in copertina ivano, che avrà 49 anni nel 2050, nel 2002 · di queste rigorose categorie...

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In copertina Ivano, che avrà 49 anni nel 2050, nel 2002

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Dedicato a Renata

e

in memoria di Giovanni Gattinelli (Firenze 9.10.1908 – 7.3.1983)

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INDICE

Pagina di copertina: Ivano

Prefazione, di Fausto Ferruzza…..………….....pag. 5 Una nota, di Giovanni Mari..…………………..pag. 6

Che film è.……………………………………...pag. 8 Occhiali da sole, uno…………………………...pag. 10 Occhiali da sole, due……………………………pag.16 Occhiali da sole, tre.……………………………pag. 22 Occhiali da sole, quattro..………………………pag. 25 Occhiali da sole, cinque...………………………pag. 30 Occhiali da sole, sei.……………………………pag. 37 Occhiali da sole, sette..…………………………pag. 48 Per concludere: spunti per uno schema di lettura dei fatti………pag. 53 Occhiali da sole, otto, di Marcello Buiatti……..pag. 57

Postfazione, di Stefano Beccastrini…………….pag. 63 APPENDICE 1…………………………….…...pag. 66 APPENDICE 2…………………………………pag. 68 BIBLIOGRAFIA……………………………….pag. 71 TITOLI DI CODA

Ultima di copertina: Fiammetta

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Prefazione di Fausto Ferruzza, Presidente di Legambiente Toscana

Quando si ha l'esigenza di indossare degli occhiali da sole, si potrebbe pensare che si ha timore di

venire accecati da una luce abbagliante. Ma non sempre è così. C'è, infatti, chi li porta per acquisire

più carisma o sintomatico mistero, per dirla con Battiato. E c'è, infine, chi li inforca per nascondere

calde lacrime. Di gioia, di dolore, comunque di profondo sommovimento dell'anima. Non so a quale

di queste rigorose categorie comportamentali strizzi l'occhio l'intenzione letteraria del mio amico

Renato. Pare, a giudicare almeno dai riferimenti espliciti evidenziati nell'avvertenza, alla prima. Ma

ad una rilettura più profonda del saggio, peraltro denso e coltissimo, mi sono convinto che, in realtà,

il compagno CCCR (come si firmava in rete), per quel pudore che gli è proprio nello svelare i

sentimenti più profondi, con quelle lenti ci stia nascondendo occhi atterriti e sgomenti. Occhi

bagnati, ma lucidi e febbrili nel tentativo di penetrare una realtà magmatica e sfuggente, quella della

crisi sistemica che stiamo vivendo, di cui si vorrebbe comprendere in qualche modo natura ed esiti.

La preoccupazione è legittima. E si compone, a mio vedere, dell'incrocio di due moventi essenziali.

Una straordinaria tensione intellettuale verso il logos, la capacità raziocinante di descrivere e

raccontare la realtà senza sconti. E senza indulgenza alcuna. D'altra parte, le preoccupazioni di

Renato, impregnate di un solidissimo e caloroso umanesimo, non risultano affatto astratte, rivolte

come sono, tutte, ai piccoli Ivano e Fiammetta. Figli di cari cugini. Un bambino che nel 2050 avrà

49 anni e una bambina che ne avrà 48. Ivano e Fiammetta siamo noi. Siamo il presente che anela

futuro, tra mille incertezze, dubbi e clamorose ingiustizie.

In questo senso, il saggio, profondamente intriso della lezione marxiana di Carandini, restituisce in

tutta la sua primordiale tensione morale la domanda che fu dei padri dell'ambientalismo scientifico

(Commoner, Meadows, Daly, Georgescu Roegen), ossia: che pianeta consegniamo alle generazioni

future? Ivano, Fiammetta e i loro figli potranno aspirare alla soddisfazione dei propri bisogni,

materiali e immateriali, così come abbiamo potuto fare noi e, soprattutto, la generazione dei nostri

padri? Il testo ha un altro merito: non fornisce risposte dogmatiche agli interrogativi strutturali che

sottende. Piuttosto, suggerisce altri filoni di ricerca, altri sentieri di pensiero critico, e quindi altre

modalità di porsi quelle stesse domande. Quasi che il tratto saliente di questa crisi plumbea e

devastante che stiamo vivendo, non fosse poi proprio il cambiamento ingannevole. Incerto.

Inafferrabile. E che quindi, in ultima analisi, potrebbe persino risultare velleitario cercare delle

risposte compiute e valide nel tempo, con gli stessi ferri vecchi delle analisi del passato. Tutto

scorre. E molto, troppo velocemente. Ci sia dunque lieve il vento nel progredire di questo periglioso

e temerario viaggio.

Buona lettura e buona fortuna!

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Una nota. Valore-lavoro e lavoro concreto

Di Giovanni Mari

Il testo che Renato Cecchi ci propone è un tentativo molto serio di leggere la nostra realtà

sociale attraverso Marx e una serie di categorie che aggiornano e integrano quelle marxiane. Il testo è assai ampio e tocca molti aspetti di questa realtà, mantenendo coerentemente un approccio ai problemi da “teoria critica dell’economia”. Mi limiterò a soffermarmi su alcune questioni presenti nei capitoli in cui si parla soprattutto di lavoro ( Capp. 6 e 7 ). Gran parte dell’analisi di Cecchi si svolge sul piano della teoria marxiana del valore-lavoro, approfondita, come fa anche Marx nei Grundrisse, in relazione allo sviluppo e al peso delle macchine e della knowledge sociale, integrata da considerazioni e citazioni tratta da classici del Novecento come Kalecki, Georgescu-Roegen o Baran forse troppo velocemente dimenticati. Interessante, in particolare la ripresa della nozione baraniana di “surplus” che apre a una certa considerazione del consumo che Marx considera soprattutto quale fattore della sovrapproduzione.

La teoria del valore-lavoro, applicata su scala sociale, serve a Marx per mettere a fuoco le “contraddizioni insanabili” e la prospettiva complessiva di un “crollo” del sistema capitalistico. Cecchi rileva bene come il sistema abbia gestito tali contraddizioni e evitato tale crollo soprattutto incrementando in maniera impensabile le disuguaglianze attraverso la “finanziarizzazione” dell’economia.

In questo quadro di analisi e di ricerca Cecchi si sofferma sulle trasformazioni del lavoro e sullo stesso significato del lavoro affermatisi in seguito allo sviluppo della conoscenza sociale e scientifica, nonché alla sua incorporazione nelle macchine. Il ragionamento di Cecchi si intreccia con quello di Marx e con i risultati cui questi perviene soprattutto nei Grundrisse, cercando anche di illustrarne e attualizzarne la portata, nonché il carattere per molti versi anticipatore di processi che interverranno soprattutto dopo più di un secolo dalla sua formulazione. Il ragionamento di Cecchi pertanto permette di misurare assai bene la validità o meno, o in parte, per noi oggi dell’analisi marxiana.

Di questa analisi vorrei sottolineare due aspetti, alla luce dei quali riprenderò brevemente il filo del ragionamento di Cecchi. Enuncio i due aspetti: 1) in Marx non vi è solo una teoria del “lavoro astratto”, ma opera anche un’ “idea astratta della conoscenza” che entra in gioco nella formazione e calcolo del valore; 2) in Marx opera non solo una teoria della fine o crollo del capitalismo, ma anche una teoria della “fine del lavoro”. Entrambi gli aspetti emergono quando Marx “stressa” la propria teoria del valore-lavoro per metterla alla prova della previsione della crescente riduzione del tempo di lavoro necessario grazie allo sviluppo dell’impiego delle macchine. I due aspetti sono evidentemente strettamente connessi, intrecciati, ed entrambi pagano il prezzo di una sottovalutazione dell’ incorporazione “soggettiva” della conoscenza nella persona del lavoratore per una unilaterale attenzione portata da Marx all’incorporazione della knowledge nella macchina. Si tratta di un “oggettivismo” che rende per molti versi obsoleta l’analisi di Marx.

Cosa voglio dire che in Marx vi è una concezione “astratta” della conoscenza che incrementa la produttività? Voglio dire che tale conoscenza non trasforma il “lavoro astratto”, che tale rimane anche in presenza dell’incremento sociale della knowledge, perché tale conoscenza è interamente gestita dal capitale che ne fa un fattore di profitto, cioè un “mezzo” di produzione accanto alla fora lavoro: forza lavoro e knowledge, ciascuna per la propria parte, quasi si fanno concorrenza sotto la stessa direzione del capitale; l’una accorcia il valore prodotto dalle ore del lavoro astratto, e l’altra si sviluppa con i tempi autonomi della conoscenza scientifica, e si incorpora nella macchina che continua a ergersi contro il lavoro, in concorrenza con esso e sotto la stessa direzione interessata solo al profitto. “Astratta” è questa conoscenza in quanto interpretata alla luce del lavoro astratto che tale rimane anche se assai meno essenziale di una volta ai fini della formazione del valore. Al punto che il calcolo del tempo di lavoro necessario, trasferito dal lavoro astratto alla scienza incorporata nella macchina, non riesce più a rappresentare la misura del pluslavoro. In questo travaso della sorgente del valore dal lavoro astratto alla macchina, la conoscenza rimane astratta

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perché solo nella sua astrattezza può creare valore al servizio del capitale. Astratta cioè separata dalla persona del lavoratore, come astratta perché separata dal valore d’uso era il valore di scambio del lavoro.

Che cosa voglio dire che in Marx vi è una teoria della “fine del lavoro”? Voglio dire che Marx, coerentemente con la sua teoria del lavoro astratto e della conoscenza astratta, cioè presente nelle macchine ma non nella persona che lavora, non può che vedere nel tempo libero dal lavoro la possibilità di un’appropriazione della knowledge da parte di tutti, compreso il lavoratore. Anche perché nel lavoro viene valorizzata solo la conoscenza incorporata nelle macchine. Ma in questa maniera Marx si avvicina pericolosamente al mito di Omero-Aristotele della fine del lavoro perché sostituito dagli automi, ovvero a un’idea del lavoro e dell’ozio in cui il primo è solo fatica e il secondo godimento e crescita spirituale, ora alla portata di tutti per lo sviluppo della scienza-tecnologia, e ai tempi di Aristotele privilegio di pochi. Ma la vita divisa in lavoro astratto e non lavoro è presente anche in Marx, e la ricomposizione non potrà configurarsi che come “fine del lavoro” interpretata come fine del lavoro necessario.

La debolezza della teoria del valore lavoro è che essa considera il problema del consumo solo come possibilità del differimento tra fabbricazione e vendita, cioè tra creazione del valore (“astratto”) e consumo (“valorizzazione concreta”). Cioè come possibilità di crisi e crollo (sovraproduzione) quando il differimento diviene eccessivo o viene meno. Eppure appare evidente che qualsiasi plusvalore di un bene d’uso è effettivamente tale quando viene acquistato per essere consumato. Ovvero che il consumo, a suo modo, valorizza il valore astratto del lavoro astratto. In altre parole sembra che sia la teoria del lavoro-valore a crollare di fronte allo sviluppo della knowledge anziché il capitalismo. Il capitale non deve solo sfruttare ma anche vendere per appropriarsi effettivamente del pluslavoro che senza consumo produce valore solo in astratto. Del resto che il mercato e i consumi determinino i contenuti d’uso della produzione e quindi l’intera produzione e i suoi rapporti sociali, per noi oggi è abbastanza evidente e scontato.

Cecchi cerca di aggirare e in parte risolvere queste difficoltà della teoria del valore-lavoro introducendo, come già ricordato, la nozione di surplus di Baran. Si tratta di una nozione feconda ed è merito di Cecchi di averla riproposta come categoria in grado di spiegare l’evoluzione della società e della civiltà, senza sottacerne gli aspetti di sfruttamento, di subordinazione del lavoro e di disuguaglianze sociali. La nozione intesa come la “differenza tra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società” introduce il tema del consumo, e quindi, per “differenza”, del risparmio e dell’accumulazione. Tuttavia lo fa solo a livello macroeconomico e storico-sociale. Ovvero rimane compatibile con la persistenza del lavoro astratto e della conoscenza che vale come conoscenza incorporata nelle macchine.

Il consumo e non semplicemente la riduzione del tempo di lavoro necessario è un fondamentale fattore di sviluppo e impiego della knowledge nella produzione. Ma questo accade al livello di una macroeconomia che è la sommatoria empirica e imprevedibile di tanti consumi individuali che richiedono una produzione alimentata da una conoscenza concreta, tale perché incorporata nel lavoro e non semplicemente nelle macchine. Quindi una conoscenza che già nel lavoro e non solo al di fuori di esso determina una crescita spirituale dell’individuo e una nuova fase, anziché una “fine”, del lavoro. Meglio, la “fine” del lavoro astratto e la diffusione del lavoro concreto, del lavoro liberamente scelto.

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Che film è Queste note e appunti, scritti nel corso di un anno (maggio 2012 – maggio 2013), soprattutto il capitolo

uno, traggono origine da una comunicazione tenuta al Direttivo tematico di Legambiente Toscana, sulla

crisi, in occasione di “Terra futura 2012”. Esse sono solo un tentativo di darsi un punto di vista , “un paio

di occhiali da sole”, per guardare gli eventi passati, presenti e futuri della crisi economica che ci coinvolge

duramente dall’estate del 2007. Data d’inizio dell’esplosione delle bolle immobiliari e delle carte di credito

allo scoperto negli Stati Uniti d’America. Da allora la crisi ci inganna e ci fa prendere abbagli. Alle classi

dirigenti, colpevoli, ma anche al popolo minuto, di cui noi siamo parte.

L’abbaglio, il brilluccichio, ci nascondono che la crisi, come tutte le vicende storiche, si è preparata molto

prima, mentre il suo andamento pare procedere per illusioni ottiche successive, come determinate dalla

sovraesposizione a una luce troppo intensa. Una crisi che si prepara fin dal 1989, anno del crollo del muro

di Berlino, identificato, simbolicamente, con la fine del comunismo sovietico e la “vittoria” del capitalismo

occidentale globale. Esso, rimasto senza l’ultimo “nemico”, ha dato stura ai suoi istinti primordiali

rivoluzionando il mondo, ossia, mettendo la testa sotto e le gambe per aria com’era già accaduto nella

“grande trasformazione” nella seconda metà del XIX secolo. Da quella crisi il mondo uscì con un secolo (il

XX, il “Secolo breve” di Hobsbawn) di guerre mai viste prima per tecnologia, violenze e distruzioni di vite e

materiali che solo la breve età “quasi dell’oro” (Reich), tra la fine della seconda guerra mondiale e la fine

degli anni settanta, aveva consentito di rimettere i piedi per terra e la testa al suo posto naturale. Con la fine

del comunismo sovietico è finita anche la speranza, per ora, e chissà per quanto a lungo, di poter incidere

sul futuro da parte delle classi subalterne, in tutto il mondo.

Qui racconto solo che paio d’occhiali suggerisco di usare, tra i tanti possibili, per tentare di orientarci nel

bagliore, come in un meriggio assolato di ferragosto dei nostri ricordi di ragazzi che fummo. Anche gli

occhiali da sole, però, oltre ad oscurare, necessariamente, possono produrre difetti e immagini imprecise

specie se non sono di ottima marca – e i nostri, a basso costo, provengono da un supermercato - danno

distorsioni che danneggiano la vista. Perciò non crediamo ciecamente a quel che vediamo, nemmeno con gli

occhiali da sole. Solo il dubbio è certo.

Quello che emerge, così, è una miscellanea di aspetti che caratterizzano la crisi che stiamo attraversando,

ma che non è, questo è certo, il crollo del capitalismo e della sua civiltà.

L'oggettivismo, forse eccessivo, con cui abbiamo cercato di descrivere e legare tra loro fatti diversi è voluto:

troppo spesso, purtroppo, negli ultimi quarant’ anni, si è dimenticata una visione oggettiva delle cose e con

l'acqua sporca si è buttato anche il bambino. Voglio solo ricordare che anche le correnti culturali

(importantissime) che si fondano sull'individuo e i suoi bisogni, sulla soggettività, in questa lunga crisi sono

restate mute.

Da qui il tentativo di mettere in collegamento aspetti teorici di una visione critica dell’economia politica con

quelli reali, sociali e del lavoro, soprattutto. Devo, però, esplicitare l’obiettivo di partenza. Volevo fare il

punto, per me stesso prima di tutto, su dove arrivavano le mie acquisizioni sulle teorie delle crisi, in

particolare sugli aspetti strutturali e del lavoro, ma anche politici e geopolitici, che non fosse la loro mera

descrizione, come sta avvenendo in tanta parte della narrazione economica nel nostro paese. Volevo, inoltre,

marcare la necessità di assumere un punto di vista, tanto più necessario per l'emergere di nuovi “lavori” e

soggetti nel passaggio dal fordismo al post fordismo, nell’era delle imprese multinazionali e della seconda

globalizzazione. Necessario per affrontare il rapporto tra capitale e lavoro (o meglio: capitali e lavori),

come si pone oggi, tra lavoro e conoscenza, tra capitale finanziario e moneta da una parte, e lavoro

comandato, flessibile e disperso nei sistemi sociali dati, dall’altra. Infine: lavoro desiderato e lavoro scelto

come nuova frontiera della knowledge e della vita delle persone, che non possono essere neanche abbozzati

senza un’ottica (occhiali per l’appunto), una visione <<unitaria>> o meglio d’insieme. Da qui ripartire in

campo aperto senza buttare le acquisizioni dei critici dell’economia politica del passato e di quelli attuali,

per misurarci con la realtà concreta del lavoro.

Se dal racconto trasparisse una torsione meccanicista e catastrofista della storia, ci tengo a precisare che

non è per niente voluta; anzi, gli autori cui mi riferisco, principalmente da Kalecki a Braudel fino a

Carandini, sono tutti nettamente contro questa interpretazione della storia e dell’evoluzione del capitalismo.

Io stesso, per quel che vale, l'ho sempre ritenuta una teoria sballata e pericolosa (sia sul piano teorico che

politico) e non avrei potuto fare il sindacalista, che di per sé è mestiere riformista ed evoluzionista, ma non

meccanicista, dove le persone contano molto. A questo proposito voglio qui rivolgere un mio omaggio a

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Bruno Trentin e a un altro grande uomo oltre che sindacalista, Franco Fantini, che sotto il loro mandato in

FIOM –CGIL ho iniziato la mia esperienza di sindacalista metalmeccanico.

Infine, sul rapporto tra lavoro e tecnologia, che nel testo non è qui trattato esplicitamente, ma sta sullo

sfondo, non mi schiero con chi va alla ricerca se sia nato prima l'uovo o la gallina: lavoro, tecnica e

tecnologia nascono con l'homo sapiens sapiens e come tutte le cose umane, nel corso della storia, prendono

percorsi che portano talvolta un aspetto a prevalere sull'altro e viceversa, in un processo di cambiamento

dove il tratto comune è la conoscenza che però, anch’essa, non procede linearmente, ma a salti, ritorni

indietro, oblio e rilanci, riscoperte, rivoluzioni, ecc.

Detto questo, qui cerchiamo di affrontare soprattutto questioni di metodo, di analisi dei problemi che ci

ritroviamo in questo passaggio storico. Ora si tratterebbe di misurarci, potrebbe essere un impegno per il

futuro prossimo, con la valutazione delle soluzioni che la governance internazionale (ONU, Stati, FMI, G20,

ecc.) ha dato alla crisi finanziaria (ossia allo strapotere dei gruppi finanziari) e alla crisi dell’occupazione,

se esse siano in grado di far fare dei passi avanti all’umanità sul piano economico e sociale, civile. Oppure

se si tratta di misure che non risolvono, rinviano e creano le condizioni per altre crisi. Già ora possiamo

ritenere che esse sono state spesso farraginose e incomplete, compromessi tra gruppi di potere,

multinazionali e stati, che hanno contribuito ad allontanare di più le classi subalterne dalla democrazia.

Possiamo ritenere che sul versante dell’occupazione esse siano poco efficaci, mentre sulla questione del

Lavoro (che non è la stessa cosa dell’occupazione), del suo ruolo e partecipazione alla creazione della

ricchezza e alla conoscenza, non si è fatto niente, anzi si è consentita una sua ulteriore svalorizzazione. Così

sulla questione ambientale e sul riscaldamento globale: si sta tornando indietro e le crisi si aggravano.

Dovunque.

R.C.

Badia a Ripoli (Firenze), 16 ottobre 2013

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Occhiali da sole, uno. La breve età “quasi dell’oro” Diceva Robert Heilbroner che in una

prospettiva storica il capitalismo è

un sistema rivoluzionario. Nel senso

che l’essenza dell’ordine capitalista è

di creare cambiamento e che questo

continuo cambiamento comporta

necessariamente la trasformazione di

ogni aspetto della vita sociale,

politica ed economica. Il capitalismo

in quanto sistema sociale non ha

precedenti. Questi cambiamenti del

capitalismo costituiscono la regola,

non l’eccezione. Cercare di

conseguire dei profitti è il grande

motore rivoluzionario del

capitalismo. Il modo di come li

ottiene cambia.

1. Premessa. Partiamo da una prima domanda. Il capitalismo democratico dell’età non proprio dell’oro1 che va circa dagli inizi anni ’40 alla fine degli anni ’60 del secolo scorso negli S.U., che in Europa iniziò dopo e ancora ne troviamo traccia, nonostante tutto, è stata solo una parentesi brevissima e unica nella storia dell’umanità, per le classi subalterne, o contiene elementi ancora validi per il futuro?2 Ovvero, se la democratizzazione del capitale ha raggiunto livelli di libertà ed eguaglianza che non ha pari nella storia3, è ripetibile, anche se sotto altre forme o dobbiamo aspettarci un’era di capitalismo totalitario? Il capitalismo democratico, sia pure a scapito della natura e dei paesi non capitalisti, migliorò le condizioni politiche, economiche e di vita di masse subalterne dell’occidente anche in virtù di cambiamenti tecnologici rivoluzionari origine e frutto della stessa natura del capitalismo.

“Per la prima volta nella storia dell’umanità […] dopo la sconfitta delle dittature totalitarie di destra nella seconda guerra mondiale, la democrazia riceveva il riconoscimento di unica definizione ideale di tutti i sistemi di organizzazione politica e sociale.”4

Seconda domanda. Questo processo (escludendo catastrofi geoplanetarie e/o climatiche – ambientali, pandemie, ecc.) è irreversibile o si può andare verso il dispotismo (come molti elementi indicherebbero) o meglio verso un capitalismo finanziario globale senza democrazia, totalitario? Intanto si sono aperte nuove contraddizioni: il capitalismo finanziario, abbandonato il compromesso capitale-lavoro (1937-1969), si ritrova a confliggere con qualità e libertà del lavoro, con circa un miliardo di pensionati. Nel 2030 gli ultra sessantacinquenni saranno oltre due miliardi – proiezioni OMS- e anche se molti saranno esclusi da forme di protezione sociale e delle pensioni, la cosa si sta facendo esplosiva. Persone che percepiscono un reddito senza lavorare (era avvenuto solo nelle epoche della nobiltà, ma per pochi) - o almeno svolgano attività, ma fuori del ciclo economico di mercato-, con l’allungamento della vita, mettono in crisi il già elevatissimo debito sovrano degli Stati occidentali, ed è ritenuto incompatibile dal FMI (su quest’ aspetto torneremo nel capitolo 4). 2. Ciclo economico e crisi cicliche. Non bisogna dimenticare che il sistema capitalistico ha sempre attraversato crisi cicliche tra crescita e recessione, talvolta depressione, che solo l’ideologia liberista

1 R. Reich, Supercapitalismo, Fazi editore 2008 2 Questo capitolo è frutto della introduzione , “La crisi del modello capitalista in una prospettiva storica”, tenuta al seminario di Legambiente Toscana sulla crisi sistemica , tenuto in Terra Futura Sabato 26 maggio 2012 3 Guido Carandini individua la nascita della civiltà capitalista dal 13° secolo; G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista, Laterza 2012 4 G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Einaudi, 2005, pag.17

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ha cancellato dalla conoscenza e dalla riflessione critica negli ultimi quaranta anni. E’ la natura stessa del capitale a generare le crisi che sta nella doppia natura della merce come valore d’uso e valore di scambio5. Ed è la natura stessa della società capitalistica a essere conflittuale perché antagonistica e anarchica

6. Possiamo ricordare le crisi finanziarie del ‘500/600, del primo ‘800, ma soprattutto quella della seconda metà dell’800 e dei primi del ‘900 in Europa e in America, poi the

big crack 1929-37 e, per venire a tempi a noi più vicini, la crisi petrolifera del 1973 (e l’abbandono del sistema monetario di Bretton Woods), la crisi monetaria del 1980-81, il lunedì nero del 19 ottobre 1987, la crisi messicana del 1994-95, la crisi delle “tigri asiatiche” del 1997, il crollo della bolla della new economy 2001, il crollo della borsa di NY nel luglio 2002 e infine, il crollo della bolla immobiliare e dei debiti allo scoperto nell’agosto del 2007 negli Stati Uniti, i cui effetti ancora perdurano, il crollo delle banche USA del 2008, la crisi dei debiti sovrani dal 2011 (cioè il passaggio dalla crisi del debito privato 2007-2008 a quella del debito pubblico 2011); la recessione e la depressione dei paesi capitalisti occidentali, Europa in particolare, iniziata nel 2011. Vale ricordare che la grande depressione europea – 1868/70-1891/93 si concluse con la guerra russo- giapponese, la rivoluzione russa del 1905 e infine il Primo conflitto mondiale e con la rivoluzione russa del ’17; che la grande crisi del 1929-1937 sfociò nel Secondo conflitto mondiale. L’andamento del sistema per crisi successive, le crisi cicliche, è stato letteralmente espunto dall’analisi storico economica dalla Teoria economica prima e dalla scuola neoliberista poi, o meglio l’analisi storica è stata cancellata dall’agenda politico economica. Le teorie sulla crisi capitalistica alternative a quella neoliberista (che ne fa solo una crisi da squilibrio tra mercati, quantità di moneta e comportamenti degli investitori e consumatori) sono almeno tre. Queste ultime fanno tutte riferimento, esplicitamente o quasi, all’esistenza nel sistema economico sociale capitalistico di un ciclo economico in cui si alternano crescita e crisi. Esse sono: (a) crisi di sovrapproduzione per carenza di domanda. Su questa teoria si è fondata tutta la tradizione socialdemocratica e del welfare, la stessa teoria della moneta di Keynes; (b) la crisi come effetto della caduta tendenziale del saggio di profitto, secondo l’elaborazione marxiana, cui il capitale può rispondere attraverso la crescita del capitalismo finanziario (Hilferding). Infine (c) quella che vede la fine dell’era non proprio dell’oro del patto capitale-lavoro=welfare (capitalismo democratico e del welfare) a causa della nuova rivoluzione tecnologica (informatica – biologica – dei sistemi) che ha spinto investitori e consumatori alla realizzazione del massimo profitto immediato inducendo le corporation a muoversi sul piano della cosiddetta finanza “creativa” o dei tagli all’occupazione delle imprese industriali pur di raggiungere il massimo risultato di borsa (Reich, Stiglitz, ecc.). 3. Caos e governo del mondo. Giovanni Arrighi7 documenta che un’espansione finanziaria autonoma dall’andamento dei rapporti di produzione si è verificata tutte le volte che c’è stata crisi di un sistema egemonico centrato su uno Stato e i suoi alleati e, soprattutto, nella fase di passaggio da un sistema egemonico all’altro: durante il passaggio dall’egemonia della potenza olandese (mercantilismo) all’era dell’egemonia britannica (industrialismo e imperialismo), poi durante la 5 G. Carandini, Un altro Marx, lo scienziato liberato dall’utopia. Pag. 22 “La realtà economica si è scissa di fatto quando, per la prima volta nella storia umana, tutti i prodotti del lavoro hanno assunto la forma di merce. Perché è la merce in sé ad essere bifronte. Come abbiamo già visto, da un lato è <<valore d’uso>>, cioè utilità per il consumo, e dall’altro è <<valore di scambio>>, cioè valore che deve realizzarsi al momento della sua compravendita” 6 Ibidem, pag. 32-33. La società capitalista “… è una società antagonista, perché è caratterizzata inesorabilmente dalla proprietà privata dei mezzi di produzione [comprese la conoscenza e la scienza- ndr] monopolizzata dalla classe dei capitalisti la quale, nella ripartizione del prodotto netto sociale, si appropria della quota preponderante rispetto a quella destinata al lavoro salariato [che sia quello misero dell’operaio o del precario o quello del musicista, del grande medico o del calciatore i cui “valori” sono assegnati dalla cultura della società medesima storicamente determinatasi - ndr]. Ed è una società anarchica, perché in essa non esiste alcuna necessaria corrispondenza fra la produzione in mano ai privati [leggi imprese private a dimensione multinazionale – ndr] e l’ammontare dei bisogni della società che dovrebbe soddisfare. Cosicché è il teatro di sproporzioni tra l’offerta e la domanda [vedi il capitolo di questi “Occhiali” dedicato a Kalecki – ndr], con inevitabili squilibri di sovrapproduzione e di sottoccupazione.” 7 G. Arrighi, B.J. Silver ,“Caos e governo del mondo”, Bruno Mondadori 2003

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crisi egemonica britannica e il passaggio all’egemonia statunitense. In questi periodi il sistema finanziario si è espanso a dismisura dominando l’economia, sottoponendola a tensioni e crisi come reazione alla perdita di potenza sullo scacchiere mondiale realizzando una stretta simbiosi con il potere militare. Anche con l’inizio di un primo declino dell’egemonia statunitense tra gli anni settanta e ottanta del secolo scorso abbiamo assistito (è cosa ancora di questi giorni) a un’espansione mai vista prima del potere finanziario, mentre i tempi delle crisi egemoniche si sono drasticamente ridotti. Questa volta però con l’egemonia americana, secondo Arrighi, c’è una differenza sostanziale: il potere militare non agisce più di concerto con quello finanziario (vedi anche P.S. Jha sulla “teoria” della guerra preventiva di Bush 2°)8. L’espansione finanziaria si è accelerata anche per mutamenti strutturali intervenuti nel frattempo: una nuova rivoluzione tecnologica, la cui portata epocale può essere paragonata a quella dell’abbandono del nomadismo e del passaggio all’agricoltura nella preistoria umana. Essa ha consentito la gestione del mercato dei capitali e dei future in tempo reale, l’irrompere della figura dell’investitore di massa (ansioso) sui mercati finanziari, la trasformazione dei cittadini in consumatori (compulsivi), la metamorfosi del lavoro: precario, frantumato, spaventato.

3.1. Così, caratteristiche di questo periodo, almeno per il capitalismo occidentale, nel breve periodo, sono: (a) massimi profitti finanziari mentre gli investimenti industriali non generano occupazione, (b) le forze della “crescita” concentrate dalla pressione competitiva schiacciano i margini di profitto del sistema industriale (caduta tendenziale del saggio di profitto?), (c) concorrenza spietata per il capitale mobile, tra Stati e multinazionali, (d) massiccia redistribuzione dei redditi a favore di pochi, (e) il processo di espansione economica e l’integrazione della regione asiatico-orientale sono strutturalmente aperti al resto del mondo, (f) lo spostamento delle risorse finanziarie globali in nuovi centri dotati di alta competitività nei processi su scala mondiale di accumulazione del capitale. Infine, (g) la proliferazione – in numero e varietà – d’imprese e comunità d’affari

multinazionali è caratteristica nuova e probabilmente irreversibile della crisi egemonica. I processi

descritti possono essere transitori, ma non le trasformazioni nell’organizzazione sistemica che li accompagna. Primi effetti già visibili sono che: nel 2025, sei Paesi (Cina, India, Messico, Russia, Brasile e Corea del Sud) faranno da soli metà della crescita economica mondiale. Fra due anni l'economia brasiliana supererà quella inglese; nel 2018 la Cina scavalcherà gli Stati Uniti e nel 2019 il Messico farà altrettanto con l'Italia. Anche questi fatti evidenziano che l’espansione finanziaria globale non è un

nuovo stadio del capitalismo mondiale ma il centro di una crisi egemonica. E’ un fenomeno

temporaneo che potrebbe concludersi anche catastroficamente, secondo come la crisi sarà

affrontata dalla potenza egemonica in declino (le parti in corsivo fanno riferimento Arrighi, op.cit.), l’attuale dominio globale dei mercati finanziari non regolamentati rischia la catastrofe sotto la tirannia delle decisioni di piccolo cabotaggio, la probabilità di guerra fra gli elementi più potenti

del sistema si è ridotta ma non il deterioramento dell’attuale crisi egemonica in un periodo più o

meno lungo di instabilità, è probabile una nuova ondata di conflitti sociali e si può prevedere che

rifletterà la maggiore proletarizzazione, la crescente femminilizzazione e i mutamenti della

configurazione spaziale ed etnica della forza-lavoro mondiale. Si aprono così grandi problemi e interrogativi. Il capitalismo mondiale (occidentale e orientale) nella sua struttura attuale (multinazionali globali e finanziarizzazione forzata dei mercati nazionali e degli Stati) non è in grado di conciliare le domande combinate delle classi lavoratrici del terzo mondo (per avere relativamente poco a persona, ma per molte persone) e del mondo occidentale (per relativamente meno persone, ma molto per ogni persona). Né di superare il conflitto tra l’uso indiscriminato dell’ambiente e l’aumento della domanda di merci ed energia; esiste, allora, una capacità di

adattamento degli stati e di fornire soluzioni ai problemi di sistema lasciati in eredità

dall’egemonia statunitense? In occidente i percorsi di sviluppo/crescita danno rendimenti 8 P.S. Jha, Il caos prossimo venturo, Neri Pozza 2006

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decrescenti in termini di tassi di accumulazione rispetto all’Asia orientale, ma non possono essere abbandonati senza causare tensioni sociali così insopportabili da produrre caos invece che “competitività”. E, infine i movimenti sociali e di protesta saranno improntati all’escalation della violenza (come nelle passate transizioni) o prenderanno altre vie? Oppure procederanno per fiammate carsiche senza capacità risolutive (come la jacquerie, ossia insurrezioni popolari spontanee, prive di preparazione politica e rivolte contro il nemico più immediato)? 4. Gli “esperimenti”. Con la crisi dell’egemonia britannica inizia l’epoca degli “esperimenti” politico-sociali dell’era moderna e contemporanea. Alla crisi di sistema che ne seguì, si ebbero risposte diverse: una veniva dalla Russia che con il comunismo proponeva la proprietà comune dei mezzi di produzione ed era fin dall’inizio incompatibile col sistema capitalistico benché ne ricalcasse gli obiettivi della crescita. Un’altra proponeva di trasformare le grandi corporation in estensioni del governo e di riunire tutta l’autorità dello Stato nelle mani di una sola persona. Fu l’esperimento fascista in Italia, che trovò giudizi entusiasti anche in Inghilterra e in USA (Ford). Fu seguito anche da quello nazista col quale la potenza egemonica nascente (USA) si renderà presto conto dell’incompatibilità con la natura stessa del capitalismo di allora e che poteva eliminarlo solo con la guerra fino alla distruzione totale della nazione nazista. Infine nel dopoguerra si ebbe l’esperimento politico socialdemocratico in Europa e del New Deal in USA. Il secondo entra in crisi alla fine degli anni ’60, il primo dura più a lungo con l’economia sociale di mercato. Alla fine del secolo scorso tutto è rimesso in discussione. Ed è allora che iniziano altri esperimenti: come quello populista-mediatico, soprattutto, ancora una volta in Italia e in altre realtà con minore evidenza (Russia, Polonia, Ungheria, ma anche la Francia di Sarkò). Di fronte alla doppia crisi iniziata nel 2007 e poi nel 2011, però, esso è apparso incapace di rispondere alle sollecitazioni finanziarie mettendo in pericolo il precario equilibrio del sistema e abbandonato dalle classi dirigenti, permane pericolosamente nelle attese e nei comportamenti elettorali delle classi subalterne. Si apre allora in Europa l’esperimento dei “professori” (come variante della Grosse

Koalition), non a caso in Italia (dove più esplicita era stata la natura populistico - mediatica del potere), che è accolta entusiasticamente non solo in Europa ma anche in Inghilterra e in USA dagli stessi ambienti finanziari globali occidentali, come tentativo di salvare la destra repubblicana europea e del mondo anglosassone dalla sua stessa deriva popolustica9. Da tutt’altra parte del mondo, da almeno vent’anni è in corso un esperimento che tende a presentarsi come risposta alla crisi del capitalismo occidentale: la Cina, che accosta i tratti del comunismo a quelli dell’economia di mercato capitalistico creando una miscela originale di totalitarismo e dinamicità della crescita. Esso trova adesioni anche nelle classi dominanti in occidente. I due esperimenti, pur nella grande diversità, hanno due tratti in comune: il capitalismo occidentale e quello asiatico fanno riferimento agli unici due paesi eredi di civiltà millenarie (quella cinese e quella italica) come se fossero alla ricerca di una motivazione forte di civiltà ora che il processo di civilizzazione capitalistico attraversa una grave crisi d’identità. Allo stesso tempo, quello cinese da più tempo, mentre quello europeo è recente e incerto negli esiti, rispondono a scelte di carattere politico e non di mercato, nel senso che sia l’uno sia l’altro sono una possibile risposta politica alla “mano invisibile” del mercato e al laissez faire della finanza selvaggia. La differenza fondamentale è che l’esperimento cinese è un totalitarismo dove l’accumulazione non è il risultato di un processo storico evolutivo ma di una rivoluzione, mentre l’altro si dibatte tra pulsioni mercatiste e autoritarie, tra riforma del welfare e della politica, ma in una condizione in cui sono cambiati i rapporti di forza (l’elettorato si è diviso sostanzialmente in tre parti quasi uguali: tra una destra populista e antieuropea, una sinistra indebolita dalle proprie incertezze e il movimento “grillino” il cui tratto saliente è costituito dalla demagogia verbale e l’inconcludenza reale).

9 Il fallimento dell’esperimento del governo Monti nel corso del 2012 ha avuto diverse ragioni, politiche e strutturali, ma non marginali; sono state anche certe caratteristiche personali del Professore e l’errore, gravissimo, di supporre la fine delle ragioni di destra e sinistra.

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Qui, forse, stanno anche i limiti dell’Europa, oltre le doglie del difficile parto. Ovvero, politiche di austerità che servono a consolidare il potere delle classi dirigenti senza tuttavia risolvere la crisi sistemica. Invece, l’Europa dovrebbe disporre di un’agenda politica che avesse al centro l’idea federalista. Idea che comincia qua e là a far breccia e alcuni segnali, tipo le elezioni olandesi del 2012, sono positivi in questo senso. Anche i passi che sta facendo la BCE andrebbero in questa direzione e le risposte alle preoccupazioni-speculazioni dei mercati stanno pian piano raffreddando le tensioni sulla moneta e sui debiti, ma dalla recessione non si esce senza una risposta politica e un cambiamento radicale delle basi dell’Unione e dei rapporti con i cittadini. Da questo punto di vista le classi dirigenti europee sono inadeguate e anche Monti che pure è un profondo conoscitore dei meccanismi della governance europea, perché liberista puro (all’impresa non può essere posto alcun limite o confine), si è dimostrato non all’altezza dei problemi, in particolare delle problematiche sociali. 5. Fordismo e Taylorismo. Il valore del lavoro, spezzoni di futuro. Il lavoro nell’era del Capitale, secondo la visione dei teorici del valore-lavoro (Smith, Ricardo, Marx) incorpora due valori come ogni merce: il valore di scambio (dove il lavoro è ridotto a lavoro “astratto” cioè lavoro in generale, scambiabile) e il valore d’uso (le capacità e l’impiegabilità). Si tratta di Lavoro in generale qualunque sia il rapporto contrattuale a tempo indeterminato, a tempo determinato, lavoro autonomo e semiautonomo, auto impresa, ecc... Forme, queste ultime che, sia pure investite dalla condizione negativa del precariato, hanno un contenuto di valore d’uso ancor più evidente perché fortemente legata alle capacità personali. E’ dal lavoro astratto, secondo la teoria del valore – lavoro, scambiato con salario, misurato dal tempo d’impiego- che il capitale “estrae” plusvalore o “surplus” in generale. Il profitto perciò proverrebbe dall’appropriazione del plusvalore prodotto dal lavoro astratto. E’ su questa natura del lavoro astratto che si fondava la stessa teoria comunista della classe operaia come classe rivoluzionaria. Secondo questa teoria, che trova non pochi riscontri nei comportamenti del capitale odierno, l’aumento del plusvalore poteva esse ottenuto tramite l’aumento assoluto del tempo di lavoro e/o tramite l’aumento del tempo relativo. L’aumento, cioè, del prodotto nell’unità di tempo tramite saturazione del tempo di lavoro (Taylor, Ford, ma anche l’attuale modello Wcm, World class manufacturing della FIAT) oppure con l’impiego sempre più massiccio delle macchine (impianti) che incorporano sempre più lavoro “morto”, rilasciato nel tempo, e la scienza (oltre che conoscenza/tecnica) sempre più direttamente forza produttiva. Già all’epoca di Marx verso la fine dell’ottocento le macchine avevano occupato prepotentemente il campo della produzione con un accelerato sviluppo tecnologico. Cioè il plusvalore diveniva via via sempre più come prodotto dalle macchine (lavoro passato incorporato) e meno dal lavoro “astratto”. Macchine, che tramite la tecnologia, incorporano la conoscenza sociale (appropriata privatamente dal capitale) e la scienza come forza direttamente produttiva. Oggi, però, il lavoro tecnico e scientifico (che è sempre più conoscenza e “comprensione” delle macchine e del loro controllo) ri-porta al centro il valore d’uso cioè le capacità professionali e conoscitive del lavoro: da questo punto di vista non è misurabile tramite il tempo d’impiego ma solo sulla base della sua qualità. Vuol dire che il salario non è più misurabile in base al tempo. Questo fatto è dirompente per il capitale ma anche per il lavoro. Così il plusvalore non nasce più dal lavoro astratto, ridotto a parti sempre più marginali, ma dal lavoro scientifico applicato alla produzione, alla circolazione e all’accumulazione finanziaria. Col crollo del “socialismo reale” nel 1989 è cambiata la divisione internazionale del lavoro. Nei paesi occidentali la ricchezza proviene quasi completamente dalla scienza e dalla sua appropriazione finanziaria privata; nei BRICS10, dove ancora il surplus proviene in buona parte dal

10 Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica.

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lavoro “astratto”, perché essi sono nella fase dell’accumulazione primaria industriale: le fabbriche del mondo. Anche qui, poi, le macchine e la scienza prenderanno il sopravvento. Sta già avvenendo. Si riaprono così tutte le domande su come misurare il lavoro nella sua espressione di valore d’uso, come retribuirlo poiché il tempo non è più la sua misura e come sia possibile determinare un’equa distribuzione della ricchezza creata e cogliere gli elementi di liberazione del lavoro. Soprattutto questa è un’enorme contraddizione per il Capitale che si fondava sull’appropriazione del lavoro astratto prima e lavoro morto poi (incorporato nelle macchine) mentre il valore d’uso del lavoro era appannaggio esclusivo della classe dei capitalisti e di quelle a essi associate. Finita così la separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, il valore d’uso del lavoro diventa l’elemento fondamentale del lavoro stesso, della produzione ma anche dei servizi (remunerati col surplus) della circolazione e dell’accumulazione. Non è più il lavoro astratto, il centro, né la classe dei proletari ma, tanti lavori e valori d’uso del lavoro. Al contrario, il lavoro è retribuito tuttora secondo vecchi parametri tayloristi e questo riapre la contraddizione tra lavoro com’è oggi e capitale che, tra l’altro, dominato dalla sua parte finanziaria, non è interessato al compromesso che stava alla base del welfare (l’età quasi dell’oro di Reich). Oggi, però, per affrontare tali problemi non c’è un “moderno principe” (in senso gramsciano) capace di interpretare la crisi e darle soluzione positiva anche per le classi subalterne. Servirebbe una capacità collettiva di rapportarsi alla proprietà privata con senso pratico delle cose “abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio” (manifesto di Ventotene del 194411), a partire da un non ideologico rilancio civile del patrimonio dei “beni comuni” anche perché

“non è possibile socializzare a lungo i mezzi di consumo senza socializzare le fonti di reddito necessarie allo Stato sociale”12.

Si porrebbero così le basi di un nuovo valore da assegnare al Lavoro come bene comune sociale fondamentale. Dal salario minimo di cittadinanza – studio – formazione, al salario come forma di redistribuzione del surplus in base al valore d’uso (personale) per merito e valore sociale (storicamente determinato), fino a nuovi contratti di lavoro che includano nuove categorie di formazione – merito - conoscenza verso lavoro versatile a conoscenza crescente.

11 Manifesto di Ventotene, Per un'Europa libera e unita. Altiero Spinelli , Ernesto Rossi e Eugenio Colorni 12 H.D. Dickinson, 1958

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Occhiali da sole, due. Entropia della società capitalista

1. Nella prolungata crisi sistemica d’inizio del XXI secolo, tuttora in corso, la questione ambientale è scomparsa dall’agenda politica, dovunque, salvo poi tornare brutalmente alla ribalta: l’uragano Sandy in America o le alluvioni e le frane in Europa del nord est, in Italia, ecc. Per poi scomparire subito dopo dalla suddetta ribalta. Tra le masse subalterne, in tempi di grave crisi economica e sociale, ciò era ed è abbastanza scontato sin dall’inizio della crisi nel 2007 (bisogna poi valutarne l’effetto sui cambiamenti nei comportamenti), ed era facile previsione, ma che le classi al potere (che dirle dirigenti pare eccessivo) fossero così miopi nessuno poteva metterlo nel conto. Pensandoci bene, in effetti, per quali ragioni quella quarantina di finanzieri e banchieri o quelle poche migliaia di managers delle multinazionali che controllano il mondo dovrebbero occuparsi del problema se, com’è noto, le scommesse di borsa, sui titoli, sui debiti sovrani, ecc. si giocano in frazioni di secondo e quelle sui future al massimo guardano in là nel tempo di 2/3 anni. Invece la partita sull’ambiente si gioca in termini di molti decenni e oltre (sempre meno a dire il vero), e comunque richiede sguardo lungo. Neanche la sfera politica (quella parte della Potenza del capitalismo su cui scrive Carandini, in sistema con il mercato, l’accumulazione e la società) pare in grado di guardare a tempi lunghi. Del resto l’intreccio economia – politica, ormai, condiziona profondamente le scelte dei governanti. Un intreccio dove la causa non è la politica succube dell’economia, perché l’una non può più fare a meno dell’altra. La causa è proprio quell’intreccio profondo che c’è sempre stato, ma che con le nuove forme che ha assunto, ha messo in crisi il patto sociale (o compromesso sociale) tra capitale e lavoro. Quell’intreccio è una necessità di sostegno reciproco (politica per il consenso, economia per il successo) sempre più problematico e tendente a fare a meno delle regole democratiche, dove la capacità delle classi di potere di far fronte alle dinamiche-derive della crisi è drammaticamente venuta meno. E’ noto, però, che la caduta di capacità di far fronte alla crisi ambientale e climatica è cominciata assai prima di quella economica e finanziaria; tutte insieme danno luogo a una crisi sistemica. Tale crisi è cominciata nel pieno dei cosiddetti “ruggenti anni novanta”, secondo l’azzeccata definizione di Joseph E. Stiglitz13, anni nei quali la seconda globalizzazione capitalista ha proceduto indisturbata e violenta attraverso la finanziarizzazione forzata dell’economia e dei mercati, sospinta dalla dottrina neoliberista dei potenti gruppi economici americani e sostenuta dalla “teoria” e pratica della guerra preventiva14. 2. Veniamo ora alla questione ambientale e su come essa si pone nella crisi. Nel corso di quei ruggenti anni ’90 si diffuse la convinzione, soprattutto negli Stati Uniti d’America15, ma anche nel resto del mondo occidentale, che il mercato sarebbe stato in grado di regolare la distribuzione delle risorse sul pianeta in modo equilibrato e che avrebbe consentito alle migliori tecnologie (leggi più adeguate dal punto di vista di minori consumi di ambiente e da quello della razionalità energetica) di diffondersi nel mondo delle imprese e delle Corporation. Si determinò, di conseguenza, lo spostamento dell’attenzione delle opinioni pubbliche e di parti non marginali della Politica e di Istituzioni, dal controllo sull’inquinamento e sugli effetti serra all’ideologia del mercato, alla responsabilità sociale d’impresa, e in campo produttivo alla cosiddetta “green economy”. Queste ultime entrarono a far parte dei programmi di importanti forze politiche (dai democratici Usa ai socialdemocratici tedeschi, o dei Labour inglesi). La convinzione, però, assai diffusa che i grandi gruppi finanziari, industriali, estrattivi, commerciali, agricoli e alimentari, se, opportunamente sospinti dalle opinioni pubbliche e dai consumatori, avrebbero attuato politiche virtuose dal punto di vista sociale e ambientale, non ha fatto altro che favorire lo spostamento dell’attenzione, di opinione pubblica e dei consumatori stessi, dalle politiche di controllo pubblico, all’interesse verso profitti

13 J. E. Stiglitz I ruggenti anni 90, Einaudi 2004 14 vedi Prem S. Jha, op. cit. – capitoli 12 e 13 15 R. B. Reich, op.cit.

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estremi che dovevano essere comunque garantiti “come giusta remunerazione del capitale investito”. Così come predicava e predica l’ideologia liberista, meglio se virtuoso, come recitava la pubblicità. Ciò ha prodotto come risultato la riduzione e il depotenziamento delle politiche ambientali pubbliche, indebolite fino al punto di essere insignificanti, portando a nuovi conflitti tra produzione e consumi da una parte, lavoro, salute e ambiente, dall’altra. Così facendo si ridotto al margine proprio quell’orientamento della società verso la riconversione dell’economia maturato nel corso degli anni settanta e ottanta, sintetizzato nell’opera di autorevoli scienziati ed economisti quali N. Georgescu- Röegen, Laura Conti, H. Daly, B. Commoner, J. Martienz-Allier, G. Nebbia, D. Meadows, D. Pearce e N. Stern più recentemente, ecc. Vale la pena ricordare, per inciso, che si tratta di personalità scientifiche tutte approdate ad una critica ambientalista dell’economia politica e del capitalismo, attraverso fondamentali acquisizioni disciplinare e sociale sia sul piano teorico che politico e istituzionale. 3. Sul lungo periodo si pongono due domande la cui novità è che le risposte sono strettamente intrecciate l’una con l’altra. La prima: il sistema capitalista, la sua civiltà, è in grado di superare questa crisi assicurando quella crescita di cui non può fare a meno? La seconda: il sistema capitalista è in grado di far fronte alla crisi ambientale globale? Il loro intreccio è dato, per esempio, dal fatto che a un aumento imponente delle disuguaglianze nella ricchezza e nel reddito ha corrisposto un aggravamento, non casuale, di tutte le condizioni ambientali negative: accelerazione dei cambiamenti climatici, distruzione dell’ambiente, consumi energetici abnormi, ben oltre il ritmo d’incremento della popolazione e della produttività, aumento dei rifiuti a ritmi molto superiori alla crescita economica. 3.1. Per rispondere alla prima domanda bisognerebbe avere la sfera di cristallo, troppe sono le variabili; qui possiamo abbozzare solo qualche “timida” ipotesi senza pretese. In linea teorica non c’è niente che impedisca la crescita economica sulle stesse basi di prima (secondo la Teoria economica classica; il discorso cambia completamente se nella valutazione economica s’introducono il secondo principio della termodinamica e quello di entropia), ma questo aggraverebbe notevolmente la crisi ambientale e sociale. Il modello di crescita dominato dalla finanza porterebbe, comunque, entro poco tempo a una nuova “tempesta” con gli Stati ancora indeboliti dalla crisi attuale, quindi con effetti ancor più devastanti. Questo significa che dopo una rapida (pur nel lungo periodo) successione di crisi si avrebbe la crisi finale del capitalismo? Certamente no, perché il sistema, la dinamica capitalista sono in grado di trovare risposte e nuovi compromessi a fronte della prospettiva della propria distruzione (bisogna vedere poi a quale prezzo); di far maturare nel corso della crisi nuove istituzioni in grado di rappresentare i nuovi interessi in campo. Un’aggravante può essere costituita dal precipitare dalla crisi egemonica dell’impero americano e del suo sistema satellitare occidentale. Nulla indica che anche questo tipo di crisi, già in atto, non possa terminarsi con nuovi equilibri planetari o con una serie di conflitti molto distruttivi (questi sì sempre possibili, come nel caso del Medio Oriente). Una possibile risposta può essere data da un nuovo ma diverso ruolo delle istituzioni (sicuramente sovranazionali) e del sistema pubblico allargato nel regolare i mercati e in particolare di quello finanziario. Del resto non è una novità, sul piano storico,: le città stato, prima e lo stato nazione, poi, furono premesse e condizioni di sviluppo del capitalismo che non è mai cresciuto senza regole, senza Stato di riferimento. Ha attraversato “brevi” periodi (nel tempo storico) di transizione, non a caso turbolenti e di crisi sempre ricomposti in nuovi equilibri sia pure a prezzo di devastazioni e tragedie.16

16 vedi a questo proposito: F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Il Mulino 1988; I. Wallerstein, capitalismo storico e civiltà capitalista, Asterios Editore, 2012; G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista, Editori Laterza, 2012; M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalista, Giulio Einaudi Editore, 1975.

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3.2. Anche per la seconda domanda si può tentare solo qualche abbozzo. Certo il capitalismo come l’abbiamo conosciuto sin’ora, soprattutto nel suo dominio finanziario (il Supercapitalismo di cui scrive R. Reich), non pare in grado di far fronte al precipitare della crisi climatica e dell’esaurimento di risorse fondamentali (inteso sia come termine delle disponibilità in natura, che economico, sia come disponibilità effettiva anche alla presenza di grandi quantità: dal petrolio alle foreste pluviali, dall’acqua potabile alla fertilità della terra, alla pescosità dei mari, ecc.). Soprattutto non pare in grado di farlo se si affiderà, ancora una volta, all’ideologia della “mano invisibile del mercato” che “tutto regola” ma che serve solo a giustificare la mano libera nell’appropriazione privata della ricchezza sociale a cominciare dalla conoscenza/scienza e a produrre l’impoverimento di grandi masse di popolazione planetaria. Niente vieta, anche qui, in via di principio che si determini una nuova forma di regolazione nell’uso-controllo delle risorse da parte di un sistema di Stati sovranazionali associati nell’ambito della civiltà capitalista. La risposta, però, si fa ancora più complicata quando dal sistema delle regole si debba passare a immaginare una profonda trasformazione dei rapporti sociali e di produzione fondati su un uso delle risorse ambientali e di quelle umane non distruttivo, capace di rallentare l’inevitabile processo di trasformazione entropica, quindi immaginare un sistema produttivo, economico, sociale più equo e il libero lavoro, sia pure fondato sul capitale, cioè sulla proprietà privata. Quale proprietà privata? Si può uscire dalla trappola del tutto privato o tutto pubblico? Intanto già l’esperienza storica mostra come sul versante delle politiche economiche, sociali e culturali il sistema pubblico ha funzionato e funziona senza intaccare la proprietà privata dei mezzi di produzione e del capitale. Questo non è bastato per assicurare un uso razionale delle risorse e della ricchezza. Perciò si può immaginare una “proprietà”, pubblica, dei cittadini che si estende dai beni comuni ad alcuni rapporti sociali di produzione: da alcune tecnologie strategiche e ai benefit che esse assicurano (dalle energie rinnovabili alla ricerca scientifica in campo biomedicale, ecc.), ad alcuni brevetti fondamentali alla riproduzione delle specie, per esempio in agricoltura e in biodiversità. L’idea non è nuova – ma dimenticata -, fortemente radicata in una concezione federale dell’unità europea come concepita, per esempio, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni fin dal Manifesto di Ventotene del 1943, di cui riportiamo alcuni stralci.

“…le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma […] essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale, non vanno spente nella morta gora della pratica «routinière» [burocratica, ndr…]. Quelle forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo e di impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività. La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente

in linea di principio.” [corsivo nostro, ndr; per una più completa comprensione si rimanda alla lettura del testo del 1943 e di quello del 1944, cogliendone i principi fondamentali pur nella necessaria storicizzazione del testo e del linguaggio. I testi citati sono disponibili su Wikipedia].

C’è, però, anche chi ritiene, come N. Georgescu-Roegen, che il capitalismo industriale (forma storica moderna di economia e di mercato) fondato strutturalmente sull’accumulazione e sulla crescita, sia in contrasto con le esigenze di sviluppo dei paesi poveri e della tutela dell’ambiente oltre a determinare problemi spesso irrisolvibili nei paesi centrali della sua potenza. Georgescu-Roegen individua proprio nel mercato capitalistico i limiti di capacità di far fronte alle crisi ambientali o delle risorse disponibili, perché se esse

“hanno un prezzo, di solito non è a causa di una scarsità esistente, ma per l’attesa di qualche scarsità differenziale nei limiti dell’orizzonte attuale17.”.

Ma, prosegue, “Gravi scarsità si possono verificare (come certamente si verificheranno) oltre l’orizzonte temporale attuale. Quell’evento futuro non può in alcun modo influenzare le nostre attuali decisioni di mercato: per quanto le riguarda, esso praticamente non esiste. Non è necessario aggiungere altro per convincerci

17 Nicolas Georgesu Roegen, Energia e miti economici, Boringhieri 1982. Pag. 70

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che il meccanismo di mercato non può proteggere il genere umano dalle crisi ecologiche del futuro [l’autore scriveva nel 1976, ndr] (e tantomeno per distribuire in modo ottimale le risorse tra generazioni), nemmeno se cercassimo di fissare prezzi “giusti”18. Il solo modo per proteggere le generazioni future, perlomeno dal consumo eccessivo di risorse durante l’attuale abbondanza (relativa perché pochi hanno molto e molti hanno poco), è quello di rieducarci a provare una certa simpatia verso gli esseri umani futuri, così come siamo arrivati ad interessarci del benessere dei nostri vicini contemporanei. Questo parallelo non significa che un nuovo orientamento etico sia una questione semplice”19.

Figuriamoci in periodo di prolungata crisi economica e di depressione. Entrando nel merito di quali misure adottare al fine di determinare un migliore equilibrio fra uso delle risorse e scarsità future il ragionamento di Georgescu-Roegen discute proprio del rapporto tra mercato e politiche pubbliche che qui ci interessa.

“Dato che l’inquinamento è un fenomeno di superficie che colpisce anche la generazione che lo produce, possiamo stare sicuri che riceverà molta più attenzione del suo compagno inseparabile, l’esaurimento delle risorse. Ma dato che in entrambi i casi non si può parlare del costo di un rimedio per un danno irreparabile [nonostante la sentenza di fine 2012 che condanna BP a pagare 4,5 miliardi di dollari per il disastro ambientale nel Golfo del Messico, ndr] o della correzione di un esaurimento irreversibile, e non si può attribuire un prezzo appropriato alla prevenzione dell’inconveniente se le generazioni future non possono fare la loro offerta, dobbiamo esigere che le misure prese in entrambi questi scopi consistano in una regolamentazione quantitativa [corsivo nostro, ndr], nonostante il consiglio della maggior parte degli economisti di aumentare l’efficienza distributiva del mercato attraverso tasse e sussidi. Il programma degli economisti proteggerà solo i ricchi o chi ha agganci politici.”

E, prosegue Georgescu-Roegen, “…si dovrebbe rendere chiara al pubblico anche la difficoltà della scelta: che un esaurimento più lento significa minori comodità esosomatiche e che un maggior controllo dell’inquinamento richiede un consumo proporzionalmente maggiore delle risorse. Altrimenti ci saranno solo confusione e controversie.20”

Conclude, “Una protezione completa e una riduzione assoluta dell’inquinamento sono miti pericolosi che vanno smascherati come tali.”21

4. Negli anni ’90 del secolo scorso (ruggenti o del supercapitalismo) gli aspetti democratici del capitalismo sono entrati in crisi proprio per lo spostamento dell’attenzione dalle politiche di welfare alla massimizzazione dei profitti senza alcuna regola.

“A partire dalla fine degli anni Settanta, è avvenuto un cambiamento fondamentale del capitalismo democratico americano e gli echi di quel cambiamento si sono fatti sentire in tutto il mondo”. “Nel frattempo, gli aspetti democratici del capitalismo sono diminuiti [in tutto il mondo, ndr]. Le istituzioni che intraprendevano negoziazioni formali e informali per ripartire la ricchezza, stabilizzare il mercato del lavoro e le comunità locali e dotare il gioco di regole giuste – i grandi oligopoli, i sindacati di massa, le agenzie regolatrici e i politici sensibili alle aziende e alle comunità locali – si sono eclissate”22

Tale fenomeno ha a che vedere con l’espansione travolgente di nuove tecnologie, certo alla presenza di deregolamentazione e globalizzazione che, guarda caso, hanno preso campo proprio in quegli anni, e sono state rese possibili proprio dalle nuove tecnologie e da un cambio radicale delle 18 N. Georgescu Roegen, vedi nota 64 al testo citato. “La caratteristica fiducia dell’economista nell’onnipotenza del meccanismo dei prezzi […] ha spinto molti miei ascoltatori a controbattere che la scelta fra il soddisfare i bisogni presenti o quelli futuri, con il consueto compenso per il differimento del consumo, stabilirà i prezzi appropriati all’utilizzazione ottimale delle risorse. Questa argomentazione non tiene conto proprio dei limiti del nostro orizzonte temporale, che non si estende al di la di un paio di decenni.” 19 N. Georgescu Roegen, op. cit. pag. 71 20 N. Georgescu Roegen, op. cit. pag. 72 21 N. Georgescu Roegen, op. cit. pag. 73 22 Reich, Supercapitalismo, pag. 61-62

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istituzioni di riferimento: dell’economia come del mercato, così come delle comunità. Com’è possibile che tali fenomeni abbiano interessato non solo gli USA ma contemporaneamente anche Europa e Giappone? La risposta sta proprio nella diffusione di potenti nuove tecnologie di calcolo, automazione, telecomunicazioni, sistemi di produzione che fanno sempre più affidamento sui software per abbassare i costi per unità di prodotto. Essi hanno consentito di operare sui mercati in modi e tempi fino allora impensabili ma allo stesso tempo hanno favorito una maggiore disuguaglianza e instabilità del sistema economico e la riduzione d’importanti valori sociali, come appunto l’ambiente o la salute e la sicurezza del lavoro, ecc.

“La tecnologia, la globalizzazione e la deregulation: questi tre fattori intensificano la concorrenza tra le aziende per attrarre o mantenere consumatori o gli investitori.”23.

Il passo successivo è la finanziarizzazione forzata delle economie e degli Stati24 con la “liberazione” di risorse “mobili” (capitale in primo luogo).

“…i container, le navi e gli aerei cargo, i cavi a fibra ottica e i sistemi di comunicazione satellitare […] hanno permesso la creazione di reti di fornitura globali. Hanno reso possibile lo sviluppo commerciale di computer e software in grado di ridurre drasticamente i costi di produzione, senza il bisogno di un’economia di scala, e di creare reti di distribuzione in Internet. […] Le tecnologie emergenti e la deregulation finanziaria, insieme, hanno offerto agli investitori la possibilità di depositare i loro risparmi in enormi fondi comuni e fondi pensione che esercitavano pressione sulle aziende affinché incrementassero i profitti.”25

Comunque e dovunque fossero ottenuti e a qualunque costo. Questo sancisce il patto faustiano, come lo definisce Reich, tra investitori e consumatori e le corporation26. La perdita del valore del lavoro, sia in termini di qualità, che di orari e salari, è il risultato di questo cambiamento radicale e non c’è green economy o responsabilità sociale d’impresa che sia in grado di invertire questa tendenza. La continua ricerca dell’affare migliore, del profitto immediato e più alto non è anche il risultato delle innovazioni tecnologiche, che, al tempo stesso, spingono la ricerca, l’ingegnerizzazione e il software verso certe direzioni e non in altre, per esempio, al risparmio di lavoro e aumento dei consumi energetici assoluti, mentre quelli relativi possono anche diminuire. Ciò in pratica ci riporta all’evidenza della non neutralità della scienza e della tecnologia, quando queste, per esempio, favoriscono, anche se non la creano, la forbice tra produttività e compensi27. Il fatto che la tecnologia non sia neutra, che non sia un dato oggettivo, ma un rapporto di sociale di produzione (che andrebbe ricondotto al principio di responsabilità28), porta con se che anche il ruolo dello Stato (istituzione necessaria per la nascita e lo sviluppo del capitalismo e della crescita, suo motore fondamentale29), che cambia anch’esso, e gli interventi pubblici devono sempre essere perciò valutati in base al metro utilitarista (e non in base ai bisogni sociali), e portare, sempre e comunque, il loro contributo all’efficienza dell’economia (leggi vantaggi per anonimi investitori di chi sa dove).

“Se tali benefici […] indeboliscano i diritti umani e civili, …o minino la sanità pubblica e l’armonia del paese, …spoglino le comunità locali, …generino un ambiente…meno pulito, rafforzino o indeboliscano la democrazia, non sono questioni degne di nota.”30

E’ così, allora, che, per esempio, gli effetti di pesticidi e prodotti di sintesi sulla salute e sull’ambiente sono esclusi dal dibattito pubblico e soprattutto dai controlli antitrust e sulle attività delle Corporation.

23 Reich, pag. 67 24 Vedi anche P.S. Jha, op. cit. 25 Reich, pag. 102 26 Reich, pag. 116-117-122 e 148 27 Reich, vedi figura allegata alla fine di questo capitolo - 3.2 1950-2005 pag. 121 - dove si osserva netta la forbice a partire dal 1980-85 28 vedi H. Jonas, Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. Einaudi 1993 29 F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Il Mulino 1988 30 Reich, pag, 188

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Da questo punto di vista appare del tutto fuorviante, rispetto alla necessità di un dibattito pubblico e normativo sulla catena alimentare in Europa, per esempio, una bizantina battaglia sull’etichettatura del “biologico”. Stesso ragionamento vale per la cosiddetta responsabilità sociale d’impresa31 che non ha cambiato le regole del gioco, che sono rimaste quelle dell’imperativo del massimo profitto nei tempi più brevi, né ha contrastato il calo di fiducia nella democrazia, anzi vi ha contribuito assegnando il ruolo di regolatore del mercato alle imprese, cioè al mercato stesso! Né ha contribuito a cambiare la realtà delle cose nonostante le “grandi” campagne dei consumatori americani o europei. Ciò vale anche per il fallimento dell’esperienza degli stakeholders32, funzione che non è riuscita tradursi in nuove regole democratiche e capacità di controllo dei cittadini. Per risolvere i problemi devono cambiare le regole attuali, diventare capaci di orientare gli attori sul mercato (per esempio europeo) ad azioni di supporto alla lotta ai gas climalteranti o alla mitigazione dell’effetto serra, o alla tutela del territorio, o benefici sanitari veramente universali o miglioramenti della qualità del lavoro o benefici salariali migliori, o tutelare la dignità del lavoro dalle nuove forme di sfruttamento e precarietà. Tutto ciò può essere raggiunto solo per via del processo democratico, ossia attraverso il controllo dei cittadini organizzati anche in nuove forme sussidiarie alla mano pubblica contro le distrazioni di massa dai problemi reali. Il rapporto tra interesse privato e interesse pubblico, tra Stato e cittadini non può più rimanere quello passivo, subalterno. Da qui la necessità/opportunità di ragionare sullo stato delle cose per la costruzione di nuove politiche e culture di rappresentanza, convivenza, governo e qualità della vita, dell’economia e del territorio. Nulla sarà come prima. In estrema sintesi nuovi punti di riferimento per superare la crisi con nuovi modelli di democrazia rappresentativa/partecipata, possono trovarsi nel seguente sintetico elenco: più politica, non meno; più autonomia e cooperazione del lavoro; più politiche pubbliche e cooperazione nell’economia; più sociale sussidiario e cittadinanza attiva nel welfare e nell’ambiente; norme certe e più autogoverno dei cittadini nelle politiche di controllo (territorio, ambiente, salute).

31 Reich, pag.196-197 32 Reich, pag. 206-207 e per quel che vale può testimoniarlo anche lo nostra esperienza diretta in Toscana tra il 2007 e il 2013

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Occhiali da sole, tre. Lezioni dimenticate

1. L’Europa, intesa come popoli e Stati nazionali, non conosce guerra da quasi settant’anni (esclusa quella dei Balcani con la fine della Jugoslavia, che non faceva parte però dell’Unione Europea). Non che nel mondo non vi siano stati conflitti e centinaia di migliaia di morti dalla fine della seconda guerra mondiale. Ci sono almeno due novità storiche: per la prima volta i conflitti non prendono origine dall’Europa e, per la prima volta, i conti tra Stati si regolano in Europa senza guerra. E’ un periodo di pace molto lunga considerando anche soltanto i conflitti europei del XIX secolo che pure era stato uno dei meno turbolenti: le guerre napoleoniche fino al 1815, i conflitti armati interni agli Stati (moti del 1820-21, 1830-31, 1848, le guerre d’indipendenza italiana) il conflitto franco-prussiano del 1970 e la Comune di Parigi del 1871, le varie guerre coloniali. Oggi, dopo un ottantennio dalla disastrosa crisi del 1929 sfociata nel secondo conflitto mondiale, l’Europa conosce la più grave crisi economica e sociale del dopoguerra con il risorgere delle discordie da interessi tra gli Stati sia pure membri dell’Unione, i conflitti tra le classi sociali ridotte a masse indistinte e al loro interno tra generazioni, le gravi crisi di speranza, le diseguaglianze sociali spaventose, i diritti messi in discussione, ecc. La perdita di memoria, la paura e la perdita di speranza riappaiono pesantemente nella storia dell'Europa, ancora una volta. L’Europa è anche il luogo dove si applicano le più dure ricette economiche di austerità con marcati effetti recessivi e depressivi che colpiscono duramente l’occupazione e lo stato sociale. L’ha rilevato nel 2013 persino lo stesso capo-economista del Fmi, Olivier Blanchard. Misure che, per ridurre il deficit di bilancio, portano al paradosso che il deficit non si riduce perché il PIL minore riduce le entrate fiscali e crea disoccupazione. Quando la recessione ha colpito dopo il crollo delle maggiori banche statunitensi, tutti i Paesi hanno adottato risposte che aumento del deficit di bilancio, soprattutto per ripianare i deficit bancari. Il problema si è aggravato con una recessione che non ha uguali dal 1929 indotta dalla crisi da debiti sovrani, da politiche di “austerità” fini a se stesse che stanno producendo gravi effetti recessivi e aggravando il problema del debito e aprendo alla depressione. 2. Se guardiamo la crisi attraverso la “lente” sistemica dei problemi sociali, politici, economici e ambientali è chiaro che non c’è solo la brutale forza distruttiva di fenomeni finanziari ma anche la sostanziale perdita di memoria storica non solo delle classi sottoposte, com’è ovvio, ma anche e soprattutto delle classi dirigenti. Infatti, come rilevava Kalecki33 fin dal lontano 1943 e poi nel 1967 e ancora nel 1970 una crisi così violenta, può essere anche il frutto della perdita di consapevolezza che il capitalismo fin dalla sua nascita non ha come scopo finale la produzione di beni di consumo e che la sua forza motrice “storica” è invece l’accumulazione34. Il suo obiettivo principale, cioè, non è soddisfare i bisogni umani, ma quelli dell’accumulazione per il profitto, in barba alle concezioni marginaliste dell’economia e degli apologeti del mercato. Il sistema, però, può sopravvivere anche nelle condizioni più sfavorevoli caratterizzate dalla riduzione effettiva dei consumi dei lavoratori e delle classi medie. Così non è per niente certo l’uso del PNL creato dalla piena utilizzazione delle forze produttive perché è anch’essa incerta, non data, specie se si trascurano i cicli economici35. Non solo, ma che la riproduzione allargata non è per niente ovvia e necessaria perché richiede un fattore supplementare dipendente (da altri) come le innovazioni tecnologiche, per esempio36.

33 Michał Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica- Saggi scelti 1933- 1970. Torino 1975 34 Si veda a questo proposito G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista, in particolare il cap. 1 parte II e Parte III pag. 282-422 35 Kalecki, op. cit. pag.176 36 Kalecki, op. cit. pag.177

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Bisognerebbe però rispondere alla domanda “perché i capitalisti dovrebbero continuare all’infinito a compiere un ammontare d’investimenti crescenti corrispondenti alla somma dell’ammortamento annuo con il saggio di accumulazione annuale del capitale” 37 [crescita dell’attrezzatura produttiva dovuta agli investimenti].

Infatti, riteneva Kalecki, appena prendessimo in considerazione il caso in cui a seguito di cambiamenti nella stessa struttura sociale della classe capitalista di una intera nazione, i capitalisti fossero ogni anno disposti a investire una quota inferiore di capitale e così via negli anni successivi, questo determinerebbe uno stato di sovrapproduzione. Perché in seguito alla

“riduzione dell’occupazione nelle industrie dei beni di investimento [macchinari, impianti, ecc., ndr] e nelle industrie che producono beni di consumo per i capitalisti, vi sarà anche una contrazione dei beni salario e una contrazione dell’occupazione in quelle industrie”

fino a quando anche il reddito dei lavoratori non diminuirà rispetto al capitale. Questo, però, non basterà a fermare la riduzione degli investimenti perché la situazione di crisi da sovrapproduzione influenzerà negativamente i capitalisti i quali ridurranno ancora gli investimenti

“contribuendo ad un ulteriore deterioramento della situazione”. Ciò può avvenire per molte ragioni, anche per una notevole riduzione delle capacità di spesa dello Stato o per crisi fiscale o l’aumento dei debiti38. Sorge così il problema dello squilibrio tra domanda e offerta e a causa del costante rapporto tra la parte dei profitti accumulati e quelli consumati, quest’ultima parte diminuirà rispetto al capitale. Qualcuno però potrebbe obiettare che questa è una crisi ciclica tipica che sarà seguita da un nuovo periodo di prosperità. Non vi è alcuna ragione che possa far ritenere valida tale obiezione. Dopo la rottura dell’equilibrio dinamico (tipico dell’economia capitalista) non rimane traccia della crescita di lungo periodo precedente (e delle sue caratteristiche)39. Anche perché, com’è, noto i capitalisti in materia d’investimenti non agiscono come classe ma come individui o unità separate. Sorge, allora, spontanea, un’altra domanda: che cosa garantisce la riproduzione del sistema in modo allargato (la crescita tanto per intendersi), ciò che porta, per dirla con Kalecki,

“a un livello dell’investimento lordo che eccede l’ammortamento?”.40 Kalecki ritiene che tale fattore sia dovuto all’influenza delle innovazioni tecnologiche sul sistema produttivo, la scoperta e messa a coltura di nuove fonti energetiche e materie prime, nuove scoperte scientifiche, ecc. Ciò significa che tale progresso tecnico non rende solo obsoleti i vecchi impianti sostituendoli con nuovi, ma costituisce il fondamentale stimolo a un investimento superiore la cui ragione risiede nel fatto che, i capitalisti (di qualunque settore, compreso quello finanziario)

“investono <<oggi>> [se] ritengono di avere un vantaggio rispetto a quelli che hanno investito <<ieri>>, a causa delle novità tecniche che essi possono sfruttare.”41

Attenzione, avverte Kalecki, l’allargamento (crescita) del sistema non equivale necessariamente all’eliminazione delle influenze negative di un’inadeguata domanda effettiva. Perché il saggio di crescita non è di per sé in grado di assicurare la piena utilizzazione degli impianti né tantomeno di tenerlo a un livello costante. Che cosa è intervenuto, allora, nel corso del secolo scorso a garantire la riproduzione allargata (crescita) del sistema, pur tra gravi crisi, recessioni e depressione (quella del 1929)? Quello che ha garantito l’accumulazione allargata non è stato solo il mercato globale ma anche l’intervento dello stato in economia, cioè il compromesso capitale – lavoro intervenuto a cavallo e dopo il secondo conflitto mondiale. Così, di nuovo, sorge spontanea un’altra domanda: ma oggi con

37 Kalecki, op. cit. pag.177 38 Kalecki, op. cit. pag.177 39 Kalecki, op. cit. pag.178 40 Kalecki, op. cit. pag.179 41 Kalecki, op. cit. pag.206

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il compromesso capitale - lavoro venuto meno, ossia con un sistema finanziario globale che ha forzato e cambiato tutte le economie e le regole e non si dimostra più interessato a una ripartizione più equa del surplus prodotto (welfare state, contrattazione collettiva per il lavoro, sostenibilità dello sviluppo), cos’è che può garantire un alto livello di accumulazione? Il capitale finanziario da solo, attraverso un nuovo compromesso? Tra chi? Per cercare di rispondere a questa domanda, che è bene che ognuno si ponga, è utile ricordare la seguente analisi di Kalecki (scienziato sociale dimenticato):

«Ogni allargamento dell'ambito dell'attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti; ma l'accrescimento dell'occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa. Nel sistema del laissez faire il livello dell'occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta a un declino della produzione e dell'occupazione (direttamente, o indirettamente, tramite l'effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico sulla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare l' "atmosfera di fiducia", in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo [o i governi, singoli o associati, come nel caso della UE, ndr] abbia imparato ad accrescere artificialmente l'occupazione tramite le proprie spese, allora tale "apparato di controllo" perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l'intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della "finanza sana" si fonda sulla dipendenza del livello dell'occupazione dalla "atmosfera di fiducia"»42.

42 Op. cit. Sulla dinamica dell’economia capitalista, Einaudi 1975, pag.166

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Occhiali da sole, quattro. Il FMI e la contraddizione delle “pantere grigie”

Nel Capitolo Uno scrivevamo che nella dinamica capitalista globale “…si sono aperte nuove

contraddizioni: il capitalismo finanziario, abbandonato il compromesso capitale-lavoro (1937-1969), si ritrova a confliggere con qualità e libertà del lavoro, con circa un miliardo di pensionati (nel 2030 gli ultra sessantacinquenni saranno oltre due miliardi – proiezioni OMS- e anche se molti saranno esclusi da forme di protezione sociale e pensionistica la cosa si sta facendo esplosiva), cioè persone che percepiscono un reddito senza lavorare (era avvenuto solo nelle epoche della nobiltà, ma per pochi), con l’allungamento della vita, che mette in crisi il già elevatissimo debito sovrano degli Stati occidentali, ed è ritenuto incompatibile dal FMI….”. Infatti, il Fondo Monetario Internazionale nel Global Financial Stability Report 2012 insiste

“sul crescente rischio di longevità (ovvero che la durata media della vita di una generazione d’individui sia maggiore di quella prevista) che sta interessando i sistemi delle pensioni di tutti paesi sviluppati”.

C’è tornato sopra anche Massimo Livi Bacci (Longevità: non tutto è progresso. Pubblicato il 31/10/2012 su Neodemos) e sempre su Neodemos anche Marcantonio Caltabiano (Il rischio longevità e la sostenibilità dei sistemi pensionistici. Pubblicato il 05/09/2012). Livi Bacci parte dalla giusta e mai troppo sottolineata considerazione che

“nulla è irreversibile, e anche la buona longevità può essere messa in crisi per motivi economici, politici e anche biologici”

e, infatti, se il costo della salute sta aumentando ovunque “l’approfondirsi delle disuguaglianze avvenuto nei paesi ricchi [e tra questi e gli altri, ndr] negli ultimi due decenni si riflette in forti disuguaglianze nella sopravvivenza.”

Rilevato poi che il peggioramento della sopravvivenza colpisce soprattutto i meno istruiti, Livi Bacci rileva che

“i divari … hanno pericolose implicazioni sociali. [E]…non a caso le ricerche mettono sull’avviso che la buona sopravvivenza richiede una maggiore coesione sociale e una istruzione migliore, più diffusa, e continua nel ciclo di vita.”

Caltabiano affronta, invece, il problema del rapporto tra longevità e sistema delle pensioni. Egli mostra come il FMI mandi in soffitta uno degli assunti fondamentali della società capitalista fin da quando essa si è costituita in Stati nazionali strutturati in politica estera, politica dell’istruzione, della sicurezza e della salute (almeno dalla metà del secolo XIX in concomitanza con la rivoluzione industriale): ossia che lo sviluppo capitalista, insieme alla crescita dell’accumulazione, avrebbe garantito il benessere così come una crescente aspettativa di vita. E nota che ciò avvenga senza l’apertura di un’adeguata discussione sulle prospettive dell’umanità, insieme alle questioni della crisi ecologica oltre che di quella sistemica in campo economico.

“Negli ultimi anni, riflettono gli economisti del Fondo Monetario, le previsioni della speranza di vita sono state sempre riviste al rialzo, e l’ipotesi di un rallentamento dell’accrescimento della durata media della vita nei prossimi decenni, peraltro sostenuta da numerosi studiosi, è discutibile perché non basata su solidi fondamenti.”

Da qui il FMI (il cui ragionamento riguarda soprattutto “i sistemi pensionistici di tipo defined-

benefit , molto diffusi negli USA, nei quali l’ammontare della pensione è calcolato in base all’età del pensionamento, al numero di anni di lavoro e all’ammontare dell’ultima retribuzione, ma non in base ai contributi versati. Di fatto sistemi analoghi al nostro ormai quasi defunto sistema retributivo.”) ricava la necessità di:

“(1) legare l’età al pensionamento alla speranza di vita, (2) passare a sistemi pensionistici di tipo

defined-contribution , in cui la pensione è calcolata in base al rendimento dei contributi versati e non alla (ultima) retribuzione percepita, (3) rinunciare all’aggancio delle pensioni al costo della vita. In Italia tutte e tre queste cose sono già state fatte.”43

43 Marcantonio Caltabiano , Il rischio longevità e la sostenibilità dei sistemi pensionistici. Pubblicato su Neodemos il 05/09/2012

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Non è (ancora?) il de profundis per le buone attese di vita legate a sistemi di welfare e di lavoro ma, la questione è posta. L’impostazione del FMI, però, trascura (volutamente?) due questioni fondamentali. La prima è che i sistemi delle pensioni comunque impostati e imperfetti partecipano ormai ai processi di finanziarizzazione dell’economia (fondi pensione) e alla crescita dell’accumulazione nella circolazione del denaro; la seconda è che salta a piè pari il rapporto che si può (deve?) stabilire tra tempo di lavoro e di non lavoro in cui è inclusa anche la fase della cosiddetta “collocazione a riposo” per tutti i tipi di lavoratori inclusi in sistemi di welfare. Cioè il problema di una cosiddetta terza età attiva. Perciò problemi e contraddizioni restano tutti aperti. Sulla questione del rapporto tra tempo di lavoro e tempo libero (o liberato secondo la definizione di Gorz44) conviene soffermarci un poco, in quanto costituisce uno dei problemi che fanno a cozzi con l’appropriazione privata del valore sociale del lavoro (e della conoscenza come della vita delle persone). La domanda che bisogna porsi è perché sia utile occuparsi di una terza età attiva e, a parte la banale e lapalissiana affermazione che è meglio vivere bene e più a lungo, piuttosto che male e meno, va subito chiarito che per vita attiva non intendiamo una vita contemplativa come pura attività della mente, o non solo questo. Si tratta in primo luogo della salute fisica e mentale che una vita attiva sembra favorire anche in età avanzata (patologie a parte). Ci sono, però, degli aspetti che attengono alla natura stessa degli individui e dei loro rapporti con e nella società e che riguardano lo stesso assetto sociale con cui gli individui entrano in relazione indipendentemente dalla loro volontà e che invece tenderebbero a voler sempre più consapevolmente ricondurre a un proprio percorso di vita, come risultato, non scontato, della stessa civiltà capitalista (Carandini). Sono questioni, perciò, che riguardano anche e soprattutto le nuove generazioni e non solo come singole persone. E’ da questo punto di vista che possono porsi le alternative all’economicismo finanziario e contabile del FMI fatto sulla pelle delle persone. In tal senso la prima questione che si pone è oggettiva e riguarda il

“rapido allungamento della speranza media di vita in paesi come la Francia (un trimestre in più all’anno)”45

ma anche nel resto d’Europa o l’Italia dove è anche più alta. Tendenze opposte si registrano per ragioni molto diverse sia in USA (vedi il citato articolo di Livi Bacci) che in Russia. La seconda è che vivere più a lungo richiede di farlo al meglio altrimenti non avrebbe senso; quindi “invecchiare bene” prima ancora di essere una questione sociale (e lo è senza dubbio) è una “richiesta personale” degli individui, almeno di quelli che si pongono (o possono porsi) il problema. Siccome, però, ha sempre più importanza la dimensione personale di stare bene in vecchiaia, dal tenore fisico-psicologico al “filosofare” per imparare a morire (o meglio per capire che la morte fa parte del ciclo della vita), a mantenere la memoria degli antenati e sociale, a mantenere una rete di relazioni, la questione non può ridursi a questo perché essa non può che essere la base di relazioni con un vasto complesso di attività sociali e materiali e non, senza le quali gli elementi dello star bene neanche potrebbero porsi; attività che, poi, sono le stesse che riguardano il futuro star bene degli individui giovani. E sono, come dice Sève nel citato articolo: la trasmissione dei saperi e delle esperienze professionali e di vita attiva, l’apprendimento e lo sviluppo della conoscenza e di nuove attività anche manuali (artigianali di qualunque tipo, per es.46), la partecipazione alla vita pubblica e politica, opere di volontariato, ecc.

44 Andrè Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri 1992 45 Lucien Sève (La luce della vecchiaia, per una terza vita attiva. LE MONDE diplomatique – il Manifesto, gennaio 2010 pag. 3) 46 Sennet, L’uomo artigiano, Feltrinelli 2008, “Fare è pensare” pag. 5 ; Maestria tecnica pag.28-29; abilità tecnica – lavoro artigiano e le macchine pagg. 44-45; uso corretto della tecnologia e lavoro di buona qualità pagg.50-51; qualità del lavoro = sapere tacito e consapevolezza esplicita pag 56; il laboratorio e la storia sociale del lavoro tecnico pag.60; laboratorio come spazio sociale moderno e attuale pag.77; lavoro in autonomia pagg. 70 -71-77-83-84, creatività (homo faber) pag. 76; trasmissione della conoscenza pagg. 78-81-82; cap.3 Le macchine pagg 85-118; I due pollici pagg.158-161; cap.7 Attrezzi che eccitano la mente pagg.187-204; cap.10 Il talento pagg. 255-271.

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Ciò dipenderebbe, sempre secondo Sève (che cita lo psicologo Alexis Leontiev), dal fatto che “la personalità socio biografica rappresenta tutt’altro che il semplice doppione dell’individualità biopsichica”.

Per questa ragione un individuo sente il bisogno di trasmetterla o comunicarla ad altri e, guarda caso, a individui più giovani. Infatti, se quella biopsichica sembra regolata – o meglio condizionata - “da dati di nascita o infantili” o da fattori ereditari, quella socio biografica è “una costruzione successiva” di logiche e fattori ambientali e sociali, storici e culturali, che si riflettono in una “singola biografia” assicurandone maggiore o minore autonomia. Questo è il punto fondamentale: il grado di autonomia conquistata dall’individuo (a partire dal lavoro come componente essenziale dell’esperienza di vita47) che a sua volta incide sull’autonomia sociale del complesso degli individui più o meno collegati tra loro (comunque interagenti anche se a diversi gradi di consapevolezza). Autonomia presuppone un profilo della personalità aperto

“tanto che l’invecchiamento delle funzioni psichiche elementari, se non è molto invalidante […] colpisce solo indirettamente la dinamica personale…”.

Prosegue Sève: “Qui come altrove , misuriamo i danni della concezione biologizzante di essere umano che fa tutt’uno con l’ideologia liberale [ma forse è più corretto dire liberista o neoliberista] –quella dell’Homo

oeconomicus, [che è opposta e molto più povera della concezione dell’Homo faber, ndr] animale geneticamente programmato per essere un individualista calcolatore-, mentre tutto quello che costituisce una personalità (dal linguaggio all’intelligenza critica, dal know-how alla conoscenza morale) trova la sua origine non nel genoma, ma nei rapporti sociali di cui ciascuno a suo modo si appropria nel corso della vita [a condizione che non sia dominato o annientato da essi, ndr]. Ciò richiede lo sviluppo di attività, a tutte le età, che portino a “nuove competenze umanamente ricche”.

Ciò è tanto più necessario, e reso ancor più evidente, per il fatto che “L’attuale crisi non è solo finanziaria, economica, sociale, ecologica, ma anche antropologica. Il genere umano è minacciato nei suoi valori [storicamente evoluti e determinati, ndr] e nella sua esistenza dall’implacabile logica che fa di ogni attività mentale e fisica una merce redditizia o da buttare.”

Si pensi al danno personale ed economico dei giovani precari di oggi che devono aspettare anni per un lavoro valido e che forse non lo raggiungeranno mai perpetuando una condizione di semi-schiavi o servi del tempo liberato di altri (Gorz), e che andranno (forse) “a riposo” (sic!) con una pensione infima. E mentre la

“Longevità creativa della popolazione conosciuta non dipende dall’eccezione biologica.”, la stessa longevità creativa potrebbe, invece, diventare la regola a condizione di “formare

umanamente le condizioni” 48 per tutti. Si aprirebbe così una riflessione di grande importanza se si pensa ai contenuti di una possibile sinistra riformista in Europa, in particolare in Italia che non ne ha mai avuta una compiuta e di massa, definita in un programma attraverso

“…l’effettiva emancipazione della successione delle età sociali [dalla emancipazione e dalla piena maturità dell’individuo, femmina o maschio che sia, senza le quali oggi non è possibile alcuna ricomposizione sociale intorno ad obiettivi di Libertà, Fratellanza e Eguaglianza, la Dignità, ndr]: offrire a ognuno una formazione iniziale di alto livello; eliminare la disoccupazione giovanile; sradicare in profondità l’alienazione del lavoro [creando le condizioni di libertà ed espressione

47 Marx, Critica del programma di Gotha pag. 39. Edizioni Samonà e Savelli, 1968 48 Karl Marx e Fiedrich Engels, La Sacra famiglia, Editori Riuniti 1967. La frase citata da Sève intera è: “Se l’uomo è formato dalle circostanze bisogna formare umanamente le circostanze”, pag 172. Ma gli autori si riferiscono alla visione delle origini del pensiero socialista e comunista in Francia e che qui si limitano a riportare senza sottoporre a critica, che rimandano ad altra sede. Quindi è difficile assegnare agli stessi la concezione un po’meccanicista e semplificatrice contenuta in quella frase al cui fondo c’è la concezione sulla “bontà originaria degli uomini” da cui parte il materialismo francese.

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dell’individuo nel lavoro, ora, non domani in una ipotetica società futura, ndr]; garantire una sicurezza continua del lavoro e/o della formazione; contemporaneamente passare da un tempo libero miseramente compensatorio a una vita fuori dal lavoro [e nel lavoro, ndr] riccamente formativa; favorire al massimo la formazione dei cinquantenni alla loro vita post-professionale –offrendo così la prospettiva di un lungo tempo diversamente attivo, fuori dalle logiche sfruttatrici in un sistema consolidato di pensioni per ripartizione, rivalorizzate sulla base di una più equa ridistribuzione delle ricchezze e indicizzate sui salari”. “Per una nuova felicità e una superiore efficienza sociale”.

Gli ultimi tre punti, però, “passare da un tempo libero miseramente compensatorio a una vita fuori

dal lavoro [il corsivo è nostro] riccamente formativa…”, “…la prospettiva di un lungo tempo diversamente attivo, fuori dalle logiche sfruttatrici in un sistema consolidato di pensioni per ripartizione, rivalorizzate attraverso una più equa ridistribuzione delle ricchezze e indicizzate sui salari.”, pongono molte più questioni di quante intendano risolverne. Se l’obiettivo principale è “sradicare l’alienazione del lavoro” è evidente che, come, tendenzialmente, per effetto delle macchine e dei sistemi automatici, la quantità di tempo di lavoro necessario per la produzione e per la riproduzione del capitale e della specie (come forza lavoro) si riduce49. Se, però, per lo stesso effetto della conoscenza e della scienza divenute direttamente forze produttive, la parte salariale quasi scompare nei costi di capitale (non consentendo più di misurare il lavoro sulla base del tempo prestato e compensato dal salario50), spostando così tutto il valore del lavoro dal valore di scambio (quantità di lavoro comandato necessario per produrre una merce) al valore d’uso del lavoro stesso51 (qualità e contenuti materiali e immateriali del lavoro), non ha senso rivendicare solo un tempo libero fuori dal lavoro durante la vita attiva, perché fuori tendono a prevalere modelli di consumo del tempo “libero” (che meglio sarebbe chiamare tempo vuoto). Anche perché il lavoro entra a far parte della vita completa dell’individuo (sia come progetto di vita e conoscenza che come sistema di relazioni; e si noti che è già così in molti lavori nella fase attuale di esistenza del capitalismo come modello economico di crescita che come civiltà storica). Ciò vale, anche se Sève intende fuori da un tempo “miseramente compensatorio” relativo a quello del pensionamento o “messa a riposo” perché la vita attiva “fuori dalle logiche dello sfruttamento” e in quella del lavoro liberato si estende fin quando l’elemento biologico del corpo umano lo rende possibile, cioè fin quando l’individuo non ha bisogno di un tempo di cura e assistenza nettamente superiore a quello di attività; e se non ci sono patologie che colpiscono duramente la parte celebrale del corpo, la vita “attiva” del pensiero può estendersi a occupare anche l’intera ultima parte della vita, esprimersi nella memoria (tramandata anche con l’ausilio dei potenti e versatili mezzi informatici, audiovisivi e di archiviazione, oggi disponibili) e anche nell’affetto e nel benvolere nei confronti di chi si occupa del corpo inabile. Inoltre, in un sistema di lavoro e di vita attiva così concepito, non avrebbe più senso rapportare le pensioni ai salari perché i salari stessi misurando il tempo di lavoro prestato – necessario- non sono più in grado di rappresentare un sistema sociale né quindi di misurare la qualità del lavoro impiegato. Le pensioni dovrebbero derivare, invece, da un’equa ridistribuzione della ricchezza generale come tale. Infatti, il contributo della parte salario alla creazione della ricchezza generale, quasi scompare perché essa è sempre più creata52 dal lavoro istruito e dalla conoscenza (tecnologia e scienza) accumulati nel passato e dal loro espandersi crescente (sia della conoscenza sia della

49 J.M. Keynes, Esortazioni e profezie, Il saggiatore 1994. “Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930)” pag.280: “Turni di lavoro di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema [si riferisce all’economia come luogo di appropriazione, ndr] per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.” Keynes qui affronta solo gli aspetti quantitativi di una politica macroeconomica del lavoro e a differenza del Marx dei Grundgrisse non si pone il problema della qualità del lavoro (quello che Marx chiama la fine della misurazione del valore d’uso attraverso il valore di scambio e quindi l’esprimersi di nuovo della potenza – powerful - del valore d’uso del lavoro cioè della sua qualità. 50 La questione di come remunerare il lavoro sulla base della qualità dello stesso l’affronteremo in altro momento. 51 Si rileggano a questo proposito le insuperate pagine di Karl Marx a proposito della “…contraddizione tra la base della produzione borghese misurata dal valore e il suo sviluppo stesso. Macchine ecc.” in “Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La nuova Italia 1970 vol. II pagg. 400 – 403). Vedi APPENDICE 1 52 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La nuova Italia 1970 vol. II pagg. 400 – 403

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scienza direttamente come mezzi di produzione e di circolazione del denaro), come prodotto sociale (surplus), in contraddizione col capitale la cui appropriazione privata del surplus in poche mani globali dimostra già tutte le sue terribili e distruttive –“miserabili”- contraddizioni. Insomma anche da questo punto di vista della condizione economica e sociale, personale degli anziani si propone tutta intera la questione del rapporto conflittuale tra accumulazione e crescita del capitale come tale e la sua stessa civiltà capitalistica che, come sostiene Carandini, è caratterizzata dall’intreccio storico tra Potenza, Accumulazione, Scienza e Religione.

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Occhiali da sole, cinque. Cicli economici e crisi dell’accumulazione – Il miracolo della

produttività

Ragionare sul rapporto, nuovo e diverso rispetto al secolo passato, tra crisi, produttività, investimenti e innovazione e infine occupazione non può prescindere dall’insieme dei rapporti economici, sociali e istituzionali della crisi che ci accompagna dall’agosto del 2007. L’insieme è approdato (dopo le bolle e le crisi finanziarie e bancarie, l’esplosione del debito statale, ecc.) all’aberrante (ideologico) inserimento nelle Costituzioni d’Europa del pareggio di bilancio così come all'agenda Schäuble53, che, prevede un supercommissario per bloccare i bilanci degli Stati membri irrispettosi delle regole sul deficit. Aberrante perché, come sostiene Guido Rossi,

“Dopo la vittoriosa rivoluzione [in America del nord, ndr] molti Stati erano gravemente indebitati ed Hamilton, quale segretario del Tesoro, nel Rapporto presentato al Congresso nel gennaio 1790, spinse il nuovo governo federale ad assumersi interamente quei debiti. Il risultato fu sorprendente: i debiti furono regolarmente ripagati e il surplus redistribuito tra gli Stati. Attualmente il governo federale americano sopporta quasi due terzi delle spese totali e ha certamente un vantaggio comparativo nell'indebitamento a tassi inferiori sia sul mercato interno, sia su quello internazionale. La semplice

conclusione è che se il governo federale americano sospendesse i finanziamenti, i singoli Stati

dovrebbero aumentare le tasse, operare tagli e indebitarsi ancora di più o dichiarare default”54.

Se la crisi dei debiti sovrani non è dovuta a un eccesso di spesa per il welfare o per investimenti pubblici in deficit, è anche vero, però, che molti stati si portano dietro debiti precedenti da molti anni. Negli ultimi decenni, ancor prima della crisi del 2007, vi sono stati, già, consistenti tagli alla spesa pubblica. Il problema è che l’austerità imposta all’Europa con nuovi tagli alla spesa sociale (scuola, sanità, trasporti: per coprire le voragini di debiti finanziari e bancari privati) oltre a peggiorare le condizioni sociali non è in grado di risolvere neanche la “storica” questione della crisi fiscale che dura dagli anni ottanta del secolo scorso. Ricordiamo, a questo proposito, la supply side economics di Ronald Reagan che tagliò le tasse soprattutto per le classi agiate, tagliò le politiche sociali e decimò il sindacato, ma il debito federale USA crebbe in modo spaventoso. Comunque il deficit degli Stati è un dato vero (e consolidato anche per effetto della scelta di finanziare le attività statali non più per via fiscale o con prestiti a lungo termine ma tramite il mercato finanziario a breve e medio termine), determinato dal salvataggio di banche e finanzieri responsabili della crisi: così lo spread non è una congiura, né un'invenzione, giacché è costato, guardando solo all’Italia nel 2011, ben 85 miliardi di interessi in più. Frutto di politiche sbagliate e classiste, questo sì, senza dubbio. Ma le lezioni del passato sono state opportunamente occultate; intanto in Italia:

“… come il premier dimissionario sa bene [Mario Monti, alla fine del 2012, ndr], la più grave crisi del secolo scorso (quella del 1929, per intenderci) è stata superata sul piano economico con la politica keynesiana (che suggeriva, in assenza di idee più luminose da parte dei politici, di creare lavoro magari facendo scavare delle buche e poi riempirle) e sul piano politico-sociale, anche ai fini di sostenere la domanda, con la creazione e l’estensione dello Stato Sociale. Non si può certo escludere che possano essere escogitate idee anticrisi più moderne ed innovative [sottolineatura nostra, ndr]. Quel che è certo è che, se esistono, esse non si trovano nel testo di Monti.”55

Di fronte alla crisi, la scuola economica delle classi dirigenti ritiene che per uscirne, senza cedere neanche una virgola del proprio potere, sia necessaria la crescita economica fondata sull’offerta di prodotti al minor costo del lavoro possibile (non importi con quale consumo di risorse e di

53 Wolfgang Schäuble. Dopo le elezioni politiche del 27 settembre 2009 che hanno portato alla formazione di una coalizione di governo tra CDU/CSU e FDP, è stato nominato Ministro Federale delle Finanze nel secondo governo Merkel. 54 Guido Rossi, in Sole 24 on line del 31/12/12 55 Pierre Carniti in “Eguaglianza e Libertà” on line del 28.12.12

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ambiente/energia, né di quali condizioni di lavoro) a cui la domanda “naturalmente” seguirà. La formula classica è produrre di più con meno occupati così da ottenere più ricchezza e qualcosa arriverà anche alle masse medie e povere. Secondo questa scuola di pensiero, serve, quindi, maggiore produttività ossia minori costi del lavoro per unità di prodotto. I più “illuminati” si spingono a sostenere che per farlo occorrono investimenti e innovazione. Da qui l’accordo separato del 2012 (non vi aderì la CGIL) sulla produttività patrocinato dal capo del Governo, che prevedeva un meccanismo d’incentivi e disincentivi fiscali per le imprese, al fine, vero, di sbarazzarsi dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro. Se avesse seguito la maggior parte dei lavoratori, rimarrebbe priva di tutele e il sindacato subirebbe un inarrestabile declino, ricalcando le orme del Patto FIAT che escludeva la FIOM dalla contrattazione e degli accordi su produttività, salario, orari e occupazione, e del settore auto negli USA56. Qui cominciano i problemi, che la Teoria economica si rifiuta di prendere in esame per la semplice ragione che per essa non esistono. Vediamoli un po’. 1. Intanto come sostiene Kalecki

“La teoria contemporanea tende a considerare il problema dello sviluppo delle economie capitalistiche in termini di equilibrio dinamico piuttosto che affrontare la questione in modo simile a quello adottato nella teoria dei cicli economici”57.

Ciò significa quello che abbiamo visto in questi anni, cioè che la Teoria economica non è in grado di spiegare le crisi, poiché per essa le crisi non esistono: infatti il mercato sarebbe in grado automaticamente di riportare in equilibrio (dinamico, appunto) le sproporzioni tra domanda e offerta, tra investimenti e produzione, ecc. A parte la considerazione che affidare al mercato, portatore esso stesso di sproporzioni spaziali e temporali58, la soluzione dei problemi legati al processo di accumulazione (cui del resto lo stesso mercato partecipa), appare come il classico ragionamento circolare, la Teoria finisce col trascurare due questioni fondamentali legate all’accumulazione di capitale:

“…una riguardante gli effetti esercitati dalla domanda effettiva generata dagli investimenti sui profitti e sul reddito nazionale; e l’altra che spiega la determinazione delle decisioni di investimento mediante, per esprimerci in termini generici, il livello e il ritmo di mutamento dell’attività economica.”59.

Mutamento e suo ritmo che sono influenzati da molteplici fattori economici, politici, sociali, demografici, ambientali, ecc., che la Teoria dominante (astratta e atemporale) non è in grado (o non vuole) di prendere in considerazione.

56 La questione è stata risolta nel 2013 dalla Corte Costituzionale che ha dichiarato l’incostituzionalità di quel Patto e dell’esclusione della Fiom – Cgil dalla rappresentanza sindacale in fabbrica. 57 M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalista, Einaudi 1975, pagg. 197-198 58 Vedi K. Marx, Storia delle dottrine economiche, Einaudi 1955, pagg. 559-562 “La difficoltà della vendita – nell’ipotesi che la merce da vendere abbia un valore d’uso – deriva semplicemente dalla facilità con cui il compratore può differire la riconversione del denaro in merce. La difficoltà di convertire la merce in denaro, di vendere, deriva semplicemente dal fatto che la merce deve essere convertita in denaro, mentre il denaro non deve essere immediatamente convertito in merce, dal fatto cioè che la vendita e l’acquisto possono andar separati. Noi abbiamo detto che questa forma include la possibilità della crisi…” “Si può dunque dire: la crisi nella sua prima forma è la metamorfosi della merce stessa, la separazione tre acquisto e vendita. La crisi nella sua seconda forma [ha origine dalla] funzione del denaro come mezzo di pagamento, in cui il denaro figura in due momenti differenti, separati nel tempo, in due differenti funzioni.” “…il capitale-merci complessivo e ogni singola merce di cui esso consta, deve percorrere il processo M-D-M, la metamorfosi della merce. La possibilità generale della crisi, che è contenuta in questa forma, - la separazione fra l’acquisto e la vendita, - è dunque contenuta nel movimento del capitale, in quanto esso è anche merce e nient’altro che merce.” “Questo concrescere e aggrovigliarsi dei processi di riproduzione o di circolazione di capitali differenti, da un lato è necessario per la divisione del lavoro, dall’altro è accidentale, e così si allarga la determinazione di contenuto della crisi:” “Così sorge una crisi generale. Questa non è altro che la possibilità della crisi sviluppata col denaro come mezzo di pagamento, ma qui già vediamo, nella produzione capitalistica, una connessione fra crediti e obbligazioni reciproche, fra gli acquisti e le vendite…” Sulle Sproporzioni nel processo di accumulazione vedi anche C. Napoleoni “Il futuro del capitalismo, crollo o sviluppo?” Laterza 1970, Introduzione pag. XXXII-XXXIII-XXXIV-XXXV e XXXVI-XXXVII 59 Kalecki, op. cit. pag. 196

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2. Esaminiamo ora la raccomandazione che per uscire dalla crisi sia necessaria maggiore produttività60 ossia minori costi del lavoro per unità di prodotto e/o di tempo. Essa può essere ottenuta con un taglio dei salari, con un maggiore impiego di tecnologia di produzione o processo, con un aumento del tempo di lavoro assoluto o relativo o entrambi, con tecnologia innovativa che risparmia lavoro; o combinando più fattori insieme. Il peso del costo del lavoro ormai è poca cosa rispetto al costo degli impianti perciò se il capitale variabile61 diminuisce e il capitale costante62 aumenta, il saggio di profitto si riduce (una delle tendenze su cui Marx fondava la sua teoria della crisi generale63). Va da se che il flusso di processo e l’impiego del capitale costante deve assolutamente essere garantito senza interruzioni. Osservava Claudio Napoleoni 64

“…poiché il profitto è generato, per Marx, solo dal capitale variabile, ne segue che il saggio del profitto è tanto minore quanto minore è il capitale varabile in rapporto al [capitale, ndr] costante.”

Nella realtà operano anche controtendenze alla caduta del saggio di profitto65 (anche nello schema logico del ragionamento marxiano) e, proseguiva Napoleoni,

“dall’altro lato, accrescendo la produttività del lavoro e abbassando perciò il valore delle merci, diminuisce il lavoro necessario [a riprodurre la forza lavoro, ndr], aumenta quindi il saggio del plusvalore e, per questo verso, esercita un’azione positiva sul saggio del profitto. ” 66

Quale delle due tendenze sia destinata a prevalere non è stato ancora chiarito. Per inciso, la teoria del valore lavoro su cui si fonda la critica di Marx all’economia politica e del capitale, con Sraffa che ha risolto il problema della formazione dei prezzi nella produzione di merci con altre merci67, è superata nel suo tentativo di spiegare anche il rapporto tra lo profitti e andamento dei prezzi, in particolare nella formazione di questi ultimi in rapporto al valore contenuto nelle merci; ma, sostiene Carandini, da ciò

“… è derivata la errata convinzione che la teoria del valore, non potendo dar ragione dei prezzi di mercato, doveva essere falsa e che assieme ad essa, doveva essere rigettata l’intera teoria di Marx.”68

Alla Teoria tutto ciò non interessa, perché il profitto deriva, pur elle, dalla “giusta remunerazione” del capitale impiegato, quindi se è “giusta” (leggi: massima), per definizione, il saggio di profitto non può diminuire. Esso può solo aumentare nelle attese degli investitori e se il capitale industriale non genera più tale “giusta” remunerazione (neanche il perché di questo fatto interessa alla Teoria) si va a cercarla negli investimenti finanziari, speculativi (che costituiscono non un’eccezione, un evento “occasionale”, ma una costante dell’accumulazione capitalista: rivolgersi a ciò che può garantire un’accumulazione e un vantaggio massimi). Si “gioca” così sul debito sovrano, o sulle bolle immobiliari, sulle derrate alimentari, sui future dell’energia, o di che sa diavolo altro, che è quello che è successo dalla fine degli anni settanta del secolo scorso fino ai giorni nostri. Così conclude Napoleoni:

“Comunque insomma si consideri il saggio del profitto [che influenza le decisione di investimento da parte dei capitalisti e che tende all’uniformità, su questo concorda anche la Teoria, ndr], le forze che su di esso agiscono sono di tale natura che non si può dire a priori se hanno prevalenza quelle che tendono ad abbassarlo, oppure quelle che tendono ad aumentarlo. L’idea perciò di una crisi finale, o

60 C. Napoleoni, op. cit. nella nota 56. Pagg. XXIV, XXVIII 61 Termine con cui Marx indicava il capitale necessario ad acquistare la forza lavoro e che continuiamo ad usare perché rende bene l’idea di cosa stiamo parlando. Qui, e in tutto il testo, ci riferiamo al Marx critico dell’economia politica tedesco e non agli altrettanto famosi fratelli Marx del cinema (Chico, Harpo, Grucho, Gummo e Zeppo). 62 Termine con cui Marx indicava il capitale investito in impianti e macchine, lo sviluppo tecnologico insomma compresa la componente innovazione. 63 C. Napoleoni, op. cit. pagg. XXVII e XXVIII 64 ivi pag. XXVIII 65 Per controtendenze alla caduta del saggio di profitto vedi C. Napoleoni op. cit. pag. XL - XLI e Dizionario di Economia Politica, Boringhieri 1989, N. 15, pag 201-202 66 C. Napoleoni, op. cit. pag. XXVIII 67 Piero Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Einaudi 1969 68 Guido Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia. Pag. 37, e da pag. 105 a pag. 128, Editori Laterza, 2005

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“crollo” che si voglia dire, dovuta ad una caduta del saggio del profitto nell’ambito della piena realizzazione della legge del valore non è un’idea della quale Marx dia sufficienti giustificazioni”. 69

Non è quindi qui che possiamo trovare risposte adeguata alle domande sulla crisi. Il continuo aumento della produttività è meccanismo fondamentale della civiltà capitalista e Marx aveva colto nel segno come riferisce Claudio Napoleoni:

“La finalizzazione della produzione a se stessa, alla propria sistematica espansione, il fatto cioè che l’accumulazione è il punto di partenza e insieme il punto di arrivo del processo produttivo dominato dal capitale, conferisce, per la prima volta nella storia, al processo produttivo stesso la capacità di sviluppare, al di fuori di ogni condizionamento esterno, la produttività del lavoro. Più precisamente, il fatto che, al contrario ad esempio di quanto avveniva nelle società signorili, il consumo di certe classi non si ponga come scopo, e perciò anche come limite e vincolo, della produzione, libera la produzione stessa da ogni condizionamento esterno: l’aumento della produzione, attraverso l’aumento della forza produttiva del lavoro, si costituisce come la base dell’intero processo.”70

3. Bisogna, allora, entrare nel merito dei meccanismi del rapporto fra produzione, circolazione (mercato) e accumulazione. Va tenuto presente, a questo proposito, che il processo capitalistico di accumulazione non può fermarsi e, per restare a quello nella produzione, per poterlo garantire occorrono investimenti in grado di ampliare la base produttiva sia in termini assoluti sia relativi (innovazione); ma tra le decisioni d’investimento che ogni singolo capitalista prende in proprio, non agendo in questo mai come classe, e l’investimento stesso passa del tempo; come diversa è la grandezza di tale investimento al momento della decisione e quello dell’attuazione, così che tali differenze hanno a che fare con l’andamento ciclico dell’economia e quindi con le crisi71. Così come la diversa distribuzione dei capitali e delle tecnologie tra i diversi settori sono all’origine di crisi cicliche72. Gli imprenditori che avranno preso, per primi, decisioni d’innovazioni tecniche otterranno risultati in profitto migliori delle media, momentaneamente.73 Allo stesso tempo il processo d’innovazione è contraddittorio nel senso che possa dare vantaggi a chi lo persegue, ma determinare, nello stesso tempo, squilibri settoriali e dare origine a crisi (crisi da realizzo e crisi da sproporzioni74). Questi fatti dovrebbero spingere, dal punto di vista dello Stato, a perseguire innovazione e produttività attraverso politiche e interventi pubblici, non necessariamente diretti, comunque tesi a orientare il settore privato; anche al fine di impedire che innovazione e maggiore produttività si traducano in minore occupazione. Se per il singolo capitalista può essere indifferente che investimenti in innovazione e l’aumento di produttività si traducano in risultati economici collettivi (occupazione, salari, reddito nazionale), per l’interesse pubblico non lo è e lo Stato deve agire di conseguenza coinvolgendo tutti gli attori (imprese, settori, sindacati, territori e cittadini) attraverso veri e propri patti per gli investimenti e il lavoro, l’ambiente. Torniamo ora alla lezione di Kalecki sul rapporto tra investimenti innovazioni e crisi.

“Gli ordini di beni di investimento [sono] considerati come funzione della profittabilità lorda e del

tasso dell’interesse. Il volume […] degli ordini di beni di investimento a un dato tempo dipende dalla profittabilità netta attesa. Perciò quando gli imprenditori prendono in considerazione l’investimento di un capitale k nella costruzione di impianti, essi calcolano il profitto lordo atteso p. Da questo dobbiamo sottrarre: 1) gli ammortamenti βk (dove β è la quota di ammortamento); 2) l’interesse sul capitale k, che ammonta a ik (poiché i è il tasso di interesse); 3) l’interesse sul capitale circolante impiegato in

69 C. Napoleoni, op. cit. pag. XXX 70 ivi pag. XXIV 71 M. Kalecki, op. cit. pagg. 10-18 e fino a 20) 72 Sproporzioni vedi C. Napoleoni, op. cit. pag. XXXIX anche XXXVI – XXXVII- XXXVIII 73 M. Kalecki, op. cit. pag. 206e tutto il capitolo 15. 74 C. Napoleoni, op. cit. pagg. XXXIV-XXXV; Crisi da realizzo o crisi cicliche Pag. XXV tutto il secondo capoverso e XXXII.

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futuro, che ammonta a iγ k, se γ rappresenta il rapporto tra il capitale circolante impiegato in futuro e il capitale fisso k.”75

Prosegue Kalecki “…il volume I degli ordini di beni di investimento è una funzione crescente dell’accumulazione lorda A e una funzione decrescente del volume K dell’attrezzatura produttiva.”76

Allo stesso tempo l’aumento della forza produttiva del lavoro, la produttività, comunque ottenuta produce, essa stessa, “sproporzioni” tra settori tali da contribuire all’andamento ciclico del sistema che in particolari condizioni di mercato possono portare alle crisi. Tanto da fare ritenere a Karl Marx che tale processo potesse essere alla base della crisi “finale” del capitalismo. Certo è che tale processo può contribuire a determinare sproporzioni tra domanda e offerta tra vari settori di industrie o anche in un solo settore dell’economia e può generare

“una <<reazione a catena>> che può coinvolgere anche parti molto vaste dell’economia. In conclusione, dunque, un processo accumulativo [che si fonda sull’aumento della forza produttiva del lavoro, ndr] che si svolga in condizioni di mercato [su questa distinzione fondamentale tra accumulazione del capitale e mercato torneremo nel Capitolo sei con l’analisi di Guido Carandini77, ndr] è sempre soggetto alla possibilità di <<sproporzioni>>, alla possibilità, cioè, che i rapporti tra le industrie non siano proprio quelli che occorrono affinché offerta e domanda complessive siano tra loro omogenee.”78

In pratica significa che gli ordini in beni d’investimento (in cui è compresa anche l’innovazione tecnologica e di processo) crescono se aumenta l’accumulazione la quale non può non crescere pena la caduta dei profitti. Se, però, l’accumulazione per qualche ragione si blocca o diventa negativa il livello degli ordini di beni d’investimento calerà (ciò riguarda le decisioni d’investimento dei singoli imprenditori che come investitori non agiscono mai come classe, come abbiamo detto).

“Queste proposizioni ci permettono già di dire qualcosa riguardo al meccanismo del ciclo economico. Un aumento degli ordini di beni di investimento comporta un incremento della produzione di beni di investimento, che è uguale all’accumulazione lorda. Ciò genera a sua volta un’ulteriore crescita dell’attività di investimento[…]. Tuttavia, dopo che è trascorso un intervallo di tempo […] dal momento in cui gli ordini di beni di investimento hanno superato il livello del fabbisogno di rinnovi, il volume dell’attrezzatura produttiva comincia ad aumentare. Ciò in un primo momento riduce il saggio al quale l’attività di investimento aumenta, e in un secondo tempo comporta la diminuzione degli ordini di beni di investimento. In particolare, è impossibile rendere stabile l’attività di investimento a un livello superiore al fabbisogno di rinnovi. Infatti, se gli ordini di beni di investimento rimanessero a un livello costante, anche la produzione di beni di investimento, che è uguale all’accumulazione lorda, rimarrebbe costante, mentre l’attrezzatura produttiva aumenterebbe poiché l’investimento è maggiore del fabbisogno di rinnovi. Tuttavia in tali circostanze gli ordini di beni di investimento comincerebbero a decrescere […] e la stabilità dell’attività di investimento sarebbe turbata. Durante la depressione il processo ora descritto è rovesciato. Gli ordini di beni di investimento non sono sufficienti a far fronte al fabbisogno di rinnovi, ciò comporta una riduzione del volume dell’attrezzatura produttiva e infine una ripresa dell’aumento degli ordini di beni di investimento. Stabilizzare l’attività di investimento a un livello inferiore a quello che assicura un adeguato rinnovo del capitale fisso è impossibile quanto stabilizzarla a un livello che eccede il fabbisogno di rinnovi.” 79

E per maggiore chiarezza analitica prosegue “ Per ripresa intendiamo qui la fase di lunghezza […] del ciclo, durante la quale gli ordini di beni di investimento superano il livello del fabbisogno di rinnovi; tuttavia l’attrezzatura produttiva non ha ancora cominciato a espandersi perché le consegne di nuova attrezzatura sono ancora inferiori al fabbisogno di rinnovi.”80

Così,

75 M. Kalecki, op. cit. pag. 10 76 Ivi pag. 13 77 G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista. Dalla Venezia del 1200 al mondo del 1939. Laterza 2012 78 C. Napoleoni, op. cit. pag. XXXIV 79 Kalecki, op. cit. pag. 14 80 Ivi pag. 15-16

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“Durante l’espansione le consegne di nuova attrezzatura superano già il fabbisogno di rinnovi e, per conseguenza, l’attrezzatura produttiva K comincia a espandersi. L’aumento di K comporta, all’inizio, la riduzione del saggio di aumento degli ordini di beni di investimento e in seguito la loro diminuzione. Ciò è seguito, nella seconda metà della fase di espansione, dalla riduzione della produzione di beni di investimento. Durante la recessione gli ordini di beni di investimento sono inferiori al livello del fabbisogno dei rinnovi. Tuttavia il volume dell’attrezzatura produttiva si sta ancora espandendo poiché le consegne di nuova attrezzatura sono maggiori di tale livello. La produzione di beni di investimento, che è uguale all’accumulazione lorda A, continua a diminuire, e ciò, insieme all’aumento di K, provoca una rapida caduta degli ordini di beni di investimento. Durante la depressione le consegne di nuova attrezzatura sono già al di sotto del livello di fabbisogno di rinnovi, e per conseguenza il volume dell’attrezzatura produttiva K si restringe. La diminuzione di K rallenta all’inizio la caduta degli ordini di beni di investimenti e in un secondo momento ne provoca l’aumento. Ciò comporta la crescita della produzione dei beni di investimento nella seconda metà della fase di depressione.”81

Queste pagine di Kalecki descrivono bene l’andamento del ciclo dovuto all’alternarsi dell’instabilità dovuta all’aumento della domanda di beni d’investimento e al suo rallentamento dovuto al superamento della stessa da parte dell’offerta di beni d’investimento. Queste crisi sono “fisiologiche” ma possono diventare “patologiche” se s’inseriscono in una situazione di crisi di sistema dovuto ad altri fattori esterni all’investimento in beni di produzione, come può essere nel nostro caso: una crisi determinata dal meccanismo tipico dell’accumulazione capitalistica alla ricerca delle occasioni di massimizzazione del profitto in ambito finanziario (speculativo). Le crisi cicliche, così, possono diventare patologiche, anche se non trovano risposte adeguate sul piano delle politiche strutturali e del credito. Oppure per squilibri nel mercato finanziario e del credito, nelle politiche di cambio delle monete, nelle bilance commerciali e dei pagamenti. Ciò significa, in parole povere, che nel sistema capitalista si hanno crisi cicliche dovute al funzionamento stesso del meccanismo dell’accumulazione per sproporzioni temporali e spaziali o nel meccanismo di mercato tra domanda e offerta (sovrapproduzione o sottoconsumo), oppure possono darsi anche crisi più gravi legate alla “Potenza”82, nella civiltà capitalista, che sta nella ricerca del massimo profitto rispetto al profitto medio consentito dal mercato ed in particolare al prevalere del capitale finanziario su quello produttivo. E’ chiaro anche che tutto ciò non dipende da singole decisioni in ambito politico, sociale o economico, né tantomeno da singole o momentanee riduzioni o aumenti della produttività e/o dell’accumulazione di capitale. Esso dipende da scelte complessive agite su più piani: politico, sociale, economico e in generale su quello ambientale, contemporaneamente e che sono risolvibili solo con decisioni e scelte che agiscano su questi stessi piani determinando e cambiando volta per volta modi di essere, agire, istituzioni e regole vantaggi e svantaggi per i vari soggetti, tali da mutarne caratteristiche e connotati. Agire sul solo aumento di produttività pensando di far fronte alla crisi è, da una parte, illusorio ma, dall’altra socialmente dannoso.

81 Ivi pag. 16 82 G. Carandini, op. cit. in particolare capitolo 7 (paragrafi 5, 6, 7, 8 e 9)

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(In Robert Reich, 2008)

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Occhiali da sole, sei. Surplus e knowledge

1. Nell’introduzione alla Conferenza Programmatica della CGIL tenutasi il 25-26 gennaio 2013 Laura Pennacchi83 riporta in sintesi alcuni dati noti ma, impressionanti, nella loro crudezza, relativi a disoccupazione, surplus e finanza, disuguaglianze sociali. Su una disoccupazione totale nel mondo di circa 200 milioni di persone, almeno trenta sono imputabili alla crisi degli ultimi anni; unità cui vanno aggiunte circa ventinove milioni di persone uscite dal mercato del lavoro perché scoraggiate. Sul versante della creazione del surplus84 che cosa è accaduto prima della crisi iniziata nel 2007 e durante le prime fasi della stessa?

“Nel 2001, a fronte di un PIL mondiale superiore a 54 trilioni di dollari, la capitalizzazione delle borse mondiali si aggirava intorno ai 61 trilioni e le obbligazioni pubbliche e private superavano i 60 trilioni; a metà del 2008 il valore nominale delle quote di derivati85 trattati nelle borse era di 80 trilioni di dollari, mentre di quelli scambiati fuori mercato toccava i 684 trilioni, con un totale di 764 trilioni, 14 volte il PIL globale (Pennacchi, 2010).”86

Ciò significa che a fronte di una ricchezza “reale” creata (PIL) di 54 trilioni di dollari girava per il mondo una ricchezza “virtuale” di 764 trilioni che poggiava su quella stessa ricchezza reale, tant’è che se all’improvviso si fosse scatenata una richiesta a esigerne il valore, essa, in realtà, non sarebbe potuta, semplicemente, essere pagata! Un disastro potenziale. Questo è ciò che rappresenta il fenomeno delle finanziarizzazione dell’economia capitalistica del XXI secolo (che ha coinvolto e travolto la stessa economia di mercato e l’economia materiale87) rispetto a fenomeni di finanziarizzazione (o di prevalenza del capitale finanziario sul resto dell’economia) del XX secolo (espressosi con la crisi del 1929 durata quasi dieci anni) o del XIX, concluso con la crisi economica, tra la fine del secolo e l’inizio del nuovo; crisi sfociata, poi, nella prima guerra mondiale.88 Perciò su un surplus totale mondiale di circa 818 trilioni di dollari, la ricchezza “materiale”, concreta, con cui la specie umana si sostiene e si riproduce, così come il capitale industriale, agricolo, ecc. rappresentava solo il 7% nel 2008. L’altro fenomeno caratteristico di questa epoca è la grande disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del reddito:

“…la ricchezza netta delle 350 persone più ricche del mondo è divenuta pari al reddito complessivo dei 2,3 miliardi di persone molto povere (il 45% della popolazione mondiale) e i 200 superabbienti più che raddoppiano il loro patrimonio netto. Con ciò le disuguaglianze89 si rivelano essere una causa fondamentale della crisi e, al tempo stesso, una sua drammatica conseguenza.”90

2. Viene allora spontanea la domanda: ma tutta questa ricchezza reale e virtuale da dove trae origine? Quella reale poggia sull’economia di mercato e sulla vita materiale, cioè sulla grande potenza della tecnologia e della scienza che pur consentendo “profitti normali” hanno permesso al sistema economico di crescere e fino a ieri, insieme alla crescita del benessere (sia pure a scapito dei paesi poveri, della qualità ambientale del pianeta e producendo il riscaldamento globale accelerato dell’atmosfera). L’altra, quella finanziaria, figlia anch’essa di una potentissima

83 “Tra crisi e <<grande trasformazione>>, Libro bianco per il Piano del Lavoro 2013” , AA.VV. a cura di Laura Pennacchi, EDIESSE 2013. pagg. 15-18 84 La ricchezza annuale creata e distribuita 85 In finanza, è denominato strumento derivato (o anche, semplicemente derivato) ogni contratto o titolo il cui prezzo sia basato sul valore di mercato di uno o più beni (quali, ad esempio, azioni, indici finanziari, valute, tassi d'interesse). Gli utilizzi principali degli strumenti derivati sono la copertura di un rischio finanziario (detta hedging), l'arbitraggio (ossia l'acquisto di un prodotto in un mercato e la sua vendita in un altro mercato) e la speculazione. Da WIKIPEDIA 86 Laura Pennacchi, op. cit. pag. 17 87 Braudel, La dinamica del capitalismo, il Mulino 2011 88 Altre crisi precedenti 89 Stiglitz, 2012 90 Laura Pennacchi, op. cit. pag. 18

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innovazione tecnologica (quella informatica e della diffusione dei computer), si fonda sulla riduzione del tempo delle transazioni ridotto in pratica a zero.

“Oggi dare più importanza agli aspetti finanziari della crisi o agli aspetti riguardanti l’economia reale è fuorviante, così come è insufficiente vedere, dell’economia reale, solo i problemi di domanda – cosa che tende a fare Krugman (2012) – e trascurare quelli di offerta. L’enfatizzazione del nesso tra fattori ciclici e fattori strutturali (in particolare attinenti alle tendenze della globalizzazione, allo slittamento dalla manifattura ai servizi, all’andamento della produttività e alla qualificazione del lavoro; Delli Gatti, Gallegati e altri, 2012), così come la sottolineatura della radicalità del cambiamento tecnologico e innovativo (Antonelli, 2012), non possono essere fatte né in modo deterministico, né a scapito della considerazione della pluralità delle variabili in gioco91. Una specificità di questa crisi è il ruolo svolto dalla superfetazione e dall’ipertrofia della finanza92, la cui autonomizzazione – pur molto antica, risalente addirittura a Hilferding e prima [anche molto prima nei passaggi da una egemonia ad un’altra nel sistema dell’economia mondo, almeno tra il XV e il XVIII secolo – si vedano a questo proposito Braudel e Carandini93 - ma anche e soprattutto Arrighi, ndr] – ha assunto una potenza inedita. Superfetazione e ipertrofia finanziarie, però, sono connesse a tendenze dell’economia reale e dello sviluppo tecnologico veicolate dalla globalizzazione (Russo, 2012), su cui la finanza ha retroagito venendone a sua volta influenzata. ”94 95

Se la crisi in atto è tutto questo bisogna, allora, metterla in stretta relazione con i cambiamenti che sono intervenuti nel lavoro determinandone una vera e propria metamorfosi e contemporaneamente nelle forme della proprietà privata che oggi ha assunto soprattutto, se non esclusivamente, quelle della appropriazione della capacità intellettuali: ossia la nuova forma della proprietà intellettuale. Basti osservare la vera e propria guerra intorno alla questione delle regole dei brevetti, in particolare per quel che riguarda la conoscenza e la comunicazione, ma soprattutto la ricerca scientifica nel campo della salute e in quello alimentare, la fisica delle particelle, ecc.

91 Braudel, op. cit., pagg. 98-99 “Certamente il capitalismo di oggi ha cambiato radicalmente taglia, raggiungendo proporzioni fantastiche, si è sviluppato per rimanere al passo coi cambiamenti avvenuti alla base e coi mezzi tecnici e finanziari, anch’essi fantasticamente cresciuti.” (p.98) [Notare che Braudel non assegna al capitalismo i cambiamenti avvenuti alla base – economia di mercato e vita materiale - e con i mezzi tecnici e finanziari, la scienza che ha raggiunto frontiere inimmaginabili, ma che anzi si è sviluppato per rimanere al passo con essi in una sorta di osmosi – simbiosi, ndr] “Ma, fatte le dovute proporzioni, non credo che la natura del capitalismo abbia subito un radicale e profondo mutamento. Tre elementi vengono a sostegno della mia tesi: 1) Il capitalismo rimane basato sullo sfruttamento delle risorse e delle possibilità internazionali: in altri termini esiste una scala mondiale, o per lo meno si muove in questa direzione. Il suo attuale e più importante obiettivo è la ricostruzione di questo universalismo. 2) Si appoggia ancora ostinatamente su monopoli, di diritto o di fatto, malgrado le reazioni violente che ha suscitato a questo proposito. L’organizzazione – come si dice oggi – continua ad aggirare il mercato. Ma siamo in errore quando consideriamo che si tratta di un fatto del tutto nuovo. 3) Inoltre – malgrado ciò che si dice di solito – il capitalismo non esaurisce l’intera vita economica, non contiene l’intera società produttiva, non assorbe mai completamente, né l’una né l’altra, in un sistema considerato perfetto [il meccanismo capitalistico perfetto è pura astrazione, ndr]. La tripartizione di cui mi sono servito e di cui ho analizzato gli elementi – vita materiale, economia di mercato, economia capitalistica – mantiene un impressionante valore analitico ed esplicativo, anche rispetto alle proporzioni ingigantite del capitalismo dei nostri giorni.” 92 Braudel, op. cit. pag. 64 “…esistono dunque due tipi di scambio, uno rasente il suolo, concorrenziale, quasi trasparente; l’altro, di più alto livello, sofisticato, dominante. Questi due tipi di attività non sono regolati né dagli stessi meccanismi, né dagli stessi agenti e non è al primo livello, ma al secondo che si situa la sfera del capitalismo.” 93 Braudel, op. cit. e Carandini, op. cit. 94 Braudel, op. cit. p.65 “…il fattore determinante è il movimento d’insieme e che ogni forma di capitalismo risulta direttamente proporzionale alla forza ed alla estensione delle economie sottostanti.” “Ogni società ad un determinato grado di sviluppo, si scompone in differenti <<insiemi>>: l’insieme economico, politico, culturale e quello della gerarchia sociale. Il livello economico può essere compreso solo in relazione agli altri <<insiemi>>, perché esso si disperde e nel contempo si apre allo scambio con i livelli vicini, creando un sistema di azioni e reazioni [e retroazioni, ndr] Questa forma parziale e particolare dell’insieme economico che è il capitalismo non può essere pienamente compresa se non alla luce di queste contiguità e di questi sconfinamenti [la Potenza, l’Accumulazione, la Scienza e la Religione di Carandini, ndr]: solo in tale modo essa rivelerà il suo vero volto.” 95 Laura Pennacchi, op. cit.

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Per quanto riguarda il lavoro è evidente che sempre più rilevanti, ai fini della produzione di ricchezza, sono i contenuti scientifici e di controllo dei sistemi (macchine, trasporti, reti, ecc.), quello che Marx chiamava knowledge. Le nuove forme della proprietà privata riguardano la stessa materia di cui si occupa il lavoro nella sua forma di valore d’uso, cioè la forma della sua qualità particolare, quasi personale. Significa che, ciò che si è affermato con la civiltà capitalistica, cioè che il lavoro materiale, è entrato a far parte dello stesso sistema di rapporti sociali e di produzione ed è da essi regolato. A differenza dei sistemi precedenti (schiavistico e servitù), dove la sfera del lavoro materiale era nettamente separata ed esclusa dai rapporti sociali determinati dalla forma di proprietà. Nelle forme più alte dello sviluppo capitalistico cui siamo arrivati, però, lavoro materiale e intellettuale non sono più distinguibili, superando ciò che era stato il fondamento stesso dei primi sviluppi del capitalismo nella prima e nella seconda rivoluzione industriale. Il contenuto del lavoro, la knowledge, il valore d’uso del lavoro riprende, così, il sopravvento sul valore di scambio pur nella contraddizione di continuare a essere classificato in base al tempo (quantità) in cui è impiegato. Questa contraddizione insanabile costituisce il motivo vero che sta alla base della crisi attuale, che come crisi finanziaria e come crisi ciclica di sistema potrà anche risolversi nel medio periodo per ritornare in forme e tempi diversi e accelerati rispetto al passato, ma proprio in virtù di questo contrasto insanabile tra lavoro – knowledge e capitale - proprietà intellettuale. Se la ricchezza nasce e si sviluppa in virtù della conoscenza sociale acquisita e in continua espansione, è evidente che l’estrazione di plusvalore da rapporti di sfruttamento (valore di scambio della forza lavoro valutato in base al tempo d’impiego e ai costi di riproduzione del lavoro dell’uomo) si è ridotta fortemente e concentrata prevalentemente nei paesi come i BRICS. 3. A questo punto bisogna affrontare il problema del <<surplus>>, la ricchezza che cresce nella civiltà capitalista, da dove esso tragga origine e come lo si possa definire per meglio comprendere i problemi che ci stanno davanti. Esso non è identificabile con il <<plusvalore>> marxiano, perché è qualcosa di più e di diverso. Il surplus economico è definibile come

“…la differenza tra la produzione effettiva corrente e il consumo effettivo corrente della società. Esso quindi si identifica con il risparmio o accumulazione corrente…”96

Il surplus si è generato in tutte le formazioni economiche sociali, è la sua appropriazione che da luogo alle forme politico-giuridiche delle società: schiavista, feudale, capitalista.

“Il surplus economico effettivo è stato generato in tutte le formazioni socioeconomiche, e anche se il suo volume e la sua struttura sono stati notevolmente differenti da una fase di sviluppo all’altra, la sua presenza si avverte in quasi tutta la storia conosciuta.”97

Pertanto “ Il ritmo e la direzione dello sviluppo economico in un certo momento in un dato paese […] dipendono dal volume e dal modo di utilizzazione del surplus economico. Questi ultimi sono a loro volta determinati (e determinano essi stessi) il grado di sviluppo delle forze produttive, la corrispondente struttura dei rapporti economico-sociali e il sistema di appropriazione del surplus economico che tali rapporti comportano”98 “Ciò non impedisce che la medesima base economica – medesima per ciò che riguarda le condizioni principali – possa manifestarsi in infinite variazioni o gradazioni.”99

Infatti, sosteneva Baran (e sono le stesse cose che sosteneva Braudel in altro contesto), “Basti […] sottolineare che il passaggio dal feudalesimo al capitalismo rappresentò un mutamento radicale nel metodo di estrazione, nel modo di utilizzazione e quindi nel volume del surplus economico”100.

96 Paul A. Baran, Il “surplus” economico e la teoria marxista dello sviluppo, Feltrinelli 1970 pag. 34 97 Paul A. Baran, op. cit. pag. 35 98 Paul A. Baran, op. cit. pag. 57 99 Karl Marx, Il Capitale, Roma, 1956, vol. III, 3, pag. 199 100 Paul A. Baran op. cit. pag 58

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E, prosegue, “Esattamente come il passaggio dalla schiavitù alla servitù della gleba – la base dell’ordinamento feudale – che ebbe luogo alla fine dell’antichità costituì una importante pietra miliare sulla via dello sviluppo economico e sociale”101.

Ovviamente si tratta di ricostruzioni storiche, che pigliano atto dei fatti e li riorganizzano secondo un punto di vista, e che non rappresentano affatto una tendenza “necessaria” allo sviluppo o al “progresso”. L’approccio di Baran al surplus ha, però, dei limiti imposti dal fatto che egli usa tale concetto per tentare di superare e risolvere le contraddizioni della teoria del valore lavoro in Marx. Esso, invece, è molto di più e Baran con Sweezy lo rilevano quando, come nel passo e nella nota appena riportati qui sopra, rilevano che è sempre esistito sotto qualunque forma economica e organizzazione sociale almeno dalla “prima rivoluzione agricola” in poi. L’importanza, nuova, del concetto di surplus si rivela oggi (ma anche Marx l’aveva intuita nel famoso “frammento sulle macchine”) quando la ricchezza generata dalla conoscenza e dalla scienza incorporate nella macchine e nei sistemi finanziari, di produzione, trasporto, comunicazione automatizzati e computerizzati ha raggiunto livelli tali, capace di auto riproduzione, da rendere la produzione di plusvalore assai limitata e quella di surplus generale enorme, come abbiamo visto all’inizio. 4. Tutto comincia con l'agricoltura che fu la grande rivoluzione del neolitico, definita anche come la "prima rivoluzione agricola". Tra il IV e il I millennio avanti Cristo l'Europa fu progressivamente coinvolta in un rapido processo di rinnovamento sociale ed economico. Ha inizio quella che gli studiosi di preistoria del XIX secolo chiamarono età della pietra levigata o nuova. L'origine di questa rivoluzione è rintracciabile nel Vicino Oriente, dove qualche millennio prima, alcune comunità semi-nomadi iniziarono a praticare l'allevamento e a coltivare i primi cereali. L’appropriazione del surplus (dallo scambio in là) costituisce ciò che da forma alle civiltà e alle forme della politica (non si tratta di una visione meccanicista, tutt’altro, ma di tenere insieme analisi di tipo storico, economico, sociale, politico, culturale e scientifico, religioso). Così esso assumerà prima la forma dello schiavismo, poi della servitù e del capitalismo (prima mercantile, poi industriale e poi finanziario globale). Proprio in quest’ampliamento a dismisura

“del processo di riproduzione corrispondente allo sviluppo dei bisogni e all’incremento della popolazione, che dal punto di vista del capitale si chiama accumulazione …”,

consiste la “funzione civilizzatrice del capitale”,102

più “…di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc.”103

Fu con il capitalismo industriale che, “mentre la dominazione del capitale si andava estendendo, e anche le sfere produttive non direttamente rivolte alla creazione di ricchezza materiale divenivano in realtà sempre più strettamente dipendenti da esso, e specialmente le scienze positive (le scienze naturali) venivano considerate come mezzi al servizio della produzione materiale, i sicofanti subalterni dell’economia politica si cedettero in dovere di glorificare e giustificare ogni sfera di attività ponendola ‘in connessione’ con la produzione della ricchezza materiale, facendone un mezzo di essa; e così fecero di ogni uomo un ‘lavoratore produttivo’ in senso ‘stretto’, cioè un lavoratore al servizio del capitale, a esso utile in un modo o nell’altro.” 104

Ed è sulla base di questo nuovo “ordinamento capitalistico”105 che viene considerata la remunerazione del lavoro a livello sociale per cui in una economia di una nazione

“…è sempre possibile esprimere un giudizio sul volume e la composizione del reddito reale occorrente per ciò che socialmente si considera come “un livello di vita decente”.

101 Paul A. Baran, op. cit. nota 2 pag 58 102 K. Marx il capitale terzo libro vol. II pag. 1101-1102 103 idem 104 K. Marx, Storia delle teorie economiche, Einaudi, 1954 vol. I pag.277. 105 Baran, op. cit. pag. 44

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Ma con l’espandersi del sistema di produzione e dell’ordinamento capitalistico, della civiltà capitalista106,

“Più complicata e meno facilmente delimitabile dal punto di vista quantitativo è l’identificazione dei lavoratori improduttivi.” 107

Così “…l’individuazione e la misurazione di questa parte improduttiva dello sforzo economico nazionale complessivo non possono ottenersi attraverso l’applicazione di una semplice formula. Parlando in

maniera generalissima, questa parte improduttiva è formata da tutto quel lavoro che ha come risultato

la produzione di beni e servizi la cui domanda si possa attribuire alle condizioni e ai rapporti

specifici del sistema capitalistico…”108 Esso, prosegue Baran

“…viene mantenuto con una parte del surplus economico della società.” E più la civiltà capitalista si evolve, sempre più grande è questa componente del lavoro che la parte direttamente produttiva è sempre più assorbita dalla potenza delle macchine. Così

“Questa caratteristica [sempre più, ndr], tuttavia, è comune anche ad un altro gruppo di lavoratori che non rientrerebbero nella nostra definizione di lavoro improduttivo. Scienziati, medici, artisti [calciatori, ndr], insegnanti ed altri aventi simili occupazioni, vivono anch’essi sul surplus economico della società…”109

ed è impossibile valutarne il lavoro sulla base del tempo dedicato, così come diventa una contraddizione stridente tentare di incasellarne capacità, ruolo e funzione in forme contrattuali rigide incapaci di valutare il valore d’uso che la società stessa riconosce loro. Oltretutto questo riconoscimento muta socialmente e storicamente secondo i valori che la società e gli individui stessi esprimono. Per l’appunto il

“…lavoro può essere necessario senza essere produttivo. Per creare tutte le condizioni g e n e r a l i , collettive della produzione – fintantoché esse non possono essere create dal capitale in quanto tale, sotto le sue condizioni – si ricorre allora ad una parte del reddito nazionale, all’erario pubblico …”110

Qui poi Marx apre una prospettiva che lascia intendere come anch’egli si rendesse conto del fatto che con lo sviluppo delle forze produttive la creazione del surplus anche in regime capitalistico non fosse più riferibile alla creazione di plusvalore ed allo sfruttamento dell’operaio poiché

“… la produzione di mezzi di comunicazione, ossia delle condizioni fisiche della circolazione [ma questo concetto è estendibile senza particolari problemi all’uso della rete internet per spostare capitali e informazioni, ndr], rientra sotto la categoria di produzione di capitale fisso, e perciò non costituisce alcun caso speciale. Solo che, parallelamente, ci si è aperta la prospettiva – che a questo punto non è ancora possibile delineare rigorosamente – d i u n o s p e c i f i c o r a p p o r t o t r a i l c a p i t a l e e l e c o n d i z i o n i g e n e r a l i , c o l l e t t i v e d e l l a p r o d u z i o n e s o c i a l e , a differenza di quelle del c a p i t a l e p a r t i c o l a r e e del s u o p a r t i c o l a r e p r o c e s s o d i p r o d u z i o n e .”111

Come dire che mentre nell’attività produttiva del singolo capitalista (qualunque sia il suo status giuridico) il rapporto di produzione si manifesta sempre e comunque come produzione di plusvalore, a livello di produzione sociale non è più così quando entrano in campo la conoscenza (knowledge) e la scienza come forze produttive sociali. In questo caso si tratta di produzione di surplus a livello dell’intera società. Il surplus è tutta la ricchezza (non più il plusvalore del singolo capitale) che è creata dalla tecnologia (macchine), scienza e conoscenza sociale (ma la scienza ormai è molto di più che una potentissima forza produttiva, è una penetrazione nei segreti dell’universo e contribuisce dopo Copernico, Galileo, Keplero, Heisemberg a rendere l’umana vicenda piccolissima quasi inesistente con tutti i seguiti psicologici drammatici del caso, ma questa è un’altra storia…).

106 G. Carandini, op. cit. 2012) 107 Baran, op. cit. pag. 43 108 Baran, op. cit. pag.45, corsivo nel testo. 109 Baran, op. cit. pag. 45 110 K. Marx, Grundrisse, La nuova Italia, vol. II pag. 172-173 [432]. 111 K. Marx – Grundrisse vol. II pag. 173.

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Il surplus è tutta la ricchezza prodotta in un anno e “La sua ripartizione presuppone […] l’esistenza di questa sostanza, precisamente il valore complessivo del prodotto annuo, che altro non è se non lavoro sociale oggettivato”.112

Sono le macchine (in quanto conoscenza e scienza113), che il lavoro progetta e controlla, che creano la ricchezza anche quando si tratti solo del loro ammortamento.

“…il reinvestimento delle quote d’ammortamento a un livello tecnico superiore – anche senza un investimento netto – può bastare da solo a sorreggere una significativa espansione produttiva. Perciò dove l’intensità di capitale del processo produttivo è già elevata – in altre parole, dove la quota d’ammortamento costituisce una parte notevole del costo di produzione – esiste, continuamente disponibile, una fonte di capitale con cui finanziare le innovazioni tecnologiche senza alcun bisogno di investimento netto [non se questa fonte viene usata per investimenti finanziari o speculazioni come è successo ben prima della crisi del 2007 e come continua nelle strategie delle multinazionali, ndr]. Questo fatto, se da un lato rende più grave la instabilità delle economie capitaliste progredite, facendo aumentare il volume del surplus prodotto che l’investimento dovrebbe assorbire [vedi Kalecki, ndr], dall’altro dà ai paesi progrediti un notevole vantaggio rispetto a quelli sottosviluppati, dove le quote annue di ammortamento sono necessariamente esigue.”114 “Dunque, quando è impiegato molto capitale costante, e per conseguenza molto capitale fisso, esiste, in questa parte di valore del prodotto che ricostituisce il logoramento del capitale fisso, un f o n d o di a c c u m u l a z i o n e che, da parte di chi l’impiega, può essere usato per l’impianto di nuovo capitale fisso (o anche di capitale circolante), senza che per questa parte dell’accumulazione vi sia alcuna detrazione dal plusvalore [o dal surplus per il capitale complessivo, ndr] (vedi Mac Culloch). Questo fondo di accumulazione non si trova a livelli di produzione e in nazioni in cui non esiste un grande capitale fisso. Questo è un punto importante. E’ un fondo che serve costantemente ad apportare miglioramenti, a estendere la produzione, ecc. Ma ciò a cui vogliamo arrivare è questo. Se il capitale totale impiegato nella costruzione di macchine fosse anche solo sufficiente a ricostruire il logoramento annuo del macchinario, esso produrrebbe molte più macchine di quelle attualmente richieste, poiché una parte del logoramento non esiste che idealmente, e realmente non dev’essere ricostituito in natura che dopo una certa serie di anni. Il capitale così impiegato fornisce dunque annualmente una massa di macchine che è disponibile per nuovi investimenti di capitale e che anticipa questi nuovi investimenti.”115

Così, ancora, sulla ricchezza reale creata socialmente dalla conoscenza, ossia il surplus, sono estremamente chiari questi altri passi di Marx nei Grundrisse:

“…nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta –questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. (Lo sviluppo dì questa scienza, in particolare della scienza della natura, e con essa dì tutte le altre, è a sua volta di nuovo in rapporto allo sviluppo della produzione materiale).” 116

E ancora, “La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nella enorme sproporzione fra tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore. (Ciò che si è detto delle macchine, vale anche per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo delle relazioni umane).”117

112 K. Marx, Il capitale, Libro III vol. II, pag. 1105 113 Baran, op. cit. pag. 41 114 Baran op. cit. pag. 33 115 K. Marx, Storia delle teorie economiche, pag. 529-530 116 K. Marx, Grundrisse, “Frammento sulle macchine” vedi Appendice 1. 117 Idem, Grundrisse, op. cit. pag. 401; e ivi pag. 394-395 sulla scienza.

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Non è più, allora, più il lavoro come categoria generale “astratta”, ma l’uomo con la sua natura a essere capace, con la sua conoscenza e la scienza come ricchezza sociale, di sorvegliare e regolare processi enormi e complessi. Si tratta perciò di una presenza consapevole come individuo e come essere sociale in continua evoluzione. Anche Keynes a più riprese si è occupato del problema, ed è particolarmente indicativo il seguente passo, collocato in una prospettiva storica e coniugato al futuro, e che la dice lunga su come anch’egli vedesse nello sviluppo della scienza e della conoscenza, per la prima volta nella storia, la possibilità, almeno nelle forze materiali, della liberazione dell’umanità dal bisogno e come da questo fatto si generino, necessariamente, profondi sconvolgimenti nello stesso modo di essere e di agire:

“I grandi investitori, quelli che sanno sempre come far soldi, possono portarci con loro nel regno dell’abbondanza. Ma di questa abbondanza godrà solo chi riuscirà a coltivare l’arte della vita, perfezionandola senza vendersi. Eppure nessun paese, e nessun popolo, può guardare alla prospettiva di questa età dell’oro senza un filo di apprensione. Da troppo tempo ci alleniamo a combattere, non a divertirci. Per l’uomo medio, che non ha particolari talenti e nemmeno più radici nella terra, o nelle venerate convenzioni di una società tradizionale, tenersi occupato rappresenta un problema tremendo. A giudicare dal comportamento e dai risultati delle classi agiate di oggi [di allora, 1928, ndr], in ogni angolo del mondo, le prospettive non sono rosee. E ricordo che si tratta, per così dire, della nostra avanguardia – del drappello mandato in avanscoperta a piantare le tende nella terra promessa. La maggior parte di loro – tutti quelli che hanno un reddito, e però nessun legame con gli altri, nessun dovere, nessun obbligo – ha fallito, va detto, in modo disastroso: non sono riusciti a risolvere il problema. Sono convinto che con un po’ di esperienza in più noi arriveremo a trarre da questa nuova abbondanza molto più profitto di quanto non facciano i ricchi di oggi, riuscendo a stilare un programma di vita molto migliore del loro. Ancora per moltissimi anni l’Adamo che c’è in noi sarà cosi forte che ciascuno, per tenerlo buono, sentirà di dover lavorare ancora un bel po’. Dovremo fare più cose per noi di quante non ne facciano oggi i ricchi, così soddisfatti delle loro piccole incombenze, dei loro compitini, delle loro abitudini da poco. E dovremo fare di virtù necessità – mettere il più possibile in comune il lavoro superstite. Turni di tre ore, o settimane di quindici, potranno procrastinare per un po’ il problema. Tre ore al giorno dovrebbero senz’altro bastare per placare l’Adamo. Dobbiamo aspettarci grandi cambiamenti anche in altre sfere. Nel momento in cui l’accumulazione di ricchezza cesserà di avere l’importanza sociale che le attribuiamo oggi, i nostri codici morali non saranno più gli stessi.”118

5. Allora, parliamo dell’appropriazione della ricchezza. Questa della ripartizione119 del surplus è la questione fondamentale dell’oggi, come aveva ben individuato Baran120, nei lontani anni sessanta del secolo scorso, cioè della forma stessa dell’accumulazione. Essa avviene, oggi, sostanzialmente in due modi dominanti (altri ce ne sono, ma secondari, per es. la rendita): - la forma della proprietà intellettuale (brevetti); - la forma finanziaria dei derivati (o altro, via via ritenuto più adatto ad assicurare il massimo profitto)121. Accumulazione e appropriazione della ricchezza dipendono dai rapporti di produzione che rimangono capitalistici fin quando sussiste “il regno della necessità”122, fino ad arrivare al limite della nuova frontiera che è la salute di tutto il pianeta e delle specie a partire da quella umana (vedi il Capitolo Occhiali tre). 118 Keynes, “Possibilità economiche per i nostri nipoti”, Adelphi pag. 24-25. 119 Marx, , il capitale terzo libro vol. II pag. 1105. “La ripartizione presuppone […] l’esistenza di questa sostanza [il sovrappiù, ndr], precisamente il valore complessivo del prodotto annuo, che altro che non è altro se non lavoro sociale oggettivato.” 120 Baran, op. cit. pag. 46 e nota 14; Vedi K. Marx “Critica del programma di Gotha”, Samonà e Savelli, 1968, pagg. 36-37. 121 Grundrisse, op. cit. vol. II pag. 262-263 [Lo scopo della produzione capitalistica è il valore (denaro), non la merce, il valore d’uso ecc. Chalmers. –Ciclo economico. – Processo di circolazione – Chalmers] [494]. 122 Marx, il capitale terzo libro vol. II pag. 1102-1103

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La storia ci mostra, anche, come l’appropriazione della ricchezza e lo specifico modo di produzione o dei rapporti sociali tra questa e il lavoro sia stata in stretta correlazione con le forme della politica. Dalla civiltà di Atene fondata sullo schiavismo e l’artigianato come forma autonoma tollerata e la polis (gli uomini liberi) a quella del Medioevo fondata sul rapporto servitù della gleba e il potere delle signorie. Così nell’Età del capitale dove si afferma la libertà giuridica perché il rapporto di sfruttamento (sociale) – capitale / lavoro - è portato dentro lo stesso processo di produzione (mentre negli altri due sistemi l’appropriazione era esterna al mondo della produzione). Le cose cambiano di nuovo dal momento in cui il surplus si crea direttamente nella forma dell’accumulazione e appropriazione della scienza come capitale e della dominazione della forma finanziaria del capitale, quando il problema della libertà giuridica del lavoratore non si pone più come condizione della creazione di plusvalore e il capitale unifica in sé Potenza e Scienza123 come forme e condizioni della produzione della ricchezza sociale. In queste nuove condizioni il capitale può “finalmente” convivere con tutte le forme politiche che gli diventano indifferenti: dalla democrazia dominata dalla finanza e dalle multinazionali, al dispotismo e all’assolutismo assicurandosi il consenso di ristrette gerarchie nel campo della scienza e della finanza. Ciò è ben rappresentato dal rapporto valore d’uso valore di scambio e come sostiene Marx

“…lo scopo del capitale produttivo non …[è] mai il valore d’uso, bensì la forma generale della ricchezza.”124 perciò “Il grande obiettivo del capitalista monetario infatti è di aumentare l’ammontare nominale del suo patrimonio.”125. Anche perché, continua Marx, “Il valore d’uso [di una merce e del lavoro come tale, ndr] non si riferisce all’attività umana quale fonte del prodotto, al suo essere creato dall’attività umana – bensì al suo essere per l’uomo.”126

Riassumendo, in sintesi, nella fase attuale di capitalismo finanziario, da una parte, e ricchezza prodotta dall’uso capitalistico della scienza, dall’altra, ritorna la centralità del valore d’uso:

- la qualità del lavoro non è più riducibile allo sfruttamento di forza – lavoro o al plusvalore; (vedi Grundrisse p. 400-403 / 403-406 / 410-411 su Furier, e anche pag.278, 279);

- qualità del lavoro e liberazione dal bisogno di lavorare non sono in contraddizione, tutt’altro, i due processi s’incrociano e si intersecano (Grundrisse, pag.410 [600] e Keynes, op. cit.);

- qualità del lavoro = valore d’uso e qualità della persona e di quel che conosce e sa fare (es. il calciatore o l’attore super pagato perché valutato così socialmente);

- è la scienza – conoscenza che crea il surplus, così allo stesso tempo il rapporto di “sfruttamento” cioè il plusvalore diventa sempre più marginale e privo di significato (se non nei BRICS, per il momento ma anch’essi a passi rapidi si stanno orientando all’economia della conoscenza);

- grandi professionalità, servizi alla persona, all’ambiente, arte, ecc. sono pagati con il surplus (non ha più molto senso nemmeno la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale così come la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo), vedi Baran p.45; anche la “definizione” originale di surplus nei Grundrisse, vol. II pag. 172-173 [432];

- Il regno delle libertà comincia dove cessa il bisogno…. “Il capitale” pag. 1102 -1103> poi Grundrisse p. 278-279-280-281;

- Tutto questo deriva dalla potenza delle macchine; vedi “la scienza e le macchine”: Grundrisse pag. 390-91-92-93-94 / 395 / 399.

E’ in questo senso che oggi possiamo parlare di nuova centralità del lavoro, non dei lavoratori come classe sociale che traeva la sua forza organizzata dall’essere accomunata, dal capitale, come venditrice della sua forza lavoro, come valore di scambio, ma come “persone” che lavorano perché

123 G. Carandini, op. cit. 2012 124 K. Marx, Grundrisse vol. II pag. 262 [494] -14- 125 K. Marx, Grundrisse vol. II pag. 263 [494] 126 K. Marx, Grundrisse vol. II pag. 280-281.

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possiedono un valore d’uso, sono capaci di fare delle cose (materiali o immateriali che siano non ha importanza) e lo sono perché espressione di una conoscenza sociale diffusa, knowledge. Certamente queste persone hanno necessità di tutele e rappresentanza sul luogo di lavoro e sul territorio, sempre più su quest’ultimo, a dire il vero. Da qui la funzione ancora importante delle organizzazioni sindacali ma che non esprimono più, o molto meno, almeno per ora, una funzione di movimento verso nuovi equilibri, come quella che fu, anch’essa, civilizzatrice, del Movimento operaio europeo. 6. Classi sociali e movimenti (azioni civilizzatrici). Le classi sociali sono esistite fin dalla comparsa del surplus come ricchezza creata e distribuita nelle varie forme di società. Le classi esistono ancora ma non hanno più un rapporto diretto con il sistema della produzione (come nella forma fordista che è stato il livello massimo di concentrazione ed espansione della classe operaia). Cambiata la forma di produzione, in quanto a organizzazione d’impresa e del lavoro, potenziata al massimo la produzione automatizzata (e altri sviluppi in questo senso s’intravedono già grazie all’informatica e alla bioingegneria) il Lavoro, come lavoro immediato, direttamente produttivo, ha perso un centro e costituisce una parte sempre più piccola della ricchezza prodotta socialmente. Il surplus è sostanzialmente prodotto dal sistema delle macchine, o se si vuole dall’immensa quantità e qualità del capitale fisso, “fissato” nelle macchine e nei “sistemi”, dalla qualità dei “cervelli”, con i quali si è in grado di produrre ed espandere altro capitale e altre macchine (fino ad arrivare ad accumulazione e riproduzione allargata anche senza nuovi investimenti ma semplicemente con il capitale impiegato nell’ammortamento127). Scienza e conoscenza sono base e motore di tutto questo.128 In che cosa risiedono, allora, le possibilità di cambiamento/evoluzione in senso civile (di civiltà, diritti civili universali, ecc.) della società globale (pur con tutte le diversità ereditate dal passato anche dal punto di vista economico oltre che da quello culturale, politico, scientifico, religioso), in contrasto ai processi di imbarbarimento, conflitti armati, carestie, pandemie e tracolli ambientali, geologici, geofisici, ecc.? Esse risiedono nei movimenti reali delle società coinvolte dai processi di cambiamento (il ben

scavato vecchia talpa! di Marx), movimenti che con i loro processi carsici legati a trasformazioni talvolta violente e rapide, altre volte quasi impercettibili e lente, possono determinare nel bene e nel male l’andamento delle cose. La crisi profonda della politica e della rappresentanza, nella sua forma storicamente più alta conosciuta, quella della democrazia parlamentare, sta proprio in questo venire meno delle classi sociali come protagoniste dei processi reali in quanto il baricentro della creazione della ricchezza si è spostato dal formula trinitaria (capitale, lavoro, rendita - Marx) a quella (binaria?) tra capitale e scienza/conoscenza, dove, a queste ultime, sta stretto, molto stretto il vestito della appropriazione “miseramente” privata del surplus prodotto. Da questo nascono sia le varie contraddizioni che coinvolgono il Lavoro, dalla nuova centralità del valore d’uso –qualità del lavoro-, alla ricomparsa di forme di servitù129 legate non più a poche signorie, ma a una vasta pluralità di soggetti detentori di una fetta molto ampia del surplus, sia le contraddizioni che coinvolgono la politica e lo stato. La gestione e il governo del surplus e delle “macchine”/scienza/conoscenza diventa così non più una questione che coinvolge il sistema, (una volta si sarebbe detto “la formazione economico-“sociale”) solo, e prima di tutto, dal punto di vista sociale (si pensi alla genesi e allo sviluppo del Movimento operaio e della sua entrata in politica – trovando in questa la sua forma di rappresentanza più alta- e la sua funzione civilizzatrice sia pure, e soprattutto, all’interno della civiltà capitalista ), ma diventa una questione tutta e direttamente politica così come lo era nella polis greca dove, però, la forma economico-produttiva era separata dalla forma politica. Qui invece forma economica di distribuzione del surplus e forma produttiva dello stesso (la società nel suo complesso) fanno tutt’uno con la questione politica del governo della ricchezza (anche nella forma di risorse dell’ambiente/pianeta). Da qui l’importanza fondamentale, così come del loro studio e

127 Baran, op. cit. pag. 33 e Marx, Storia delle dottrine economiche, op. cit. vol. II pag 529 128 K. Marx, Grundrisse pagg. 400-403. 129 Andrè Gorz, op. cit. 1992

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conoscenza, dei movimenti della società, sia quando si manifestano come onde superficiali (talvolta distruttive e incapaci di avere e dare una prospettiva), sia quando lo fanno in modo profondo, come nel rapporto tra forme di democrazia diretta che essi esprimono (si pensi ai movimenti per i beni comuni in Italia e anche ai NO-TAV, o quello antinucleare, o quello per la pace o contro le mafie, ai vari “occupy Wall Street”, o gli “indignados” sulle questioni delle crisi finanziarie, ma soprattutto ai movimenti delle donne che come fiumi carsici, a volte in piena a volte silenti, tutte le volte che riemergono producono trasformazioni profonde della società e delle istituzioni, ecc.) e democrazia rappresentativa in cui l’unica forma “codificata” giuridicamente di democrazia diretta è costituita dal Referendum (previsto dalla Costituzione italiana, ma anche da quella svizzera sia pure in forme e procedure molto diverse). Proteste e manifestazioni di questi anni, nuove iniziative politiche e partiti (non solo in Italia, ma forse l’Italia è l’anello più debole delle vecchie potenze industriali) non sono soltanto una reazione all'austerità e al neoliberismo (anzi talvolta ne assumo il rigetto verso forme sociali e collettive di rappresentanza). Esprimono una profonda sfiducia nelle élite politiche europee nella capacità di agire a vantaggio del bene comune, insieme alla percezione che la democrazia rappresentativa non riguardi più la partecipazione, ma miri soprattutto a riprodurre quelle élite, come se l’uso distorto della democrazia rappresentativa o del Parlamento implicasse la negazione dei principi su cui si fondano. Esprimo spinte anche irrazionali verso una non meglio precisata democrazia diretta, ma in molti casi anche grande confusione, generico ribellismo e forme di vero e proprio poujadismo e settarismo. In tutti i casi, questi movimenti, pongono il problema di come affrontare una crisi che ha connotati diversi dal passato, a partire sì dal problema del debito che coinvolge in modo diverso le aree del mondo, ma soprattutto la profonda diversità di come si pone oggi il problema del lavoro, non più in termini di classe com’era una volta ma di una redistribuzione drammaticamente ineguale del surplus, della ricchezza sociale, attuata dal capitalismo finanziario; in Italia come negli Stati Uniti, in Spagna come in Grecia, in Cina come in India o Brasile. Anche per questo ciò che li accomuna è dato dalla rapidità di diffusione e vasto consenso, ben oltre i tradizionali termini di classe. Hanno in comune il vigore e la vivacità ma manifestano la stessa debolezza politica. Infatti, l’altro tratto comune dei movimenti nell’occidente capitalistico con i movimenti della cosiddetta “primavera araba”, per esempio, è costituito dal fatto che le istanze di cambiamento che stanno soprattutto nell’aspirazione, sia pur generica, alla partecipazione alle decisioni politiche che coinvolgono la vita di ognuno, diventano appannaggio di altri soggetti e forze politiche che li utilizzano per propri fini spesso opposti a quelli dei movimenti. E’ accaduto così in Egitto, ma anche in Tunisia, in Spagna, dove i movimenti hanno “favorito” la destra alle lezioni politiche, in Italia dove per vie più traverse il movimento politico 5 Stelle ha favorito il ritorno in campo della destra affarista/populista. Solo negli Stati Uniti le cose sono andate diversamente al momento della rielezioni del Presidente Obama. E’, comunque, un bel problema che alla fine i soggetti attori dei movimenti dovranno porsi, ma non crediamo che la risposta stia nel farsi essi stessi “forma partito” pena l’immediato snaturamento delle loro domande e la perdita di attendibilità. Diversamente è andata, fino a questo momento, la vicenda di analoghi movimenti nelle ribellioni sudamericane alle politiche neoliberiste. Le lotte contro il FMI in Venezuela, contro la privatizzazione dell'acqua, o in Bolivia contro la privatizzazione dell'elettricità, infine in Perù hanno posto le basi del successo nelle elezioni tenutesi nei primi due di questi Paesi, oltre che in Ecuador e in Paraguay (dove ha però di nuovo vinto la destra populista). Tutto questo, comunque, ha grandissima importanza perché siamo nel bel mezzo di una rivoluzione storica come lo fu quella del passaggio dall’economia della raccolta e da quella del nomadismo e poi all’agricoltura nel neolitico, dopo l’ultima grande glaciazione (100.000 anni fa). Rivoluzione, già allora, fondata su una trasformazione potente dal punto di vista tecnico e sociale con la nascita di villaggi e città, di un potere politico distinto, per sue logiche e formazione, oltre che scopi, da quello delle credenze mitiche e religiose, ma che operò un’altra grande trasformazione: quella del passaggio al dominio, nella specie umana, del maschio sulla femmina, rompendo così, per la prima

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volta nella storia, il legame con la natura, attraverso la segregazione di quella parte della specie che invece ha, essa sola, il rapporto diretto con la natura stessa nella facoltà (cosciente o meno che sia) di riproduzione della specie. La rivoluzione attuale, invece, si fonda sulle “macchine” (vedi Marx e anche Keynes) ed è quindi una rivoluzione tecnico scientifica che tendenzialmente libera la specie umana dal bisogno e anche per questa via può liberare la parte femminile della specie stessa, ma che essa sola può essere attrice del proprio destino. Questa rivoluzione, come le altre e come la storia ci insegna, genera sommovimenti e sussulti profondi nella natura umana dando luogo ad attese, aspirazioni, ma anche incertezze e paure. Essa, rispetto alle altre - quella agricola (neolitico) e quella industriale (XVIII e XIX secolo) -, è molto diversa nella sua natura e conseguenze poiché avviene su un terreno ignoto come la liberazione dal bisogno (Keynes: “l’Adamo che è in noi” e con strumenti come la scienza e la tecnica nei cui confronti, da sempre, si oscilla tra speranze di “progresso” e paure “ancestrali”, lo sanno bene le varie Chiese del mondo). Proprio per questo è necessario mantenere e sviluppare una “prospettiva” storica della crisi e del passaggio attuale. Viviamo nella civiltà capitalista che dura da almeno sette secoli. E’ venuta in discussione la certezza che questo modello sociale, politico, ed economico130 possa funzionare ancora, garantire cioè la soddisfazione di bisogni, attese e desideri che maturano al livello della vita materiale e del mercato.131 In una recente intervista Alain Touraine (il manifesto 15.3.2013) ha affermato in proposito:

“Non so rispondere positivamente o negativamente a tale quesito. Quello che vedo manifestarsi è il superamento di un'attitudine maschile, virile nell'affrontare i problemi. In base a questo modello maschile, abbiamo visto élite (economiche o politiche) che tendevano a dominare il resto della società. Da tempo vediamo invece manifestarsi altri modelli di comportamento, meno polarizzati, più empatici. Da questo punto di vista andrebbero valutati attentamente gli effetti del femminismo nelle nostre società. Al di là delle proposte che i diversi e eterogenei movimenti femministi hanno fatto, vediamo all'opera un'attitudine femminile nella gestione delle contraddizione e delle relazioni sociali che puntano a integrare, a non escludere richieste, proposte, stili di vita che non coincidono con quelli dominanti. Un'integrazione, tuttavia, che non cancella le differenze, anzi tende a valorizzarle”.

In ogni caso centrage, décentrage, récentrage, polarizzazione, depolarizzazione, ripolarizzazione, dei rapporti di potere a livello mondiale, affermava Braudel, sembrano legati generalmente a crisi economiche prolungate e globali. E’ dunque evidente che queste crisi costituiscono il punto di partenza del difficile studio dei meccanismi d’insieme attraverso i quali si forma il movimento della storia generale.132

130 Carandini, op. cit. 2012 131 Braudel, op. cit. 1977 132 Braudel, 1977, pag. 81

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Occhiali da sole, sette. Crisi del “progresso”

In quest’ultimo capitolo proviamo a discutere o a raccontare brevemente del rapporto tra rivoluzioni industriali e ambiente o, se vogliamo, di quello tra progresso e questione ecologica. Da questo punto di vista si pongono almeno tre questioni che possono aiutarci a ragionare sullo stato delle cose ambientali nell’ambito delle scelte economiche, sociali e politiche nel corso di questa crisi. Esse riguardano: come per il XX secolo, si è potuto parlare di fine del lavoro (non nel senso rifkiniano ma in quello di Marx e del Friedman di “Lavoro in frantumi”133), nel senso della riduzione del lavoro al suo valore di scambio, come merce la cui stessa riproduzione risulta essere tecnologicamente eterodiretta, per l’inizio del XXI, si può parlare di fine dell’ambiente? In che senso e a quale scopo? Come e a che scopo, cioè, reintrodurre la dimensione storica nella critica dell’economica, della dimensione sociale e ambientale della crisi? Dobbiamo infine chiederci se la critica dello Sviluppo e del Progresso, come storicamente si sono determinati attraverso il succedersi delle rivoluzioni industriali, sia la premessa fondamentale a ogni possibile risposta ecologica di fronte alla crisi delle stesse condizioni di riproduzione della specie umana. Tentiamo qualche risposta, sia pure provvisoria. 1. Nel corso del XX secolo si è parlato di fine del lavoro intendendo con questo la fine (o meglio l’alienazione) del sapere e del saper fare del lavoro nel lavoro organizzato/industriale. Un’altra corrente di pensiero si riferiva invece alla fine del lavoro come questione centrale nella storia e nella vita della società e degli individui. Personalmente mi convince di più la prima secondo la quale con la rivoluzione industriale il lavoro vivo, concreto (nel suo valore d’uso) si trasforma in lavoro morto, accumulato nelle macchine (Marx); col taylorismo prima e il fordismo poi il lavoro si frantuma perdendo ogni residuo di autonomia; con la crisi del fordismo e nell’era della grande trasformazione neoliberista il lavoro ha perso sia punti di riferimento spaziali e temporali e stabilità, centralità politica e sociale, ma la questione Lavoro resta il grande nodo dello sviluppo umano e del rapporto con l’ambiente del XXI secolo. Sapere e saper fare erano/sono stati sempre presenti nel lavoro in qualunque forma sociale o istituzionale si esprimesse: dall’artigiano nella civiltà greca (benché ritenuto inferiore al poeta/filosofo che oziava/conosceva), al lavoro come pena dei cristiani (contro l’otium134, da qui il termine negotium, negazione dell’ozio che doveva essere espiato col lavoro, da cui negozio, sinonimo di affari/lavoro), all’artigiano artista/tecnico/scienziato del rinascimento (dalla bottega alla scienza: Leonardo, Michelangelo, Copernico, Galileo, Newton, ecc.), fino alla rivoluzione industriale con la cacciata dei contadini/artigiani dalle terre coltivate in Inghilterra. Con il dispiegarsi delle successive rivoluzioni industriali il lavoro, sempre più privo di autonomia e di sapere, ridotto a lavoro organizzato dal macchinismo per produzione di merci per mezzo di merci, in grande serie, standardizzate, svuotato del saper fare, può dichiarasi “finito”, perché tale, perché opera dell’uomo; esso è lavoro “morto”, oggettivato nelle macchine. Siamo così nel pieno del secolo breve (1914-1989, Hobsbawn)135, ma le implicazioni storiche di questa trasformazione del lavoro tardano a dispiegarsi pienamente. Infatti, in tutto il XX secolo –almeno fino all’ottantanove- si continuerà a parlare di lavoro come luogo della coscienza di classe (della classe operaia della grande fabbrica), come qualcosa, di fuori da sé, fuori dal lavoro concreto, esistente e operante nella sfera dell’ideologia e della politica, non dentro il lavoro, inteso, invece, proprio come “riscatto del lavoro” fuori della fabbrica, nella società riformista o rivoluzionaria che fosse. Il lavoro restava sacrificio e pena da risarcire, appunto. Ciò è stato possibile perché per tutto il secolo breve, la politica si è identificata con l’ideologia, fondata sullo stato-nazione, capace di governare, orientare e modificare l’economia e la società, nel

133 George Friedman, Lavoro in frantumi, specializzazioni e tempo libero, Ed. Comunità, 1960 134 Giovanni Mari, Riabilitazione dell’ozio e del lavoro, in Iride – il Mulino 2009 e anche, L’ozio come liberta del lavoro. La <<New Economy>> e Aristotele, in Iride – il Mulino 2010. 135 Eric J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli 1995

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bene e nel male, sia pure già alla presenza di un’estesa globalizzazione degli scambi commerciali (proprio a cavallo tra la fin del XIX secolo e l’inizio del XX). Il massimo di questa consapevolezza lo si raggiunse con Keynes, dopo la crisi del 1929, con l’istituzione degli organismi di governo della politica economica negli Stati uniti e delle relazioni di scambio internazionali dopo la seconda guerra mondiale (cambi fissi su base aurea). Essi, però, entreranno in crisi (1971, in pieno conflitto del Vietnam) con la fine degli accordi di Bretton Woods. Un primo sinistro scricchiolio nella capacità della politica e degli stati di governare i processi internazionali, si era già sentito, però, alla fine della prima guerra mondiale proprio nel contrasto tra Keynes e l’establishment alleato (J.M. Keynes, Le conseguenze economiche della pace, Adelphi 2007, nel quale l’autore criticava duramente le misure di “riparazione”, imposte dagli alleati alla Germania, come miopi e foriere di nuovi conflitti). 2. Fatte queste considerazioni sulla fine del lavoro e sulla crisi della politica (intesa come crisi dello stato-nazione così come concretatisi tra il XVI e il XVII secolo dopo la pace di Westfalia), in che senso si può parlare di fine dell’ambiente (ambiente inteso come natura di cui l’uomo fa parte e ne è dominato) e quando ciò accade? Tra la fine del XX secolo (1989) e l’inizio del XXI, in coincidenza con una vasta e nuova globalizzazione dei capitali e della finanza (ben oltre la produzione di merci per mezzo di merci), la natura superficiale del pianeta (la geosfera, tra la parte più superficiale della crosta e l’atmosfera/troposfera), cessa di avere una sua evoluzione indipendente dall’evoluzione della specie uomo e diviene un’appendice, un prolungamento dell’ecosistema umano (o almeno così pensa e s’illude la specie umana): è l’effetto di azioni involontarie/inconsapevoli di un certo percorso evolutivo innescato dalla specie umana dalla rivoluzione industriale136 in virtù dei seguenti fatti: il XX secolo è stato fuori dall’ordinario, eccezionale, in fatto di dimensioni del cambiamento sociale e tecnologico, economico; l’eccezionalità e la peculiarità ecologica di questo cambiamento è la conseguenza non calcolata di scelte e modelli di carattere sociale, politico, economico, culturale; i nostri modelli di pensiero, comportamento, produzione e consumo sono adatti alle circostanze del XX secolo, ossia al clima e alla biogeochimica globale di allora, all’abbondanza di energia, acqua a buon mercato, a una rapida crescita della popolazione e a una crescita economica ancor più rapida. Questo è stato il “trionfo” della specie umana, “l’età quasi dell’oro” (Reich), che, da una parte, ha prodotto il miglioramento delle condizioni di vita, almeno per una parte della popolazione mondiale, ma dall’altra, ha prodotto costi in natura assai elevati e spesso irreversibili. Gli andamenti di lungo periodo della popolazione e del reddito procapite hanno proceduto appaiati per millenni; solo intorno al 1820 hanno iniziato a distanziarsi sempre più velocemente. Si può parlare perciò di “fine dell’ambiente”, come sistema ecologico che evolve, si trasforma, declina o implode, con le specie del pianeta, nel momento in cui la specie umana né scopre il limite e lo sposta in avanti per mezzo della tecnologia, cioè spostando più in alto l’asticella dello sviluppo tecnologico e della crescita economica. Si può parlare, allora, di fine dell’ambiente. Non solo perché la specie umana ha deviato e in molti casi interrotto bruscamente l’evoluzione (di cui essa stessa fa parte) di altre specie come frutto dello sviluppo delle proprie funzioni e capacità celebrali e degli organi esosomatici, ma anche perché tutto l’ambiente, tra la crosta e a troposfera, diventa (o si vorrebbe tale) appendice “tecnologica” della specie umana (lo esprimono bene i termini di ecosistem services, allo stesso tempo tecnologizzanti e brutali). Le scelte, le preferenze e modelli (compresi quelli di pensiero) della specie umana, però, non sono facilmente adattabili in caso di mutamento repentino delle circostanze, come sta avvenendo con i cambiamenti climatici accelerati e imprevisti nel corso dell’ultimo messo secolo.

136 J.R. McNeill, Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi 2002

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3. Con la fine del XX secolo si è entrati anche in una fase storica di grande trasformazione politico-istituzionale globale, il che rende la crisi dell’evoluzione ancor più problematica e inquietante. Come del resto inquietanti sono, non solo le grandi disuguaglianze di reddito e sociali, ma il fatto che sul pianeta vi sia un miliardo di persone sottoalimentate cioè sotto la soglia minima di sussistenza; che nel 2050 –secondo studi realistici – la popolazione mondiale sarà di oltre nove miliardi d’individui; che ormai oltre il 50% della ricchezza mondiale è nelle mani delle corporation extranazionali, capaci di comandare sull’economia e sugli stati. Poiché il capitalismo è cresciuto di dimensioni e potere in ogni successivo “ciclo di accumulazione” (nella storia ne sono stati individuati almeno quattro compreso l’attuale) il caos sistemico (P.S. Jha) che ha preceduto la nascita di ogni nuovo “contenitore di potere” si è ampliato a dismisura. Non deve sorprendere, perciò, che i conflitti che precedono la costituzione di un nuovo stabile ordine mondiale stiano crescendo d’intensità. Alla fine del secolo breve, si è passati, con l’ascesa del capitalismo globale, alla fine del capitalismo nazionale organizzato (su cui si erano costruiti gli equilibri internazionali del secondo dopoguerra), all’indebolimento della sovranità economica nazionale, all’obsolescenza dello stato-nazione, alle prove d’impero (USA) e la fine dell’ordine westfaliano (dal trattato di Westfalia, 1648), alla lotta per l’egemonia e alla perdita dell’egemonia (guerra preventiva e violenza economica), fino all’inizio dell’attuale periodo di oscurità/potenzialità carico di grandi e travolgenti trasformazioni. La concomitanza del cambiamento storico sul versante ambientale (la fine dell’ambiente), con la crisi dell’ordine politico internazionale (la politica che s’identifica sempre più con l’economia), e la fase di accumulazione selvaggia, mette a rischio il futuro. Si sta passando dalla crisi dello stato-nazione alla nascita dello stato-mercato; mentre lo stato-nazione nasceva e si legittimava sulla promessa di accrescere il benessere materiale della nazione e la sua sicurezza, lo stato-mercato promette di massimizzare le opportunità economiche di ogni singolo consumatore indipendentemente dai costi (Bobbit). Così la quarta fase di accumulazione capitalistica sta tutta sul versante finanziario e della speculazione a breve di cui sono evidenti alcune caratteristiche che vengono, però, spesso trascurate. Il sistema economico/energetico è superato ma, il sistema delle cosiddette imprese/multinazionali associate137, è concepito come “naturale” e indiscutibile. Le “illusioni” popolano il consumismo contemporaneo mentre la finanza si è impossessata della quotidianità; in un mondo dove il principio di realtà scarseggia (e quello di responsabilità è cancellato), l’illusione dilaga e buona parte di quello che vediamo non è ciò sembra. La natura “canaglia” dell’economia, l’economia criminale (L. Napoleoni, N. Klein), sono fenomeni ricorrenti nella storia spesso legati a grandi e improvvise trasformazioni sociali. Nel corso di questi mutamenti radicali l’economia pretende totale autonomia dalla politica e diventa una sorta di entità incontrollata e incontrollabile. Talvolta diventa uno strumento banditesco nelle mani di attori nuovi e spregiudicati (Braudel), caratterizzante parte di forme dell’accumulazione oltre che transizioni storiche, come la stessa idea di “progresso”. Si distruggono, così, vecchie logiche economiche, antichi imperi e si da luogo a nuovi sistemi di potere. Ritorna l’età dell’oro, per pochi, con la grande incredibile disparità di reddito.138 Infine, siamo nel pieno di una profonda trasformazione, economica e sociale, che s’innesta con quel “qualcosa di nuovo sotto il sole” dal punto di vista del rapporto tra specie umana e crisi ecologica; forse è questo la rende come la trasformazione più profonda di tutti i tempi, sicuramente la più vasta.

137 “Nasce il colosso mondiale delle materie prime, Pechino dice sì a fusione da 76 miliardi $ tra Glencore e Xstrata.” Nicola Degli Innocenti, Il sole 24 ore del 16.4.2013 138 L’estrema disparità dei redditi può essere disastrosa come dimostra la sequenza:

- disuguaglianze sociali / recessione e crisi Inghilterra 1890 - “bella epoque” / prima guerra mondiale - “i ruggenti” anni ’20 / crollo del 1929 e grande depressione.

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Perciò la soluzione dei problemi va ricercata, non nell’ambiente come tale, o almeno non solo, ma in ambito economico e sociale, per questo è che fondamentale il punto di vista ecologico. Quando e come la politica sarà capace di nuovo di definire strategie per la soluzione di problemi attraverso un ampliamento della democrazia, non lo sappiamo, ma potrà farlo solo tornando a dominare l’economia grazie a importanti compromessi strategici con le nuove elité di potere, attraverso un nuovo “contratto sociale” e un nuovo “patto ambientale” con i cittadini del mondo dopo il sostanziale fallimento delle speranze nei vari “Earth summit” che si sono succeduti dal 1992 in poi. L’impressione è che ciò sia possibile solo ad alcune pre-condizioni fondamentali. Da un lato occorre avere piena consapevolezza, da parte delle classi dirigenti e dei nuovi cittadini globali, che la storia ecologica del pianeta in epoca contemporanea e la storia socio-economica dell’umanità acquistano pienamente senso solo se considerate unitariamente e che il percorso evolutivo sia oggetto di scelte volontarie, consapevoli; dall’altro che l’evoluzione culturale ha orientato/condizionato le vicende umane in misura maggiore di quella biologica. L’adattabilità (strategia di successo sul piano evolutivo: es. di ratti, squali e uomini) che le società perseguono deve passare da inconsapevole a consapevole. Se è necessario, allo stesso tempo, avere piena consapevolezza che i cambiamenti vanno valutati chiarendo i criteri di giudizio, perché i mutamenti che riguardano l’ambiente sono positivi per qualcuno e negativi per altri (e ciò vale anche per ogni specie e sottospecie), non si può più trascurare che la risposta ai problemi posti è complessa, perché interviene nel caos, ma allo stesso tempo interconnessa e interattiva, e dipende da quali interessi in gioco s’intende favorire. Si dovrà decidere quale valore (non economico ma evolutivo) assegnare alle forme di vita per impedirne l’estinzione e la perdita di biodiversità, alla loro informazione genetica, alla loro funzione nel tessuto vitale in cui si collocano; mentre sul piano economico, bisognerà passare da strutture concentrate a livello societario (multinazionali associate, corporation finanziarie) e proprietario a organizzazioni più diffuse e diverse, come, del resto, sul piano economico/energetico il cambiamento di sistema di approvvigionamento (di materia/energia) richiede un cambio di paradigma in termini tecnologici, economici e politici, fondato sul 2° principio della termodinamica e sul principio di entropia139. Tornare a fare ricerca e azioni in questo campo (molte imprese lo fanno ma ognuna per sé senza un efficace coordinamento, politico, producendo l’effetto di perpetuare spreco e rifiuti) è necessario per avere chiara la prospettiva delle cose da fare che servono davvero.140 Affinché queste precondizioni avvengano, occorre che, sul piano storico/politico, qualcosa funzioni da catalizzatore del cambiamento paradigmatico, prima, e su quello tecnologico poi (per esempio, come fu la seconda guerra mondiale in quasi tutti i campi). Ciò anche in virtù del fatto che la classe capitalistica rappresenta la prima classe dominante della storia i cui interessi sono legati al cambiamento tecnologico, anziché alla conservazione dei rapporti sociali di produzione esistenti (Marx). Ciò è tanto vero fino al punto di aver portato la scienza a essere fondamentale nella crescita dell’occidente, prima, e dell’oriente poi (Cindia); a essere oggi strettamente integrata nell’evoluzione capitalistica avendo assunto un significato universale esaltato dal successo che questa razionalità procedurale ha anche in contesti culturali ed epoche differenti. Questo nuovo catalizzatore non può che essere la conoscenza (la knowledge di cui parlava già Marx). Infine serve, anche, rendersi conto dell’importanza dei cambiamenti qualitativi dei prodotti che è centrale nello sviluppo economico di lungo periodo (Kutznets). Gli alti tassi aggregati di crescita

139 Si veda a questo proposito N. Georgescu Roegen, Energia e Miti Economici, Boringhieri 1982 140 Come abbiamo già detto, anche per contrastare vere e proprie castronerie, se non truffe, come la chiacchiera dei “rifiuti zero”, perché il problema degli scarti dei processi di trasformazione di materia ed energia (dalla terra a un prodotto agricolo, a uno industriale o artigianale, fino alla alimentazione di ogni persona) è ineliminabile; si può ridurre e razionalizzare, ma i processi di decadimento entropico sono irreversibili. Ma il “popolino”, come si sa, ha bisogno di miti e perde di vista come le cose stanno davvero, anche in questo campo.

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conseguiti nelle economie industriali sono il riflesso di continui mutamenti nei rapporti tra le industrie e fra i prodotti. Poiché l’elasticità della domanda di beni di consumo è bassa, nel lungo periodo, sia rispetto al reddito, sia rispetto ai prezzi, ulteriori innovazioni capaci di ridurre i costi di queste industrie hanno un effetto complessivo relativamente modesto. Perciò la prosecuzione di una rapida crescita dell’intera economia richiede lo sviluppo di nuovi prodotti e nuove industrie di cui occorre verificare in modo preventivi gli effetti d’impatto negativo. Il progresso economico perciò non consiste nella concorrenza sui prezzi fra prodotti della stessa specie ma dalla concorrenza dinamica fra prodotti diversi nello stesso campo (ad esempio auto al posto di selle per cavalli, Schumpeter). Per questo è così difficile, socialmente difficile, senza il catalizzatore della conoscenza accoppiato allo sviluppo della democrazia –senza aggettivi- ridurre la crescita materiale ed economica e ridefinire il concetto stesso di sviluppo. Sono rigidità e feticci che fanno della crescita economica, invece del lavoro, il fondamento dell'attività umana, come della globalizzazione il vicolo della crescita della ricchezza che poi, come per miracolo, si diffonderebbe su tutti i popoli. E’ un falso storico oltre che dal punto di vista chimico-fisico e biologico. E poiché il cambiamento tecnico dipende dall’apprendimento, come dire che le decisioni circa le tecniche influenzano la natura del successivo processo di conoscenza, e che le decisioni prese mettono in moto un processo di lungo periodo che mantiene un collegamento tra prezzi dei fattori, scelta delle tecniche e direzione del cambiamento tecnologico stesso, la comprensione e orientamento di questo processo è perciò inseparabile dalla conoscenza critica della storia (David).

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Per concludere: spunti per uno schema di lettura dei fatti

Una cosa, forse di una qualche utilità, mi pare si possa trarre, come conclusione, da queste pagine, ed è una specie di “quadro” riassuntivo (prendendo spunto da autori quali Hobsbawn, Heilbroner, Arrighi, Carandini, Kalecki, Screpanti, già citati nel testo) dei principali fenomeni della crisi – trasformazione in atto. Sinteticamente e per punti essi possono essere così richiamati dai Capitoli precedenti. 1.1. La crisi è avvenuta dopo un periodo di massimi profitti finanziari e d’investimenti industriali che non generavano occupazione. Questo secondo aspetto rischia di caratterizzare anche una fase di ripresa economica tradizionale (leggi crescita degli indicatori economici esclusi salari, stipendi e pensioni medio basse, per chi le ha e avrà). 1. 2. Nel 2025, sei Paesi (Cina, India, Messico, Russia, Brasile e Corea del Sud) faranno da soli metà della crescita economica mondiale. Fra due anni (2015) l'economia brasiliana supererà quella inglese; nel 2018 la Cina scavalcherà gli Stati Uniti e nel 2019 il Messico farà altrettanto con l'Italia. 1. 3. Rimane aperto e si aggrava, un problema sociale fondamentale di sistema: il capitalismo mondiale nella sua struttura attuale (multinazionali globali e finanziarizzazione forzata dei mercati locali e degli stati) non appare in grado di conciliare le domande combinate delle classi lavoratrici del terzo mondo (per avere relativamente poco a persona, ma per molte persone) e del mondo occidentale (per relativamente poche persone, ma molto per ogni persona). Resta un abisso apparentemente incolmabile tra le possibilità di vita di una piccola minoranza della popolazione mondiale (tra il dieci e il 20%) e quelle della grande maggioranza. Per fornire una soluzione praticabile e sostenibile a questo problema, gli “apripista” dell’Asia orientale dovranno, necessariamente, prendere un nuovo percorso economico per uscire da questo vicolo cieco; altrimenti non c’è soluzione. 2.1. Le forze della “crescita” (innovazione tecnologica e di sistema, investimenti finanziari, infrastrutture, ecc.) concentrate dalla pressione competitiva schiacciano i margini di profitto del sistema industriale. 2.2. Va precisato, però, con Arrighi che l’espansione finanziaria globale non è un nuovo stadio del capitalismo mondiale, né un’imminente egemonia dei mercati globali (sia pure governati dalle imprese multinazionali) ma il centro di una crisi egemonica. E’ un fenomeno temporaneo che potrebbe finire catastroficamente o no, secondo come la crisi sarà affrontata dalla potenza egemonica in declino. 2.3. In questo contesto, diminuisce la capacità di adattamento degli stati e di fornire soluzioni a livello di sistema ai problemi lasciati in eredità dall’egemonia statunitense in declino. 3.1. E’ in atto una dura concorrenza per il controllo del capitale mobile, ossia per l’indirizzo degli investimenti (la scelta è tra investimenti finanziari o investimenti strutturali), tra stati e multinazionali; la battaglia è in corso e si gioca sul piano dei mercati finanziari; le “bolle” sono manifestazioni patologiche di questo conflitto. 3.2. E difficile dire se e fra quanto tempo e quanto catastroficamente l’attuale dominio globale dei mercati finanziari non regolamentati crollerà sotto la tirannia delle decisioni di piccolo cabotaggio (per esempio la navigazione a vista del G.20) e l’incapacità degli stati e degli organismi internazionali di fare sistema; l’unica cosa certa è che la situazione non può rimanere come l’attuale. 3.3. Un altro dato da tenere presente è che i percorsi di sviluppo/crescita dei paesi sviluppati danno rendimenti decrescenti in termini di tassi di accumulazione rispetto all’Asia orientale, ma non possono essere abbandonati in favore di un percorso più dinamico, senza causare tensioni sociali così insopportabili da produrre caos invece che “competitività”.

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4.1. L’espansione finanziaria prosegue comunque fondata su una massiccia redistribuzione dei redditi a sfavore delle classi subalterne (che colpisce soprattutto le così dette “classi medie”) ma anche tra gruppi e potentati economici, amplificata dalla dura competizione tra stati per il capitale mobile attraverso i tagli di bilancio. 4.2. In questa fase di crisi si ha una biforcazione, che non ha precedenti storici, fra interessi e impieghi di risorse in ambito militare e interessi finanziari. Tanto che le politiche di “potenza” dello stato egemone in declino può produrre azioni di guerra non solo allo scopo di tentare di riaffermare la propria egemonia geopolitica, ma anche allo scopo di contrastare la “potenza” dei mercati finanziari. La riduzione delle probabilità di guerra fra gli elementi più potenti del sistema non significa che non vi possa essere un deterioramento, con conflitti regionali, dell’attuale crisi egemonica in una fase di caos sistemico. Il conflitto per la guida dell’impero globale ruota intorno a tre funzioni: 1) di sceriffo globale; 2) di banchiere globale; 3) di motore dello sviluppo (Screpanti). Per assolvere le tre funzioni, l’azione politica delle grandi potenze tradizionali è piegata a servire un interesse “collettivo” del capitale multinazionale, piuttosto che quello delle borghesie nazionali (ormai in declino), per non dire quello dei cittadini. Così, per essere precisi, bisognerebbe parlare, più che di una stateless [governo sovranazionale], di una sovereign less global governance [governance sovrana globale]. Poiché gli stati nazionali sono espressione della volontà dei cittadini, essi sono spinti dai mercati a svuotare di sostanza la democrazia e a trasformare le istituzioni preposte alle decisioni pubbliche in semplici apparati di formazione del consenso e di repressione del dissenso. L’imperialismo globale tende ad ammazzare la democrazia, secondo un modo che è stato ben espressa dalla felice metafora di un esponente del capitalismo multinazionale: “Il mercato è sovrano”. (Screpanti) 4.3. Altra questione di grande rilevanza: mentre domina il caos sistemico, di fronte all’aggravarsi delle condizioni sociali e individuali, i movimenti (sociali, di genere, etnici, religiosi, ecc.) saranno improntati all’escalation della violenza (come nelle passate transizioni) o procederanno e opereranno efficacemente per contenere il caos sistemico attraverso l’acquisizione di nuovi diritti civili? 5.1. Nonostante il crollo dell’impero sovietico è cresciuta e cresce una costosa struttura militare a elevati costi riproduttivi; un apparato militare su scala mondiale ad alto impiego di capitale. Contemporaneamente, anche nella crisi, si diffondono dispendiosi e insostenibili modelli di consumo di massa. 5.2. Allo stesso tempo sono in corso e prevedibili nuove ondate di conflitti sociali. E’ probabile e si può prevedere che rifletteranno la maggiore proletarizzazione di settori di classi medie, la crescente femminilizzazione dei mercati del lavoro e dei diritti, i mutamenti della configurazione spaziale ed etnica della forza-lavoro mondiale. 5.3. Il libero movimento dei capitali e delle merci opera in modo da mettere i lavoratori del Sud del mondo in competizione con quelli del Nord e anche tra lavoratori del nord. La globalizzazione determina una redistribuzione del reddito dai salari ai profitti che genera disuguaglianze crescenti in tutti i paesi del mondo. Di conseguenza la capacità politica di costruire la pace sociale all’interno delle nazioni è venuta e viene meno. La scomparsa delle aristocrazie operaie nel Nord sviluppato e la conseguente destrutturazione / flessibilizzazione / precarizzazione delle forze di lavoro produce politiche del lavoro in senso restrittivo delle libertà e della sicurezza sui luoghi di lavoro. E’ un’altra delle grandi novità apportate dalla globalizzazione contemporanea. 6.1. Il processo di espansione economica e l’integrazione della regione asiatico-orientale sono strutturalmente aperti al resto del mondo. 6.2. Anche per questo sono prevedibili nuove ondate di conflitti sociali nei BRICS. 6.3. Abbiamo detto che il libero movimento dei capitali e delle merci opera in modo da mettere i lavoratori del Sud del mondo in competizione con quelli del Nord. Ciò avviene perché, in virtù della

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globalizzazione in corso, l’accumulazione del capitale nei paesi emergenti e in via di sviluppo è trainata dalle esportazioni, cosa che presuppone l’esistenza di almeno una grande economia avanzata che cresca espandendo le proprie importazioni. Su questo piano sono, comunque emersi, tra le grandi potenze, negli ultimi vent’anni, dei contrasti sanati con grandi difficoltà. Vedremo se essi cresceranno d’intensità e se dalle politiche commerciali, monetari e su prezzi delle materie prime passeranno e come anche alla divisione internazionale del lavoro, della scienza/conoscenza. Segnali in questo senso sono già molto evidenti: dai brevetti sulla biodiversità, ai conflitti sulle Telecomunicazioni, sulla diffusione e trasmissione dati oltre che sulla brevettazione informatica e il controllo della rete. 7.1. Si determina sempre più lo spostamento delle risorse finanziarie globali in nuovi centri dotati di netta superiorità competitiva nei processi di accumulazione del capitale su scala mondiale. 7.2. Una grande novità riguarda il modo in cui è esercitato il governo del mondo. L’impero globale (Screpanti) non ha bisogno di un imperatore; cionondimeno il suo imperium sta diventando più efficace che mai. È l’efficacia assicurata da meccanismi oggettivi nei confronti dei quali i popoli sembrano disarmati. Le migliaia e migliaia di teste che dirigono le imprese multinazionali, anche se operano in competizione le une con le altre, concorrono univocamente a dare forza a quei meccanismi perché gareggiano tutte nel perseguimento dello stesso obiettivo: l’accumulazione del capitale. Nuovo è anche il ruolo giocato dalle crisi economiche per scombinare e ricombinare gli equilibri politici internazionali e i rapporti sociali entro ogni nazione. Le crisi della globalizzazione, da una parte, si presentano come momenti di esplosione delle contraddizioni capitalistiche, dall’altra, però, assumono il significato di un’accelerazione dei processi di disciplinamento cui i “mercati” sottopongono gli stati, i popoli e le classi subalterne. 7.3. Al buon funzionamento dell’impero globale sono necessarie tre funzioni di governance che richiedono l’azione di alcuni grandi stati sulla scena internazionale. La prima di tali funzioni è di “sceriffo” globale, e deve essere assolta da una potenza militare capace di disciplinare i paesi recalcitranti alla globalizzazione e di aprire i loro mercati alla penetrazione del capitale multinazionale ma anche di contrastare l’eccesso di sregolatezza del potere finanziario. La seconda è di banchiere globale, e serve alla produzione della moneta che funge da principale strumento di pagamento e di riserva internazionale. La terza è di motore dello sviluppo: è resa necessaria dal fatto che l’accumulazione del capitale nei paesi emergenti e in via di sviluppo è, come abbiamo già detto, trainata dalle esportazioni, cosa che presuppone l’esistenza di almeno una grande economia avanzata che cresca espandendo le proprie importazioni. (Screpanti) 8.1. La proliferazione – in numero e varietà – d’imprese e comunità d’affari multinazionali (corporation) è caratteristica nuova e probabilmente irreversibile della crisi egemonica. La caratteristica principale, però, è sul piano qualitativo: esse, infatti, hanno rotto l’involucro spaziale (Stati) abbattuto ogni barriera, ogni remora e condizionamento politico per il libero scambio e la globalizzazione finanziaria. 8.2. L’impero delle multinazionali cambia la natura della relazione tra stato e capitale. Il grande capitale si pone sopra lo stato nazionale, nei confronti del quale tende ad assumere una relazione strumentale e conflittuale a un tempo. Strumentale, in quanto cerca di piegarlo ai propri interessi, sia con l’azione diretta delle lobby sia con la disciplina dei “mercati”. Conflittuale, in quanto la dislocazione dei suoi interessi su uno spazio mondiale genera nelle economie delle nazioni, soprattutto quelle a capitalismo avanzato, delle difficoltà economiche che mettono in crisi la funzione di “capitalista collettivo nazionale” assunta in passato dagli stati. Riemerge così con grande chiarezza la natura antagonista e anarchica del capitalismo (Carandini) 8.3. La novità più importante consiste nel fatto che le grandi imprese capitalistiche, diventando multinazionali, hanno rotto l’involucro spaziale e temporale entro cui si muovevano e di cui si

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servivano nell’epoca dei grandi imperi coloniali. Oggi il capitale si accumula su un mercato che è mondiale e “in tempo reale”. Mentre in passato il capitale monopolistico di ogni nazione traeva vantaggio dall’azione statale all’espansione imperialista, in quanto vi vedeva un modo per estendere il proprio mercato, oggi i confini degli imperi nazionali sono visti come degli ostacoli all’espansione commerciale e all’accumulazione. E mentre in passato il capitale monopolistico aveva interesse all’innalzamento di barriere protezionistiche e all’attuazione di politiche mercantiliste, in quanto vi vedeva un modo per difendersi dalla concorrenza delle imprese di altre nazioni, oggi il capitale multinazionale vota per il libero scambio e la globalizzazione finanziaria. La nuova forma assunta dal dominio capitalistico sul mondo la chiamo “imperialismo globale”. (Screpanti) [o delle multinazionali, quelle che Arrighi chiamava imprese e comunità d’affari multinazionali] Allora, infine, possiamo sostenere con Arrighi che le espansioni dell’intero sistema sono transitorie, ma non le trasformazioni nell’organizzazione sistemica che le accompagna. Questi appunti sulla crisi di sistema, la più grave dal 1929, hanno però un grosso limite: non trattano delle risposte da dare alla crisi, al mondo diverso che è emerso dalla crisi stessa, alla soluzione dei problemi che attanagliano le classi subalterne. Non era questo lo scopo per cui questi appunti sono stati sistemati e arricchiti di note d’importanti autori di diverse discipline, ma a ben guardare non è vero fino in fondo che non vi siano osservazioni e spunti che vanno nella direzione di cercare risposte. Intanto nei singoli capitoli emergono delle indicazioni su cosa sarebbe necessario fare soprattutto in campo economico e sociale, del lavoro, anche se non hanno il pregio della sistematicità. Poi il complesso della lettura integrata dei capitoli mi pare faccia emergere una visione, un racconto di un punto di vista che assegna alle singole questioni trattate un ruolo nella ricerca di risposte alla soluzione della crisi, o meglio, il racconto della crisi che ne emerge contiene elementi utili a cercare risposte, ognuno con la propria testa, soprattutto sul piano politico e sociale. Rimane, non trattata, la questione del soggetto collettivo, o meglio dei soggetti, che a livello globale (perché la società capitalista è ormai tale, così come la crisi ambientale, perché il capitale è globale, perché la crisi dello Stato egemone del XX secolo – gli Stati uniti d’America - è crisi globale) possano governare la transizione anche a favore delle classi subalterne. Su ciò possiamo solo dire che la fine delle utopie, che dal XIX secolo al XX hanno orientato il mondo e le coscienze, hanno fatto nascere stati e li hanno distrutti, ci consegna la responsabilità di cercare risposte politiche che non siano “disegni metafisici” né mera gestione del potere, ma la ricerca, pragmatica e realistica delle vie democratiche, le più larghe possibili, per dar risposte plausibili ed efficaci ad una popolazione che si avvia ai nove miliardi di individui a metà del XXI secolo e soprattutto a farlo con la consapevolezza di quali interessi si voglio difendere e sviluppare e quali, come e dove controllare, impedire che distruggano il pianeta su cui navighiamo.

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Occhiali da sole, otto. La resistibile ascesa di Homo oeconomicus Di Marcello Buiatti

Questo e.book è stato ideato e scritto da Renato Cecchi con lo scopo, pienamente raggiunto, di raccontare la storia dei cambiamenti delle economie dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, un periodo particolarmente difficile e apparentemente incomprensibile per l’umanità intera. Sulla modificazione delle economie, in particolare negli ultimi dieci anni, e la loro“virtualizzazione” dovuta alla finanziarizzazione è stato scritto molto ormai all’estero, pochissimo in Italia Paese in cui in gran parte dei saggi esistenti la discussione è interna alla economia stessa e fra economisti ma fondamentalmente descrittiva con pochi riferimenti agli effetti sulle vite umane reali della trasformazione da economia reale in virtuale. Renato Cecchi è per quello che ne so il primo che introduce invece due elementi trascurati dagli economisti che ritengo fondanti per una analisi di quello che è avvenuto e avviene nei termini concreti delle vite umane e di quelle del resto della “materio vivente” sul nostro Pianeta. Le aree che Renato Cecchi affronta sono quelle del lavoro e dell’ambiente, ambedue strettamente legate alla economia reale e quindi alle vite su cui da molti anni ormai abbiamo lavorato insieme nella associazione Ambiente e lavoro. La mia introduzione cerca di discutere della evoluzione degli esseri umani dopo la loro comparsa sulla terra partendo da quello che Sebastiano Timpanaro, grande filosofo materialista purtroppo scomparso, chiamava “il piano di sotto” e cioè quello delle vite di carne e sangue, sempre più dimenticato e sostituito come vedremo da pensieri dominanti sempre più alienati e virtualizzati. Cercherò per questo di inserire quanto avviene adesso nella relativamente breve storia evolutiva della nostra specie tenendo presente il fatto che Homo sapiens é la specie che in poco tempo è diventata il nodo fondamentale di tutte le vite del Pianeta in quanto portatrice di significative innovazioni rispetto al resto della Biosfera che mettono in pericolo non solo la nostra vita ma anche quelle degli altri abitanti del Pianeta. Incomincerò quindi da una breve discussione delle nostre peculiarità materiali che poi sono ovviamente alla base di quelle mentali e della loro evoluzione. Non vi è nessun dubbio che gli esseri umani siano animali come gli altri anche se hanno acquisito caratteristiche che ci permettono di essere la specie più “generalista” del nostro Pianeta, dotata come è di capacità che non si trovano in nessun altro “luogo” della Biosfera né vi sono state prima. Come ben sappiamo la evoluzione di ogni specie si basa sulla utilizzazione di quattro tipi di strumenti produttori di diversità che permettono di cambiare adattandosi alle modificazioni del Pianeta tutto ed ai diversi luoghi in cui microrganismi, piante, animali ed esseri umani si vengono a trovare. Gli strumenti, come ha scritto Eva Jablonka alcuni anni fa sono la variabilità genetica che consiste nella diversità della struttura dei geni, quella epigenetica che ha a che fare con i livelli quantitativi e qualitativi della espressione di questi, quella comportamentale, e infine quella simbolica. I batteri, non hanno bisogno di cambiare per adattarsi al contesto durante le loro vite molto corte ( una generazione dura solo dieci minuti) per cui utilizzano essenzialmente la variabilità genetica; le piante e gli animali tutti che hanno vite molto più lunghe devono invece sopravvivere modificando la espressione dei loro geni in funzione dei cambiamenti del contesto e usano quindi anche la variabilità genetica ma soprattutto quella epigenetica. In particolare gli animali, che hanno un sistema nervoso efficiente e si possono spostare nello spazio, utilizzano oltre alla variabilità genetica ed epigenetica quella che possiamo chiamare comportamentale. Infine, noi umani abbiamo pochissima variabilità genetica per cui usiamo quella epigenetica ma soprattutto cambiamo facilmente i nostri comportamenti “inventandone” continuamente di nuovi grazie alle eccezionali capacità innovative che possediamo. La nostra strategia evolutiva quindi non consiste nella selezione passiva dei geni più utili alla vita come avviene per gli altri esseri viventi ma è invece attiva nel senso che noi umani siamo in grado di “costruire” gli ambienti in cui viviamo con strumenti e progetti e cioè di non essere adattati ma di adattare il contesto alle nostre esigenze. Inoltre, e questa è una caratteristica che non si trova in nessun altro essere vivente, siamo capaci di scambiare con velocità e precisione una quantità incredibile di informazioni che si vanno accumulando durante la nostra storia e si connettono nelle nostre menti formando continuamente

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nuovi pensieri e concetti. E’ per tutto questo che il grande filosofo Hans Jonas, coerente con la visione post-moderna dei sistemi viventi, e cosciente del fatto che Homo sapiens è nettamente diverso dagli altri esseri viventi definisce la sua “differenza” con tre parole (concetti) chiave che indicano da sole il nostro comportamento assolutamente innovativo rispetto a quelli degli altri esseri viventi. La prima di queste parole è la “immagine” e cioè la capacità di “immaginare” o meglio inventare nel nostro cervello pensieri e “cose” che non esistono nella realtà esterna. Ne sono prova ad esempio le pitture rupestri in cui animali ed umani non sono mai “fotografici” ma “estetici” e derivano cioè da una trasfigurazione dell’oggetto dipinto elaborata autonomamente dal cervello, capace, a differenza di quanto avviene negli altri animali, di ”umanizzare” l’oggetto osservato. La seconda parola che ci definisce secondo Hans Jonas è lo “strumento” e cioè la capacità umana di elaborare e proiettare sulla materia esterna sempre nuovi immagini di oggetti pensati per il miglioramento delle nostre vite. La terza parola infine è la “tomba” simbolo della estremizzazione della “immagine” e della invenzione di pensieri e processi costruiti nel cervello senza legami obiettivi con la realtà. Si tratta qui di quello che chiamiamo “pensiero trascendente”, simbolizzato dalla concezione di una vita dopo la morte, testimoniata dagli oggetti trovati nelle tombe costruite da tutti e quattro gli “ominini” (Neanderthal, Denisovianus, floresensis, sapiens) che hanno vissuto contemporaneamente sul nostro Pianeta. Come è noto anche altri animali sono in parte in grado di costruire oggetti, modificare l’ambiente a loro vantaggio e anche seppellire i loro morti. Tuttavia gli altri esseri viventi sulla Terra costruiscono oggetti in modo stereotipo e ripetitivo di generazione in generazione, non sono capaci di inventarne di nuovi e la loro pratica di seppellire i morti non ha niente a che fare con la trascendenza ma è semplicemente un modo di nascondere le proprie tracce ad un eventuale pericoloso nemico. Ora conosciamo anche con certezza le basi materiali della nostra unicità, costituite dalla modificazione rapidissima di alcuni geni ormai noti e studiati, che si esprimono tutti nei nostri cervelli e il cui cambiamento è stato rapidissimo a partire da cinque o sei milioni di anni fa. Per quanto si sa, l’accelerazione del cambiamento è dovuta al vantaggio selettivo di uno o pochissimi geni che hanno poi “trascinato” il cambiamento di un gruppo di altri. Probabilmente i geni del primo tipo sono quelli che hanno modificato il rapporto, nel nostro cervello fra la “parte pensante” (la neo-corteccia) e il resto, rapporto che ora è oltre le otto volte (il delfino è l’animale che ci rassomiglia di più da questo punto di vista ed ha un rapporto di quattro). Probabilmente i primi geni ad essere cambiati hanno a che fare proprio con le relazioni fra le diverse parti del cervello che hanno contemporaneamente aumentato il numero di neuroni fino a cento miliardi e possono quindi essere collegati in un milione di miliardi di diverse connessioni, il che ci permette di “inventare” con facilità i nostri innumerevoli pensieri. Un altro gruppo di neuroni critico per le nostre capacità umane è quello che ci ha permesso di scambiare con incredibile facilità pensieri , concetti, progetti, sentimenti. Sono questi i geni, detti FoxP, che mancano ai delfini, agli altri Primati e anche ai tre ominini con cui abbiamo condiviso il Pianeta per lungo tempo. E’ infatti proprio la capacità di scambiare informazione che ci distingue nettamente ad esempio dagli scimpanzè come è stato dimostrato da esperimenti in cui si sono paragonate le capacità di bambini di due anni e mezzo e di scimpanzè di età equivalente. In questi esperimenti si è infatti dimostrato che i due “bambini” affrontavano in modo uguale una serie di test ma divergevano quando gli si chiedeva di scambiare informazione con i loro simili, esercizio questo in cui il giovane umano surclassava il suo lontano parente. E’ utilizzando queste qualità che i nostri antenati, che prima erano nomadi e, come altri animali, si muovevano in cerca di ambienti favorevoli, raccoglievano cibo e cacciavano, verso diecimila anni fa si sono fermati diventando stanziali, hanno cominciato a costruire ripari invece di rifugiarsi in quelli naturali, hanno imparato ad accendere il fuoco e a costruire “strumenti” utili per le loro vite. A questo punto l’evoluzione umana è diventata essenzialmente comportamentale e culturale e certo non genetica visto il bassissimo livello di variabilità della nostra specie. Per quanto ne sappiamo nel primo periodo della svolta stanziale l’economia era limitata allo scambio di oggetti utili per la caccia e la difesa dato che gli umani non avevano ancora sviluppato progetti e regole (“nomoi”: leggi) per il cambiamento dell’ambiente (“oikos”) in modo razionale e stabile. Le cose sono cambiate con la nascita della agricoltura, il

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primo tentativo di imporre la legge umana all’ambiente modificandolo e producendo cibo in quantità superiore al necessario. Da qui l’inizio vero della economia,in cui si producevano beni (soprattutto cibo) ed utensili utili per le vite, che si scambiavano con altri oggetti di utilità più o meno uguale. Una descrizione di diverso tempo fa e però interessante della economia umana successiva a questo primo periodo, come importante processo,é quella di F. Giddings che nel 1909 ha scritto: “L’economia della vita delle piante è soltanto organica, quella degli animali è organica ed istintiva, quella umana organica, istintiva e razionale. Solo gli esseri umani cercano sistematicamente di migliorare la loro condizione e per questo si sono trasformati in lavoratori e hanno sviluppato una vera e propria economia che si è realizzata molto tardi con la industria moderna”.Quella di Giddins era quindi la prima economia in cui gli umani modificavano il contesto in cui vivevano, mirando al miglioramento e allungamento delle loro vite e allo stesso tempo sviluppavano le arti, i miti e le religioni dimostrando di essere capaci di godere dei loro stessi pensieri e della capacità di applicarli modificando la materia esterna anche per puro godimento differenziandosi in questo modo anche dagli animali più capaci di costruzioni e organizzazioni sociali. In seguito gli umani hanno cominciato a scambiare i prodotti delle prime industrie attribuendo ad essi valori diversi sulla base della loro utilità per le vite umane e per rendere più facili gli scambi hanno inventato le monete sempre mantenendo però il concetto di valore d’uso, intendendo con questo termine il livello di bene-essere e non di bene-avere (Vedi S. Bartolini, 2012) che gli oggetti scambiati permettevano. In questo periodo una famiglia veniva considerata ricca e potente se possedeva suolo, animali, case, ecc., tutti beni materiali necessari per combattere la fame e vivere in modo confortevole. E’ solo molto più tardi che l’industria è diventata un obiettivo da raggiungere in quanto tale e si è cominciato a considerare un “uomo ricco” colui che possedeva industrie, vendeva i suoi prodotti e accumulava denaro che veniva poi usato per aumentare ancora la produzione. Questo è avvenuto nel periodo in cui si affermava quella che chiamo la “Utopia prometeica” e veniva costruito lo “Antropocene” (Crutzen), un Pianeta “moderno” costruito totalmente su progetti umani come se fosse una singola, enorme macchina. Hans Jonas é stato uno dei primi filosofi che si sono accorti dei pericoli che potevano derivare dalla “Utopia” e per questo ha proposto il suo “Imperativo di responsabilità” chiedendo agli umani di discutere non soltanto i problemi derivanti dagli effetti immediati delle modifiche imposte al Mondo, ma anche quelli non prevedibili derivati dalle interazioni di queste con la complessa rete dinamica del Pianeta. H. Jonas infatti scrive: “ La moderna tecnologia e i suoi prodotti si spargono in tutto il Mondo e i loro effetti si accumulano diventando illimitati nelle future generazioni. Quello che facciamo qui e adesso, noi che pensiamo solo a noi stessi, é che le nostre azioni influiranno in modo massiccio sulle vite di milioni di persone ovunque ora sulle future generazioni che non possono influire sulle nostre azioni. Noi distruggiamo le vite future per i guadagni e bisogni di ora…..Forse potremmo evitare di comportarci solo in questo modo ma in questo caso dovremmo usare una cautela estrema in modo da operare con giustizia verso i nostri discendenti in modo da non compromettere fin dall’inizio la loro capacità di rimediare agli effetti negativi dei nostri atti.…. La categoria etica che deve essere messa in gioco è la responsabilità ….. Questa visione globale unisce il bene-essere umano con la vita nel suo complesso e garantisce i diretti della vita non-umana” .Purtroppo questo principio, molto più stringente del principio di precauzione che non tiene in conto gli effetti secondari dei nostri atti, non é stato seguito da Homo sapiens che invece continua ad agire in modo coerente con la utopia dominante nell’Era Moderna. In altre parole,nonostante che la scienza contemporanea abbia cambiato i modelli fondanti e i paradigmi della materia vivente e abbia chiarito le differenze fra questa e quella non vivente, l’obiettivo fondamentale degli umani é ancora la “umanizzazione” meccanica del Mondo tutto, dimenticando o almeno volendo dimenticare che le macchine inevitabilmente interagiscono anch’esse con le vite. Non è a caso inoltre,che poi il cambiamento degli obiettivi della nostra specie abbia modificato anche la scala di valori delle vite umane. Nella prima fase della evoluzione umana,il livello più alto di quella che Giddings chiamava “soddisfazione” era collegato strettamente con il bene-essere della vita e le persone che venivano considerate importanti ed onorate erano quelle che possedevano grandi

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fattorie con ampie estensioni di terreno coltivabile, case e tutti gli oggetti necessari per buone vite materiali e culturali. Nell’era Moderna invece l’obiettivo degli umani è diventato in parte indipendente dalla vita,in quanto puntava sulla capacità di meccanizzazione,per cui i personaggi ammirati e vincenti sono diventati gli imprenditori in genere e gli industriali in quanto capaci di produrre “oggetti” vincenti sul mercato. E’ nel periodo “Moderno” della nostra specie che il simbolo della “soddisfazione” è diventata la tecnologia mentre le scienze e in generale la conoscenza, fonti delle strategie di adattamento precedenti, sono state almeno parzialmente messe da parte in quanto “producono poco denaro”. Un esempio paradigmatico della applicazione diretta della ideologia meccanica è stata la cosiddetta “rivoluzione verde”, un progetto su scala mondiale lanciato dalla F.A.O., emanazione dell’ONU che puntava sulla riduzione della fame nel Mondo ottenuta selezionando varietà di piante e razze animali “ottimali” e cioè completamente omogenee a prescindere dalle condizioni ambientali, sociali ed economiche dei contesti in cui venivano coltivate ed allevate. Si insegnava allora ai selezionatori di formulare a tavolino progetti di piante ed animali ottimizzando i caratteri uno per uno e dimenticando quindi la “ Legge delle variazioni correlate” di Darwin, che giustamente affermava che i diversi caratteri degli esseri viventi diversamente da quanto avviene nelle macchine, non sono indipendenti uno dall’altro ma interattivi per cui il cambiamento di uno di essi modifica in modo imprevedibile anche gli altri ad esso collegati. La ottimizzazione proposta dalla F.A.O, significava di fatto la distruzione della variabilità considerata “non ottimale” e non teneva in conto la necessità della variabilità necessaria per la vita delle varietà e razze che potevano trovarsi in ambienti diversi fra loro. La risposta a una serie di risultati negativi delle varietà omogenee e quindi non provviste della necessaria plasticità, fu purtroppo la utilizzazione di materiali e pratiche non-vitali come l’uso di macchine, sostanze chimiche di ogni genere, tutti strumenti mortali per gli agroecosistemi.Il risultato di tutto questo fu inizialmente positivo tanto che il numero di persone sotto il limite di sussistenza diminuì dal 1980 fino al 1995 in particolare in Asia e America latina ma non in Africa, ma in seguito aumentò di nuovo rapidamente fino ai nostri tempi in cui sono più di un miliardo e cento milioni le persone che non hanno cibo sufficiente. Contemporaneamente, la stessa FAO calcola che sia stata perso il 75% della variabilità delle piante, il che di fatto impedisce il futuro aumento delle derrate alimentari. Ancora peggiore è stato il risultato della estremizzazione della rivoluzione verde e cioè la produzione di piante , come si dice, geneticamente modificate mediante l’inserimento di geni batterici nel genoma, che è totalmente fallita visto che solo quattro specie vegetali ( mais, soia, colza e cotone) sono state “ingegnerizzate” con solo due geni che modificano due caratteri. Queste piante, prodotte alla fine degli anni “80 e immesse sul mercato nel 1996, pubblicizzate come se fossero miracolose, hanno inciso negativamente sulla produzione di cibo invece di aumentarla. Questo è avvenuto perché delle quattro specie in questione ( mais, soia, cotone e colza) solo il mais è importante in alcune zone della America latina mentre la soia viene usata come mangime per il bestiame, il cotone non è edule e il colza serve solo a fare olio per friggere. Sappiamo molto bene adesso la ragione di questo fallimento epocale che deriva dalla presenza di interazioni imprevedibili fra il gene introdotto e il metabolismo delle piante, fra le piante modificate, l’ambiente agricolo e le società contadine in cui sono state introdotte dalle multinazionali produttrici spesso con la forza, distruggendo le agricolture preesistenti. Ho di proposito citato il fenomeno di queste piante dal nome famoso di OGM, perché sono un po’ il simbolo degli errori derivanti dalla “Utopia” della crescita infinita delle produzioni industriali, dimostratasi impossibile dati gli imprevisti effetti negativi della meccanizzazione del Pianeta che non tiene conto degli effetti delle interazioni con il contesto, come dimostrano anche gli ultimi dati sul cambiamento climatico che rischia di distruggere le nostre vite e quelle del resto della Biosfera. Nel caso degli OGM, come ho scritto, é stata proprio la natura complessa dei sistemi viventi che ha limitato a pochissime piante e solo due caratteri modificati i risultati delle multinazionali Monsanto, Dupont e Syngenta.Queste imprese hanno infatti rinunciato a cercare nuovi e più efficienti metodi di modificazione delle piante e hanno ripiegato sugli investimenti finanziari introducendo un sistema di brevettazione industriale degli esseri viventi secondo il quale , se si inserisce un gene in una pianta non solo questa ma tutta la discendenza è coperta da brevetto e

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lo stesso avviene per i possibili prodotti dell’incrocio con altri tipi di piante che comunque lo conterranno. In altre parole, con questo tipo di brevettazione tutti i “materiali” che contengono il gene sono utilizzabili solo pagando le royalties alla impresa che ha effettuato la prima trasformazione. Conviene qui sottolineare che questo accorgimento non sarebbe stato sufficiente se le multinazionali non avessero brevettato altri strumenti necessari alle agricolture cominciando dagli additivi chimici ( le multinazionali nascono come industrie chimiche) e allargandosi in tutto il Mondo fino a comprare e possedere l’acqua come è avvenuto in un Paese che ne è ricco, il Kasakhstan.Va chiarito qui che queste ed altre imprese dei nostri tempi hanno usato e usano contemporaneamente una altra potentissima arma “virtuale” e cioè la pubblicità continua dei prodotti che può modificare on positivo di per sé stessa l’aumento dei valori delle azioni in borsa. Per fare un esempio di questo processo, quando persone note e rispettate, come avviene nel nostro Paese con un notissimo oncologo e uno studioso della storia della medicina, affermano che “ora verranno nuove piante che sconfiggeranno il cancro”, immediatamente lo stock exchange reagisce positivamente. Purtroppo non sono davvero solo le imprese che hanno a che fare con la agricoltura che usano queste strategie virtuali e non legate in alcun modo alla utilità dei loro prodotti, ma molte altre come ad esempio le grandi multinazionali farmaceutiche, aiutate come le prime dalla infiltrazione nelle organizzazioni internazionali come la stessa Organizzazione Mondiale della Salute che dovrebbe controllare la validità dei prodotti farmaceutici. Tutte queste considerazioni ci dicono che l’umanità, tragicamente aggrappata al dogma della crescita infinita risultata impossibile,si sta spostando verso un nuovo livello di alienazione dalla materia viva sostituendo una economia virtuale definitivamente staccata dai bisogni reali degli esseri viventi a quella reale che almeno inizialmente era stata iniziata per migliorare le vite individuali e collettive degli esseri umani. Per tutto questo la nostra scala di valori è ulteriormente cambiata e ora gli esseri umani che contano non sono più né quelli che hanno molti beni materiali che li aiutano a vivere né che producono strumenti e macchine che vengono venduti e comprati per la loro qualità e utilità per vite buone, ma semplicemente quelli che sanno giocare in borsa, scambiare non più soldi per beni materiali ma per altre monete che assicurano un ritorno maggiore. Sono da molto tempo passate le agricolture ormai dimenticate come fonte di reddito e sono senza dubbio meno importanti anche le industrie e il Mondo è adesso governato da pochissime persone che hanno in mano le leve della finanza travestita da economia e fanno il buono e cattivo tempo in tutto il Pianeta. Appare ovvio che in questo nuovo mondo gli interessi degli esseri umani si siano spostati dalle vite alla loro virtualizzazione e si é sempre di più dimenticato il “bene-essere” mentre le diseguaglianze fra etnie, classi, sessi,non sono più considerate un problema e perdono continuamente importanza i concetti etici che riguardano la vita tutta e non solo quella umana. Non è a caso quindi che la produzione reale delle industrie non si sia fermata e continui la invasione del Pianeta con macchine di ogni tipo, si acceleri il suo accelerato inquinamento, mentre inevitabilmente aumenta la velocità con cui si accentua il cambiamento climatico come attestano i rapporti dello IPCC sempre più preoccupanti e diventa sempre più chiaro che è proprio l’impatto umano che lo produce. Si potrebbe dire che siamo passati dallo “Anthropocene” ( W. Steffen et al. 2007) entrando in una fase che possiamo chiamare “Virtualcene” dato che ci siamo dimenticati della nostra carne , del nostro sangue e, ahimé, vista la situazione in cui ci troviamo, della importanza dell’uso della nostra capacità di pensare per rilanciare le vite vere nostre e degli altri abitanti di questo Pianeta. Questa una breve e succinta storia della evoluzione umana, diversa da quella del resto della vita sulla Terra descritta a grandi linee. Resta ora lo studio approfondito, che il lettore troverà in questo volume, dei modi con cui è avvenuta la “discesa” della nostra specie,assolutamente necessario per comprendere i meccanismi che la stanno provocando e poi tentare se possibile una inversione di tendenza fondamentale per la nostra sopravvivenza. Buona lettura!

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- M. Buiatti, 2013, Evolution and alienation of Homo sapiens, Euresis Journal, 4: 11-56 - M. Buiatti, 2013, GMOs are the result of a mechanistic vision of life, Caen, France, University Press, in the press - Darwin, Ch. 1872,The origin of species -F. Giddings, 1903:The Economic Significance of Culture: Franklin H. GiddingsSource: Political Science Quarterly, Vol. 18, No. 3. 449-461 -Jablonka, E., M.Lamb,2004, “Four dimension evolution”/ MIT Press/ -H. Jonas, 1979, Das PrinzipVerantwortung. VersucheinerEthikfür die technologischeZivilisation -W. Steffen, P. J. Crutzen, John R. McNeill, 2007,The Anthropocene: Are Humans Now Overwhelming the Great Forces of Nature, AMBIO: A Journal of the Human Environment:614-620

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Due o tre cose che so di lui: Renato Cecchi. Una postfazione Di Stefano Beccastrini

Invecchiando, mi accorgo di possedere sempre minori sicurezze sulla mia vita e su quanto sia riuscito combinare di buono stando nel mondo. Di una buona cosa almeno sono certo: del fatto che Renato Cecchi sia stato, negli ultimi venti anni e probabilmente qualcosa di più, uno dei miei migliori amici oltre che uno dei miei più profondi maestri. Quanto a questo secondo aspetto, va detto che egli lo è stato nel modo in cui agiscono da sempre i maestri veri ossia con il pensiero, il comportamento, l’esempio e non certamente, non sarebbe da lui, con la pretesa di indottrinare, addottorare, trasmettere o addirittura imporre certezze. I buoni maestri non fanno proseliti, cercano di conoscere l’interlocutore rispettandone la diversità (lo ha recentemente detto Papa Francesco, il cui modo d’essere a capo d’una chiesa di cui non mi sento di far parte mi sta interessando alquanto, ad Eugenio Scalfari). Renato è stato, per me ma credo anche per molte altre persone, un maestro di stile, di metodo, di concretezza, insomma di etica e di politica (che, per lui, credo siano sostanzialmente la stessa cosa: il che non vuol dire che egli non sappia pensare e praticare la politica anche come arte della mediazione e persino del compromesso ma che ha sempre avuto ben chiaro quali siano i limiti oltre i quali la mediazione e il compromesso si trasformino in errore strategico, in scelta immorale, in cedimento nei confronti dell’avversario, in pigrizia o gioco d’interesse, in sostanza in atto largamente diseducativo). Mi è piaciuto molto leggere, nella sua introduzione a questo prezioso e.book dal titolo meravigliosamente - poiché fintamente - scherzoso (splendida, poi, la foto di copertina e il suo senso tremendamente, seppur giocosamente, metaforico), la sua affermazione che un sindacalista – lui lo è stato per molti anni e anche adesso, che è andato in pensione dalla CGIL, non ha cessato di pensare da vero e bravo sindacalista - è necessariamente un riformista e un evoluzionista. Un sindacalista, infatti, deve portare sempre a casa qualcosa, un risultato reale che renda più forti, più liberi, meno sfruttati i lavoratori la cui tutela è suo compito professionale. Non si è buoni sindacalisti se si è disposti, per motivi politici o addirittura peggiori, a scendere ad accordi lesivi dei diritti dei lavoratori ma non lo si è neppure se si ritiene che fare sindacato serva soltanto a creare agitazione, mobilitazione, ribellione delle masse in prospettiva di chissà quale palingenesi rivoluzionaria. Renato è proprio questo: un severo, rigoroso, intransigente, colto riformista-evoluzionista (talora è anche un caratteraccio oscillante tra lo scorbutico e il depressivo: ma chi non ha, io per primo, una qualche ferita nella propria indole?). La sua lettura del mondo sociale ed economico che ci circonda, oltre che da profonde letture (tante, a cominciare dalla alquanto da altri trascurata impresa marxiana dei Grundrisse) deriva proprio da questa attitudine intelligente, critica, libera da schematismi e pregiudizi. Lo dice, proprio all’ inizio di questo bel e.book: “Perciò non crediamo ciecamente a ciò che vediamo, neppure con gli occhiali da sole. Solo il dubbio è certo”. Affermazione, quest’ultima, addirittura sublime. E’ vero, cartesianamente e marxianamente e gramscianamente: solo il dubbio è certo, solo dubitando siamo sicuri di essere sulla buona strada per capire cosa succede intorno a noi e persino dentro di noi (immagino che anche Vittorio Foa, che Renato ama quanto me e per le stesse ragioni – l’azionismo di fondo, l’antistalinismo, il rigoroso rifiuto di ogni schematico dogmatismo così come di ogni fasullo revisionismo - sarebbe stato d’accordo). Tutto ciò è quanto da più di vent’anni mi insegna Renato Cecchi e spero di essere stato alla fin fine un suo allievo non troppo zuccone. Egli rappresenta ai miei occhi il prototipo del meglio che abbia prodotto la cultura – quella meno stalinista e più nazionalpopolare – del PCI e la cultura della CGIL (quest’ultima espressione è anche il titolo di un bel libro, appunto di Vittorio Foa, che ogni tanto torno ad aprire e che certamente torna spesso a consultare anche Renato): rigore, etica, raziocinio, capacità di mediazione ma pensando al futuro, concretezza e realismo ma anche passione, spinta inveterata a sognare e sperare, capacità di resistere e dire di NO quando dire di SI’ significherebbe tradire non soltanto il mandato ricevuto dai nostri compagni ma anche e soprattutto la nostra coscienza. Però Renato, oltre che un bravo sindacalista, è stato anche un bravo ambientalista (non starò qui a dire tutto ciò che, anche su questo versante del proprio impegno sociale e civile, è stato capace di mettere in piedi: credo lo

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sappiano tutti o almeno tutti quelli, spero non pochi, che leggeranno questo suo denso e.book). Autori come Georgescu-Roegen e Herman Daly, concetti come quello di ecologia e di entropia, una riflessione serrata e globalizzante sulle idee di crescita-progresso-sviluppo lo hanno portato in maniera lungimirante ad affiancare al proprio approccio marxiano (e persino neo-keynesiano) una attenta riflessione sul modo di produrre delle diverse società del mondo ed dunque una più vasta, sapiente, complessa visione ecologico-economica del mondo medesimo. Senza mai scindere i due aspetti. Per questo la scoperta del binomio Ambiente-Lavoro, e la fondazione della associazione Ambiente Lavoro Toscana (ALT), lo ha visto in prima fila, quale promotore fin dagli ultimi anni 80 (che furono “stupidi” soltanto per chi credette al craxismo-berlusconismo quale via alla malamodernizzazione del nostro Paese: per altri versi furono invece molto intelligenti). Io credo che Renato sia stato – e in qualche modo, seppur da meritatamente ma non inattivamente pensionato, sia tuttora – un bravo sindacalista e un bravo ambientalista: perché, con una lungimiranza tuttora non troppo diffusa, si è reso conto che non si poteva essere seriamente l’una cosa senza essere anche l’altra. Difendere il lavoro e difendere l’ambiente sono due facce d’una stessa medaglia, d’una stessa “critica dell’economia politica”, d’una stessa crisi e d’uno stesso sfruttamento. Occorre un pensiero di sinistra che sia capace di non scindere i due concetti, i due fronti di lotta (se quel pensiero oggi fosse diffuso, non saremmo anche a sinistra ad oscillare – con idee spesso confuse – su casi come quello dell’ILVA di Taranto). Ma rammentare quei primi anni 90 in cui ALT nacque, e anch’io partecipai a rendere possibile questo parto, mi richiama il fatto che, all’inizio di questo mio breve testo, ho detto che Renato, oltre che uno dei miei più profondi maestri, è stato anche – e resta - uno dei miei migliori amici. Vorrei dire due parole anche su questo aspetto del nostro rapporto. Con lui ci intendemmo subito, fin dalla prima volta in cui ci siamo incontrati: avvenne una sera, in una stanzina della CGIL regionale di via Pier Capponi. Medico del lavoro, avevo saputo dell’intenzione di Renato di fondare la sezione toscana dell’associazione Ambiente e Lavoro, che già conoscevo e stimavo, e andai a offrirgli la mia disponibilità nel dargli una mano in tale impresa (io, almeno, me la ricordo così ma i ricordi, si sa, sono come gli occhiali da sole: servono per vedere meglio, talvolta, ma anche deformano continuamente e, dunque, può darsi che sia andata in un diverso modo e che io voglia, inconsciamente e chissà perché, ricordarmela in questa maniera). Mi piacque subito, per la sua semplicità, la sua laconicità, la sua concretezza (ma anche la sua ironia verso se stesso, gli altri, il mondo: persino il suo mondo, quello cui pure apparteneva orgogliosamente e combattivamente). Sentii subito in lui una caratteristica che mi piace molto nelle persone: quella di saper unire in sé scienza e passione, ragione e sentimento. Poi, è venuto il resto: le confidenze, le confessioni, le emozioni, i ricordi comuni, il conoscersi delle rispettive famiglie, lo scoprire il comune amore per la buona cucina (quella toscana soprattutto, seppur non solamente: per esempio, la trippa e il baccalà), per alcuni registi cinematografici (entrambi amiamo molto, per esempio, Sidney Pollack, per esempio quello del bellissimo I tre giorni del Condor, nonchè tutto Sam Peckimpah: Renato, però, odia i film troppo intellettualistici alla Bergman o alla Godard – dal cui film Due o tre cose che so di lei ho tratto, mettendolo al maschile in quanto riferito non alla città di Parigi ma a Renato Cecchi, il titolo di questo testo - e non apprezzò molto quando, in gita assieme e con le rispettive mogli nel Modenese in cerca di aceto balsamico e pasticci di tortellini, una sera lo convinsi nonostante i suoi mugugni a venire a vedere Un angelo alla mia tavola di Jane Campion), per alcune letture (Georges Simenon per esempio, dei cui libri era pieno lo scaffale sotto cui ho dormito quando mi è capitato di passare la notte a casa sua: Renato però, a differenza di me, non apprezza granché la poesia di Mario Luzi). Eccetera eccetera. Mandandoci e-mail, informandoci sulle rispettive condizioni di salute (purtroppo non siamo più, entrambi, troppo arzilli), ogni tanto incontrandoci, ogni tanto facendo ancora qualche cosa assieme (io ho scritto questa breve postfazione al suo libro, lui ha scritto una ricca prefazione a un mio libro su cinema e lavoro in Toscana: si chiama C’era una volta il lavoro. I lavoratori di Toscana e il cinema ed ha una presentazione di Susanna Camusso) andiamo avanti non rinnegando nulla – ma continuamente rivisitando criticamente tutto - del nostro passato politico, continuando ad incazzarsi. quando non se ne può fare a meno, sperando di non morire berlusconiani (i fatti di questi giorni sembrerebbero

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andare in questo senso ma con il Caimano è meglio essere sempre guardinghi) né che i nostri discendenti continuino a vivere in un mondo dominato dal capitalismo predatorio e sconvolto dalla crisi sia economica che ecologica.

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APPENDICE 1 “Frammento sulle macchine”in Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La nuova Italia 1970 vol. II pagg. 400 – 403. [Contraddizione tra la base della produzione borghese (misurata dal valore) e il suo sviluppo stesso. Macchine ecc.] Lo scambio del lavoro vivo col lavoro oggettivato, cioè la posizione del lavoro sociale nella forma dell’opposizione di capitale e lavoro salariato, è l’ultimo sviluppo del r a p p or t o d i v a l o r e e della produzione basata sul valore. La premessa di questa è e rimane la quantità di tempo di lavoro immediato, la quantità di lavoro impiegato, come fattore decisivo della produzione della ricchezza. Ma nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta –questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. (Lo sviluppo dì questa scienza, in particolare della scienza della natura, e con essa dì tutte le altre, è a sua volta di nuovo in rapporto allo sviluppo della produzione materiale). L’agricoltura, per es., diventa una semplice applicazione della scienza del ricambio materiale, da regolarsi nel modo più vantaggioso per l’intero organismo sociale. La ricchezza reale si manifesta invece – e questo è il segno della grande industria – nella enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto ad una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione quanto piuttosto l’uomo a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore. [Quindi non più il lavoro come categoria generale “astratta” ma l’uomo con la sua natura capace con la conoscenza sua propria e la scienza di sorvegliare e regolare processi enormi e complessi perciò con una presenza consapevole come individuo e come essere sociale in continua evoluzione. Ndr] (Ciò che si è detto delle macchine, vale anche per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo delle relazioni umane). L’operaio non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo tra se stesso e la natura inorganica, della quale si impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’appropriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in una parola è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza. I l f u r t o d e l t e m p o d i l a v o r o a l t r u i , s u c u i p o g g i a l a r i c c h e z z a o d i e r n a , si presenta come una base miserabile [grassetto nostro, ndr] rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. I l p l u s l a v o r o d e l l a m a s s a ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il n o n – l a v o r o d e i p o c h i ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario [per la riproduzione del capitale e della stessa specie umana, ndr] della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati

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per tutti loro [dove ormai lavoro e non lavoro si identificano e si sovrappongono nella crescita del complesso delle attività della vita congnitive e di loisir, ndr]. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre dall’altro, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente - la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione di ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. [E conservare il potere di potersene appropriare, ndr] L forze produttive e le relazioni sociali – entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale – figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata [è lo stesso concetto di limitatezza del capitale di cui parla Braudel in rapporto all’enorme forza della vita materiale e del mercato, ndr]. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base. <<Una nazione si può dire veramente ricca, quando invece di 12 si lavora solo 6 ore. Wealth>> (ricchezza reale) <<non è il comando di tempo di lavoro supplementare, ma tempo di lavoro disponibile, fuori di quello usato nella produzione immediata, per o g n i i n d i v i d u o e per tutta la società>> (The source and remedy, ecc. [cit.] 1821, p. 6). La natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatori automatici, ecc. [né computers o robots, ndr] Essi sono prodotti dell’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono o r g a n i d e l c e r v e l l o u m a n o c r e a t i d a l l a m a n o u m a n a ; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato f o r z a p r o d u t t i v a i m m e d i a t a , e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità con esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.

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APPENDICE 2 – Appunti sparsi 1. La mia esperienza personale di sindacalista (suddivisa in periodi secondo il tipo d’impegno: 1973-1982, 1983-1987 e 1988-2005) sta tutta dentro il passaggio tra la fine della seconda (1870-1970) e la nascita della terza (1970-2000) rivoluzione industriale, cioè alla fine della seconda negli anni delle teorizzazioni della “fine del Lavoro” e la nascita della rivoluzione “postindustriale” (qualunque significato si voglia attribuire a questo termine) o informatica. Nella prima rivoluzione industriale (1770-1870) il paradigma è stato la riduzione del lavoro vivo a lavoro morto (il lavoro astratto di Karl Marx), come passaggio dal lavoro artigianale indipendente e scandito dal tempo naturale (giorno/notte, le stagioni), comunque con scarsi legami con quello tecnologico, al lavoro di fabbrica, organizzato, scandito dalle macchine. Nella seconda il paradigma è stato la fine del lavoro in quanto lavoro svuotato di ogni autonomia e conoscenza (taylorismo e fordismo), nella terza, nell’epoca delle rivoluzioni scientifiche (fisiche, ma soprattutto biologiche e delle comunicazioni/calcolo) e delle informazioni, quale sarà il nuovo paradigma? Può essere la knowledge di Karl Marx? Arricchita dal riconoscimento della persona umana e dalla sua dignità? 2. Per la prima volta nella storia umana, alla presenza di una rivoluzione tecnologica, c’è la possibilità di scelta, nel senso che nelle prime due rivoluzioni industriali il passaggio dalle forme di lavoro e di vita precedenti è stata quasi obbligato sulla base del fatto che le condizioni storiche e tecniche non potevano non portare a quelle scelte realizzate (pur mantenendosi spezzoni di alternative possibili: si vedano a questo proposito D. Landes “A che servono i padroni”, B. Trentin “La città del lavoro”), mentre nella nascita della terza è insita la possibilità di scegliere tra una catastrofe iper tecnologica fondata sull’economia del petrolio (e sovrappopolazione) e la riduzione del lavoro in frantumi, su un iper consumo inconsapevole, oppure su una transizione consapevole, una rivoluzione fondata sulla conoscenza, una economia e una società del risparmio di materia ed energia a partire dal lavoro e dei suoi modi concreti di realizzarsi. 3. Nella seconda rivoluzione si sono avuti vari atteggiamenti scientifici/teorici e culturali che vanno dal rifiuto del lavoro (in Italia Tronti e Negri), all’utopia delle macchine che liberano gli individui e delle macchine come nuovi schiavi (Rifkin – “La fine del lavoro”, prefazione alla seconda edizione p.55). Entrambi gli atteggiamenti sembrano avere un elemento comune: la riduzione del lavoro alla dimensione puramente economica, meccanica, quindi il lavoro considerato solo dal lato dello sfruttamento. Da qui il suo rifiuto. 4. Anche nel corso della seconda rivoluzione industriale si è presentata l’idea di una possibile scelta, di un’alternativa allo sfruttamento del lavoro. Essa però fu concepita come rivoluzione politica (di classe), come soluzione “esterna” al lavoro eterodiretto, ma mantenendo in tutto e per tutto la direzione esterna al lavoro. Risarcendo il lavoro dalle sue pene, nel caso delle socialdemocrazie europee – in particolare dopo il secondo dopoguerra, sul piano sociale e degli alti salari, questo secondo aspetto soprattutto negli Stati Uniti d’America -, mentre nel caso sovietico l’esaltazione del lavoro socialista altro non era che un tentativo di risarcire l’estraneazione “oggettiva” del lavoro in nome di superiori obiettivi della rivoluzione con l’appropriazione, statale, dei mezzi di produzione. Aggiungendo, invece, nei fatti, alla estraniazione tipica del modo capitalistico di produzione taylorista, l’oppressione sul piano politico e la soppressione delle libertà fondamentali. La scelta si presentava, allora, sul piano storico, come non realistica: non capace di offrire un’altra idea di lavoro e di collegare lavoro a libertà. C’è poi la tradizione, tutta italiana, del sindacalismo libertario di tradizione socialista e azionista (con qualche forzatura: Labriola, Turati, Foa, Trentin, ecc.) che considera il lavoro nella sua dimensione sociale e della persona, prima di quella economica, e lo colloca nella sfera della conquista dei diritti di libertà (si veda a questo proposito B. Trentin “La libertà viene prima”).

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5. Se nella prima rivoluzione industriale la “molla” tecnico scientifica è stato il vapore, nella seconda sono state l’elettricità e le comunicazioni materiali, nella terza che cosa è stato e cosa sarà? L’accelerazione della capacità di calcolo (binario)? Lo sviluppo esponenziale della conoscenza soprattutto biologica? Si deve partire, perciò, da quegli autori che tematizzano e periodizzano in modo chiaro i passaggi delle tre rivoluzioni industriali cercando di cogliere i cambiamenti specifici relativi ai paradigmi del lavoro (e le definizioni che volta per volta ne sono state date). Queste sono le prime questioni da tenere presente. Altre differenze fondamentali tra le prime due prime rivoluzioni industriali e la terza: - il lavoro nelle prime due interessava solo come quantità, ai fini della crescita quantitativa (dal punto di vista del capitale), lavoro pur che sia per vivere (dal punto di vista dei salariati); nella terza, invece, la qualità del lavoro diventa il centro di un sostegno qualitativo all’evoluzione oppure la sopravvivenza della specie sul pianeta è a rischio; - la seconda differenza sta nel fatto le prime due sono il frutto di trasformazioni scientifiche e tecnologiche che hanno contribuito all’evoluzione della specie, diventando sempre più indispensabili ma senza essere il prodotto di un “disegno intenzionale”, mentre con la terza non possiamo permetterci di non ragionare sui risultati e degli effetti sull’evoluzione della vita sul pianeta delle scelte che stiamo facendo ora (Gallino 2007). 6. Altra questione è quella del rapporto lavoro/ambiente. Se la terza rivoluzione industriale (post industriale?) è quella in cui si esplicita ed è messa a nudo la fine del lavoro o meglio, la fine del lavoro “astratto” (e rifiutato), del lavoro “morto” assorbito dalle macchine, estraniato di Karl Marx, essa è anche quella in cui si evidenziano in modo dirompente i “limiti” fisici, biologici e sociali della specie umana e della concezione che essa ha dello sviluppo e della crescita economica (qui sarebbe tutto da discutere se tale concezione sia propria del modello capitalistico di produzione/distribuzione/consumo o seppure essa sia connaturata alla cultura occidentale tout court –capitalistica e anticapitalistica nelle forme concrete fin qui viste-) e la rottura conseguente degli equilibri evolutivi ed ecologici del pianeta, prima di tutto la questione del clima e le altre a essa collegate (acqua, desertificazione, perdita biodiversità, ecc.). In questo contesto, come muta il lavoro (e come può essere definito: ancora come capacità di trasformazione degli elementi naturali per far fronte ai bisogni della specie? –chi lo definì così?-, oppure come attività cognitiva e capacitativa primaria –Sen-, che altro?) nella terza rivoluzione industriale e in che modo le sue mutazioni hanno a che fare (perché a che fare hanno di sicuro) con la questione della crisi ecologica in atto (già a un avanzato stadio d’irreversibilità che richiede grandi capacità di adattamento: quindi conoscenza, pensiero e allo stesso tempo capacità di fare e saper fare.)? La questione ecologica fa parte, allora, del paradigma che connota la terza rivoluzione industriale? E se sì in che modo? Perciò cosa differenzia effettivamente il lavoro nelle tre rivoluzioni industriali, solo i paradigmi tecnologici o anche quelli scientifici e in senso ampio quelli dell’evoluzione culturale e delle idee? La prima e la seconda rivoluzione industriale hanno portato in duecento anni (o anche meno) alle soglie di una possibile catastrofe ecologica planetaria (climatica: vedi rapporto tra clima e costi economici, N. Stern). Però miglioravano le condizioni materiali di vita di circa due terzi della popolazione mondiale, che poteva così crescere rapidamente. Aumentavano notevolmente i consumi di merci pro capite e assoluti e relativi e i consumi di materia/energia in termini ancor più ampi (a causa della dissipazione entropica e del rilascio di rifiuti). Lavoratori e cittadini erano e sono ridotti a consumatori –peggio ancora a compratori-, cresceva e cresce la deresponsabilizzazione verso il lavoro, verso il capitale, la natura, l’estraneazione monetarista; che cosa ci salverà? O meglio quale sarà il nuovo paradigma della terza rivoluzione industriale e sarà in grado di presentarsi anche come rivoluzione rispetto alla crisi ecologica del pianeta? Esso è riassumibile come la trasfigurazione del lavoro in conoscenza totale attraverso una riassunzione consapevole di responsabilità verso la specie e verso la natura? Un’attenzione specifica deve essere dedicata al rapporto tra concetto di lavoro (nelle tre rivoluzioni industriali) e concetto di sviluppo; si tratta di questione assai importante perché, per esempio, in un

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economista del calibro di Keynes la questione del lavoro è ridotta tout court alla questione dell’occupazione, quantitativa (in termini di lavoro fordista, finito).

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Bibliografia essenziale

C. Napoleoni, Introduzione a “Il futuro del capitalismo, crollo o sviluppo?”.Editori Laterza 1970 C. Napoleoni, Il pensiero economico del 900, Einaudi 1963 C. Napoleoni, Smith Ricardo Marx, Boringhieri 1970 C. Napoleoni, Sulla teoria della produzione come processo circolare. In “Il dibattito su Sraffa” De Donato Editore1974 E. J. Hobsbawn, Il secolo Breve, Rizzoli 1995 M. Kalecki, Sulla dinamica dell’economia capitalistica. Saggi scelti 1933-1970. Einaudi 1975 M. Kalecki, Saggi sulla teoria delle fluttuazioni economiche. Rosemberg & Sellier 1985 G. Arrighi, B.J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mondadori 2003 R. Reich, Supercapitalismo, Fazi editore 2008 R. Reich, l’economia delle nazioni, Il Sole 24 ore 2003 P.S. Jha, Il caos prossimo venturo, Neri Pozza 2006 K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974 D. Landes, Prometeo liberato, Einaudi 2000 R. Heilbroner, Il capitalismo del XXI secolo, Bruno Mondadori 2006 R. Heilbroner L.C. Thurow, Capire l’economia, Il sole 24 ore 1998 J. Gray, Alba bugiarda, Ponte alle grazie 1998 P. Bairoch, Economia e storia mondiale, Garzanti, 1996 S. Battilossi, Le rivoluzioni industriali, Carocci 2004 N. Kaldor, Il flagello del monetarismo, Loescher Editore 1984 G. Carandini, Racconti della civiltà capitalista, Laterza 2012 G. Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall’utopia, Edizioni Laterza 2005 C.M. Reinhart e K.S. Rogoff, Questa volta è diverso, Il Saggiatore 2010 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia 1970, vol. II P. Sraffa, Produzione di merci a mezzo di merci. Einaudi 1969 A. Gorz, Metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri 1992 N. Georgescu-Roegen, Energia e miti economici, Bollati Boringhieri 1998 J.R. Mc Neill, Qualcosa di nuovo sotto il sole, Einaudi 2002 M. Trentini, Il governo dell’economia da Keynes alla globalizzazione, Carocci 2002 B. Trentin, La città del lavoro, Sinistra e crisi del fordismo, Feltrinelli 1997 B. Trentin, La libertà viene prima, Editori Riuniti 2004 G. Lunghini, Conflitto Crisi economica Incertezza, Bollati Boringhieri 2012 G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Einaudi, 2005 E. Screpanti, L’imperialismo globale e la crisi, DEPS 2013 L. Pennacchi e altri, Tra crisi e <<grande trasformazione>>. Libro bianco per il piano del lavoro 2013. CGIL – EDIESSE 2013

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THE END

TITOLI DI CODA

Ringrazio Fausto Ferruzza per l’amicizia e la pazienza dimostrata anche in questa occasione e i consigli

Ringrazio inoltre Stefano Beccastrini, Marcello Buiatti e Giovanni Mari per il contributo non

formale

Ringrazio, infine, Alessandro Lippi per essersi prestato a fare “cavia” per una lettura in anteprima

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Un po’ di luce per il futuro, Fiammetta che avrà 48 anni nel 2050, nel 2006