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di Daniele Porena Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Perugia Il travagliato iter della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza. Brevi osservazioni sui contenuti del Disegno di legge n. 2092 8 NOVEMBRE 2017

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di Daniele Porena

Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Perugia

Il travagliato iter della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza. Brevi osservazioni sui contenuti del

Disegno di legge n. 2092

8 N O V E M B R E 2 0 1 7

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Il travagliato iter della proposta di riforma della legge sulla cittadinanza. Brevi osservazioni sui

contenuti del Disegno di legge n. 2092*

di Daniele Porena Ricercatore di Istituzioni di diritto pubblico

Università degli Studi di Perugia

Sommario: 1. Alcune preliminari questioni “di metodo”. 2. La fattispecie di acquisto della cittadinanza iure soli. 3. Fattispecie e presupposti di acquisto della cittadinanza per “assimilazione culturale”. 4. Considerazioni conclusive: alcuni dubbi e possibili spunti per un’ulteriore riflessione de iure condendo. 5. Bibliografia.

1. Alcune preliminari questioni “di metodo”.

Dopo quasi due anni di trattazione presso la Commissione Affari Costituzionali del Senato della

Repubblica, il Disegno di legge n. 2092, già approvato dalla Camera dei Deputati alla fine del 2015, e

recante “modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”1 è stato dapprima

inserito nel calendario dei lavori d’Aula del Senato, salvo poi essere, più di recente, rinviato a nuova

calendarizzazione.

Come noto, già l'avvio dell'esame del predetto Disegno di legge, accompagnato da livori politici invero

mai sopiti, è stato teatro di metodi di confronto in stile non sempre appropriato per un Aula parlamentare.

In effetti, sul piano del “metodo” non sembra, invero, che il dibattito istituzionale abbia sinora offerto il

migliore esempio di dialogo democratico tra gruppi parlamentari.

A tacere degli incresciosi episodi di intemperanza registrati nell'Aula del Senato in occasione delle ultime

discussioni in materia, il dibattito sul Disegno di legge sembra essersi appesantito dalla presenza di fattori

che rischiano di compromettere un confronto che, specie nella materia de qua, richiederebbe di essere

esposto il meno possibile agli altalenanti umori legati alla ordinaria agenda istituzionale.

La scelta di inaugurare la discussione in Aula nelle more dei ballottaggi per le elezioni amministrative e,

ormai, a poca distanza dal voto politico, non sembra di certo aver rappresentato il migliore viatico per un

sereno confronto parlamentare.

* Articolo sottoposto a referaggio. 1 Il Ddl n. 2092 è stato approvato dalla Camera dei deputati il 13 ottobre 2015, in un testo risultante dall’unificazione di un disegno di legge d’iniziativa popolare e di disegni di legge di iniziativa parlamentare. Il Ddl consta di quattro articoli mediante i quali, in particolare, sono proposte modifiche agli artt. 1, 4, 9, 9 bis, 14 e 23 della legge 5 febbraio 1992, n. 91.

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Il punto di caduta del calendario prescelto si mostra difatti, per molti aspetti, sconsolante: oltre settemila

emendamenti presentati dalle forze di opposizione2 e, dall'altro lato, l'annunciato voto di fiducia da parte

della maggioranza governativa (ipotesi, quest’ultima, che sembra tuttavia, più di recente, essere stata

accantonata).

Insomma, se da un lato l'opposizione parlamentare si è mostrata contraria alla prospettiva di una

discussione su eventuali modifiche alla legislazione vigente, la reazione della maggioranza di governo è

stata quella di minacciare il “soffocamento” del dibattito parlamentare mediante il ricorso alla questione

di fiducia.

L’ultima notizia registrata in argomento è quella secondo cui, visti anche i rischi percepiti dai gruppi

parlamentari di maggioranza in relazione ad un voto di fiducia su un tema così delicato, la discussione è

stata rinviata a data da definire.

In altre parole, allo stato, l’esame del Ddl sarebbe “scomparso” dal calendario dei lavori del Senato.

Invero, e rimanendo sulle considerazioni di metodo, sembra che gli attori istituzionali coinvolti nel

dibattito in oggetto - la maggioranza parlamentare da un lato e l’opposizione dall’altro – abbiano, per così

dire, “approcciato” in modo assai distorto il confronto su una materia di così particolare e delicata

rilevanza.

Come già in passato si è osservato, le norme sulla cittadinanza rappresentano il “chi siamo” di una

comunità politica3: rispondono, cioè, ad un interrogativo di natura preliminare rispetto ad ogni ulteriore

esercizio democratico.

Ancora, esse identificano - in senso reale - quella nozione di 'popolo' al quale il primo articolo della nostra

Costituzione riconosce la titolarità delle prerogative sovrane4.

2 Per l'esattezza, sono stati presentati 7.728 emendamenti all'art. 1, 19 emendamenti all'art. 2, 2 emendamenti all'art. 3 e 7 emendamenti all'art. 4. All'indomani della seduta del 15 giugno scorso, la maggioranza governativa si è detta pronta a ricorrere alla questione di fiducia per superare l'ostruzionismo parlamentare. 3 Sia consentito un rinvio a D. PORENA, Il problema della cittadinanza. Diritti, sovranità e democrazia, Torino, 2011, pp. 86 e ss. 4 Come ricorda M. OLIVETTI, Art. 1, in R. Bifulco- A. Celotto – M. Olivetti, La Costituzione italiana. Principi fondamentali. Diritti e doveri dei cittadini, Torino, 2007, p. 12 «il 2° comma dell'art. 1, laddove distingue tra titolarità della sovranità popolare e l'esercizio di questa, contiene infatti sia l'identificazione del titolare del potere costituente (il popolo, cui appartiene la sovranità), sia la precisazione che il soggetto cui spetta il potere costituente è anche il principale dei poteri costituiti, che ad esso compete anche l'esercizio della sovranità e che esso è però tenuto, in questa sua seconda veste, ad operare nelle forme e nei limiti della Costituzione». In relazione alla esatta identificazione della nozione di popolo, non sono mancati, in dottrina, orientamenti diversificati. Dalla totalità dei cittadini (Cfr. con A. PIZZORUSSO, Istituzioni di diritto pubblico, Napoli, 1997, p. 128; C. ROSSANO, Manuale di diritto pubblico, Napoli, 2012, p. 58) sino al più ristretto novero dei cittadini maggiorenni, la nozione di «popolo» ha visto estendere e restringere il proprio perimetro lungo direttrici e latitudini talora assai variamente orientate. In questo quadro, non è mancato anche chi ha sostenuto l'idea che la nozione di popolo sia idonea a comprendere non solo l'insieme dei cittadini viventi in un determinato momento storico ma anche il complessivo insieme delle generazioni venute man mano a susseguirsi nel corso del tempo. In questo senso, R. BIN, I principi fondamentali:

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Per molti aspetti, la definizione dei perimetri dello status civitatis rappresenta, dunque, il presupposto degli

stessi sistemi politici ed istituzionali5.

Trascinare dunque il dibattito sulla cittadinanza nel quadro dei più collaudati strumenti di conflittualità

istituzionale (ostruzionismo parlamentare e voto di fiducia, accelerazioni e rinvii improvvisi, ecc.) pare

invero tradire il senso stesso di una scelta, quella appunto sul “chi siamo”, che richiederebbe ben altro

afflato da parte degli attori istituzionali.

Tuttavia, nell’attesa (e nella speranza) che metodi ed abitudini più vicine a quelle proprie di un sistema

maturo ed evoluto possano essere rapidamente ripristinate, non rimane che soffermarsi sul merito delle

Democrazia, sovranità, lavoro, potere, eguaglianza, autonomie, decentramento, in M. Imperato – M. Turazza (a cura di), Dialoghi sulla Costituzione. Per saper leggere e capire la nostra Carta fondamentale, Monte Porzio Catone, 2013, p. 17, osserva che «il concetto di popolo è più ampio di quello degli elettori. Non soltanto perché gli elettori sono solo una parte del popolo italiano, ma anche perché il popolo comprende anche le generazioni passate e future, non solo i cittadini. Siamo evidentemente ai confini della filosofia: ma la Costituzione non è stata scritta solo per l'immediato, essa prospetta un sistema di principi ed istituzioni destinato a prolungarsi attraverso le generazioni. Il popolo italiano è anche esso un concetto non legato ad un preciso momento storico». In relazione ai rapporti tra la nozione di popolo e quella di cittadinanza si veda quanto osservato da E. GROSSO, Cittadini per amore, cittadini per forza: la titolarità soggettiva del diritto di voto nelle Costituzioni europee, in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2000, II, p. 507, secondo cui «l’abbandono del concetto di “sovranità dello Stato” in nome della “sovranità popolare”, accolta da tutte le costituzioni contemporanee, ha portato alla tendenziale coincidenza tra il popolo titolare della sovranità e il corpo elettorale titolare dei diritti politici». Lo stesso Autore evidenzia poi il nesso che si pone tra la categoria generale della sovranità e quella della cittadinanza rilevando come «nel rapporto di stretta connessione tra cittadinanza e sovranità, è stata quest’ultima a guidare l’evoluzione dell’altra», cfr. E. GROSSO, Le vie della cittadinanza. Le grandi radici. I modelli storici di riferimento, Padova, 1997, p.12. Cfr., ancora, con S. STAIANO, Migrazioni e paradigmi della cittadinanza: alcune questioni di metodo, in www.federalismi.it, 5 novembre 2008, p. 26, il quale osserva come «il nodo sovranità-cittadinanza è dunque ancora dominante quanto all’attribuzione del diritto elettorale, ed è indissolubile, sul versante “interno” dell’ordinamento statale». Ancora, si ricordi quanto affermato da G. CHIARELLI, Popolo, in Noviss. dig. ital., XIII, Torino, 1957, p. 285, secondo il quale «non possono stabilirsi in astratto le condizioni per le quali una collettività di persone può assurgere alla funzione storica di elemento originario di uno Stato; in altre parole la qualità di popolo non deriva da condizioni che si possono fissare in maniera generale e teorica, ma è storicamente relativa. Ciò vuol dire che lo Stato nasce nel momento in cui le condizioni, quali che siano, che fanno di una collettività di persone una comunità giuridicamente ordinata in modo autonomo e sovrano sono attuali, e cioè, in concreto esistenti; e si mantiene in vita finché esse durano». Quanto alla scelta di delegare al legislatore ordinario la definizione delle regole relative all’accesso alla cittadinanza, si ricordi quanto osservato da M. CUNIBERTI, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella costituzione italiana, Padova, 1997, p. 94, laddove l’Autore osserva come per effetto degli approdi maturati dall’Assemblea Costituente «si lasciava così aperta la porta, tuttavia, all’insoddisfacente conclusione secondo cui la chiave di accesso alla sovranità popolare, rappresentata dal possesso della cittadinanza, rimarrebbe affidata alle determinazioni del legislatore ordinario: il principio cardine di tutto l’edificio costituzionale sarebbe dunque del tutto scoperto di fronte alle scelte compiute dalle maggioranze politiche all’atto della determinazione dei presupposti del riconoscimento della cittadinanza, e la solenne proclamazione della “sovranità popolare” sarebbe in sostanza vanificata dal fatto che, in ultima analisi, è lo stesso stato, nelle vesti del legislatore, il soggetto abilitato a decidere che fa parte del “popolo” e chi ad esso è estraneo». 5 Come già in altra sede osservato, la problematica relativa al “chi siamo” si colloca, in altri termini, alla radice stessa del potere costituente ed alla base del potere costituito. Sul piano “genetico” essa rappresenta il presupposto dello stesso atto fondativo. Sul piano “funzionale” è alla base del processo normogenetico e, in generale, delle dinamiche evolutive dell’ordinamento.

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scelte prospettate nel Ddl, con l’auspicio che esse possano, comunque, ricevere il vaglio attento che esse

meritano.

2. La fattispecie di acquisto della cittadinanza iure soli.

Come ormai noto, i contenuti più rilevanti del Disegno di legge n. 2092 ruotano, in primo luogo, intorno

alla introduzione di un nuovo meccanismo di accesso iure soli alla cittadinanza italiana. A fianco alla nuova

normativa sullo ‘ius soli’ si pone poi un'ulteriore innovazione: si tratta, in particolare, di due fattispecie di

acquisto della cittadinanza che il dibattito corrente ha accomunato mediante il ricorso all'espressione “ius

culturae”6.

L'ingresso del criterio dello 'ius soli' nel nostro ordinamento – e val la pena osservare, di vero è proprio

ingresso può parlarsi stante il tenore della legislazione vigente teso a relegare il detto criterio a due ipotesi

piuttosto residuali7 – sembra prospettato nel Disegno di legge in termini coerenti con gli approdi ormai

da tempo già raggiunti dalla gran parte degli ordinamenti occidentali.

In particolare, con la proposta di modifica in esame si ipotizza l'inserimento di una nuova previsione, al

termine del secondo comma dell'art. 1, l. n. 92/1992, per effetto della quale cittadino per nascita sarebbe

anche chi sia nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno sia titolare del

diritto di soggiorno permanente ai sensi dell'art. 14 del D. lgs. n. 30/2007 o sia in possesso del permesso

di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo di cui all'art. 9, D. lgs. n. 286/19988.

6 Per economia di esposizione, saranno tralasciate nelle analisi del presente contributo le previsioni di dettaglio contenute nel Ddl in esame ed essenzialmente finalizzate all’attuazione delle più rilevanti disposizioni in materia di acquisto della cittadinanza iure soli o a seguito del completamento di cicli istituzionali di istruzione o formazione. 7 In particolare, si tratta delle residuali ipotesi contenute nella lettera b), comma 1, art. 1, l. n. 91/1992, a mente del quale è cittadino per nascita «chi è nato nel territorio della Repubblica se entrambi i genitori sono ignoti o apolidi, ovvero se il figlio non segue la cittadinanza dei genitori secondo la legge dello Stato al quale questi appartengono» e, ancora, nel secondo comma dell’art. 4, laddove è previsto che «lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data». Quest’ultima fattispecie è accomunata alla prima, all’interno della più ampia casistica dell’acquisto della cittadinanza per beneficio di legge, per il fatto di subordinare l’acquisto dello status civitatis alla apposita dichiarazione effettuata dall’interessato. 8 Ovviamente, la normativa in commento si preoccupa di non introdurre meccanismi per effetto dei quali l’acquisto della cittadinanza finisca sostanzialmente per essere imposto all’interessato. A questo proposito, soccorrono le previsioni contenute al primo comma dell’art. 1 del Ddl in commento, ed ai sensi delle quali in presenza dei requisiti richiamati, la cittadinanza non risulterebbe frutto di una acquisizione “automatica”. Viceversa, la cittadinanza potrà essere acquista a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del minore, da annotare a margine dell’atto di nascita. Inoltre, entro due anni dal raggiungimento della maggiore età l’interessato potrà rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza. Ancora, prevede il Ddl in esame, qualora non sia stata resa la dichiarazione di volontà di cui sopra, gli interessati potranno acquisire la cittadinanza ove ne facciano richiesta all’ufficiale dello stato civile entro due anni dal raggiungimento della maggiore età.

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In concreto, l'acquisto della cittadinanza iure soli, secondo l'ipotesi descritta, avrebbe luogo a condizione

che almeno uno dei genitori del nuovo nato sul territorio della Repubblica sia ivi residente da almeno

cinque anni. Come noto, infatti, il diritto di soggiorno permanente ai sensi del D. Lgs. n. 30/2007 è oggi

riconosciuto al cittadino dell'Unione che abbia soggiornato legalmente ed in via continuativa per cinque

anni sul territorio nazionale.

Per altro verso, la legislazione vigente consente che il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di

lungo periodo possa essere rilasciato allo straniero in possesso, da almeno cinque anni, di un permesso

di soggiorno in corso di validità, che dimostri la disponibilità di un reddito non inferiore all'importo

annuo dell'assegno sociale nonché di un alloggio idoneo secondo i requisiti di legge. Inoltre, prevede

sempre la normativa da ultimo citata, il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo

periodo è subordinato (tranne che per i titolari di protezione internazionale) al superamento, da parte del

richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana. Ancora, giova in ultimo ricordare come, sempre

a mente della ricordata normativa, il permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo «non

può essere rilasciato agli stranieri pericolosi per l'ordine pubblico o la sicurezza dello Stato»9.

Come poc'anzi osservato, la proposta innovazione si cala nel contesto di meccanismi già sperimentati

all'estero.

In particolare, la proposta contenuta nel Ddl in esame finirebbe per introdurre quello che, anche nel

dibattito istituzionale, è stato definito come “ius soli temperato”.

In estrema sintesi, il meccanismo prefigurato finirebbe per distinguersi rispetto ai modelli c. d. “puri” per

l'introduzione di un requisito ulteriore rispetto al fatto della nascita sul territorio dello Stato e che, nella

ipotesi in esame, è ricondotto ad un già maturato periodo minimo di residenza in capo al nucleo

genitoriale.

La normativa in esame trova, in effetti, numerosi e convincenti riferimenti comparatistici.

Persino l'ordinamento sulla cittadinanza tedesca, tradizionalmente più fedele alla impostazione di una

trasmissione iure sanguinis della cittadinanza, ha da non molto introdotto una previsione analoga: si tratta

della disposizione contenuta, già a partire dal 1999, nella Staatsangehörigkeitsgesetz e secondo cui il nato in

9 In particolare, a mente di quanto previsto dal quarto comma dell’art. 9, D.lgs. n. 286/1998, nel valutare la pericolosità si tiene conto anche dell'appartenenza dello straniero ad una delle categorie indicate nell'articolo 1 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423, come sostituito dall'articolo 2 della legge 3 agosto 1988, n. 327, o nell'articolo 1 della legge 31 maggio 1965, n. 575, come sostituito dall'articolo 13 della legge 13 settembre 1982, n. 646, ovvero di eventuali condanne anche non definitive, per i reati previsti dall'articolo 380 del codice di procedura penale, nonché ancora, limitatamente ai delitti non colposi, dall'articolo 381 del medesimo codice. Ai fini dell'adozione di un provvedimento di diniego di rilascio del permesso di soggiorno il questore tiene conto altresì della durata del soggiorno nel territorio nazionale e dell'inserimento sociale, familiare e lavorativo dello straniero.

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Germania da genitori stranieri acquista la cittadinanza tedesca alla condizione che almeno uno di costoro

sia già residente in Germania da non meno di otto anni10.

In direzione simile muove poi la disciplina britannica.

In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 1 del British Nationality Act del 1981, l’individuo nato nel

territorio del Regno Unito è considerato cittadino britannico a condizione che almeno uno dei genitori,

se stranieri, sia stabilmente residente nel Regno Unito11.

Più complesso è invece il meccanismo adottato in Francia.

Il legislatore d’Oltralpe si è da tempo affidato ad un più originale sistema che la letteratura ha

efficacemente sintetizzato con l’espressione “double droit du sol”.

In particolare, dispone la legislazione francese, l’individuo nato sul suolo della Repubblica acquisisce la

nazionalità francese se figlio di straniero anch’esso nato in Francia o, alternativamente, se figlio di genitore

nato in territorio ex-coloniale prima dell’indipendenza12.

Come noto, ad un meccanismo similare è peraltro ispirata anche la legislazione spagnola.

10 Con la Gesetz zur Reform des Staatsangehoerigkeitsrechts approvata il 15 luglio 1999, la vigente legislazione tedesca ha profondamente innovato non solo sul piano dei requisiti per la naturalizzazione ma ha anche normato una importante fattispecie applicativa del criterio dello ius soli. In letteratura, si veda quanto osservato da I. REA, La cittadinanza in Italia e in Europa: modelli di integrazione a confronto, in www.federalismi.it, 29 novembre 2006, p. 2, secondo cui la «scelta progressista della Germania, che con lo Staatsangehörigkeitsgesetz del 1999 si è aperta al principio dello ius soli, superando una volta per tutte la concezione determinista della cittadinanza tedesca come discendenza». Ancora, si ricordino le notazioni di C. JOPPKE, Immigration and the Nation-State. The United States, Germany and Great Britain, Oxford, 1999, pp. 203-204, secondo il quale, a seguito dei più recenti interventi di riforma «the two core principles of Naturalisation Rules: absolute state discretion and culturl assimilation as precondition for citizenship, are no longer. Assimiliation is simply deduced from the applicant’s length of residence; it isw no longer examined, case by case, on the basis of his or her economic situation, cultural orientation, and crime record. (…) The right of naturalisation has fundamentally transformed the german citizenship regime: citizenship for foreigners is no longer the exception, but the rule». 11 Come ricorda I. REA, La cittadinanza in Italia e in Europa: modelli di integrazione a confronto, in www.federalismi.it, 29 novembre 2006, p. 5, «in Gran Bretagna lo ius soli è idoneo a conferire la cittadinanza allo straniero, se nato da genitore residente nel Regno Unito e non soggetto alla legislazione d’immigrazione, o se residente nel Regno Unito nei dieci anni successivi alla nascita, mentre i tempi della residenza finalizzata alla naturalizzazione ammontano a soli cinque anni». 12 Il principio del doppio diritto di suolo attualmente enunciato dalla legislazione francese ha alle sue spalle, invero, un lungo percorso di maturazione storica ampiamente condizionato dalle vicende e dal ruolo coloniale assunto nel corso dei tempi dallo Stato. Come ricorda P. WEILL, L’accès à la citoyenneté: une comparaison de vingt-cinq lois sur la nationalité, in Travaux du centre d’études et de prévision du Ministère de l’Intérieur, Nationalité et citoyenneté, nouvelle donne d’un espace européen, maggio 2002, n. 5, p. 15, «une loi fut donc ée le 7 février 1851 qui introduisait le double jus soli: un individu né en France d’un parents étranger né en France était citoyen français à la naissance. Mais cette obligation d’être français restait facultative. Il pouvait renoncer à la nationalité française à l’âge de la majorité. Cette faculté fut supprimée par la loi de 1889, qui visait à respecter le principe de l’égalité devant les responsabilités et les devoirs: les descendants d’immigrants de la troisième génération recevaient définitivement la nationalité française à la naissance et ne pouvaient donc plus échapper à l’incorporation à leur majorité.Par ailleurs, un enfant né en France de parents étrangers nés à l’étranger devient français non à sa naissance mais à sa majorité, à moins qu’il n’exprime le souhait de rester étranger (…). Depuis lors, le double jus soli est au coeur de la législation française de la nationalité». In alternativa al meccanismo di cui si è detto, la legislazione francese consente l’acquisto della cittadinanza in favore del maggiorenne nato sul territorio dello Stato da genitori stranieri purché residente in Francia da almeno cinque anni.

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Limitando il novero degli esempi a quelli fatti - e che richiamano esperienze che, sul piano demografico

e socio-economico, mostrano apprezzabili similitudini con la nostra - è dunque possibile reperire una

tendenza comune.

Già dai pochi riferimenti illustrati, emerge anzitutto come il principio dell’acquisto della cittadinanza iure

soli abbia, in effetti, trovato significative codificazioni; ancora, ciò che sembra emergere è che, tuttavia, le

legislazioni europee tendano ad escludere che il fatto della nascita sul territorio dello Stato, in sé solo

considerato, possa identificare un requisito idoneo e sufficiente per l'attribuzione della cittadinanza.

Piuttosto, gli ordinamenti europei tendono a ricercare ulteriori elementi di assimilazione dell’individuo nella

più o meno radicata presenza e permanenza del nucleo genitoriale sul territorio dello Stato.

La scelta intrapresa dagli ordinamenti ricordati si discosta, dunque, da quel modello di acquisto della

cittadinanza iure soli che, sovente, viene definito “puro”.

Si tratta, in particolare, della opzione cui si è rivolta la Costituzione statunitense, il cui XIV° emendamento

dispone che “tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro sovranità sono cittadini degli Stati

Uniti e dello Stato in cui risiedono”13.

Invero, come in altre sedi si è già avuto occasione di osservare, il sistema dell'attribuzione della

cittadinanza per il solo fatto della nascita sul territorio dello Stato si espone a motivati dubbi e severe

criticità.

In particolare – tralasciando le ragioni storiche che ne hanno favorito l'introduzione in ordinamenti come

quello statunitense –, l'acquisto della cittadinanza per il solo fatto della nascita impedisce infatti un’analisi

circa la sussistenza di ulteriori ed effettivi elementi di assimilazione capaci di radicare la presenza

dell’individuo nella comunità. In altri termini, secondo il modello da ultimo richiamato, anche il nato da

una coppia anche solo occasionalmente in transito sul territorio dello Stato ne acquisisce la cittadinanza:

ciò, dunque, senza che rilevino eventuali ulteriori criteri volti a testimoniare un qualche effettivo legame

dell’individuo con la comunità nazionale.

13 Il contesto storico in cui nacque il XIV° emendamento era chiaramente riconducibile alle necessità ed alle condizioni di una comunità politica nata non da un comune ceppo nazionale, quanto piuttosto dai percorsi di colonizzazione che avevano condotto popoli diversi sulle sponde e sui territori del nuovo mondo. È del tutto evidente, per tali ragioni, che la natura per così dire ‘vocazionale’ della cittadinanza statunitense non potesse valorizzare vincoli di discendenza iure sanguinis, ma radicare al contrario la propria identità nel nesso tra individuo e territorio. Assai evocativa, in proposito è la c.d. natural-born Citizen Clause contenuta al secondo art. della Costituzione, secondo cui «no person exept a natural born citizen (…) shall be eligible to the Office of President (…)», cfr con J.A. PRYOR, The natural-born Citizen clause and presidential eligibility:an approach for resolvin two hundred years of uncertainity, in The Yale Law Journal, vol. 97, 1988, p. 880 ss.

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Peraltro, come anche di recente osservato, il predetto meccanismo finisce, invero, per favorire

l’introduzione di rigidi contrappesi sul piano della legislazione migratoria ed in materia di ingressi nello

Stato con conseguenze, talora, distorsive14.

Al contrario, l'idea di temperare il requisito della nascita sul territorio dello Stato mediante ulteriori e diversi

criteri - in qualche modo sintomatici di una più o meno consolidata assimilazione del nucleo familiare

all'interno della comunità nazionale - finisce, indirettamente, per privilegiare un concetto di “cittadinanza

culturale”: ciò, dunque, in luogo di un criterio che, diversamente, si rivela puramente formale15.

Tratte le brevi osservazioni che precedono, l'opzione normativa sul tavolo del dibattito istituzionale

sembra dunque essere in sintonia che le esigenze e le preoccupazioni più aggiornate.

Sul piano più strettamente tecnico, preme aggiungere da subito alcune considerazioni.

In luogo di un mero riferimento ad un periodo di permanenza legale esattamente quantificato, il Ddl

rinvia - quanto al requisito di residenza richiesto in seno al nucleo genitoriale - alla disciplina in materia

di diritto e permesso di soggiorno.

Invero, la scelta in tal senso intrapresa sembra poter esporre la disciplina in esame a non infondate

preoccupazioni di tecnica normativa: in particolare, il meccanismo del rinvio a fonti che, per materia

disciplinata, potrebbero prestarsi a fenomeni di maggiore mobilità e variazione, sembra in effetti in

contraddizione con l'idea e la vocazione ad una maggiore stabilità temporale della legislazione sulla

cittadinanza16.

14 La struttura normativa della cittadinanza americana sembra poter essere utilizzata come esempio di scuola rispetto al problema relativo all’opportunità di provvedere per via legislativa e non costituzionale alla disciplina dei percorsi di acquisto dello status civitatis. In epoche più recenti il «consistitutional entrenchment» della cittadinanza iure soli ha determinato problematiche non irrilevanti con riguardo alle diffuse pratiche legate all’ingresso illegale nel territorio degli Stati Uniti all’interno del quale sono poi concepite o completate gravidanze finalizzate, prevalentemente, alla costituzione di un titolo legittimo di permanenza ed acquisto della cittadinanza. 15 Come in altra sede si è avuto occasione di osservare (sia consentito un rinvio a D. PORENA, Il problema della cittadinanza. Diritti, sovranità e democrazia, Torino, 2011), il criterio dello ius soli, concepito in forma incondizionata, altro non rappresenta che un riferimento meramente formale, e in questo non diverso dal criterio di acquisto della cittadinanza iure sanguinis. Viceversa, se il significato che l’istituto della cittadinanza attualmente conserva è, prevalentemente, quello relativo all’adesione politico-culturale dell’individuo ad un comune disegno istituzionale, risulta allora indispensabile che al fatto della nascita sul territorio dello Stato venga associata, per l’attribuzione della cittadinanza, la presenza di ulteriori fattori “integrativi” che offrano più effettiva testimonianza di un legame (ancorché, nel caso, in fieri) tra individuo e comunità. 16 Basti in proposito anche solo ricordare che la legislazione italiana in materia di cittadinanza, ad eccezione di isolati interventi di aggiornamento, è rimasta sostanzialmente immutata nel periodo compreso tra l’adozione della legge 13 giugno 1912, n. 555 e la normativa, di cui oggi si discute la modifica, contenuta nella legge 5 febbraio 1992, n. 91. A fronte della tendenziale stabilità della disciplina sulla cittadinanza sono viceversa intervenuti, nella materia dell’ingresso nello Stato di cittadini stranieri, una molteplicità di interventi già nei soli ultimi trenta anni. Con la legge 28 febbraio 1990, n. 39 (c.d. Legge Martelli) si è avuto un primo intervento organico volto a disciplinare la materia della immigrazione; successivamente, a seguito della legge delega Turco-Napolitano (legge 6 marzo 1998,

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Cionondimeno, “al netto” della osservazione proposta, occorre anche rilevare come il rinvio alle

normative poc'anzi richiamate finisca per includere non solo il mero requisito della residenza ma, anche,

una serie di elementi ulteriori e che ne precedono di regola l'acquisizione.

Sotto questo aspetto, non può difatti trascurarsi come, nel caso del permesso di soggiorno di lungo

periodo, sia richiesto, oltre alla residenza legale per almeno cinque anni, anche un requisito reddituale e,

ancora, sia richiesto il requisito rappresentato dalla disponibilità di un alloggio adeguato, nonché quello

relativo al superamento di un test di lingua italiana17.

In ultimo, merita ancora ricordare come il detto permesso, a mente della disciplina vigente, non possa

che essere negato a tutti coloro i quali rappresentino un pericolo per l'ordine pubblico e la sicurezza dello

Stato.

In termini conclusivi, molte tra le più o meno fondate preoccupazioni legate ad una sorta di attenta

“selezione” dei nuovi cittadini, sembrerebbero in definitiva sgomberate “a monte” e per il tramite del

rinvio normativo del quale si è detto. Tutto ciò, ovviamente, con riferimento ai requisiti di stabilità, di

autosufficienza e di “buona condotta” del solo nucleo genitoriale e non potendo, d'altronde, ipotizzarsi

nulla di diverso se non l'auspicio che “la mela non cada lontano dall'albero”.

La proposta in esame, perlomeno alla luce delle pur parziali considerazioni che precedono, sembrerebbe,

conclusivamente, essersi fatta carico delle migliori esperienze maturate altrove e, ancora, aver introdotto

elementi di ulteriore e non banale aggiornamento.

n. 40), è entrato in vigore il Testo unico sulla immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286). Il predetto Testo unico è stato poi significativamente novellato dalla c.d. legge Bossi-Fini (legge 30 luglio 2002, n. 189); ulteriori sviluppi della normativa si sono poi avuti con la legge 24 luglio 2008, n. 125, con il d.lgs. 3 ottobre 2008, n. 160, con il d.lgs. 28 giugno 2012, n. 108, con la legge 6 agosto 2013, n. 97 e, più di recente, con il d.lgs. 4 marzo 2014, n. 40. Ulteriori criticità rispetto al criterio in esame sono, inoltre, evidenziate da C. VAGGINELLI, Cittadinanza: una riforma a lungo attesa, in www.forumcostituzionale.it, p. 8, il quale osserva come la rilevanza assunta dal requisito reddituale non possa essere, in sé considerata, esente da critiche. In particolare, «essa infatti si discosta dal principio costituzionale di solidarietà, aderendo ad un modello culturale secondo il quale i diritti devono essere “guadagnati” contribuendo al loro costo. Il valore attribuito al reddito stride anche con il principio lavoristico, in quanto è sufficiente provare il possesso di mezzi di sussistenza idonei, a prescindere dal fatto che questi derivino o men da un’attività lavorativa Queste considerazioni critiche risultano ancor più convincenti se applicate ad una situazione giuridica radicalmente diversa dalla naturalizzazione, com’è quella del minore nato in Italia da genitori stranieri. In questo caso, infatti, il requisito reddituale è richiesto al genitore (o al titolare di potestà genitoriale), ma produce effetti sul figlio. Si tratta quindi di una condizione posta surrettiziamente e che rischia di creare, in una materia rilevante come la cittadinanza, una differenziazione indebitamente fondata sul censo, recuperando, con un insolito rovesciamento di prospettiva, il principio liberale no taxation whitout represantation». 17 In questo senso dispone l’art. 9, comma 2 bis, del D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, a mente del quale il rilascio del permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo è subordinato al superamento, da parte del richiedente, di un test di conoscenza della lingua italiana, le cui modalità di svolgimento sono determinate con decreto del Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro dell'istruzione, dell'università e della ricerca.

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3. Fattispecie e presupposti di acquisto della cittadinanza per “assimilazione culturale”.

Come detto, il Ddl all'esame del Senato non si arresta alla sola ipotesi di introdurre una nuova fattispecie

di acquisto della cittadinanza iure soli.

Altro rilevante ed innovativo elemento contenuto nel Disegno di legge è quello rappresentato dalla

disciplina di due fattispecie di acquisto che, con espressione suggestiva (e forse inappropriata) in uso nel

dibattito pubblico, sono state definite per “ius culturae”.

Addentrandosi lungo un terreno che sul piano comparatistico sembra essere meno esplorato, il Ddl

propone in particolare l'introduzione di una norma (comma 2-bis dell'art. 4, l. n. 91/1992) finalizzata ad

estendere la cittadinanza, in presenza di determinate condizioni, anche a minori stranieri non nati sul suolo

della Repubblica o i cui genitori non soddisfino i requisiti di cui sopra si è detto.

In particolare, la disposizione all'esame del Senato prevede che il minore straniero nato in Italia o che vi

abbia fatto ingresso entro il compimento del dodicesimo anno di età e che abbia frequentato

regolarmente, per almeno cinque anni, uno o più cicli presso istituti appartenenti al sistema nazionale di

istruzione o percorsi di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale idonei al

conseguimento di una qualifica professionale, acquisti la cittadinanza italiana. Nel caso in cui la frequenza

richiesta riguardi il corso di istruzione primaria, la norma in esame propone altresì una verifica circa la

positiva conclusione del corso medesimo.

Prevede poi il Ddl un’ulteriore fattispecie di acquisto della cittadinanza, e che andrebbe ad integrare l'art.

9 della legge attualmente in vigore.

In particolare, si tratta di una fattispecie di acquisto della cittadinanza da poter concedere allo straniero che

abbia fatto ingresso nel territorio nazionale prima del compimento della maggiore età, che ivi sia stato

legalmente residente per almeno sei anni, e che abbia frequentato regolarmente un ciclo scolastico con il

conseguimento del titolo conclusivo presso gli istituti scolastici appartenenti al sistema nazionale di

istruzione, ovvero un percorso di istruzione e formazione professionale triennale o quadriennale con il

conseguimento di una qualifica professionale18.

18 L’espletamento di un ciclo scolastico da parte dello straniero nei gradi dell’istruzione di base o in quella superiore è condivisibilmente apprezzato come motivo di riconoscimento della cittadinanza anche in presenza di un periodo di residenza inferiore rispetto a quello decennale ordinariamente richiesto. In proposito, si osservi che il percorso educativo scolastico, essendo tra gli altri obbiettivi specificatamente rivolto all’apprendimento dei principi fondamentali di convivenza civile alla base del nostro ordinamento, rappresenta probabilmente il più efficace veicolo di integrazione a disposizione. In particolare, si ricordi come già a partire dalla legge 30 ottobre 2008, n. 169, «a decorrere dall’inizio dell’anno scolastico 2008/2009, oltre ad una sperimentazione nazionale, ai sensi dell’articolo 11 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 marzo 1999, n. 275, sono attivate azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione nel primo e nel secondo ciclo di istruzione delle conoscenze e delle competenze relative a «Cittadinanza e Costituzione», nell’ambito delle aree storico-geografica e storico-sociale e del monte ore complessivo previsto per le stesse. Iniziative analoghe sono avviate nella scuola dell’infanzia». Cfr. con quanto osservato da V. ANTONELLI, Cittadini si diventa: la formazione

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Al di là del personale favore rivolto alle proposte in esame, e che già in precedenti analisi “de iure condendo”

non si è voluto nascondere19, la presenza sul tavolo parlamentare di un testo definito richiede ora una più

approfondita disamina di tipo tecnico.

La prima delle due previsioni richiamate finirebbe per introdurre un meccanismo di acquisto pressoché

automatico della cittadinanza. Con ciò, la fattispecie sembrerebbe dunque essere proiettata nella logica

dei diritti soggettivi20: a beneficiarne sarebbe il minore nato in Italia (senza, tuttavia, che sia richiesto un

requisito di residenza in capo ai genitori) o che vi abbia fatto ingresso prima del compimento dei dodici

anni purché abbia poi frequentato, per almeno cinque anni, cicli di istituzionali di istruzione e formazione.

In tal caso, come detto, egli acquisterebbe un vero e proprio diritto alla cittadinanza, e che potrà essere

esercitato mediante semplice dichiarazione propria o, se ancora minore, dei propri genitori.

alla democrazia partecipativa, in D. BOLOGNINO-G.C. DEMARTIN (a cura di), Democrazia rappresentativa e nuove prospettive della cittadinanza, Padova, 2010, p. 99 ss. 19 Sia, in proposito, consentito un rinvio ai rilievi sollevati tempo addietro in D. PORENA, C'è spazio anche in Italia per una concezione 'culturalista' della cittadinanza? Brevi profili comparatistici e spunti di riflessione in vista di una revisione della legislazione nazionale, in Federalismi.it, n. 2, 25 gennaio 2012. 20 L’acquisto della cittadinanza sarebbe subordinato, nell’ipotesi descritta, alla sola dichiarazione effettuata dall’interessato o da chi ancora ne eserciti la potestà genitoriale: potrebbe, con minor grado di approssimazione, parlarsi di una fattispecie di diritto potestativo.

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La fattispecie descritta sembra, in estrema sintesi, prospettare l’introduzione di una ipotesi di acquisto

della cittadinanza per beneficio di legge21, nuova ed ulteriore rispetto a quelle già note al nostro ordinamento22.

Invero, al di là delle differenti opzioni di tipo ideale, la norma non sembra esporsi a particolari perplessità

di tipo tecnico.

Nel caso in esame, la posizione dell'interessato viene equiparata, salvo che per la necessità di una specifica

dichiarazione da parte dell’interessato23, a quella dei nati in Italia ed a quella di parte di coloro i quali

abbiano acquisito la cittadinanza iure sanguinis o, comunque, per status familiare.

21 Come in altra sede evidenziato, ciò che sembra caratterizzare le ipotesi di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge è la circostanza in base alla quale la semplice manifestazione di volontà dello straniero consentirebbe in tali casi l’acquisto dello status, e ciò senza che la pubblica amministrazione possa esercitare alcun genere di valutazione discrezionale. Non dunque un acquisto automatico ope legis, né d’altronde un’istanza sottoposta alle prerogative valutative della pubblica amministrazione: si tratta piuttosto di un tertium genus autonomo, in cui la volontà dichiarata dal soggetto avente titolo identifica nel contempo l’esercizio e la richiesta di riconoscimento di un diritto. In questo senso si propende per definire “elettiva” la cittadinanza acquisita per beneficio di legge: l’ingresso dello straniero nella comunità dei cittadini avviene difatti in questi casi per effetto di una libera scelta praticata dall’avente titolo, senza che la posizione giuridica dello stesso possa in alcun modo essere condizionata, compressa o sacrificata in ragione di diversi e prevalenti interessi. Cfr. con quanto osservato da R. CLERICI, La cittadinanza nell’ordinamento giuridico italiano, Padova, 1993, p. 325, secondo cui, in riferimento alle ipotesi di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge, «tutte le ipotesi suddette richiedono una specifica manifestazione di volontà, anteriore o successiva al verificarsi delle condizioni cui inerisce, ma pur sempre di segno positivo. Una simile esigenza merita di essere sottolineata, poiché si si ricollega ad un criterio informatore della nuova legge: quello diretto appunto a privilegiare la volontà dell’individuo sia nell’acquisto sia nel riacquisto sia nella perdita della cittadinanza. Proprio in riferimento a tale innovazione, questo modo di acquisto della cittadinanza potrebbe ormai essere esclusivamente qualificato come acquisto “per elezione”». L’automatismo alla base delle ipotesi di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge trova ampi riscontri nella giurisprudenza amministrativa. È stato in proposito osservato che il caso della cittadinanza acquistata per beneficio di legge «sopravvive nell’ordinamento come ipotesi di acquisto “automatico” (se pure condizionato da una espressa manifestazione di volontà del soggetto)», così T.A.R. Campania, Napoli, sez. IV, sent. n. 2724 del 2007. In base alla normativa vigente regolante altra fattispecie di acquisto della cittadinanza per beneficio di legge, lo stesso giudice amministrativo ha inoltre ritenuto, escludendo che possa trattarsi di una pura e semplice concessione sottoposta alla valutazione discrezionale della domanda, che «gli organi competenti possono assumere solo atti a carattere dichiarativo e non costitutivo», che «in presenza dei presupposti richiesti dalla legge (nascita in Italia, residenza ininterrotta e manifestazione di volontà entro un anno dal raggiungimento della maggiore età) è configurabile un vero e proprio diritto soggettivo dell’istante». 22 Si tratta, in particolare, dei casi normati dall’art. 4, l. n. 91 del 1992, secondo cui lo straniero o l'apolide, del quale il padre o la madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado sono stati cittadini per nascita, diviene cittadino in presenza di uno dei seguenti requisiti: presti effettivo servizio militare per lo Stato italiano e dichiari preventivamente di voler acquistare la cittadinanza italiana; assuma pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all'estero, e dichiari di voler acquistare la cittadinanza italiana, oppure, se, al raggiungimento della maggiore età, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica e dichiari, entro un anno dal raggiungimento, di voler acquistare la cittadinanza italiana. Ancora, prevede il secondo comma della disposizione richiamata, «lo straniero nato in Italia, che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, diviene cittadino se dichiara di voler acquistare la cittadinanza italiana entro un anno dalla suddetta data». 23 In particolare, il Ddl in commento prevede l’introduzione di un nuovo comma 2 bis all’art. 1 della l. n.91/1992, a mente del quale «nei casi di cui alla lettera b-bis) del comma 1 la cittadinanza si acquista a seguito di una dichiarazione di volontà in tal senso espressa, entro il compimento della maggiore età dell’interessato, da un genitore o da chi esercita la responsabilità genitoriale all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza del

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Il criterio della integrazione dell'individuo nella fase più importante e delicata della propria esperienza di

vita e del proprio sviluppo esistenziale sembrerebbe in effetti, e finalmente, trovare adeguata

valorizzazione nei propositi di innovazione della legislazione in materia di cittadinanza24.

Una perplessità, sia consentito, occorre muovere in relazione alla disposizione in base alla quale è

richiesta, nel caso della frequenza presso un corso di istruzione primaria, la “positiva conclusione” dello

stesso.

Non si scorge, invero, la ratio della previsione; per quanto non sia così comune il mancato positivo

completamento della scuola elementare, si fatica ad intravedere la ragione per la quale lo scolaro, sol

perché meno dotato, debba essere penalizzato quanto all'acquisto della cittadinanza.

Peraltro, se solo si considera il fatto che le maggiori difficoltà di avanzamento nella carriera scolastica

primaria ben sembrano potersi più verosimilmente scorgere proprio in capo a scolari provenienti da altri

Paesi, e dunque non da subito integrati sul piano quantomeno linguistico, la disposizione sembra

assumere toni addirittura punitivi.

Il punto è che la cittadinanza riassume un concetto che va ben al di là, senz'altro, del mero ‘rendimento

scolastico’: l'integrazione condivisibilmente richiesta dovrebbe in effetti arrestarsi ai legami intersoggettivi

e, lato sensu, culturali, che il fanciullo realizza con la comunità che lo circonda nel corso della sua

formazione scolastica.

Condizionare invece il riconoscimento della cittadinanza alla previa verifica della pagella di fine anno

sembra, al contrario, piuttosto riduttivo.

Nel profluvio di neologismi che ha accompagnato il dibattito sulla nuova legge, sia consentito, per questo

caso, il riferimento ad un qualche “cerchiobottismo” che sembra aver aleggiato dietro la proposta in

esame.

Giustificata, al contrario, sarebbe stata la previsione ove eminentemente dedicata alla verifica dei percorsi

di formazione post-elementare. In tal caso, come ad esempio avviene in relazione alla normativa sul

permesso di soggiorno in favore degli studenti universitari, la preoccupazione che i percorsi formativi

minore, da annotare a margine dell’atto di nascita. La direzione sanitaria del punto nascita ovvero l’ufficiale dello stato civile cui è resa la dichiarazione di nascita informa il genitore di tale facoltà. Entro due anni dal raggiungimento della maggiore età l’interessato può rinunciare alla cittadinanza italiana se in possesso di altra cittadinanza. Prevede poi il comma 2-ter proposto nel Ddl in commento che qualora non sia stata resa la dichiarazione di volontà di cui al comma 2-bis, i soggetti di cui alla lettera b-bis) del comma 1 acquistano la cittadinanza se ne fanno richiesta all’ufficiale dello stato civile entro due anni dal raggiungimento della maggiore età». 24 Finendo, con ciò, per orientare la disciplina sulla cittadinanza lungo un modello che arrivi a prefigurare la stessa, utilizzando le parole di A. SCHILLACI, La riforma della legge n. 91/ 1992: i progetti in discussione, in Rivista Aic, n.00 del 2/07/2010, p.5.

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intrapresi non si esauriscano in una mera giustificazione formale (finalizzata, nell'esempio fatto, alla sola

conservazione del titolo di soggiorno) sembra infatti adeguatamente valorizzata attraverso l'introduzione

di meccanismi di valutazione del merito.

La seconda delle due previsioni richiamate ad inizio del paragrafo è rivolta alla posizione degli stranieri

che abbiano fatto ingresso nel territorio dello Stato prima del compimento della maggiore età ma

successivamente al compimento dei dodici anni.

Ad una prima analisi, sembra possibile osservare come la disposizione richiamata non proponga elementi

di significativa differenziazione rispetto alla prima già commentata; ciò, come si vedrà, ad eccezione della

differente situazione giuridica soggettiva nella quale verrebbe a trovarsi il soggetto interessato25.

In particolare, per quanto concerne la novella proposta all'art. 9 della legge, la differenza rispetto alla

ipotesi di modifica da ultimo esaminata sembrerebbe, essenzialmente, risiedere in quel «può essere concessa»

che già compare al primo comma della disposizione vigente.

La richiamata locuzione varrebbe infatti ad escludere che la posizione giuridica vantata dall’interessato

possa identificarsi in un diritto soggettivo, pieno, assoluto ed immediatamente azionabile: viceversa, egli

disporrebbe di un interesse legittimo la cui concreta realizzazione finirebbe, dunque, per soggiacere alla

valutazione discrezionale affidata all'Amministrazione competente26.

A partire dall’ultima constatazione che precede, val la pena osservare come il complessivo impianto

normativo di cui alla proposta in esame abbia perso l'occasione di precisare un più esatto perimetro

25 Cfr. con quanto osservato, in riferimento ad alcune proposte di revisione in precedenza presentate in sede parlamentare, da S. ROSSI, Note a margine del disegno di legge governativo in materia di cittadinanza, in www.forumcostituzionale.it, p. 4, secondo il quale l’innovazione di cui si discute costituirebbe «una precisa alternativa sia allo ius sanguinis sia allo ius soli: è il cosiddetto ius domicilii, che si affianca allo ius soli per chi non è nato in Italia ma si trova a vivere nel nostro Paese gli anni decisivi della formazione della sua personalità». 26 La proposta di modifica in commento finirebbe, dunque, per collocarsi all’interno della norma regolante le diverse fattispecie di naturalizzazione costituendo in capo all’interessato non già una posizione di diritto soggettivo ma di interesse legittimo. Sulla distinzione tra le due posizioni, cfr., tra gli altri, M. CUNIBERTI, La cittadinanza. Libertà dell’uomo e libertà del cittadino nella Costituzione italiana, Padova, 1997, p. 481 il quale, con riferimento alla tradizionale (e criticata) bipartizione tra acquisto per beneficio di legge ed acquisto per naturalizzazione, identifica, in rapporto al primo «una volta realizzati i presupposti contemplati dalla legge (…) un vero e proprio diritto soggettivo»; con riguardo invece alla seconda ipotesi d’acquisto, laddove cioè «per il suo perfezionamento si richiede l’adozione, più o meno discrezionale, di un provvedimento amministrativo (…) può parlarsi, al più, di un semplice interesse legittimo all’acquisto della cittadinanza». Preme inoltre osservare come la collocazione della novella nel quadro delle disposizioni segnatamente dedicate alla naturalizzazione sembrerebbe aprire la strada alla possibilità che, anche per la menzionata fattispecie, possano tornare ad essere applicati anche ulteriori requisiti e valutazioni, in vario modo descritti dalle fonti secondarie e nel tempo avallati dalla giurisprudenza amministrativa.

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discrezionale entro il quale legittimamente possano e debbano essere esercitate le prerogative affidate alle

cure dell'Amministrazione competente.

Invero, come spesso si suole constatare in vista di un nuovo intervento normativo, “il meglio e nemico del

bene”. Sicché, abbandonare per intero un proposito di revisione sol perché “poteva farsi meglio”

sembrerebbe, di per sé, contraddittorio rispetto allo status quo.

Cionondimeno, nel quadro di una analisi tecnica, non può farsi a meno di dare conto, come si farà di qui

a poco, anche di eventuali o possibili carenze o incongruenze quali quella poc’anzi sottolineata.

4. Considerazioni conclusive: alcuni dubbi e possibili spunti per un’ulteriore riflessione de iure

condendo.

Invero, la mole di emendamenti presentati al Ddl in commento (pari, in relazione al solo art. 1, ad oltre

settemila) impedisce, e non già alla sola Aula parlamentare, una sua attenta e puntuale disamina.

Vero è, peraltro, che la gran parte degli emendamenti proposti sembra aver assunto connotati emulativi

e, in buona parte, ripetitivi.

In alcuni casi, gli emendamenti proposti affrontano al contrario questioni “di sostanza”; tuttavia, da

quanto sembra scorrendo le cronache parlamentari, anch’essi sono esposti al rischio di cedere innanzi ad

un dibattito che non pare, allo stato, ispirato al sereno confronto ed alla integrazione delle reciproche

esperienze e finalità.

Ad ogni modo, tra gli elementi che non sembrano essere stati valorizzati nel corrente dibattito, ve ne

sono almeno due che, ove mai la proposta “giacente” presso l’Aula del Senato trovasse ulteriore sviluppo,

meriterebbero a parere di chi scrive opportuna considerazione.

Sia consentito, in primo luogo, osservare come il Ddl in esame abbia per intero trascurato di valutare la

posizione degli stranieri studenti presso le università italiane.

Di certo, per costoro, ed in particolare per coloro tra questi che intraprendono la loro permanenza nel

Paese ad una età anagrafica più elevata, più delicate sono le questioni relative alla loro effettiva

integrazione. Sotto questo profilo, si aggiunge poi la constatazione di come solo un numero limitato di

corsi universitari richieda, in effetti, una frequenza obbligatoria in capo ai rispettivi studenti.

Cionondimeno, atteso il fatto che il “problema” della cittadinanza non è, né dovrebbe, essere letto nella

sola chiave di un interesse pubblico “oppositivo” rispetto a quello dei richiedenti, sarebbe stato forse

appropriato interrogarsi non solo in relazione alla posizione di coloro in favore dei quali si ritenga (per

svariate ragioni) “giusta” l'estensione della cittadinanza ma, anche, in relazione a coloro verso i quali possa

essere nutrito, dalla Comunità, un precipuo interesse ad acquisirli come cittadini.

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E' indubbio che un giovane laureato rappresenti una risorsa non solo per se stesso ma anche per la

comunità che lo circonda. E, d'altronde, non è certo alle poche migliaia di laureati stranieri che si

rivolgono le preoccupazioni di coloro i quali tendono ad opporsi alle varie ipotesi di estensione della

cittadinanza.

Probabilmente, in quest'ottica, avrebbe meritato una riflessione anche la posizione dello straniero che,

terminati gli studi in Italia, abbia ivi ottenuto il proprio diploma di laurea, la propria specializzazione o il

proprio dottorato di ricerca: ciò anche nel tentativo di temperare il crescente fenomeno del brain drain

attraverso meccanismi opposti e virtuosi di brain gain.

D’altronde, l’omissione di cui sopra sembra, almeno in apparenza, in contraddizione con la facoltà di

acquisto della cittadinanza che, al contrario, la proposta in esame vorrebbe riconoscere a chi, entrato nel

Paese prima del compimento della maggiore età, abbia ivi completato un ciclo di istruzione o formazione.

Invero, il discrimen che pare aver animato il proposito normativo in esame ruoterebbe, essenzialmente,

intorno al requisito anagrafico della minore età.

In altri termini, le aspettative di acquisto della cittadinanza per “assimilazione culturale” potrebbero

essere, in effetti, unicamente coltivate da individui che abbiano fatto ingresso nel Paese in più giovane età

e non da altri.

Invero, non sembra che della norma, per quanto la stessa non prevede, possa dubitarsi sul piano della

costituzionalità.

D’altronde, la differenziazione in commento appare ragionevole anche in base alla constatazione secondo

cui, se la ratio alla base del trattamento che si ipotizza di riservare coincide con le aspettative di

assimilazione culturale degli interessati, la detta assimilazione è prospettabile - più realisticamente e più

profondamente – con riferimento a categorie di individui che, in tenera o giovane età, non abbiano ancora

maturato una piena autoconsapevolezza sul piano della propria identità nazionale.

Cionondimeno, rimane lecito interrogarsi intorno all’opportunità (che allo stato sembrerebbe sfumata)

che la complessiva legislazione sulla cittadinanza si faccia carico anche di differenziare il requisito della

permanenza legale nel Paese sulla base, appunto, di ciò che lo straniero abbia, medio tempore, realizzato

all’interno del Paese medesimo (come ad esempio, tra l’altro, lo studio universitario, il lavoro, ecc.).

E con ciò si arriva, dunque, a quella che appare come un’ulteriore generale criticità del testo in esame.

Nella prospettiva da ultimo richiamata, occorre infatti osservare come la proposta all'esame del

Parlamento lasci del tutto invariata la restante dinamica normativa relativa all’acquisto della cittadinanza

per naturalizzazione.

In particolare, rimane intoccata la disciplina sull'acquisto della cittadinanza per il previo assolvimento del

requisito della regolare residenza decennale sul territorio dello Stato.

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Per quanto il predetto requisito abbia trovato ulteriori precisazioni sul piano della disciplina di rango

secondario ed anche grazie all'ausilio della giurisprudenza via via venuta a formarsi sul punto, lo stesso

permane come tale, e nel suo astratto formalismo, all'interno della legislazione italiana.

Sarebbe forse stata questa l'occasione in cui il legislatore avrebbe potuto chiedersi (e chiedere) cosa lo

straniero abbia fatto nei predetti dieci anni di residenza legale ed ininterrotta sul territorio dello Stato. E

ciò in quanto se, da un alto ed in relazione a determinate categorie, il predetto requisito temporale può

apparire ad oggi eccessivamente elevato, dall’altro lato, e per altre categorie di soggetti, potrebbe rivelarsi,

al contrario, persino insufficiente.

Malgrado il requisito richiamato si mostri senz’altro consistente sul piano temporale, e tale dunque da

lasciar presumere che lo straniero, medio tempore, abbia per lo più fruito di adeguate opportunità di

integrazione, sarebbe stato senz’altro appropriato, nel quadro di una svolta “culturalista” sulla

cittadinanza, promuovere interventi normativi più precipuamente tesi a saggiarne i livelli di integrazione

nel tessuto sociale27.

Allo stato, come noto, le domande di cittadinanza per possesso del requisito della residenza legale ed

ininterrotta nello Stato per almeno dieci anni richiedono, unicamente, di essere corredate delle ultime tre

dichiarazioni dei redditi e dei certificati penali relativi a condanne irrogate o carichi pendenti.

Forse, nel quadro della proposta di revisione in commento, sarebbe stato coerente ipotizzare, in relazione

a chiunque domandi la cittadinanza italiana, una verifica circa l’adeguata conoscenza della lingua o, ancora

e più significativamente, una verifica sulle modalità con le quali il richiedente abbia, nel frattempo,

concorso «al progresso materiale o spirituale della società»28. E con ciò dunque, opportunamente differenziando

il requisito temporale richiesto in relazione alla residenza legale ed ininterrotta nel Paese.

27 Giungono dall’estero, in questa direzione, esempi significativi di come i diversi ordinamenti si siano attrezzati nel perseguimento dei predetti fini. La legislazione tedesca in materia di naturalizzazione richiede la conoscenza della lingua tedesca, secondo lo standard europeo, ed attestata in seguito alla frequentazione di appositi corsi di integrazione oppure con diploma della Hauptschule (scuola media), o di un istituto tecnico o professionale. La naturalizzazione dello straniero in Gran Bretagna richiede tra gli altri requisiti, a mente di quanto previsto dal British Nationality Act, «that he has a sufficient knowledge of the English, Welsh or Scottish Gaelic language». Il Codice civile francese stabilisce, infine, all’art. 21, n. 24 che «nul ne peut être naturalisé s’il ne justifie de son assimilation à la communauté française, notamment par une connaissance suffisante, selon sa condition, de la langue française». In particolare, la legislazione francese prevede, all’art. 43 del decreto 93-1362 del 30 dicembre 1993, che il richiedente la naturalizzazione si presenti «di persona di fronte ad un funzionario designato nominativamente dall’autorità prefettizia oppure da quella consolare. Dopo un colloquio individuale, il funzionario redige un processo verbale nel quale accerta il grado di assimilazione del richiedente agli usi e costumi della Francia nonché la sua conoscenza della lingua francese». È inoltre possibile, secondo quanto previsto dalla disposizione di cui all’art. 21, n. 4 del Code civil, che il Governo si opponga nelle ipotesi di difetto di assimilazione o di indegnità, alla stessa naturalizzazione dello straniero coniugato con cittadino francese. 28 Tra gli emendamenti proposti in relazione al Ddl in discussione ve ne sono alcuni che, in vario modo, tentano di affrontare la questione da ultimo prospettata. Tra gli altri, si veda, ad esempio l’emendamento n. 1.21 (Calderoli) con il quale si propone l’introduzione di un articolato del seguente tenore: «Art. 1. - (Condizioni per la concessione della

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Al contrario, stando ai contenuti del Ddl, mentre si arriverebbe, per un verso, a chiedere allo scolaro di

quinta elementare di aver riportato voti sufficienti nella pagella di fine anno, rimarrebbe, per altro verso,

astrattamente accessibile lo status civitatis anche in favore di quell'individuo che, nel corso della propria

permanenza nel Paese, nulla abbia prodotto sul piano delle attività lavorative, formative o, lato sensu,

sociali, limitandosi, in ipotesi, al godere di redditi o risorse che altri – per le più svariate ragioni - abbiano

messo a sua disposizione.

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cittadinanza). – 1. La lettera f) del comma 1 dell'articolo 9 della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è sostituita dalla seguente: ''f) allo straniero che risiede legalmente e stabilmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica, previo svolgimento del percorso di cittadinanza di cui all'articolo 9-ter''». Dopo l'articolo 9-bis della legge 5 febbraio 1992, n. 91, è inserito il seguente: «Art. 9-ter. 1. L'acquisizione della cittadinanza italiana nell'ipotesi di cui all'articolo 9, comma 1, lettera f), è subordinata: a) al possesso del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, di cui all'articolo 9 del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, come, da ultimo, modificato dalla legge 15 luglio 2009, n. 94; b) alla frequenza di un corso, della durata di un anno, finalizzato all'approfondimento della conoscenza della storia e della cultura italiana ed europea, dell'educazione civica e dei princìpi della Costituzione italiana, propedeutico alla verifica del percorso di cittadinanza; c) ad un effettivo grado di integrazione sociale e al rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi dello Stato e dei princìpi fondamentali della Costituzione; d) alla sottoscrizione della Carta dei valori, della cittadinanza e dell'integrazione, approvata con decreto del Ministero dell'interno 23 aprile 2007».

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