diocesi all’Inquisizione, il domenicano era stato dotato di appositi privilegi che gli consentirono di assolvere in segreto i dissidenti; strumenti che, oltre a costituire una via di uscita operativa, si accordavano alle sue concezioni teologiche sulle prerogative vescovili. Le gravi condizioni in cui versava la chiesa modenese gli furono subito note grazie ai precisi ragguagli del vicario diocesano Gian Domenico Sigibaldi, che gli indicò nomi e cognomi dei sospetti, e alle molte copie del Beneficio di Cristo che trovò accatastate in curia in attesa di essere bruciate (questa, almeno, la versione ufficiale)445. Un mese dopo il suo arrivo, il 10 agosto 1550, ordinò ai modenesi di consegnare all’inquisitore i libri proibiti di cui erano in possesso e di confessare ai giudici i propri errori446, forse approfittando del giubileo e dei provvedimenti di grazia emanati in quell’anno da Giulio III. Anche in concilio – dove si recò per la seconda volta nella sua nuova veste di vescovo – cercò vie di conciliazione che, verosimilmente, tenevano conto dei problemi riscontrati nella diocesi modenese. Giunto a Trento nel luglio 1551447, intervenne nei dibattiti sull’eucarestia e la confessione. Nella congregazione generale del 28 settembre, sulla scorta di Agostino e di altri dottori, ricordò la difficoltà di stabilire con esattezza quando e se un dogma fosse eretico («maximi esse momenti permagnaeque considerationis et difficultatis dogma aliquod ut haereticum statuere»)448. Per evitare di dare l’impressione di introdurre nuove dottrine, i padri avrebbero dovuto discernere tra eresia e ortodossia richiamandosi sempre ai concili antichi. Un’istanza del genere, che, almeno idealmente, continuava a cercare un fondamento su cui anche i 445 Cfr. PM 2, II, p. 996. 446 Cfr. CrMo, X, p. 272.447 CT, II, p. 238 lo vuole giunto a Trento il 1° settembre, sebbene il suo arrivo vada anticipato. Il cronista Lancellotti scrive infatti che Foscarari partì da Modena il 28 giugno e il 7 luglio in città si riferiva che «quelli preti del concilio ge feceno tanto honore che el non se potria dire più, e questo ha detto uno suo frate che andò con lui el quale è tornato a Modena» (CrMo, X, p. 466). Il 31 agosto 1551, inoltre, il vescovo informava il duca di Modena sui lavori conciliari; cfr. le due lettere conservate in ASMo, Giurisdizione sovrana, 261, fsc. 66, cc. 112-113 e 114-115. Ripartirà da Trento intorno al 6 aprile 1552; cfr. CT, VII/3, p. 626.448 CT, VII/1, pp. 168-169; v. anche SCT, III, pp. 380, 391.

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protestanti sarebbero potuti convergere, ribadiva la centralità della tradizione apostolica e del diritto divino fondato sulle Scritture («verbum Domini manet in aeternum», aveva esordito); ma nelle pieghe del ragionamento trovava spazio una distinzione tra eresia ed errore che precisava cosa fosse negazione dello ius divinum o della traditio, dunque haeresis, e cosa semplice infrazione di un precetto della Chiesa. Foscarari portava come esempio di errore il non confessarsi prima di ricevere l’eucarestia: «Si condanni – spiegava – ma non come cosa eretica perché il suo contrario [cioè l’obbligo di confessarsi prima della comunione] non è di diritto divino, né secondo la tradizione apostolica o la determinazione della Chiesa. Si provveda tuttavia con qualche rimedio [...], ma non come se fosse un precetto divino»449. La stessa distinzione tra il contenuto teologico e veritativo dei sacramenti e la loro concreta amministrazione tornava a proposito della penitenza, su cui Foscarari si esprimeva il 14 novembre: «La confessione è di diritto divino. Cristo ha istituito la confessione in genere, ma non ha istituito il modo, pubblico o privato, in cui la si pratica. Perciò può essere praticata in entrambe le forme e in entrambi i casi si soddisfa il precetto di Cristo»450. Se l’esempio poneva a confronto le modalità antiche e quelle moderne della penitenza, il criterio che sottostava al ragionamento – la distinzione tra contenuto e pratica effettiva dei sacramenti – poteva condurre a esiti meno pacifici, forse alla ricerca di un qualche compromesso con le rivendicazioni del movimento filoriformato. Difficile perciò non mettere in relazione, almeno in parte, tali pronunciamenti con il dissenso religioso che Foscarari fronteggiò nella propria diocesi mediante riconciliazioni private e ammonimenti paterni451. Le tracce scritte di quell’attività furono rinvenute nel 1572 dagli inquisitori che, durante un’ispezione, ritrovarono tra le carte della curia modenese due grossi volumi, di 150 e 200 carte, annotati dallo stesso vescovo e compendiati dai giudici che ne fecero trascrivere gli indici (i cosiddetti Excerpta)452. In essi erano riportati i processi di molti eretici, le cui sorti furono tenute costantemente aggiornate – di molti imputati erano riportati la fuga oltralpe, la morte, i processi celebrati dal Sant’Ufficio romano, ecc. A ognuno erano dedicate diverse carte, a riprova di esami per nulla sommari, con un numero complessivo di riconciliati superiore all’ottantina. Se poi si scorrono i nomi degli eretici assolti, si possono ritrovare gli esponenti più illustri dell’Accademia – il circolo eterodosso sorto in città sul finire degli anni venti – e della nuova comunità dei «fratelli» che aveva sostituito la vecchia guardia, orientando il movimento ereticale in senso zwingliano e calvinista453. Dalla prima provenivano Giovanni Maria Tagliati, detto il Maranello, Filippo Valentini, Marco Caula, Ludovico Castelvetro, 449 Traduco da CT, VII/1, p. 168. 450 Traduco da ivi, VII/1, p. 319.451 PROSPERI, Tribunali della coscienza, cit., pp. 239, 273 e altri riferimenti ad indicem; AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 59 ss. Sulla «moderate investigation» di Foscarari v. anche J.K. WICKERSHAM, Rituals of Prosecution: the Roman Inquisition and the prosecution of philo-protestants in Sixteenth-century Italy, Toronto 2012, pp. 142 ss. 452 Di questi volumi, oggi irreperibili, furono approntati degli Excerpta, conservati in ASMo, Inquisizione, 1,7, fsc. VIII. Un’analisi del documento e del suo utilizzo in M. AL KALAK, L’inquisitore archivista. La funzione del riordino archivistico nel disciplinamento delle coscienze, in «Schifanoia», 36-37 (2009), pp. 153-164. Una descrizione dei due manoscritti appartenuti a Foscarari compare nell’inventario dell’archivio del Sant’Ufficio di Modena redatto intorno al 1573: «Duo libri olim reverendissimi domini episcopi Aegidii membranis ligati, unus folio et alter in quarto» (ASMo, Inquisizione, 1,7, fsc. VII).

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Francesco Camurana e Antonio Gadaldino; erano invece capi della comunità dei fratelli Giovanni Bergomozzi, Giacomo Graziani, Giovanni Rangoni, Giacomo Cavallerini e Giulio Sadoleto, cui si aggiungevano, in una posizione di minore importanza, Giovanni Antonio Rossi, Paolo Antonio da Campogalliano, Paolo Superchi, Bartolomea della Porta, Antonio Maria Ferrara, Paolo Cassano e molti altri. Dal confronto con Foscarari non sfuggì quasi nessuno e certamente nessuno dei leader dell’articolato dissenso modenese. Il domenicano aveva dunque adempiuto al mandato ricevuto al momento di partire da Roma. Di quegli esami non rimane pressoché nulla, ma non è da escludere che tra le carte dell’Inquisizione modenese qualcosa sia sopravvissuto. Risale certamente a quella stagione l’abiura che Giovanni Rangoni consegnò nelle mani del vescovo prima di essere nuovamente inquisito e costretto alla fuga in Valtellina454. In essa l’eretico ammetteva di non aver creduto nella presenza reale, nell’intercessione dei santi e nell’autorità pontificia, e ancora nel 1564 il vescovo risultava impegnato nella stesura di una ritrattazione che potesse chiudere senza strepito il caso455. I convincimenti del nobile modenese erano simili a quelli riportati in altri due procedimenti che, forse, possono iscriversi nel novero delle riconciliazioni di Foscarari o quantomeno tra le cause che il vescovo ritenne di potere avocare a sé. Il 3 settembre 1555, ad esempio, Gian Giacomo Tabita abiurò nelle sue mani: l’uomo era stato «in [h]eresi luterana» per sette anni, durante i quali aveva letto vari libri proibiti, dal Beneficio di Cristo al Pasquino in estasi, ai testi di Ochino, Pietro Martire Vermigli, Giulio da Milano e Francesco Stancaro. Aveva messo in dubbio il valore del battesimo, la presenza reale, l’invocazione dei santi, la penitenza, i suffragi per i morti, il culto delle immagini, il purgatorio, il potere del papa («[credit] pontificem romanum esse antichristum, non superiorem sed equalem aliis episcopis») e riteneva che l’unica vera Chiesa fosse quella invisibile dei predestinati456. Al pentimento dell’eretico era seguita la sentenza emessa congiuntamente dal vescovo e dall’inquisitore Angelo Valentini457, alla presenza di frate Domenico da Imola e di un certo «Andrea de terra Argentii de Lucia». Si trattava con ogni evidenza dello stesso personaggio che consegnò a Foscarari una «confessione generale» in cui ammetteva colpe simili a quelle di Tabita: dopo essere stato in Germania per vedere i frutti della religione predicata da Lutero, aveva constatato che quel «largo modo [di vivere] fa tutti gli huomini venire alla vita epicura senza timore de Dio» e perciò aveva preferito tornare nel grembo della 453 Cfr. PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi, cit.; AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit. e PM 2, cui si rinvia per le biografie dei personaggi citati di seguito. 454 ASMo, Inquisizione, 3,35. Sulla coperta dell’incartamento si legge: «Contra Ioannem Rangonum Mutinensem qui privatim abiuravit coram reverendissimo domino Aegidio Foscarario, deinde fugit et mortuus est Sondri». Negli Excerpta la confessione di Rangoni è così descritta: «Ioannes Rangonus, in Sancta Agatha. Hic pluries admonitus asserit se omnia credere. Obiit Sondri».455 Lo stesso Rangoni ne dava notizia all’eretico Giacomo Graziani il 22 gennaio 1564: «Il vescovo non si è mai contentato: hora [...] aspecto una [abiura] formata da lui et sum certo che a me non piacerà; pur la vederema, et essendo cosa che si possa dire senza dishonore de Dio e de la nostra fede, si potresseno acordare» (ASMo, Inquisizione, 3,35; edita in AL KALAK, Gli eretici, cit., p. 173).456 ASMo, Inquisizione, 3,12, da cui è tratta la citazione che segue. Negli Excerpta si riferisce probabilmente a Tabita la seguente indicazione: «Giovanni Iacobo da Bresa stampatore. Ex reverendissimo. Abiuravit». 457 Foscarari e Valentini giudicarono congiuntamente anche l’altra causa presente nello stesso fascicolo, quella di Claudio da Roteglia.

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Chiesa458. Quelle pratiche confermavano che Foscarari godeva dell’appoggio degli inquisitori modenesi, che non ostacolarono il suo comportamento nei confronti del dissenso e, anzi, lo sostennero affiancandolo nei procedimenti che si preferì (o si dovette) far passare per il tribunale anziché per via privata459.In quell’azione, agevolata dai confratelli del Sant’Ufficio, vi era tuttavia un possibile concorrente su cui abbiamo già avuto modo di soffermarci: i gesuiti. Essi godevano di speciali privilegi per assolvere gli eretici in utroque foro460. Foscarari volle sincerarsi che i padri della Compagnia non si immischiassero nella delicata partita che si stava giocando, e anche Ignazio comandò ai suoi di non opporsi al domenicano. I vertici dell’ordine precisarono ripetutamente che i privilegi di cui erano insigniti non dipendevano dall’approvazione dei vescovi, né venivano meno di fronte alle analoghe facoltà concesse a Foscarari da Giulio III. Ciò nonostante, bisognava muoversi con prudenza, come puntualizzava Polanco il 18 novembre 1553461.

Circa il vescovo [di Modena] et le sue gratie dico tre cose: la prima, che nostre gratie hano tal clausula, che non cadeno soto alcune revocationi etc. se de verbo ad verbum non si facessi mentione expressa. La 2a che questo papa ha rivalidato tutte le nostre gratie nelli ultimi brevi. La 3a che quantunque l’habbiamo libere et non sotoposte al arbitrio delli vescovi, che Nostra Paternità vuogle siano sottoposte et che non si adoperino se non sarà contento monsignor di Modena che siano adoperate, et con la missura che lui vorrà s’adoperarano. Dirò etiam de più che, quantunque fossi valida la gratia del vescovo di Modena per suspendere l’uso delle nostre nella sua diocesi, eo ipso che si contenti che noi usiamo nostre gratie, potremo usarle, etiam nelli casi papali etc., alli quali non si estende forsa l’autorità del vescovo.

I gesuiti – che probabilmente avevano già assolto alcuni eretici modenesi462 – mettevano a disposizione del vescovo i loro poteri presentandosi come possibili alleati nel contrasto all’eresia. Quattro mesi più tardi, Foscarari sembrava però non aver concesso ai seguaci di Ignazio nessuna libertà di manovra e, non solo dava disposizioni precise riguardanti il modo di condurre le confessioni, ma continuava a volere esercitare in maniera esclusiva la facoltà di assolvere gli eretici463. Dal canto suo Ignazio non insisteva in senso contrario, con una scelta 458 ASMo, Inquisizione, 3,34. Di Luci non pare esservi menzione negli Excerpta. 459 FONTAINE, Making Heresy, cit., p. 45 sostiene che Foscarari avesse persino fatto spostare le carceri e gli archivi inquisitoriali in vescovado. Le fonti citate dalla studiosa non suffragano tuttavia questa indicazione. 460 Sui privilegi dei gesuiti in materia di confessione e le vicende connesse, cfr. da ultimo P. SCARAMELLA, I primi gesuiti e l’Inquisizione romana (1547-1562), in «Rivista storica italiana», CXVII, 2005, pp. 135-157, ora in ID., Inquisizioni, eresie, etnie. Dissenso religioso e giustizia ecclesiastica in Italia (secc. XVI-XVIII), Bari 2005, pp. 91-115.461 Lettera a Giovanni Battista Viola, edita in MHSI, Epp. et instr., V, pp. 701-703, qui cit. p. 702. Cfr. anche MHSI, Vita Ign., III, p. 160.462 Lo si deduce dal racconto di Polanco sull’azione dei gesuiti modenesi: «Nonnulli haeretici [...] veritatem fidei catholicae edocti, ac Dei gratia illustrati, per confessionem omnem venenum errorum mente conceptum effuderunt» (MHSI, Vita Ign., III, p. 149). 463 Lo dimostra una lettera del 20 marzo 1554 scritta da Ignazio al rettore del collegio di Modena Filippo Fabbro (Leerno): «La lista del reverendissimo vescovo et instrutione per li confessori pare molto bona et [...] non pare conveniente procedere se non conforme alla voluntà sua, siché la Reverentia Vostra et il suo compagno seguitarano la sua instrutione, massime con le persone non conosciute. Et quanto alla facultà di assolvere, si demandi a detto monsignor se vuole che usino della facultà della Compagnia, dando ancora la sua monsignor reverendissimo, et facciano quanto ordinarà quantunque nostri privilegi siano confirmati di novo per questo papa» (ARSJ, Ital., 105 I [1553-1554], cc. 68r-v).

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che di fatto lo metteva al riparo da eccessive compromissioni. Anzi, quando la situazione si aggravò, i gesuiti non ebbero dubbi sulla procedura da seguire e, nel vivo dell’offensiva antiereticale di Carafa, indirizzarono al vescovo e all’inquisitore quanti erano a conoscenza di personaggi sospetti in materia di fede («cum quaedam excommunicatio Mutinae promulgata esset contra eos qui scirent aliquem haeresi infectum [...], non exiguum poenitentium numerum ad episcopum et inquisitorem miserunt»)464. Se i provvedimenti sin qui esaminati si possono iscrivere in un complessivo progetto di riforma incentrato sul primato vescovile, qualcosa di più sembrano invece indicare i duraturi rapporti di stima che Foscarari intrattenne con personaggi in odore di eresia, alcuni persino esuli religionis causa. Lunghissima fu ad esempio la battaglia a favore di Ludovico Castelvetro, cui il vescovo restò legato da sincera stima anche quando Paolo IV, come si è accennato, ne chiese l’estradizione a Roma. Foscarari non mancò di adoperarsi a favore del letterato nelle varie fasi della causa inquisitoriale che lo colpì: nell’estate del ‘56, all’indomani degli arresti che a Lucca avevano coinvolto i più insigni dottori della città465, il vescovo gli garantì la sua protezione466 e confermò ripetutamente l’infondatezza delle accuse raccolte dai giudici. Alcuni anni più tardi, nella parentesi mite inaugurata dall’elezione di Pio IV, esortò Alfonso II d’Este a indirizzare Castelvetro a Roma, dove sarebbe stato trattato con giustizia. L’umanista si avviò verso l’Urbe, ma, forse per il delinearsi di accuse sempre più precise, forse per timore di essere sottoposto a tortura467, il 17 ottobre 1560 «se ne fuggì»468, scortato dal fedelissimo fratello Giovanni Maria. Il processo terminò con una condanna in contumacia del modenese che, nella primavera del ‘61, imboccò la via dell’esilio. Ai successivi appelli dell’eretico di poter essere giudicato in concilio, i padri risposero ingiungendogli di comparire davanti al Sant’Ufficio dove sarebbe stato trattato con mitezza. Il 7 luglio 1563, ricorrendo ai buoni uffici di Ludovico Beccadelli469, Foscarari cercava ancora di sbrogliare la matassa470. 464 Cfr. anche MHSI, Vita Ign., V, p. 143.465 Fu lo stesso Castelvetro a darne preoccupata notizia a Foscarari; cfr. CFBo, Parte Prima, cc. 26r-27r (lettera del 25 giugno 1556), parzialmente edita da E. GARAVELLI, Gli scritti «religiosi» di Lodovico Castelvetro, in A. CORSARO, M. FAINI, P. PROCACCIOLI (a cura di), Autorità, modelli e antimodelli nella cultura artistica e letteraria fra Riforma e Controriforma, Manziana 2007, pp. 267-300: 278. Per la situazione lucchese in questi anni, v. S. ADORNI BRACCESI, «Una città infetta». La Repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze 1994.466 Cfr. CFBo, Parte Prima, cc. 27r-v (Castelvetro a Foscarari; Verdeta, 1° agosto 1556). Nella lettera Castelvetro, forte del sostegno del vescovo, si diceva fiducioso che la sua causa sarebbe stata discussa a Ferrara e non a Roma.467 Questo fu quanto scrisse a Foscarari Giovanni Battista Giraldi il 27 aprile 1562. Il letterato supplicava che Castelvetro fosse giudicato senza uso di metodi coercitivi, non consoni a un uomo della sua levatura. Cfr. CFBo, Parte Seconda, c. 8v; edita in G.B. GIRALDI CINZIO, Carteggio, a cura di S. VILLARI, Messina 1996, pp. 370-373 e in L. FRATI, Di alcune lettere ad Egidio Foscarari, in «Archivio Storico Italiano», LXXIV (1916), pp. 137-147: 146-147. V. anche U. ROZZO, Gli «Ecatommiti» all’Indice, in «Schifanoia», 12 (1991), pp. 61-77. 468 CFBo, Parte Prima, c. 27v (lettera di anonimo a Foscarari, post 17 ottobre 1560, edita in FRATI, Di alcune lettere, cit., p. 145).469 A sua volta amico di Castelvetro. Cfr. ad es. BPPr, Ms. pal., 1010, c. 113r (Beccadelli a Foscarari; 29 ottobre 1555).470 CFBo, Parte Terza, cc. 91v-93r (missiva del 7 luglio 1563; la data è desumibile dal testo della risposta di Beccadelli citata di seguito, in cui si ricorda «la lettera [...] di vii [luglio] per la quale mi raccommanda il negotio di messer Ludovico nostro»). Un ampio stralcio della missiva in MURATORI, Opere varie critiche di Lodovico Castelvetro, pp. 44-45.

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Vostra Signoria sa – scriveva il vescovo di Modena – quanto mi sia a cuore la causa del Castelvetro et ne’ primi ragionamenti che hebbi con monsignor illustrissimo Morono mi sforzai di inclinarlo a questo, perché fosse mezzo a farmi ottenere quanto era bisogno; ma egli negò di poterlo fare, scusandosi che egli era come sospetto a Roma et tutto quello che facesse sarebbe interpretato in male parte. Et mi consigliò a fare quello che hora faccio: che ricorressi a Vostra Signoria, persuaso che ‘l miglior mezzo che si potesse usare in ciò fosse il ricorrere all’autorità dell’eccellentissimo duca di Firenze, il quale con ogni puoco di raccomandatione ottenerebbe agevolissimamente dal papa [...] che la causa sua fosse veduta da tutti gli inquisitori purché non andasse a Roma o qui si constituissero alcuni deputati secondo il piacere de legati e costui venesse.

Perdonare Castelvetro, spiegava Foscarari, non era solo liberare un’anima da un grave pericolo «della salute», ma anche aprire «la via a molte altre di potersi riconciliare alla Chiesa». Quelle parole, mentre confermavano una linea di condotta improntata all’irenismo e alla moderazione, mostravano l’irrimediabile svolta impressa dall’entrata in scena dell’Inquisizione, capace di mettere nell’angolo persino un personaggio del calibro di Morone. I tempi erano cambiati e, proprio per questo, i tentativi di Foscarari assumevano un valore ancora maggiore. Il 27 luglio Beccadelli garantì di volere «giovar a messer Ludovico, il qual amo», ma «non havendo [...] in simili né altri negotii sino a qui intratura alcuna con Sua Eccellenza [Cosimo de’ Medici]» avrebbe dovuto «andare circonspetto»471. Di fatto Castelvetro sarebbe morto lontano dalla sua patria senza mai rientrare nel grembo della Chiesa. La vicenda appena descritta testimonia come, nonostante le condanne ufficiali, Foscarari mantenesse stretti rapporti con personaggi tacciati di eresia, cercando fino all’ultimo di riabilitarli. Nel caso di Castelvetro, è possibile che dietro quella solidarietà agisse anche un’affinità umana dettata dalla comune appartenenza a famiglie del patriziato e da una raffinata cultura. Né si deve escludere il timore che forse animò Foscarari per gli effetti negativi che l’arresto di illustri membri della comunità cittadina avrebbe potuto produrre sulla pace sociale. Considerazioni simili valsero probabilmente anche nei confronti di Filippo Valentini, esponente del consiglio dei Conservatori e leader del movimento eterodosso, di cui Roma aveva chiesto l’estradizione insieme a Castelvetro. Ancora una volta non mancano prove di contatti significativi fra Foscarari e l’eretico472, che vantava parentele importanti all’interno della famiglia domenicana a partire da suo cugino Angelo Valentini, già compagno di Foscarari nella fase bolognese del concilio e inquisitore a Modena negli anni cinquanta473. In varie occasioni quest’ultimo fece da tramite tra il dissidente e il 471 BPPr, Ms. pal., 1013, cc. 87v-88r (la minuta della stessa lettera, priva di varianti sostanziali, si trova in Ms. pal., 1014/1, cc. 22v-23r).472 Cfr. ad es. le due lettere di Valentini a Foscarari in CFBo, Parte Prima, cc. 27v-28r e 28r-30r. Per un’analisi puntuale della vicenda di Valentini, cfr. F. VALENTINI, Il principe fanciullo. Trattato inedito dedicato a Renata ed Ercole II d’Este, a cura di L. FELICI, Firenze 2000.473 In CFBo, Parte Prima, cc. 30r-v, si conserva una lettera che Valentini scrisse al cugino da Coira il 1° giugno 1562. In essa esprimeva ancora la speranza che il concilio avrebbe favorito la sua riconciliazione con la Chiesa: «Dico che io verrò [...] a sottopormi alle determinationi di detto sacro concilio le quali, spero in Dio, che saranno tali che si conoscerà manifestamente che non sarò mica convinto d’heresia alcuna et di più che le allegate sospittioni, più tosto procurate che trovate, erano anche in tutto vane [...] Si possono haver molti testimoni della mia patiente modestia et di certa riverentia verso quella mia madre [la Chiesa] che da sé come parto disutil m’ha gitato via, et specialmente il non haver io mai messo penna in carta».

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vescovo-confratello, destinatario di una missiva in cui, il 5 giugno 1562, Valentini rifiutava il salvacondotto che Foscarari gli proponeva per rientrare in terra cattolica474. Cordiali furono anche i rapporti con Gabriele Falloppia, un tempo membro dell’Accademia modenese e anatomista di fama. Tale era la stima tra i due che, nel 1561, Falloppia donò a Foscarari diretto al concilio una mula: «Desiderarei che ella havesse il dono di quella di Balaam – scrisse il domenicano – che non dubito che non potrebbe parlar d’altro che dell’affettione et osservanza che io gli porto»475. Non erano parole di circostanza: il vescovo continuava effettivamente a mantenere relazioni con uomini in odore di eresia, stimato da loro e mai stanco di cercare possibilità di riconciliazione. Così si adoperò per evitare umiliazioni e processi a uomini, morti nel cuore della Svizzera riformata, come il già citato Giovanni Rangoni476 e Giulio Sadoleto477. A dimostrare quale e quanta fosse la stima riposta da Foscarari in personaggi sospetti sta poi la collaborazione che richiese ad alcuni di loro in campo pastorale, servendosi della loro perizia linguistica. Oltre a un trattato sulla messa fatto tradurre a Castelvetro478, Foscarari incaricò il maestro di greco Giovanni Maria Tagliati – imbevuto di principi anabattisti – di insegnare «l’evangello o la epistola» presso la confraternita cittadina di San Sebastiano479

e, analogamente, incoraggiò il modenese Pellegrino degli Erri, già esponente della contestazione filoriformata, ad approntare una traduzione dei Salmi480, tutte imprese su cui ci soffermeremo tra breve.Occorre dunque concludere che Foscarari si fosse spinto al di là del mandato di coprire e, per quanto possibile, rimediare alla situazione che Morone si era lasciato alle spalle: molti degli eretici modenesi – soprattutto quelli con cui, a quanto parrebbe di dedurre, si poteva trovare un’intesa attraverso la comune eredità umanistica – non furono solo assolti in segreto dal vescovo, ma stabilirono con lui rapporti di stima e di collaborazione.

La diffusione di opere a stampa

I provvedimenti di cui Foscarari si era fatto interprete, dall’istruzione del clero al rafforzamento dell’autorità vescovile, erano parte di un più ampio progetto di Chiesa fondato sulla consapevolezza delle verità di fede e la loro piena comprensione da parte dei credenti. Una sintesi della visione che animò il domenicano e, di fatto, ne guidò l’operato è conservata in un trattatello, la Brieve dichiaratione della messa, stampato a Modena nel 1556 da Antonio

474 CFBo, Parte Prima, c. 30v-31r.475 Cit. da CFCh, cc. 229v-230r. Altre lettere riguardanti la stessa vicenda in CFBo, Parte Prima, cc. 20r-v, 9r-10r e CFCh, cc. 269r-v, 228v-229r.476 Così depose il 19 marzo 1566 il francescano Ludovico da Lione nel processo contro Giovanni Rangoni: «Già un’altra volta [Rangoni] fu pur travagliato et chiamato a Roma per heretico et [...] il vescovo morto, frate Egidio, lo aiutò» (ASMo, Inquisizione, 3,35). 477 Cfr. CFCh, cc. 272v-273r, dove si trova una lettera di Foscarari a Giulio Sadoleto risalente verosimilmente ai primi anni sessanta. In essa il vescovo gli assicurava di adoperarsi a suo a favore sia a Roma sia a Modena con l’inquisitore Domenico da Imola. 478 Si tratta della Brieve dichiaratione della messa, per cui v. il paragrafo seguente. 479 ASMo, Inquisizione, 4,10, costituto del 27 gennaio 1567: «Nella compagnia di San Sebastiano [...] alle volte ho insegnato l’evangello o la epistola correti di commissione di monsignor Egidio vescovo già di Modena».480 Sull’Erri e i suoi Salmi di David tradotti [...] dalla lingua ebrea, v. il paragrafo seguente.

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Gadaldino481. L’opera era stata stesa in latino dallo stesso Foscarari che, come accennato in precedenza, ne aveva commissionato il volgarizzamento a Ludovico Castelvetro. In poche pagine, essa compendiava i capisaldi della spiritualità del vescovo e la sua concezione ecclesiologica basata su un cristocentrismo eucaristico in cui la messa costituiva il momento istitutivo e rigenerante della società cristiana. Il libretto raccoglieva probabilmente le riflessioni svolte nel corso dei lavori conciliari del 1551-52 e, come era accaduto in occasione dei suoi interventi a Trento, l’intero ragionamento poggiava sulle Scritture e sulla tradizione patristica. La scelta, in linea con la sensibilità di Foscarari, teneva anche conto di specifiche esigenze pastorali: era necessario infatti cercare argomentazioni che, pur senza cedimenti sul piano dottrinale, permettessero un confronto con i molti eretici presenti in città. Non è da escludere che la designazione di Castelvetro a traduttore dell’opera avesse proprio questo scopo. L’umanista era certamente un raffinato filologo e un acuto conoscitore dei testi sacri; tuttavia in quel momento ciò che più gli procurava fama e fastidi era il suo ruolo nel movimento eterodosso. Chiedere a Castelvetro di volgarizzare quell’opera costituiva dunque l’ennesimo tentativo di dialogo con il mondo di cui era parte e non si possono sottovalutare le implicazioni che quella designazione – giunta vari mesi dopo la richiesta di estradizione a Roma482 – portava con sé. Molti dei punti toccati dal trattatello sembravano peraltro rispondere e tenere conto delle contestazioni dell’Accademia modenese. Sin dal proemio, ad esempio, Foscarari dichiarava di aver scritto quel testo perché «le ceremonie non intese s[o]no di danno et di noia, ma intese di maravigliosa utilità et agevolezza»483. Voleva inoltre fugare ogni dubbio su «molte cose [che] sono dette dagl’historici essere inventione de’ papi», sebbene fossero state «introdotte la prima volta dagli apostoli» e solo «ristrette da que’ papi sotto più certa regola et forma di diterminate parole»484. Erano temi che, certo, avevano una lunga tradizione alle spalle: non si può però ignorare come in quegli stessi anni molti dissidenti modenesi – persuasi in particolare dalle pubbliche lezioni di don Giovanni Bertari485, esponente di punta dell’Accademia – fossero convinti che «ille qui dicebat orationem vocalem et non intelligebat sensum verborum peccabat et faciebat maximam iniuriam Deo»486 o, ancora, che «la messa non è bona se non per l’epistola et evangelio et che le altre cose erano inventioni de papi»487. L’esigenza di comprendere le preghiere che si recitavano e la ricerca 481 Per un’edizione critica dell’opera e un’esauriente nota introduttiva: Brieve dichiaratione della messa, in L. CASTELVETRO, Filologia ed eresia. Scritti religiosi, a cura di G. MONGINI, Brescia 2011, pp. 252-273. 482 Come rivela una lettera scritta da Castelvetro a Foscarari, l’umanista aveva quasi ultimato la traduzione sul finire del giugno 1556, cioè circa un anno dopo il breve con cui Paolo IV chiese a Ercole II l’estradizione del modenese. Cfr. CFBo, Parte Prima, cc. 26r-27r, edita in FRATI, Di alcune lettere, cit., pp. 143-144.483 Brieve dichiaratione, cit., p. 252. 484 Ivi, p. 253. 485 Su Bertari oltre alla voce di A. ROTONDÒ in DBI, 9, pp. 476-477 e PM 2, I, pp. 255-256, v. anche S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino 1987, pp. 74-76.486 Questa una delle imputazioni contro Bertari; cfr. ASMo, Inquisizione, 2,60, costituto di Pietro Giovanni Bartolomasi del 22 marzo 1541. Sulla diffusione del tema nella comunità eterodossa modenese cfr. PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi, cit., pp. 186, 247-248 e AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 195-197. 487 Così, ad esempio, l’eretico Francesco Secchiari; cfr. ASMo, Inquisizione, 5,27, costituto del 21 marzo 1568.

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di un fondamento apostolico per i riti della Chiesa erano così rilevanti per gli eretici modenesi che anche Contarini, nel 1542, ne aveva dovuto tenere conto nella redazione del formulario di fede che si cercò di far sottoscrivere ai dissidenti emiliani488. L’ultimo di essi si interrogava sul valore delle orazioni recitate «a viris idiotis, qui eas non intelligunt»: «Si deve credere che [tali preghiere] valgono per la disposizione d’animo e l’intenzione con cui essi intendono pregare Dio e i santi, benché non capiscano ciò che chiedono. Tuttavia, mancano così di quel frutto che avrebbero se le preghiere che recitano con la bocca, fossero anche comprese [...] Pregherebbero meglio se imparassero e conoscessero il senso delle formule che utilizzano di frequente, come il pater e l’ave maria»489. L’attenzione al tema dell’orazione non era l’unico indizio dell’apertura di Foscarari alle discussioni dei circoli eterodossi. Nella sua articolazione, il trattato si soffermava su molti dei temi al centro della contestazione: dopo aver illustrato il significato della celebrazione e del sacramento, la Brieve dichiaratione passava in rassegna le varie parti che componevano la cerimonia, dai riti preparatori agli inni, alle letture, alla comunione, spiegandone origini e funzioni. Quasi la metà del libretto però era dedicata non alla struttura della messa, bensì alla dimostrazione della presenza reale sulla base di citazioni bibliche e patristiche490. Il tema a Modena era particolarmente sentito e sin dagli esordi tra gli eretici della città si era diffuso un orientamento marcatamente zwingliano, che interpretava l’eucarestia come semplice commemorazione del sacrificio di Cristo491. Foscarari provò ad arginare tale concezione mediante una serrata analisi filologica. Il punto, come vedremo, era di capitale importanza non solo per le ricadute teologiche che la questione poneva, ma anche per il valore sociale e pastorale che il domenicano assegnava alla celebrazione del sacramento. In modo analogo, poi, la Brieve dichiaratione rispondeva indirettamente ai tanti eretici che a Modena mettevano in discussione altre questioni riconducibili alla messa, come il valore dei suffragi per i defunti e la funzione espiatoria del sacramento492: «Secondo che ci hanno insegnato gli apostoli – scriveva Foscarari – s’offerisce nella messa questa pura vittima per gli defonti». Come sempre, il vescovo si sforzava di ricondurre la pratica dei suffragi per i morti agli ordinamenti della Chiesa primitiva: «Quelli apostoli, disciepoli del Salvatore, che soggiugarono il cerchio di tutta la terra, publicarono che ne’ misteri [...] si dovesse far memoria di coloro che dormono in fede»493. Poco oltre, commentando l’uso dei paramenti sacri da parte del sacerdote, suggeriva che sarebbe stato opportuno che i preti «fac[essero] intendere i particolari significati de’ vestimenti, li quali [...] si potranno cogliere [...] da quello che si dice significare il vestito d’Aaron, dal quale in buona parte è tratto il nostro». Ugualmente si doveva insegnare al popolo il valore di «ciascuna altra cosa richiesta a questo sacro misterio, come i vasi et l’altro arnese»494. Guardando 488 Cfr. FIRPO, Gli «spirituali» cit.489 Il testo del Catechismo di Contarini è in PM 2, II, pp. 376-425; qui cit. pp. 413-414 (traduzione nostra). 490 Cfr. Brieve dichiaratione, cit., pp. 252-260. 491 V. P. SIMONCELLI, Inquisizione romana e Riforma in Italia, in «Rivista storica italiana», C (1988), pp. 5-125.492 Cfr. in sintesi AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 188 ss. 493 Brieve dichiaratione, cit., p. 259, da cui è tratta anche la citazione precedente.494 Brieve dichiaratione, cit., pp. 260-261.

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alle molte deposizioni inquisitoriali degli eterodossi modenesi, le indicazioni del domenicano appaiono, ancora una volta, meno generiche: «L’habito de sacerdoti mentre dicono messa [è] habito da boffoni»495, sostenevano molti di loro, e «i danari che si spendeno nelli ornati de tempii sarebbe meglio darli alli poveri»496. Letta alla luce di quanto accadeva a Modena, l’opera di Foscarari assume una pluralità di significati e si può interpretare come una risposta alle confessioni raccolte privatamente dal vescovo grazie ai privilegi concessigli da Giulio III. Se la ricerca di sostegni scritturistici, il richiamo insistito alla tradizione apostolica, il ricorso all’analisi filologica e la scelta del traduttore si possono intendere come un elemento del confronto in atto con il movimento eterodosso cittadino, sarebbe tuttavia riduttivo valutare il trattato in quest’unica prospettiva. In più luoghi la Brieve dichiaratione si apriva infatti a considerazioni di carattere pastorale che esplicitavano il senso e l’urgenza di salvaguardare la celebrazione eucaristica in quanto fonte della pace sociale e dell’unità della Chiesa. Lo dimostrano con chiarezza alcuni passaggi che confermano le linee di fondo dell’azione pastorale di Foscarari. La messa – insisteva il vescovo – doveva spronare i fedeli alla riconciliazione reciproca: «S’alcuno quivi si trovarà il quale abbia offeso altrui, deve andare (il che è lecito a fare in quel tempo) a trovarlo per pacificarsi con lui» o «deliberare di farlo quanto più tosto si può». Applicando il precetto evangelico, si poteva lasciare la celebrazione per riconciliarsi con i propri nemici che, a loro volta, erano tenuti a perdonare di cuore («se alcuno si troverà che sia offeso da altrui, gli dee del tutto perdonare, et parandosi cagion davanti, fargli anchora beneficio»)497. La celebrazione del sacramento diveniva così fonte di pacificazione sociale e, in questo senso, elemento fondamentale per l’ordinato svolgimento della vita collettiva. Lo scenario privilegiato del sacrificio, poi, era la parrocchia, perno del progetto di riforma promosso da Foscarari.

Quantunque [l’eucarestia] si possa convenevolmente celebrare in ogni luogo sacro, nondimeno pare che richiegga la parocchia come luogo più proprio d’ogni altro, nella quale il popolo per ragionevoli et potenti ragioni [...] dovrebbe trovarsi più tosto che altrove a questo sacrificio et ubbidirebbe alla Chiesa che quivi gl’invita498.

Tenendo presente il valore che il vescovo attribuiva all’eucarestia – rimedio alle fratture della cristianità celebrato in ogni parrocchia – risulta più semplice comprendere il richiamo della Brieve dichiaratione alla comunione frequente: di fronte al momento di violenta contrapposizione in atto non restava che tornare all’insegnamento evangelico («et rimettici i debiti nostri sì come anchora noi rimettiamo a’ debitori nostri»)499 e nutrirsi quanto più spesso del sacramento che allontanava la discordia500. L’opera sulla messa proponeva una Chiesa eucaristica e cristocentrica, con lo sguardo rivolto alla comunità delle origini e al sacrificio della croce che riviveva sull’altare. E se quello era certamente uno 495 Deposizione di Giulio Cesare Pazzani del 27 aprile 1568, in ASMo, Inquisizione, 4,30. Sulla questione cfr. AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 181-182.496 Deposizione di Leonardo Bazzani del 7 febbraio 1567 in ASMo, Inquisizione, 4,17; v. anche AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., p. 204.497 Brieve dichiaratione, cit., p. 261.498 Ivi, p. 263.499 Cfr. ivi, p. 261, che cita Matteo 6,12.500 Richiami alla comunione frequente ivi, pp. 252, 262, 270.

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dei nodi su cui cattolici e riformati si erano divisi sin dagli esordi della Riforma, Foscarari si sforzò di esporlo secondo una trattazione non polemica, fondata su categorie e con un linguaggio condivisibili da parte di uomini vicini alla sensibilità protestante. La Chiesa che il domenicano cercava di costruire era una Chiesa aperta, in cui i fedeli potessero giungere alla piena comprensione dei misteri attraverso l’azione di sacerdoti che «rappresenta[ssero] la benedittione del nostro Signore [...] et l’abondanza dello Spirito Santo»501. Perché un simile modello potesse realizzarsi, era necessario promuovere una maggiore consapevolezza dei fedeli e, ancor prima, del clero. Allo stesso Castelvetro che aveva tradotto il trattato sulla messa, Foscarari chiese di poter stampare «ad utile de’ suoi preti» il Commento di Teofilatto ai vangeli502, volgarizzato dall’umanista negli anni quaranta503. Difficile stabilire se il testo – mai consegnato ai torchi – fosse stato adattato o contenesse elementi filoriformati; certo è che si trattava pur sempre di un volgarizzamento e, elemento da non sottovalutare, nella biblioteca di Castelvetro era presente la traduzione latina di Teofilatto approntata da Ecolampadio e fatta circolare tra i membri della comunità eterodossa cittadina504. Probabilmente scritta dal domenicano fu poi una Breve dichiarazione del Pater noster in forma di meditazione, aggiuntovi il modo che si deve tenere in ascoltare la santa messa, pubblicata in anno imprecisato dopo la morte del vescovo505. Il libretto, oggi irreperibile, fu succintamente descritto dall’erudito Girolamo Tiraboschi che vi riconobbe «il solito stemma del Gadaldino», sebbene non fossero indicati né l’anno né lo stampatore. Postuma apparve anche un’altra opera che aveva visto il coinvolgimento di Foscarari. Si trattava di una traduzione dei Salmi pubblicata a Venezia nel 1573 per i tipi di Ziletti506. L’autore era Pellegrino degli Erri, un letterato modenese per qualche tempo membro dell’Accademia cittadina da cui si staccò intorno al 1543-45507. L’opera uscì alcuni anni dopo la sua stesura, come attestano sia la

501 Ivi, p. 271.502 La notizia è riportata in L. VEDRIANI, Dottori modonesi di teologia, filosofia, legge canonica e civile, Modena 1665, p. 170. Un inquadramento della vicenda in GARAVELLI, Gli scritti «religiosi», cit., pp. 275-277.503 Una nota di prestito rivela che il 22 novembre 1546 Castelvetro aveva consegnato allo stampatore Antonio Gadaldino, forse per una prima valutazione, «Thepohilato per me volgarizzato e gli Evangeli per me volgarizzati» (ASMo, Archivi di famiglie, Cortesi, Guidoni, Masdoni, 62, n. 38, cit. in A. BARBIERI, Castelvetro, i suoi libri e l’ambiente culturale modenese del suo tempo, in R. GIGLIUCCI (a cura di), Lodovico Castelvetro. Filologia e ascesi, Roma 2007, pp. 57-72). 504 Cfr. di nuovo in BARBIERI, Castelvetro, i suoi libri, cit., p. 65. 505 L’opera fu stampata dopo la morte di Foscarari. In calce al titolo del frontespizio, Tiraboschi leggeva infatti: «Novamente trovata tra le scritture dell’illustrissimo monsignor Egidio Foscherari già vescovo di Modena» (TIRABOSCHI, Biblioteca modenese, cit., I, p. 474; corsivo nostro). Riguardo alle esposizioni sul pater noster nella prima età moderna, cfr. G. CARAVALE, L’orazione proibita. Censura ecclesiastica e letteratura devozionale nella prima età moderna, Firenze 2003, pp. 1-23. 506 I salmi di David tradotti con bellissimo e dottissimo stile dalla lingua ebrea, nella latina e volgare dal s. Pellegrin Heri modonese [...], Venezia 1573.507 Il personaggio è stato spesso confuso con l’omonimo abate benedettino. Per l’intera vicenda e un’analisi dei Salmi di David v. ora E. BOILLET, I Salmi di David de Pellegrino degli Erri (Venise, 1573), in F. DUPUIGRENET DESROUSSILLES (a cura di), Italica Biblia. La Bible italienne entre Renaissance et Réforme, Berne, in corso di stampa (con un’analisi puntuale della bibliografia precedente sul personaggio).

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dedicatoria del 1° gennaio 1568 al conte Fulvio Rangoni508 sia l’avvertenza «a’ lettori» in cui l’editore ricordava che il testo era nelle sue mani già nel 1569 (a impedire la stampa erano state le molte persone che avevano richiesto il manoscritto e la malattia che aveva costretto Ziletti a sospendere temporaneamente l’attività). Il ruolo del vescovo era esplicitato nella stessa dedicatoria: Erri spiegava che la traduzione era stata fatta «ad instanza della buona memoria del santissimo huomo Egidio Foscherari [...], il qual mi pregò ch’io volessi impiegar l’opera mia in questa nobil parte della vigna del Signore, e non tenere otioso questo picciolo talento ch’io havevo ricevuto da lui d’un poco di cognitione della lingua hebrea». Esortando Erri, il domenicano aveva cercato l’«utilità di coloro che ciascun giorno cantavano e leggevano questi salmi nella lingua latina e non intendevano ciò che si cantassero o leggessero, alcuni per non intendere latino, come sono molti laici e persone divote, alcuni altri per non intendere molti hebraismi che vi sono per entro»509. I motivi che avevano spinto Foscarari a patrocinare la trasposizione dei Salmi erano assimilabili a quanto si è visto per la Brieve dichiaratione e il progettato Commento di Teofilatto, l’idea cioè che per gustare la preghiera e la Scrittura bisognasse comprenderne il senso e, se necessario, tradurle. Erano concetti tutt’altro che scontati e forse le proteste di ortodossia dell’autore, la sua disponibilità a rimettersi al giudizio della Chiesa («dove io sarò da ministri della Romana Chiesa avertito d’havere errato, sarò presto ad emendare il mio errore») e l’iniziativa di inserire anche la versione latina del testo biblico miravano a creare un qualche bilanciamento510. Quelle cautele non riuscirono comunque a evitare che l’opera finisse all’Indice, a partire dal 1574511. Non sfuggirà inoltre la molteplicità di destinatari che, nelle intenzioni di Foscarari, l’opera aveva, rivolgendosi sia al clero che ogni giorno recitava il salterio sia a quei laici che, non conoscendo il latino, si vedevano preclusa la comprensione del testo. Tornavano insomma l’esigenza di istruire i religiosi e i fedeli e una modalità di intervento che poteva intercettare alcune rivendicazioni del movimento filoriformato. A conclusioni simili porta un ultimo libretto cui è opportuno almeno accennare. Il tema, non senza importanti implicazioni religiose, era sempre quello dell’istruzione e a occuparsene fu di nuovo un personaggio in odore di eresia. Intorno al 1555 l’umanista Alessandro Milani512 venne incaricato dal vescovo della traduzione del De civilitate morum puerilium di Erasmo, uscito anonimo per i tipi di Gadaldino come Operetta utile del costumare i fanciulli513. È 508 Tracce di rapporti consolidati tra Erri e Rangoni, risalenti ai primi anni sessanta, sono desumibili dal copialettere del nobile modenese, in BEUMo, Fondo Campori, .A.3.11, cc. 164r-168r.509 I salmi di David, cit., c. non num. 510 L’accorgimento era in linea con una discussione sui volgarizzamenti biblici che negli anni settanta era più che accesa e si stava orientando verso una netta probizione delle traduzioni del testo sacro; cfr. G. FRAGNITO, Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna 2005, pp. xxx-xxx511 Cfr. G. FRAGNITO, La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), Bologna 1997, pp. 305-306, n. 94. 512 Su Milani, cfr. PM 2, I, pp. 300-301.513 Sull’intera vicenda cfr. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia, cit., pp. 238-239. Il ruolo di Milani è confermato dalla vita che ne scrisse Castelvetro: «Traslatò un libro d’Erasmo Roterodamo di latino in vulgare, Come si deono costumare i fanciulli, che fu stampato, ma senza nome, ad instanza d’Egidio Foscherara» (L. CASTELVETRO, Racconto delle vite d’alcuni letterati del suo tempo, in ID., Filologia ed eresia, cit., pp. 285-343: 294).

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probabile che Foscarari ritenesse il trattatello una buona sintesi sull’educazione da impartire ai bambini, anche per l’abbondanza di prescrizioni riguardanti il culto e gli insegnamenti religiosi. Il fatto che, negli stessi mesi in cui affidava a Castelvetro la Brieve dichiaratione, desse quell’incarico a Milani e, soprattutto, che l’autore da tradurre fosse Erasmo confermerebbe la linea operativa illustrata in precedenza. Avviata una capillare riforma del clero, Foscarari tentò di coinvolgere nel suo progetto pastorale il movimento eterodosso, alla ricerca di un improbabile punto di equilibrio tra la Chiesa che aveva in mente e quella che gli eventi stavano disegnando. La strada che aveva scelto da un lato corrispondeva alle richieste di Giulio III e degli «spirituali», che non volevano pericolose intromissioni del Sant’Ufficio nelle vicende modenesi, dall’altro aveva assunto caratteri di originalità. Il governo pastorale con cui Foscarari si era dovuto misurare aveva innescato riflessioni ecclesiologiche che mettevano al centro l’organizzazione diocesana e il ruolo degli ordinari cui spettava il governo delle anime. Forte della sua duplice veste di vescovo e di frate, utilizzò poi le amicizie di cui godeva nel mondo domenicano per limitare l’azione inquisitoriale e condurre privatamente le assoluzioni degli eretici presenti in città. In questa chiave possono essere letti i molti tasselli della sua riforma, severa con il clero e mite con il dissenso alimentato, almeno in parte, dal malcostume della Chiesa. Ciò che tuttavia Foscarari non colse o forse sottovalutò fu il contesto in cui i suoi sforzi si situavano. La moderazione, la volontà di mantenere sotto il controllo del vescovo la contestazione religiosa, l’attesa di una riconciliazione con i protestanti che avrebbe restituito pace alla cristianità, per quanto derivassero da dottrine ortodosse, erano ormai considerate esse stesse eresie.

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Capitolo QuartoDa eretico a uomo del concilio

Un vescovo in catene

Il 31 maggio 1557, per ordine di Paolo IV, il cardinale Giovanni Morone veniva arrestato e condotto in Castel Sant’Angelo. La notizia fece il giro delle cancellerie giungendo rapidamente anche a Modena. Non sappiamo quali fossero le reazioni in città, ma non è difficile immaginare la concitazione che dovette caratterizzare quei giorni, in cui la cristianità, come scrisse Ludovico Beccadelli, si trovava «nel maggior travaglio che sia stata da molti anni in qua»514. Su richiesta degli agenti del cardinale, Foscarari iniziò a cercare carte e documenti che potessero scagionare il suo predecessore e dimostrarne l’innocenza. L’abbondante documentazione inquisitoriale restituisce il lavorio di quei mesi e l’impegno profuso da uomini come il prete don Filippo Ceno515 – già collaboratore del vicario diocesano di Morone, Gian Domenico Sigibaldi – e dallo stesso Foscarari. Dai tempi di Giulio III, quando era ormai risaputo che Carafa stava raccogliendo prove di eresia a danno dei suoi avversari, Morone si era fatto inviare dagli archivi della curia modenese lettere che lo avrebbero potuto incriminare, in particolare alcune missive in cui forniva a Sigibaldi istruzioni pastorali sull’amministrazione della confessione516. A quanto è dato sapere, il flusso di documenti tra Modena e Roma si rivitalizzò nei mesi che seguirono il suo arresto nella comprensibile ricerca di carte utili a imbastire una difesa il più possibile efficace. L’imprigionamento di Morone fu preceduto e seguito da una serie di misure rivolte a fargli terra bruciata attorno. Poco prima di lui i giudici avevano arrestato il suo maestro di casa, don Domenico Morando517, e la scure, implacabile, non avrebbe risparmiato nemmeno Foscarari, ben noto a Carafa sin dai tempi di Paolo III. Della sua probabile convocazione a Roma si iniziò a parlare già dai giorni successivi alla detenzione del cardinale milanese, tanto che il 5 giugno 1557 l’informatore estense Giulio Grandi segnalava erroneamente al duca di Ferrara che «el vescovo di Modena è chiamato anch’esso a constituirsi alla santa Inquisitione»518. Anche Carnesecchi, commentando con Giulia Gonzaga gli sconcertanti avvenimenti romani, diceva che il papa, pur di «empiere le prigioni di cardinali e vescovi», aveva convocato Foscarari519. Il domenicano, tuttavia, non aveva ricevuto nessun avviso da 514 BPPr, Ms. pal., 1010, cc. 191v-192v; lettera di Beccadelli a Filippo Gheri del 13 luglio 1557.515 Su Ceno v. PM 2, I, pp. 634-635. All’epoca dei fatti, Ceno godeva di una locazione a vita di alcuni locali prossimi al palazzo vescovile; cfr. AAMo, Registri della mensa vescovile, n. 46 («ab anno 1550 ad 1562»), cc. 66v-68v.516 Si trattava di due lettere del 1543 su cui si era basata l’accusa di eresia mossa a Morone dal domenicano Bernardo Bartoli. L’intervento dell’allora maestro del Sacro Palazzo Girolamo Muzzarelli portò alla ritrattazione del frate. I vari testimoni e lo stesso imputato fornirono tuttavia versioni contraddittorie sulla provenienza di quei documenti, richiesti da Modena, secondo Morone, o già presenti nella casa del cardinale all’epoca dei fatti (1552), secondo Muzzarelli. Cfr. PM 2, I, pp. 54 ss., 1266-1272; M. FIRPO, Il primo processo inquisitoriale contro il cardinal Giovanni Morone (1552-53), in ID., Inquisizione romana, cit., pp. 243-314: 284 ss. 517 Il suo processo è in PM 2, I, pp. 1159 ss.518 ASMo, Ambasciatori, Roma, 54, cit. in PM 1, V, p. 246.519 Lettera datata Venezia, 12 giugno 1557 in PC, II, p. 269. Sui rapporti tra Carnesecchi e la Gonzaga v. meglio S. PEYRONEL RAMBALDI, Una gentildonnna irrequieta. Giulia Gonzaga fra reti familiari e relazioni eterodosse, Roma 2012, pp. 232-256.

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Roma, benché l’opinione comune desse per imminente la resa dei conti520. Quelle voci, fondate o no, dimostravano che le «cose» di Foscarari dipendevano «da quelle del cardinal Morone»521 e che il legame fiduciario tra i due era a tal punto evidente che chi vide il milanese incarcerato presagì un’analoga sorte per il vescovo di Modena. Simul stabunt simul cadent. In questo senso, l’arresto di Foscarari ebbe finalità prevalentemente strategiche e rispetto ad altri casi – basti ricordare i procedimenti contro vescovi come Pietro Antonio di Capua, Tommaso Sanfelice, Giovan Francesco Verdura, Andrea Zantani, Vittore Soranzo, ecc. – al domenicano non furono contestate posizioni ereticali, ma l’aiuto prestato a Morone con l’invio di lettere e carte e, in misura minore, la protezione offerta al libraio eretico Antonio Gadaldino. Prima di ripercorrere i mesi tra l’autunno del 1558 (data in cui Foscarari fu effettivamente convocato dagli inquisitori) e l’agosto ‘59 (momento della sua liberazione), è necessario ricordare che di quell’esperienza rimangono scarse tracce documentarie e, di fronte al silenzio delle fonti, in particolare quelle processuali, non si può che procedere a ricucire gli indizi che restano. Il domenicano fu prima chiamato a Bologna, quindi condotto a Roma per essere ascoltato dal Sant’Ufficio. Da subito fu chiaro che la sua convocazione era dovuta all’invio di documenti risalenti all’episcopato modenese di Morone conservati negli archivi della curia emiliana. Come scrisse il governatore estense Alfonso Trotti, intorno al 25 settembre 1558 Foscarari aveva mandato «certe lettere [...] segretamente [...] per huomo a posta a Roma al cardinal Murone»; le carte «si trovaveno qui in Modena in mano di un prete alievo di esso cardinale» e poiché gli inquisitori dubitavano «che ne fussero state ritenute di quelle che le pregiudichassero»522, avrebbero voluto ascoltare il vescovo per capire con esattezza cosa fosse stato inviato e soprattutto poter procedere a una perquisizione senza intralci. Convocato a Bologna dal vicelegato pontificio Tommaso Contuberi523, Foscarari si fece precedere dal fedele Domenico da Imola, suo collaboratore durante la stagione delle «assoluzioni facili» e, in quel momento, inquisitore di Modena, perché facesse «la scusa con esso legato et anche a intendere se era cosa che il detto fratte potesse satisfare come confidente di lui [Foscarari]». Registrato il secco rifiuto del vicelegato («ha detto di voler parlare con esso vescovo et non con altri»), non rimase che obbedire. Il 28 settembre, dopo avere esaminato l’imputato fino a tardi, Contuberi decise di mandare a Modena il suo uditore, Girolamo da Orvieto, a cercare le carte incriminate: non solo quelle inviate a Morone per le sue difese, ma anche «delle altre cose [...], lettere che pareranno suspette [e] ogn’altro scritto suspetto»524. 520 Cfr. la lettera di Ludovico Beccadelli a Carlo Gualteruzzi del 3 gennaio 1558: «Desidero fra gli altri intendere che fu di monsignor di Modena»; BPPr, Ms. pal., 1010, cc. 205r-v; cit. in PM 1, V, p. 316. Il 28 aprile successivo Gualteruzzi rassicurava Beccadelli: «Il vescovo di Modena se ne sta alla sua chiesa né si parla di lui tanto né quanto» (BLOx, ms. ital. C.24, cc. 91r-03v, cit. in PM 1, V, p. 353). 521 Questo il giudizio espresso da Alvise Mocenigo al Senato veneziano dopo gli arresti di Foscarari; cfr. ASVe, Senato, Dispacci ambasciatori, Roma, Rubricari, 1A*, c. 38r, cit. in PM 1, V, p. 411. 522 ASMo, Rettori dello Stato, Modena, 66B, lettera a Ercole II del 27 settembre 1558 (edita in PM 1, V, pp. 389-390). 523 Su Contuberi, vescovo di Penne, v. PM 2, II, p. 1281; DALL’OLIO, Eretici e inquisitori, cit., pp. 239-240, 243-249.524 Lettera di Contuberi a Ghislieri, in ACDF, S.O., St. St., EE 1-a, c. 85r; Bologna, 29 settembre 1558.

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Nel frattempo, l’incrollabile Domenico da Imola si rivolgeva a Michele Ghislieri per raccomandargli la causa del vescovo-confratello, intavolando una sorta di trattativa per il suo proscioglimento. Mentre ne certificava l’ortodossia («siate securo se io nol conosc[o] sincero et catolico che non vel ricomandarei») e il buon animo («è paratissimo di obedirvi in tutto»), consegnava preziose informazioni su Castelvetro, quasi a dimostrare la disponibilità a collaborare da parte della curia modenese525. I giudici però avevano altri obiettivi e desideravano portare a termine il regolamento di conti con Morone, di cui la convocazione di Foscarari non era che un riflesso. Le indagini e gli interrogatori occuparono tutto l’ottobre del ‘58: l’8 arrivarono da Modena – per le mani di don Filippo Ceno – le scritture che si cercavano («son pur assai, talmente che fanno un buon fascio»)526; il 15 si dava notizia della ritrovata salute dell’imputato («è risanato del tutto»)527 e il 22 si spediva al Sant’Ufficio «il nuovo esamine de monsignor di Modena»528, che in vista della probabile partenza per Roma aveva stilato «in domo habitatonis [...] de Fuscharariis» un rogito con cui nominava Domenico da Imola suo procuratore ed economo529.La questione non era destinata a risolversi in tempi rapidi come forse il domenicano aveva inizialmente creduto. Fu dunque opportuno aggiornare il duca su quanto stava accadendo. Nella lettera che il vescovo scrisse a Ercole II il 23 ottobre emergevano sia la consapevolezza delle cause che avevano portato a quel fermo («suspico che sia l’havere mandato in Roma alcune scritture in giustificatione del cardinale Morono»), sia la disposizione con cui affrontava la prova («quanto all’animo mio, sono quietissimo et paccatissimo et mi contento che i miei maggiori si sodisfacciano di me nel modo che meglio parerà a loro, persuaso che questa sia la volontà del Signore Dio, al quale dico ogni giorno: ‘Fiat voluntas tua sicut in caelo et in terra’»)530. Foscarari era certo «di non havere in alcun modo erato»531 e, deciso a rompere le more che lo tenevano lontano dalla sua chiesa, il 27 ottobre scrisse al cardinale Alessandrino per chiarire le proprie responsabilità. In particolare desiderava mettere un punto fermo sulla questione delle lettere richieste dagli agenti di Morone. Si trattava di missive, scritte all’allora vicario Sigibaldi, in cui il

525 «Non voglio mancare di avisarvi che uno di quei modenesi che non volsse comparere che si chiama messer Lodovico Castelvetro sta quasi di continuo in Ferrara in casa dil conte Hercole Contra[ri] o vero alli soi castelli»; ivi, c. 77r-v; Bologna, 1° ottobre 1558 (la lettura del documento è complicata a causa dell’evanescenza dell’inchiostro). 526 Contuberi a Ghislieri ivi, c. 86r; Bologna, 9 ottobre 1558. 527 Contuberi a Ghislieri ivi, c. 60r; Bologna, 15 ottobre 1558.528 Contuberi a Ghislieri ivi, c. 75r, Bologna, 22 ottobre 1558. 529 ASMo, Notarile, Modena, 1766, n. 232; 18 ottobre 1558.530 ASMo, Giurisdizione sovrana, 261, fsc. 66, cc. 150-151 (edita in PM 1, V, pp. 394-395; FANTUZZI, Notizie, cit., III, p. 348).531 Cfr. ASMo, Rettori dello Stato, Modena, 66B, lettera di Alfonso Trotti a Ercole II del 25 ottobre 1558 (parzialmente edita in PM 1, V, pp. 394-395).

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milanese respingeva alcuni «articuli lutherani» di cui era accusato532. Foscarari ricostruiva così il lungo lavoro di selezione delle lettere richieste da Morone533:

Dicoli donque – scrisse all’Alessandrino – che sono molti mesi che fui recercato da Roma dall[i] agenti di monsignor reverendissimo Morono che io procurasse de havere da don Philippo Cenno prete mod[e]nese alchune lettere scritte da Sua reverendissima Signoria al suo vicario in defesa d’alchuni a[r]ticuli lutherani opposti al detto signor, in prova che Sua Signoria reverendissima non havea havuto tanta opinione. Persuaso che questo fosse secondo la voluntà del Signor Dio et di sodisfattione alli illustrissimi et reverendissimi iudici alli quali non li poteva non essere grato intendere il vero, mi f[e]ce dare tutte le lettere dal detto don Philippo et ne lesse parte, mettendo da parte per mandare a Roma tutte quelle che scoprivano la bona et santa fede del cardin[ale]. Stracco dal molto legere et occupato in vari negocii, pregai il padre frate Domenico da Immola che seguitasse egli in legere nel modo che havea fatto io; il che fece, et ol[tra] di questo ne messe da parte alchune nelle quali si poteva havere qualche lu[me] di elemosine o altre cause pertinenti al vescovato [...] Questa è tutta la historia et verissima di queste lettere, non solamente per mio raccordo che per mia natura ho puochissima memoria, ma per raccordo del padre frate Domenico il quale attese più a questa causa delle lettere che non fece io.

Di nuovo veniva chiamato in causa Domenico da Imola che, come le parole del vescovo lasciavano intendere, era sia inquisitore di Modena sia implicato nel governo diocesano. Non sorprende che tutto ciò fosse come fumo negli occhi per Ghislieri, che infatti dispose la chiamata di Foscarari a Roma e il suo arresto per tutta la durata del processo Morone. Con ogni evidenza i giudici erano persuasi che quel provvedimento fosse fondamentale per scoprire gli aiuti offerti dal cardinale agli eterodossi modenesi e diradare le coperture che il suo successore aveva garantito. Le reazioni romane alle spiegazioni di Foscarari non furono celeri e si cercò di allungare i tempi per mantenere sotto pressione l’imputato nella speranza di cavarne qualcosa di utile. Il 12 novembre, dopo che Contuberi lo aveva informato della «mente di Nostro Signore [...] circa ‘l suo venir a Roma»534, il vescovo rassicurava personalmente l’Alessandrino sulla «prontezza» con cui avrebbe eseguito gli ordini («mi sforzarò di mettermi in viaggio questa settimana»)535. Due giorni prima di incamminarsi per l’Urbe – avrebbe iniziato il suo viaggio il 18 novembre536 –, scrisse ai canonici della cattedrale raccomandando loro di conservare santamente «il culto di Nostro Signore [...] et il governo di quella chiesa» durante la sua assenza: a sostenerli avrebbe lasciato il suo vicario e – ennesima prova di un’insolita vicinanza tra episcopio e 532 È possibile che parte delle lettere inviate da Foscarari siano confluite tra le carte difensive consegnate dagli avvocati di Morone ai giudici (edite in PM 2, II, pp. 141-746; cfr. in part. le lettere nn. 9, 12-13, 16, 18-19, 21, 46, 49-51, 56-59, 81). Sulla base della testimonianza del vescovo di Modena, parrebbe invece da scartare l’identificazione delle missive in questione con quelle edite in PM 2, I, pp. 846-848, essendo queste ultime scritte dal vicario Sigibaldi a Morone (e non viceversa, come indicato da Foscarari). 533 ACDF, S.O., St. St., EE 1-a, cc. 81r-v; la lettera è edita per intero in AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 67-69.534 Cfr. Contuberi a Ghislieri, ivi, c. 134r; Bologna, 12 novembre 1558.535 Ivi, c. 140r.536 Cfr. Contuberi a Ghislieri, ivi, c. 139r; Bologna 19 novembre 1558: «Hieri partì di qui per quella volta monsignor di Modena, il quale se ne viene a giornate». V. anche la notizia data dal governatore di Modena Trotti al duca estense in ASMo, Rettori dello Stato, Modena, 66B, cit. in PM 1, V, p. 399.

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Sant’Ufficio modenese – «il padre inquisitore [Domenico da Imola], al quale ho dato comissione di alcune cose ch’io desidero»537. Ai Conservatori affidò invece i poveri della città: «Felici i ricchi i quali si fanno degli amici de mamona iniquitatis, ut cum defecerunt recipiant eis in eterna tabernacula»538. Furono queste le ultime disposizioni prima di avviarsi verso un destino dagli esiti incerti. Il 1° dicembre 1558, dopo otto anni di assenza, Foscarari tornò a Roma: archiviate le resistenze anti-inquisitoriali di Paolo III e Giulio III, sul soglio di Pietro sedeva ora il padre del Sant’Ufficio Gian Pietro Carafa; l’ex maestro del Sacro Palazzo Girolamo Muzzarelli era stato richiamato dalla nunziatura presso l’imperatore ed era apertamente apostrofato dai seguaci di Carafa come «frate porco» e «tristo»539; Morone si trovava in Castel Sant’Angelo e da pochi giorni Reginald Pole – compianto anche da Foscarari540 – si era spento nella lontana Inghilterra dopo essere stato deposto e convocato come eretico da Paolo IV. In quella città, assai diversa da come l’aveva lasciata, il domenicano avrebbe subito un procedimento i cui capi d’imputazione si incentravano sulle lettere recapitate a Morone e sull’aiuto prestato ad Antonio Gadaldino, anche se non si può escludere che gli fossero contestate altre e più gravi accuse. Sin dal primo incontro con Ghislieri, Foscarari rispose reclamando in modo vibrato la rettitudine della sua coscienza: affermò di aver fatto tutto «per debito di christiano, presumendo non essere incorso in errore alcuno», e di essere convinto che quelle imputazioni servissero solo «per mandare in infinito le resolutioni del prefato cardinale Morone et consequentemente tenirlo anchor lui così sull’hosteria»541. Era un Foscarari deciso, pronto a dimostrare la sua integrità e la consapevolezza dell’uso illegittimo che si stava facendo del sacro tribunale pur di mettere nell’angolo Morone. Il vescovo di Modena coglieva con lucidità quanto stava accadendo in quei giorni: il processo contro il cardinale languiva e gli stessi familiari del papa, presagendo l’imminente scomparsa di quest’ultimo, trattavano per il rilascio del porporato milanese; iniziavano poi a emergere le fragilità dell’accusa, i cui atti si riferivano perlopiù a episodi precedenti ai decreti tridentini sulla giustificazione ed erano fondati sui resoconti di personaggi di scarsa credibilità, da Lorenzo Davidico a Bernardo Bartoli, a Giovan Battista Scotti542. A ogni modo, all’arrivo di Foscarari due dei suoi giudici – i cardinali Reumano (Jean Suau) e Pisa (Scipione Rebiba) – risultavano gravemente indisposti provocando un inevitabile rinvio del processo543. L’avvitarsi, quasi ossessivo, delle indagini attorno alle lettere che Morone si era fatto recapitare era una prova delle relativa debolezza dell’impianto accusatorio, né i giudici – a quanto sembrerebbe – mostrarono di essere al corrente del trattamento mite e delle 537 ACMo, Capitolo, 109, edita in AL KALAK, Gli eretici, cit., pp. 189-190.538 Lettera del 17 novembre 1558 in ASCMo, Ex actis, 10. Cfr. anche ASCMo, Vacchette, 1558, c. 250v (21 novembre 1558). 539 Cfr. FIRPO, Il primo processo inquisitoriale, cit., p. 312.540 Cfr. CFBo, Parte Prima, cc. 21r-22r; lettera di Alvise Priuli a Foscarari (Parigi, 12 gennaio 1560).541 Le citazioni sono tratte dal dispaccio che l’inviato estense a Roma Giulio Grandi indirizzò al duca il 4 dicembre 1558; cfr. conservato in ASMo, Ambasciatori, Roma, 55, fsc. 31 (parzialmente edito in PM 1, V, pp. 401-402). 542 Cfr. PM 2, I, pp. LI-LIV.543 Cfr. ASMo, Inquisizione 1,5, II (lettera di Domenico da Imola a Ercole II d’Este; 13 dicembre 1558).

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assoluzioni private amministrate da Foscarari agli eretici modenesi. L’unica contestazione relativa alla protezione di un sospetto riguardò il più volte citato Gadaldino, chiuso a Ripetta dal 1557 e testimone nel processo Morone544, che confessò di aver ricevuto aiuto dal vescovo. Nulla invece venne richiesto a Foscarari su protezioni più eccellenti come quelle offerte a Ludovico Castelvetro o Filippo Valentini, esponenti di punta del movimento filoriformato modenese. È dunque probabile che gli inquisitori non sapessero nulla dell’effettiva portata delle assoluzioni amministrate dal domenicano dal 1550 in poi, e che il suo processo servisse soltanto ad aumentare la presa su Morone. Il 21 gennaio 1559, mentre iniziavano a circolare notizie sulla cattiva salute del papa, il vescovo di Modena veniva ufficialmente arrestato («fu condotto in cocchio accompagnato dal bargello et tutta la sbiraria alla prigione di Ripetta dell’Inquisitione») e di fronte alle accuse di Ghislieri si ripeté lo scontro svoltosi due mesi prima:

Essendo [...] con parole molto aspre detto c’havea fatto male a mandare le scritture et lettere del cardinale Morone a Roma senza ordine dell’Inquisitione, facendo in questo il procuratore dell’inquisito cosa prohibita espressamente che non si faccia senza commissione de detto tribunale [...], esso vescovo ha risposto che fu mai suo procuratore, ma servitore solamente [...], non parendoli però di haver fatto errore alcuno che pregiudicasse a questo Santo Ufficio [...], et che questo, non l’havendo per errore, lo faria di bel novo se non havesse in contrario ordine da lor545.

Con quelle parole Foscarari metteva in discussione la legittimità dell’intervento degli inquisitori, rinfacciando che ciò di cui era accusato era sostenuto da ragioni di molto superiori al tribunale, quelle della coscienza: mandare a Morone documenti per la propria difesa non aveva in sé nessuna macchia di errore e, se i giudici non avessero comandato esplicitamente il contrario, lo avrebbe fatto di nuovo. Quel procedimento, insomma, era fondato sul nulla e quanto gli si imputava era di avere agito con rettitudine. Alla notizia di quell’oltraggio, anche i Conservatori della città di Modena scrissero al duca per chiedere la liberazione del vescovo, non del tutto consci di rivolgersi a un sovrano che aveva ormai scarsi spazi di manovra. Il 3 febbraio il notabile Elia Carandini546 riportò al Consiglio comunale «qualmente lui havea inteso ch’el detto reveredissimo monsignore nostro si ritrovava pregione in Roma per l’officio della santa Inquisitione» e, ricordando «la vita buona e santa [...] et le opere che lui ha fatto in questa città», sollecitò i Conservatori ad adoperarsi presso il duca perché perorasse la causa «presso Sua Santità»547. Accogliendo il suggerimento di Carandini, i magistrati scrissero a Ercole II lo stesso giorno, chiedendo al sovrano di poter indirizzare agli inquisitori una «piena informatione della bona vitta del suddetto episcopo», uomo «santissimo et miserevole», promotore di «santissime opere pie le quale patiscano et patirano per l’absentia sua»548. La città che quando era arrivato l’aveva guardato con sospetto, forse pensando che il suo abito fosse quello di un 544 Cfr. PM 2, I, pp. 500-504, 684-686.545 Avviso di Giulio Grandi a Ercole II del 25 gennaio 1559, in ASMo, Ambasciatori, Roma, 56, fsc. 8 (parzialmente edito in PM 1, V, pp. 411-412).546 Su di lui v. PM 2, I, p. 912. 547 ASCMo, Vacchette, 1559, c. 45v. 548 La minuta della lettera è conservata in ASCMo, Ex actis, 11; una copia successiva in BEUMo, Ital. 854 (.S.1.36), c. 183r.

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inquisitore, trascorsi alcuni anni lo celebrava come padre senza il quale tutta la comunità avrebbe patito gran danno. E proprio l’opera di moralizzazione per cui tanto aveva lavorato sino a ottenere la devozione dell’élite modenese gli guadagnò la vendetta di un prete che, approfittando dell’arresto, tentò di screditarlo di fronte ai giudici di fede. Come riferì il governatore Trotti al duca, un sacerdote aveva scritto al papa una lettera anonima a nome del clero di Modena, «la quale [...] conteniva [...] accusationi contr’il vescovo imputandolo di sodomito et che perciò havesse dati certi benefizi ad un gargione ch’egli sodomitava, di infidele, di scelerato et di molti altri vizii et peccati, per il che seguì poi ch’egli fu condotto in prigione»549. Quella incredibile serie di accuse, come le indagini evidenziarono, nasceva dal giudizio negativo che il vescovo aveva espresso a suo tempo sulla condotta del sacerdote accusatore, che si era visto per questo negare un beneficio. Per qualcuno il processo inquisitoriale del domenicano fu dunque un buon pretesto per spargere calunnie che, peraltro, dimostravano quanto la sua azione di riforma – rivolta prima di tutto al clero – avesse colto nel segno, disturbando interessi e malcostumi radicati. Nonostante i clamori iniziali, nei mesi che seguirono poco o nulla trapelò dalle prigioni romane, e persino gli inviati estensi furono più attenti ad aggiornare Ercole II sulle sorti di Morone che su quelle del suo successore, ben intuendo che queste ultime dipendevano dalle prime. Il 31 maggio 1559 veniva ascoltato l’ultimo testimone a carico del cardinale milanese e papa Carafa, assieme agli altri giudici, «non atende[va] ad altre faccende» che al processo Morone pur di concludere la vicenda550. Il 13 giugno Ghislieri, Rebiba e Reumano notificavano all’imputato la concessione delle difese, sebbene tardasse ad arrivare la copia difensiva su cui i suoi avvocati avrebbero potuto lavorare. Il trascorrere del tempo, comunque, avrebbe impresso una svolta positiva alla situazione, portando a soluzione il caso di Morone e, di conseguenza, quello di Foscarari. Il 18 agosto ‘59, mentre Paolo IV entrava in agonia, «il populo romano si mosse all’incendio di Ripetta dove erano tanti prigioni per heresia che li liberrorno col saccheggiare quella casa, oltra il fare in pezzi la statua di marmo di Sua Santità [...] alla quale staccorno il capo; et havendoli mozzo il naso et tagliata la barba, la dettero in mano de putti et gentaglie [...] et fin mo’ l’hanno strassinata per tutta Roma et [...] la devono gettare nel Tevere». Lo sguardo attonito dell’ambasciatore estense faceva pervenire a Ferrara la notizia delle sollevazioni che scuotevano l’Urbe e portavano all’assalto dei simboli del governo di Carafa, a partire dalle prigioni dell’Inquisizione551. Di fronte a quello spettacolo, Ghislieri dovette arrendersi ordinando la scarcerazione del vescovo di Modena, che il 26 agosto ne dava notizia al duca precisando di dover rimanere «in Roma sin alla creatione d’uno novo pastore»552. Due giorni più

549 ASMo, Rettori dello Stato, Modena, 67, lettera del 17 febbraio 1559. Il duca rispose il 26 febbraio sollecitando la punizione dei colpevoli.550 PM 1, V, pp. 445-446, dispaccio di Bongianni Gianfigliazzi a Cosimo de’ Medici (Roma, 9 giugno 1559). 551 ASMo, Ambasciatori, Roma, 56, fsc. 32, Giulio Grandi a Ercole II; Roma, 23 agosto 1559. Sui saccheggi connessi alla morte del papa in età moderna, rinvio sinteticamente a M.A. VISCEGLIA, Morte e elezione del papa. L’età moderna, Roma 2013, pp. 61-85 con ampia bibliografia. 552 ASMo, Giurisdizione Sovrana, 261, fsc. 66, cc. 157-158; Roma, 26 agosto 1559. Il 2 settembre successivo il duca si rallegrò della notizia; cfr. ivi, 261, fsc. 66, c. 152 (minuta). Durante la sua permanenza a Roma, il cardinale Ranuccio Farnese gli chiese, con un breve del 20 novembre 1559, di dirimere una lite relativa ad alcuni pascoli presenti sul territorio diocesano; cfr. BLBk, Banc Ms Ucb 048.

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tardi i Conservatori si rallegravano per l’evento e il 30 dello stesso mese esaltavano la bontà divina che, «sì come a Pietro impregionato fece aprire le porte», aveva restituito alla città il suo «pastore carissimo»553. Il 21 agosto anche Morone era stato rilasciato grazie alle pressioni giunte da Filippo II554 e, con uno scarto ridottissimo, il collegio cardinalizio stabilì di ammetterlo al conclave apertosi il 5 settembre e concluso il giorno di Natale con l’elezione del milanese Giovanni Angelo de’ Medici (Pio IV). Per Morone e Foscarari fu un sospiro di sollievo. Ghislieri e la macchina inquisitoriale ne uscirono momentaneamente ridimensionati e, a pochissimi giorni dalla sua ascesa al soglio, il nuovo papa volle lanciare un segnale di come le cose fossero cambiate. Il 1° gennaio 1560, eseguendo l’ordine impartito vivae vocis oraculo dal pontefice, il sommo inquisitore pronunciava la sentenza di assoluzione di Foscarari, giudicato «non solamente incolpevole, ma ancor di tutte le cose di che fu accusato innocentissimo»: «se alcune accusationi furno fatte contro il detto reverendo padre Egidio – si legge – [...] giudichiamo et sentiamo esser devenute da persone improbe, false e malvaggie, a quali non si debbe per alcun modo prestar fede»555. Pio IV pretese con straordinaria celerità che il vescovo di Modena fosse riabilitato, probabilmente convinto della sua innocenza, ma non meno consapevole che anche da lì passava il proscioglimento di Morone, assolto il 13 marzo seguente556. Il pontefice tentò persino di ‘risarcire’ Foscarari, facendogli recapitare 300 scudi per le spese che aveva sostenuto durante la detenzione a Roma – somma immediatamente destinata dal domenicano ai poveri della sua diocesi557. Un obiettivo, però, era stato raggiunto anche dall’ala rigorista: quel processo – risarcito o no – bloccava la possibile promozione di Foscarari al cardinalato, così come aveva evitato il conferimento della berretta rossa ad altri prelati in odore di eresia558. Secondo le indiscrezioni dei corridoi vaticani, nell’agosto del 1560 Pio IV aveva in animo di nominare sette nuovi cardinali tra cui il vescovo di Modena, unanimemente considerato come «cosa di Morone»: la levata di scudi che ne seguì dissuase il pontefice perché – si malignava – «il colegio è hormai tutto lutherano»559. La battaglia in seno alla Chiesa, pertanto, non era conclusa e le speranze suscitate da papa Medici sarebbero rimaste una semplice parentesi nell’ascesa del potere inquisitoriale ai vertici della gerarchia.Il 4-5 gennaio 1560, finalmente prosciolto, Foscarari poté contribuire alla riabilitazione di Morone, rilasciando una lunga deposizione difensiva a suo 553 La minuta della lettera dei Conservatori a Foscarari è in ASCMo, Ex actis, 11; cfr. anche ASCMo, Vacchette, 1559, cc. 221r, 223v. 554 Cfr. M. FIRPO, Filippo II, Paolo IV e il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone, in ID., Inquisizione romana, cit., pp. 315-369: 331-335.555 Il testo, tradotto, è noto nell’edizione datane da G.M. PIÒ, Delle vite de gli huomini illustri di S. Domenico, Pavia 1613, II, libro IV, coll. 207-209. 556 La sentenza è edita in PM 2, III, in corso di stampa.557 La notizia è desumibile da una lettera dell’8 maggio 1561 in cui Foscarari, scrivendo a Morone, ricordava che «Sua Santità con l’ismisurata sua cortesia mi volse recompensar delle molte spese fatte sotto la felice memoria di papa Paulo quarto» (LM, cc. 123-124). Andato a vuoto il primo tentativo, il papa gli impose di accettare 300 scudi recapitatigli tramite Ercole Gonzaga. Cfr. anche Šusta, I, p. 25. 558 Cfr. FIRPO, La presa di potere, cit., pp. 68 ss.559 Così si legge in un avviso alla corte di Urbino del 30 agosto 1560, che riportava indiscrezioni dell’allora cardinale di Santa Croce Bartolomeo della Cueva; cfr. ASFi, Ducato di Urbino, classe I, 105, c. 1041r. Il documento è stato segnalato da FIRPO, La presa di potere, cit., p. 174.

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favore. Vari indizi rivelano una dignità ferita, la consapevolezza di una rettitudine di intenti e la volontà di riaffermare il proprio rango di teologo, vescovo ed esponente di un’antica famiglia senatoria. Di fronte all’uso strumentale e pretestuoso del tribunale, che già aveva rinfacciato a Ghislieri al momento del suo arresto, Foscarari offrì una lettura dei fatti a tratti infastidita, in cui replicava punto per punto alle calunnie di cui, a suo dire, era stato fatto segno Morone560. Rispondendo in latino, a ribadire la propria autorevolezza, ripercorse i suoi rapporti con il cardinale, dai primi contatti degli anni quaranta a Bologna alle frequentazioni romane durante l’ufficio come maestro del Sacro Palazzo. In tutte quelle occasioni, e ancor più dopo la nomina a vescovo di Modena, aveva potuto constatare l’ortodossia e la pietà personale di Morone. E se non si poteva negare che vi fosse stato qualche incidente di percorso, Foscarari era pronto ad assicurare che il caso di Bartolomeo della Pergola prescindeva dalla volontà del cardinale e che la cacciata del gesuita Salmerón del 1543 era nata da una semplice divergenza di vedute sulle modalità di predicazione. La diffusione del Beneficio di Cristo a Modena, poi, era dovuta alla mancata conoscenza dei veleni che conteneva, e il vero responsabile di quell’operazione era da ricercarsi nel libraio Gadaldino. Inattendibili, infine, erano i testimoni che avevano accusato Morone: gli eretici modenesi Filippo e Bonifacio Valentini avevano aperti risentimenti nei confronti del cardinale, Bernardo Bartoli era un frate «sempio et instabilem», il Pergola era infetto a detta dei suoi stessi confratelli francescani e Giovan Battista Scotti era universalmente tenuto «pro infami [...] et etiam pro decocto». Alla luce dei fatti, è evidente che il domenicano addomesticò consapevolmente molti passaggi della vicenda, pur di contribuire alla chiusura di un processo che della difesa della fede faceva un pretesto. Liquidando con sprezzo la credibilità degli accusatori (scempi, instabili, decotti e infami), Foscarari manifestò un giudizio negativo sull’operato del tribunale che si era servito di «frati poltroni» e informatori prezzolati, senza considerare la dignità e la levatura di chi veniva accusato. Dietro la risolutezza con cui agì in quei giorni stava però anche un’altra preoccupazione: la possibilità di tornare presto al servizio della sua chiesa. L’8 gennaio preannunciava ai Conservatori il suo rientro561 e agli inizi della primavera seguente riprendeva appieno il governo della diocesi. A festeggiare quel ritorno non fu solo Modena: anche il convento bolognese di San Domenico volle celebrare la sua riabilitazione chiamandolo a consacrare l’altare maggiore della basilica, ricostruito negli anni precedenti e arricchito di reliquie e indulgenze562. Il duplice abbraccio, della città e dei confratelli, ribadiva la fiducia che circondava Foscarari e le alleanze su cui poteva contare. La grande storia, tuttavia, stava per allontanarlo di nuovo dai suoi incarichi, chiamandolo ad affrontare questioni più gravi e più urgenti per il futuro della Chiesa.

A margine del concilio: iniziative e speranze di pacificazione

Il 24 febbraio 1561 il papa faceva pervenire a Modena la sua «admonitio eundi 560 Per la deposizione di Foscarari, di cui si riassumono di seguito i contenuti, cfr. PM 2, II, pp. 965-1002.561 ASCMo, Vacchette, 1560, c. 24r. Della missiva, se ho ben visto, non resta traccia negli incartamenti comunali. Un breve scambio epistolare tra il vescovo e i Conservatori riguardante le elemosine raccolte in quegli stessi giorni in ASCMo, Ex actis, 12/1, 2 e 13 gennaio 1560. 562 ASDBo, III, 7550. La consacrazione ebbe luogo il 27 settembre 1560.

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ad concilium», con cui esortava i vescovi ad aprire l’assemblea entro Pasqua considerando la «summa Ecclesiae necessitas»563. Foscarari rispose con prontezza e il 16 aprile, poco dopo le festività pasquali, giunse a Trento con un seguito di otto persone564. Sono forse questi gli anni meglio documentati e, per molti aspetti, tra i più densi della sua esistenza. Varie furono le questioni che si intrecciarono nei molti mesi di lavoro e, per cercare di decifrare cosa accadde, è opportuno distinguere i diversi ambiti in cui il domenicano si impegnò. Partiamo da due vicende che si svolsero a margine dell’assemblea e possono rivelare l’animo con cui vi prese parte: da un lato la diffusione tra i padri degli scritti di Tullio Crispoldi, dall’altro la partecipazione ad alcuni processi per eresia celebrati in concilio. Sui trascorsi e la vita di un personaggio come Crispoldi forse non si avrà mai un quadro del tutto limpido. Le sue compromissioni con il mondo degli «spirituali», la vicinanza a personaggi come Bernardino Ochino e Marcantonio Flaminio e la collaborazione con il vescovo riformatore Gian Matteo Giberti sono sufficienti a collocarlo in una zona grigia cui i giudici di fede rivolsero particolare attenzione. Nato a Rieti nel 1510, abbracciò ancora giovane lo stato ecclesiastico e, dopo il sacco di Roma, si trasferì a Verona dove coadiuvò la riforma gibertina impegnandosi nella predicazione e nella redazione di scritti devozionali. Nelle dispute degli anni trenta sulla grazia e la predestinazione, si distinse per l’adesione a un agostinismo radicale che lo avvicinò a Flaminio. Scomparso Giberti, si recò a Roma dove frequentò il circolo di Pole, e rinsaldò antiche conoscenze mostrandosi «molto familiar de esso Flaminio»565, alla cui morte assistette. Dopo gli anni cinquanta, nonostante un’abbondante produzione di testi e opuscoli a stampa, le sue tracce si fanno più labili, riemergendo a Roma nel 1573, anno in cui si spense.Stando alla testimonianza del controversista Sisto da Siena, Foscarari avrebbe portato in concilio i Commentarios in Matthaeum di Crispoldi, un testo manoscritto in volgare, di cui non si ha più notizia566. Sulla base di queste informazioni, è difficile notare qualcosa di più della consueta sensibilità del domenicano per il testo biblico e la sua divulgazione, e non è chiaro il motivo per cui egli si fece promotore dell’opera. Né è semplice stabilire il grado di coinvolgimento del vescovo di Modena nella stampa di un altro scritto di Crispoldi, le Considerationi et avertimenti spirituali [...] sopra la passione, un

563 Il breve di convocazione di Foscarari si trova in ASV, Armadio XLIV, tomo 11, cc. 44v-45v [n. 37], edito in CT, VIII, p. 161. Cfr. anche Šusta, I, p. 4.564 Foscarari diede notizia del suo arrivo a Morone il 17 aprile 1561; cfr. LM, cc. 121-122 (copie della stessa missiva in CFCh, cc. 237v-238r; CFBo, Parte Prima, c. 1v). Il 29 marzo Ercole Gonzaga diede notizia a Foscarari della sua imminente partenza per il concilio, invitandolo a fare lo stesso entro la sera di Pasqua; cfr. ASMn, Gonzaga, 1561, cc. 53r-v, 60r-v. Per il seguito del vescovo di Modena, cfr. H. JEDIN, Das Gefolge der Trienter Konzilsprälaten im Jahre 1562. Ein Beitrag zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte eines oekumenischen Konzils, in ID., Kirche des Glaubens, Kirche der Geschichte, Freiburg-Basel-Wien 1966, II, pp. 333-347: 345. 565 Così Lorenzo Davidico nel corso del suo processo; cfr. M. FIRPO, D. MARCATTO (a cura di), I processi contro don Lorenzo Davidico. Il processo vescovile a Novara (1553-1555), il processo inquisitoriale a Roma (1555-1557): edizione critica, Città del Vaticano, 2011, p. 205. 566 «Tullius Crispoldus [...] scripsit [...] italico sermone Commentarios in Matthaeum, summa laude et veneratione dignos, quos mihi in concilio Tridentino ostendit Aegiudius Foscararius ex ordine praedicatorum, Mutinensis episcopus, episcoporum omnium huius temporis eruditissimus atque sanctissimus» (SISTO DA SIENA, Bibliotheca sancta, Colonia 1626, p. 388). Cfr. P. SALVETTO, Tullio Crispoldi nella crisi religiosa del Cinquecento: le difficili pratiche del viver christiano, Brescia 2009, p. 247.

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commento comparso a Modena nel 1559, in cui venivano proposti ampi stralci dei racconti biblici sugli ultimi giorni di Cristo, volgarizzati e seguiti da meditazioni567. A stampare il libretto era stato Cornelio Gadaldino che, in assenza del padre Antonio detenuto dagli inquisitori a Ripetta, poneva sotto i torchi quelle riflessioni sull’imitazione di Cristo e la giustificazione ottenuta dal sacrificio della croce. Il testo – si legge nella dedica dello stampatore – gli era stato consegnato dall’inquisitore Domenico da Imola, braccio destro di Foscarari durante le sue disavventure inquisitoriali e suo luogotenente a Modena. Nonostante i pochi indizi e l’incerto legame tra le due vicende, non è azzardato ipotizzare un apprezzamento di Foscarari per Crispoldi, forse conosciuto al capezzale di Flaminio, e un tenue segnale di attenzione all’esperienza gibertina di cui il reatino fu l’ultimo custode. I principi ispiratori dei suoi scritti e il loro carattere pastorale poterono facilmente intercettare la sensibilità di Foscarari: «ancorati a un principio di obbedienza al magistero della Chiesa, in essi dominava lo sforzo di mantenere entro una cornice ecclesiologica tradizionale le esigenze di una spiritualità che si era riconosciuta nei principi della giustificazione per i meriti della croce, dell’infinita misericordia di Dio e della vacuità delle opere umane»568. Non vi è dubbio che vi fossero notevoli margini di convergenza tra il pensiero di Crispoldi e quello del vescovo di Modena, esaltati nello specifico dal richiamo alla Scrittura e all’imitazione di Cristo, e un modello ecclesiologico sostanzialmente simile. Quei valori e l’atteggiamento mite che producevano comportarono peraltro il coinvolgimento del domenicano nella seconda vicenda che ebbe come sfondo il concilio. Si tratta dei tre processi a carico di eretici tenuti durante l’ultima fase dei lavori, «casi isolati, gestiti nell’ombra da commissioni compiacenti»569 di cui il vescovo di Modena fece sempre parte. Il più eccellente riguardò il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani, che nel 1549 aveva scritto al suo vicario una lettera in cui palesava la propria adesione alla giustificazione per fede e alla predestinazione570. I sospetti di eresia che gravavano su di lui erano tanto più gravi in quanto gli precludevano il conseguimento della porpora cardinalizia che il governo veneziano continuò a chiedere risolutamente alla Santa Sede, non ottenendola mai571. Subita una semplice purgazione canonica nel 1552, nel ‘61 Grimani consegnò ai supremi inquisitori uno scritto in cui cercava invano di chiarire la propria posizione. Consapevole del clima ostile creatosi a Roma, si appellò al concilio dove nel 1563 venne giudicato innocente, senza tuttavia ottenere il berretto cardinalizio. Tra quanti si pronunciarono sul suo caso, vi fu anche Foscarari che, in modo stringato, si espresse a favore della piena

567 Considerationi et avertimenti spirituali di m. Tullio Chrispolto d’Ariete sopra la passione di nostro Signore Giesu Christo non più vedute, Modena 1559. La vicenda è ripercorsa in SALVETTO, Tullio Crispoldi, cit., p. 257. 568 Ivi, pp. 7-8.569 Cfr. PROSPERI, Tribunali della coscienza, cit., pp. 128-134 (da cui è tratta la citazione), e A. TALLON, Le concile de Trente et l’Inquisition romaine. À propos des procès en matière de foi au concile, in «Mélanges de l’École française de Rome. Italie et Méditerranée modernes et contemporaines», 106 (1994), pp. 129-159. 570 A. DEL COL, Le vicende inquisitoriali di Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia, e la sua lettera sulla doppia predestinazione, in «Metodi e ricerche», n.s., XXVII (2008), pp. 81-100. Cfr. in sintesi G. BENZONI, L. BORTOLOTTI in DBI, 59, pp. 613-620; G. PAOLIN in DSI, II, pp. 735-738571 M. FIRPO, Le ambiguità della porpora e i «diavoli» del Sant’Ufficio: identità e storia nei ritratti di Giovanni Grimani, ora in ID., Storie di immagini. Immagini di storia, Roma 2011, pp. 119-171.

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ortodossia del patriarca e dei suoi scritti («nihil haereticum in Epistola dicit contineri»)572. Pochi mesi prima lo stesso Foscarari era stato impegnato nel processo al mercante genovese Agostino Centurione che, passato al calvinismo, desiderava ora riconciliarsi con la Chiesa. Il collegio giudicante presieduto dall’arcivescovo di Genova Agostino Salvago – l’ordinario sotto la cui giurisdizione Centurione ricadeva –, era composto dai vescovi Leonardo Marini, Ugo Boncompagni (il futuro Gregorio XIII) e Foscarari. Il ruolo di quest’ultimo risultò però defilato, tanto che il suo nome non compare in molte sedute, a causa di un breve rientro a Modena proprio in quei giorni573. Né vi è molto da dire sulla mai avvenuta riconciliazione dell’eretico Jacopo Paleologo da Chio, ex-domenicano, catturato tre volte dall’Inquisizione e presentatosi in concilio per essere giudicato da una commissione composta da Foscarari e dal vescovo di Sorrento Giulio Pavesi: il suo atteggiamento irritò profondamente i due giudici, e agli inizi del ‘63 l’eretico si avviò verso la Boemia ingrossando le fila del movimento antitrinitario574. Più illuminante è, per contro, il processo di Gaspare Fanti (o Fantino) da Faenza, celebrato contemporaneamente all’arrivo di Paleologo a Trento575. In questo caso Foscarari, assistito da Leonardo Marini576, fu giudice principale e alcuni passaggi del procedimento paiono in effetti fortemente ispirati dal suo irenismo. Condannato dall’Inquisizione faentina nel 1550, Fanti era fuggito dalle prigioni del tribunale. Le proposizioni di cui era stato riconosciuto colpevole erano particolarmente gravi: aveva contestato l’autorità del papa, la presenza reale nell’eucarestia e l’immortalità dell’anima. Secondo la procedura inquisitoriale, l’imputato era un relapso e non ci sarebbe stata altra via che la condanna a morte. Ciò nonostante, il 28 aprile 1562 Foscarari lo ammise all’abiura, dopo la quale presiedette a un solenne rito di assoluzione: preso in mano il pastorale (baculum), intonò il Miserere, alternandosi con i presenti e ponendo a ogni versetto il pastorale sull’imputato577. A conclusione, venne letta una sentenza in cui la parola misericordia ricorreva con insistenza, tracciando il profilo di una Chiesa clemente che imitava il padre buono della parabola: «Avendo specialmente davanti agli occhi la pietà e la misericordia di Dio, poiché ci hai pregato ripetutamente di essere misericordiosi come è misericordioso il Padre nostro, e poiché egli non respinge i cuori contriti e umiliati ma dà grazia a chi si pente, imitando la sua bontà [...], ti assolviamo e liberiamo da tutte le pene spirituali e temporali»578. Al di là delle profonde diversità che intercorrevano tra i casi su tratteggiati, il fatto che Foscarari fosse costantemente individuato come giudice è indicativo della percezione che di lui 572 ASV, Conc. Trid., 10, cc. 351r-355r; il votum di Foscarari è a c. 353r. Un’altra copia dei vota su Grimani è stata segnalata da Adriano Prosperi in ARSJ, Opp. NN., 207. 573 ASV, Conc. Trid., 12, cc. 131r-145v; edito integralmente da L. CARCERERI, Agostino Centurione mercante genovese processato per eresia e assolto dal Concilio di Trento (anno 1563) , in «Archivio trentino», XXI (1906), pp. 65-99. 574 Su Paleologo v. in sintesi L. SZCZUCKI in DSI, III, pp. 1159-1161 (con bibliografia). Cfr. anche Šusta, II, pp. 215-216, 238, 258, 261, 439, e soprattutto III, pp. 9-11, 273; e L. VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, Roma 1950, VII, p. 491. 575 ASV, Conc. Trid., 72, cc. 154r-166v. 576 Su Marini v. M. MAIORINO in DBI, 70, pp. 463-468.577 ASV, Conc. Trid., 72, c. 156r. Il rito celebrato da Foscarari corrisponde al Modus absolvendi ab excommunicatione, poi codificato nel Rituale Romanum di Paolo V. 578 Traduzione mia da ASV, Conc. Trid., 72, cc. 159r-v.

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ebbero i padri e, soprattutto, i legati conciliari. Il rigore morale e la perizia teologica lo rendevano adatto a districarsi nelle maglie sottili del diritto canonico e della dottrina; ma a ciò si accompagnava una propensione alla conciliazione che lo rendeva un interlocutore perfetto per affrontare in modo indulgente questioni di eresia. Non furono solo il favore verso gli scritti di Crispoldi o la mitezza verso gli eretici a rivelare le mai sopite speranze di Foscarari per una rappacificazione della cristianità. A dimostrare la sua radicale coerenza e il tentativo illusorio, a tratti anacronistico, di utilizzare il concilio come occasione di un riavvicinamento con i protestanti furono anche alcune delle posizioni assunte nel corso delle discussioni. Oltre all’impegno per una moderazione dell’Indice dei libri proibiti su cui torneremo579, basterà ricordare i suoi pronunciamenti sulla concessione del calice ai laici: con gli argomenti a lui consueti, il vescovo di Modena si espresse a favore di quella concessione che avrebbe evitato il definitivo distacco della Germania dalla Chiesa: «Multa mala timenda sunt nisi concedatur, scilicet in primis ut Germania tota ab ecclesia recedat». Non assecondare quella «petitio iusta et honesta» era un inutile irrigidimento contrario allo spirito evangelico («Dominus ait se magis velle misericordiam quam sacrificium») e – come pure Foscarari sapeva – una scelta poco avveduta sotto il profilo politico580. Era un esempio fra i tanti, ma non vi è dubbio che i suoi convincimenti irenici fossero chiari ai più. Non a caso, quando Ercole Gonzaga fu designato come legato conciliare, per ottenere informazioni su quanto si era fatto a Ratisbona ai tempi di Contarini incaricò il suo segretario di chiedere a Foscarari «quel discorso che ha fatto sopra i Colloquii di Germania per mostrare le cagioni perché sono stati infruttuosi»581. Il domenicano stava dunque riflettendo sulle cause del fallimento del ‘41, allo scopo, evidentemente, di porvi rimedio vent’anni dopo.Ancora più espliciti sono alcuni riferimenti reperibili nei dispacci inviati a Morone e ad altri personaggi dal concilio. Il 20 luglio 1561, ad esempio, il domenicano espresse a un suo conoscente, Ludovico Bianchi, la sua fiducia nella provvidenza divina che avrebbe ispirato le menti per giungere a una composizione tra le parti: «Quando saranno tutti [...] congregati nel nome del Signore, ch’el Signor vi sarà in mezzo et desiderando di cuor la unione della Chiesa [...], Sua Maestà gli proponerà et gli inspirerà i mezzi opportuni: non è sì grande diferenza d’opinioni che col desiderio dell’unione non si conchiuda in riconciliatione»582. L’esigenza di ripristinare la concordia della cristianità si accompagnava all’urgenza di intervenire dopo anni di colpevoli ritardi: «Sin qua la Chiesa nella causa del luteranesimo ha sempre perso con il tempo: piaccia al Signor Dio che quelli che governano la Chiesa avertiscano così gran perdita», scriveva a Morone583.

579 Cfr. infra, pp. xxx580 CT, VIII, p. 833 (1° settembre 1562); SCT, IV/1, p. 307. 581 Lettera di Camillo Olivo a Ercole Gonzaga (Trento, 16 settembre 1561), in ASMn, Gonzaga, 1938; cfr. CT, IV/1, p. 134. Su Ercole Gonzaga e il suo ruolo a Trento, oltre a SCT, IV/1 e alla dettagliata voce di G. BRUNELLI in DBI, 57, pp. 711-722, v. anche P.V. MURPHY, Ruling Peacefully. Cardinal Ercole Gonzaga and Patrician Reform in Sixteenth-Century Italy, Washington 2007, pp. 196 ss.582 CFCh, cc. 241v-242r; altra copia in CFBo, Parte Prima, cc. 12r-v.583 LM, cc. 145-146; lettera del 18 settembre 1561. Due copie della stessa in CFCh, c. 240v, CFBo, Parte Prima, cc. 1v-2r.

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Per favorire l’agognata ricucitura, Foscarari era dell’idea che si dovesse mettere mano ai decreti già approvati (o, come minimo, alla loro interpretazione), guadagnando uno spazio di manovra più ampio. Lo confermò commentando il grande afflusso di prelati spagnoli «determinati che non si alteri cosa alchuna di quanto sin hora è determinato»: «Dovendosi venire a conventione alchuna con lutherani, sarà pur necessario interpretare almeno alchuna delle cose già determinate, altramente si levarebbe ogni speranza d’accordo»584. A gelare quelle aspettative intervenne però una lettera del papa ai legati che – riferiva Foscarari l’11 dicembre 1561 – mostrava «il candore de l’animo di Sua Santità, anchora che quella ferma deliberatione che delle cose fatte non si possi alterare cosa alchuna levava in tutto ogni speranza d’accordo»585. Quantomeno, auspicava il 22 febbraio 1562, si sarebbe dovuto concedere a quanti desideravano tornare nel grembo della Chiesa di potere «venire al concilio a domandar perdono et riconciliarsi». Non era un augurio generico: Foscarari aveva in mente nomi precisi, anzitutto Ludovico Castelvetro586. Era l’unica strada percorribile, sebbene continuassero a prevalere i timori degli spagnoli e della curia romana per la grazia che gli imputati dell’una o dell’altra Inquisizione avrebbero potuto ottenere da un giudizio in concilio: «Io sono stato malissimo consolato havendo sperato infino ad hora di potere riconciliare alla Chiesa alcuno de miei», confidò a Morone. «Hora quasi me ne veggo levata ogni speranza [...] Questo è certo: che essi non saranno mai per venire a Roma et in questo altro modo si guadagnerebbono facilmente»587. La storia avrebbe preso un’altra piega e, come visto, i processi celebrati in concilio nei mesi successivi sarebbero stati un’eccezione. Con il passare del tempo, il domenicano cominciò a comprendere che l’assemblea non avrebbe promosso nessuna effettiva mediazione e che la pace con i protestanti era una pura utopia. La personalità e i convincimenti di Foscarari suggeriscono infine la sua implicazione in un’ultima vicenda svoltasi a Trento, questa volta sotto la regia degli «spirituali». Come è noto, l’ultima fase del concilio e il pontificato di Pio IV conobbero il tentativo di riabilitare – significativamente affiancati – Gasparo Contarini e Reginald Pole, l’uno uomo di punta dell’«evangelismo» italiano, l’altro padre nobile degli «spirituali»588. Dalla riuscita di quell’impresa, che 584 LM, cc. 155-156; lettera del [6] ottobre 1561.585 LM, cc. 171-172. Due copie della stessa in CFCh, cc. 249r-250r; CFBo, Parte Prima, cc. 3v-4r. Parzialmente edita in CT, VIII, p. 264.586 Lo conferma oltre ogni dubbio una lettera scritta dallo stesso Foscarari a Morone alcuni mesi dopo: «Operai che gli illustrissimi legati dassero comissione a monsignor reverendissimo di Lanzano [Leonardo Marini] che procurasse la facoltà di potere riconciliare alla Chiesa i Castelvetri: havendoglisi già promessa una fiata et scritto, non si potrà mancare senza indignità del Concilio et diminuimento dello splendore di Sua Santità» (LM, cc. 323-324; lettera del 15 giugno 1562).587 LM, cc. 218-219; lettera del 22 febbraio 1562. Copie dei dispacci che Foscarari inviò a Morone da Trento tra il 12 gennaio 1562 e il 4 marzo 1563 sono conservate in CFBo, Parte Terza, cc. 1r-88r. Tra queste e gli originali si sono riscontrate differenze, errori di copiatura e, forse, censure su cui non ci si può dilungare in questa sede. 588 Sulla riabilitazione di Pole e Contarini e l’edizione dei loro scritti v. FRAGNITO, Gasparo Contarini, cit., pp. 307-368; P. SIMONCELLI, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma 1977, pp. 149-179. Sull’evangelismo italiano e i suoi nessi con il gruppo degli «spirituali», v. in sintesi S. PEYRONEL RAMBALDI, Ancora sull’evangelismo italiano: categoria o invenzione storiografica?, in «Società e storia», 18 (1982), pp. 935-967 e M. FIRPO, Juan de Valdés e l’evangelismo italiano: appunti e problemi di una ricerca in corso, in «Studi storici», 4 (1985), pp. 734-754.

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prevedeva la pubblicazione delle opere dei due cardinali, dipendevano il futuro e l’immagine del gruppo di cui Morone restava l’esponente più illustre, e non sorprende che Foscarari fosse subito impiegato per garantire il buon esito degli sforzi. Il primo testo su cui si decise di lavorare fu il De concilio di Pole, da adattare in alcuni passaggi ai pronunciamenti tridentini. Il piano di far stampare l’opera si saldava, nell’animo del domenicano, alle residue speranze di pacificazione di cui si è detto. Quando Morone gli sottopose il testo, egli non esitò ad approvarlo con entusiasmo («beata la Chiesa quando la si governerà con le regole insegnate in quel libro»)589, consigliando di porlo sottoi torchi finché il concilio era in corso. «Mostrano i protestanti che quando si facesse un concilio nel modo che è descritto in questo libro, che loro l’accettarebono: publicandosi donque con questa occasione e mostrando al mundo qual sia la forza del concilio che ora si è per celebrare restarebeno gli aversarii persuasi o convinti»590. Se i protestanti avrebbero partecipato volentieri – o così credeva Foscarari – a un concilio celebrato alla maniera di Pole, altri ben più cattolici avrebbero invece impugnato il libro come prova di colpevolezza. La prudenza consigliava pertanto di porre qualche commento accanto ai luoghi più scivolosi del trattato: «Perché hora più che in ogni altra età totus mundus in maligno positus est [...], puotrebbe avenire che molte cose fossero interpretate in mala parte: per levar ogni occasione di ombra, sarebbe bene che monsignor illustrissimo Siripando con alchune scholie poste in margine levasse queste false intelligentie». Il generale degli agostiniani, già circondato da sospetti591, preferì attenersi a una linea più cauta e non fare «alchuna scholia perché a’ cinici nessuno li può sodisfare, quando bene se li facessero copiossissimi commentarii»592. A ogni modo, il trattato aveva la sua piena approvazione e, come scrisse a Morone, «monsignor illustrissimo di Mantua [Ercole Gonzaga] principalmente et poi monsignor di Modena et io siamo concorsi in un parere che questa operetta, come divina più presto che humana, sia la prima che faccia testimonio al mondo della vita innocente et pietà veramente christiana di quel buon signore [Pole]»593. Il progetto raccoglieva dunque adesioni ai massimi livelli della gerarchia presente in concilio. Tra le carte di Foscarari si conserva però una lettera, forse scritta da Gurone Bertano594 – fratello del più celebre Pietro e di lì a un anno segretario del cardinale di Lorena –, che mostra come il trattato non fosse privo di punti deboli. Da un lato, le indicazioni sul rapporto tra fede e carità potevano risultare ambigue: «per giocar al sicuro si potrebbe aggiungere a quella parte ove parla delle dette virtù tre o quatro parole [...] tolte dal concilio Tridentino, le quali turerebbero la bocca alla Inquisitione istessa». Anche gli argomenti a sostegno della traslazione della sede petrina da Gerusalemme a Roma erano 589 LM, cc. 135-136; lettera del 18 agosto 1561. Sulla pubblicazione, cfr. in sintesi TH. F. MAYER, A Reluctant Author: Cardinal Pole and his Manuscripts, Philadelphia 1999, pp. 26-27.590 LM, cc. 141-142; lettera dell’11 settembre 1561, da cui è tratta anche la citazione che segue. La lettera è edita in CT, VIII, pp. 247-248.591 Per una biografia di Seripando, v. H. JEDIN, Girolamo Seripando: sein Leben und Denken im Geisteskampf des 16. Jahrhunderts, Würzburg 1937. Per una contestualizzazione: CESTARO (a cura di), Geronimo Seripando e la Chiesa cit. 592 Queste le parole con cui Foscarari riferì a Morone il giudizio di Seripando; cfr. LM, cc. 149-150; lettera del 29 settembre 1561. 593 Lettera di Seripando a Morone dell’11 settembre 1561, edita in Simoncelli, Il caso Reginald Pole, pp. 205-206 e in Jedin, Girolamo Seripando, II, pp. 636-637.594 Su Bertano v. la voce di R. ZAPPERI in DBI, 9, pp. 463-467.

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fragili e facilmente contestabili dai protestanti; infine era da smorzare la proposta di un digiuno della Chiesa e dei principi per tornare alla pace, poiché le divisioni in corso non procedevano solo dagli abusi rimediabili con la penitenza, ma dalla dottrina: «Né anco tutta la bontà del mondo adesso basterebbe a convincere gli aversarii nostri senza disputar con loro et chiarirli colle Scritture delli loro errori». «Per tutte queste cause – concludeva Bertano – mi pareria che fosse meglio a non stampar il libro ma tenerlo appresso di noi per servircene a suoi tempi»595. L’opera venne invece pubblicata alla metà del febbraio ‘62596, giungendo pressoché subito nelle mani di Foscarari che non mancò di notare come alcune correzioni avessero modificato il senso del testo originario: «Ho letti et osservati i luoghi emendati o mutati nell’opera del concilio di monsignor illustrissimo Polo et son venuto in sospetto che non s’habbia da stampare altro, parendomi che molto diversamente sia stata intesa et da monsignor illustrissimo et da quelli che hanno emendati quei luochi». In più – lamentava – non si era affiancata al De concilio «quella bella oracione che fece quel signore [Pole] nella sinodo celebrata in Inghilterra nell’opera della riforma»597. Le osservazioni del domenicano – sul cui coinvolgimento un esponente degli «spirituali» come Pietro Carnesecchi aveva espresso qualche riserva598 – contestavano dunque le alterazioni che il testo aveva subito (non è chiaro quali punti in particolare), reclamando la necessità di accentuare il volto più ortodosso del cardinale inglese, svelato nel corso della restaurazione cattolica al fianco di Maria Tudor negli ultimi anni di vita.Non meno tortuoso fu il percorso degli scritti di Gasparo Contarini, il cui nome si trovò accostato una volta di più a quello di Foscarari. Sin dalla morte del cardinale si erano susseguiti progetti per dare alle stampe i suoi scritti, che solo nel 1571 poterono vedere la luce a Parigi cadendo immediatamente sotto la lente degli inquisitori599. Dieci anni prima, mentre si riabilitava Pole, parve che la pubblicazione potesse essere a portata di mano. Una lettera indirizzata da Alvise Contarini600, nipote di Gasparo, a Foscarari mostra l’avanzamento del lavoro, affidato appunto alle cure del domenicano. Il 14 novembre 1563 Contarini lo ringraziava per avere accettato «il carico di vedere li scritti della bona memoria del cardinale [...] et per l’amor che portava a quella felice memoria et per rispetto dell’illustrissimo Morone protettore di casa nostra»601. Prima della conclusione del concilio – auspicava la missiva – si sarebbero così potuti stampare, dando finalmente esito a un progetto che si trascinava da vent’anni. Con ogni probabilità Foscarari non ebbe tempo di occuparsi della

595 CFBo, Parte Prima, cc. 40r-41r; lettera non datata (ante gennaio 1562). 596 De concilio liber Reginaldi Poli, Roma, Paolo Manuzio, 1562.597 LM, cc. 212-213; lettera del 26 febbraio 1562. 598 Così si legge in una lettera cifrata di Carnesecchi a Giulia Gonzaga del 19 agosto 1560 (tra parentesi quadre le parole decriptate): «Ho parlato col Gerio per far per mezo suo penetrare a [Morone] del buon animo che ha [Seripando] d’affatigarsi intorno a [libri] di [Ingliterra] [...] Ma dubitando non li paresse troppo peso, atteso l’età et fiacchezza sua, s’era resoluto a dare tal carico al [vescovo] di [Modena] come più sano, seben forse non tanto idoneo a tale impresa» (PC, II, pp. 837-838). 599 Cfr. A. ROTONDÒ, Nuovi documenti per la storia dell’«Indice dei libri proibiti» (1572-1638), in «Rinascimento», II, III (1963), pp. 145-211: 151.600 Su di lui v. G. COZZI in DBI, 28, pp. 78-82.601 CFBo, Parte Prima, c. 41r. Altra copia, tratta dalla precedente, in BUBo, Miscellanea Tioli, 2948/5, cc. 505-506, edita in FRAGNITO, Gasparo Contarini, cit., p. 368.

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revisione che si era accollato su sollecitazione di Morone: le incombenze legate alla compilazione dell’Indice, del Catechismo e alla revisione di Breviario e Messale lo avrebbero tenuto impegnato fino alla morte. La lettera del novembre ‘63 conferma comunque che la situazione in cui la consegna degli scritti di Contarini era maturata era la stessa che aveva preceduto la stampa del De concilio di Pole: nella cornice tridentina, grazie alla tregua segnata dal pontificato di Pio IV, Giovanni Morone aveva utilizzato i suoi uomini migliori per restaurare l’immagine degli «spirituali». Una battaglia però mise a rischio la compattezza della cerchia su cui il cardinale poteva contare e, quando si cominciò a discutere di residenza, alleanze incrollabili parvero vacillare.

La battaglia per la residenza

L’ultima fase del concilio vide Foscarari occupato su molteplici fronti: i processi agli eretici che si presentavano ai padri per chiedere perdono, la promozione di scritti come quelli di Crispoldi, la revisione delle opere di Pole e Contarini. Erano facce diverse della stessa tensione alla riconciliazione, a una ricomposizione della cristianità che denunciava un Foscarari incapace di cogliere le sorti verso cui l’assemblea si incamminava e, per molti aspetti, il fallimento e lo sfaldamento del partito che aveva sostenuto. Vi fu però un momento – forse il più drammatico della sua vita – in cui si rese conto della vittoria di quello che Sarpi avrebbe chiamato il totato romano: le ragioni di un rigido controllo papale sulla Chiesa spazzarono via ogni tentativo di giungere a una definizione della residenza dei vescovi de iure divino, affidando ai vertici ecclesiastici una «essorbitante potenza [...] che non fu mai tanta né così ben radicata»602. La vicenda che ripercorreremo è stata ampiamente esplorata e i suoi contorni sono essenzialmente noti603. Quello che però si può precisare è il valore degli avvenimenti in relazione non solo alla biografia di Foscarari, ma al progetto di riforma che egli incarnò: si tratta cioè di cogliere lo choc subito dai protagonisti dei dibattiti, il comportamento tenuto dai vertici della curia romana e l’idea di Chiesa che da allora tramontò. I fatti ebbero inizio con la stesura del cosiddetto «libello italiano di riforma», un insieme di proposte ispirato all’esperienza di alcuni vescovi cui il legato Girolamo Seripando aveva chiesto consiglio nel febbraio del 1562604. Tra di essi vi erano Foscarari – divenuto uno dei leader dello schieramento giusdivinista –, Giulio Pavesi, vescovo di Sorrento, Ludovico Beccadelli, Girolamo Gallarati, nipote di Morone e vescovo di Sutri, e l’arcivescovo di Zara Muzio Calini. Nel marzo ‘62 questi consegnarono a Seripando le loro riflessioni da cui fu tratto un libello strutturato in 93 articoli. La proposta si richiamava in vari passaggi al modello della Chiesa antica, alle sentenze dei padri e ai concili della prima età cristiana. Ci si concentrava anzitutto sulla moralizzazione del clero: era necessario vietare il cumulo di benefici, garantendo un’officiatura stabile delle parrocchie e un adeguato sostentamento dei sacerdoti con cura d’anime; i luoghi di culto dovevano essere tenuti con decoro, le ordinazioni erano da celebrare in pubblico dopo aver accertato la preparazione del candidato e per 602 SARPI, Istoria del Concilio Tridentino, 1, p. 4 [lib. I, cap. I].603 Oltre a SCT, IV/1, pp. 187-218, 367-404 e IV/2, pp. 75-116, v. da ultimo G. FRAGNITO, La terza fase del concilio di Trento, Morone e gli «spirituali», in FIRPO, NICCOLI (a cura di), Il cardinale Giovanni Morone, cit., pp. 53-78 e Felici, Al crocevia della riforma, cit. 604 SCT, IV/1, pp. 179-183. Il testo del libello, di cui di seguito si riassumono i contenuti, è reperibile in CT, XIII/1, pp. 607-612, da cui sono tratte le citazioni.

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istruire il clero bisognava predisporre lezioni di teologia nelle cattedrali. Si prescriveva che i vescovi fossero scelti tra coloro che, come preti, avevano dato prova di moralità e dottrina e si sottolineava la necessità inderogabile di un pronunciamento conciliare sulla residenza di diritto divino («declarandum esset residentiam esse de iure divino»). A partire da quel presupposto si davano poi disposizioni per un rafforzamento dell’autorità vescovile e della struttura diocesana: i vescovi dovevano predicare in prima persona o, al più, eleggere un predicatore perpetuo, si dovevano esortare i fedeli a partecipare alla messa parrocchiale, vietando le celebrazioni private e spiegando al popolo il senso dei riti; bisognava contrastare le pratiche simoniache e far sì che i canonici delle cattedrali fossero scelti tra i dottori in teologia. Si proponeva infine di ripristinare il controllo dei vescovi sugli ordini religiosi presenti nelle varie diocesi e di rivitalizzare i sinodi provinciali e lo stesso concilio generale come strumento di governo della Chiesa – se ne sarebbe dovuto convocare uno ogni dieci anni! («decretum concilii Constantiensis de concilio celebrando quodlibet decennio confirmandum esset et executioni mandandum»). Si auspicava da ultimo una riforma della curia romana fattasi sempre più urgente605. Dopo un’opera di limatura delle proposte che più avrebbero potuto urtare Roma, dal documento furono selezionati 12 punti, sottoposti all’aula l’11 marzo 1562. Superato il divieto papale di trattare di ius divinum – il veto romano, risalente al 18 marzo, era stato revocato il 29 –, ad aprile la discussione entrò nel vivo. Gli ambienti curiali non erano rimasti e guardare e, sul finire di marzo, Morone cercò di persuadere Foscarari – strenuo difensore, come detto, dello ius divinum – a rivedere le sue posizioni, ricordandogli illustri esempi di mancata residenza, dai viaggi di san Pietro da Roma a Gerusalemme alla convocazione di Timoteo, vescovo di Efeso, al seguito di san Paolo. In tutto ciò – ribatté piccato il vescovo di Modena – non c’era nessun «pregiudicio di questa residenza», né si poteva ritardare ancora quel provvedimento perché la rovina della Chiesa era al suo apice:

Piaccia a Nostro Signor Dio d’inspirare quelli che possono et hanno authorità di trovare remedio a queste nostre calamità, nelle quali si vede, anzi si palpa, la ultima roina della Chiesa. Il male non è più lontano da noi come solea essere alcuni anni sono, come nelle ultime parti di Germania et di Frantia, ma è già in Italia; et che non irrompa in ogni parte non si vede humana forza che lo possa prohibire. Restarebbe solo placare l’ira di Dio, dalla quale nasce ogni castigo, et levar da noi tutte quelle bruttezze che offendano gli occhi di Sua Maestà. Senza questo non è possibile ottenere la gratia sua606.

Foscarari si preparava al dibattito con le idee chiare e una visione drammatica di quanto stava accadendo: l’eresia non era più confinata negli angoli remoti dell’Europa ma dilagava ormai in Italia senza che nulla potesse fermarla. Era il castigo di Dio per la corruzione che regnava nella Chiesa e solo ponendovi rimedio si sarebbe stornato il flagello divino. Non dare soluzione alle sciagure della cristianità attraverso la proclamazione della residenza de iure divino avrebbe portato «mala sodisfattione, per non dire scandalo»607. Il 7 aprile non si 605 Per uno sguardo di sintesi sui tentativi di riforma della curia in età moderna v. M. ROSA, La curia romana nell’età moderna, Roma 2013, pp. 3-23 (con appendice bibliografica).606 LM, cc. 249-250; lettera di Foscarari del 30 marzo 1562.607 Ivi, cc. 255-256; lettera di Foscarari del 2 aprile 1562.

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poté che aprire il dibattito: «È entrata in campo questa benedetta residenzia, se sia di ragion di Dio o humana», esultava Foscarari608. Il 10 aprile toccò allo stesso vescovo di Modena prendere la parola in aula, «fra gli altri et sopra gli altri»609, per ribadire il suo appoggio al fronte giusdivinista610. Poiché però si facevano sempre più evidenti e clamorose le «altercationi» tra i padri611, il 19-20 aprile i legati Seripando e Gonzaga decisero di dare ordine ai lavori e mettere ai voti l’eventualità di pronunciarsi o meno sullo ius divinum, ottenendo un risultato incerto: 68 voti favorevoli alla dichiarazione e 70 contrari (furono considerati contrari i voti di 35 padri che subordinarono il proprio parere a un pronunciamento del papa)612. Seppure di poco, si produsse dunque una maggioranza contro la residenza di diritto divino.Foscarari ebbe parole durissime per quanto era successo: accantonare la questione era «una cosa indignissima del concilio et una riforma ridicolosa»613. Nei giorni successivi il concilio vivacchiò in attesa che da Roma giungessero responsi su come procedere614, finché l’8 maggio Pio IV ordinò di bloccare ogni dibattito in materia di residenza, rovesciando su Seripando la responsabilità dei «disordini» nati dallo ius divinum615. Sebbene non sia del tutto chiaro come papa Medici – già sostenitore della residenza616 – fosse giunto alla decisione, alcune testimonianze indicano i cardinali Gian Battista Cicada e Morone come ascoltatissimi consiglieri del pontefice617. Questa del resto fu la percezione che se ne ebbe anche a Trento, dove i divinisti iniziarono a intravedere nel cardinale milanese uno degli artefici dell’operazione. A impensierirlo dovettero essere sia il risalto politico che la discussione stava prendendo sia le accuse di eresia – strumentali, ma pur sempre presenti – che colpirono molti vescovi divinisti a lui vicini. Benché negli anni quaranta avesse tentato di praticare la residenza nella diocesi di cui era stato vescovo, il quadro che ora si presentava a Morone consigliava tutt’altro posizionamento. Con notevole intuizione capì quanto potesse essere nocivo per una celere chiusura del concilio imbarcarsi in una discussione che avrebbe violentemente contrapposto gli episcopati nazionali, risvegliato antiche rivendicazioni di autonomia e probabilmente incrinato, nei vari contesti, i già precari equilibri tra l’autorità pontificia e quella sovrana. Né gli furono estranee ragioni prudenziali riconducibili ai suoi trascorsi inquisitoriali: disinnescare le minacce derivanti dalla residenza lo avrebbe potuto consacrare – specie all’indomani della nomina a legato conciliare – come difensore eminente del primato pontificio, e la possibilità di mettere la felice

608 Ivi, cc. 267-268; lettera del 9 aprile 1562.609 Così riferì l’arcivescovo di Zara Muzio Calini; v. LC, pp. 146-150; lettera del 13 aprile 1562. Tutte le missive edite in LC sono dirette al cardinale Alvise Corner. Per brevità, se ne omette l’indicazione nelle occorrenze successive. 610 CT, VIII, p. 437.611 LM, cc. 269-270; lettera di Foscarari del 13 aprile 1562.612 Cfr. meglio SCT, IV/1, p. 201 e CT, VIII, pp. 463 ss. Calini parlò di 68 voti favorevoli e 73 tra contrari e voti «consulto prius Romano pontifice»; LC, pp. 159-161. 613 LM, cc. 273-274; lettera del 20 aprile 1562.614 Cfr. ivi, cc. 281-282, lettera di Foscarari del 4 maggio 1562.615 SCT, IV/1, pp. 205-207.616 Lo ricordò tra gli altri Muzio Calini: «Nostro Signore havea chiaramente detto in concistoro ammonendo i vescovi che andassero alle loro chiese, che essi doveano sapere d’essere a ciò tenuti quovis iure naturali, divino et ecclesiastico»; lettera senza data [inizio aprile 1562] in LC, pp. 142-144.617 Cfr. SCT, IV/1, p. 205, n. 23.

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conclusione dell’assemblea sotto la sua egida avrebbe costituito una pesante – ma non inamovibile618 – ipoteca sull’eventuale riapertura di un procedimento contro di lui. In ultima analisi Morone presagiva che il pontificato di Paolo IV, appena concluso, non era stato un’eccezione, ma il primo atto (o forse già il secondo se si considera l’elezione di Marcello Cervini) della presa di potere dell’Inquisizione. Il clima instaurato da papa Medici non doveva far dimenticare che nel collegio cardinalizio sedevano ancora uomini come il summus inquisitor Michele Ghislieri, Giovanni Reumano, Scipione Rebiba, Rodolfo Pio e molti altri che non stavano certo oziosi. Se queste furono le ragioni di Morone, quanti difesero la residenza avvertirono l’affermazione dell’origine divina come un ineludibile obbligo di coscienza. Il 30 aprile, ad esempio, informando il cardinale Alvise Corner, Muzio Calini rivendicava con orgoglio di essere stato «alquanto rigoroso nel parlar sopra l’articolo della residenza»: «Se rigoroso significa uno che voglia secondo la conscienza il dritto et il giusto in quelle cose che non si possono intendere se non in un modo, non ricuso questo nome»619. Toni analoghi ebbe, più tardi, Girolamo Gallarati chiamato a rendere conto del suo sostegno al diritto divino: «[Non ebbi] alcun’altra mira che quella di sodisfare alla conscienza mia [...] Io non sono mai per manchare di secondare il parere et volere degl’altri, quanto resti capace che non sia contra il servitio di Dio, et in ciò s’acqueti la conscienza mia»620. Nei primi giorni di maggio gli animi continuavano ad arrovellarsi e lo scontro vedeva da un lato i membri del partito curiale impegnati a ribadire le conseguenze ecclesiologiche dello ius divinum (il diritto dei vescovi andava a detrimento di quello della Santa Sede), dall’altro i giusdivinisti attenti a sottolineare piuttosto le implicazioni morali dell’obbligo di risiedere (la residenza come dovere categorico)621. La sospensione delle discussioni decretata dal papa l’8 maggio non fece che inasprire i divinisti, preoccupati per le conseguenze di quella chiusura «con grandissimo scandalo per tutta Europa [...] in tempi così travagliosi et perturbati»622. Sei giorni dopo Foscarari espresse a Morone le proprie rimostranze per una decisione che screditava in un solo colpo il papa, il concilio e i padri, esponendoli al ludibrio degli avversari: «Si perderà l’autorità de vescovi perché sì puoco attentamente si procura la riforma» e «resta il concilio puoco celebre poiché non ardisce di far cosa alcuna se prima non lo consulta col papa»623. I toni si fecero sempre più accesi: a Trento si rincorrevano voci sulla sostituzione dei legati624 e lo stesso Morone richiamò all’ordine Foscarari, assieme a Beccadelli e Gallarati. Il vescovo di Modena ricevette infatti una lettera, spedita dal cardinale il 9 maggio, in cui non si risparmiavano accuse e insinuazioni625. Ad aggravare la situazione intervenne poi la clamorosa azione del vescovo di Capodistria, lo zelante Tommaso Stella, che in quegli stessi 618 Cfr. M. FIRPO, La ripresa del processo contro Giovanni Morone sotto Pio V, in Id., Inquisizione romana, cit., pp. 471-536.619 LC, pp. 165-168; lettera del 30 aprile 1562. Su Calini v. in sintesi la voce di V.I. COMPARATO in DBI, 16, pp. 725-727.620 LM, c. 399 (lettera del 26 giugno 1562), cit. in FRAGNITO, La terza fase, cit., p. 67, n. 48.621 Cfr. SCT, IV/1, pp. 209 ss.622 LC, pp. 175-178; lettera del 18 maggio 1562.623 LM, cc. 289-290; lettera del 14 maggio 1562. 624 Cfr. SCT, IV/1, pp. 213-214, in cui è riportato anche il duro giudizio di Foscarari a riguardo. Cfr. anche la riprovazione di Calini in LC, pp. 175-178.

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giorni divulgò tra i padri una missiva scrittagli da Morone per deprecare gli inutili litigi sullo ius divinum626. «Lascio considerare allei – commentò il segretario Camillo Olivo rivolto a Ercole Gonzaga – quanto mal effetto ha causato [...]: le si sono fatti commenti da servir appunto per processi et da dare da trionfare et cicalare infinitamente a’ luterani»627. Mentre dunque le critiche di Morone assumevano un rilievo pubblico, il 18 maggio Foscarari decise di replicare punto per punto alle contestazioni mossegli dal cardinale628. Con ogni probabilità partecipò i contenuti della sua replica ad altri vescovi a lui vicini e certamente mostrò all’amico Beccadelli una versione quasi definitiva del testo, ancora reperibile tra le sue carte629. La prima imputazione riguardava il presunto contrasto tra la residenza di diritto divino e i canoni del concilio lateranense IV. Foscarari ribadì come, oltre alla sua coscienza, a suggerire la correttezza di quel principio fossero le «schole della theologia» per le quali «la residenza [...] de iure divino è commune opinione». La malafede di chi sosteneva il contrario era provata dal comportamento del legato Ludovico Simonetta630, capofila degli antidivinisti, che «in presenza mia et di molti altri ha detto che non ha dubbio che la residenza sia de iure divino, se bene giudica che non sia espediente che si chiarisca». Pochi giorni prima, peraltro, Simonetta aveva scritto al cardinale Borromeo nel chiaro intento di screditare Foscarari, che in una discussione con l’arcivescovo di Praga Antonín Brus von Müglitz, ambasciatore imperiale al concilio, avrebbe messo in discussione la derivazione dell’autorità dei vescovi da quella pontificia: «Modena ha affermato arditamente dicendo: ‘In Petro datam [potestatem] omnibus aequaliter in partem solicitudinis cum eo’; il che mi dà gran sospetto, perché costui ha gran credito et questa propositione è pericolosissima. Se egli dicesse ‘mediante persona Petri’ saremmo tutti d’accordo»631. Le manovre di Simonetta, portavoce degli interessi curiali, erano intollerabili agli occhi di Foscarari, tanto più perché, negando una verità sancita dalla Scrittura, si sarebbe inflitto un inutile danno alla Sede apostolica: «Si vede facilmente [che] la maggior gloria di quella Santa Sede [è] per mezzo di questa opinione perché è tanto più gloriosa quanto che le sue leggi rispondano alla parola di Dio». Quella riflessione diveniva poi vero e proprio stupore di fronte 625 I contenuti e la data della lettera di Morone sono desumibili indirettamente dalla risposta che Foscarari diede il 18 maggio. 626 La lettera del 13 maggio 1562 è in LM, c. 287: «Quanto dispiacer io senti’ che cotesto sacro concilio, o parte, lasciata da banda tante cose utili et necessarie et proprie, attendi solo a quella che è causa di tanti dispareri e confusioni; et talmente che non pare habbi cosa che più le prema di questa che se Dio non li ponne la mano è fomite di grandissima ruina [...] Se si potesse lassar le cose in quella determinatione in che stavano [...], al parer mio sarebbe molto utile». La successiva risposta del 21 maggio è ivi, c. 302. 627 Lettera del 24 maggio 1562, edita in G. DREI, Per la storia del concilio di Trento. Lettere inedite del segretario Camillo Olivo (1562), in «Archivio storico italiano», LXXIV (1916), pp. 246-287: 267-272. A p. 272 è pubblicata una copia della lettera scritta da Morone a Stella. 628 L’originale è in LM, cc. 291-300. Di qui sono tratte, salvo diversa indicazione, le citazioni che seguono. Un’analisi del testo in FELICI, Al crocevia della riforma, cit., pp. 104-112. Un’edizione parziale in Šusta, II, p. 154.629 La copia in possesso di Beccadelli, con significative varianti linguistiche, è conservata in BPPr, Ms. pal., 998/7 ed edita in MB, II, pp. 327-340.630 Su Simonetta, oltre a SCT, v. E. SOL, Il card. Ludovico Simonetta datario di Pio IV e legato al Concilio di Trento, in «Archivio della Società Romana di Storia Patria», XXVI (1903), pp. 185-247 e, meglio, ALBERIGO, I vescovi italiani, cit., ad indicem.631 Lettera di Simonetta a Borromeo (Trento, 14 maggio 1562), edita in Šusta, II, pp. 127-130, qui cit. p. 128.

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alle cavillose insinuazioni di chi distorceva i decreti del concilio lateranense632

per dimostrarne l’incompatibilità con la residenza di diritto divino. Lo stesso Innocenzo III, che aveva riunito quell’assemblea, aveva dato ampie prove dell’alta considerazione in cui teneva il dovere di residenza: le deroghe previste dai canoni erano solo un rimedio alla «fragilità de gli huomini» che non legittimava l’assenza dei pastori dalle loro diocesi. Se poi si fosse riscontrata una qualche divergenza tra la norma conciliare e la legge prescritta da Dio era «più giusto interpretare quella del concilio al senso della Scrittura che quella della Scrittura alle false interpretationi del concilio». Il primato della residenza si saldava così al primato del testo biblico, supremo riferimento cui le leggi della Chiesa dovevano attenersi. Morone, tuttavia, aveva scritto che «quantunque questa cosa [della residenza] fosse vera, si dovea pretermettere essendo essa cagione di tante difficoltà et tanti travagli». Su questo nodo si produsse la frattura più grave tra il cardinale e i giusdivinisti, che in quel pronunciamento vedevano invece l’unica possibilità di riformare la Chiesa. E se Morone obiettava che i precedenti richiami del concilio alla residenza633 rendevano ogni ulteriore provvedimento inutile, Foscarari replicava incredulo: «Non si vede egli che con la provisione di quel concilio et di tanti altri, puochi hoggidì sono quelli che facciano la residenza?». Per riportare i popoli sotto l’obbedienza del papa, «il quale è capo legitimo della Chiesa di Dio», era necessario che fossero custoditi dai loro pastori («i vescovi ritenerebbono i popoli nell’obedienza della Santa Sede et li nutrirebbono nell’osservanza della dignità pontificia»). Il solo modo per ottenere quel risultato era rendere i vescovi «certi d’essere in peccato mortale ogni volta che non resedessero». Negare quella realtà evidente e sacrosanta conduceva al precipizio, coinvolgendo la Sede apostolica in un’eresia blasfema: «Mi parve cosa scandalosa – spiegò Foscarari – d’udire in publica congregatione che se bene così era che la residenza era de iure divino, che però si dovea tacere portando con sé la roina del papato: parvemi scandalosa, dico, perché non mi posso imaginare propositione più heretica di questa, perché se questa verità repugna al papato seguirebbe necessariamente ch’el papato fosse cosa finta et contraria alla parola di Dio, biastemma intolerabile». Incredibile oltre ogni misura era infine che da Roma si fossero accolti «simili voti con tanto applauso [...] come che essi con queste bugie sostentassero la religione et la fede» e che, per screditare i divinisti, non si fosse trovato di meglio che accusare il vescovo di Modena di essersi impegnato in maneggi pur di raccogliere voti. In risposta, il domenicano si limitò a descrivere il suo stile di vita, ascetico e rigoroso, scagliando una violenta accusa contro le tresche di Simonetta che avevano portato molti padri a forzare la propria coscienza:

Non è prelato in Trento tra italiani che stia più rinchiuso in casa di me et che meno prattica con altri. Io celebro in una chiesa vicinissima alla casa dove alloggio, et finita la messa me ne torno a casa, dove non veggo persona alcuna, et ivi me ne resto tutto il giorno. La casa è lontanissima dalla corte et non vi può venire alcuno se non per disgratia. Alla corte per ordinario non vo mai se non sono domandato. Alle congregationi ordinariamente sono sempre l’ultimo. Hora vegga Vostra illustrissima

632 Si trattatava delle costituzioni 29 e 32, rispettivamente Quod nullus habeat duo beneficia cum cura annexa e Ut patroni competentem portionem dimittant clericis; v. G. ALBERIGO et alii (a cura di), Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Basilea etc., 1962, pp. 224-226.633 Si tratta del Decretum de residentia episcoporum et aliorum inferiorum della VI sessione, ivi, pp. 657-659; SCT, II, pp. 391 ss.

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Signoria se uno di questa vita et di questa professione è habile a pratticare [...] Prattiche a me sono parute quelle che sono state fatte da alcuni cardinali legati con promettere et minazzare, le quali anchora han fatto quello effetto che desideravano, cioè hanno mutati molti da voti loro contro le loro conscientie et fattili dir quello a che gli repugnava l’animo.

Quello della coscienza, confortata dalle Scritture, era un confine invalicabile («Son convinto da innumeri testimoni della Scrittura, i quali di numero et di chiarezza trapassano di longo molte pruove [e]d alcuni articoli della fede nostra, [e] non solamente mi constringono ma mi violentano»). Di fronte a quella situazione intollerabile, Foscarari chiese pertanto a Morone di ottenergli la licenza di abbandonare il concilio. Accanto a ragioni personali e all’effettivo sconforto che dovette cogliere il domenicano, dietro la richiesta stava l’estremo tentativo di influenzare l’esito della discussione con un gesto clamoroso, un abbandono che avrebbe messo in imbarazzo Morone, privando il concilio di uno dei suoi esponenti più accreditati. «In Modena giovarei forse più pregando Nostro Signor che rivolga l’ira sua da noi et dalla sua santa Chiesa la quale va in roina et in horribilissimo precipìo et non vi si vede riparo, et quei pochi che si veggono sono sprezzati et interpretati in mala parte», constatava Foscarari affondando il coltello. Il proposito di lasciare l’assemblea aveva dunque contorni strategici e non a caso in relazione alla spinosa questione della residenza abbandonarono Trento dapprima Gallarati e, nel maggio del ‘63, anche Beccadelli. Foscarari invece fu tenuto sulle spine: da principio i legati gli chiesero di mediare per rimandare la trattazione della residenza di qualche mese634, poi Morone lo spronò a non «esser di così poca carità che per parole vane di alcuno abbandonasse il servitio della Chiesa universale»635. Nel frattempo cresceva la sua disperazione per le pastoie da cui il concilio non riusciva a togliersi. Il 25 maggio si lamentava per l’«horribile scandalo» cui doveva assistere ogni giorno: «Del concilio [...] non si può sperare alcuna cosa buona»; più onorevole tornare a Modena «perché stando così io mi morirò d’affanno»636. Il 1° giugno una malattia agli occhi – secondo alcuni una scusa che copriva «altre male satisfationi»637 – rendeva il rientro nella diocesi emiliana sempre più urgente638, sebbene non impedisse al vescovo di sottoscrivere una lettera in difesa dello ius divinum indirizzata al papa da trentuno padri639. Intorno al 25 giugno, convinto che la mancata approvazione della residenza avrebbe avuto pessime

634 La notizia è riportata da Calini, che ricordò come «i signori legati haveano dato carico ad alquanti prelati, cioè l’arcivescovo di Surrento, i vescovi di Sinigaglia, Modena, Chioggia, Brescia et Cremona che cercassero di disporre i prelati che domandavano questa determinatione, che si contentassero di rimetterla ad altro tempo [...] con maggiore commodità» (LC, pp. 181-184: 183; lettera del 25 maggio 1562).635 Così Calini ricostruì le esortazioni di Morone a Foscarari; v. LC, pp. 206-209.636 LM, cc. 306-307.637 Questo il giudizio dato il 25 giugno il cardinale Alessandro Farnese; cfr. CT, VIII, p. 640, nota 2 che cita ASV, Carte Farnesiane, 3, c. 149r.638 LM, cc. 308-309; lettera di Foscarari del 1° giugno 1562. 639 La lettera del 6 giugno 1562 e la relativa risposta sono edite in MB, II, pp. 223-227. Negli stessi giorni Foscarari ricevette le esortazioni di Gurone Bertano ad abbandonare la battaglia per la residenza di diritto divino, che poteva creare confusione nella Chiesa e produrre un assoggettamento dei vescovi ai poteri secolari; cfr. LM, cc. 310-313 (Nonantola, 5 giugno 1562; una copia della stessa, datata Bologna 16 luglio 1562, è in CFBo, Prima Parte, cc. 37r-39v).

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ripercussioni sul governo diocesano640, Foscarari ottenne l’agognata licenza e poté prepararsi a tornare alla sua Chiesa. Sul suo capo si sarebbe tuttavia consumato un abile gioco delle parti: Morone gli aveva ottenuto la licenza che chiedeva da un mese, ma i legati non avevano esitato a fermarlo quando era «già con li stivali in piedi [...] perché il mondo non ricevesse qualche scandalo»641. Bloccato il 1° luglio, «quando era per montare a cavallo», il vescovo di Modena constatò che attorno alla sua partenza si rincorrevano voci e impressioni di varia natura: «Vedea che alcuni interpretavano questa mia andata in mala parte et non mancavano di quelli che si scandalizavano di me», scrisse a Morone642. Cinque giorni dopo, però, ripeteva la consueta richiesta di poter lasciare il concilio, ormai persuaso che il suo apporto ai lavori fosse terminato643.Il tempo passò: la possibilità di lasciare Trento finì irrimediabilmente sullo sfondo e solo nell’aprile ‘63 Foscarari poté tornare per alcuni giorni nella sua diocesi644. Prima di allora, assunse invece un ruolo di mediazione: pur non abbandonando la speranza di ottenere qualcosa in tema di residenza, i suoi sforzi si diressero in modo crescente alla costruzione di un punto di equilibrio tra gli schieramenti. Nell’ottobre 1562 riprendevano le trattative per ammorbidire le posizioni degli spagnoli e trovare una qualche formula in cui sancire «che sebene il vescovato sia de iure divino, non preiudica però niente alla maestà dell’autorità di Sua Beatitudine»645. Il 9 novembre, con un tono controllato ma non meno deciso, Foscarari riferiva a Morone del suo intervento in congregazione: «Non mi parea di potermi astenere di dire che la superiorità de’ vescovi a’ preti era de iure divino, anchora che tutta la giurisdittione essi l’havessero dal papa ma l’haveano però prima per ordine da nostro Signor Dio, il quale havea statuito che Sua Santità governasse la Chiesa con l’opera et ministerio de’ vescovi, soggiungendo che parimente desiderava che nell’istesso canone si manifestasse la maestà del papa»646. Gli alambicchi retorici che avrebbero dovuto rassicurare Morone non facevano che confermare i suoi timori sul ruolo che sarebbe derivato ai vescovi dai pronunciamenti patrocinati dai divinisti. Allo stesso tempo, segnalavano il tentativo di trovare un compromesso che consentisse di superare il muro contro muro. Il 10 dicembre riprese il dibattito sulla residenza e il 19 Foscarari, precisando che avrebbe accettato il decreto qualora approvato dalla maggioranza dei 640 Lo si deduce da un passaggio di una lettera scritta a Morone il 22 giugno 1562: «Mi sforzarò di fare che Nostro Signor resti più sodisfatto di me in Modona che non è restato in Trento, attendendo con quella maggior diligenza che potrò a quel gregge, il quale è commesso da Nostro Signor Dio a Sua Santità, se bene mi si rappresentino molte più difficoltà di quello che havea quando venni a Trento» (BAV, Vat. lat., 6409, cc. 258r-259v).641 LC, pp. 210-212: 211; lettera del 2 luglio 1562.642 L’originale della missiva (2 luglio 1562) in BAV, Vat. lat., 6409, cc. 254r-255v. Cfr. anche ASV, Conc. Trid., 131, c. 43r.643 Cfr. LM, cc. 345-346; lettera del 6 luglio 1562. 644 Lo si apprende dagli atti del processo ad Agostino Centurione di cui si è detto (Foscarari fu assente alle battute finali del procedimento), e da una lettera con cui, il 18 aprile 1563, il vescovo riverì da Modena il duca d’Este annunciandogli che sarebbe presto tornato in concilio (ASMo, Giurisdizione Sovrana, Appendice B, c. non num.). Il 13 maggio era ancora in città, dove dirimeva una lite, come risulta da un rogito da lui sottoscritto (cfr. ASMo, Notarile, Modena, 1771, n. 401).645 Cfr. LM, cc. 394-395 (da cui è tratta la citazione) e 396-397; lettere di Foscarari del 25 e 29 ottobre 1562.646 Ivi, cc. 401-402. Il suo voto dell’8 novembre 1562 è in CT, IX, p. 146.

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padri, si spese perché si precisasse meglio il rigoroso obbligo di coscienza che la residenza comportava647. Gli schieramenti però restavano troppo distanti e, nel gennaio 1563, il cardinale di Lorena e Ludovico Madruzzo furono chiamati a presiedere una commissione che rielaborasse il decreto in discussione. Tra i 14 membri che ne fecero parte vi fu anche Foscarari cui il 23 gennaio fu affidato il compito di stilare, assieme ai vescovi di Lanciano, Lérida e Vieste – rispettivamente Leonardo Marini, Antonio Agustín e Ugo Boncompagni –, un nuovo testo, caduto sotto l’ennesimo colpo basso degli oppositori648. Dal canto suo Morone insisteva perché il vescovo di Modena desistesse da ogni menzione esplicita dello ius divinum e ribadisse la sua fedeltà al papa con un pubblico ragionamento sul pontefice come «rector universalis Ecclesiae»: «Il tacere il vero alcuna volta può esser fatto con sigurtà di conscientia», spiegò il porporato milanese quasi postulando la liceità di atteggiamenti nicodemitici649. Quegli avvertimenti, cui era sotteso l’accostamento tra la battaglia per la residenza e l’accusa di eresia, erano già giunti a Beccadelli, al quale il cardinale aveva fatto sapere che «esser mal disposto verso la Sede apostolica [...] vuol dire esser heretico»650. Foscarari – membro di una delle più antiche famiglie bolognesi «che favoreggiano la giurisdittione et l’autorità di Sua Santità» – ne rimase sdegnato, tanto da diffondersi in una vibrante difesa: «In tanti luochi, tante volte et con tanta chiarezza ho parlato dell’autorità del papa sopra il concilio et la Chiesa universale, che mi pare strano d’udire che non sia stato inteso infino dalle pietre [...] Non cedo ad alcun in riverire, osservare et desiderare la grandezza et la maestà di quella Santa Sede et [...] per questa verità, ch’el concilio è sottoposto al papa, morirò sempre volentieri»651. Nelle missive di quei giorni emergeva con evidenza lo sforzo di Morone di portare Foscarari su posizioni più accomodanti, alternando velate minacce al richiamo al bene supremo della Chiesa: il cardinale, che pure aveva favorito l’allontanamento dal concilio di autorevoli giusdivinisti come suo nipote Gallarati o Ludovico Beccadelli, era convinto – a ragione – che il domenicano sarebbe stato più utile in assemblea che fuori e che, dunque, valeva la pena di continuare nel tentativo di ammorbidirne i toni. La situazione comunque era in rapida evoluzione: di lì a poco sarebbero morti i due legati Ercole Gonzaga e Girolamo Seripando e lo stesso Morone avrebbe assunto il ruolo di presidente del concilio652. Fu proprio in quella nuova veste che il cardinale spese la credibilità di Foscarari per governare il dibattito sui punti più delicati. Nel giugno 1563, il vescovo di Modena fu incaricato di mediare con i francesi e gli spagnoli per trovare una possibile formula per il capitolo 5 del decreto sull’ordine sacro. Il nodo era, al solito, il riconoscimento delle prerogative pontificie e il loro difficile rapporto con la residenza de iure divino. Dopo laboriose trattative, verso la metà del mese si raggiunse uno schema di compromesso che, sebbene scartato a inizio luglio, costituì una buona base per gli accordi successivi653. Il 15 luglio 1563, con consumata abilità 647 Il suo voto ivi, IX, pp. 274-275: «Ponatur aliqua verba quibus ostendatur episcopos teneri ex conscientia ad residendum». 648 Cfr. SCT, IV/1, pp. 375-377 e i resoconti di Foscarari a Morone sui lavori della commissione in ASV, Conc. Trid., 32, cc. 18-20 (18 gennaio 1563), cc. 24-26 (25 gennaio 1563). 649 Lo si apprende dalla risposta datagli da Foscarari il 21 dicembre 1562, in LM, cc. 427-428.650 Cit. in FRAGNITO, La terza fase, cit., pp. 75-76.651 ASV, Conc. Trid., 32, cc. 82-83; lettera del 1° marzo 1563.652 Cfr. SCT, IV/1, pp. 405-412; IV/2, pp. 9 ss.653 Per la mediazione di Foscarari v. SCT, IV/2, pp. 77-84.

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diplomatica, Morone riuscì a far approvare il decreto de sacramento ordinis e i relativi canoni super reformatione che assorbivano, al primo punto, i dibattiti sulla residenza: l’obbligo di trattenersi nella propria diocesi era presentato come un comandamento divino («praeceptum divinum»), la cui trasgressione comportava un peccato mortale, e senza definizioni dogmatiche si stabilivano il dovere di vigilare sul proprio gregge e le legittime cause di assenza soggette al vaglio del papa o del vescovo metropolita654.Se con quell’atto si chiudeva la «grande crisi», sfumava anche un’idea di riforma fondata sul ruolo dei vescovi. A Foscarari non poterono sfuggire le implicazioni ecclesiologiche di quelle deliberazioni, né altre questioni di capitale importanza: l’assemblea non aveva riconciliato con la larghezza auspicata gli eretici usciti dal grembo della Chiesa, non aveva dato ai vescovi la legittimazione che si attendevano e aveva sancito la separazione con i protestanti. Non era riuscita, dunque, a riformare in profondità la Chiesa e a favorire una ricomposizione della cristianità. Cosa spinse allora Foscarari a restare in assemblea dopo il voltafaccia di Morone e la sconfitta dei divinisti, svolgendo peraltro l’importante ruolo di mediazione assegnatogli? A prevalere furono con ogni probabilità i convincimenti che lo avevano ispirato sin dalle sedute degli anni quaranta e cinquanta: il valore supremo dell’unità della Chiesa e l’obbedienza al papa che ne era simbolo e garante. A questo, di fatto, fecero appello Morone e i legati nelle fasi più acute della crisi: se Foscarari fosse partito sarebbe stato «periuro»655, disobbedendo all’ordine papale di prendere parte ai lavori, e il clamore derivante dal suo allontanamento avrebbe messo a rischio l’unità e il buon nome della Chiesa. Tutto ciò contribuì a placare lo sdegno del vescovo di Modena, convinto – o quantomeno speranzoso – che i misteriosi piani di Dio si sarebbero rivelati per mezzo del pontefice: «Credo che non sia se non bene seguitare il giudicio di Sua Beatitudine della quale si può credere certo che governarà [...] secondo che sarà inspirato da nostro Signor Dio et che havrà maniera di sedare quello scandalo che hoggi è nella Chiesa» 656.

Verso una nuova Chiesa: Indice, Catechismo, Breviario e Messale

Quando il concilio giunse al suo epilogo grazie al capolavoro diplomatico di Morone, i nodi in sospeso erano più di uno. Molte questioni erano state demandate alle successive determinazioni del papa, pur di non bloccare un’assemblea che era già durata un ventennio. Sin dalle proposte di riforma in cui, agli inizi del 1562, vari vescovi italiani avevano indicato le priorità su cui concentrarsi, era emersa la necessità di uniformare libri fondamentali per la liturgia e la preghiera quotidiana come il Breviario e il Messale657, e ancora prima si erano imposte la formulazione di un Catechismo e di un nuovo Indice dei libri proibiti. In tutte queste vicende – cui qui accenneremo rapidamente – Foscarari si trovò coinvolto in prima persona, anche in virtù di un passato che lo aveva visto protagonista sugli stessi fronti.

654 ALBERIGO et alii (a cura di), Conciliorum, cit., pp. 718-729. Cfr. anche SCT, IV/2, pp. 112-113. 655 LM, cc. 317-318; lettera di Foscarari dell’11 giugno 1562.656 Ivi, cc. 355-358; lettera di Foscarari del 20 luglio 1562.657 «Tam breviaria quam missalia reformanda essent et a multis ineptiis purganda» (CT, XIII/1, p. 610).

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L’8 gennaio 1564 il vescovo di Modena ricevette una lettera in cui Carlo Borromeo, per conto di Pio IV, gli ingiungeva di recarsi a Roma e «dare la debita perfettione et executione alle cose del concilio», lavorando sopra «l’Indice de libri et il Cathechismo»: il papa desiderava impiegarvi «quei medesimi padri a i quali era particolarmente data questa cura», tra cui appunto Foscarari658. Il criterio che aveva portato a coinvolgere il domenicano era, oltre al riconoscimento delle indubbie conoscenze teologiche, l’investitura che aveva ricevuto dall’assemblea conciliare. Pochi godevano del suo prestigio, accresciuto dalla battaglia sullo ius divinum e messo a frutto nella successiva collaborazione con Morone. Su questioni come quella dell’Indice, peraltro, Foscarari rifletteva da quasi quindici anni. Nel 1549, come si ricorderà, si era trovato a dover stilare un primo elenco di libri proibiti, poi passato al suo successore Girolamo Muzzarelli, e accontonato con l’ascesa al soglio di Paolo IV che aveva promulgato il severissimo Indice del 1558/59. La maggior parte dei padri che, dopo la morte di Carafa, si ritrovarono a Trento per la ripresa del concilio ebbero a convenire sulla necessità di rivedere l’Indice e, nel giugno 1561, Pio IV emanò un’apposita Moderatio Indicis che rispondesse allo scopo659. Papa Medici intercettava sentimenti diffusi, tra cui quelli di Foscarari. Discutendo con Morone delle proibizioni che avevano colpito i volgarizzamenti della Bibbia, il vescovo di Modena si pronunciò a favore di una revisione dell’Indice di Paolo IV: «Se l’Indice fa danno [...], si potrebbe più facilmente moderare [...] perché sì bene è nato da zelo, non so però se il sia zelo secundum scientiam»660. Erano parole misurate e rispettose che lasciavano tuttavia trasparire un giudizio molto chiaro: il rigore di Carafa era stato controproducente e la linea da perseguire – soprattutto in tema di accesso alle fonti della Rivelazione – era quella di un rigore «secondo scienza», ragionato e ragionevole. A ogni modo, il progetto di Pio IV di affidare al concilio la revisione dell’Indice fu ritenuta dall’aula una perdita di tempo che non ci si poteva permettere: nonostante il 14 gennaio 1562 un breve pontificio avesse affidato ai padri quell’incarico, molti dissero «che questa era una cosa imposibile [...] et che non era necessaria potendosi far molto più facilmente in Roma [...] che qui, dove portava incommodo perché levava il tempo di far cose di maggiore importanza et necessarie hora alla Chiesa; et era di puoca utilità perché mentre si farebbe questa censura si scriverebbono nuovi libri»661. Erano rilievi sensati; ma il concilio non si poté sottrarre alle direttive romane e il 17 febbraio662 fu costituita una commissione di diciotto membri – molti dei quali domenicani – composta tra gli altri da Foscarari e presieduta dall’arcivescovo di Praga von Müglitz663. Su spinta di quest’ultimo i lavori furono intensi: si cominciò a introdurre la possibilità di espurgare alcune opere, così da salvare, almeno in parte, la lettura di grandi autori della letteratura antica e recente (ad es. 658 CFBo, Parte Prima, cc. 42r-v.659 Cfr. in sintesi FRAGNITO, Proibito capire, cit., pp. 36 ss.660 LM, cc. 147-148; lettera di Foscarari del 25 settembre 1561, edita in CT, VIII, p. 250.661 LM, cc. 207-208, lettera di Foscarari del 2 febbraio 1562. Di qui in avanti, salvo diversa indicazione, le informazioni sono tratte da SCT, IV/2, pp. 334-342.662 Cfr. LM, cc. 216-217, lettera di Foscarari del 19 febbraio 1562: «Martedì [...] si fece la congregatione come era stata intimata, nella quale prima si publicarono i nomi di quelli che erano stati eletti alla censura dell’Indice romano et libri prohibiti».663 Il decreto di nomina in CT, VIII, pp. 328-329. Seguono i voti dei padri sul decreto «super indice librorum conficiendo», steso ancora una volta con la partecipazione di Foscarari.

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Boccaccio e Machiavelli); si eliminò il divieto che aveva colpito alcuni scienziati e giuristi del mondo tedesco la cui circolazione era fondamentale (Zasius, Gesner, ecc.); infine, su probabile impulso dello stesso Foscarari, si passarono dalla prima alla seconda classe le opere di Erasmo, i cui Adagia – opportunamente espurgati in vista della stampa – furono depositati dopo il concilio proprio presso il vescovo di Modena664. Secondo la testimonianza del legato Ludovico Simonetta, su Foscarari era ricaduta la revisione di buona parte dei testi di teologia665. Il 4 marzo 1563 i lavori erano avanzati e si dava inizio alla composizione della terza classe di libri proibiti666, finché a metà novembre l’Indice era sostanzialmente concluso667: si preferì tuttavia non sottoporlo all’aula per non ritardare l’imminente conclusione del concilio. Non è ora difficile capire perché Pio IV, una volta terminati i lavori dei padri, chiamasse a completare l’Indice personaggi che vi erano già stati coinvolti come Foscarari, l’ex segretario della commissione conciliare Francisco Foreiro668, e i vescovi di Zara, Muzio Calini, e di Lanciano, Leonardo Marini. Grazie all’ampio lavoro preliminare svolto a Trento, il 24 marzo 1564 – a soli tre mesi e mezzo dalla chiusura del concilio – il pontefice poteva promulgare il nuovo Indice669, che cercava di attribuire un maggior ruolo agli ordinari diocesani e alla Scrittura come strumento di «maturazione spirituale del credente»670. Divenuto papa due anni più tardi, il sommo inquisitore Michele Ghislieri avrebbe dato avvio allo smantellamento di quelle misure recuperando molte delle censure paoline; per il momento però le cose sembravano volgere in un’altra direzione. Dal canto suo, Foscarari si assunse in pieno la responsabilità del lavoro e negò che le autorità curiali avessero indebitamente aggiunto o tolto qualcosa rispetto a quanto aveva scritto: «Se nel testo si trova qualcosa di non gradito – scriveva al cardinale di Lorena – è da imputare soltanto a coloro a cui il concilio affidò tale incarico: essi infatti l’hanno compilato nella stessa forma in cui lo si può vedere»671. Parole che, in altri 664 La consegna delle censure sugli Adagia a Foscarari è attestata da un documento conservato presso l’Archivio del Sant’Ufficio ed edito in J.I. TELLECHEA IDÍGORAS, La aprobación del Catecismo de Carranza en Trento con noticias sobre la Comisión del Index (1563), in «Scriptorium Victoriense», XXXIV (1987), pp. 348-402: 397-402 (ripreso in ILI, 8, pp. 106-108). La regia del vescovo di Modena nello spostamento dell’opera di Erasmo dalla prima alla seconda classe è ipotizzata da S. SEIDEL MENCHI, Sette modi di censurare Erasmo, in ROZZO (a cura di), La censura libraria, cit., pp. 177-206, che segue anche il successivo – e più rigoroso – percorso di espurgazione degli Adagia a opera di Eustachio Locatelli e Paolo Manuzio. Il testo fu infine pubblicato dai Giunta nel ‘75, omettendo il nome di Erasmo; cfr. P.F. GRENDLER, The Adages of Paolo Manuzio, in J.V. MEHL (a cura di), In laudem Caroli: Renaissance and Reformation studies for Charles G. Nauert, Kirksville 1998, pp. 1-21.665 TELLECHEA IDÍGORAS, La aprobación, cit., p. 357.666 «Hoggi s’è dato principio alla terza classe»; ASV, Conc. Trid., 32, cc. 92-93 (lettera di Foscarari a Morone; Trento, 4 marzo 1563). 667 «L’Indice de’ libri et el Catechismo intendo che è ad ordine et che presto anco si daranno fuori», scriveva il 18 novembre 1563 il segretario Ludovico Nucci ad Astorre Paleotti; cit. in CT, XIII/1, p. 754, n. 1.668 Su Foreiro, v. A.C. DA COSTA GOMES, J.A. MOURÃO in DSI, II, pp. 613-614; Quétif-Echard, II, pp. 261-263. Per l’azione del domenicano nella redazione del Catechismo romano, su cui torneremo tra breve, cfr. R. LANZETTI, Francisco Foreiro o la continuidad entre el Concilio de Trento y el Catecismo Romano, in «Scripta theologica», 16 (1984), pp. 451-458.669 Cfr. costituzione Dominici gregis, riportata in apertura dell’Index librorum prohibitorum. 670 FRAGNITO, Proibito capire, cit., p. 42.671 Traduzione nostra. «Si quae in eo [Indice] reperiuntur quae minus arrideant, iis tantum imputandum est quibus haec provincia a concilio ipso demandata est: ipsi enim talem

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termini, confermano come l’Indice fosse pressoché concluso già sul finire del concilio. Ben diverso fu invece il percorso del Catechismo che, al termine dell’assemblea, restava in alto mare. Il problema di dotare la cattolicità di un catechismo unico che superasse una produzione localistica e frammentaria si pose sin dalle prime battute del concilio672. La questione divenne sempre più urgente e, come scrisse Foscarari a Morone il 22 gennaio 1562, i padri ritenevano «che sarebbe bene comporre un cathechismo, parendogli che fosse meglio che ogni Chiesa havesse un catechismo per authorità d’un concilio che per autorità d’uno particolare»673. Dopo alterne vicende e false partenze, il 15 luglio 1563 venne creata una commissione ad hoc. L’assenza di risultati tangibili spinse i legati, verso fine ottobre, ad affidare l’incarico a un gruppo ristretto di prelati (Muzio Calini, Gian Carlo Bovio, Sebastiano Minturno e Pedro Fontidueña) i quali, tuttavia, meno di un mese più tardi vedevano interrotto il proprio lavoro. La chiusura dell’assemblea coincise con la delega dei lavori alla Santa Sede, che vi prepose gli stessi uomini che si sarebbero dovuti occupare dell’Indice: Foscarari, Calini, Marini e Foreiro. Indice e Catechismo nascevano pertanto strettamente connessi e a determinare la scelta di Pio IV di servirsi di una commissione di padri conciliari furono, oltre a motivi pratici, l’esigenza di avallare con l’autorità di illustri esponenti del concilio un Catechismo elaborato a Roma, che di tridentino conservava soprattutto il nome. Per ciò che è possibile stabilire, a febbraio i quattro membri della commissione si recarono nell’Urbe e già da marzo erano al lavoro sul testo, sebbene l’impresa paresse ardua e ancora molti mesi di lavoro si prospettassero. In più si ventilava l’ipotesi che Foscarari – per quanto contrario – potesse essere coinvolto in una legazione pontificia in Germania al fianco di Morone o dovesse partire quanto prima per la sua chiesa, «come dice in ogni modo di voler fare, come quello che non può tolerare l’assenza del suo gregge»674. Nessuno dei due progetti ebbe seguito: ad aprile Foscarari stava ancora lavorando al testo nella speranza di concludere velocemente675, mentre a maggio chiedeva, assieme a Calini, di poter rientrare nelle sua diocesi a causa delle cattive condizioni di salute in cui entrambi versavano676. Quelle ragioni non furono constituerunt qualem videre possumus» (CFBo, cc. 68r-70r, lettera di Foscarari al cardinale Carlo di Lorena; Roma, 6 agosto 1564: l’identità del destinatario, non dichiarata nella missiva, è desumibile da alcuni riferimenti testuali a vescovi dell’entourage del cardinale di Lorena). 672 Sul Catechismo v. P. RODRÍGUEZ, R. LANZETTI, El catecismo romano: fuentes e historia del texto y de la redaccion, Pamplona 1982 e I. ADEVA, P. RODRÍGUEZ (a cura di), Catechismus Romanus seu Catechismus ex Decreto Concilii Tridentini ad Parochos [...], edizione critica, Città del Vaticano-Pamplona 1989. Alcuni dei documenti citati di seguito integrano o correggono la ricostruzione storica proposta dai curatori. 673 LM, cc. 191-192.674 LCB, pp. 76-78 (Roma, 31 marzo 1564). In una successiva lettera del 3 aprile Calini aggiornava Beccadelli sulle ritrosie di Foscarari: «A mons. di Modena non è stato ancho detto nulla [sulla legazione] per parte della Santità di Nostro Signore. Ma da ogni parte gli vien detto quello che non vorrebbe intendere, cioè che gli converrà andare, andando il legato, il che s’ha per risoluto» (ivi, p. 79). 675 Così scriveva Foscarari al duca di Ferrara: «Infino ad hora s’è data opera al finimento dello Indice de libri dannati [...] Resta il Catechismo et non so che altro. Quando questo sarà espedito, il che spero sarà presto, verrò a far quello che è servitio di Nostro Signore Dio» (ASMo, Giurisdizione sovrana, 261, fsc. 66, c. 175; lettera del 22 aprile 1564). 676 Lo si apprende da una missiva di Calini a Marco Loredano: «Trovandomi assai debole et considerando che malamente potrei in queste occupationi ristorarmi, massimamente havendo già vicino il caldo romano, ho pensato con questa occasione di poter giustamente domandar

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sufficienti: i due continuarono a essere trattenuti a Roma677, spostandosi per qualche tempo dal Vaticano a Palazzo Venezia, e ad agosto Foscarari esprimeva ancora una volta l’auspicio di poter tornare a Modena nel giro di un mese678. Una bozza del testo doveva essere pressoché pronta il 2 settembre, quando Calini confidava a Beccadelli, di essere ormai alla fine del lavoro, cui mancava solo una revisione linguistica («rimane di farle mettere in buona forma»)679. Il materiale fu così consegnato al latinista novarese Giulio Poggiano, e il 15 dicembre l’impresa era completata: «Con la gratia di Dio benedetto – scrisse l’arcivescovo di Zara – habbiamo posto fine alle nostre fatiche»680. Il 20 gennaio successivo Borromeo poteva così comunicare al cardinale Hosius che il Catechismo era pronto («Catechismum habemus iam absolutum doctissimorumque hominum sapientia atque industria elaboratum»)681. A dispetto di quelle parole, però, solo nel 1566, regnante Pio V, il testo sarebbe effettivamente andato in stampa, sotto il titolo di Catechismus ad parochos.Tralasciando in questa sede le vicende successive al dicembre ‘64, è certo che a quella data Foscarari, ormai prossimo alla morte, stesse dedicando i suoi ultimi giorni alla revisione del Breviario e del Messale682. La riforma dei libri liturgici era in discussione da tempo: di una revisione del Breviario si era occupato, negli anni trenta del Cinquecento, il cardinale di Santa Croce Francisco Quiñones683, che aveva proceduto a rivedere il testo (pubblicato nel 1535), in modo che il Salterio fosse recitato per intero durante la settimana, con una lunghezza uniforme degli uffici nei vari giorni e una lettura dei brani principali della Scrittura nel corso dell’anno liturgico. Tra il 1524 e il 1529 anche i Teatini di Gian Pietro Carafa furono incaricati da Clemente VII di elaborare un nuovo testo, la cui realizzazione tuttavia non andò mai in porto. La questione passò pertanto al concilio, dove il problema emerse a più riprese, licenza di venire alla mia chiesa; sì parimente è stato sforzato mon.re di Modena a fare per non perdere in tutto la sanità»; edita in A. MARANI (a cura di), Lettere postconciliari di Muzio Calini, Firenze 1979, p. 55 (Roma, maggio 1564?) e ADEVA, RODRÍGUEZ (a cura di), Catechismus Romanus, cit., p. 1279.677 È da correggere la notizia di un rientro di Calini a Zara nel giugno 1564, indicata da ADEVA, RODRÍGUEZ (a cura di), Catechismus Romanus, cit., p. LXXIV e forse basata sulla datazione congetturale di due lettere di Calini proposta da MARANI, Lettere postconciliari, cit., pp. 57-59. Le lettere di Calini a Beccadelli ne dimostrano l’ininterrotta presenza a Roma dal febbraio 1564 al gennaio 1565. Rientrò a Zara l’11 febbraio 1565 (cfr. LCB, pp. 69-109).678 «Spero circiter kalendis septembris me Mutinam reversurum»; CFBo, cc. 68r-70r (Roma, 6 agosto 1564).679 LCB, pp. 95-97; lettera del 2 settembre 1564). 680 Ivi, pp. 103-105; cfr. anche G. POGGIANO, Epistolae et orationes, Roma 1756-1765, III, pp. 448-449.681 La lettera è edita in ADEVA, RODRÍGUEZ (a cura di), Catechismus Romanus, cit., pp. 1280-1281.682 Sulla riforma dei libri liturgici, cfr. SCT, IV/2, pp. 344-348; H. JEDIN, Das Konzil von Trient und die Reform der Liturgischen Bücher, in ID., Kirche des Glaubens, cit., II, pp. 499-525; P. BATIFFOL, Histoire du bréviaire romain, Parigi 1911, pp. 233 ss.; S. BÄUMER, Histoire du bréviaire, Roma 1967 (ed. or. Parigi 1905); A.P. FRUTAZ, Contributo alla storia della riforma del Messale promulgato da San Pio V nel 1570, in Problemi di vita religiosa in Italia nel Cinquecento, Padova 1960, pp. 187-209. Una messa a punto sugli studi e una valutazione delle conseguenze delle riforme tridentine in S. DITCHFIELD, Tridentine worship and the cult of saints, in The Cambridge History of Christianity, vol. VI, Reform and expansion 1500-1660, a cura di R. PO-CHIA HSIA, Cambridge, 2007, pp. 201-224683 Nell’ampia bibliografia sul personaggio mi limito a segnalare J.I. TELLECHEA IDÍGORAS, F. VÍCTOR SÁNCHEZ GIL, Testamento del Cardenal Quiñones protector de la Orden Franciscana (OFM) y gobernador de Veroli († 1540), in «Archivum Franciscanum Historicum», 96 (2003), pp. 129-160, con abbondanti rinvii.

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fino a quando nell’estate del ‘63 i progetti di riforma presero maggiore consistenza. Tra luglio e ottobre Borromeo spedì a Trento i materiali preparatori prodotti nel corso dei tentativi precedenti, benché si continuasse a raccomandare che quell’impegno non ritardasse «la presta spedizione del concilio»684. L’unica soluzione per evitare un allungamento dei tempi era, come per l’Indice e il Catechismo, rimettere la questione nelle mani di Pio IV che di nuovo incaricò Foscarari, Calini e Marini685. Nell’agosto 1564 i tre erano già all’opera sul Breviario e, secondo la testimonianza del vescovo di Modena, stavano riformando il libro seguendo criteri precisi. A differenza di quanto fatto trent’anni prima da Quiñones, miravano a restaurare l’antico Breviario e non a crearne uno nuovo: il maggior peso era attribuito alla Scrittura (sensibilità già presente nella proposta del cardinale di Santa Croce) e, in subordine, ai commenti al vangelo, alle vite dei santi e alla tradizione patristica. Almeno due terzi delle lectiones previste per le varie ricorrenze dovevano provenire dalla Bibbia o da commenti a essa, confermando lo sforzo di un ritorno alle origini della tradizione cristiana686. Nello specifico, a Foscarari e a Poggiano fu affidato il compito di correggere e ripulire le vite dei santi presenti nella liturgia, in modo da renderle «più copiose» e vivaci, reintegrando tra l’altro cinquantacinque vite precedentemente escluse da Quiñones687. «Il Breviario è stato ricorretto alla forma del vecchio – scriveva Calini a Beccadelli al termine dei lavori – levando molte di quelle lungherie et perplessità et restituendo la lettione del Salterio et della Sacra Scrittura et rimovendo dalle historie de’ santi quello che è parso meno authentico»688. Criteri simili infine erano stati applicati al Messale, su cui alla fine del Quattrocento si era adoperato il cerimoniere pontificio Johann Burckard (Giovanni Burcardo)689, che nel suo Ordo Missae del 1498 aveva stabilito con precisione l’organizzazione delle diverse parti del rito. Il suo lavoro fu ripreso dalla commissione, che cercò di razionalizzare i testi liturgici e la loro articolazione nel corso della messa, uniformare il calendario e la scansione delle varie domeniche e conservare i testi antichi riscontrandoli sui manoscritti conservati presso la Biblioteca Vaticana. Il ricorso all’opera di Burckard consentì di procedere celermente, restituendo centralità alla Sacra Scrittura, come confermò Calini: «Nel Messale non è occorso far altro che levare molte cose aggiunte indiscretamente senza l’auttorità della santa Chiesa et distribuire talmente gli evangeli et le epistole che per il corso dell’anno si viene a leggere quasi tutto il Testamento nuovo»690. L’importanza della Bibbia, il ritorno alla purezza dei testi e, soprattutto, gli sforzi di razionalizzazione e uniformazione erano costati, tanto per il Messale quanto per il Breviario, l’abolizione di molti inserti devozionali, come le preghiere alla Madonna e ai santi che si recitavano in aggiunta all’ufficio feriale in vari giorni dell’anno. Su questo, ormai conclusi i lavori, si appuntarono gli ultimi pensieri di un Foscarari gravemente provato che, dal letto di malattia

684 Istruzione a Simonetta del 21 agosto 1563, in Šusta, IV, pp. 209-210. 685 Batiffol e Bäumer nominano anche la presenza del teatino Thomas Goldwell (su cui v. PM 2, I, p. 822), cui tuttavia Foscarari non farà mai riferimento nelle sue missive. 686 Lo si apprende dalla lettera, già richiamata, a Carlo di Lorenza, in CFBo, cc. 68r-70r.687 Cfr. BÄUMER, Histoire du bréviaire, cit., II, pp. 175-190: 181. 688 LCB, pp. 103-105; lettera del 15 dicembre 1564.689 Su cui cfr. I. WALTER in DBI, 15, pp. 405-408.690 LCB, pp. 103-105; lettera del 15 dicembre 1564.

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(«ex lecto»), si rivolgeva al papa chiedendogli di reinserire nel Breviario l’ufficio della Madonna, di cui aveva inizialmente consigliato l’eliminazione («chiedo alla Santità Vostra che, non considerando il mio primo parere, conservi nella Chiesa questo ufficio e così si invochi a ogni ora in perpetuo quella stella lucentissima che è la santa Vergine e i suoi coadiutori, tutti i santi»)691. Non è semplice interpretare il ripensamento di un uomo prossimo alla morte, vessato da forti dolori e forse attanagliato da estremi scrupoli di coscienza. Di certo, per la pubblicazione del Breviario ci sarebbero voluti ancora quattro anni e un’ulteriore revisione692. Allo stesso modo, il Messale non vide la luce prima del 1570, segno che su quei testi che avrebbero plasmato il culto ufficiale si desiderava procedere con prudenza. Incaricato dal papa di dare compimento ai lavori conciliari, Foscarari lavorò sui libri liturgici consumando le poche energie che gli restavano. Con la stessa obbedienza accolse, assieme a Calini, Ugo Boncompagni e Gabriele Paleotti, l’invito di Pio IV a stendere un trattato sul celibato ecclesiastico con cui rispondere all’imperatore Ferdinando I che auspicava il matrimonio per i sacerdoti693. Si trattava tuttavia di questioni che altri avrebbero risolto: non rimaneva infatti molto tempo da vivere e, mentre tramontava la scena del mondo, il domenicano si preparava all’ultimo viaggio.

691 Traduzione nostra. Così l’originale: «A Sanctitate Tua peto [...] ut, nulla prioris meae sententiae habita ratione, hoc divinum officium in Ecclesia [...] retinendum atque adeo illam stellam lucidissimam, sanctissimam Virginem, illosque adiutores omnes sanctos singulis horis perpetuo invocandos curet» (BAV, Ottobon. lat., 2366, c. 67r; lettera [copia] del 17 dicembre 1564, edita in G. Mercati, Opere minori, Città del Vaticano 1937, III, p. 277). 692 Nella commissione per il Breviario sarebbero entrati negli anni successivi Bernardino Scotti, presidente della congregazione, Guglielmo Sirleto, il canonico di San Pietro Curzio de Franchis, il teatino Vincenzo Masso e, forse, il futuro cardinale Antonio Carafa (cfr. BATIFFOL, Histoire, pp. 300-301).693 Cfr. P. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti, 1522-1598, Roma 1959-1967, I, pp. 209-210. Cfr. anche CFBo, cc. 68r-70r.

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Capitolo QuintoMemoria

L’immagine di un vescovo: modelli e anti-modelli

I lavori romani per la riforma dei libri liturgici provarono profondamente la salute già minata di Foscarari. Lo sguardo di Muzio Calini, suo compagno nell’impresa, seguì con attenzione l’evoluzione di una malattia che avrebbe condotto a morte il domenicano nel giro di qualche mese. Il 6 maggio 1564 Foscarari aveva cominciato «a pigliare acqua [depurativa] per difficoltà d’orina, che procedeva da humori grossi», e nonostante i dolori e la febbre non abbandonava l’incarico affidatogli694. Qualche giorno dopo l’espulsione di un calcolo rivelava quale era il male che affliggeva il vescovo di Modena («ha gittato una pietra grossa quasi quanto un cece»)695 e, almeno per qualche mese, la situazione sembrò risolversi. Quando intorno alla metà di dicembre il papa si apprestava a licenziare Foscarari, Calini e Marini, terminata la revisione di Breviario e Messale, le cose purtroppo si complicarono. Sebbene avesse progettato di partire subito per la sua chiesa così da potervi celebrare le feste di Natale, nella notte tra il 13 e il 14 dicembre Foscarari fu colpito da «una ritentione d’orina così grave et pericolosa» che i suoi compagni temettero «con grandissima paura che lasciandoci qui soli se ne andasse a Paradiso»696. Alla notizia «della desperata salute del nostro santo Mutinense», Ludovico Beccadelli – costantemente aggiornato da Calini e intimo di Foscarari – fu colto da una profonda tristezza, paragonabile solo a quella per «li reverendissimi Contarino et Polo o papa Marcello medesimo»697. La situazione in effetti stava per precipitare, complici le dolorose cure dei «siringatori» che invano tentavano di far espellere i calcoli. La preoccupazione aveva spinto Calini a procrastinare il rientro nella sua diocesi, e il 22 dicembre Foscarari si spense «con [...] acerbissimi dolori» a causa delle ulcere che il cattivo uso della siringa gli aveva provocato698. Il giorno dopo fu sepolto alla Minerva699, sede della curia generalizia dei domenicani, e luogo in cui, nel giro di qualche tempo, avrebbero trovato ospitalità anche le spoglie di Morone e il monumento funebre di Paolo IV. La morte di Foscarari nel cuore della cristianità, nella Roma in cui stava faticando per dotare la Chiesa dei suoi testi di riferimento, era destinata a consolidarne la fama di santità. Fu lo stesso Calini a diventare uno dei principali 694 LCB, pp. 82-83. 695 Ivi, pp. 83-84; lettera da Roma, 13 maggio 1564.696 Ivi, pp. 103-105; lettera da Roma, 15 dicembre 1564.697 BPPr, Ms. pal., 1013, c. 149r; lettera di Beccadelli a Calini, [Firenze], 29 dicembre 1564 (una minuta della stessa con alcune varianti è in Ms. pal., 1016/1, cc. 34v-35r). Nonostante la lettera sia successiva alla morte di Foscarari, Beccadelli non ne era ancora al corrente e rispondeva alla precedente missiva di Calini del 15 dicembre.698 LCB, p. 106; lettera da Roma, 23 dicembre 1564, da cui sono tratte anche le informazioni e la citazione che segue. 699 Due anni e mezzo più tardi sulla sua tomba venne posta una lapide che ne celebrava la pietà, l’apporto dato ai lavori conciliari e la sua opera per il Catechismo, Breviario e Messale. Una trascrizione della stessa in SILINGARDI, Catalogus omnium episcoporum, cit., p. 142 e FANTUZZI, Notizie, III, cit., p. 351. In essa la data di morte è fissata al 23 dicembre.

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propagatori di quell’immagine, anche in virtù del legame di affetto con quel «dolce et savio padrone et padre», ormai «andato a ricevere in cielo il premio di tali et così eccellenti virtù». E fu anzitutto l’impegno infaticabile e senza risparmio a servizio della Chiesa ad assurgere a causa principale di una morte interpretata come martirio incruento. A fornire questa visione furono, come detto, Calini e, per suo tramite, Beccadelli. In una missiva scritta quattro anni dopo gli eventi, il primo ricordava quanto lo avesse privato «delli spiriti più vitali quella fatica del Catechismo; la quale se per altro hebbe felice fine, per questo certo fu lacrimevole: perché si fece perdita di quel santo et singolar huomo, il vescovo di Modena»700. Il 30 dicembre 1564, una versione analoga fu fornita da Beccadelli al suo successore a Ragusa, il benedettino Crisostomo Calvini: «Monsignor di Modena, specchio veramente delli prelati italiani, è passato a miglior vita in Roma, dopo fornite le fatiche di Catechismo, Breviario et Messale»701. Anche Filippo Gheri, appena venuto a conoscenza della notizia, ne era rimasto profondamente impressionato, «molto più ch’io non havrei potuto imaginarmi»702. Quella morte – scrisse Calini allo stesso Gheri – aveva rivelato «più [...] che in vita il merito di così raro et nobile soggetto». Seguiva un lungo resoconto che dipingeva l’eroica agonia di una «santa anima» divenuta «schuola di tanta perfettione»703. Affaticato nel parlare e consapevole di morire, Foscarari mostrò «grandissima allegrezza», agognando il premio eterno («O quanto vo io volentieri – diceva –; ma che facciamo che non si spacciamo?»). Durante la sua agonia aveva chiesto che fosse recitato il Salterio, cui partecipava di quando in quando, nei passaggi in cui la preghiera preconizzava la gloria del paradiso («Satiabor cum apparuerit gloria tua», «In pace in idipsum dormiam et requiescam»). Il racconto celebrava la virtù del domenicano che, superato ogni timore, abbracciava la morte per giungere al traguardo finale. Secondo i canoni della tradizione agiografica, Foscarari aveva presagito l’imminenza della fine («gli pareva di non dover giunger a Modena») e, per nulla spaventato, attendeva il giudice supremo cantando inni e salmi che esprimevano l’abbandono fiducioso a Dio. Al di là di ogni retorica, quella morte colpì quanti vi assistettero: Beccadelli le dedicò un sonetto704, e Gabriele Paleotti il 31 dicembre 1564 narrò in una lunga lettera al cardinale di Lorena l’edificante scomparsa di Foscarari, cui aveva presenziato705. Gli ultimi giorni 700 LCB, pp. 128-130; lettera di Calini a Beccadelli, Terni, 20 gennaio 1569.701 BPPr, Ms. pal., 1013, cc. 149v-150r; [Firenze], 30 dicembre 1564 (la minuta con alcune varianti è in Ms. pal., 1016/1, cc. 35v-36r). Il testo è integralmente edito in MB, I/1, pp. 147-148.702 BPPr, Ms. pal., 1023/7, c. 102r; lettera di Gheri a Beccadelli, Assisi, 30 dicembre 1564. Su Gheri cfr. PM 2, I, pp. 509-510.703 BPPr, Ms. pal., 1028/3, cc. 10r-13v; lettera di Calini a Gheri, Roma, 3 gennaio 1565, da cui sono tratte le citazioni successive. La missiva è stata pubblicata, con alcune sviste, da A. MARANI, Muzio Calini a Filippo Gerio e la morte del Foscarini [sic], in «Brixia Sacra», n.s., IV (1969), pp. 145-150: 147-149.704 BCABo, Ms. B 233 (Vita di monsignor Lodovico Beccadelli scritta da Antonio Gigante con Poesie del Beccadelli ed altri), p. 129; Per mons. Egidio Foscararo vescovo di Modena: «A che por tanto amor a questo inferno| c’ha nome vita, se di nuovi affanni| sempre s’avanza et con diversi inganni| primavera ne cangia in aspro verno?|| Modena mia, come ciò ben chiaro discerno| ne li nostri communi et gravi danni:| perso il gran padre che quatordeci anni| de la tua nave in mar tenne il governo;|| et con la vista di quell’alta mente| ch’i cieli penetrò ricca et secura| a porto la scorgea felicemente.|| Ahi com’è ver, ch’avida morte fura| prima i migliori, et che per noi repente| quinci fugge il piacer, ma il pianto dura».705 La notizia è riportata da PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti, cit., I, p. 135 che fa riferimento a una minuta, fortemente danneggiata, in ACIBo, f. 31, min. I, f. 244. Nonostante le richieste

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del domenicano consacrarono dunque la sua immagine di modello esemplare di vescovo. Nel racconto di Calini era però presente una screpolatura di non poco conto. La sera prima della progettata partenza per Modena Foscarari si era infatti congedato da un certo «messer Tullio», che evidentemente doveva essere noto a Gheri, destinatario della missiva. Con tutte le cautele del caso, non è fuori luogo ipotizzare che si trattasse di Tullio Crispoldi, verosimilmente a Roma in quel periodo706: si è visto come Foscarari avesse fatto circolare durante le ultime sessioni conciliari il Commento del reatino al vangelo di Matteo e come, nel 1559, fossero state stampate a Modena le Considerationi et avertimenti spirituali, con il beneplacito dell’inquisitore Domenico da Imola, fiduciario dello stesso Foscarari. Prendendo per buona questa ipotesi, la morte edificante del domenicano e il suo soggiorno romano per la riforma dei libri liturgici sarebbero stati accompagnati dalla frequentazione di un personaggio che si era mosso ambiguamente sul crinale tra eresia e ortodossia, sollevando ancora una volta interrogativi di non facile soluzione. Come che sia, l’integrità e il rigore di Foscarari filtrarono nella galleria dei vescovi riformatori, trovando posto ad esempio nella biografia di Carlo Borromeo, prototipo del pastore ideale. Carlo Bascapè ricordò il ruolo fondamentale svolto dal vescovo di Modena nella formazione del carattere ascetico del giovane Borromeo, cui fu consigliato di abbandonare gli esercizi fisici e le passeggiate che distoglievano dallo studio e dalla meditazione707. In effetti, la figura di Foscarari e la sua spiritualità esercitarono un notevole ascendente sull’allora cardinal nepote che si ripromise di seguirne l’esempio nella prova della morte708; nel 1575, di passaggio a Modena, si informò poi «della vita del vescovo Egidio, molto amato da lui», ricevendo «alcune scritture di mano del medesimo [Foscarari]». Si trattava di un’opera, o forse semplici appunti personali, in cui il domenicano aveva descritto la giornata del vescovo, con «la distribuzione di tutte le ore distintamente applicate al tempo delle orazioni mentali, del divino officio, dello studio, della celebrazione della messa, dei negozi, delle udienze, della refezione e delle congregazioni, con alcune orazioni della mattina». L’interesse di Borromeo per un simile testo collocava Foscarari tra i suoi maestri e, certamente, tra i modelli da imitare709. Quelle carte erano gelosamente custodite dal conte Fulvio Rangoni, che ancora nel 1583 sollecitava Borromeo a restituirgli i «libretti del vescovo Egidio»710 (non è

inoltrate, l’accesso all’archivio non è attualmente consentito agli studiosi. 706 Nel 1565 Crispoldi pubblicò uno scritto sull’assistenza ai condannati a morte rivolto alla compagnia di San Giovanni decollato di Roma (Alcune ragioni da confortar coloro che per la giustitia publica si trovano condannati alla morte, Roma, Valerio Dorico, 1565), vicenda che potrebbe suffragare una sua presenza in città in quegli anni; cfr. SALVETTO, Tullio Crispoldi, cit., p. 258.707 Cfr. C. BASCAPÉ, De vita et rebus gestis Caroli S.R.E. cardinalis [...] archiepiscopi Mediolani, Ingolstadt 1592, p. 14 [lib. I, cap. V]. 708 Cfr. G. ALBERIGO, Carlo del mito, Carlo della storia, in Il grande Borromeo tra storia e fede, Milano 1984, pp. 127-219: 155, che insiste sul ruolo chiave di Foscarari nell’offrire a Borromeo una «felice sintesi [...] tra una intensa vita spirituale, un impegno pastorale inconsueto, una sofferta fedeltà alla Chiesa». 709 La notizia è riportata nella deposizione di Giovanni Fontana, già vicario di Borromeo, in Processo diocesano informativo della vita di S. Carlo Borromeo, in «Memorie storiche della diocesi di Milano», IX (1962), qui cit. pp. 153-154; cfr. M. MARZOLA, Giovanni Fontana alla scuola di Carlo Borromeo avanti l’episcopato ferrarese, Ferrara 2000, pp. 18-19.710 BAMi, F 61 inf., cc. 108r-109v; lettera del 15 novembre 1583.

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chiaro se quelli di cui si è detto o altri), e in data imprecisata lo invitava a prendere sotto la sua protezione il più stretto collaboratore di Foscarari, fra Domenico da Imola711. Parole di ammirazione per il vescovo di Modena ebbe un altro uomo vicino a Borromeo come Giovanni Fontana, promosso più tardi alla diocesi di Ferrara712. Di origini modenesi e vicario a Milano per vari anni, ricordò la predizione fatta da Foscarari a un giovane tredicenne cui stava conferendo la prima tonsura: «Restando molto soddisfatto della sua prontezza e vivacità d’ingegno, lo persuase a studiare dicendoli, che sarebbe vicario di Modena. Il che seguì nel tempo del suo successore»713. In grande stima, come accennato, lo tenne anche Gabriele Paleotti, che ne esaltò le qualità e la capacità di resistere all’ingiusta carcerazione: «Chi dubiterà del vescovo di Modena, che sempre superò le calunnie scagliate dai maldicenti con una costante innocenza di vita e una pietà congiunta, come accade agli uomini probi, a una singolare conoscenza delle cose divine?»714. I loro nomi furono associati in varie circostanze, come quando nel 1565 la promozione di Paleotti al cardinalato venne proposta da Calini come salutare «alleviamento» dell’«acerbità» prodotta dalla scomparsa di Foscarari715. I due del resto avrebbero forse dovuto sedere l’uno accanto all’altro nel sacro collegio: l’elevazione del domenicano alla porpora, sfumata nell’estate del ‘60, pareva infatti a portata di mano dopo l’azione svolta per la stesura del Catechismo, del Breviario e del Messale. Probabilmente Foscarari sarebbe stato promosso nella tornata del 12 marzo ‘65, come affermò suo zio Romeo716 e come si legge nella pur apologetica Istoria del concilio di Sforza Pallavicini717: il rapido deterioramento delle sue condizioni di salute, tuttavia, troncò sul nascere ogni possibile promozione. Se questo è il modo in cui la vicenda di Foscarari venne interpretata da alcuni autorevoli vescovi riformatori, negli stessi anni si fece largo un’altra lettura destinata a prevalere. In molti non erano disposti a dimenticare l’aiuto da lui 711 Borromeo così rispondeva a Rangoni: «Ho ricevuto la lettera di V.S. sopra il padre fra Domenico già compagno della bona memoria del vescovo Egidio, ma non è poi stato da me esso padre [...] Io lo vedrò sempre volentieri» (BAMi, P 7 inf., cc. 517r-v). Verosimilmente fu proprio Domenico da Imola a trasmettere a Rangoni le scritture di Foscarari, forse per salvarle dalla distruzione o dalla confisca.712 Su Fontana, v. MARZOLA, Giovanni Fontana cit. e L. PALIOTTO, Giovanni Fontana vescovo di Ferrara, 1590-1611, Ferrara 2002. 713 Processo diocesano informativo, cit., pp. 153-154. MARZOLA, Giovanni Fontana, cit., p. 738 ipotizza che Fontana alluda a se stesso; potrebbe trattarsi invece di Gaspare Silingardi, nato nel 1537 (e dunque tredicenne all’arrivo di Foscarari a Modena), vicario dalla fine del 1564. 714 Traduzione da CT, III/1, p. 293: «De episcopo Mutinensi [...] quis dubitet, cum perpetua eius vitae innocentia ac pietas cum singulari rerum divinarum scientia coniuncta apud probos viros omnem prorsus turpidunis notam a malevolis disiectam semper superaverit?».715 Lettera di Calini a Paleotti; Zara, aprile 1565, edita in MARANI (a cura di), Lettere postconciliari, cit., p. 63. 716 Intorno al marzo 1565, Romeo Foscarari si rallegrò con Gabriele Paleotti per la sua elevazione alla porpora, rammaricandosi di non aver potuto vedere la nomina cardinalizia del nipote per la sua prematura scomparsa; cfr. PRODI, Il cardinale Gabriele Paleotti, cit., I, p. 216 (che cita ACIBo, f. 293-3).717 «Il vescovo di Modona, uomo eccellente in dottrina [...] era già morto avanti alla promozione», cfr. Opere del cardinale Sforza Pallavicino, Milano, Bettoni, 1834, II, p. 394 [Istoria del concilio di Trento, XXIV, 13] che cita Foscarari come esempio di sostenitore della residenza de iure divino cui Pio IV avrebbre voluto concedere la porpora, dimentico delle dure contrapposizioni conciliari.

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prestato a Morone e agli «spirituali», né a permettere che quell’uomo entrasse nella galleria dei vescovi da imitare. Appena conclusa la parentesi di Pio IV e salito al soglio Michele Ghislieri (1566), l’Inquisizione poté proseguire la marcia inaugurata nella stagione di papa Carafa. Nello specifico, il quadro cambiò radicalmente nei primi anni settanta quando dagli archivi della curia modenese emersero le prove delle assoluzioni amministrate da Foscarari agli eretici della sua diocesi. Il sacro tribunale, a quanto si deduce, non ne dovette sapere granché fino ad allora, e un concorso di eventi permise quella scoperta. Nel novembre 1571 Morone, tornato a Modena dopo la morte di Foscarari grazie al diritto di regresso, diede le dimissioni e al suo posto venne insignito della mitra vescovile frate Sisto Visdomini da Como718, già viceinquisitore della città. Un altro domenicano, molto diverso da Foscarari, il cui mandato non prevedeva assoluzioni private degli eretici, ma una totale deferenza nei confronti del tribunale di fede. Era stato lo stesso Morone, pienamente consapevole della fisionomia ormai assunta dalla Chiesa post-tridentina, a caldeggiarne la nomina719, e da Roma ci si volle sincerare che il nuovo arrivato avesse le idee chiare sulla condotta da tenere. Le lettere che gli giunsero nei primi mesi del suo mandato contenevano avvertimenti e minacce che alludevano a Foscarari come esempio da non seguire. Il 20 novembre 1571, il cardinale Vincenzo Giustiniani, viceprotettore dei Domenicani720, gli indicò la regola aurea per evitare «fastidii» nel governo di «una chiesa honorata ma pericolosa»: «Alcuno di suoi predecessori (parlo di monsignor Egidio) ha patito assai; conviene che lei c’ha l’essempio avan[ti] gli occhi, antiveda di non venir a quelli termini». Bisognava evitare improprie invasioni di campo, anzitutto non occupandosi di questioni di eresia. Foscarari era la prova di ciò che poteva accadere quando un vescovo si sostituiva ai giudici, usurpandone le prerogative. La diagnosi di Giustiniani indicava con precisione la colpa di cui Foscarari si era macchiato: «la humanità, il dissimular, il voler proceder con [gli eretici] benignamente et pensar di vincerli con ragione o persuasione è tutto perso». Era importante, proseguiva il cardinale, che Visdomini non prendesse confidenza con i sospetti o i loro parenti, si mostrasse sempre obbediente nei confronti dei cardinali del Sant’Ufficio («ché la può esser certa [...] ovvierà a molti travagli che gli ponno succedere»). I tempi erano irrimediabilmente cambiati e per non acquistare «mal nome» c’era bisogno «di rigor e castigo»721. Un paio di settimane dopo erano gli stessi cardinali del Sant’Ufficio a far sentire la loro voce, con toni ancora più risoluti. Il 5 dicembre Gianfrancesco Gambara722 avvertiva Visdomini che la città in cui si era insediato, «forse per qualche reliquia di semi vecchi», aveva bisogno di un vescovo «diligente» che sapesse «mescolar la destrezza con la severità et usar l’una et l’altra quando bisogna». Al solito non si trattava di un consiglio disincarnato: «La bona memoria di monsignor di Modena, già suo predecessore, per haver voluto usar sempre la mansuetudine et la piacevolezza, si giudica che non habbia fatto tutto quello che havrebbe potuto per servitio della sua chiesa». La mitezza di Foscarari era stata dannosa e aveva tradito l’intero ordine domenicano:

718 Su Visdomini, v. M. AL KALAK in DSI, III, p. 1693 (con bibliografia).719 Cfr. ASMo, Giurisdizione sovrana, 264, cc. 29-30; lettera del 17 novembre 1571 al duca di Ferrara.720 Cfr. FORTE, The cardinal-protector, cit., p. 68 (e rinvii bibliografici).721 ACMo, cod. O.V.45, cc. 52r-v; edita in AL KALAK, Gli eretici, cit., pp. 211-212.722 Su cui v. M. DI SIVO in DBI, 52, pp. 42-45 e A. KÖLLER in DSI, II, pp. 642-643.

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«Vostra Signoria sa che ‘l Santo Offitio si suol riposare assai nei vescovi che sono stati creati de l’ordine de l’inquisitori; però quando quelli non facessero il debito loro, sarebbe manco male o che non ci fossero vescovi overo che ci fussino di quelli nei quali il Santo Offitio non confida». Era un giudizio severo e inappellabile in cui si affermava che, piuttosto che pastori ambigui come Foscarari, era preferibile che le diocesi fossero senza guida o avessero a capo vescovi in contrasto aperto, e dunque riconoscibile, con il Sant’Ufficio723. Insomma, nel giro di pochi anni dalla sua morte, «monsignor Egidio» era diventato un vero e proprio anti-modello. L’offensiva post mortem del Sant’Ufficio puntava ad acquisire prove della condotta di Foscarari forse anche in relazione alla ventilata riapertura del processo contro Morone, in cui Modena e i suoi eretici non avevano certo un peso secondario. Allo scopo di trovare documenti che potessero dare nomi e cognomi alle miti riconciliazioni di Foscarari, il Sant’Ufficio inviò alla porta di Visdomini l’inquisitore estense Paolo Costabili che, nel gennaio 1572, perquisì le stanze della curia724. Era trascorso appena un mese e mezzo dalla nomina del nuovo vescovo di Modena, ma tanto era bastato per ottenere quello che per mezzo secolo era stato impossibile persino immaginare. Come accennato nei capitoli precedenti, Costabili consegnò al notaio dell’Inquisizione due grossi registri nascosti in uno stanzino del palazzo vescovile, in cui Foscarari aveva annotato i verbali dei processi celebrati ai tempi di Giulio III. A partire dai nomi che vi trovarono, i giudici di fede avviarono l’ultima grande ondata repressiva che – dopo le riconciliazioni di eretici celebrate da Morone nel 1568 sulla base di un mandato papale725 – avrebbe disperso definitivamente il movimento eterodosso modenese. In quell’occasione gli inquisitori verificarono che gran parte dei riconciliati da Foscarari erano morti, fuggiti o erano già stati processati dal tribunale. Dopo averne probabilmente trasmesso notizia a Roma, Costabili fu esortato a proseguire nell’impresa ricevendo dal cardinale Scipione Rebiba726 indicazioni inequivocabili sulle assoluzioni di «monsignor Egidio, le attioni del quale in quella città contra gl’eretici non sono tenute in conto da questo Santo Ufficio»727. Di fronte a due linee tanto divergenti nella costruzione della memoria di Foscarari – ora vescovo esemplare, ora domenicano traditore – viene naturale chiedersi cosa stesse dietro tale divergenza e quale delle due letture sia infine prevalsa. Le risposte a questi interrogativi sono connesse tra di loro: dietro l’immagine del Foscarari «eroe cristiano» agiva l’opzione per una riforma della struttura ecclesiastica fondata sui vescovi, che vedeva nel domenicano l’incarnazione delle virtù del buon pastore, impegnato senza tregua a servizio della Chiesa, fattosi mite pur di riconciliare i dissidenti. Il «santo» vescovo Foscarari riviveva, non a caso, nel ricordo di uomini che al ministero episcopale e al rigore del suo esercizio associarono il proprio nome: Borromeo, Paleotti, Beccadelli, Calini, e così via. Dall’altra parte, però, i suoi metodi accomodanti non poterono essere accettati da quanti avevano in mente un ordine di altro

723 ACMo, cod. O.V.45, c. 51r; edita in AL KALAK, Gli eretici, cit., pp. 210-211.724 Per una ricostruzione dell’operazione condotta da Costabili, v. AL KALAK, L’inquisitore archivista cit.725 Sulla vicenda cfr. AL KALAK, L’eresia dei fratelli, cit., pp. 80-85.726 Su Rebiba v. P. PORTONE in DSI, III, pp. 1303-1304.727 ASMo, Inquisizione, 251, I; lettera del 26 gennaio 1572. Lo stesso Costabili evidenziò con un tratto di penna a margine questo passaggio della missiva.

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tipo: una riforma saldamente guidata dal pontefice romano e, soprattutto, dal Sant’Ufficio, cui spettava il compito di definire le verità di fede, secondo competenze sempre più estese. Questi ultimi furono, di fatto, i vincitori della battaglia sull’immagine del vescovo di Modena, di cui promossero una damnatio memoriae che diede i suoi frutti. Tra di essi, è probabile che vada annoverata la pressoché totale scomparsa dei suoi archivi, tanto istituzionali (la curia modenese ne conserva pochi lacerti), quanto personali. Ciò che poté sopravvivere, ad esempio una parte della sua corrispondenza, lo fece sotto mentite spoglie: i due principali codici che ne conservano copia – il Chigiano L.III.58 e il codice 1261 dell’Universitaria di Bologna – si presentano rispettivamente come una raccolta di modelli epistolari728 e una miscellanea di carte riguardanti il concilio di Trento compilata da un misterioso copista, Virgilio Romangilio729. Nell’una e nell’altra il nome di Foscarari è menzionato di rado, spesso celato dietro un generico «vescovo di Modena», così come sono spesso occultate le identità di destinatari scomodi, da F.V. (l’eretico Filippo Valentini) a Lod. C. (Ludovico Castelvetro). Cautele e prudenze, se non mistificazioni, che mostrano la volontà di preservare con accorgimenti e scaltrezze un’eredità a rischio, inizialmente oscurata e in seguito rimodulata in funzione dei nuovi obiettivi strategici della Chiesa post-tridentina. Fu così che, passati i clamori ereticali e placatasi la tormenta che aveva scosso la curia romana nei decenni centrali del Cinquecento, si passò dalla dannazione alla ridefinizione. L’immagine di Foscarari venne modellata, mantenendo gli aspetti in linea con gli ideali controriformistici e sottacendo i punti critici della sua biografia. Egli divenne l’eruditissimo padre conciliare che, per la sua pietà e il suo rigore, era stato chiamato dal papa a completare l’opera dell’assemblea. Era l’uomo dell’Indice, del Breviario, del Messale e del Catechismo – senza tuttavia ricordare che del primo aveva curato la moderazione e degli altri non vide mai l’esito a stampa, giunto solo dopo il vaglio di commissioni designate dall’intransigente Pio V.Queste furono le coordinate su cui si mosse gran parte della successiva storiografia cattolica. Quella domenicana si limitò a censire Foscarari nei repertori eruditi, non dedicando particolari ricerche alle sue vicende o alla straordinaria vivacità del convento in cui si formò730. Anche nella sua terra natale, Bologna, sembrò perdersene memoria: a parte la lapide fatta porre da suo fratello Camillo in San Petronio731, si dovette attendere il Settecento inoltrato perché il cardinale Filippo Maria Monti donasse all’Istituto bolognese delle scienze i suoi «ritratti di uomini illustri in lettere» tra cui Foscarari732. Né fece di più la tradizione erudita della città di cui era stato lungamente vescovo: gli storici modenesi non diedero alcuno spessore a Foscarari, ridotto dentro gli

728 Le lettere di Foscarari si trovano alle cc. 207-280, suddivise in otto libri così intitolati: I. comm(endatizie), II. consol(atorie), III. off(ici)o(se), IV. nonciator(ie), V. gratulator(ie), VI. ringra(ziamento) e di consol(atorie), VII. lamentatori(e), VIII. excusat(orie). 729 Su questo manoscritto e le sue vicende archivistiche cfr. F. BACCHELLI, Di una lettera su Erasmo ed altri appunti da due codici bolognesi, in «Rinascimento», XXVIII (1988), pp. 257-287.730 Cfr. da ultimo D’Amato, I, pp. 465 ss., che si attiene a un profilo istituzionale, senza dare particolare spazio alle istanze politico-religiose di cui i domenicani bolognesi furono espressione agli inizi del Cinquecento. 731 Riportata in FANTUZZI, Notizie, cit., III, p. 351. 732 G. GANDOLFI, Imagines illustrium virorum. La collezione dei ritratti dell’Università e della Biblioteca Universitaria di Bologna, Bologna 2010, p. 110. Il ritratto fu eseguito nel XVIII secolo, su probabile commissione dello stesso Monti nella cui collezione figurava nel 1754.

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stereotipi imposti dalla Controriforma e descritto come il vescovo riformatore incappato nella collera di un Paolo IV accecato dallo zelo733. Quando poi si cercò di scavare più a fondo, un erudito della levatura di Lodovico Antonio Muratori fu costretto ad analisi funamboliche per risolvere il problema dell’appoggio prestato da Foscarari a eretici manifesti, in primis Ludovico Castelvetro734. La riabilitazione tentata dallo storico settecentesco gli valse l’accusa di eresia da parte del suo più acerrimo nemico, Giusto Fontanini, segno che non era prudente rimettere mano alla storia di Foscarari e dei dissidenti che aveva aiutato. Bisognò aspettare il concilio Vaticano II perché l’eredità del domenicano e il trattamento benevolo riservato agli eretici venissero non più censurati ma indicati come segno profetico di una «mente aperta» capace di cogliere le esigenze di «una cultura rinnovata e fondata su basi razionali»735. Il giudizio – prima positivo, poi negativo – che riguardò la figura di Foscarari e il modello pastorale da lui incarnato costringe però a interrogarsi su un altro punto, da cui non si può prescindere per formulare un bilancio storico del suo operato: che esiti ebbe la riforma che cercò di realizzare? Quanto contarono la mitezza nei confronti degli eretici, la residenza e l’impegno instancabile per risollevare la condizione del clero e dei laici?

Il fallimento di una riforma

Per rispondere a tali domande è necessario ricordare che lo sforzo di Foscarari non poggiava sul nulla: i suoi quattordici anni di governo erano stati preceduti da quelli di Morone (1529-1550), che aveva provato ad attuare una moralizzazione del clero, una maggiore istruzione dei fedeli e una restaurazione dell’autorità vescovile736. Dopo mezzo secolo di politiche riformatrici condotte da Morone e Foscarari, lo stato di salute della diocesi avrebbe dovuto perciò essere buono o quantomeno accettabile, con una certa integrità dei religiosi, un’adeguata officiatura di chiese e parrocchie e una ristabilita dignità dei chierici. Eppure nulla o poco di tutto questo sembrò far parte del quadro dipinto dal visitatore diocesano Girolamo Tinelli nell’autunno del ‘65, pochi mesi dopo la scomparsa di Foscarari. Negli archivi vaticani si conserva un documento di eccezionale schiettezza, intitolato Visita della diocesi di Modona, in cui Tinelli illustrava a Morone – tornato vescovo della città nel dicembre 1564 – lo stato del clero e delle parrocchie737. Più della metà dei preti era accusata di comportamenti riprovevoli; appena uno su dieci era considerato ben preparato e i peccati di cui 733 Cfr. ad es. SILINGARDI, Catalogus omnium episcoporum, cit., pp. 141-142.734 Cfr. A. BIONDI, Gli eretici modenesi nell’opera di L.A. Muratori, in ID., Umanisti, eretici, streghe, cit., pp. 199-213; E. SAVINO, La biografia del Castelvetro tra Muratori e Tiraboschi, in Per formare un’istoria intiera. Testimoni oculari, cronisti locali, custodi di memorie private nel progetto muratoriano, Firenze 1992, pp. 95-145; M. BRAGAGNOLO, Il Castelvetro di Muratori. Storia, religione e diritto tra le carte dell’Estense, in «Rivista di storia e letteratura religiosa», XLIX (2013), pp. 351-387.735 Vescovi domenicani al concilio di Trento. Egidio Foscarari, in «L’Osservatore Romano», 2 dicembre 1964, p. 6. L’articolo era firmato mons. Francesco Boncompagni, personaggio legato alla curia romana e alla Sacra Rota. 736 Per i tentativi di riforma di Morone tra gli anni trenta e quaranta v. PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi, cit., pp. 97 ss.737 ASV, Conc. Trid., 94, cc. 77r-96v, Visita della diocesi di Modona [di seguito Visita]. Una trascrizione del documento e un’introduzione storico-critica in AL KALAK, «La chiesa sta malissimo», cit., cui per brevità rinvio.

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i sacerdoti si macchiavano andavano dall’infrazione del celibato (un quinto dei religiosi menzionati aveva concubine e figli) al gioco, ai traffici, alla simonia738. Tutto questo si riverberava sulla gestione delle luminarie – le fabbriche delle chiese che amministravano proprietà e beni delle parrocchie –, spesso preda di interessi privati, quando non usurpate da autorità laiche. Alcune chiese e oratori erano completamente abbandonati a se stessi, e un clero assente o immorale favoriva le faide che insanguinavano molti paesi. «Habbi per certo Vostra Signoria illustrissima – avvertiva Tinelli – ch’el vescovo ha molti i quali l’inganano [...] In questo quasi tutti i preti vi sono inviluppati [...] Bisognia avertire alle fattioni loro [...] Sono talmente immersi nelle passioni che ogni cosa interpretano in male»739. Il vescovo non poteva fidarsi di nessuno e persino il visitatore ammetteva di averci messo dieci anni per riuscire a districarsi nella fitta trama di menzogne e coperture che caratterizzava il clero. L’impegno di Foscarari non era certo mancato, tanto che nel 1566 Francesco Ghini, amministratore della mensa vescovile, ricordava a Morone come in città fosse nota a tutti «la trafila di monsignor Egidio» – espressione che indicava, con ogni probabilità, la severa selezione imposta dal vescovo al clero e ai collaboratori della curia740. Era stato tutto vano? Non vi era stato davvero alcun progresso? Per formulare un giudizio è possibile effettuare un raffronto tra le condizioni in cui Foscarari trovò la diocesi al suo arrivo e quelle in cui la lasciò. Procedendo per sondaggi tratti dalla visita pastorale del 1552 – condotta personalmente dal vescovo – e la Visita di Tinelli del 1565, emergono dati di un certo interesse. Il 16 agosto ‘52 Foscarari si era recato presso la parrocchia di Fiumalbo nell’estrema montagna modenese741. Rettore era don Francesco Bonacchi, affiancato dal cappellano don Gaspare. La luminaria non pareva essere gestita con cura e il vescovo costituì dei sindaci che avrebbero dovuto rivedere i bilanci («ad videndum computa») e riscuotere dai massari passati o dai loro eredi i crediti non ancora incassati. Anche sul parroco gravava il sospetto di avere utilizzato i beni della luminaria per interessi personali. Nel 1565 la situazione però era peggiorata742: il rettore era un certo don Cecco, «infame», che conviveva con una donna la cui frequentazione gli era stata proibita; il prete era descritto come bugiardo e corrotto, e come coadiutore teneva uno «sfratato quale medica». «La sua luminaria – proseguiva Tinelli – va malissimo», e le chiavi della sacrestia erano in possesso di laici che le usavano in modo inappropriato. Quel don Cecco, in un modo o nell’altro, era subentrato al vecchio rettore durante il governo di Foscarari (e, verosimilmente, con la sua approvazione), peggiorando, a quanto si deduce, le condizioni della parrocchia che gli era stata affidata. Né erano valse a molto le dure reprimende che avevano interessato il cappellano di Pievepelago, Giovanni Totti, affittuario del rettore don Andrea Luna. Nella visita del 17 agosto 1552743 Totti risultava già cappellano: nel corso degli anni dovette distinguersi per i suoi comportamenti immorali, tanto che

738 Per un riscontro quantitativo, cfr. ivi, pp. 144-146.739 Visita, c. 77v. 740 L’espressione è in una lettera di Ghini a Morone del 29 giugno 1566, edita in TIRABOSCHI, Biblioteca modenese, cit., II, pp. 395-399. 741 ACMo, O.I.33, cc. 48v-49r.742 Visita, c. 78r. 743 ACMo, O.I.33, c. 49v.

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nel ‘65 Tinelli lo descrisse come «pazo et tristo, mala lingua, disonesto, più volte acusato, coretto né mai emendatosi; anzi fattogli l’anno passato alla presentia de preti una grave corretione, la notte sequente fu trovato ignudo al Sasso [una località della montagna modenese] in casa d’una donna colla quale ha praticato assai»744. Ancora una volta bisogna constatare come il prete si fosse segnalato da tempo per le proprie immoralità e come lungo tutti i quattordici anni del mandato di Foscarari i rimproveri del vescovo non fossero serviti a migliorare la situazione, né avessero prodotto una rimozione di Totti che, anzi, aspirava a diventare rettore della vicina pieve di Rocca. I suoi atteggiamenti erano una sfida a viso aperto all’autorità vescovile.Ma vi erano anche casi di segno opposto, come quello della congregazione di Verica, nella fascia collinare, le cui chiese erano rette da sacerdoti giudicati positivamente. Nel 1565, il sostituto (una sorta di vicario foraneo) era don Lelio Monticelli che mostrava «segni di conversione» dopo aver «purgato colla prigione longa et dura ogni peccato»745. Quel cambiamento era probabilmente intervenuto negli anni di Foscarari, che nel ‘52 lo aveva già trovato alla guida della sua parrocchia746. Sempre Foscarari, riuscendo a incidere per una volta sugli incarichi del clero modenese, dovette respingere le richieste di promozione giunte da don Nicolò Zambonini, sacerdote di Mocogno, che era stato «tre volte ricusato come indegno»747. Se poi guardiamo quali fossero le caratteristiche dei preti che nel ‘65 si potevano definire «buoni», si riscontra che la gran parte di essi era illetterata o scarsamente istruita e spesso dedita ad altre attività: don Andrea del Vesale era «contadino ma buon prete, sa qualche cosa», don Antonio da Costrignano, don Camillo da Mocogno, don Mario da Susano erano «suffitienti», don Geminiano Abbati, sebbene istruito, era «rustico, avaro o per dir meglio tenace»; don Masino Bazzani «senza littere», don Biagio cappellano di Montalto «senza littere [e] avaretto»; don Giovanni Bello «non sa, ma è buon prete», e così via748. Insomma, anche laddove l’occhio del visitatore scorgeva un clero valutabile positivamente, restavano ampie zone grigie. Su un punto però gli sforzi di Foscarari sembravano aver prodotto un qualche risultato: il clero concubinario. In un resoconto preliminare alla Visita del 1565, e databile ad alcuni mesi prima della stessa, il visitatore Tinelli spiegava infatti che «molti anzi quasi tutti o buona parte i preti vechi hanno figlioli, quali non sono nati a questi tempi ma anni passati; di nuovo da dodici anni in qua o circa o non sono nati o pure non s’è saputo overo sonno stati gastigati»749. In altre parole, dall’insediamento di Foscarari i preti che avevano violato il celibato erano stati puniti o avevano dovuto agire con maggiore riserbo per non farsi scoprire; e questo aveva indotto le nuove generazioni di sacerdoti a osservare gli impegni di castità. Tuttavia, nonostante qualche progresso, la diocesi che Foscarari lasciò alla sua morte non risultò molto diversa da quella ricevuta nel 1550: nel complesso, restavano vaste zone non presidiate, ad esempio le campagne, che negli anni sessanta risultavano in abbandono; le parrocchie erano in uno stato di 744 Visita, cc. 78r-v.745 Ivi, c. 87r. 746 ACMo, O.I.33, cc. 33r-v.747 Visita, c. 82r.748 Cfr. ivi, cc. 78v, 79v, 81v, 82r-v, 83r, 86r, 89r. 749 ASV, Conc. Trid., 94, c. 245v.

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profondo declino, soprattutto sul versante patrimoniale e amministrativo, e l’autorità vescovile registrava sul territorio resistenze troppo forti e consolidate per essere scalfite. Volendo ora valutare i risultati ottenuti su un altro versante decisivo come il contrasto all’eresia, la ricetta di Foscarari risultò ancora una volta fallimentare. Posto che l’obiettivo fosse ricondurre gli eretici modenesi al grembo della Chiesa, il quadro che gli inquisitori trovarono dopo la morte del domenicano fu a dir poco allarmante: la comunità eterodossa cittadina aveva continuato a prosperare per tutti gli anni cinquanta e, benché i capi del dissenso religioso fossero passati attraverso le riconciliazioni di Foscarari, non accantonarono la loro attività proselitistica e, anzi, svilupparono il loro pensiero in senso più radicale, estendendo la protesta ai ceti popolari750. Di fronte al quadro delineato sin qui, non sorprende pertanto constatare come, nel 1565, la diocesi fosse ritenuta ancora da riformare: da un lato i giudici di fede scatenarono un’offensiva antiereticale che in pochi anni disperse la comunità eterodossa con metodi assai diversi da quelli precedenti; dall’altro, i vescovi che si succedettero ci misero decenni per risanare il malcostume del clero. Il fallimento dello sforzo riformatore di Foscarari, in particolare in tema di moralizzazione del clero, non fu però una peculiarità della diocesi modenese: situazioni analoghe si possono riscontrare in altre realtà interessate da tentativi simili. Senza poter qui condurre un raffronto sistematico, è sufficiente scorrere i verbali delle visite pastorali e apostoliche effettuate altrove per rendersi conto di come i progetti riformatori, di qualunque ispirazione, faticassero a trovare applicazione. L’eredità lasciata da Gian Matteo Giberti, la cui «opera – scriveva Jedin – è il modello della riforma tridentina»751, non si distanziava molto da quella di Foscarari e, per certi aspetti, era forse peggiore. Quando il vescovo Luigi Lippomano prese possesso della chiesa veronese, oltre a scandali sessuali che coinvolgevano il clero, trovò le parrocchie cittadine in una situazione di degrado inaccettabile, cui reagì con un vigoroso sforzo di riforma752. Nel 1548 nella diocesi della gibertalis disciplina vi erano più di «5000 anime l[e] quali [...] non si e[rano] confessate né comunicate [...] chi 4, chi 6, chi 10 et chi 15 anni»753. Nel ‘53, in visita alle chiese urbane, Lippomano riscontrò inoltre che il rettore di San Benedetto era spesso assente e vagava di notte in compagnia di laici, in San Quirico era stata venduta una parte del cimitero per uso profano e in San Marco il parroco celebrava saltuariamente, alloggiava meretrici nell’ospizio, si rifiutava di uscire di notte per amministrare il viatico ai moribondi, e così via. Scene analoghe si potevano ritrovare in altre diocesi veneziane: così era nella Bergamo di un vescovo “eretico” come Vittore Soranzo, che pure aveva operato intensamente per levare le superstizioni e formare il clero e i

750 AL KALAK, L’eresia dei fratelli cit.751 JEDIN, Il tipo ideale di vescovo, cit., pp. 38-39.752 Per il degrado riscontrato da Lippomano cfr. L. TACCHELLA, Visite pastorali di Luigi Lippomano, in «Vita veronese», XXXI (1978), pp. 130-134, 201-208, 260-267, da cui traggo la casistica che segue. Sui suoi sforzi di riforma v. E. MICHELSON, The Pulpit and the press in Reformation Italy, Cambridge MA-London 2013. 753 Lettera di Lippomano a Marcello Cervini del 24 luglio, edita in BUSCHBELL, Reformation und Inquisition, cit., p. 229.

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religiosi754. O ancora nella Brescia governata da un vescovo esemplare della storiografia cattolica, Domenico Bollani, le cui visite, negli anni che seguirono il concilio, rivelano «uno spettacolo sconsolante di sregolatezza», con centoventi parroci che non risiedevano e spesso cumulavano benefici, senza curarsi né di officiare, né di prepararsi in modo adeguato all’incarico pastorale755. Simile era la situazione nella vicina Padova, dove il vescovo doveva misurarsi con la giurisdizione di potenti abbazie come quella benedettina di Praglia. Quando nel 1572 Nicolò Ormaneto – già vicario di Carlo Borromeo – intraprese la visita pastorale con l’obiettivo di ribadire l’autorità vescovile, riscontrò gravi irregolarità. A Tencarola il parroco abitava con il figlio e i nipoti. A Villa del Bosco l’unico altare della chiesa non era consacrato, mancava la canonica, fuori dall’edificio sacro erano stati approntati due altari di fortuna e il cimitero era rifugio di animali; nella vicina Tramonte, invece, il parroco, apparentemente più preparato, risultò in grado di leggere il latino, senza però capirne il significato756. Se ci si volge alle diocesi in cui erano passati due tra i più fedeli alleati di Foscarari nelle battaglie conciliari sulla residenza – Ludovico Beccadelli e Muzio Calini –, il risultato non cambia. A Zara, dove era stato arcivescovo Calini, nel 1590 il nuovo ordinario Minuccio Minucci si trovò di fronte a una condizione quasi irriformabile757. Anzitutto vi aveva trovato il vescovo di Nona, Orazio Bellotti, che adducendo motivi di salute, stava in città anziché risiedere nella sua chiesa, per di più ospitando in casa sua delle donne. Il clero non aveva mai ricevuto nessuna seria istruzione e ogni sforzo per istituire un collegio di gesuiti, di cappuccini o di somaschi che potessero rimediare andò a vuoto. Quando infine bandì alcuni canonici che intrattenevano relazioni illecite, questi si appellarono al tribunale patriarcale di Venezia che diede il via a una controversia giurisdizionale che offrì un’agile scappatoia agli imputati. Non era migliore l’eredità lasciata da Beccadelli. A Reggio Emilia, dove, nei primi anni quaranta, era stato vicario generale per conto dell’allora amministratore apostolico Marcello Cervini, aveva adottato un metodo pastorale in apparenza simile a quello di Foscarari. La sua «maniera dolce», animata più da un pragmatismo operativo che da un vero e proprio irenismo, aveva privilegiato il procedere con «modestia et destrezza», all’insegna del principio per cui «meno romore si fa et più quetamente si va»758. Spesso incalzato dagli ordini risoluti di Cervini, Beccadelli intervenne per sanare gli abusi del clero e indire visite pastorali del territorio diocesano al fine di provvedere al malcostume dilagante. Tuttavia, ancora una volta, le condizioni trovate dai vescovi reggiani nei decenni successivi presentavano ampie zone

754 Cfr. M. FIRPO, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2006, pp. 502-511.755 P. GUERRINI (a cura di), Atti della visita pastorale del vescovo Domenico Bollani alla diocesi di Brescia (1565-1567), Brescia 1915 (la citazione è tratta dalle pagine introduttive). 756 G. CARRARO, Monachesimo e cura d’anime. Parrocchie ed altre chiese dipendenti del monastero di S. Maria Assunta di Praglia in diocesi di Padova (sec. XII-XVIII), Padova 2010, pp. 114-119.757 A. MARANI (a cura di), Atti pastorali di Minuccio Minucci arcivescovo di Zara (1596-1604), Roma 1970.758 La citazione è tratta da QUARANTA, Marcello II, cit., p. 179. Per l’azione di Beccadelli a Reggio cfr. ivi, pp. 161-184, da cui ricavo le informazioni che seguono. Sull’azione di Cervini a Reggio, interpretata come applicazione dei dettami della riforma cattolica, cfr. G. COSTI, G. GIOVANELLI (a cura di), Storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, Brescia 2012-2014, 3/1, pp. 375 ss.

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d’ombra. La diocesi emiliana non differiva granché dalla condizione riscontrabile in gran parte della Penisola e le visite del vescovo Giorgio Andreasi (1544-1549)759, incentrate perlopiù sugli aspetti formali760, rivelano chiese non sempre bene accudite, sacramenti che a volte marcivano a causa dell’eccessiva umidità, fonti battesimali e tabernacoli non protetti adeguatamente. Le condizioni del clero e la capacità dei vescovi di individuare soggetti adatti al governo pastorale non migliorarono nemmeno negli anni seguenti. A Sassuolo, nel 1568, il parroco era stato rimosso per simonia e mancata residenza; la comunità sassolese aveva approfittato dell’occasione per ribadire all’ordinario di Reggio Gian Battista Grossi (1549-1569)761 il suo diritto di giuspatronato, indicando Claudio Silicani come nuovo rettore. Il vescovo aveva però resistito nel desiderio di imporre il proprio candidato e riaffermare la sua autorità. Era stato così nominato un certo Giovanni Battista Rabacchi, di lì a breve accusato di stregoneria e sospeso nel 1578 dall’ufficio dopo la cattura da parte dei giudici di fede762. Spostato a Sologno era stato di nuovo oggetto delle attenzioni dell’Inquisizione, per aver insegnato ai suoi parrocchiani a non digiunare nei giorni prescritti dalla Chiesa: la congregazione aveva raccomandato di sospenderlo dalla cura d’anime riservandogli solo «alcuna portione de’ frutti dell’istessa chiesa parochiale per suo sostentamento»763. I vescovi, dunque, continuavano a fare scelte poco riuscite e a trovare ostacoli nel reclutamento del clero, che peraltro proveniva spesso da fuori diocesi764. Se ne dovette accorgere lo stesso Beccadelli quando, non più vicario ma vescovo, resse le sorti della chiesa di Ragusa, dove si sforzò inutilmente di riformare i sacerdoti. Tra i suoi tentativi vi era stato quello di far condannare l’arcidiacono Mario Caboga accusato di crimini che andavano dalle pratiche sessuali disinvolte e violente all’eresia manifesta. Ciò nonostante, il ricorso del religioso alla Camera apostolica portò a una sentenza di assoluzione che vanifacava gli sforzi vescovili765. Forse anche per questo nel 1564 era desideroso di allontanarsi dalla diocesi dalmata, nella prospettiva di un impiego presso 759 Su cui cfr. N. RAPONI in DBI, 3, pp. 128-130 e COSTI, GIOVANELLI (a cura di), Storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, 3/1, pp. 420-421. 760 Cfr. ACRE, Visite pastorali, 1, Visita Andreasi 1545. Lo schema di visita utilizzato da Andreasi e dai suoi successori non si diffonde in un esame puntuale del clero, privilegiando, come detto, gli aspetti formali relativi agli edifici sacri. Stando ai sopralluoghi compiuti nel 1575 dal visitatore apostolico Antimo Marchesani, la situazione trent’anni dopo avrebbe visto un’ampia parte del clero risiedere regolarmente o provvedere di sostituti le rispettive parrocchie (cfr. ACRE, Visita Marchesani 1575). 761 Su cui v. alcune note biografiche in COSTI, GIOVANELLI (a cura di), Storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, 3/1, pp. 422-423.762 Per il caso di don Rabacchi v. E. ROTELLI, Chiesa e società a Sassuolo nel medioevo e nella prima età moderna, in COSTI, GIOVANELLI (a cura di), Storia della diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, cit., 2, pp. 345-361: 354-356.763 ACRE, Litterarum trasmissarum a Supremo Tribunali a 1598 usque ad 1611 tomus primus (lettera del cardinale di Santa Severina all’inquisitore di Reggio; Roma, 23 maggio 1598). 764 Significativo a riguardo il caso pavese in cui, nel 1561, quasi un quarto del clero risultava originaria di territori esterni alla diocesi; cfr. X. TOSCANI (a cura di), Visite pastorali in diocesi di Pavia nel Cinquecento: una documentazione guadagnata alla storia, Bologna 2003, pp. 120-121.765 Sul caso di Caboga e sul governo vescovile di Ragusa negli anni di Beccadelli e del suo successore Calvini, v. E. BONORA, Il benedettino Crisostomo Calvini arcivescovo di Ragusa (1564-1575), in G. SPINELLI (a cura di), Cinquecento monastico italiano, Cesena 2013, pp. 111-130.

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Cosimo I de’ Medici. Sebbene si dicesse preoccupato di abbandonare la sua chiesa qualora non si fosse provveduto a trovarle un nuovo pastore, a prevalere fu la stanchezza «sì del mare come di quelli costumi non italiani [...], sperando di poter far meglio a Pisa [al servizio di Cosimo I] che a Ragusa, come in paese più civile et lingua meglio intesa»766. Alle spalle si era lasciato una diocesi tutt’altro che riformata e non intenzionata a conformarsi al dettato concilare.Ad assumerne la guida, con gradimento e insistenza dello stesso Beccadelli, fu chiamato Crisostomo Calvini, abate del convento benedettino locale, contro cui la Santa Sede fu però costretta a intervenire nel giro di qualche anno. Nel 1573-74, il visitatore apostolico Gian Francesco Sormani raccolse i reclami dei rettori della città per la condotta di «preti idioti [...], indegnamente ammessi all’amministratione dell’offitii et ordini sacri», di «vituperosa et sporca vita». La chiesa ragusina non aveva un seminario, il clero si rifiutava di celebrare i suffragi per i defunti e non era stata attuata una suddivisione del territorio in parrocchie. Dietro l’apparente debolezza del vescovo stava probabilmente un’opposizione alle disposizioni tridentine non priva di connotati eterodossi. Ma vi era anche un moto di impazienza verso l’incoerenza delle gerarchie romane che imponevano una moralità che esse stesse non praticavano. A chi gli chiedeva di riformare i suoi preti, Calvini rispondeva così di non voler «far niente perché vivono più honestamente che li cardinali in Roma»767. Il quadro qui tracciato non vuole che essere un sondaggio esemplificativo condotto su realtà molto diverse fra loro, cui si potrebbero aggiungere, senza risultati troppo dissimili, le diocesi dell’area meridionale della penisola o quelle dei territori lombardi e centro-italiani. A uscire sconfitto non era solo lo sforzo riformatore di Foscarari, ma quello di un’intera generazione che, nella diversità dei percorsi individuali e dei contesti politico-culturali in cui si trovò a operare, vide infrangersi il proprio impegno per risanare la Chiesa. E allo stesso tempo, non si può non notare l’azione spesso ambigua dell’Inquisizione e, più in generale, dei tribunali romani, in relazione agli obiettivi di moralizzazione del clero al centro degli sforzi dei vescovi “riformatori” di cui si è detto: in alcuni casi – si sono appena visti quelli di Giovan Battista Grossi e Crisostomo Calvini – furono le congregazioni romane o la stessa Inquisizione a imporre un’applicazione delle disposizioni tridentine nelle singole parrocchie e diocesi; in altri invece l’intervento dei tribunali ecclesiastici vanificò le misure correttive e riformatrici dei vescovi (come nell’episodio dell’arcidiacono Cabaga). Questo a dire che la situazione si mostra, ancora una volta, più sfrangiata di quanto si creda ed è sconsigliabile assumere schemi di lettura troppo rigidi.Consapevoli dunque delle contraddizioni che vi furono nel funzionamento delle congregazioni romane e non potendo ridurre il discorso a una presunta e inestirpabile ingovernabilità del clero, si deve però constatare come ci vollero decenni, talora secoli, per conformarsi al modello tridentino. La presenza degli stessi problemi in contesti differenti suggerisce che dietro di essi vi fossero radici comuni e antiche: tentare di irreggimentare il clero significava infatti intervenire su un sistema plurisecolare di privilegi e posizioni di forza che il vescovo, chiunque esso fosse, non era sempre in grado di governare. Non a

766 Lettera di Beccadelli a Foscarari del 5 marzo 1564, in BPPr, Ms. pal., 1013, cc. 119r-120r (una minuta della stessa ivi, 1015/2, cc. 17r-18r). Il testo è edito in MB, I/1, pp. 138-139; FRATI, Di alcune lettere, cit., pp. 139-140. 767 PROSPERI, L’eresia del libro grande, cit., pp. 354 ss.

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caso, il visitatore di Modena Girolamo Tinelli, consigliando Morone su come mettere a freno le sregolatezze di alcuni parroci al suo ritorno nella diocesi emiliana nel 1565, non poté trattenersi dal caldeggiare il ricorso alle autorità secolari: «Vi bisognia el braccio del duca»768. Per esercitare un qualche controllo effettivo sul corpo ecclesiastico, poi, era necessario tenere saldamente le redini del sistema beneficiale che lo sosteneva – cosa che fu solo in parte nelle mani dei vescovi. A Modena come altrove, molti oratori e parrocchie erano soggetti a giuspatronato e i nomi dei titolari erano indicati dalle comunità locali o dalle famiglie dell’aristocrazia feudale, con un margine di intervento esiguo per la curia diocesana. Né, al di là dei requisiti giuridici ufficialmente detenuti, i poteri laici – comunali, feudali e familiari – si facevano scrupoli a immischiarsi nella selezione dei chierici destinati alle varie chiese, manifestando non di rado il loro disappunto per nomine sgradite a colpi di omicidi e intimidazioni. C’era inoltre l’autonomia degli ordini religiosi che impediva di intervenire sulla vita interna di monasteri e conventi, anche in casi di disordini manifesti; alcuni di essi godevano di speciali privilegi ed erano immediatamente soggetti alla Santa Sede, cosicché il controllo disciplinare dell’ordinario era pressoché annullato. Le famiglie cittadine approfittavano dei margini di autonomia esistenti per insediare i loro membri ai vertici degli istituti religiosi, in modo da esercitare il controllo sui patrimoni di cui godevano e acquisire posizioni di prestigio. Nel caso modenese, ad aggravare la situazione stava poi la frammentazione del territorio diocesano, spezzato da una selva di giurisdizioni ecclesiastiche indipendenti: a sud-est della diocesi si trovava la abbazia nullius di Nonantola769, concessa in commenda a illustri personaggi, tra cui Carlo Borromeo; nella montagna lungo i confini meridionali era posta la badia di Frassinoro, anch’essa in commenda a cardinali non residenti, da ultimo Giovanni Morone770. Vi era l’arcipretura di Carpi lungo il corso del fiume Secchia771 e, nell’area pedemontana, i beni del priorato di Colombaro772. In più, la pianura a nord della città giaceva in uno stato di profondo degrado, preda di lotte di fazione che sconvolgevano le comunità locali.Ma la ricaduta forse più importante che questa situazione produceva, anche per il governo pastorale, era quella economica. La presenza di enclaves giurisdizionali, di commende, giuspatronati, benefici e canonicati la cui assegnazione non spettava al vescovo diminuiva drasticamente le risorse di cui quest’ultimo poteva disporre. In vari casi, la situazione era appesantita – come anche Foscarari sperimentò – dal diritto di regresso conservato da molti esponenti del sacro collegio che, insigniti della mitra vescovile, affidavano le loro diocesi a vescovi residenti riservandosi però una parte significativa delle

768 Cfr. Visita, c. 78v.769 Cfr. G. TIRABOSCHI, Storia dell’augusta Badia di San Silvestro di Nonantola, Modena 1784-1785. 770 Toccò allo stesso Foscarari prenderne possesso per conto di Morone; cfr. CFCh, c. 234r (lettera non datata [ma: 1561] di Foscarari a Girolamo da Correggio). La concessione in ASV, Reg. Vat., 1860, cc. 1r-3v. Per le complesse vicende relative alla commenda frassinorese, cfr. G. PISTONI, Il cardinale Giovanni Morone e l’abbazia di Frassinoro, in «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Provincie Modenesi», X, VIII (1973), pp. 155-157.771 Cfr. in sintesi Storia della Chiesa di Carpi, 1, Profilo cronologico, a cura di A. BELTRAMI, A.M. ORI, Modena 2006. 772 Su Colombaro, v. G. TIRABOSCHI, Dizionario topografico-storico degli Stati estensi, Modena 1824-1825, I, ad vocem.

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entrate che ne derivavano773. Dopo il concilio di Trento, i vertici della Chiesa romana non parvero incentivare un’inversione di rotta in merito, né cercarono di arginare il ricorso al sistema delle pensioni – rendite assommabili, cedibili ed estinguibili, che consentivano di eludere il divieto di cumulo, e ovviamente di commercio, dei benefici774. In questo modo, si sottraevano risorse al sistema beneficiale e si rendeva sempre meno conveniente e appetibile l’osservanza della residenza per godere dei frutti di un beneficio con cura d’anime, spuntando i già fragili strumenti su cui il governo vescovile poteva contare. Si minava dunque alla radice ogni possibile sforzo di riforma fondato su un’amministrazione oculata dei benefici stessi. Vi fu anche un altro provvedimento che incise negativamente sulle finanze degli ordinari diocesani. In termini sempre più netti, infatti, si delineò una linea di finanziamento delle sedi periferiche del Sant’Ufficio attraverso contribuzioni e pensioni che gravavano sulle mense vescovili, cui si accompagnarono collazioni di benefici a vantaggio delle Inquisizioni locali per disposizione diretta delle autorità romane. Come è stato notato, «nel momento in cui l’opera riformatrice dei vescovi post-tridentini esigeva una crescente capacità di controllo sulle entrate diocesane, la distrazione di risorse beneficiali e di pensioni a favore dell’Inquisizione rappresentò un elemento di decisa affermazione, anche in sede locale, degli orientamenti ecclesiologici repressivi» che il sacro tribunale incarnava775. Vari indizi lasciano intendere come anche a Modena vi fosse una certa pressione sulle risorse vescovili tanto che nel dicembre 1571, appena destinato alla sede emiliana, Sisto Visdomini pensò suo dovere fare «larghe offerte [...] al padre inquisitore»776.Se questa era la condizione della maggior parte delle diocesi italiane, l’ideale di riforma che Foscarari rappresentò uscì sconfitto non solo perché si innestava su una condizione difficile per le ragioni sin qui elencate, ma anche perché fondato su metodi e pratiche pastorali divergenti da quelli che la Chiesa di Roma scelse nel momento in cui l’Inquisizione toccò il culmine della propria forza. Una Chiesa centrata sul primato del governo pastorale dei vescovi e della conoscenza delle verità di fede, tanto presso i laici – da trattare con moderazione – quanto presso i sacerdoti – da controllare con rigore –, non vide la luce nei decenni attraversati da Foscarari né in quelli immediatamente successivi. Egli stesso dovette comprenderlo sul finire della propria vita, quando constatò che la proclamazione della residenza de iure divino non aveva avuto il riconoscimento che la cristianità aspettava e che, nei suoi convincimenti, avrebbe sanato scismi e ristabilito la moralità. Con altrettanta amarezza toccò con mano la difficoltà, anche per i pastori più volonterosi, di accudire il proprio gregge. Le misure conciliari, come è stato scritto, non risolvevano i punti cruciali da cui dipendeva la riforma della Chiesa: «l’obbligo della residenza veniva di fatto reso di difficile attuazione da misure punitive 773 Cfr. il quadro di sintesi tratteggiato da C. DONATI, Vescovi e diocesi d’Italia dall’età post-tridentina alla caduta dell’Antico Regime, in M. ROSA (a cura di), Clero e società nell’Italia moderna, Roma-Bari 1992, pp. 321-389.774 Sul tema v. M. ROSA, Curia romana e pensioni ecclesiastiche: fiscalità pontificia nel Mezzogiorno (secoli XVI-XVIII), in ID., La curia romana, cit., pp. 57-99: 57-74. 775 G. MAIFREDA, I denari dell’inquisitore. Affari e giustizia di fede nell’Italia moderna, Torino 2014, pp. 42-43. 776 Lo si apprende dalla lettera di ringraziamento inoltrata a Visdomini dal cardinale Scipione Rebiba l’8 dicembre 1571 in ACMo, cod. O.V.45, c. 87r, edita in AL KALAK, Gli eretici, cit., pp. 220-221.

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inadeguate a scoraggiare gli inadempienti; ma d’altra parte, la figura del vescovo era posta al centro dell’intera opera di riforma, ed in particolare del disciplinamento e della educazione del clero in cura d’anime»777. Ogni possibile riforma dipendeva perciò dall’impegno personale degli ordinari che, tuttavia, non era condizione sufficiente a garantire il buon esito del processo. Quanto mancò, almeno nell’immediato periodo post-tridentino, fu l’appoggio convinto dei vertici romani e del complesso apparato di tribunali, congregazioni e funzionari che molto spesso vanificò le misure correttive dei vescovi, offrì facili scappatoie al clero immorale e disincentivò una conoscenza diretta dei contenuti di fede da parte dei laici, a partire dalla lettura diretta dei testi sacri. Volendo dunque riprendere i quesiti da cui siamo partiti e a cui abbiamo fatto cenno nelle pagine introduttive, l’opzione di riforma che Foscarari incarnò uscì sconfitta dal confronto con altre istanze. Posta di fronte alla frattura confessionale e a un quadro politico in via di radicale mutamento, la Chiesa cinquecentesca ripensò se stessa e la propria identità in un processo che vide molte opzioni in campo, ciascuna con un’ecclesiologia sua propria. Fu un momento di eccezionale fluidità con «un pluralismo di proposte che solo man mano lasci[ò] posto alla centralizzazione romana»778. In quei decenni vi fu spazio per Pole e Morone con la loro Chiesa illuminata da una conoscenza graduale delle verità di fede che non scalfiva l’unità dell’istituzione visibile. Fu possibile, per un breve lasso di tempo, la contestazione del vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio; fiorì la vocazione di Gasparo Contarini che si prodigò per trovare, con le armi della teologia, una pacificazione con il mondo riformato di cui riconosceva molte ragioni. Poterono inserirsi l’irenismo di Foscarari e l’impegno a tratti eroico di vescovi che si adoperarono per risiedere e visitare le loro diocesi, riformandole come meglio potevano. Ci fu la battaglia dell’Inquisizione, rivolta a diventare norma e tutore della Chiesa e del papato; quella degli inquisitori “morbidi”, come Marcello Cervini, capaci di gestire la minaccia del sacro tribunale senza agitarne troppo il braccio repressivo, e quella – per nulla minoritaria – di quanti non ebbero alcuna intenzione di dismettere i privilegi del passato, di risiedere o dedicarsi alla cura delle anime, puntando piuttosto a riaffermare i diritti intangibili del clero. In quella varietà di proposte si situarono anche gli ordini religiosi vecchi e nuovi, dai domenicani, profondamente divisi sull’atteggiamento da assumere nei confronti delle politiche inquisitoriali, ai francescani, da cui fuoriuscirono inquietudini che ebbero il loro apice nella fuga a Ginevra del generale dei cappuccini Bernardino Ochino. Non mancarono percorsi come quelli dei barnabiti, cresciuti all’ombra della «divina madre» Paola Antonia Negri; o l’impresa del soldato di Cristo Ignazio di Loyola, con le sue ambiguità e le sue ombre (anche processuali e inquisitoriali). Tutto intorno, le esigenze di un mondo che si allargava alle terre di missione, l’affacciarsi di nuovi problemi e il confronto con culture mai cristianizzate. Quelli qui elencati – e i molti altri che si potrebbero aggiungere – non furono, come si capirà, i volti di un’unica riforma, ma opzioni differenti che videro prevalere l’egemonia inquisitoriale, con cui alcune proposte riuscirono a scendere a patti, mentre altre furono costrette a cambiare o a scomparire, anche a causa dell’efficace azione di contrasto messa in campo dal Sant’Ufficio. Se riletta in questa chiave, la vicenda di un mite domenicano bolognese, apprezzato da vescovi esemplari e condannato da inquisitori intransigenti, può 777 DONATI, Vescovi e diocesi, cit., p. 331. 778 P. PRODI, Il paradigma tridentino. Un’epoca della storia della Chiesa, Brescia 2010, p. 32.

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così diventare un mezzo per attraversare i conflitti di un’epoca, in cui si decise quale volto dovesse avere la Chiesa e come rimediare ai mali che sembravano circondarla da ogni parte.