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Francesco Fiume IL TERRENO Aspetti fisici, chimici, biologici e fisiologici

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Francesco Fiume

IL TERRENOAspetti fisici, chimici, biologici

e fisiologici

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Autore: Francesco Fiume

Titolo: Il terreno. Aspetti fisici, chimici, biologici e fisiologici

Impostazione e grafica: Francesco Fiume

Elena Ciscognetti

Impaginazione: Francesco Fiume

Finito di stampare: 15 settembre 2000

Stampato a Pontecagnano (Salerno)

Presso la Sezione di Biologia, Fisiologia e Difesa

dell’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura

Via Cavalleggeri, 25 – 84098 Pontecagnano (Salerno)

Direttore della Sezione: dott. Francesco Fiume

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Presentazione

E’ questo un lavoro realizzato e edito presso la Sezione di Biologia, Fisiologia e Difesa dell’Istituto Sperimentale per l’Orticoltura di Pontecagnano, avente un carattere monografico e che attinge ripetutamente dai risultati della ricerca e della sperimentazione.

Il riferimento alle opere degli Autori della scienza pedologica italiana Comel, Crescini, Principi, Cavazza, Florenzano, Sequi, Nannipieri è costante.

Si è cercato di studiare il terreno con un approccio che non è quello di costatare che quel territorio esiste e non è interessato da nessuna evoluzione, ma di osservare l’ambiente edafico nelle sue dinamiche, relazionali ed evolutive, come un organismo vivente. Il terreno, costituito da elementi del mondo minerale, vegetale ed animale, perfettamente ed armoniosamente integrati ed interagenti funzionalmente, ha la capacità di crescere, di trasformarsi, di riprodursi e, come ogni essere vivente, è dotato di un proprio metabolismo, per il quale gli elementi inorganici sono trasformati in prodotti organici e questi in materia organizzata, vivente, plastica (anabolismo) per poi subire un processo inverso, con il ritorno allo stato di elementi minerali (catabolismo). Per comprendere, basti pensare ad un terreno ridotto ad un territorio apparentemente uniforme, senza vita, compatto, compresso e fessurato dalla persistente mancanza d’acqua e poi osservarlo dopo una pioggia, quando si rigonfia, si espande, si modifica nel suo aspetto e poi si ricopre di piante e di animali, d’ogni forma e dimensione. La natura diventa uno spettacolo di cui godere e nella quale integrarsi. Non è necessario dominare la natura, secondo un principio antropocentrico, bensì raggiungere quell’integrazione con l’ambiente naturale ed il territorio, dove gli interventi antropici, al pari di quelli di tutti gli altri esseri viventi e degli elementi inanimati, sono in grado di modificarlo e di utilizzarne favorevolmente e costruttivamente le risorse.

Questa monografia, dopo una premessa generale sul terreno e sul terreno agrario, è costituita di due parti fondamentali riguardanti le caratteristiche statiche e dinamiche del suolo. Naturalmente, la distinzione è soltanto classica, poiché in natura nulla esiste d’immutabile e di rigorosamente stabile ed il concetto di entità fissa, permanente e costante può riferirsi soltanto ad un lasso di tempo relativamente limitato, riferito alla vita dell’uomo e non certo all’ordine di grandezza dell’era geologica.

La caratteristica fondamentale e distintiva del lavoro è lo sviluppo e l’approfondimento che si è voluto dare alla parte riguardante le condizioni biologiche del terreno, riguardo al suo dinamismo. Il suolo è popolato da un’infinita varietà di organismi viventi che, da un punto di vista quantitativo, ha pochi riscontri in altri settori della biosfera terrestre, tanto che, sicuramente, come sistema polifasico, accanto alle tre fasi classiche (solida, liquida e gassosa) si può distinguere, ulteriormente, la fase vivente. Lo studio della biofase ha preso in considerazione, seguendo la scala gerarchica tassonomica, buona parte degli organismi edafici, da quelli visibili soltanto al

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microscopio elettronico ed a scansione, fino agli animali più grandi, come alcuni vertebrati ad abitudini ipogee.

Ciascun argomento è stato indagato nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi. Ciò è alla base dell’apprendimento del metodo scientifico.

Si spera che il linguaggio usato sia chiaro e lineare e che il lavoro possa spingere il lettore agli opportuni approfondimenti, favorire tra lo studioso ed il mondo edafico il raggiungimento di un’opportuna simbiosi culturale ed ambientale, essere di sprone e d’aiuto per il giovane sperimentatore che intende dedicarsi allo studio del terreno ed intraprendere le ricerche sulla biosfera del suolo ed aumentare le conoscenze nei settori della pedoflora e della pedofauna, ancora oggi molto scarse. Questi aspetti sono d’importanza vitale per la gestione di una risorsa ambientale così importante qual è il suolo e per il mantenimento degli equilibri idrogeologici e biologici naturali, la cui protezione rappresenta oggi la sfida per l’agricoltura razionale e compatibile del domani e per la migliore difesa del territorio.

L’AUTORE

Francesco Fiume

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INDICE

PRESENTAZIONE ...........................................................................................

TERRENO E TERRENO AGRARIO ...................................................................

CARATTERISTICHE STATICHE DEL TERRENO ................................................

Composizione fisica del terreno agrario ........................................

Origine del terreno ................................................................................Disgregazione delle rocce ............................................................................. Acqua ............................................................................................................Temperatura ................................................................................................... Vento .............................................................................................................. Cristallizzazione ............................................................................................Forza di gravità .............................................................................................. Organismi viventi ..........................................................................................Decomposizione delle rocce ..........................................................................Acqua ............................................................................................................Ossigeno ....................................................................................................... Fenomeni di chelazione e scambio ionico.....................................................Agenti biologici ............................................................................................Terreni autoctoni............................................................................................. Terreni alloctoni ............................................................................................Forza di gravità ............................................................................................. Acqua ............................................................................................................Acqua corrente .............................................................................................. Acqua marina ................................................................................................Acqua allo stato solido ..................................................................................Vento ..............................................................................................................Riconoscimento pratico del terreno ...............................................................Riconoscimento pratico di alcuni minerali ....................................................

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Riconoscimento pratico della provenienza del substrato pedologico ..................................................................................................... Posizione del terreno .....................................................................................Scheletro del terreno ......................................................................................

Stratificazione e stratigrafia del terreno.........................................Orizzonte umifero superficiale ......................................................................Orizzonte eluviale .........................................................................................Orizzonte illuviale .........................................................................................Orizzonte di transizione.................................................................................Roccia madre..................................................................................................Suolo ..............................................................................................................Strato attivo ...................................................................................................Strato inerte ...................................................................................................Sottosuolo ......................................................................................................Strati di inibizione..........................................................................................Strati impermeabili o impermeabilizzati .......................................................Crosta o crostone ...........................................................................................Conglomerato ................................................................................................Caranto ..........................................................................................................Ferretto ..........................................................................................................Cappellaccio ..................................................................................................Pozzolana ......................................................................................................Strati permeabili ............................................................................................Falda freatica .................................................................................................Strato arido.....................................................................................................Strato tossico..................................................................................................

Giacitura ....................................................................................................

Esposizione ................................................................................................

Costituzione ..............................................................................................Prelevamento del campione ..........................................................................Separazione dello scheletro ...........................................................................Separazione della terra fine ...........................................................................Levigatori a sedimentazione ..........................................................................Pipetta di Andreasen ......................................................................................Levigatore di Appiani ....................................................................................Apparecchio di Atterberg ..............................................................................Levigatori a circolazione ...............................................................................Levigatore di Schöne .....................................................................................Levigatore di Schöne-Kopecki ......................................................................Terreno a scheletro prevalente .......................................................................Terreno sabbioso ............................................................................................

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Terreno limoso ...............................................................................................Terreno argilloso ............................................................................................Terreni con caratteri intermedi ......................................................................

CARATTERISTICHE DINAMICHE DEL TERRENO .............................................

Struttura del terreno .............................................................................Porosità ..........................................................................................................Peso specifico ................................................................................................Determinazione del peso specifico e porosità di un terreno...........................Sofficità .........................................................................................................Coesione ........................................................................................................Adesività o adesione ......................................................................................Plasticità ........................................................................................................ Permeabilità ...................................................................................................Determinazione della permeabilità.................................................................Aerazione ......................................................................................................Costipamento .................................................................................................Capacità idrica ...............................................................................................Contrazione ed espansione o rigonfiamento .................................................Capillarità ......................................................................................................Capacità di evaporazione o evaporabilità ......................................................Misura dell’evaporazione...............................................................................Igroscopicità ..................................................................................................Misura dell’igroscopicità................................................................................Fessurabilità o crepacciabilità .......................................................................Colore ............................................................................................................Temperatura ...................................................................................................Potenziali del terreno......................................................................................Conducibilità .................................................................................................Suscettività magnetica ...................................................................................Struttura del terreno e stato di aggregazione delle particelle ........................

Condizioni chimiche ..............................................................................Fase solida del terreno ...................................................................................Costituenti inorganici del suolo .....................................................................Costituenti organici del suolo ........................................................................Attività delle particelle terrose ......................................................................Scambio cationico .........................................................................................Adsorbimento anionico .................................................................................Reazione del terreno .....................................................................................Terreni acidi ...................................................................................................Terreni salini, salsi ed alcalini .......................................................................Fase liquida ...................................................................................................Infiltrazione dell’acqua nel terreno ...............................................................Soluzione circolante ......................................................................................Valutazione della quantità d’acqua nel terreno ..............................................Analisi gravimetrica ......................................................................................

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Determinazione tensiometrica .......................................................................Determinazione conduttimetrica ...................................................................Determinazione termoelettronica ..................................................................Determinazione con sonda neutronica ..........................................................Determinazione mediante riflettometria nel dominio del tempo....................Qualità dell’acqua irrigua ..............................................................................Caratteri fisici ................................................................................................Caratteri chimici ............................................................................................ Apporto ed asportazione di alcuni elementi chimici......................................Fase gassosa del terreno ................................................................................Composizione della fase gassosa ..................................................................Scambi tra aria del terreno ed aria dell’atmosfera .........................................Analisi della fase gassosa ..............................................................................Determinazione della permeabilità del terreno all’aria .................................Determinazione della diffusività del terreno .................................................Determinazione della concentrazione di un gas componente l’aria tellurica.................................................................................................

Condizioni biologiche ............................................................................Pedoflora ed entità submicroscopiche ...........................................................Batteri ............................................................................................................Actinomiceti .................................................................................................. Funghi ............................................................................................................Alghe .............................................................................................................Licheni ...........................................................................................................Virus .............................................................................................................. Riconoscimento e carica dei microrganismi del suolo ..................................Pedofauna ......................................................................................................Principali gruppi tassonomici della pedofauna .............................................Protozoi .........................................................................................................Metazoi ..........................................................................................................Platyhelminthes .............................................................................................Nemertea .......................................................................................................Nematoda ......................................................................................................Rotifera ..........................................................................................................Gastrotricha ..................................................................................................Mollusca ........................................................................................................Annelida ........................................................................................................Arthropoda ....................................................................................................Tardigrada .....................................................................................................Onychophora .................................................................................................Chordata ........................................................................................................Studio ecologico della pedofauna .................................................................Reti trofiche e fattori di regolazione della pedofauna ...................................Principali cicli in natura degli elementi nutritivi delle piante .......................Ciclo del carbonio .........................................................................................Degradazione degli zuccheri semplici ...........................................................Degradazione dell’amido ..............................................................................Degradazione della cellulosa..........................................................................

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Degradazione delle emicellulose ...................................................................Degradazione delle pectine ........................................................................... Degradazione della chitina.............................................................................Degradazione della lignina ............................................................................Umificazione e mineralizzazione dei composti organici del carbonio .........................................................................................................Ciclo dell’azoto .............................................................................................Fissazione dell’azoto atmosferico .................................................................Ammonificazione dell’azoto organico ..........................................................Nitrificazione dell’azoto ammoniacale .........................................................Denitrificazione dell’azoto nitrico .................................................................Ciclo dello zolfo ............................................................................................Ciclo del fosforo ............................................................................................

BIBLIOGRAFIA ...............................................................................................

INDICE ANALITICO ........................................................................................

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TERRENO E TERRENO AGRARIO

La terra è uno dei pianeti del sistema solare sulla cui origine sono state avanzate, nei secoli, numerose ipotesi. Attualmente, la risposta al problema è cercata in conformità a fenomeni che si possono effettivamente osservare nello studio dell’universo, senza ricorrere a teorie fondate sul verificarsi di eventi molto improbabili. Secondo questi criteri, nella seconda metà del secolo XXI è stato proposto uno schema d’evoluzione del sistema solare secondo il quale la terra sarebbe derivata dalla condensazione di una nebulosa rotante attorno al sole. Il processo ricorda l’ipotesi proposta da Kant e Laplace, anche se oggi, a differenza di quanto avveniva un tempo, i dati disponibili sulla materia e, quindi, sulle caratteristiche fisiche e chimiche dei pianeti rendono possibile lo studio termodinamico d’origine e d’accrescimento.

Il nostro pianeta è costituito da strati concentrici di differenti materiali. Lo strato più esterno, l’atmosfera, è di natura gassosa ed è formato principalmente da azoto ed ossigeno. Il successivo strato è costituito da acqua, allo stato liquido o solido, si presenta discontinuo, perché occupa soltanto i sette decimi della superficie terrestre, e va a formare gli oceani, i mari, i fiumi ed i laghi. Infine, lo strato solido con ulteriori suddivisioni.

Lo studio della parte solida della terra è stato ed è effettuato mediante misurazioni indirette, poiché i dati derivati da osservazioni dirette, in miniere oppure in gallerie o mediante carotaggi meccanici e fisici nei pozzi per la ricerca petrolifera, mai andati oltre i 7-8 km (soltanto 1/1.000 o poco più del raggio terrestre), sono molto limitati. Tali misurazioni, effettuate dalla geofisica e dalla sismologia, utilizzano le onde elastiche, prodotte dai terremoti naturali o artificiali, mediante esplosioni, le quali attraversano la terra fino alle massime profondità, ritornano alla superficie e trasferiscono ai sismografi le informazioni qualitative e quantitative sulle caratteristiche del globo.

Dall’insieme degli studi geofisici si è dedotto che lo strato solido della terra è divisibile, dall’esterno verso l’interno, in tre grandi parti: la crosta, il mantello ed il nucleo. Essi rappresentano, rispettivamente 1,5%, 82,3% e 16,2% del volume del globo. Il mantello si approfondisce per circa 3.000 km ed è costituito da silicati di magnesio e da ferro metallico. Il nucleo misura circa 3.500 km di diametro e, probabilmente, contiene ferro con poche elevate quantità di nichel, zolfo, silicio e magnesio. La parte più esterna del nucleo dovrebbe essere allo stato liquido a causa delle elevate temperature, mentre la parte più interna dovrebbe esistere allo stato solido.

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11 Il terreno

La porzione che più interessa è la crosta terrestre, la parte superficiale della terra in cui si identifica uno strato superiore formato di sedimenti, consolidati o no, cui segue il cosiddetto strato di granito, costituito da rocce ben diverse dal granito, cioè da rocce sialiche, in cui prevalgono i silicati di alluminio. Lo spessore complessivo è compreso tra 15 e 30 km. A questi strati segue lo strato del basalto, di natura simatica, formato prevalentemente da silicati di magnesio, cosicché lo spessore complessivo della crosta terrestre diventa di 30-40 km. La crosta terrestre è composta per 95% da materiale eruttivo, per 4% da materiale sedimentario, per 0,75% da arenarie e per 0,25% da calcari. La crosta terrestre continentale differisce da quella osservabile sotto gli oceani poiché, in quest’ultima, manca lo strato del granito e lo spessore si riduce a 5-20 km.

La crosta terrestre è costituita da un centinaio di elementi, quasi tutti quelli riportati nella tavola periodica degli elementi. La composizione centesimale, per i primi 16 km, è riportata nella tabella 1. Questi dati, ai quali non si può attribuire un valore superiore a quello che hanno nella realtà, confermano che soltanto i primi otto elementi, pari al 98% del totale, partecipano in modo prevalente alla costituzione della crosta terrestre e, fra essi, l’ossigeno ed il silicio rappresentano circa il 74%.

Tab. 1 – Composizione media centesimale della crosta terrestre, fino a 16 km di profondità.

Composizione elementare % Composizione chimica %O 46,46 SiO2 59,08

Si 27,61 Al2O3 15,23

Al 8,07 Fe2O3 3,10

Fe 5,06 FeO 3,72Mg 2,07 CaO 5,10Ca 3,64 MgO 3,45Na 2,75 Na2O 3,71

K 2,58 K2O 3,11

Ti 0,62 H2O 1,30

H 0,14 TiO2 1,03

P 0,12 MnO 0,12C 0,09 CO2 0,35

Mn 0,09 P2O5 0,29

S 0,06 Cl 0,05Cl 0,05 SO3 0,03

Br 0,04 C 0,04F 0,03 Altri ossidi o anidridi 0,29

Altri elementi 0,50 - -Totale 100,00 Totale 100,00

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Il terreno è parte integrante della crosta terrestre, della sua parte più superficiale che, per l’azione incessante di alcuni costituenti attivi dell’atmosfera, come l’acqua, l’ossigeno e l’anidride carbonica e dell’energia solare, si trasforma in detriti di dimensioni man mano sempre più piccoli e con strutture molecolari sempre più semplici e più solubili in acqua, fino alla formazione di entità allo stato colloidale, cioè piccole particelle, allo stato di estrema suddivisione, invisibili anche al comune microscopio. Quando tale miscela di detriti diviene idonea ad ospitare cicli biologici della materia vivente, senza gli interventi modificatori dell’uomo, si origina il terreno naturale. Qualora tale processo viene ad essere modificato dall’attività umana (coltivazione delle piante, allevamento degli animali) si origina il terreno agrario.

Nel terreno agrario s’instaurano numerosi e continui cicli della materia vivente. Tali cicli comprendono la coltivazione delle piante e l’allevamento degli animali d’interesse agrario, lo sviluppo e la diffusione dei microrganismi, la mineralizzazione dei loro resti, la decomposizione della materia organica fino alla formazione di composti umici, l’organicazione degli ioni derivati dai processi di mineralizzazione insieme al carbonio dell’anidride carbonica dell’atmosfera ed infine, l’organizzazione delle sostanze organicate in materia vivente, con origine della biomassa e di tutte le funzioni connesse. Più oltre, saranno trattate in dettaglio le fasi che caratterizzano i processi sinteticamente descritti. Ora saranno enunciate alcune definizioni per caratterizzare meglio il concetto di terreno, nelle diverse accezioni.

Secondo la definizione di Comel, il terreno è la superficie solida della crosta terrestre che si trova in contatto con l’atmosfera e che subisce, di conseguenza, apprezzabili modificazioni d’ordine fisico, chimico e biologico. Il terreno agrario, secondo la definizione di De Cillis, è una roccia superficiale discontinua capace di divenire sede di coltivazione delle piante. Una definizione completa è data da Cavazza che indica come terreno agrario il sistema costituito, almeno in parte, da materiali solidi derivati dall’azione più o meno prolungata e combinata degli agenti climatici e biologici, inclusi quelli antropici, sulla porzione più superficiale della crosta terrestre, sino a renderla capace di servire come substrato per la coltura delle piante agrarie.

Le azioni dell’uomo sul terreno sono molto limitate, quando ci si trova di fronte ad un terreno che ospita formazioni naturali come boschi, laghi, montagne. Sono ancora limitate, quando gli investimenti sono scarsi, le produzioni povere ed è attuata un’agricoltura estensiva. Diventano vaste, quando, a seguito di ampi investimenti, si realizzano ricche produzioni ed un’agricoltura cosiddetta intensiva. Così, con l’odierna meccanizzazione e tecnologia è possibile spianare terreni accentuati o accidentati, colmare avvallamenti, rendere fertili i suoli paludosi.

Il terreno naturale ha caratteristiche peculiari differenti dal terreno agrario. Il primo si forma per le azioni naturali concomitanti di agenti fisici, chimici e biologici, mentre il secondo, in aggiunta a tali azioni, è anche il risultato di un complesso di attività antropiche, realizzate per la coltivazione e la sorveglianza della vegetazione, con finalità economiche e nel tentativo di modificare l’azione incessante degli agenti atmosferici a favore della produttività delle piante d’interesse agrario.

Spesso l’azione dell’uomo sulla formazione e sulle caratteristiche del terreno agrario è scarsamente influente, così come accade nel caso di terreni che ospitano alcuni biotopi naturali come i pascoli, i prati, i boschi che l’agricoltore si preoccupa soltanto di mantenere in efficienza produttiva. Tale azione, tuttavia, può essere talmente vasta, profonda e ben congegnata, da trasformare o bonificare terreni naturali, molto poveri, in ricchi terreni agrari, come, ad esempio, i meravigliosi agrumeti ricavati sulle lave

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dell’Etna, in Sicilia, la splendida ortoflorofrutticoltura della prosperosa pianura del Sele, anticamente acquitrinosa e malarica, in Campania, le magnifiche terre delle cascine lombarde create col lavoro secolare su un terreno spesso inidoneo alla coltivazione.

Il terreno agrario è un substrato vivo giacché reagisce a particolari stimoli. La vitalità di un terreno agrario è legata alla presenza di elementi e composti minerali, allo stato di colloide, ed alla presenza di strutture biologiche rappresentate dagli organismi viventi nel suolo, da quelli molecolari o cellulari a quelli costituiti da tessuti e da organi.

I colloidi ed i microrganismi caratterizzano la reattività e la vitalità del terreno agrario. I colloidi subiscono grandi trasformazioni in rapporto la loro reattività. Così, se si disperde un campione di terreno in acqua si ottiene una sospensione molto duratura dovuta al fatto che particelle di piccolissimo diametro, per l’appunto i colloidi, s’idratano e si sospendono per lungo periodo. Se al posto del terreno si usa della sabbia, si osserva, dopo poco tempo, che l’acqua assume una buona limpidezza ed il materiale precipita sul fondo del recipiente. I microrganismi differiscono dalla materia colloidale non per le dimensioni, ma perché essi sono caratterizzati dalle funzioni vitali e perché si moltiplicano ed operano profonde trasformazioni per opera di un complesso sistema enzimatico di cui sono provvisti. Da ciò, si ribadisce, discende il concetto che il terreno agrario è qualcosa di modificabile e di vivo, sia per la reattività dei colloidi di cui è costituito, sia per la vitalità dei microrganismi di cui è popolato.

Come già accennato, l’evento che sancisce inequivocabilmente la raggiunta condizione di terreno naturale e, nel caso in cui interviene l’attività antropica mediante la coltivazione e l’allevamento, di terreno agrario è l’instaurarsi del ciclo della materia vivente che comprende: a) lo sviluppo di microrganismi, di piante e di animali; b) la decomposizione dei loro resti in composti ed elementi minerali; c) l’impiego di parte dei prodotti intermedi e finali della decomposizione per la sintesi delle sostanze umiche; d) la riutilizzazione degli elementi derivati dalla mineralizzazione a seguito dei processi di organicazione che consentono la vita di nuovi organismi.

Le sostanze umiche hanno anch’esse il carattere di colloidi e dall’interazione dei colloidi minerali e dei colloidi organici dipende la stabilità di alcune condizioni strutturali del terreno, di cui si approfondirà in seguito.

La formazione dei colloidi inorganici può essere considerata un processo largamente irreversibile, mentre la sintesi dei colloidi umici è inserita in un ciclo bioenergetico ed è un processo ampiamente rinnovabile.

Il ruolo della materia vivente nel terreno agrario è quello di rallentare la degradazione del potenziale chimico della litosfera, partecipando al ruolo più ampio della vita terrestre e ritardando il raggiungimento delle condizioni di massima entropia o di equilibrio. Questo spiega come il depauperamento di un terreno è più rapido quando è repressa la sua produttività biologica.

L’agricoltura realizzata in condizioni tali da conciliare la resa in biomassa (produttività) con la conservazione del suolo (ecologia), in assenza di rapporti di sfruttamento, rappresenta la sfida che il mondo civile e tecnologico e quello della ricerca deve affrontare, per garantire condizioni di vita qualitativamente buone a tutte le popolazioni del nostro pianeta.

Oggi non è più sufficiente che il terreno assolva soltanto la funzione di sostegno meccanico e di substrato nutritivo delle piante coltivate, da sempre ritenuta fondamentale per il mantenimento e lo sviluppo delle varie forme di vita, ma deve anche sostenere sempre più attivamente la funzione ecologica, che garantisce la rigenerazione dell’ambiente, grazie alla capacità di riciclare la crescente quantità di prodotti di rifiuto, conseguenza dell’incremento delle popolazioni, spesso altamente concentrate soltanto in

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alcune aree.Il terreno agrario assolve, nei confronti della rizosfera e quindi delle piante, ad

alcune funzioni, intendendo per funzione l’attività naturale di un oggetto, sia esso una cellula, un tessuto, un organo, una sostanza chimica o qualsiasi altra cosa. Le fondamentali funzioni cui deve assolvere il terreno sono la funzione di abitabilità, la funzione di nutrizione e la funzione ecologica.

La funzione d’abitabilità è assolta con l’accoglimento delle radici delle piante agrarie per il sostegno, la vita e la coltivazione delle stesse.

Il terreno agrario dispone di un’adeguata massa (spessore) per consentire alle radici di occupare tutto lo spazio di cui necessitano ed è caratterizzato da condizioni favorevoli della temperatura per soddisfare le esigenze termiche delle piante.

E’ dotato di porosità, permeabilità e plasticità (vale a dire capacità di coesione, espansione e contrazione) in modo da caratterizzarsi per le migliori condizioni di presenza d’aria e d’acqua e permettere tutte le lavorazioni.

E’ naturalmente privo di sostanze tossiche, come per esempio i pesticidi. I prodotti antiparassitari e gli erbicidi, oltre ad influire negativamente sulla salute dell’uomo, possono alterare la distribuzione di microrganismi, funghi, attinomiceti, collemboli, acari e lombrichi ed agire negativamente sul complesso enzimatico favorevole. Non è provvisto d’agenti patogeni per le piante coltivate oppure, in ogni caso, i livelli quantitativi degli stessi sono tali da non raggiungere la soglia di dannosità per le coltivazioni, in relazione al basso potenziale d’inoculazione che si è venuto a realizzare a seguito di un raggiunto equilibrio dinamico con le altre popolazioni di organismi viventi del terreno.

La funzione di nutrizione delle piante è legata alla quantità e qualità degli elementi nutritivi ed agli agenti apprestatori del nutrimento, inducenti fertilità, cioè la “mirabile attitudine a produrre” del terreno agrario (Ridolfi, 1843) oppure “il complesso di tutte quelle condizioni, nessuna esclusa, che nel terreno influiscono sulla produzione della pianta” (De Cillis e Leggieri, 1938) ed ancora “la sintesi tra terra, atmosfera e pianta coltivata, vale a dire l’armonia di elementi d’ogni grado, infinitamente piccoli ed infinitamente grandi, nell’ambito della vita universale” (Oliva, 1939). La stima della potenzialità di un suolo nei confronti del sostentamento della vita vegetale va esaminata cercando di scomporre con molta attenzione le sue caratteristiche fondamentali. Possiamo, pertanto, distinguere una fertilità fisica che va stimata studiando e rilevando i rapporti con l’acqua, aria e temperatura; una fertilità chimica che va misurata determinando la disponibilità degli elementi nutritivi ed approfondendo i meccanismi della nutrizione minerale delle piante attraverso l’assorbimento radicale, le attività enzimatiche ed il potere assorbente; una fertilità biologica che va quantizzata mediante il rilievo della presenza e della consistenza quantitativa e qualitativa dei microrganismi e della sostanza organica e determinando, attraverso le relative trasformazioni di quest’ultima, l’intensità dell’attività dei primi.

Bisogna tuttavia rilevare che il concetto di fertilità, sulla scia del grande sviluppo delle scienze chimiche e dei progressi nella produzione di prodotti chimici per l’agricoltura nell’ultimo secolo, è stato frainteso ed è andato a collimare unicamente con il concetto di fertilità chimica, dimenticando l’esistenza di una fertilità fisica, vale a dire i rapporti tra aria, acqua e suolo, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, come incendi, erosione, genesi di superfici desertiche e, cosa ancor più grave, di una fertilità microbiologica, trascurando la quale si è incorsi nell’insorgenza del fenomeno della stanchezza del terreno e di gravi difficoltà produttive, soprattutto di tipo qualitativo.

Va rilevato, quindi, che la fertilità del suolo poggia su basi molto complesse ed oggi

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al terreno si chiede molto di più che in passato, anche sotto aspetti diversi da quelli produttivi. Le terre abbandonate sono soggette a rovinosi fenomeni d’erosione e molto spesso le pratiche agronomiche contrastano oggi gli obiettivi della conservazione del suolo, senza considerare il fenomeno dell’inquinamento di quei terreni usati come aree di scarico, l’aspetto legato ai metalli pesanti ed ai pesticidi, la cui problematica è correlata a fatti di politica, di economia, di geologia, di ingegneria, di fisica, di microbiologia, di fauna del suolo e di molti altri aspetti.

La funzione ecologica è una funzione cui il terreno deve assolvere perché l’attività agricola deve conciliare un’esigenza di produttività con un’esigenza ecologica. La prima è legata al fatto che bisogna trarre necessariamente dalla coltivazione del terreno la massima quantità di produzione, caratterizzata fra l’altro dalla migliore qualità e dal minor costo. La seconda deve mirare alla conservazione del suolo, attraverso la promozione e lo sviluppo della stabilità della struttura ottimale e della resistenza all’erosione, ed alla rigenerazione dell’ambiente.

Il terreno, come già detto, deve affrontare la funzione di sostegno e di nutrizione delle piante, ma deve anche sostenere una funzione ecologica, ritenuta oggi da tutti d’uguale importanza e consistente nella capacità di rigenerazione ambientale. Diventa sempre più necessario assorbire e riciclare una massa sempre crescente di rifiuti prodotti da un carico di popolazione umana in crescente dilatazione, almeno in certi punti della superficie terrestre. Sulla base delle conoscenze di fisiologia della nutrizione delle piante e della biochimica del suolo, si può affermare che non esiste contrasto tra l’esigenza produttiva e l’esigenza ecologica cui il terreno agrario deve assolvere, soprattutto se tali esigenze sono soddisfatte da un’adeguata gestione operata dall’uomo.

Le caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche del terreno, che favoriscono l’efficienza della nutrizione minerale delle piante coltivate, promuovono altresì la conservazione del suolo e la rigenerazione dell’ambiente, rendendo inesistente il conflitto tra le esigenze di una resa biomassale del terreno e le esigenze ecologiche. Il contrasto, tuttavia, insorge e diventa problematico quando si programmano e si realizzano interventi in agricoltura che ignorano l’aspetto solidale produttivo ed ambientale, che è alla base dell’abitabilità e della buona qualità della vita del pianeta.

La pedologia studia il terreno dal punto di vista della sua origine, formazione, evoluzione e costituzione, analizza i fenomeni che avvengono nella sua massa ed esamina le sue funzioni rispetto alla pianta. Diventa così possibile individuare chiaramente alcune caratteristiche del terreno agrario che, fondamentalmente, sono di tipo statico e dinamico. Le prime non mutano attraverso il tempo o subiscono piccole modificazioni, apprezzabili solo in un tempo sufficiente lungo, comunque inferiore alla durata d’una generazione dell’uomo. Le caratteristiche statiche sono la composizione fisica, l’origine, la stratificazione, la giacitura, l’esposizione e la costituzione.

La composizione fisica del terreno agrario consente di individuare diverse porzioni omogenee, o almeno varianti in modo continuo, dette fasi.

L’origine, legata alla provenienza, consente di stabilire se un terreno può essere derivato, per esempio, direttamente dalla roccia sottostante oppure provenire da lontano come quello che prende origine dai sedimenti di un fiume.

La stratificazione permette di stabilire se un terreno agrario può essere costituito dalla sovrapposizione di successivi strati, per il trasporto di materiale lungo il profilo o

per movimenti di detriti provenienti da punti più o meno distanti, con la formazione di orizzonti.

La giacitura è in relazione alla posizione del terreno nello spazio e cambia a

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seconda che il suolo si trovi in pianura, in collina o in montagna.L’esposizione interessa soltanto i terreni inclinati ed indica verso quale punto

cardinale è rivolto quel suolo.La costituzione riguarda le dimensioni delle diverse frazioni di particelle che

costituiscono il terreno.Le caratteristiche dinamiche sono quelle che modificano continuamente e

rapidamente alcuni parametri fisici e strutturali, certe caratteristiche chimiche ed alcuni equilibri biologici.

Tali modificazioni, osservabili e tangibili in breve tempo, possono avvenire in seguito all’intervento di azioni naturali o antropiche, come, per esempio, una pioggia o una forte variazione di temperatura, una lavorazione, irrigazione o concimazione, la coltura di un prato o di un pascolo oppure la coltivazione di leguminose o graminacee, di ortaggi, fiori o colture arboree, l’allevamento del bestiame. Le caratteristiche dinamiche sono la struttura, le condizioni chimiche e le condizioni biologiche, sinteticamente di seguito riportate.

La struttura interessa la reciproca disposizione delle particelle del terreno e lo stato di aggregazione delle stesse.

Le condizioni chimiche caratterizzano il terreno per la quantità e la qualità di elementi e composti e per tutte le reazioni che avvengono.

Le condizioni biologiche riguardano la vita delle numerosissime specie di organismi del terreno e sono intimamente legate alle caratteristiche fisiche, chimiche e chimico-fisiche.

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CARATTERISTICHE STATICHE DEL TERRENO

Nei primi studi condotti sui processi di formazione del suolo, una grande importanza fu attribuita all’influenza del tipo di roccia della matrice litologica. Poi fu considerato l’effetto del clima ad azione predominante, tanto che quasi tutte le proposte di classificazioni dei suoli si fondano sull’individuazione delle azioni esercitate sui processi di genesi del terreno, ritenuti correlati agli eventi climatici. Il processo di formazione del terreno, pertanto, è governato prevalentemente dalle condizioni climatiche che, come fattori della pedogenesi, possono dominare sul substrato di partenza ed assumere importanza fondamentale sulla velocità della trasformazione del substrato originario, nel terreno naturale o coltivato. Sono talmente grandi i legami tra il clima ed il terreno, che il rapporto pedologico e climatico è ottimamente espresso dalla legge di zonalità, secondo la quale il medesimo clima produce terreni simili, anche agendo su matrici pedologiche diverse. In casi particolari, un ciclo della materia vivente può instaurarsi in presenza di materiali differenti da quelli di natura litologica ed in concomitanza con processi diversi da quello di formazione dei minerali del terreno. E’ il caso di suoli che giacciono su matrice calcarea.

Il tempo assume grande rilievo nell’andamento dei processi di disgregazione e decomposizione delle rocce, nei movimenti dei materiali entro il suolo e nel loro accumulo in determinate zone. E’ bene rilevare che, pur essendo la velocità della pedogenesi assai variabile, si tratta sempre di un processo assai lento. Basti pensare che per creare qualche centimetro di terreno occorrono secoli.

Un terreno ha un ciclo vitale che include lo studio della matrice pedologica e del suolo immaturo o giovane, maturo e vecchio. Il suolo immaturo possiede grandi possibilità d’ulteriori evoluzioni ed è caratterizzato da un equilibrio instabile con i fattori pedogenetici. Il suolo maturo si trova in un equilibrio stabile con tutti i fattori di trasformazione, indipendentemente dal fatto che essi siano o no una libera espressione delle forze naturali. Infine, un terreno vecchio è quello che si trova in uno stadio finale o d’estinzione ed è sottoposto a fenomeni degenerativi o regressivi.

Se le condizioni sono favorevoli, il substrato pedologico può essere trasformato in suolo immaturo in un tempo relativamente breve, soprattutto se il materiale di partenza è molto incoerente. Questo tempo può essere quantizzato anche in 100 anni (questa è l’età di molti rigosuoli, ottenuti dai depositi glaciali o vulcanici non consolidati, diversi da quelli prodotti, per esempio, dalle recenti alluvioni). Al contrario, il tempo minimo per la formazione di un suolo bruno lisciviato è di circa 5.000 anni.

Tentativi per determinare alcuni ordini di grandezza dei tempi necessari alla formazione di terreni che hanno raggiunto il loro grado di maturità sono stati effettuati da diversi ricercatori.

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I risultati ottenuti, tuttavia, non possono essere generalizzati perché il fenomeno della pedogenesi è tanto complesso che basta una piccolissima modificazione in uno dei tanti fattori, anche il meno importante, perché i ritmi di formazione e d’evoluzione del terreno subiscano modifiche così profonde da riflettersi anche sulla loro durata. In condizioni climatiche estreme possono essere raggiunti traguardi molto diversi dal terreno agrario. Il deserto o le lateriti rappresentano esempi veramente fallimentari dell’andamento del processo di pedogenesi.

Sono questi i concetti che stanno alla base delle caratteristiche di staticità del terreno. Affinché un terreno possa trasformarsi da giovane a maturo, fino a condizioni di vetustà, occorrono tempi che sono sicuramente più lunghi della durata di una generazione dell’uomo. Altrettanto si può dire per la composizione fisica del terreno, con riferimento alle fasi di cui è costituito, che manifesta un forte legame con l’origine e quindi è da considerare pressoché immutabile nel tempo. Quando il suolo si origina, hanno inizio alcuni processi evolutivi, caratterizzati da un movimento di elementi minerali ed organici, lungo tutto il profilo. Proprio attraverso questi movimenti, relativamente lunghi nel tempo e, pertanto, statici, si ottiene la differenziazione e la stratificazione del profilo del suolo in orizzonti, ciascuno dei quali riflette differenti processi pedologici. A tal proposito va detto che, fra tutti i processi pedogenetici, il fenomeno della lisciviazione, che comporta fra l’altro il trascinamento dell’argilla verso il basso, con formazione di un orizzonte tessiturale, è senz’altro il più lento ed il più lungo nel tempo. Anche la giacitura e l’esposizione del terreno sono elementi abbastanza statici e, a meno di grandi e repentini sconvolgimenti, naturali o antropici, della locale superficie terrestre, possono difficilmente subire modifiche in un tempo ragionevole. La costituzione del terreno, ossia le dimensioni delle diverse frazioni particellari che rappresentano il suolo, è la conseguenza di lente azioni di disgregazione e decomposizione del substrato pedologico, non modificabili nel breve periodo.

Composizione fisica del terreno agrario

Il terreno è un corpo abbastanza definito nello spazio. Di esso si misura la superficie, oppure, più approfonditamente, si considerano caratteristiche fisiche come la densità, la compattezza, il potenziale dell’acqua, oppure elementi correlati come il volume, la massa, l’umidità, la porosità. Il terreno, da un punto di vista fisico, può considerarsi un sistema polifasico, costituito dalle seguenti parti fondamentali:

la parte solida o detritica è di varia natura. In essa si distingue una fase minerale rappresentante la massa principale, una fase organica, costituita dai residui d’organismi viventi in mineralizzazione, ed una fase organizzata, formata da tutti gli organismi viventi. Essa rappresenta generalmente solo il 50%, o poco più, del volume del terreno, mentre la parte rimanente è costituita da un sistema di pori e cavità occupato dalle fasi liquida e gassosa;

la parte liquida, che include tutta l’acqua del terreno, è impropriamente chiamata soluzione circolante o soluzione interstiziale. Essa è di grande importanza per la nutrizione vegetale e la sua azione si manifesta sia direttamente, nel rifornire l’acqua indispensabile all’attività vegetativa, sia indirettamente, come solvente o veicolo degli elementi nutritivi, influenzando, così, l’aerazione e le proprietà termiche del suolo;

la parte gassosa o aria del terreno ha gli stessi componenti dell’aria atmosferica.

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Alcuni elementi gassosi, come l’azoto ed i gas nobili possono essere considerati, di norma, presenti nella stessa composizione centesimale. La somma delle quote percentuali d’ossigeno ed anidride carbonica è prossima al 20%, come nell’atmosfera, ma i valori relativi ai due gas, presi singolarmente, se ne differenziano e sono tutt’altro che costanti. Il contenuto di CO2 nella fase gassosa del terreno, in particolare, è sempre rilevabile in quantità maggiore che nell’aria atmosferica e, mentre in quest’ultima è di poco superiore allo 0,03%, nell’aria tellurica varia spesso tra 0,1 e 5% e più. L’acqua, allo stato aeriforme, è generalmente presente in quantità superiore a quella dell’aria atmosferica, poiché l’aria tellurica è praticamente sempre satura d’umidità. In condizioni riducenti è possibile rilevare la presenza di altre sostanze allo stato gassoso come metano, acido solfidrico ed ammoniaca.

L’importanza dei singoli costituenti dell’aria del terreno è molto variabile, perché alcuni di essi, come i gas nobili, non avendo alcuna reattività ed essendo sempre presenti in tracce, non svolgono alcuna attività, mentre altri, pur essendo presenti occasionalmente (CH4, H2S, NH3), possono manifestare tossicità per le piante e per gli organismi presenti nel terreno. L’azoto ed il vapore acqueo svolgono sempre una funzione favorevole, giacché il primo consente lo svolgersi dei processi simbiontici ed asimbiontici di fissazione, mentre il secondo serve per la vita delle radici, perché ne impedisce l’essiccamento, e delle popolazioni viventi del terreno. L’anidride carbonica svolge un ruolo favorevole perché, assorbita per via radicale, può essere utilizzata direttamente dalle radici e consentire i processi di organicazione del carbonio, assumendo, inoltre, un ruolo importante nella solubilizzazione degli elementi nutritivi. Il terreno è il più grande produttore di anidride carbonica e, da un punto di vista generale, consente, con il ritorno nell’atmosfera di questo gas, la chiusura del ciclo del carbonio. L’ossigeno è invece, quantitativamente, l’elemento più spesso limitante e quindi più importante dell’aria del terreno, poiché permette la respirazione delle radici delle piante, della pedofauna e della pedoflora.

La carenza di ossigeno riduce lo sviluppo delle radici e quindi delle piante. Queste possono anche morire, in rapporto all’immediata diminuzione e, finanche, portare all’arresto dell’assorbimento degli elementi nutritivi, a partire dal potassio e poi calcio, magnesio, azoto e fosforo. L’ossigeno sicuramente può considerarsi il fattore più importante nel determinare l’approfondimento nel terreno dell’apparato radicale, anche perché le esigenze d’ossigeno sono proporzionali alle dimensioni delle piante e dell’apparato radicale. Sotto un certo valore della concentrazione d’ossigeno nell’aria tellurica, che può essere stimato intorno al 2% per la maggior parte delle specie coltivate, la pianta cessa del tutto l’accrescimento e si realizzano le condizioni di quella che si chiama siccità fisiologica.

L’acqua del terreno e l’aria tellurica sono presenti in proporzioni reciprocamente variabili e la variabilità del rapporto influisce sull’espressione delle proprietà chimiche e biologiche del terreno e ne determina i limiti. Se la fase solida può essere abbastanza stabile nel tempo, le altre due fasi possono subire repentini cambiamenti, in relazione ad eventi naturali (precipitazioni) ed antropici (irrigazione e lavorazione del terreno).

Senza far riferimento ad una composizione atomico-molecolare del terreno, ma considerando soltanto le leggi macroscopiche della fisica, è possibile riconoscere nel terreno ulteriori differenti fasi: la fase adsorbita della soluzione del terreno, costituita dall’acqua e dai soluti adsorbiti; la fase superficiale della stessa soluzione, quella che rappresenta il confine tra il liquido e l’aria; la fase interna del corpo liquido, vale a dire la parte liquida, abbastanza lontana dalla superficie, che separa due fasi distinte in modo da non risentirne le interazioni; infine, tante fasi solide, costituita ciascuna da uno specifico

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minerale o composto organico. La montmorillonite, la caolinite, la calcite, un acido umico, così, rappresentano, ciascuno, tante fasi distinte.

Nella pratica si schematizza raggruppando la parte liquida e quella gassosa in un’unica fase omogenea detta fase fluida. La parte solida è invece eterogenea ed è preferibile ulteriormente distinguerla in fasi, per non perdere interessanti informazioni. Spesso non si considerano le fasi come tali, ma gli stati in cui si trova una sostanza o elemento: il ferro può trovarsi in fase ionica ed è distinto in una fase ridotta ed ossidata, in una fase adsorbita, in una fase amorfa o in una fase cristallina.

Origine del terreno

Il terreno agrario si forma dal disfacimento e dalla degradazione delle rocce, da cui si ottiene direttamente la parte detritica o minerale, dalla decomposizione e mineralizzazione della materia organica, dalla morte e disorganizzazione della materia vivente od organizzata. Quest’ultima è formata da organismi viventi i quali, con la fine del ciclo biologico, sono trasformati in materia organica che è a sua volta modificata.

Il processo di formazione del terreno, da un substrato pedogenetico rappresentato dalle rocce, è detto pedogenesi. I soli processi di alterazione delle rocce e di trasformazione dei residui vegetali non sono sufficienti per spiegare tutti i meccanismi pedogenetici. Lo sviluppo e l’evoluzione del terreno sono processi che avvengono senza soluzione di continuità ed i diversi tipi di suolo, presenti sulla superficie terrestre, possono essere considerati fasi transitorie della pedogenesi in determinati momenti dell’evoluzione delle trasformazioni.

Il processo di pedogenesi è condizionato da fenomeni fisici, chimici e biologici che includono le trasformazioni delle rocce e dei minerali, l’accumulo e la modificazione della sostanza organica, la rimozione ed il trasferimento delle diverse sostanze, la formazione strutturale. Rimozioni, addizioni, trasformazioni e trasferimenti interessano i costituenti minerali ed i composti organici, gli ossidi, gli idrossidi, gli acidi, i sali solubili ed insolubili, i minerali argillosi. I sali solubili ed i minerali argillosi possono muoversi lungo il profilo ed i processi d’idratazione, ossidazione, solubilizzazione, lisciviazione, scambio ionico, precipitazione, d’omogeneizzazione e separazione inducono un elevato numero di trasformazioni. Combinazioni di singoli processi e variazioni nell’equilibrio fra tali combinazioni sono responsabili della variabilità e delle differenziazioni delle proprietà del terreno.

Il terreno ha origine dalla matrice litologica, da rocce costituenti la litosfera terrestre e da costituenti rocciosi, a seguito delle alterazioni operate dai molteplici fattori della pedogenesi.

Le rocce sono sistemi naturali formati da aggregati di minerali (rocce eterogenee) o, più raramente, da una sola specie minerale (rocce omogenee), costituenti masse abbastanza cospicue, geologicamente indipendenti e tali da rappresentare elementi essenziali della litosfera terrestre. Quelle più frequenti, le rocce eterogenee, sono formate da diversi minerali, distinguibili a volte ad occhio nudo (per esempio nei granitied in genere nelle rocce eruttive intrusive), talora rilevabili solo al microscopio (per esempio nelle rocce effusive, quali i basalti o nelle rocce sedimentarie, quali le argille). Le rocce omogenee sono essenzialmente costituite da un solo minerale, come i depositi di gesso o di salgemma. Altri minerali possono comparirvi, ma solo con funzione accessoria e non determinante per l’individuazione del tipo di roccia.

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Le rocce possono essere classificate secondo diversi criteri. Ad esempio, una distinzione prevede la suddivisione delle rocce, sulla base del grado di coesione degli elementi componenti, in rocce coerenti, formate da elementi tenacemente uniti tra loro, rocce incoerenti, rappresentate dalle rocce sciolte, vale a dire ad elementi liberi (ghiaie), rocce semicoerenti, con caratteri intermedi, ed infine rocce pseudocoerenti, quelle che si comportano in maniera diversificata secondo la percentuale d’acqua contenuta nei pori.

La classificazione più generalmente adottata è quella genetico-mineralogica, che tiene conto dell’origine della roccia e dell’associazione dei minerali che la compongono. Questo tipo di classificazione prevede tre grandi categorie: le rocce eruttive, ossia formatesi a seguito di consolidamento di masse fuse, le rocce sedimentarie, originate da accumuli per varie cause di materiali inorganici od organici, le rocce metamorfiche, derivanti da trasformazioni d’altre rocce preesistenti.

Le rocce eruttive sono dette anche magmatiche e sono la conseguenza del consolidamento di masse fuse (magmi), sia in profondità nella litosfera, sia in superficie (lave). Esse sono distinte in intrusive (o plutoniche) se il consolidamento è avvenuto per lento raffreddamento di masse magmatiche sotto la superficie terrestre, ed effusive (o vulcaniche), se derivate dal rapido raffreddamento di lave defluite in superficie a seguito di manifestazioni vulcaniche.

Le rocce eruttive, intrusive ed effusive (in queste ultime distinguendosi le rocce dovute a lave giunte in superficie già parzialmente cristallizzate e quelle dovute a lave giunte in superficie ancora completamente fuse), sono indicate nella tabella 2, nella quale è riportata la denominazione della roccia ed i principali componenti mineralogici.

Tab. 2 – Classificazione schematica delle rocce eruttive.

Rocce intrusive Componenti mineralogici principali Rocce effusiveGraniti Quarzo, ortoclasio, plagioclasio sodico,

miche, a volte anfiboli e pirosseniPorfidi quarziferiRiolitiLipariti

Granodioriti Plagioclasio sodico, ortoclasio, quarzo, miche, anfiboli, a volte pirosseni

Porfiriti quarzifere Daciti

Sieniti Feldspato alcalino, miche, anfiboli, in varietà a leucite o nefelina

Porfidi sieniticiTrachiti

Dioriti Plagioclasio sodico-calcico, miche, anfiboli, pirosseni

PorfiritiAndesiti

Gabbri Plagioclasio ricco di calcio, pirosseni, anfiboli, olivina

DiabasiMelafiriBasalti

Peridotiti Olivina, pirosseni, anfiboli Picriti

Le rocce sedimentarie derivano dal deposito (sedimentazione) di materiali diversi e di varia origine. Tali materiali provengono dalla disgregazione di rocce preesistenti, da accumuli di resti animali e vegetali, da precipitazione di sali per evaporazione dell’acqua, dalle combinazioni di tutte le possibilità citate. Quando la sedimentazione avviene rapidamente si originano depositi caotici e debolmente stratificati. Al contrario, la lenta sedimentazione di materiali di piccolissime dimensioni o derivati da precipitazione chimica origina stratificazioni sottili. Le rocce sedimentarie si distinguono in: a)

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sedimentarie clastiche, quelle che hanno subito prima la degradazione fisica, chimica e chimico-fisica a causa di molteplici agenti naturali; poi il trasporto per merito degli stessi elementi che hanno prodotto la degradazione oppure ad opera soltanto della forza di gravità; poi la sedimentazione o deposizione, sia marina sia continentale; infine, la diaginesi, cioè quel complesso di fenomeni che trasforma un sedimento in roccia per ricristallizzazione, per cementazione, per metasomatosi (ad esempio la trasformazione di un deposito calcareo in dolomia); b) sedimentarie d’origine chimica che si sono originate a causa di massicce precipitazioni di sali per evaporazione dell'acqua; c) sedimentarie organogene o biogeniche, formate da depositi di resti animali di grandi e piccole dimensioni, nelle quali è ancora possibile individuare la forma dell’animale oppure ciò non è più possibile a causa di una generalizzata cristallizzazione (carboni fossili, farina fossile, fosforiti).

Tab. 3 – Classificazione schematica delle rocce sedimentarie clastiche.

Tipi Forma elementi

Incoerenti Coerenti Piroclastiche

Incoerenti CoerentiPsefitiche (oltre il 75% di elementi con φ > 2 mm)

angolosi Blocchi Breccione Blocchi vulcanici Brecce vulcaniche

Detriti Brecce Proietti vulcanici tondi Ciottoli Conglomerati Lapilli vulcanici

Ghiaie PuddinghePsefiti pelitiche angolosi e

tondiMorene Tilliti Tufi incoerenti Tufi lapidei

Psammitiche (oltre 75% di elementi con φ di 0,1-2 mm)

angolosi e/o tondi

Sabbie Arenarie Sabbie vulcaniche Tufi arenacei

Pelitiche (φ < 0,1 mm)

φ mm 0,02-0,1

Limo Marne Polveri vulcaniche Cineriti

φ mm 0,002-0,02

Melma Ardesie Pulviscolo vulcanico

Ftaniti

Argilla Argilliti

Le rocce clastiche comprendono i conglomerati (frammenti litici arrotondati e smerigliati), le arenarie (formate da materiali sabbiosi), le siltiti e le argilliti (costituite da particelle microscopiche). In molti casi le arenarie sono costituite essenzialmente daquarzo e, se sono cementate da silice, sono classificate con il nome di quarziti. Le arcosi e le grovacche sono invece caratterizzate dalla presenza di elevate quantità di feldspati.

La variabilità estrema della composizione delle rocce clastiche, circa la quota dei diversi tipi litologici (quarzo, silice e feldspati), comporta spesso una difficoltà di accordo. Si può tuttavia ritenere che la quota di quarzo ammonti all’incirca al 30% delle arenarie presenti sulla crosta terrestre, quella di quarzo al 15% e quella di feldspati al

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55%. Nella tabella 3 è riportata la composizione delle principali rocce clastiche. Un tipo di roccia clastica è rappresentato dalle rocce piroclastiche, in cui gli elementi costitutivi sono di origine vulcanica. Nella tabella 4 è rappresentata la composizione schematica delle rocce sedimentarie di deposito chimico.

Tab. 4 – Classificazione schematica delle rocce sedimentarie di deposito chimico.

Natura Tipi Componenti principaliSalina Evaporiti Salgemma NaCl, KCl, KMgCl · 6H2O

Calcarea Evaporiti Gesso CaSO4 · 2H2O

Anidrite CaSO4

Calcari cristallini

CaCO3

OolitiPisolitiAlabastroCalcare concrezionato

CaCO3 + impurezze

TravertinoPanchina

Dolomitica Carniole e Dolomie CaMg(CO3)2 + impurezze

Silico-ferrifera Ooliti 3FeO · Al2O3 · 2SiO2 · 3H2O

Silico-alluminifera Laterite SiO2 + Al2O3 + Fe2O3 + H2O

Silicea Geyserite SiO2

Va ancora detto che, a differenza delle rocce eruttive, le rocce sedimentarie si presentano in genere stratificate e contengono fossili che sono determinanti per la loro datazione e per quella delle altre rocce, con esse in rapporti stratigrafici e spaziali. Nella tabella 5 si riporta lo schema di classificazione delle rocce sedimentarie organogene.

Le rocce metamorfiche sono quelle che derivano da preesistenti rocce sedimentarie o eruttive, a seguito di una loro trasformazione più o meno profonda. Tale cambiamento può avere come conseguenza la formazione di nuove associazioni mineralogiche, la modificazione della forma e delle dimensioni dei granuli, con ricristallizzazione dei minerali, la modificazione della tessitura della roccia, con disposizione sub-parallela dei minerali e l’assunzione di un tipico andamento detto scistosità.

E' noto un metamorfismo di contatto, un dinamometamorfismo e un metamorfismo regionale. Il metamorfismo di contatto si ha quando in una roccia avviene l’intrusione di materiale magmatico, con formazione, attorno alla massa eruttiva, di un’aureola metamorfica, dove il tipo e l’intensità delle trasformazioni decrescono con l’aumentare della distanza dall’elemento metamorfico. L’aumento di temperatura (da poche centinaia di gradi fino ad oltre 800 °C) è sufficiente a determinare la fusione di quasi tutte le rocce ed a provocare la formazione di nuovi minerali. La zona prossima all’intrusione vede una

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completa cristallizzazione, con formazione di rocce a grana minuta dette cornubianiti, mentre alcuni minerali, stabili solo a basse temperature, si trasformano in altri a diversa composizione molecolare. Nelle argille si formano minerali alluminiferi, i calcari forniscono il calcio per i silicati di calcio oppure ricristallizzano dando luogo alla formazione di un marmo. Quando il metamorfismo avviene con apporto di nuova sostanza, che reagisce con quella della roccia trasformata, esso prende il nome di metasomatosi.

Tab. 5 – Classificazione schematica delle rocce sedimentarie organogene.

Tipi Natura Incoerenti Origine CoerentiCalcarea e Melme calcaree e Autoctone Calcare biochermale (forme

bentoniche)Dolomitica Depositi conchigliari Calcare biostromale (forme

pelagiche e bentoniche)Calcare pelagico (forme pelagiche)

Alloctone CalcirudidiCalcareniti

Fosfatica Brecce ossifereCarboniosa Torba Carboni fossiliSilicea Melme a radiolari Radiolari e diaspri

Melme a spongiari Spongoliti e selciMelme a diatomee DiatomitiFarina fossileTripoli

Fosfatica Guano FosforitiBituminosa Petrolio e gas Bitumi e piroscisti

Il dinamometamorfismo si ha quando una roccia è sottoposta a pressioni. Tali pressioni, se sono di tipo idrostatico, determinano nella roccia una riduzione di volume, la perdita d’acqua di cristallizzazione (ad esempio il gesso passa ad anidrite) e frantumazione; quando hanno un andamento preferenziale si determina nella roccia la scistosità. Si ha un metamorfismo regionale quando la temperatura e la pressione si associano determinando, nelle grandi aree orogenetiche e su sedimenti di geosinclinale in lento sprofondamento, deformazioni, appiattimenti e ricristallizzazioni. Tali sedimenti sono in genere arenarie, argille e calcari i cui minerali sono modificati, perdono gli elementi volatili e – mentre si sommano le azioni di temperatura, pressione e metasomatosi – le rocce che intanto si formano, caratterizzate da completa ricristallizzazione e da scistosità, sono denominate scisti cristallini. Questi ultimi sono rocce rappresentative del grado medio di metamorfismo regionale, formatesi da sedimenti che, caratterizzati dalla presenza di notevoli quantità d’alluminio, hanno favorito la genesi di minerali micacei.

Le rocce di metamorfismo regionale sono di basso grado metamorfico se si

Bioc

him

iche

Bioc

lastic

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formano sotto condizioni d’alta pressione e di temperatura poco elevata; in tal caso presentano scarso materiale neogenetico e sono ricche di minerali originari. Le rocce presentano un medio grado metamorfico se si sono originate sotto temperature più alte e presentano un’intensa ricristallizzazione, una tessitura grossolana, una disposizione parallela di minerali definiti da morfologia lamellare (miche) o allungata (orneblende). Infine, le rocce hanno un alto grado metamorfico quando sono definite da grana grossolana, zonalità evidente ed una non chiara orientazione planare.

Quasi tutte le rocce metamorfiche mostrano l’influenza combinata della deformazione meccanica e della ricristallizzazione chimica, differenziandosi per l’intensità degli effetti dei due processi. Le rocce metamorfiche, che si originano principalmente per deformazione meccanica, sono denominate cataclastiche e, in relazione al fatto che le interazioni chimiche sono poco pronunciate, tutte le strutture presenti e l’orientazione dei minerali sono definite dall’intensità delle modificazioni subite dai materiali preesistenti.

Le ardesie sono di basso grado metamorfico e la ricca presenza di mica e fillosilicati cloritici è indice d’elevato contenuto d’alluminio. Gli scisti sono di medio metamorfismo regionale e si sono formati da sedimenti argillosi che hanno favorito la costituzione di materiali micacei. Gli gneiss sono tipiche rocce di elevato grado di metamorfismo, a tessitura grossolana e costituiti da minerali differenti che presentano, per il loro orientamento cristallografico, un andamento planare definito foliazione.

Nella tabella 6 è sintetizzata la classificazione schematica delle principali rocce metamorfiche.

Tab. 6 – Sintesi schematica della classificazione delle rocce metamorfiche.

Tipo di roccia madre

Metamorfismo di contatto Metamorfismo regionaleZona di contatto

Zona media

Zona esterna Epizona Mesozona Catazona

Silicea (arenaria) Quarziti Quarziti Gneiss quarzoso

Gneiss feldspatico

Silico-alluminifera (argille e rocce acide)

Cornubianiti Scisti micacei

Scisti maculati

Ardesie filladi

Micascisti Gneiss sillimanitico

Calcica (calcari) Marmi Marmi e Calcefiri

Allumo-calcio-magnesiaca (marne, rocce eruttive basiche, dolomie)

Cornubianiti MarmiCalcefiri

Marne a chiazze

OficalciScisti verdi Prasiniti

CipolliniScisti anfibolici

AnfibolitiGranatiti Eclogiti

Ferromagnesiaca (rocce eruttive ultrabasiche)

CloritoscistiTalcoscistiSerpentine

ScistiAntofillite

Pirosseniti

Le rocce, sotto l’azione di numerosi processi di alterazione meccanici, fisici e chimici, danno origine ad una massa inconsolidata che va a costituire la roccia madre. Da

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questa, per l’azione dei fattori della pedogenesi e dei processi pedogenetici, prende origine il terreno.

La roccia madre può essere molto sviluppata (per esempio, in presenza di rocce tenere ed incoerenti) o ridotta ad un sottile strato o addirittura mancare (per esempio, quando vi sono rocce dure e compatte, per le quali il processo di alterazione è tanto lento da andare di pari passo con la formazione del suolo).

L’influenza esercitata dalla roccia madre si rivela maggiormente nei suoli giovani o soggetti a continui ringiovanimenti, quando i processi di alterazione delle rocce e dei minerali hanno una prevalenza sui processi di evoluzione della pedogenesi.

Nel caso di suoli molto evoluti, sufficientemente profondi e morfologicamente piuttosto complessi, altri fattori – come l’apporto di nuovi materiali (d’origine piroclastica, alluvionale, eolica, animale ed antropica), oppure profonde variazioni climatiche oppure ampi sconvolgimenti di masse di vegetazione – possono prendere il sopravvento sui processi pedogenetici di alterazione delle rocce ed imprimere al terreno, almeno negli strati più superficiali, caratteri molto distanti dal materiale litologico da cui si sarebbero originati.

Nelle regioni a clima molto caldo (deserti) o intensamente freddo (tundra), l’influenza della roccia madre sulle caratteristiche del suolo è poco sentita, mentre nelle regioni temperate, i legami di varia natura, morfologici e strutturali, tra la roccia madre ed il terreno sono molto più stretti.

Il disfacimento delle rocce avviene a seguito di un processo di disgregazione e di decomposizione. La disgregazione consiste nel passaggio della roccia dallo stato continuo e compatto allo stato discontinuo e detritico. La decomposizione consiste in un processo per il quale i composti complessi, costituenti le rocce, si trasformano in composti più semplici, fino allo stato di elementi o di semplici raggruppamenti chimici che passano in soluzione come ioni. La disgregazione avviene per azioni meccaniche e fisiche, senza operare modificazioni chimiche, mentre la decomposizione si realizza per l’effetto lento ed incessante delle azioni chimiche.

DISGREGAZIONE DELLE ROCCE

I minerali allo stato cristallino hanno raggiunto una posizione d’equilibrio con le condizioni d’umidità, temperatura e pressione ambientale che ne assicurano la stabilità. Nel momento in cui cambia anche uno solo di questi fattori, mutano i rapporti d’equilibrio ed i minerali tendono a raggiungere un nuovo punto di stabilità che può portare alla costituzione di nuove forme. I processi d’alterazione delle rocce sono dominati da fenomeni di tipo fisico e chimico che spesso si manifestano contemporaneamente, sommando le loro azioni o dando luogo ad effetti sinergici. I processi di disgregazione delle rocce sono basati sugli effetti dei soli fenomeni meccanici e fisici i quali, di norma, sono molto veloci e spesse volte spettacolari. Così, la lenta caduta di pietrisco oppure il repentino staccarsi di grossi massi dalle pareti delle rocce, oppure l’azione di molti agenti atmosferici, del fuoco, della cristallizzazione delle soluzioni saline e di molte altre attività, naturali ed antropiche, portano, come risultato finale, ad un incessante sminuzzamento del materiale originario, che può raggiungere finanche dimensioni inferiori al millimetro. La disgregazione delle rocce determina modificazioni profonde nella frattura, nelle forme e nelle dimensioni, ma la struttura

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molecolare e la composizione chimica e mineralogica rimangono invariate e simile a quella dei materiali di partenza. La disgregazione, quindi, porta alla frantumazione del substrato pedogenetico ed all’aumento della superficie di contatto con gli agenti atmosferici, con l’acqua tellurica e con tutti gli altri elementi in grado di realizzare il successivo gradino d’alterazione delle rocce, completando il processo formativo del terreno attraverso modificazioni d’ordine chimico e chimico-fisico.

Gli agenti che operano azioni di disgregazione e quindi trasformazioni d’ordine meccanico e fisico delle rocce sono l’acqua, la temperatura, il vento, la cristallizzazione, la forza di gravità e gli organismi viventi.

AcquaL’acqua agisce allo stato d’idrometeora, come acqua di dilavamento, come acqua

corrente, come acqua marina e come acqua allo stato di ghiaccio.L’acqua, come idrometeora, ha un grande effetto sui processi di disgregazione delle

rocce. Come pioggia, provoca sulla roccia un’azione diretta di picchettìo e, poi, infiltrandosi, determina lo scoscendimento delle rocce tenere e poco compatte (frane).

Allo stato di rugiada, negli ambienti dove le cosiddette precipitazioni occulte sono imponenti, l’acqua provoca la mobilizzazione dei sali igroscopici impregnanti le rocce. Questi sali, giungendo successivamente nei pori e negli interstizi delle rocce e sottoposti a ricristallizzazione, esercitano un’azione meccanica, con successiva frantumazione del materiale roccioso.

Nei processi di disgregazione delle rocce, non soltanto l’origine dell’acqua ed il suo stato fisico sono importanti, ma anche le variazioni della sua quantità. Grandi acquisti d’acqua meteorica o di precipitazione occulta, come la rugiada, che seguono ad imponenti perdite causate da prolungati periodi di siccità, esercitano un’enorme azione dirompente e lacerante delle masse argillose a causa del periodico alternarsi dei processi d’espansione e di contrazione.

L’acqua di dilavamento è quella che scende in forma di velo lungo i declivi dei rilievi orografici, provocando una blanda erosione che diventa significativa nel tempo.

L’acqua corrente, come quella fluviale, determina un processo d’erosione enfatizzato dall’intensa azione abrasiva dei materiali che trasporta in sospensione. Il risultato che si ottiene è una lenta e continua frantumazione, levigazione e polverizzazione.

L’acqua marina provoca abrasione a seguito del moto ondoso e del trasporto di materiale con le mareggiate.

Il ghiaccio causa un notevole aumento di volume dell’acqua insinuatasi nelle fessure delle rocce e dà luogo a forti pressioni e ad un successivo disfacimento del materiale quando, poi, l’acqua torna allo stato liquido. E’ noto che l’acqua, alla temperatura di 4 °C ha la massima densità ed occupa il minimo volume. Ciò aumenta nella misura di 1/11 nel passaggio dallo stato liquido a quello solido, pari al 9%. Le conseguenze della dilatazione sono evidenti nelle zone a clima freddo, dove l’alternanza dello stato solido e liquido dell’acqua manifestano un’evidente azione disgregante a livello dei pori capillari, negli interstizi e nelle cavità delle rocce (crioclasi).

In generale, l’acqua è un fattore di disgregazione delle rocce più intenso nelle formazioni rocciose a struttura granulare che in quelle vetrose e compatte, per il semplice fatto che le prime riescono a trattenerne una maggior quantità.

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TemperaturaLe oscillazioni della temperatura inducono disgregazione (termoclasi) delle masse

rocciose, operando dilatazioni e contrazioni differenziate. Il meccanismo avviene in rapporto alla conducibilità termica ed al coefficiente di dilatazione e contrazione delle rocce.

La conducibilità termica delle rocce, poiché i materiali rocciosi presentano valori di conducibilità termica molto bassi, induce un più elevato e rapido riscaldamento o raffreddamento degli strati superficiali rispetto a quelli più interni, in rapporto alle oscillazioni termiche giornaliere. Passando, pertanto, bruscamente da una forte dilatazione, che si verifica durante il giorno, ad una notevole contrazione, che si verifica durante la notte, le rocce subiscono un contrasto di tensioni tra i settori superficiali e quelli più profondi proprio a causa della bassa conducibilità calorifica. Le rocce sollecitate in tal modo si fendono e si desquamano. L’effetto è più evidente quanto più alta è l’escursione termica e quanto più scuro è il colore delle rocce. In generale, sotto l’azione dei raggi solari, le rocce scure si riscaldano di più delle rocce chiare e, conseguentemente, si raffreddano più rapidamente.

Il coefficiente di dilatazione ed il coefficiente di contrazione, essendo diversi per ciascun minerale costituente le rocce composte, inducono una dilatazione (a seguito dell’aumento della temperatura) o una contrazione (all’abbassamento della temperatura) differenziata. Per questo motivo, il minerale che si dilata o si contrae di più esercita una notevole azione disgregante nella massa dei minerali circondanti, causando una riduzione della coesione e la produzione di detriti più fini, finanche sabbiosi. La variazione del volume e della forma cui sono sottoposti i diversi costituenti litici di un sistema roccioso, il complesso di pressioni e di contropressioni che si verifica nei vari punti, il contrasto di tensioni, che si stabilisce in ogni senso ed in ogni direzione, causato dalla temperatura, in conseguenza dell’irraggiamento solare, ha come risultato uno sfaldamento tanto più profondo quanto più è varia la composizione mineralogica della massa rocciosa e più differenziato il colore dei minerali costitutivi.

VentoIl vento contribuisce alla degradazione fisica delle rocce, sia col favorire il distacco

di frammenti in bilico, sia col favorire un ulteriore sminuzzamento a seguito della percussione del materiale in sospensione, asportandone le parti più deboli e facendo perdere coesione. Specificatamente, il vento agisce per effetto della:

1) Deflazione quando proietta con forza le particelle sospese nell’aria contro le masse rocciose, operando una vera abrasione.

2) Corrasione quando le stesse particelle sospese intaccano e levigano il materiale roccioso.

Il vento agisce in maniera diretta contro un ostacolo roccioso, esercitando una pressione che cresce col quadrato della velocità. Un forte vento può esercitare una pressione di 100-200 kg/cm2, rendendo possibile il crollo di rocce non saldamente fissate alla restante massa.

L’azione del vento può essere ulteriormente incrementata in relazione alla densità dell’aria, all’angolo d’incidenza con la superficie colpita ed alla forma di quest’ultima.

Il vento rotola, trascina, solleva, trasporta e depone le particelle che riesce a muovere. Esso può sollevare granuli di sabbia di 0,2 mm di diametro, alla velocità di 5-6 m/s, fino a granuli di 2-3 mm e frammenti ancora più grossi, ad una velocità di 28-22

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m/s. Il pulviscolo sollevato e spostato è abbandonato nelle vicinanze ma può anche raggiungere grandi distanze. E’ noto che la sabbia desertica africana possa ritrovarsi, dopo periodi di scirocco, nelle nostre città.

CristallizzazioneL’azione dirompente sulle masse rocciose esercitata dalla cristallizzazione sembra

avere non trascurabile portata nei paesi desertici subtropicali. Qui, i sali solubili, neutri o alcalini, che impregnano le rocce, sottraggono, in virtù del loro potere igroscopico, l’umidità dell’ambiente durante il periodo notturno, quando si verificano considerevoli precipitazioni occulte, sotto forma di rugiada. I sali solubili, in tal modo mobilizzati, penetrano nei pori e negli interstizi delle rocce. Col ripristinarsi dell’evaporazione diurna, sotto l’azione dell’intensa insolazione, i sali cristallizzano nuovamente ed aumentano di volume. Segue, pertanto, un’azione meccanica di disgregazione sulla massa rocciosa non dissimile da quella già citata del ghiaccio.

Forza di gravitàIn ambienti a morfologia accidentata, la forza di gravità favorisce la caduta ed il

distacco di parti cui sono venute meno le forze di coesione. Sui declivi, anche lievi, le masse detritiche, particolarmente quando imbevute d’acqua, danno luogo ad un impercettibile movimento detto di strisciamento del detrito o solifluizione, se lo spostamento è di qualche centimetro l’anno, e di fluitazione del detrito, se il movimento è di un centinaio di metri l’anno.

Organismi viventiMolti organismi viventi sono in grado di operare un’azione meccanica di

disgregazione delle rocce. Questi sono organismi inferiori e superiori, vegetali ed animali. Su di una massa

rocciosa è difficile che si verifichi la possibilità di vita per le piante superiori. Alghe, muschi e licheni possono, tuttavia, insediarsi ed operare fessurazioni e sgretolamenti iniziali.

In particolare i licheni, che rappresentano un’associazione simbiotica tra cianobatteri e funghi oppure tra alghe e funghi, come poi dettagliatamente si vedrà, si estendono in superficie ed in profondità, inducendo caratteristiche di spugnosità nella roccia.

Il lichene può spingere le ife fungine da pochi millimetri fino a 3 cm di profondità, dipendendo ciò dalle caratteristiche della roccia stessa (durezza, compattezza), ed esercitare pressioni tali da indurre sgretolamento.

Ciò consente di ottenere una minima quantità di terriccio in grado di accogliere e dar vita a piante più esigenti. Queste ultime, fra l’altro, continuano ad agire per via meccanica con le proprie radici, le quali possono penetrare con forza nelle fessure ed operare ulteriore disgregazione delle rocce. D’altra parte è ben noto l’effetto meccanico, causato dalla pressione esercitata dalle radici delle piante, sui muri di abitazioni o sulle recinzioni di orti e giardini, ma anche sulla massicciata di strade e piazze alberate. Basti pensare che la pressione di turgore delle cellule radicali può raggiungere 10 atmosfere e che le radici più grosse di un albero, in pieno sviluppo, esercitano pressioni laterali pari a 10-15 kg/cm2. Non va dimenticata l’azione dell’uomo il quale, con mezzi meccanici, anche d’elevata tecnologia, è in grado facilmente di disgregare una massa rocciosa.

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DECOMPOSIZIONE DELLE ROCCE

La decomposizione delle rocce è una parte fondamentale del processo pedogenetico. Essa avviene attraverso lente e profonde trasformazioni chimiche del materiale litologico, in cui i composti complessi, rappresentati dai minerali costitutivi, a seguito di reazioni chimiche, sono trasformati in composti più semplici, eventualmente fino allo stato di elementi.

Specificamente, la decomposizione della roccia porta alla demolizione dell’edificio molecolare dei silicati a sviluppo tridimensionale (tectosilicati) fino a composti di struttura semplice, soggetti a dilavamento e trasporto, rappresentati dai minerali argillosi a sviluppo bidimensionale (caolinite, montmorillonite, illite e molti altri), ottenuti attraverso i processi di nucleazione e silicizzazione.

I fenomeni chimici sono notevolmente più importanti poiché, al contrario dei fenomeni fisici, sono meno appariscenti e più lenti nella loro azione, ma sono capaci d’incidere profondamente sulla costituzione dei minerali, i quali subiscono profonde e radicali modifiche.

Molti dei nuovi minerali, ottenuti dalla disgregazione e decomposizione della roccia madre, possiedono il carattere della colloidalità e determinano quindi un ulteriore, enorme incremento dello sviluppo della superficie di contatto e della capacità d’agire ed interagire con l’ambiente circostante.

L’alterazione delle rocce è causata in maggior misura dall’azione di decomposizione (azione chimica) rispetto al processo di disgregazione (azione fisico-meccanica). Va chiarito, tuttavia, che tanto più è stato intenso il processo di disgregazione cui la massa rocciosa è stata sottoposta, tanto più rapido sarà il processo di decomposizione che porterà poi alla formazione del terreno naturale o agrario. Alla presenza di substrati poco coerenti che, ad esempio, si lasciano facilmente attraversare dall’acqua, i tempi di formazione del suolo diventano relativamente brevi e più facilmente si realizza la possibilità di raggiungere la condizione di maturità di un suolo. A tal proposito, sono tipici i litosuoli (terreni di debole spessore posti su rocce molto dure), i rendzina (terreni con un orizzonte superiore umifero poggiato su rocce molto calcaree) ed i suoli che si originano sulle ceneri vulcaniche o su altro materiale incoerente.

Va quindi rilevato che mentre gli agenti fisico-meccanici, a causa del processo di disgregazione delle rocce, non apportano nessuna modificazione e trasformazione a livello di composizione mineralogica, gli agenti chimici, fattori pedogenetici di decomposizione, inducono profonde modificazioni della composizione dei minerali, con la formazione di composti diversi da quelli della roccia d’origine.

La decomposizione delle rocce, già sottoposte o meno agli operatori della disgregazione, avviene a causa di fattori pedogenetici rappresentati dall’acqua, dall’ossigeno e dagli agenti biologici. Processi di chelazione e di scambio ionico assumono una certa importanza nel favorire la decomposizione e l’attacco dei materiali primari.

Spesso la decomposizione avviene contemporaneamente alla disgregazione delle rocce, con fenomeni additivi e di trasformazione della matrice litologica, più o meno veloci, fino alla formazione dell’elemento terreno.

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AcquaE’ il fattore più importante di decomposizione delle rocce. Senza acqua, non è

possibile che le rocce possano decomporsi. L’acqua è in grado d’indurre profonde modificazioni della massa rocciosa dei terreni in via di formazione e di quelli coltivati. L’acqua agisce attraverso il potere solvente, idrolizzante, idratante e disidratante.

Il potere solvente dell’acqua si esercita su tutti i materiali rocciosi poiché non esistono sostanze assolutamente insolubili, soprattutto se ciò si rapporta alla temperatura ed allo stato di disgregazione della roccia. La capacità solvente dell’acqua è tanto più elevata quanto più alta è la temperatura ed è tanto più manifesta quanto più estesa è la superficie di contatto e più poroso e permeabile è il substrato roccioso.

Le caratteristiche di solubilità in acqua dei minerali costituenti le rocce sono differenti. Esistono, infatti, in natura minerali pressoché insolubili in acqua, come il quarzo e l’apatite, ed altri molto sensibili all’azione solvente dell’acqua, come il salgemma, la carnallite la cainite, la silvina, i nitrati. Scarsa solubilità presenta il gesso ed il calcare. Tuttavia, il potere solvente dell’acqua può notevolmente incrementarsi, per la presenza di elementi o composti presenti in soluzione. Così l’anidride carbonica, l’ossigeno, i sali e le basi inorganiche ed organiche possono influenzare la capacità solubilizzante dell’acqua. Se il calcare (CaCO3) si solubilizza in acqua nel rapporto di

1/3·10-3, lo stesso minerale diventa solubile in acqua satura di CO2 nel rapporto di

1/3·10-1. L’anidride carbonica trasforma il carbonato di calcio (pressoché insolubile) in bicarbonato (molto solubile) secondo la seguente reazione:

CaCO3 + CO2 + H2O ➜ Ca(HCO3)2

La stessa reazione è reversibile, nel senso che la diminuzione della tensione superficiale dell’anidride carbonica nell’acqua, l’evaporazione del solvente e l’incremento della temperatura, possono far riprecipitare il bicarbonato come carbonato che viene, così, ridepositato:

Ca(HCO3)2–CO2–H2O ➜ CaCO3

La prima reazione è la principale causa di quello che si chiama fenomeno carsico, così chiamato perché è ampiamente presente sulle Alpi carsiche dove è possibile ritrovare, diffusamente, ampie cavità nello spessore delle rocce. Grandi quantità di calcare sono mobilizzate dall’acqua la quale, penetrando nelle fratture delle rocce, le impoverisce di calce, in relazione alla fluttuazione della temperatura ed alle variazioni della concentrazione d’anidride carbonica. Non di rado, oltre al carbonato di calcio, sono ampiamente asportate anche le altre basi solubili ed in sito rimane un residuo insolubile. Il risultato conseguente è la formazione di quelle che si chiamano terre rosse.

Infine, va ricordato il ruolo dell’ossigeno solubilizzato in acqua che ossida i metalli in ossidi, a loro volta idratati in basi o idrossidi, e trasforma i sali più ridotti (solfuri, solfiti, nitriti) in sali più ossidati (solfati, nitrati). Non va dimenticata, inoltre, la capacità di certi sali di migliorare ed aumentare il potere solvente dell’acqua; basti pensare ad

una soluzione acquosa satura di cloruro di sodio che triplica la solubilità del gesso rispetto al solo solvente.

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Il potere idrolizzante dell’acqua consiste nel fatto che il liquido idrolizza lentamente alcuni minerali, i più importanti dei quali sono costituiti da silicio. I minerali costituenti la crosta terrestre e contenenti silicio sono oltre il 90%, mentre quelli privi di tal elemento hanno parte assai limitata nella formazione delle matrici del terreno agrario. L’idrolisi più importante è quella che avviene a carico di silicati primari, come i feldspati ed i feldspatoidi, con la formazione di silicati acidi di metalli terrosi (alluminio e ferro), alcalini (potassio e sodio) ed alcalino-terrosi (calcio e magnesio) che danno luogo all’argilla vera e propria se a struttura prevalentemente colloidale ed al caolino se a struttura prevalentemente cristallina (decomposizione argillosa o caolinizzazione delle rocce silicate). La reazione d’argillificazione o caolinizzazione può così rappresentarsi:

2KAlSi3O8 + 2H2O ➜ 2AlHSiO4 + K2H2SiO4 + 3SiO2

Nella reazione, l’ortoclasio (metatrisilicato doppio d’alluminio e potassio) è idrolizzato ad ortosilicato acido d’alluminio, ortosilicato acido di potassio e silice. Tale reazione è tipicamente predominante nelle regioni a clima temperato.

La reazione idrolitica, cosiddetta di decomposizione di laterizzazione, predominante nelle regioni a clima tropicale, può essere così schematizzata:

2KAlSi3O8 + 4H2O ➜ K2H2SiO4 + 5SiO2 + 2Al(OH)3

in cui, dall’ortoclasio, si ottiene ortosilicato acido di potassio, silice e idrargillite (idrossido di alluminio), sotto forma cristallina, la quale, associata al diasporo (AlO·OH), all’allumogelo (gelo di ossido di alluminio idratato con un numero variabile di molecole d’acqua) ed a vari idrossidi di ferro, costituisce le bauxiti, le lateriti e molti sedimenti argillosi e prodotti di alterazione allo stato colloidale. L’ortosilicato acido di potassio, prodotto d’idrolisi delle due precedenti reazioni, può subire ulteriore decomposizione, in presenza d’anidride carbonica:

K2 H2SiO4 + CO2 ➜ K2CO3 + SiO2 + H2O

con formazione di carbonato di potassio, silice e acqua. Tale reazione avviene massicciamente nei climi tropicali umidi.

I silicati, essendo i composti più rappresentati nei minerali della parte esterna della litosfera, sono stati presi ad esempio di come avvengono alcune reazioni d’idrolisi e di decomposizione sopra riportate. Essi sono considerati, sotto l’aspetto chimico, sali di acidi silicilici la cui possibile presenza è stata testimoniata dalla composizione dei vari silicati esistenti in natura.

Il silicio, il secondo componente (27,61%), dopo l’ossigeno (46,48%), dei primi 16 km della crosta terrestre, compreso nel quarto gruppo della tavola degli elementi, insieme al carbonio, può comportarsi come metallo – perciò ossidandosi dà luogo ad ossido di silicio o silice (costituente da sola il 12% della massa superficiale della crosta terrestre), rappresentata nel quarzo e nel calcedonio – oppure come metalloide, per dar luogo, per ossidazione, ad anidride di silicio:

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Si + O2 ➜ Si O2

silicio + ossigeno ➜ ossido di silicio

L’ossido di silicio (silice), per idratazione, dà luogo a idrossido di silicio, di cui è costituito l’opale:

SiO2 + 2H2O ➜ Si(OH)4

Ossido di silicio + acqua ➜ idrossido di silicio

La reazione d’idratazione dell’anidride silicica dà luogo ai diversi acidi silicici. Produce acido metasilicico, i cui sali sono i metasilicati:

SiO2 + H2O ➜ H2SiO3

La silice produce acido ortosilicico, i cui sali sono gli ortosilicati:

SiO2 + 2H2O ➜ H4SiO4

Produce, inoltre, acido metadisilicico, i cui sali sono i metadisilicati:

2SiO2 + H2O ➜ H2Si2O5

Dà luogo, ancora, ad acido diortosilicico, i cui sali sono i diortosilicati o pirosilicati:

2SiO2 + 3H2O ➜ H6Si2O7

Costituisce acido metatrisilicico, i cui sali sono i metatrisilicati:

3SiO2 + 2H2O ➜ H4Si3O8

Aumentando le molecole d’anidride silicica e d’acqua si ha l’acido tetrasilicico, pentasilicico, esasilicico.

I minerali contenenti tali silicati, in relazione alla distribuzione nel reticolo cristallino, danno luogo ai nesosilicati (olivine e granati), sorosilicati (epidoti e tormaline), inosilicati (pirosseni e anfiboli), fillosilicati (miche, cloriti, serpentino, talco e molti minerali dell’argilla, del gruppo della caolinite e della montmorillonite) e tectosilicati (feldspati, feldspatoidi e zeoliti).

Il potere idratante e disidratante consiste nel fatto che l’acqua è in grado di entrare direttamente nella molecola di un composto o reversibilmente di uscirne, come nel caso dell’anidrite, solfato di calcio anidro (CaSO4), che si trasforma nella forma idrata, il

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gesso (CaSO4 ·2H2O), e viceversa (disidratazione) o del cloruro di calcio che è in grado di acquisire ben 6 molecole di acqua trasformandosi nella forma esaidrata (CaCl2· 6H2O) e viceversa, o dell’ematite (Fe2O3) che viene idratata a goethite (FeOOH) e viceversa:

CaSO4 + 2H2O ↔ CaSO4 · 2H2O

CaCl2 + 6H2O ↔ CaCl2· 6H2O

Fe2O3 + H2O ↔ 2FeOOH

Quest’ultima reazione, anche se è completamente reversibile, nei terreni ben drenati o dove l’azione lisciviante dell’acqua è stata intensa, sembra spostata verso destra, nel senso che l’ematite è il prodotto finale più stabile, come suggerisce la colorazione rossiccia di questi terreni.

Va anche ricordato che l’idratazione del composto comporta il suo notevole aumento di volume e se ciò accade, all’interno di una roccia (nei pori e nelle fessure), avviene la disgregazione fisica del materiale.

L’acqua, inoltre, per la struttura bipolare della sua molecola e quindi di sensibilità al gioco delle forze elettriche, è anche in grado di disporsi intorno agli ioni, in misura diversa, in relazione alla grandezza ed alla valenza degli stessi, isolandoli e contribuendo a rompere ed attenuare l’originaria compagine del minerale.

OssigenoL’ossigeno è presente nell’aria atmosferica, nell’aria confinata negli interstizi delle

rocce ed è disciolto nell’acqua. Esso agisce come ossidante, trasformando i composti meno ossidati in quelli più ossidati. In particolare esplica la propria azione sui solfuri di ferro, come la pirite e la marcasite (FeS2) o la pirrotina (FeS) trasformandoli in solfati:

2FeS2 + 5O2 ➜ 2FeO + 4SO22FeS + 3O2 ➜ 2FeO + 2SO2

L’ossido ferroso è ulteriormente ossidato ad ossido ferrico e quindi idratato a idrossido ferrico:

4FeO + O2 ➜2 Fe2O3Fe2O3 + 3H2O ➜ 2Fe(OH)3

L’anidride solforosa, ottenuta nelle precedenti reazioni è ossidata o idratata, rispettivamente, ad anidride solforica o acido solforoso:

2SO2 + O2 ➜ 2SO3SO2 + H2O ➜ H2SO3

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35 Il terreno

L’anidride solforica e l’acido solforoso, rispettivamente, idratata ed ossidato, danno luogo ad acido solforico:

SO3 + H2O ➜ H2SO42H2SO3 + O2 ➜ 2H2SO4

L’acido solforico reagisce con le basi presenti (di ferro oppure di calcio) e si trasforma in solfati (rispettivamente di ferro e di calcio):

H2SO4 + Fe(OH)2 ➜ Fe SO4 + 2H2OH2SO4 + Ca(OH)2 ➜ Ca SO4 + 2H2O

Sono questi alcuni esempi schematici che riguardano l’attività dell’ossigeno su alcuni minerali nella decomposizione delle rocce.

Tali reazioni possono verificarsi soltanto in via teorica, in quanto composti come anidridi ed acidi solforosi e solforici si ritrovano soltanto allo stato ionico, a meno che non ci si trovi di fronte a formazioni geologiche in forte evoluzione (vulcani attivi, solfatare).

Gli esempi testé citati, riguardanti il ferro ed i solfuri, possono interessare molti altri composti minerali, come quelli dell’alluminio, titanio, manganese, magnesio, con formazione di fosfati, carbonati, cloruri.

Fenomeni di chelazione e scambio ionicoLa reazione d’equilibrio che permette ad un legante polidentato di occupare più

posizioni nei legami di coordinazione di un catione metallico con formazione di un anello più o meno stabile è chiamata chelazione. L’EDTA (acido etilendiamminotetracetico) è un esempio tipico di chelante che è usato in tutti i laboratori proprio per effettuare reazioni di chelazione.

Il catione Fe2+ presenta sei legami di coordinazione di cui due occupati da due gruppi amminici (con legame alla valenza dell’azoto del gruppo =CH2–NH–) e quattro occupati da altrettanti gruppi acetato (con legame alla valenza dell’ossigeno del carbossile del gruppo acetato –CH2–COO–).Gli ioni idrogeno che si liberano dalla molecola durante la reazione di chelazione possono partecipare ai meccanismi idrolitici. Molti prodotti, ottenuti dalla decomposizione di tessuti animali e vegetali, diversi escreti del metabolismo delle radici o rizoidi di piante superiori ed inferiori e molti metaboliti originati dall'attività di cellule microbiche, sono in grado di produrre composti organici ad attività chelante e sono in grado di favorire l’attacco dei minerali e di accelerarne la decomposizione.

Tuttavia, non si dispongono di molte informazioni sui processi degradativi causati da prodotti chelanti ed è probabile che questi si combinino direttamente, sulle superfici dei composti del terreno, con i cationi per dare luogo ad una successiva solubilizzazione in forma di chelati.

Il pH gioca un ruolo molto importante sulla solubilizzazione dei composti contenenti cationi. Così, l’alluminio risulta solubile nella forma chelata a valori di pH ai quali è insolubile come ione. La migliore solubilità dell’alluminio in forma chelata impedisce, tuttavia, la formazione di quella pellicola protettiva d’alluminio amorfo

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insolubile, che si viene a costituire sulle particelle minerali del terreno, determinando una più rapida degradazione delle stesse particelle cristalline.

Lo scambio ionico di ioni può favorire decomposizione dei materiali solidi del suolo e, a tal proposito, sono moto attivi gli acidi organici.

Diminuzioni progressive di potassio nella mica, per scambio ionico, determinano disorganizzazione reticolare irreversibile, con riduzione della grandezza delle particelle che passano dalle dimensioni di oltre 2 mm a misure inferiori a 2mm.

La riduzione di potassio nelle miche dal 10% a meno dell’1% avviene per successivi passaggi, secondo il seguente ordine: mica, mica idratata, illite, minerali di transizione, fino a montmorillonite e vermiculite.

Questo è il processo di genesi dei minerali argillosi per semplice allontanamento di potassio dagli interstrati della mica. Si tratta di una trasformazione semplice poiché strutturalmente la mica non subisce modificazioni.

Agenti biologiciSulla roccia compatta s’insediano organismi come batteri, funghi, alghe, muschi e

licheni che danno luogo a prodotti metabolici in grado di operare decomposizione. L’effetto prevalente è quello dell’anidride carbonica, che con l’acqua produce acido

carbonico, emessa a seguito della respirazione. L’importanza dei batteri, funghi e alghe è limitata alle rocce percorse

frequentemente dal deflusso d’acqua piovana ed alla presenza di sostanza organica che può essere presente nelle rocce stesse (rocce bituminose) o apportata con gli escrementi animali.

Un ruolo più importante spetta invece ai licheni, di cui si è già accennato a proposito degli organismi viventi quali agenti di disgregazione. E’ il caso di approfondire le conoscenze su questi organismi che mostrano un ruolo importante nell’evoluzione delle matrici del terreno, essendo anch’essi il risultato di un lungo cambiamento probabilmente non ancora concluso, per il quale il lichene può considerarsi un'entità biologica non solo autonoma, ma avente un'individualità biochimica che si manifesta attraverso la formazione di speciali sostanze e pigmenti lichenici, come i vari acidi lichenici e gli antrachinoni.I licheni sono crittogame avascolari e cellulari, costituite non da un solo organismo, ma da due diverse piante crittogame associate in una simbiosi più o meno stretta.

Uno dei simbionti è un micete inferiore o un fungo imperfetto (deuteromiceti) o un basidiomicete, più frequentemente è un ascomicete. Pertanto, in relazione al simbionte fungino i licheni si distinguono in ficolicheni, deuterolicheni, basidiolicheni ed ascolicheni. A seconda che l'ascomicete simbionte sia un pirenomicete o un discomicete si distinguono ulteriormente in pirenolicheni, meno frequenti, e discolicheni più abbondanti e comuni.

L'altro simbionte è rappresentato da un cianobatterio o un'alga verde. Oltre ai due simbionti più o meno obbligati, possono entrare in gioco altre forme di crittogame, la cui funzione e costanza sono incerte. Alcuni batteri, nonché funghi parassiti dei licheni possono manifestare un modo di vita che oscilla tra la simbiosi ed il parassitismo.

Da tale conoscenza di complessità biologica si può dedurre come un simile ecosistema, tanto più stabile quanto più complesso, in grande equilibrio dinamico, abbia un’importanza notevole nei processi di decomposizione delle rocce e possa giocare un ruolo preminente nella caratterizzazione biologica del terreno agrario che ne deriva.

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Per quanto concerne l’altro organismo simbionte costituente il lichene, le alghe, quelle azzurre (considerate dai sistematici non alghe ma uno speciale gruppo di batteri detti cianobatteri) sono dell'ordine Nostocales; quelle verdi sono dell'ordine Chlorococcales o Trentepohliales. Poiché le alghe lichenizzanti di questo gruppo possono vivere anche autonomamente, non sempre lo stesso fungo lichenicolo si associa con la stessa alga lichenicola, benchè si abbiano preferenze più o meno nette. Talvolta si ha una sorta di reazione difensiva da parte del fungo con la formazione di una specie di galla detta cefalodio. L'associazione del micelio fungino con l'alga porta alla formazione del tallo a volte gelatinoso, a struttura varia, nel quale le cellule dell'alga sono denominate gonidi, mentre il micelio può formare organi d’adesione e penetrazione nelle cellule dell'alga.

Il significato della simbiosi appare chiaro se si considera che il fungo è un organismo eterotrofo mentre l'alga è autotrofa, ma se s'interpreta facilmente ciò che l'alga cede al fungo, meno facile è capire quale vantaggio trae l'alga dall'associazione. Probabilmente, il fungo, penetrando nella roccia in profondità, è in grado di procurarsi sostanze, tra cui anche l’acqua conservata a lungo, mancanti in superficie, dove spesso si stabiliscono condizioni proibitive di vita.

I licheni endolitici, d’interesse nella genesi del terreno, vivono su rocce o sassi, come quelli della famiglia Physciaceae e Lecideaceae, o su pietre calcaree, come quelli della famiglia Verrucariaceae (pirenolicheni). Il loro maggiore interesse sta nel fatto che i licheni, assieme a qualche alga e forse pochi funghi, sono rappresentanti della vegetazione pioniera delle rocce nude, formando il primo straterello di terreno agrario sul quale gradatamente s’insedieranno le specie più evolute. Ciò si deve al fatto che i licheni, formando sostanza organica per la sintesi clorofilliana, operata dalle alghe, si accontentano di assai poco in fatto d’alimentazione minerale, mentre possono sopravvivere anche a notevoli e prolungate deficienze d’acqua. Naturalmente il prezzo di questa frugalità è una crescita straordinariamente lenta: pochi millimetri l'anno sotto le migliori condizioni di vita.

Le pareti cellulari, generalmente chitinose, sono formate da galattosidi come lichenina e isolichenina. I principi attivi sono dati dall'acido cetrarico (deriva dall'acido fumarprotocetrarico che per idrolisi dà due molecole d’acido fumarico ed una molecola d’acido protocetrarico), dall'orceina ed altri acidi lichenici, come l'acido alfa-lichenstearico o l'acido usnico. Si conoscono un centinaio di acidi lichenici e ciò fa capire la grande importanza dei licheni nel processo di litiasi. Tra le forme crostose delle rocce o pietre, sono noti il Rhizocarpon geographicum, che forma disegni geografici in nero su fondo giallo, nonché le Graphis e le Opegrapha, che imitano i geroglifici.

I licheni - approfondendosi nello spessore delle rocce, dove producono acido carbonico, derivato dall’anidride carbonica della respirazione, ed una moltitudine di acidi organici - sono in grado di dar luogo a complessi di assorbimento e di scambio e quindi attaccare carbonati, solfati, fosfati e finanche silicati.

Sulla minima quantità di terriccio ottenuta, a seguito di tale azione di decomposizione, ma anche di disgregazione, possono insediarsi muschi rupicoli modellati a cuscinetto i quali possono spingere i loro rizoidi assorbenti fino a 10-20 cm di profondità.

La materia organica e quindi gli acidi organici prodotti con la loro morte inducono ulteriore decomposizione e col tempo rendono possibile l’insediamento di piante erbacee le quali, per mezzo delle loro radici, compiranno un energico lavoro di disgregazione e di produzione di residui organici per dar luogo a terriccio e favorire l’accoglimento di piante vieppiù superiori, con effetti sempre più efficaci sulla pedogenesi.

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Infine, le piante superiori che si sono insediate, attraverso la produzione di acidi organici da parte delle radici e la caduta dei loro frutti, consentiranno la vita di organismi del regno animale (insetti, acari, anellidi) che direttamente (prodotti di escrezione) ed indirettamente (decomposizione dei loro resti) contribuiranno ad ulteriori decomposizioni ed alla formazione del terreno agrario.

Un’ulteriore trattazione relativa a quest’importante gruppo di organismi vegetali, che tanta parte hanno nei processi di pedogenesi, sarà effettuata nella parte riguardante le condizioni biologiche del terreno.

I materiali detritici - che si sono formati per l’azione di forze di disgregazione (le quali hanno provocato modificazioni d’ordine meccanico e fisico della matrice originaria) e per l’opera di agenti di decomposizione (che hanno indotto trasformazioni d’ordine chimico del substrato litologico) - possono rimanere in sito, senza subire apprezzabili spostamenti, oppure possono andare incontro a spostamenti o rimozioni più o meno vaste ed ampie. Nel primo caso si formano i terreni autoctoni, nel secondo i terreni alloctoni, i quali, se dotati di un minimo di fertilità per la coltivazione delle piante, sono tutti considerati terreni agrari più o meno produttivi.

TERRENI AUTOCTONI

I materiali derivanti dalla disgregazione e decomposizione del substrato litologico possono rimanere sul luogo da cui si sono originati, in corrispondenza della roccia madre. Questi sono detti terreni autoctoni o in posto e possono distinguersi in terreni residuali, parautoctoni e di accumulazione.

I terreni residuali sono quelli che derivano dall’accumulo del materiale più o meno integro che si è originato per fenomeni principalmente meccanico-fisici di disgregazione della roccia madre sottostante. Questi, non avendo subita decomposizione, hanno la stessa natura chimica della roccia che li ha originati. Tali sono i terreni granitici e quarziferi che derivano da rocce costituite da granito (miscela di calcare, ortoclasio e mica) oppure da quarzo.

I terreni parautoctoni si hanno quando il materiale che si è accumulato per disgregazione ha subìto fenomeni più o meno profondi di decomposizione, in rapporto all’intensità dell’azione degli agenti chimici e biologici. Di conseguenza, la composizione chimica di questi terreni viene ad essere differente da quella della roccia madre. Le terre rosse sono i rappresentanti tipici di questo tipo di terreni avendo subito la solubilizzazione del calcare in bicarbonato (decomposizione della roccia) e risultando, pertanto, costituiti soltanto dai residui insolubili (sali di ferro), diversi chimicamente dalla roccia madre.

I terreni di accumulazione sono quelli che derivano da detriti organici, rimasti tali per carenza di ossigeno e che si sono accumulati nel tempo direttamente sulla roccia o su terreni di varia origine. Tra questi ricordiamo i terreni torbosi, come le torbiere, che si sono formati nell’acqua per accumulo di materiali organici e per carenza di ossigeno; i terreni di bosco e delle vecchie praterie che si sono formati per accumulo di materiali vegetali e di escrementi di animali; le terremare che si sono formate per accumulo dei residui organici delle attività di uomini primitivi (palafitte) e si trovano in luoghi dove nel passato remoto c’erano stagni e acque paludose. Questi terreni, avendo un’origine diversa dalla roccia sottostante, hanno anche una composizione chimica più differente in relazione al grado di mescolanza con i detriti minerali della roccia madre.

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In generale, i terreni residuali e parautoctoni hanno uno spessore limitato tanto che è possibile osservare la roccia matrice affiorante. La ridotta profondità di tali terreni è dovuta al fatto che lo strato iniziale di detriti disgregati e decomposti ha preservato la sottostante roccia madre dai diversi agenti, impedendo il successivo disfacimento.

I terreni di accumulazione, invece, in relazione alla quantità di materiale organico accumulato, possono essere anche molto profondi (torbiere); tuttavia, non tutte le piante agrarie si prestano ad essere coltivate in tali terreni, in rapporto alle loro particolari caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche.

L’esame di riconoscimento dei terreni autoctoni non solo è necessario, ma e anche utile in rapporto alle importanti correlazioni esistenti tra le caratteristiche chimiche della roccia madre e quelle del terreno formato. In Italia e nelle regioni con analoga geomorfologia è piuttosto difficile che i processi di pedogenesi sono in grado di apportare modificazioni così profonde da cancellare ogni rapporto tra la roccia madre ed il terreno. E ciò è ancora più difficile nei territori a morfologia accidentata ed in corrispondenza di zone collinari o montuose. L’agricoltore per tentare di identificare, con un certo grado di sicurezza, le rocce ed i costituenti del proprio terreno potrà consultare utilmente le carte geologiche regionali in scala 1:100.000, che ormai illustrano completamente il territorio nazionale, e rilevare l’indicazione del periodo geologico di formazione dei complessi rocciosi affioranti, ossia l’età, e la natura litologica.

TERRENI ALLOCTONI

I prodotti di disgregazione e decomposizione delle masse rocciose, spesse volte sono allontanati dal luogo in cui si sono formati e trasportati in altri luoghi, dove vanno a costituire i terreni alloctoni o di trasporto.

Numerosi sono i fattori che operano il trasporto dei materiali detritici. L’esame di ognuno di questi fattori consente di comprendere l’origine dei terreni alloctoni, la cui denominazione è in stretto rapporto con il fattore predominante che ha operato l’allontanamento dal substrato litologico originario.

I fattori di trasporto che incidono maggiormente sulla formazione dei terreni alloctoni sono rappresentati dalla forza di gravità, dall’acqua e dal vento.

Forza di gravitàSi è già parlato della forza di gravità come causa concomitante ad altri fattori di

disgregazione delle rocce, con formazione di materiale detritico di varia dimensione. Qui si parlerà della forza di gravità come concausa di trasporto di detriti che andranno a costituire i terreni agrari in luoghi diversi da quelli dove è allocata la matrice originaria. I terreni che si sono costituiti per azione di tale causa sono detti colluviali e sono formati da ammassi detritici, spesso a grana grossa, originatisi per caduta ed accumulo di materiale detritico alla base di montagne e rilievi, dai fianchi acclivi e scoscesi. I depositi o terreni che si formano, spesso pietrosi, possono classificarsi in:

a) Falde di detrito che si formano alla base dei rilievi per progressivo e lento accumulo di detriti che da loro si staccano. Si trovano ai piedi di pareti costituite da rocce con strati le cui testate sono orizzontali o poco inclinate, con struttura e consistenza uniformi. La disposizione del materiale è caotica, con gli elementi più voluminosi prevalenti nella parte inferiore, in relazione alle forze d’inerzia che s’instaurano durante

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la caduta. La pendenza della falda è variabile e può superare i 40°, specie nelle regioni calcareo-dolomitiche.

b) Coni di detrito che si formano per la caduta verticale dei detriti provenienti da formazioni non omogenee. Il cono è costituito da blocchi nella parte superiore e detriti più fini nella zona laterale. La pendenza massima è minore che nelle falde di detrito.

c) Falde di frana che si originano per brusca e massiccia caduta di detriti in una sola volta lungo le pendici di un rilievo.

d) Coni di frana che si originano per caduta verticale, in una sola volta, di una massa detritica. Il cono è costituito da materiali più grossi verso la base, in relazione alla massa e volume del materiale sottoposto alla gravità.

Questi terreni presentano scarso interesse agrario perché costituiti da detriti rocciosi quasi privi di terra.

Con il tempo possono ospitare alla superficie dei grossi elementi, di cui sono costituiti, degli organismi viventi come i muschi ed i licheni i quali lentamente preparano un ambiente pedologico più favorevole alle piante. Qualora il detrito che si è formato risulti più minuto, diventa possibile l’insediamento di una vegetazione che dà origine alla formazione di una cotica erbosa che consente, successivamente, l’utilizzazione di questi territori con un’agricoltura silvo-pastorale.

Un particolare tipo di terreni, dove la forza di gravità entra in gioco in un secondo momento, è rappresentato dai terreni piroclastici che si sono originati a seguito della forza eruttiva di un vulcano.

Le forti pressioni che si originano durante l’eruzione scagliano, lontano dal vulcano, grandi quantità di materiale eruttivo che, per gravità, piomba al suolo originando un terreno piroclastico. Tali terreni, per la loro origine, sono ricchi di materiali potassici e di ceneri e sono, pertanto, dotati di un’ottima fertilità; il loro spessore è variabile, in rapporto all’intensità ed al numero delle eruzioni che si sono verificate nel tempo e nello spazio.

AcquaL’acqua è uno dei fattori più importanti d’origine e trasporto dei terreni alloctoni e

dà luogo a suoli agrari, con caratteristiche molto variabili, in relazione allo stato fisico e cinetico ed al modo con cui ha operato il movimento del detrito. In rapporto allo stato cinetico, l’acqua agisce allo stato liquido, come acqua corrente ed acqua marina, ed allo stato solido, come ghiaccio.

ACQUA CORRENTE

L’acqua dei fiumi e dei ruscelli origina i cosiddetti terreni alluvionali. Il complesso dei materiali detritici che è trasportato, le cui dimensioni vanno dai grossi massi fino alle particelle argillose di piccolissime dimensioni, proviene dall’erosione delle rocce. Tali materiali sono trasportati e successivamente depositati dalle acque dei torrenti e dei fiumi lungo il loro corso.

I grandi massi che si distaccano dalle parti più elevate di un bacino torrentizio e precipitano sul suo letto, rimangono fermi, fino a che, progressivamente corrasi ed erosi, consumati ed arrotondati dall’impatto dei materiali solidi più sottili sospesi nelle acque correnti, non vengono anch'essi rimossi dall’energia cinetica della corrente.

I vari materiali poi si depositano via via che la forza di trasporto delle acque diminuisce fino ad annullarsi, cosicché, mentre i materiali più minuti possono arrivare

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fino alla parte terminale del corso fluviale o torrentizio, quelli di maggiori dimensioni, sabbie grossolane, ghiaie, ciottoli, tendono a depositarsi nelle zone più a monte, per poi subire la stessa sorte di corrasione ed erosione, in un ciclo che si ripete infinite volte.

Se lungo il corso d'acqua, la velocità diminuisce, sia per diminuzione della pendenza dell'alveo, sia per aumento della sua sezione, sia per la variazione della quantità d'acqua, in rapporto all'andamento pluviometrico, dovranno sedimentarsi quei materiali che, per la minore velocità risultante, non possono essere più trascinati.

I materiali detritici ora si depositano sul letto del fiume, ora si espandono lateralmente quando le acque traboccano dall'alveo normale. Nel primo caso si potrà osservare una graduale sopraelevazione dell'alveo, in modo che il corso d'acqua si trova a scorrere ad un livello superiore a quello dei terreni circostanti. Tale fenomeno è accentuato dalle arginature, che costringono il fiume a riversare nell'ultima parte del suo corso la massima quantità dei materiali trascinati.

Più generalmente i materiali detritici, durante le piene, si depositano ai lati del corso d'acqua, riempiendo i fondi delle valli e determinando la formazione delle pianure alluvionali.

Si possono avere depositi prevalentemente ghiaiosi, sabbiosi o argillosi, a stratificazione per lo più irregolari - in strati differentemente inclinati gli uni rispetto agli altri, in relazione ai cambiamenti subiti dalla direzione della corrente - talora ad elementi uniformi, ma spesso mescolati in varia misura od anche in banchi alternanti di ciottoli, sabbie e argille.

Le dimensioni dei materiali che costituiscono una pianura alluvionale tendono a diminuire da monte a valle, in conseguenza della diminuzione della velocità delle acque e, quindi, della loro capacità di trasporto.

La composizione chimica delle alluvioni di una pianura è influenzata dalla natura delle rocce predominanti nel bacino d’alimentazione dei singoli corsi d'acqua. Essa sarà abbastanza uniforme quando i detriti provengono da un unico tipo litologico, ma le caratteristiche originarie si possono modificare di mano in mano che i detriti convergono a valle. Rimaneggiamenti totali o parziali delle alluvioni producono sensibili modificazioni nella composizione mineralogica ed in quella fisico-chimica

In relazione a quanto descritto, possiamo riconoscere diversi tipi di formazioni pedologiche e distinguerle in:

a) conoidi di deiezione costituiti da grosse particelle che vengono depositate a seguito di una diminuzione di velocità dell’acqua corrente. Si determina, così, un accumulo di materiale alluvionale, a forma di ventaglio col vertice rivolto a monte, nel punto in cui un corso d'acqua, generalmente a carattere torrentizio, sbocca nella valle principale. Essendo questa solitamente poco pendente, si ha una perdita di energia delle acque che depositano gradualmente il materiale trasportato: quello più grossolano al vertice, cioè verso la sorgente, quello sempre più fine verso la base del conoide stesso, cioè verso la foce.

La forma a ventaglio è da attribuire principalmente alle piene, che fanno cambiare percorso al torrente con escavazione di un nuovo letto destinato ad essere riempito ed abbandonato alla piena successiva. Coni costruiti da corsi d'acqua di grandi dimensioni che si allungano con pendenza dolce per un lungo tratto nella valle principale, sono detti conoidi alluvionali. Tra questi ed i conoidi di deiezione esiste tutta una gamma di forme intermedie, di seguito riportate.

b) alluvioni di inondazione sono costituite da piccole particelle che si accumulano in prossimità della foce di un fiume a seguito della ridotta velocità dell’acqua;

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c) alluvioni di delta sono costituite da particelle finissime, depositate alla foce del fiume, per una completa riduzione della velocità di scorrimento dell’acqua fluviale, causata dall’assenza di pendenza del terreno (pianura), dal contrasto, in opposta direzione, del moto ondoso del mare in cui il corso d’acqua si riversa.

I terreni alluvionali sono costituiti da particelle eterogenee che aumentano di grandezza media passando dalla foce alla sorgente del fiume. Le particelle sono eterogenee anche nello stesso punto in rapporto alla velocità dell’acqua, molto legata al periodo stagionale.

Nel periodo delle piogge, infatti, il fiume ingrossa e trasporterà i detriti anche più grossi verso foce; nei periodi siccitosi, per scarsità d’acqua nel fiume e bassa velocità le particelle piccole saranno depositate, oltre che verso la foce, anche lungo il percorso del fiume.

I terreni alluvionali sono profondi, fertili, di costituzione variabile. Esempi di terreni alluvionali sono quelli della pianura Padana, del Sele e di S. Eufemia formati, rispettivamente dal Po, Sele e Crati.

Per la particolare posizione e natura litologica, i conoidi hanno costituito zone d’insediamento umano e di coltivazioni.

ACQUA MARINA

Con il suo movimento contribuisce al trasporto di materiali detritici, generalmente di tipo sabbioso, i quali possono sedimentarsi sul fondo in quantità tale da sollevarlo, determinandone l’emersione.

Si origina un terreno, sufficientemente permeabile, perché ricco in sabbia, ma che, per l’eccessiva quantità di sali può non essere coltivabile. Fortunatamente tali terre salse sono spesso a reazione neutra o non troppo alcalina, permeabili e pianeggianti.

Ciò consente, nel tempo, un adeguato dilavamento naturale. Se a questo si aggiunge il lavoro umano, allo scopo di facilitare la penetrazione delle acque meteoriche nel suolo oppure di ottenerne l’evacuazione, mediante una rete di canali a deflusso naturale (terre salse e salso-alcaline della piana ferrarese, argille plioceniche e calanchifere dell’Appennino emiliano, toscano e marchiggiano, crete senesi, biancane del Volterrano ed alcune formazioni geologiche della dorsale appenninica d’epoca terziaria, tutte d’origine marina), è possibile giungere alla creazione di un fertile terreno agrario.

L’acqua del mare è stato altresì il fattore che ha originato i polder olandesi. Questi sono terreni sabbiosi che si sono formati per il deposito di materiali solidi trasportati dal mare e trattenuti da imponenti argini, aventi la funzione di difenderli dalle alte maree. I polder, che nel tempo sono stati privati della salsedine a seguito di un dilavamento naturale, sono oggi intensamente coltivati con piante ad alto reddito come fiori ed ortaggi.

Terreni di analoga origine si trovano in Germania e sono detti marchen. Gli arenili, terreni di trasporto per opera dell’acqua marina, sono molto fertili e

sono costituiti da sabbia in massima parte. Essi rappresentano quel tratto di spiaggia sabbiosa che è abbandonato dal mare. Si formano sulle coste basse dai detriti apportati dai corsi d'acqua e dai prodotti di

abrasione marina trascinati dalle onde di ritorno e dal riflusso fuori della zona delle onde battenti; una porzione di tali detriti costieri è trasportata dal vento dominante e deposta ai piedi delle ripe e nelle concavità.

Queste sono gradualmente colmate e si trasformano in ampie distese di sabbie le

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quali possono essere alternatamente invase ed abbandonate dalla marea. L'arenile, la cui genesi è legata a tutti i fattori determinanti il trasporto dei detriti

nella formazione dei terreni alloctoni (acqua corrente e marina, vento), quando è abbondantemente dilavato e depurato della salsedine, in maniera naturale per opera delle acque piovane o artificialmente per azioni antropiche, può trasformarsi in un fertilissimo substrato di coltivazione di piante agrarie.

Sono state esaminate le principali azioni di trasporto operate dall’acqua, in relazione al suo stato cinetico (acqua corrente e marina).

Ma l’acqua può avere azioni di fondamentale ed anche di preponderante interesse quando agisce in relazione allo stato fisico, particolarmente quello solido (ghiaccio), come accade nei ghiacciai.

ACQUA ALLO STATO SOLIDOL’acqua allo stato solido evidenzia il proprio effetto nella formazione dei terreni

alloctoni attraverso il movimento del ghiacciaio, il quale è responsabile della formazione di terreni agrari detti glaciali morenici o diluviali.

Il ghiacciaio, nello scendere, per gravità, verso valle, lungo le pendici del rilievo, ingloba i detriti e le particelle terrose, di varia grandezza, i quali, per l’attrito creatosi fra loro e la roccia sottostante, formano un materiale poltaceo detto melma glaciale. Tali materiali possono essere lasciati lungo il pendio oppure possono essere depositati a valle, in funzione della temperatura dell’aria e quindi della fusione e solidificazione dell’acqua. Il ghiaccio, pertanto, fondendosi e ricreandosi e, quindi, deponendo e trasportando il materiale conglobato, lascia una serie di strati a ripiano di differente superficie, per costruire una struttura ad anfiteatro.

Esempi di questo tipo si riscontrano presso le colline a sud del lago di Garda o della Brianza.

Questi terreni sono costituiti da materiali di grossezza variabile e mescolati in vario modo, perciò la loro fertilità oscilla entro limiti assai ampi.

I terreni morenici delle nostre regioni sono legate almeno a tre glaciazioni che vengono distinte con i nomi di Mindeliano, Rissiano e Würmiano, con dubbie tracce di uno sdoppiamento della prima, la più antica.

Durante il Quaternario il clima non è stato sempre costante e, a periodi di maggior sviluppo dei ghiacciai e conseguente loro avanzata, hanno fatto seguito periodi di regresso, durante i quali gli stessi ghiacciai hanno sgomberato le valli per poi nuovamente invaderli.

I depositi morenici presentano una caotica distribuzione di vari detriti rocciosi. Tali detriti hanno l’aspetto di ciottoli ovoidali, con una superficie levigata e spesso presentano striature e scalfitture dovute alla sfregamento con altre rocce più dure. Accanto al materiale più grossolano vi possono essere materiali più sottili, sia di formazione primaria che di deposito. Le caratteristiche fisiche dei terreni morenici sono una buona porosità e permeabilità. Queste proprietà inducono in questi terreni un facile smaltimento delle acque meteoriche ed evitano ogni ristagno di acqua ed accumulo di umidità.

VentoSi è già parlato del vento come causa di disgregazione delle rocce. Ora si parlerà

dello stesso elemento come causa di trasporto di detriti con formazione di terreni eolici. Il vento solleva o spinge le particelle detritiche, di varia dimensione e peso, in rapporto

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alla sua velocità, trasportandole ad una certa distanza.I terreni eolici si distinguono in terreni dunosi e derivati dal loess. I primi costituiti

da dune, cioè rilievi a superficie arrotondata, formati da detriti grossolani, incoerenti e mobili per rotolamento, le cui particelle non sono sollevate ma semplicemente spinte. Sono in genere terreni scarsamente fertili che si sono formati lungo le coste (dune marine o costiere) o all’interno, lontane dal mare (dune continentali).

I loess hanno avuto origine dall’azione del vento spesso in zone desertiche, dove la degradazione delle rocce è stata molto attiva nelle ere geologiche anteriori all’attuale. A differenza dei terreni dunosi, i loess sono costituiti da particelle, di solito molto fini, in pratica polverulente e di grana molto uniforme, le quali sono sollevate dal vento e trasportate in zone lontane, spesso in avvallamenti.

La quantità di deposito operato dal vento è tale che la profondità dei loess può raggiungere i 40 m. Pertanto, essi sono costituiti da depositi di particelle di natura limosa, di colore giallastro o bruno-giallastro ed hanno la proprietà di rimanere in pareti quasi verticali senza franare, per questo i corsi d'acqua hanno potuto incidervi sponde assai profonde.

Il loess, depositandosi sulle piante poliennali, le ha gradatamente ricoperte, in modo che la vegetazione è stata costretta a svilupparsi a livelli sempre più alti.

Il notevole grado di scistosità, secondo piani verticali, è da attribuire all'orientamento verticale delle radici delle piante sepolte.

I loess sono privi di stratificazione, tipica dei sedimenti, a causa della gran lentezza con la quale il materiale si è accumulato.

Il contenuto di sostanze minerali utili alle piante, soprattutto carbonato di calcio, è in genere abbastanza elevato, a meno di fenomeni carsici intervenuti. Dal loess, infatti, derivano terreni d’elevata fertilità.

Il loess si ritrova nelle vallate del Reno, dell'Elba, del Danubio, nelle pianure della Francia settentrionale, del Belgio, della Boemia e della Russia meridionale. In queste regioni, nel Pleistocene infraglaciale, le rocce hanno subito un'intensa disgregazione con formazione di minutissimi materiali che sono stati spinti verso aree steppiche per opera della deflazione. Alla presenza d’umidità la vegetazione si sviluppa con gran vigore. Terreni di siffatta genesi si riscontrano anche in Italia, nella collina di Torino.

Infine ricordiamo alcune terre rosse d’origine eolica, che si ottengono quando il materiale detritico, privato della parte calcarea per azioni di decomposizione, ricco di materiali insolubili, è trasportato in siti lontani per opera del vento.

RICONOSCIMENTO PRATICO DEL TERRENO

Un aspetto pratico di notevole importanza nello studio del terreno agrario è il saperne riconoscere, grosso modo, l’origine, sia per quanto attiene la composizione mineralogica, sia per quanto riguarda la provenienza del substrato.

Il problema non è semplice da risolvere poiché è necessaria una buona preparazione in alcune materie come la chimica, la mineralogia, la pedologia ed altre discipline affini e specialistiche.

Ogni minerale e ciascun terreno costituito da diversi composti, semplici o complessi, possiedono speciali caratteristiche che ne permettono una specifica identificazione, ma i mezzi e le metodiche sono spesso laboriosi e presuppongono

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approfondite conoscenze. Tuttavia alcuni saggi preliminari, con riferimento al riconoscimento dei minerali,

ed attente osservazioni attinenti la posizione del terreno e l’esame delle particelle grossolane che costituiscono il suolo possono spesso bastare per avere utili elementi d’identificazione.

Il riconoscimento pratico di un terreno comporta l’individuazione dei minerali che lo costituiscono e l’analisi di alcuni parametri che consentono di comprendere la provenienza del substrato pedologico.

Riconoscimento pratico di alcuni minerali

Il riconoscimento dei minerali richiede una specifica preparazione che si può ottenere dallo studio di apposite discipline.

Tuttavia alcuni saggi preliminari possono orientare e guidare circa la presenza di alcuni minerali.

In primo luogo, nel tentare il riconoscimento della composizione mineralogica di un terreno agrario, è consigliabile consultare le carte geolitologiche della zona dove è ubicato il terreno oggetto di studio, giacché la conoscenza della roccia madre può fornire validi elementi orientativi sulla presenza di un minerale anziché un altro.

Un terreno ricco in particelle colloidali deve prima essere privato delle stesse con la levigazione e, qualora la superficie delle particelle minerali è incrostata, asportando tale rivestimento con acido ossalico o cloridrico, prestando attenzione a non modificare la composizione chimica originaria.

Sul materiale così ottenuto si fanno le prime osservazioni sull’aspetto, colore, lucentezza, stato di conservazione e si separano i minerali cristallini da quelli in granuli o squame.

Queste ultime - indicanti presenza di miche, talco, cloriti - si possono separare facendo scorrere il tutto su un foglio di carta ruvida; esse rimangono aderenti alle asperità e potranno essere esaminate.

Un tipo di analisi relativamente sofisticata, basata sull'osservazione microscopica, per l'individuazione dei minerali presenti nella roccia, da cui ha avuto origine il terreno, avviene mediante la tecnica delle sezioni sottili, per la quale un frammento di roccia, di dimensione dell'ordine di un centimetro, è fissato su un vetrino e, mediante molatura, ridotto ad una lamina a facce piane e parallele, di spessore che non superi qualche centesimo di millimetro. Il preparato viene quindi studiato e la roccia è classificata in base alle proprietà che si evidenziano con l'uso del microscopio polarizzatore, il quale permette di individuare i minerali presenti sulla scorta delle loro proprietà ottiche.

Gli elementi fisici che vanno esaminati sono: il colore – assente o biancastro (quarzo, opale, feldspati, nefelina, leucite, natrolite, analcime, gesso, anidrite, calcite, aragonite, magnesite, dolomite), giallastro (pirite, marcasite, pirrotina, limonite, siderite, titanite, quarzo citrino, zolfo), verde (olivina, serpentino, cloriti, apatite, diallagio, diopside, augite, pistacite, talco), nero o verde scuro (orneblenda, ipersteno, magnetite, ilmenite, biotite), bruno o grigio (quarzo grigio, ematite, bronzite), rosso (almandino, ortoclasio, rutilo, zircone), azzurro o violetto (ametista, vivianite) – la lucentezza (così l’aspetto metallico di certe particelle può indicare presenza di pirite, pirrotina, magnetite, ematite o ilmenite), la durezza (tenendo presente, empiricamente, che l’unghia del pollice è capace di rigare minerali di durezza fino a 2 della scala di Mohs, che una moneta o una solida punta di rame riga durezze inferiori a 3, che minerali che rigano il vetro hanno durezza superiore a 5 o 6, che uno spillo d’acciaio riga minerali di durezza inferiore a 6,

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che minerali con durezza 7 sprigionano scintille se percossi con metalli), il peso specifico se possibile.

Con questi esami fisici preliminari è possibile ottenere alcuni elementi di giudizio che possono essere completati ricorrendo ad alcuni saggi chimici.

Alcuni di questi sono sintetizzati nella tabella 7 la quale riporta il trattamento chimico cui sottoporre il campione, i composti o minerali che passano, lentamente o rapidamente in soluzione, gli eventuali gas prodotti a seguito dell’effervescenza sviluppata durante la reazione, l’eventuale residuo o precipitato ottenuto e l’eventuale colorazione della soluzione.

Tab. 7 – Trattamenti chimici e corrispondente passaggio in soluzione dei sali del minerale, effervescenza e sviluppo di gas, residuo e colore della soluzione, per il riconoscimento orientativo della composizione mineralogica di un terreno.

Trattamento Passaggio in soluzione rapido lento (1) (2)

Gas prodotti

(1) (2)

Residuo Coloredella

soluzioneH2O distill. cloruri, bicarbonati, carbonati, solfati - - - incolore

nitrati, solfati (gesso) ed - - - incoloreHCl al 10% calcite, aragonite altri carbonati CO2 CO2 - incolore

magnetite, limonite, - CO2 Fe2O3 giallo

siderite, rodocrosite, - CO2 Fe2O3 giallo

pirrotina - H2S S

apatite, vivianite, Ca3(PO4)2

nefelina, sodalite SiO2

HCl dolomite, magnesite CO2 -

siderite, CO2 - FeO giallo

alcuni solfuri apirite H2S S

plagioclasi basici SiO2

ematite, goethite, Fe2O3 giallo

ilmenite Fe2O3 giallo

HCl bollente

pirosseni, anfiboli Fe2O3 giallo

H2SO4 biotite, zircone, caolino

HF quarzo e feldspati augite, orneblenda,epidoto, muscovite,talco

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La ricerca principale, una volta trattati i minerali estratti dal terreno con acqua o gli acidi inorganici indicati in tabella 7, sarà rivolta all’individuazione dei singoli anioni e cationi.

Senza ricorrere ad analisi sofisticate, spesso di elevato costo, o ad attrezzature di gran precisione, come lo spettrofotometro o quello ad assorbimento atomico, il riconoscimento dei principali composti costituenti i minerali del terreno può effettuarsi ricorrendo ad alcuni saggi ed impiegando alcuni reattivi.

Così, per esempio, la determinazione dei carbonati, come quelli contenuti nel calcare, si effettua sottoponendo il campione a trattamento con acido cloridrico. Dal volume d’anidride carbonica svolta si risale al contenuto in calcare (metodo gasvolumetrico).

L’apparecchiatura che si usa è il calcimetro e fra i tanti che si conoscono, quello più preciso, è il calcimetro Dietrich Fruhling che permette di eseguire accurate correzioni rispetto alla temperatura (da 10 a 25 °C) ed alla pressione atmosferica (da 720 a 786 tor). I reattivi che si impiegano sono semplicemente rappresentati dall’acido cloridrico (HCl densità = 1,18) diluito 1:1.

Il risultato della determinazione si esprime come CaCO3%.

Un'altra analisi di laboratorio che spesso è indispensabile effettuare per i terreni è la determinazione del calcare attivo.

Mentre il calcare totale misura la percentuale di carbonato di calcio presente nel campione, la determinazione del calcare attivo che esprime la caratteristica del calcare di passare o meno facilmente in soluzione.

I reattivi occorrenti per questa determinazione sono l’ossalato di ammonio (NH4−COO−COO−NH4⋅H2O), soluzione 0,2 N (14,212 g/l), il permanganato di potassio (KMnO4), soluzione 0,1 N (3,161 g/l), l’acido solforico concentrato (H2SO4 d = 1,84) diluito 1:10, il cloruro di ammonio (NH4Cl), soluzione satura, il solfato di alluminio [Al2(SO4)3], soluzione al 50% e, infine, l’ammoniaca (NH3 d = 0,892).

Un campione del peso di 10,0 g si addiziona di 250 ml della soluzione di ossalato d’ammonio e si sottopone ad agitazione meccanica per due ore.

Si filtra: 20 ml di filtrato si titolano a caldo (60-70 °C) con permanganato di potassio in presenza di acido solforico.

Contemporaneamente si effettua una prova in bianco su 20 ml della soluzione di ossalato d’ammonio. Il calcare attivo percentuale è dato dalla seguente relazione:

Calcare attivo % = (A-B) ⋅ N ⋅ 50 ⋅ 0,125

dove: A = ml di KMnO4 usati nella prova in bianco; B = ml di KMnO4 usati nella prova con il campione; N = normalità di KMnO4; 50 = peso equivalente CaCO3.

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Tab. 8 – Determinazione di alcuni anioni e cationi, ottenuti per solubilizzazione in acqua, mediante trattamento delle soluzioni con specifici reattivi e successivo esame del colore e dei composti precipitati.

Anione Catione Trattamento Soluzione PrecipitatoAspetto Composto

Cl¯ AgNO3 intorbidamento Bianco-caseoso AgCl2

SO42¯ BaCl2 intorbidamento Bianco BaSO4

CO32¯ HCl intorbidamento CO2

NO3¯ H2SO4 + difenilamina blu scuro

NO2¯ Ac. Acetico + FeSO4 bruno-scura

PO43¯ HNO3 + (NH4)2MoO4 Giallo (NH4)3 PO4· 12MoO3

F¯ H2SO4 HF (1)

Ca2+ NH4 ossalato Bianco-cristallino Ca ossalato

Mg2+ Na2HPO4 + NH4OH Bianco-cristallino NH4MgPO4

Na+ K2H2Sb2O7 Bianco Na2H2Sb2O7

K+ HClO4 Bianco KClO4

Fe2+ HNO3 + NH4OH Rosso-fioccoso Fe(OH)3

Al3+ HNO3 + NH4OH Bianco-fioccoso Al(OH)3

NH4+ NaOH oppure KOH NH3 ↑ (2)

(1) si riconosce perché intacca il vetro del contenitore(2) forte odore di ammoniaca che si svolge dalla soluzione.

Alcuni saggi principali di laboratorio sono sinteticamente riportati in tabella 8, per quanto concerne quelli ottenuti per solubilizzazione in acqua, ed in tabella 9, per quelli ottenuti per solubilizzazione del minerale in acido cloridrico diluito, in acido cloridrico concentrato ed eventualmente a caldo, in acido solforico concentrato e in acido fluoridrico.

Sono state date alcune indicazioni per un sommario orientamento nel riconoscimento di minerali costituenti il terreno.

Tuttavia, un lavoro di questo tipo presuppone, fra l’altro, una certa cultura e pratica di chimica analitica ed il poter disporre di una certa attrezzatura, anche se relativamente modesta. Ad ogni modo non è una competenza precipua dell’agronomo pedologo l’esatta identificazione della mineralogia del terreno, al quale basta, per le sue finalità, riconoscere ed identificare i principali, più importanti e diffusi minerali, e rilevare la presenza di quelli più complessi, i quali dovranno essere inviati presso appositi laboratori di mineralogia e di analisi geopedologica.

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Tab. 9 – Saggi da effettuare sui minerali che non sono passati in soluzione in acqua distillata e corrispondente risposta ai trattamenti effettuati.

Solubilità del Minerali da Trattamento Rispostaminerale distinguere o osservazione

HCl 10% Calcite e Bollitura del minerale IncoloreAragonite in Co(NO3)2 al 5-10%. Colorazione violetta

Calcite, Soluzione di allume. SolubileDolomite e InsolubileSilicati InsolubileMagnetite e Debole calamita. AttrazionePirrotina Forte calamita. AttrazioneVivianite soluzione. Colorazione nera

HCl concentrato Carbonati diversi Ricerca di Ca, Fe e Mg.Olivina, Osservare la forma dei Serpentino e cristalli, la durezza, il Glauconite colore.

H2SO4 concentr.

Biotite Esame dei cristalli. Colore rosso-bruno o nero

Zircone Esame dei cristalli. Colore giallo o rossiccio

Caolino KOH o NaOH. SolubileHF Quarzo

CalcedonioOrtoclasio Ricerca del potassio. PositivaAlbite Ricerca del sodio. PositivaOpale NaOH bollente Solubile

Riconoscimento pratico della provenienza del substrato pedologicoPer avere un orientamento, circa l’individuazione della provenienza del substrato

costituente un terreno agrario è necessario individuarne la posizione ed osservare i detriti più grossolani che vanno sotto il nome di scheletro.

POSIZIONE DEL TERRENO

E’ un importante parametro per riconoscere l’origine di un terreno. Pertanto, la prima cosa da fare è osservarne attentamente la posizione. Così un terreno posto in cima ad una montagna, nella sua parte piana, sarà certamente un terreno autoctono, o parautoctono, non potendo aver ricevuto il materiale detritico da nessuna altra parte. Se si guardano le pendici dello stesso rilievo, si può osservare lungo di esse presenza di terra

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che sarà classificata di tipo alloctono-colluviale essendosi formata esclusivamente per caduta del detrito. Se il terreno si trova alla base della montagna, lungo la pianura che normalmente si estende alle falde, si può pensare ad un terreno alloctono alluvionale, trasportato dalle acque correnti e che ruscellano lungo i pendii (figura 1).

Fig. 1 – Esempio di individuazione orientativa dell’origine cinetica del terreno in rapporto alla sua posizione.

Saranno citati altri esempi in cui l’esame della posizione del terreno consente, orientativamente, di stabilirne l’origine. Qualora il terreno, di cui si vuol conoscere l’origine, si trova in pianura, in prossimità del letto di un fiume, il terreno è d’origine alluvionale, mentre se lo stesso terreno si trova in prossimità di un vulcano esso può definirsi un terreno vulcanico rimaneggiato, poiché costituito da detriti alluvionali, apportati dal corso d’acqua, e da materiale piroclastico proveniente dall’attività eruttiva. Un esempio tipico di terreno vulcanico rimaneggiato si riscontra nella pianura del Sarno in Campania, in cui si ritrovano detriti alluvionali apportati dal fiume Sarno e materiali piroclastici originari del Vesuvio. Nel caso in cui il terreno si trova in zona dove c’era un bacino a vegetazione lacustre esso potrebbe essere un terreno torboso, autoctono d’accumulazione.

SCHELETRO DEL TERRENOCon gran difficoltà un agricoltore potrà essere in grado di identificare con sicurezza

le rocce che costituiscono lo scheletro del proprio terreno, sempre che egli non si rivolga ad un laboratorio di petrografia. Tuttavia egli potrà consultare le carte geologiche regionali, in scala 1:100.000, e rilevare il periodo geologico delle rocce affioranti e l’indicazione della composizione mineralogica. Sempre dall’esame delle carte geologiche, l’agricoltore potrà facilmente stabilire se il terreno riposa su rocce di origine eruttiva, oppure su complessi sedimentari o su altri tipi come, per esempio, scisti cristalline. Se si tratta di rocce eruttive è possibile conoscere la loro qualità perché di solito è specificata; graniti, basalti trachiti sono distinguibili dal differente colore e da apposite sigle. Se invece si tratta di rocce sedimentarie è possibile apprendere la loro natura e capire se il materiale affiorante è rappresentato da calcari o dolomie, se ci si trova di fronte a rocce argillose o arenacee o arenacee-marnose.

Nel caso in cui il terreno non è adagiato su affioramenti rocciosi indicati nelle carte geologiche perché, per esempio, fa parte di un complesso alluvionale di trasporto o di masse d’accumulo glaciale, le carte geologiche possono ancora fornire un valido aiuto nel riconoscimento dello scheletro del terreno. Basta rintracciare il bacino

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d’alimentazione del corso d’acqua, che ha depositato l’alluvione, o quello del ghiacciaio generatore, per venire a conoscenza delle caratteristiche delle rocce affioranti e della loro distribuzione.

Le carte geoagronomiche, le quali sono purtroppo ancora poche, possono essere utilizzate per avere una maggiore quantità di informazioni.

L’esame dello scheletro, vale a dire della parte dalle dimensioni più grossolane, consente di ottenere importanti informazioni sull’origine del terreno. Così un terreno formato da parti con una superficie arrotondata e levigata è d’origine alluvionale, mentre se lo scheletro è a spigoli vivi e bene evidenti il terreno è di tipo autoctono-colluviale. Un terreno d’origine morenica ha uno scheletro con parti con una sola superficie piana, non levigata bensì striata, come conseguenza dello strofinio con la roccia sottostante durante il movimento del ghiacciaio. Un terreno d’origine marina possiede detriti di forma piatta e con spigoli arrotondati, in rapporto al moto ondoso. I terreni piroclastici hanno uno scheletro formato da cenere e lapilli ma senza particolari caratteristiche formative.

Stratificazione e Stratigrafia del terreno

Un’altra caratteristica statica di un terreno agrario è la sua disposizione in strati omogenei, sovrapposti gli uni agli altri. Tale sovrapposizione si evidenzia facendo una sezione verticale del terreno attraverso cui è possibile mettere in luce il profilo. Lo studio del profilo del terreno e del terreno agrario ha evidenziato una diversità di opinioni tra i pedologi e gli agronomi, d’altra parte giustificata dalla diversa formazione colturale e dalle differenti finalità che si pongono le due professioni.

Da un punto di vista strettamente pedologico, il profilo del terreno evidenzia, a partire dall’alto verso il basso, diversi strati, detti orizzonti, in quanto i loro confini sono spesso, ma non sempre, ad andamento orizzontale. Questi possono presentare un’ulteriore differenziazione in sottorizzonti. La nomenclatura che n’è derivata, tuttavia, si è andata nel tempo evolvendosi, ma anche complicandosi ed ha subìto numerose modificazioni. Nel trattare quest’argomento, per facilitarne la comprensione, si cercherà di indicare sia la vecchia nomenclatura, sia quella più recente, proposta, quest’ultima, per un’adozione ad uso internazionale.

I classici studi relativi al profilo del terreno hanno consentito di mettere in evidenza cinque differenti strati i cui nomi derivano fondamentalmente dalla loro posizione lungo la verticale e dalla loro origine e genesi. Tali strati sono l'orizzonte umifero superficiale, l'orizzonte eluviale, l'orizzonte illuviale, l'orizzonte di transizione e la roccia madre.

ORIZZONTE UMIFERO SUPERFICIALE

L'orizzonte umifero superficiale si ritrova in zone ricoperte da intensa vegetazione spontanea, anche di tipo forestale. E’ indicato anche come orizzonte A0 o strato organico. E’ possibile distinguere tre sottorizzonti, ognuno dei quali rappresenta uno stadio successivo di decomposizione della materia organica. Essi sono indicati con lettere alfabetiche, provviste di apici e pedici:1) Sottorizzonte A00 o A’0, contrassegnato, più recentemente come O a è quello più

superficiale, costituito da materiale vegetale di recente caduta, il cui riconoscimento (foglie, rami, frutti) è ancora possibile ad occhio nudo, perché le diverse parti anatomiche delle piante hanno ancora conservato la loro forma.

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2) Sottorizzonte A0 o A’’0, chiamato più di recente O2, è costituito da residui organici in avanzato stadio di decomposizione attuata da una fauna costituita principalmente da insetti, raramente anellidi che trovano in tale strato un ambiente non favorevole a causa dei valori di pH nettamente in campo acido o subacido, e da microrganismi di tipo fungino. Le spoglie delle piante sono quasi scomparse, permanendo soltanto quelle più resistenti che hanno in ogni modo perso la coesione e si frantumano a seguito di piccole pressioni.

3) Sottorizzonte A’’’0, da alcuni considerato come parte integrante del precedente orizzonte, è il terzo orizzonte organico, costituito da detriti non più riconoscibili, perché ormai di consistenza terrosa, di colore nerastro o bruno scuro per la presenza di sostanza organica completamente umificata.

ORIZZONTE ELUVIALE

L'orizzonte eluviale è situato al disotto di quello organico superficiale ed è attraversato dalle acque meteoriche. E’ indicato come orizzonte A nel quale si distinguono due sottorizzonti:1) Sottorizzonte A1, prevalentemente inorganico è commisto ad una certa quantità di

materia organica, infiltratosi dall’alto per opera dell’acqua di drenaggio, la quale conferisce un colore che va dal grigio al nerastro, in relazione alla quantità di composti umiferi.

2) Sottorizzonte A2, caratterizzato da povertà di sostanza organica e carenza di sesquiossidi ferroalluminici colloidali asportati dall’acqua meteorica che attraversa questi orizzonti, è di un colore chiaro che va dal biancastro fino al niveo, in rapporto ai livelli d’asportazione.

ORIZZONTE ILLUVIALE

L'orizzonte illuviale è indicato come orizzonte B e può essere considerato uno strato di accumulazione in quanto contiene una parte delle sostanze asportate dagli strati sovrastanti. Tali sostanze si arrestano proprio in questo orizzonte per alcune cause principali: per esaurimento delle acque di infiltrazione; per ritenuta meccanica da parte delle particelle più fini, dovuta alla diminuita permeabilità e porosità di questo spessore di terreno; per precipitazione chimico-colloidale dovuto alla flocculazione e pectizzazione delle sostanze in soluzione, causata dalle cariche elettriche dei cationi che sono qui presenti ad elevata concentrazione. Si possono riconoscere diversi sottorizzonti, caratterizzati da specifiche gradazioni di colore, che sono indicati dalla lettera B, con un pedice numerico progressivo, a partire da 1, o letterale. Così, i diversi sottorizzonti possono essere indicati come B1, B2, B3 ed oltre, per indicare progressive variazioni delle caratteristiche pedologiche osservabili nello spessore dell’orizzonte illuviale, ma è possibile anche indicarli come Bh , Bs per riferirsi ad un sottorizzonte arricchito, rispettivamente, di sostanze organiche umificate, di colore nero, o di sesquiossidi di ferro e di alluminio, di colore rosso ruggine.

ORIZZONTE DI TRANSIZIONE

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53 Il terreno

L'orizzonte di transizione si riscontra nel caso in cui la linea di separazione fra un orizzonte e l’altro non sia netta, ma graduale o compenetrata, tanto da dar luogo a forme miste non scindibili. Vari sono i criteri per contrassegnare questi orizzonti. Si indica con A3 quel sottorizzonte transiente tra A e B, i cui caratteri sono più vicini ad A; si contrassegna con AB quello nella cui parte superiore prevalgono le caratteristiche di A ed in quella inferiore le caratteristiche di B, senza che sia possibile una netta separazione; quello strato che avrebbe potuto qualificarsi con A2 e che racchiude parti con caratteri di B nella misura inferiore al 50% si denomina “A e B” e “B ed A” nel caso contrario.

ROCCIA MADRE

La roccia madre rappresenta l’orizzonte più profondo ed è costituita da quella parte ancora inalterata del substrato, indicata con la lettera C. Anche qui è possibile distinguere diversi sottorizzonti, i quali vengono di seguito indicati: 1) Sottorizzonti C1, rappresenta il passaggio fra la parte ancora in fase di disfacimento e

quella ancora inalterata del substrato.2) Sottorizzonte C2, viene a sussistere soltanto in presenza del precedente sottorizzonte

perché, in tal caso verrebbe a rappresentare la parte inalterata del substrato.3) Sottorizzonte D, per indicare uno strato diverso da quello dell’autentica roccia madre

del terreno, la cui presenza indica un suo ruolo sul processo di pedogenesi.4) Sottorizzonte G, che si riferisce ad uno strato di ossidoriduzione, frequente in terreni

umidi o palustri, dove l’eccessivo ristagno idrico ha causato mancanza di aerazione, fenomeni di riduzione, colorito bluastro impartito da composti ferrosi.

Va anche ricordato che spesso si adottano lettere minuscole, come pedice di maiuscole, per indicare particolarità chimiche dell’orizzonte (presenza di calcare, gesso, sali, sesquiossidi ferroalluminici).

La classificazione degli orizzonti testé citata ha riportato alcune modifiche e variazioni. Secondo questa più recente proposta, assurta a nomenclatura internazionale, nel profilo stratigrafico del terreno si distinguono gli orizzonti principali, orizzonti di transizione e sottorizzonti.

Gli orizzonti principali sono indicati con le maiuscole O, A, E, B, C, G, R. Vengono di seguito sintetizzate le principali caratteristiche di tali orizzonti:O: orizzonte superiore del terreno costituito da sostanza organica fresca o parzialmente

decomposta in buone condizioni d’aerazione, non inferiore al 30%, qualora la frazione inorganica del terreno abbia oltre il 50% d’argilla, o al 20% se quel terreno è privo d’argilla. Per contenuti d’argilla inferiori al 50%, la corrispondente quantità di sostanza organica va calcolata proporzionalmente a quella dell’argilla presente.

A: orizzonte prossimo alla superficie del suolo costituito da un accumulo di sostanza organica umificata intimamente frammista con la frazione inorganica del suolo. La quantità di materia organica deve essere inferiore al 30% se quell’inorganica ha un contenuto in argilla superiore al 50%, oppure inferiore al 20% se l’argilla è assente. Per quantità d’argilla inferiori al 50% deve corrispondere una percentuale di materia organica proporzionale.

E: orizzonte seguente quello precedente con contenuti di sostanza organica, argilla e sesquiossidi minori di quelli dello strato successivo, con apparente arricchimento in quarzo e altri minerali poco decomponibili, riconoscibile per un colore più sbiadito.

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B: orizzonte contenente, singolarmente o frammisti, argilla, sesquiossidi e sostanza organica, ivi giunti dagli strati sovrastanti, per illuviazione, con le acque di drenaggio, oppure costituenti un accumulo residuale. In rapporto all’illuviazione, presenta un arricchimento in carbonati di calcio e magnesio, in solfati ed altri sali più solubili.

C: orizzonte formato da materiale non consolidato con accumuli di carbonati, solfati e sali più solubili.

G: orizzonte con caratteri particolari per avvenuti processi di riduzione avvenuti in ambiente anaerobiotico quale quello sommerso da acque. Il colore è bluastro, verdiccio o grigiastro per l’assenza di materiali ossidati.

R: orizzonte costituito dalla solida roccia madre.Confrontando quest’ultima classificazione con la precedente, gli strati O ed A

potrebbero, grossolanamente, coincidere con l’orizzonte organico A0, lo strato E con quello eluviale A, l’orizzonte B e C con quello illuviale ed indicato con la stessa lettera, l’orizzonte G con il sottorizzonte G, l’orizzonte C con quello R perché ambedue costituenti la roccia madre.

Gli orizzonti di transizione sono considerati e classificati alla stessa stregua della precedente classificazione e pertanto non si ritiene di soffermarsi ulteriormente.

I sottorizzonti emergono con tutta la loro importanza quando l’orizzonte principale presenta delle peculiarità e specializzazioni che vanno evidenziate. Si indicano con la lettera maiuscola dell’orizzonte principale seguita da un numero ed eventualmente una lettera minuscola. Il numero può ad esempio indicare differenti gradazioni di colore dello stesso orizzonte, mentre la lettera si riferisce ad un arricchimento in un particolare materiale. In quest’ultimo caso è necessario rifarsi alla nomenclatura internazionale che indica la lettera a (riferita all’orizzonte A, quando la materia organica è ben decomposta e si trova accumulata in un ambiente idroforo), b (è usata per orizzonti sepolti), ca, cs, cn (indicano arricchimenti di carbonato e solfato di calcio e di sesquiossidi), f (sostanza organica parzialmente scomposta nell’orizzonte O), fe (accumulo illuviale di ferro nell’orizzonte B), g (chiazze dovute a condizioni di riduzione ed ossidazione causate da periodiche saturazioni con acqua), h (presenza di sostanza organica ben decomposta negli orizzonti O e A, non disturbati, e nell’orizzonte B per arricchimenti illuviali di materia organica o torba), l (presenza di materia organica d’origine animale nell’orizzonte O), m (per un orizzonte fortemente cementificato o indurito), na, sa (per accumulo di sodio e di sali più solubili del gesso nel complesso di scambio, rispettivamente, nell’orizzonte B), o (sostanza organica poco decomposta, come le torbe, accumulatasi in ambiente idromorfo), ox (accumulo di sesquiossidi nell’orizzonte B), p (per l’orizzonte A disturbato a seguito di aratura), r (presenza di strati di ghiaino), t (arricchimento illuviale di argilla nell’orizzonte B), v (arricchimento residuale, cioè in posto, di argilla), x (frangipan).

Sono state date indicazioni sulla stratigrafia del terreno, caratteristica abbastanza statica di un terreno agrario, almeno per quanto concerne gli strati posti al disotto di quelli disturbati dall’esercizio di attività agricole. La trattazione è stata effettuata, principalmente, sotto un’ottica di pedologia che tende a porre su di un piano secondario, rispetto all’agronomia, la coltivazione delle piante e l’influenza che ha il terreno su di essa. In altri termini, per un agronomo, può poco interessare l’esistenza di un sottorizzonte G quando questo si trova a profondità tale da non interessare le radici delle piante e non o poco influire sulla cinetica dell’acqua. Tale strato, però, potrebbe diventare importante qualora si trovasse più in superficie tanto da poter interessare lo sviluppo delle radici ed i movimenti dell’acqua utili per le piante; anzi l’orizzonte G, preso ad esempio, potrebbe divenire sede di lavorazioni agricole (ripuntature, arature), di cui si

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tratterà più avanti, con perdita delle caratteristiche peculiari, strettamente legate a processi di riduzione, nel caso specifico, ed acquisizione di nuove, completamente opposte.

Da un punto di vista agronomico, la stratigrafia del terreno riduce quest’ultimo, semplicemente, a due livelli: il suolo, la parte più superficiale dove avviene lo sviluppo delle radici delle piante agrarie ed il sottosuolo, la porzione sottostante, poggiante sulla roccia madre, non interessata all’accoglimento ed all’accrescimento dell’apparato radicale. Il suolo è stato poi distinto in strato attivo e strato inerte. Possono poi esistere, come si vedrà, i cosiddetti stati di inibizione. Tutti questi strati ora elencati saranno singolarmente descritti, facendo altresì riferimento alla loro evoluzione che hanno subìto nel tempo.

SUOLO

E’ quella parte più superficiale del profilo della crosta terrestre, a contatto con l’atmosfera, che fa da supporto alla vegetazione e, pertanto, sede di sviluppo delle radici delle piante.

Il suolo è un corpo dinamico naturale, che costituisce quella parte della superficie della terra, derivante dall’azione integrata, nel tempo, del clima, della morfologia, della roccia madre e degli organismi viventi.

Esso viene generalmente considerato come sinonimo di terreno, anche se sulla distinzione tra i due termini e sulla loro accezione si possono registrare disparità di vedute. Tuttavia, gli argomenti portati a favore dell’una o dell’altra tendenza sono spesso inconsistenti e poco dovrebbe importare se il geologo, l’ingegnere, il microbiologo e finanche il giurista ed il legislatore ed altre categorie di tecnici usano i termini in senso traslato, una volta assodato che alla stessa parola si dà un significato, senza possibilità di equivoci, come quello indicato in questa sede.

Il suolo è da ritenere una risorsa naturale rinnovabile molto fragile perché se sono necessari millenni per la sua formazione, fatti ambientali ed antropici possono provocare dissesti idraulico-forestali e la conseguente distruzione in un tempo dell’ordine di grandezza di anni e addirittura di ore. Pertanto, la conoscenza del suolo e gli interventi di difesa (sistemazioni idraulico-agrarie ed idraulico-forestali) sono di importanza vitale per un territorio e per l’economia di un paese, essendo il suolo il luogo ed il supporto per la produzione primaria (derrate alimentari, materie prime per l’industria, risorse energetiche).

Ora saranno presi in esame quegli aspetti del suolo che permettono di approfondirne la conoscenza. Ciò è di grande importanza per allestire e mettere in atto un complesso di opere per la gestione della difesa del suolo. Per esempio le sistemazioni del terreno possono evitare o limitare danni al territorio (erosione idrometeorica, eolica e marina; alluvionamento e frane; subsidenza, cioè abbassamento del livello del suolo), alle cose ed alle persone; l’adeguata gestione del territorio può evitare la perdita di terreni fertili per uso improprio (insediamenti industriali e di infrastrutture inutili) ed evitare l’inquinamento del suolo da parte di rifiuti industriali ed urbani, nonché erbicidi, pesticidi e fertilizzanti usati indiscriminatamente in agricoltura. Gravi conseguenze ambientali, rappresentate da una pesante diminuzione della fertilità ed un grave isterilimento del terreno, possono essere evitate se viene attuata una razionale conservazione del suolo ed un'opportuna gestione territoriale.

Il suolo va studiato considerandone la natura e lo spessore, quest’ultimo

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denominato anche potenza. Circa la natura del suolo va detto che i terreni autoctoni sono di natura molto

uniforme, non differente, in modo sostanziale, da quella del sottosuolo, poiché il suolo è il risultato della disgregazione e decomposizione degli elementi grossolani del sottosuolo. Soltanto i suoli di terreni autoctoni, che hanno subito processi di lisciviazione o fenomeni carsici (terre rosse), possono essere di natura differente da quella del sottosuolo. I terreni alloctoni e parautoctoni hanno suolo e sottosuolo di natura diversa, in rapporto al processo di pedogenesi.

Con riguardo alla potenza del suolo, va subito specificato che il terreno ha uno spessore molto variabile che va da pochi centimetri ad oltre 40 m come nei loess. In relazione allo spessore del suolo i terreni si distinguono in:a) terreni a roccia nuda o affiorante se il sottosuolo roccioso emerge in maniera più o

meno discontinua nei vari punti di una superficie. Sono in genere terreni poveri, dove le lavorazioni sono difficili per il pericolo di rovinare gli attrezzi, che tendono, spesso, a degradarsi ulteriormente sotto l’azione del vento e dell’acqua;

b) terreni superficiali sono quei terreni di limitato spessore, di origine autoctona residuale o parautoctona che si ritrovano nelle parti piane di rilievi e montagne;

c) terreni mediamente profondi sono quelli la cui potenza varia tra 40 e 50 cm. Sono questi i terreni parautoctoni di pianura che con il tempo, a seguito di fenomeni di accumulo e sedimentazione, possono ulteriormente incrementare il loro spessore;

d) terreni profondi e profondissimi sono quelli alloctoni alluvionali ed eolici (loess) che possono raggiungere anche i 40 m di potenza.

In quest’ultimo caso, le piante coltivate, in relazione alla specie, possono non riuscire ad utilizzare ed occupare tutto il grande spessore di terreno disponibile.Va ancora detto che le lavorazioni del terreno e tutti gli altri interventi antropici che derivano dalla pratica agricola, possono interessare soltanto alcune decine di centimetri. Di conseguenza si viene a costituire, tra lo strato di terreno interessato dalla coltivazione e quello sottostante, non disturbato dagli interventi agricoli ed anche se occupato dalle radici che qui possono approfondirsi, una differenziazione più o meno netta in strato attivo, detto anche strato arabile perché interessato dalle lavorazioni più profonde (arature), e strato inerte.

Strato attivoE’ la parte più superficiale del terreno che riceve le lavorazioni, le concimazioni, le

irrigazioni, gli ammendamenti e le correzioni e tutte quelle operazioni che sono attuate nella pratica agricola. Pertanto esso si presenta più soffice, arieggiato e permeabile all’acqua.

Lo strato attivo è quello più ricco in materia organica, sia perché accoglie i residui delle piante coltivate e gli escrementi degli animali allevati allo stato brado (pascoli), sia perché contiene la più elevata massa di radici, che qui trovano le migliori condizioni d’abitabilità a causa degli interventi agricoli, sia perché riceve le concimazioni organiche (letame, sovescio). Per tale motivo esso presenta una tinta più o meno scura. Tuttavia si possono verificare condizioni in cui tale strato diventa più povero di materia organica, proprio a causa della maggiore esposizione all’ambiente atmosferico. Così, per esempio, nei climi caldi e aridi, l’elevata temperatura e la scarsità d’acqua causano un’eccessiva e rapida mineralizzazione, fino all’incenerimento (eremacausi), della sostanza organica, con conseguente impoverimento del terreno. Infatti, terreni originariamente ricchi di materia organica (praterie, paludi, torbiere) e successivamente messi a coltura, a causa di particolari condizioni climatiche ed antropiche, possono aver mineralizzato gran parte

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della sostanza organica soltanto in corrispondenza dello strato attivo superficiale, mentre quello sottostante ha dato luogo ad un processo di decomposizione che è stato molto limitato (cernozem e podsoli). In questo caso anche il colore tende a cambiare assumendo una tinta chiara, grigia o bianca.

Lo strato attivo, rispetto agli altri orizzonti, è quello che contiene i più elevati quantitativi di azoto organico e minerale. Ciò perché è lo strato più ricco in materia organica ed è lo strato che è sottoposto alla migliore aerazione, proprio perché occupa la posizione più superficiale. Conseguentemente, è lo strato che manifesta la più elevata attività microbiologica, particolarmente quella che determina la trasformazione dell’azoto organico in azoto minerale e quella legata all’opera dei batteri azotofissatori. Tuttavia, l’acqua meteorica, ma anche quella d’irrigazione, in quantità eccessiva, tale da attraversare tutto lo spessore dello strato attivo, può indurre ingenti perdite d’azoto, soprattutto quello in forma nitrica, che va ad accumularsi negli strati più profondi e finanche nella falda.

Lo strato attivo presenta i più elevati quantitativi di fosforo scambiabile, perché è proprio in tale orizzonte che si realizzano gli apporti di materia organica e di concimazione fosfatica. Le piante contribuiscono all’arricchimento in fosforo di questo strato di terreno; infatti, a seguito della crescita ed approfondimento dell’apparato radicale, esse raggiungono lo strato inerte sottostante e sottraggono fosforo scambiabile che è poi portato più in superficie. Bisogna anche ricordare che il potere assorbente del terreno è in grado di trattenere il fosforo scambiabile, apportato con le concimazioni, impedendone la mobilizzazione ed il trasporto nello strato sottostante, per opera delle acque di drenaggio.

Lo strato attivo possiede, rispetto agli altri strati, i più elevati contenuti di potassio scambiabile, per gli stessi motivi indicati a proposito del fosforo.

Nei nostri climi, lo strato attivo presenta, sempre rispetto agli altri orizzonti del suolo, i più bassi contenuti in calcio, espresso come calcare. Infatti, quest’elemento tende ad accumularsi nello strato inerte sottostante in relazione al fatto che il carbonato di calcio può essere facilmente mobilizzato dalle acque meteoriche o d’irrigazione, particolarmente quando presentano elevati tenori d’anidride carbonica.

Lo strato attivo, in terreni compatti ed a ridotta permeabilità, assoggettati al ristagno idrico, può altresì presentare le minori quantità di composti di ferro, manganese, solfo, soprattutto sali in cui questi elementi sono al minimo di ossidazione, i quali vanno ad accumularsi nello strato sottostante.

Lo strato attivo, quando ricco di scheletro, può evidenziare anche i più bassi quantitativi di materiale argilliforme, che è trasportato con le acque meteoriche e di irrigazione nello strato inerte.

Strato inerteE’ chiamato anche strato vergine e rappresenta lo strato sottostante a quello attivo

che non riceve direttamente le lavorazioni e tutte le altre pratiche agricole.Esso è normalmente dotato di una minore quantità di materia organica, di fosforo e

di potassio scambiabile, mentre è più ricco in calcio, allo stato di carbonato. Per quest’ultimo fatto esso è di colore più chiaro.

Lo strato inerte è più ricco di quello attivo di tutti quegli elementi che sono poco trattenuti dal potere assorbente del terreno e che qui tendono ad accumularsi (azoto in forma nitrica, sali ferrosi e manganosi).

Lo strato inerte è più povero d’ossigeno e si presenta più compatto perché più ricco

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di elementi colloidali argilliformi e perchè non interessato dalle lavorazioni del terreno. Per tali motivi, la carica microbiologica in generale e quella aerobica in particolare assumono valori relativamente bassi. Lo strato inerte, per i motivi accennati, è poco adatto alla vita delle piante coltivate e quando grossi movimenti di terra o arature troppo profonde lo portano in superficie, si possono causare gravi riduzioni delle rese produttive.

Lo strato inerte esercita la sua influenza sulle colture in vario modo. Quando non presenta condizioni di estrema inospitalità, esso ospita le radici di quelle piante che hanno un apparato radicale profondo (ad esempio le leguminose); permette alle radici di approfondirsi di più, sfruttando un maggior volume di terra; funziona da riserva d’acqua e di sostanze nutritive che potranno essere utilizzate dalle piante nei momenti di fabbisogno; dà la possibilità di aumentare lo spessore dello strato attivo, sia approfondendo le arature e favorendo un mescolamento con lo strato attivo, sia utilizzando attrezzi (ripuntatore) in grado di intaccarlo solamente, senza mescolare i due strati.

Pertanto, lo strato inerte svolge un ruolo importante nel determinare lo sviluppo in profondità dell’apparato radicale delle piante coltivate, i movimenti idrici di percolazione dell’acqua meteorica e d’irrigazione e quelli ascensionali legati alla presenza della falda freatica, i rapporti termoidrici con lo strato attivo.

I valori percentuali di alcuni composti fondamentali, rilevati in differenti terreni, sono riportati nella tabella 10, allo scopo di evidenziare alcune principali differenze tra lo strato attivo e quello inerte.

Tab. 10 – Quote orientative di humus, di azoto nell’humus, di anidride fosforica, di potassa e di calcare, a diverse profondità (espresse in centimetri), determinate nello strato attivo e strato inerte, in diversi terreni.

Orizzonti % di humus

% di azoto nell’humus

% di P2O5

% di K2O % di calcare

Profondità 30 150 30 150 - 0-10 10-20 20-30 30-40 40-50 0-40 41-80 81-140

Strato attivo 1,21 - 5,30 - 0,145 0,6-9,2 0,3-5,8 - - - 10,0 - -

Strato inerte - 0,74 - 2,16 0,090 - - 0,3-3,4 0,2-0,9 0,2-0,7 - 11,2 17,5

Le differenze tra strato attivo ed inerte non sono evidenti nella maggior parte dei terreni autoctoni a causa della loro scarsa potenza, vale a dire del ridotto spessore. Terreni molto argillosi, che a poca profondità hanno sviluppato un orizzonte impenetrabile alle radici, non presentano lo strato inerte.

In linea generale, si può affermare che, procedendo dai climi freddo-umidi a quelli caldo-aridi, le differenze tra strato attivo e quello inerte divengono sempre meno accentuate, poiché negli ambienti caldi la materia organica si decompone massicciamente e molto rapidamente e l’acqua che cade sul suolo e che riesce a percolare attraverso di esso è alquanto modesta.

Orbene, proprio alla sostanza organica ed alla sua decomposizione ed alla presenza dell’acqua, insieme con la sua capacità di mobilizzazione e trasporto, si devono le principali caratteristiche differenziali, quelle più evidenti, dello strato attivo e di quello inerte.

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SOTTOSUOLO

Il sottosuolo è quella parte del profilo stratigrafico di un terreno agrario disposto, in profondità, al disotto dello strato inerte e pertanto non è interessato dalle lavorazioni, dalla rizosfera delle piante e dai fattori della pedogenesi.

La sua posizione, lungo la verticale, determina la potenza del suolo. Esso, pertanto, può affiorare alla superficie del terreno (terreni a roccia affiorante) o trovarsi alla profondità di pochi centimetri (terreni superficiali), fino a molti metri come nel caso di terreni alluvionali o eolici (loess).

Il sottosuolo può essere costituito da rocce o da detriti di misura sempre più piccola a partire da ciottoli, ghiaia, sabbia, fino a materiali argilliformi.

Un sottosuolo molto profondo, lontano dalla superficie, sul quale insiste un suolo di buona potenza, manifesta poca influenza sulla coltivazione delle piante e potrà agire soltanto su alcune condizioni proprie del suolo. Così, un sottosuolo costituito da elementi grossolani (ciottoli e ghiaia) può interferire sulla velocità di smaltimento delle acque di drenaggio, sull’asportazione di alcuni elementi nutritivi, sulla maggiore ossidazione delle sostanze in quella parte più profonda dello strato inerte.

Al contrario un sottosuolo poco profondo, vicino allo strato attivo laddove è pure assente quello inerte, influenza attivamente le coltivazioni ed è di grande ostacolo allo sviluppo delle radici. Inoltre, qualora esso sia costituito da rocce impermeabili o poco permeabili, può impedire la dispersione dei materiali solubili del suolo trascinati versi il basso dalle acque. Lo stesso sottosuolo permeabile, tuttavia, non può evitare le dispersioni laterali, soprattutto se i terreni sono dotati di pendenza nei quali, in aggiunta, si potrà avere lo slittamento della massa detritica sovrastante.

In generale, da un punto di vista agronomico, un sottosuolo impermeabile e compatto, ad esempio di tipo granitico o lavico o molto argilloso, può esercitare azioni negative, in particolare, quando il suolo è altrettanto impermeabile, e provocare ristagno idrico e asfissia dell’apparato radicale delle piante. Al contrario, lo stesso tipo di sottosuolo (impermeabile e compatto) evidenzia effetti positivi, soprattutto quando il suolo è permeabile, poiché impedisce la perdita d’acqua, quando questa non si disperde lateralmente, e favorisce la costituzione di un'adeguata riserva idrica, laddove non ci sono radici molto profonde che potrebbero esserne danneggiate. Tale riserva idrica, che così si costituisce, potrà essere utilizzata, in caso di siccità, per risalita capillare.

Un sottosuolo permeabile, con scheletro grosso, può essere dannoso nel caso in cui il suolo è altrettanto permeabile.

Questa situazione, infatti, accentua i difetti di un terreno siccitoso, dove è oltremodo difficile poter accumulare una riserva idrica. La stessa condizione può riuscire utile per un suolo che, al contrario, dispone di molta acqua meteorica, tende ad avere difficoltà nel suo smaltimento e ne trattiene una quantità eccessiva; in questo caso, suolo e sottosuolo permeabili favoriscono il drenaggio idrico.

In sintesi, da un punto di vista della permeabilità all’acqua, suolo e sottosuolo, per esercitare una reciproca azione favorevole sulle colture, debbono avere caratteristiche opposte.

La distinzione agronomica del profilo del terreno in suolo, con lo strato attivo e quello inerte, e sottosuolo non sempre è così netto, anche per l’esistenza d’ulteriori strati che, per la loro natura e per la profondità alla quale si trovano, possono essere d’ostacolo grave allo sviluppo delle radici e, quindi, alla produttività agricola di un terreno.

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Questi strati si chiamano strati di inibizione e possono essere, rispetto alla capacità che hanno di lasciarsi attraversare dall’acqua, impermeabili o impermeabilizzati e permeabili.

STRATI D’INIBIZIONE

Gli strati d'inibizione sono orizzonti di terreno che, in relazione alla loro genesi, possono essere ad andamento regolare o irregolare, continuo o discontinuo, orizzontale o inclinato, con varia angolazione rispetto all'orizzonte.

Gli strati d’inibizione sono così chiamati perché possono impedire lo sviluppo e l’approfondimento delle radici o perché possono ostacolare del tutto, o parzialmente, il drenaggio dell’acqua. In molti casi essi rendono impossibili le lavorazioni del terreno e possono determinare per le piante, limitatamente allo spazio occupato, condizioni di abitabilità e di nutrizione assolutamente inidonee alla loro vita.

Gli strati di inibizione che impediscono il drenaggio dell’acqua sono orizzonti di consistenza che vanno dal tenero e friabile fino al duro e lapideo e sono gli strati impermeabili o impermeabilizzati.

Gli strati di inibizione che non impediscono la percolazione dell’acqua nel terreno sono detti strati permeabili e possono determinare condizioni di asfissia radicale per l’eccessiva quantità d’acqua occupante la totalità dei pori del terreno (falda freatica), possono causare un grave stress nelle piante per appassimento o addirittura la loro morte per avvizzimento i relazione a mancanza d’acqua (strato arido), possono causare la plasmolisi e la morte delle radici per eccessiva salinità e per anomalia nel valore del pH e, infine, possono causare avvelenamento della pianta e gravi fenomeni di fitotossicità (strati tossici). Ognuno di questi orizzonti inibitori la crescita e la vita delle piante sarà preso singolarmente in considerazione, anche per avere l'occasione di indicare eventuali rimedi da porre in essere per limitare i danni che essi possono arrecare.

Strati impermeabili o impermeabilizzatiSono strati che impediscono oppure ostacolano lo sviluppo e l’approfondimento

delle radici delle piante coltivate ed impediscono il drenaggio delle acque meteoriche, con conseguente danneggiamento delle stesse per asfissia. Gli effetti negativi di tali strati sono tanto più accentuati quando minore è la profondità alla quale gli orizzonti sono posizionati e maggiore è la loro compattezza che rende difficile il compito delle radici d’intaccarli ed arduo l’eventuale lavoro dell’uomo per rimuoverli. Numerosi sono i tipi di strati d’inibizione impermeabili o impermeabilizzati, i più importanti dei quali, in base alla loro natura, sono la crosta o crostone, il conglomerato, il caranto, il ferretto, il cappellaccio, la pozzolana.

CROSTA O CROSTONE

E’ un orizzonte illuviale di natura calcarea, gessosa, ferruginosa in dipendenza della composizione della roccia madre o del substrato sovrastante. La compattezza, durezza e friabilità sono variabili ed il più delle volte resistenza opposta alla frantumazione è enorme. E' tipico dei terreni delle regioni caldo-aride dove il carbonato o il solfato di calcio o composti del ferro possono passare nella soluzione del suolo e ridepositarsi a profondità diverse, per precipitazione, in rapporto al movimento discendente o ascensionale dell'acqua.

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Il crostone si ottiene per risalita capillare dell'acqua con i soluti, dagli orizzonti più profondi, in seguito ad una rapida evaporazione superficiale, durante un periodo di aridità e con temperature che superano i 20 °C, in presenza di un sottosuolo e di una roccia madre con un certo grado di porosità e di fratture in grado di assicurare presenza di acqua in circolazione. Il crostone si origina soltanto in presenza di acqua sotterranea, anche nella stagione secca e, pertanto, non può formarsi in regioni assolutamente desertiche. Infatti lo si ritrova nei climi steppici e predesertici. Una genesi avvenuta secondo questo schema può interpretarsi per i crostoni calcarei che si ritrovano in Palestina (detti nari), in Siria, Cirenaica, Marocco, Tunisia i quali hanno una potenza di svariati metri.

Tuttavia, il crostone può essersi originato non soltanto per aspirazione capillare dell'acqua dagli strati sottostanti del terreno, ma anche per l'azione di soluzioni discendenti che nel percorso verso il basso si arricchiscono sempre più di sali minerali i quali si depositano per precipitazione, dovuta alle perdite d’acqua e successive saturazioni, e si accumulano ad una profondità che va da pochi centimetri a qualche metro. Tali sono le croste calcaree dell'Africa settentrionale e quelle che si ritrovano in Puglia dove ricoprono le alluvioni del Quaternario medio di San Severo, Barletta, Foggia, Ortanova, estendendosi finanche sulle sabbie e sulle marne del Pliocene, mentre mai si presentano in corrispondenza di più recenti alluvioni come quelle del Fortore, Cervaro, Carapelle, Ofanto e delle pianure litoranee. Tali crostoni, rappresentati da un prodotto pedologico di accumulo, hanno una potenza mai eccessiva, che va da pochi centimetri fino a qualche metro. A Foggia, per esempio il profilo del terreno presenta, dall'alto verso il basso, 0-40 cm di terreno vegetale grigio, 10-20 cm di crosta calcarea lamellare con superficie superiore assai netta, 150 cm di ciottoli e sabbie calcaree, 20-50 cm di crosta calcarea con superficie superiore assai netta che tende ad infiltrarsi tra un deposito di ciottoli, spesso oltre 1 m.

La possibilità di utilizzare per le attività agricole terreni provvisti di crostoni è molto legata alla profondità alla quale lo stesso crostone è posto ed al tipo di coltura. Così, terreni con crostoni prossimi alla superficie oppure piante con apparati radicali che raggiungono o superano la profondità del crostone sono naturalmente inadatti all'agricoltura. Il crostone può essere intaccato e frantumato con mine o mezzi meccanici, ma spesso questi lavori sono poco utili perché l'orizzonte calcareo può ricostituirsi con il permanere delle condizioni che l'hanno determinato.

CONGLOMERATO

Con tale termine sono indicate rocce sedimentarie elastiche, formate da detriti grossolani, di dimensioni che vanno da un millimetro fino a vari centimetri che hanno subito un processo di diagenesi cioè di cementazione e di costipazione. Il composto che cementa e costipa è rappresentato normalmente e principalmente da carbonato di calcio che va a depositarsi su ciottoli e ghiaia ed infiltrarsi negli interspazi creando uno strato non drenabile dall’acqua. Pertanto un conglomerato può costituire uno strato d’inibizione impermeabile in grado di impedire la percolazione ed il drenaggio dell'acqua e, se in posizione superficiale, bloccare lo sviluppo delle radici.

I terreni agrari che originano su un conglomerato sono ricchi di scheletro e, in relazione agli elementi di cui sono caratterizzati, possono essere poveri o ricchi di materiali argillosi e sabbiosi e, pertanto, sciolti o compatti e più o meno validi da un punto di vista agronomico. In generale, tali terreni possono essere ben provvisti di carbonato di calcio, offrire una giusta proporzione tra argilla e sabbia, ma presentare difficoltà alla lavorazione per l'eccessiva quantità di frammenti grossolani.

Tra i conglomerati si distinguono le brecce se i frammenti sono angolosi e

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puddinghe se sono arrotondati. Ambedue si classificano in monogeniche (pietra grigna, formata da calcare cementato da carbonato di calcio, dell'Appennino centrale, e mischio, con frammenti di calcare saccaroide costipati da cemento violaceo o verde scuro) e poligeniche (verde antico formato da frammenti di serpentino e calcare, in località delle Alpi Apuane, gonfolite, con cemento arenaceo calcare, marnoso, ferrifero o siliceo, in Lombardia, tassello, così chiamato nell'Italia centrale, formato da ciottoli di calcare, arenarie, ftaniti, rocce eruttive cementati da carbonato di calcio, ceppo che si trova nell'alta pianura lombarda) a seconda che i frammenti originino da un'unica roccia o da rocce di diversa natura.

I terreni agrari dell'Umbria, della Toscana e delle Marche, formati su conglomerati del Pliocene e del Quaternario inferiore, offrono all'olivo un ambiente pedologico assai favorevole, anche in rapporto alla mitezza del clima.

CARANTO Il nome sta ad indicare uno strato concrezionato compatto, costituito da calcare e

limonite, con una struttura di tipo pisolitica, di colore grigio-giallastro, che si trova in posizione superficiale quasi mai a profondità che non supera il metro, al di sotto dell'orizzonte vegetale di alcuni terreni alluvionale della Pianura padana. Il caranto si origina dalla dissoluzione del carbonato di calcio dell'orizzonte soprastante che poi si rideposita, a seguito della precipitazione dello stesso sale (causata dall’aumento di concentrazione delle soluzioni discendenti e dalla variazione del grado di concentrazione degli ioni idrogeno) insieme a materiale di varia natura, principalmente argilloso, per formare un impasto compatto e serrato. Il caranto, rappresenta uno strato di inibizione che ostacola le lavorazioni profonde e non permette lo sviluppo delle radici verso gli strati profondi.

FERRETTO

Con il termine di ferretto s'intende un terreno di colore rosso o rosso-ruggine, a reazione acida, costituito da sedimenti conglomerati scarsamente cementati, di differente età geologica, ed arenarie d’elevata permeabilità, la cui pedogenesi è strettamente legata alla permeabilità del substrato.

La genesi del ferretto è caratterizzata da un'intensa argillificazione e decalcificazione che produce un terreno superficiale acido (per assenza di calce ed altre basi), di colore rosso (per ossidazione dei composti ferrosi), ulteriormente lisciviabile per trascinamento degli idrosoli di sesquiossido d’alluminio e di ferro, per opera dell'acqua di percolazione, dagli orizzonti superficiali a quelli inferiori, dove precipitano. Si forma così una zona di precipitazione di ossidi ed idrossidi ferrico, alluminico, manganico (massimamente ossidati, quindi), compreso il carbonato di calcio, corrispondente ad un orizzonte illuviale, formato di noduli o strati costituenti un vero e proprio neolite, così compatto ed impermeabile, da rappresentare un vero e proprio strato di inibizione. Pertanto col termine di ferretto s'intende il terreno più o meno coltivabile, privo di calce e di altre basi, quindi fortemente acido, ma anche quel particolare strato d'inibizione, legato alla genesi del ferretto o di terreni ferrettizzati, ricco di sesquiossidi e di idrati ferrici precipitati, che si forma in climi temperato-umidi o in climi aridi con alcune stagioni molto piovose.

I ferretti sono terreni molto poveri e ridotti allo stato di lande o brughiere, che si lasciano ridurre a coltura soltanto attraverso una serie d’interventi (ammendamenti e correzioni) difficili e costosi. In Italia essi sono diffusi in Piemonte ai piedi meridionali

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delle Alpi, in Lombardia sull'altopiano varesino, nell'alta pianura friulana ed in altre regioni allo stato più o meno ferrettizzato.

I ferretti sono simili alle cosiddette terre rosse dell'Europa meridionale, avendo in comune il fenomeno della decalcificazione, il colore rosso derivato dalla presenza di sesquiossidi di ferro liberi e la povertà della vegetazione, conseguenza, quest'ultima, dell'acidità del terreno nel primo caso e delle caratteristiche climatiche (scarsa umidità e caldo che ostacolano la vegetazione e provocano anche rapida ossidazione dei residui organici) nel secondo.

CAPPELLACCIO

E’ il nome che si dà per indicare uno strato d’inibizione che si ritrova in molte regioni italiane, costituito da materiale roccioso affiorante o posto a piccola profondità, abbastanza friabile (perché privo di carbonato di calcio e ricco di sesquiossidi ed ossidi ferrici) da essere rimosso con un ripuntatore portato da un trattore relativamente potente. E' diffuso nella campagna romana dove si estendono i tufi vulcanici, cosiddetti granulari, poco coerenti, cui si assegna il nome di "cappellacci teneri", per distinguerli dai tufi litoidi ed omogenei che offrono maggiore resistenza alla rimozione. Le superfici a cappellaccio possono essere utilizzate per il pascolo di ovini oppure, bonificate e dissodate, possono essere impiegate per un'agricoltura più ricca. Così, il cappellaccio della campagna romana, portato alla superficie, subisce un processo di disfacimento, con la formazione di un buon terreno agrario, privo di calcare, a reazione compresa tra il neutro ed il subacido, ricco in potassio, più o meno fornito di fosforo e variamente dotato di azoto, in relazione all'arricchimento che si consegue qualora, dopo lo scasso, s’impianta un prato di erba medica.

POZZOLANA

Roccia di origine vulcanica costituita da lapilli e ceneri vulcaniche cementatisi per l'azione degli agenti atmosferici, che hanno attaccato i silicati loro componenti dando luogo ad un prodotto di natura acida ricco in silice (SiO2) in forma reattiva, capace cioè di reagire con l'ossido di calcio per dar luogo a silicati amorfi.

L'Italia è ricca di depositi di questo materiale in Campania, Lazio, Sicilia, Puglia. La pozzolana viene utilizzata in edilizia per la preparazione di malte idrauliche, in quanto la silice e l'allumina contenute nel materiale piroclastico acquistano proprietà cementizie quando vengono a contatto con l'idrossido di calcio.

Il terreno agrario può presentare strati di inibizione di questo tipo, compatti e impermeabili, di colore rosso bruno ma anche grigio più o meno chiaro. Tali orizzonti sono di intralcio al drenaggio delle acque, allo sviluppo delle radici ed alle lavorazioni (qualora lo strato è posizionato superficialmente).

Sono questi i principali strati di inibizione impermeabili anche se se ne conoscono molti altri con nomi diversi, a volte in omonimia, ma anche in sinonimia. Ricordiamo così il calcarello che è un crostone costituito da noduli più o meno grossi di calcare abbastanza distanti l’uno dall’altro, il maltone che è uno strato formato da un impasto cementificato tra calcare e sabbia, il costolone che è un crostone calcareo allungato e stretto che si è formato in un terreno inclinato ed in cui la stessa roccia madre ha una certa inclinazione, il tasso che e uno strato di natura ferruginosa, di enorme consistenza, quasi lapidea, anche se dotato di una certa friabilità. Infine si ricordano il crostone di lavorazione ed il crostone d’irrigazione la cui genesi è legata all’attività dell’uomo nell’esercizio dell’agricoltura. Il primo è in relazione alla compressione esercitata dalla

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suola dell’aratro che lavora, su quel terreno, sempre alla stessa profondità. Il secondo si forma per l’accumulo di materiali terrosi più sottili che, trasportati dall’acqua d’irrigazione somministrata sempre in uguale volume, vanno ad infiltrarsi nei pori degli strati sottostanti provocando intasamenti ed impedimenti nel drenaggio dell’acqua, sempre alla stessa profondità.

Allo scopo di aumentare lo spessore dello strato attivo per accrescere il volume di terreno disponibile per le radici o per favorire lo sgrondo dell’eccesso idrico, bisogna ricorrere alla frantumazione di questi strati impermeabili, con operazioni di dissodamento in profondità. Si tratta di effettuare operazioni di scasso del terreno, agendo con ripuntatori portati da trattrici d’elevata potenza ed, eventualmente, ricorrendo all’esplosivo. Con gli attuali mezzi tecnici disponibili si ottengono sicuri risultati positivi anche se, per contro, bisogna considerare che i costi per la rimozione di tali strati compatti sono sovente sono molto alti e la possibilità che, col tempo, essi possano ricostituirsi, qualora non si rimuovono le cause che le hanno generate.

Strati permeabiliTra gli strati d’inibizione permeabili all’acqua e non opponenti resistenza al

passaggio delle radici ma che possono avere un’influenza negativa su di esse, si ricordano la falda freatica, lo strato arido e lo strato tossico.

FALDA FREATICA

L’acqua meteorica che s’infiltra nel terreno e lo attraversa, qualora non si esaurisce in orizzonti più asciutti, può trovare strati compatti ed impermeabili che ne rallentano il deflusso o la fermano. In tal caso riempie tutti gli spazi vuoti del terreno cacciando l’aria presente ed andando a costituire l’acqua di fondo o acqua freatica o acqua di livello (falda freatica autoctona). Nella parte superiore dà luogo ad una superficie pianeggiante detta superficie di livello o superficie idrostatica. Tuttavia, in rapporto alla circolazione delle acque inbibenti il profondo sottosuolo (ad esempio dei terreni ghiaiosi delle alte pianure della regione veneto-padana), l’acqua di falda può essere di più lontana provenienza (derivante, per esempio, dalle infiltrazioni laterali di corsi d’acqua) ed essere connessa a cause idrogeologiche di più vasta portata.

Le acque di fondo sono in genere povere di ossigeno, consumato in gran parte nell’attraversare il terreno, e contengono sali solubili (nitrati, cloruri, solfati, carbonati), sostanze colloidali e, specialmente quelle non autoctone, sostanze diverse da quelle contenute negli strati sovrastanti di terreno e finanche inquinanti come erbicidi, metalli pesanti.

Orbene, quando la falda freatica è molto superficiale può crearsi uno strato di inibizione, soggetto a ristagno idrico, che causa asfissia radicale e quindi una vegetazione molto stentata e la morte delle piante coltivate.

In generale, la temperatura dell’acqua di falda è piuttosto bassa o, meglio, può subire una notevole variazione che è tanto più ampia quanto più la falda è superficiale e quanto più ci si avvicina alla regione di alimentazione della falda (per infiltrazione di fiumi o delle acque di pioggia). L’escursione termica, cui questi terreni sono sottoposti per la presenza della falda freatica, si riflette negativamente sullo sviluppo delle piante coltivate.

Infine, quando la falda si trova a profondità ottimale, la risalita capillare dell’acqua, sempre utile in climi con precipitazioni irregolari, può trasportare sostanze inquinanti le quali possono danneggiare le piante coltivate e lasciare residui nei prodotti agricoli.

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Il ricorso a lavorazioni più profonde per permeabilizzare od abbassare lo strato su cui poggia la falda freatica superficiale e la costituzione di un’adeguata baulatura, per aumentare il franco di coltivazione e di una buona canalizzazione, per favorire lo smaltimento delle acque sono operazioni agronomiche consigliabili per eliminare o attenuare gli effetti negativi della falda freatica superficiale.

STRATO ARIDO

E’ costituto da materiale grossolano, come ciottoli, ghiaia, sabbia grossa, che non è in grado di trattenere l’acqua meteorica che l’attraversa. La grande permeabilità di un tale orizzonte e l'incapacità di trattenere l'acqua di drenaggio rende molto difficile la creazione di una dotazione idrica sufficiente ed indispensabile che possa rappresentare un'adeguata riserva idrica per la coltivazione delle piante. Gli strati aridi sono frequenti nei climi sub-desertici o siccitosi dove le scarse precipitazioni inumidiscono il terreno soltanto negli strati superficiali, mentre quelli sottostanti rimangono assolutamente asciutti. Strati aridi possono trovarsi nei terreni alluvionali dei climi secchi dove la poca acqua meteorica cade sul terreno, penetra ed attraversa totalmente lo spessore alluvionale a scheletro grosso (ghiaia o ciottoli), di cui tali terreni sono provvisti, senza essere da questi trattenuta. Questi strati non permettono lo sviluppo delle radici le quali muoiono, inducendo appassimento ed avvizzimento delle piante, quando l’attraversano.

STRATO TOSSICO

Lo strato tossico può trovarsi a varia profondità e se si trova posizionato superficialmente rende impossibile la vita delle piante. La tossicità dello strato può essere attribuita a salinità, reazione troppo acida o alcalina per la presenza di acidi o di alcali, presenza di solfuri ed altre sostanze inquinanti come i metalli pesanti ed i pesticidi.

Per quanto riguarda la salinità ci limiteremo a dire, a proposito degli strati tossici, che i complessi assorbenti (tutti i materiali primari e secondari ad eccezione del quarzo e delle formazioni di silice secondaria) del terreno o di alcuni strati possono essere saturi di basi e risultano provvisti di sali solubili quali carbonati alcalini di sodio e di potassio. Ciò si riscontra in ambienti continentali dove le precipitazioni scarseggiano e dove le evaporazioni superano le precipitazioni e, pertanto, vengono a mancare quasi del tutto i processi di dilavamento. Ben diversa è la salsedine di quegli strati di terreni dei litorali marini nei quali riescono ad infiltrarsi ed insediarsi le acque salmastre. Mentre nel primo caso la salsedine assume il significato di carattere costitutivo in quanto è un portato della pedogenesi, nel secondo caso essa deriva da cause estranee ed è costituita di cloruri in massima parte e di solfati, bromuri e ioduri di sodio, in primo luogo, e quindi di calcio, magnesio, potassio.

Un altro tipo di salsedine, che si riscontra in alcuni strati di terreno, è quella legata alla discarica di materiali di rifiuto caratterizzati da eccessiva salinità. Gli strati salsi sono bonificati mediante processi di scavo che portano alla luce il materiale salso ed espongono le superfici a contatto con l’aria che allenta la forza di tutti i tipi di legame in modo che gli ioni siano più facilmente lisciviati e possa aumentare la forza ionica della soluzione del terreno.

La reazione del terreno è legata alla presenza di vari cationi che vanno a saturare il complesso assorbente. Questo complesso, se possiede ioni idrogeno avrà reazione acida, se è provvisto di cationi alcalino-terrosi avrà reazione neutra o leggermente alcalina, se presenta cationi alcalini avrà reazione alcalina. Naturalmente la reazione del materiale terroso non può essere senza influenza sulla reazione della soluzione circolante.

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La salsedine, sia di tipo continentale che litoraneo, può agire negativamente sulla reazione del terreno o di alcuni strati, come pure lo scarico della maggior parte dei materiali di rifiuto aventi un’acidità pronunciata. Così la pirite a contatto con l’aria e l’umidità si ossida producendo, tra l’altro, acido solforico che viene rilasciato nella soluzione circolante abbassando il pH fino a 2, con conseguenze mortali per le piante. Materiali di scarto di miniere di carbone o di minerali preziosi, dopo varie vicissitudini dei valori di pH, divengono acidi e conservano questa acidità a lungo, irreversibilmente, così da impedire un’opportuna copertura vegetale.

La riduzione dell’acidità si ottiene con correttivi a base di calce, oppure bruciando il materiale inducente acidità ed isolandolo con uno strato inerte. L’eccessiva alcalinità di un materiale può essere corretta con acido solforico, solfo, solfato di calcio fino a 150-200 q/ha anche se questo procedimento, pur migliorando la reazione del terreno, può portare alla formazione di croste superficiali che impediscono la penetrazione delle radici.

La tossicità di uno strato di terreno può essere legata alla presenza di metalli pesanti che rappresentano la maggiore pericolosità dei materiali di scarico perché, essendo non biodegradabili, possono persistere ed accumularsi nel terreno. Tale inquinamento deriva principalmente da attività minerarie, come l’estrazione dell’oro e dell’argento (che comportano l’impiego di mercurio e cianuri), l’estrazione dell’uranio (che lascia nei terreni residui radioattivi aventi la tendenza ad essere dilavati e ad inquinare anche le acque di falda), l’estrazione di zinco e rame (che hanno portato ad accumuli tali da impedire la crescita di ogni tipo di pianta), l’estrazione di altri metalli che hanno portato a vere tragedie ecologiche, come quella da inquinamento da cadmio in Giappone che ha causato la malattia “Itai-Itai”.

Fig. 2 – Destino di in pesticida somministrato al terreno o alle coltivazioni.

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Per superare le difficoltà legate alla presenza nel terreno di strati tossici di questo tipo, le soluzioni consistono nell'adozione di varie strategie. Una soluzione consiste nell’immobilizzare i metalli pesanti con l’impiego di fanghi provenienti da fognature urbane e compost, aventi la proprietà di fissare i metalli tossici e diminuire la loro disponibilità per le piante.

Un'altra soluzione è data all'utilizzazione di piante tolleranti verso tali metalli, la cui efficacia dipende in larga misura dalla capacità che i vegetali hanno nel migliorare le condizioni di fertilità del terreno. Infine, l'uso di fertilizzanti chimici (da 400 a 700 kg/ha) serve per sopperire alle perdite per lisciviazione degli ioni nutritivi ed alla loro trasformazione in composti insolubili.

I pesticidi possono creare tossicità nel terreno o in alcuni suoi strati. Somministrati sulle piante o sul terreno, per interventi di disinfestione e diserbo, possono rimanere nel terreno da poche ore a molti anni, anche se la pericolosità di un pesticida non è misurabile soltanto con la persistenza ma anche con la sua tossicità. Così il chlorfenvinphos è un insetticida organofosforato moderatamente tossico che può persistere nel terreno per un anno, mentre il dicloropropano-dicloropropilene (DD) persiste, per la sua volatilità, solo poche settimane ma è talmente tossico che può deprimere la popolazione di molte specie anche per due o tre anni.

I pesticidi possono interferire con la fase liquida e gassosa del terreno, con le particelle argillose ed organiche e con gli organismi viventi. Le interazioni di un pesticida con le fasi fluide del terreno o di uno strato di esso, sono controllate dall’equilibrio assorbimento-desorbimento che ha effetto sulla disponibilità, azione biologica e movimento del pesticida stesso (figura 2).

I pesticidi possono interagire con le particelle argillose stabilendo vari tipi di legami – come quelli creati dalle forze di Van der Waals-London (isocil), i legami idrofobici (DDT), i legami a ponte d’idrogeno (2,4 D), quelli che sono in relazione con lo scambio del legante (atrazina) o con lo scambio ionico (diquat), quelli connessi con le interazioni ione-dipolo e dipolo-dipolo – ed innescando sulla loro superficie reazioni di catalisi e di inattivazione, in grado di proteggerli dall’attacco microbico.

Le interazioni dei pesticidi con la sostanza organica sono analoghe a quelle ora viste per i minerali argillosi, anche se occorre sottolineare che, sia la superficie, sia la capacità di scambio cationico (in rapporto alle minori dimensioni delle particelle umiche) sono maggiori. In queste interazioni notevole influenza assumono le caratteristiche chimiche dei pesticidi che possono così classificarsi:a) Pesticidi cationici: appartengono a questo gruppo gli erbicidi come il diquat ed il

paraquat. Hanno elevata solubilità in acqua dove si dissociano facilmente. In un terreno agrario danno luogo a legami forti con le particelle argillose, mentre con la sostanza organica formano legami più deboli. I terreni argillosi e con materia organica, escluso i terreni sabbiosi che sono poco attivi nel determinare legami fisico-chimici (in relazione alle maggiori dimensioni delle particelle), esplicano una notevole forza d’assorbimento nei confronti di questi pesticidi, con la conseguenza che la loro degradazione microbica è molto ridotta.

b) Pesticidi basici: appartengono a questo gruppo le triazine ed i triazoli che si comportano come basi deboli in soluzione acquosa, possono in altre parole acquistare un protone ed assumere, quindi, carica positiva. Ciò può avvenire prima che il pesticida sia assorbito, oppure durante l’assorbimento (in tal caso è la sostanza organica del terreno che cede un protone) o dopo che l’assorbimento è avvenuto (il protone proviene da una molecola d’acqua). Nell’assorbimento delle triazine

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intervengono legami a ponte idrogeno, legami formati per scambio del legante e legami idrofobici. Nell’assorbimento di questo tipo di pesticidi, la sostanza organica svolge effetti rilevanti come si riscontra nel caso del prometone che a pH 4,28 viene assorbito dalla sostanza organica 80 volte più che dalla montmorillonite.

c) Pesticidi acidi: vengono assorbiti con minore intensità e quantità rispetto ai pesticidi cationici e basici in quanto le particelle colloidali dell’argilla e della sostanza organica sono, in rapporto al pH cariche negativamente. L’aumento della quantità di sostanza organica nel terreno causa un incremento della persistenza e della tossicità residua di tali pesticidi e ciò presuppone lo stabilirsi di legami a ponte idrogeno, o mediati da cationi inorganici (metalli).

d) Pesticidi non ionici: gli idrocarburi clorurati (DDT, lindano), i pesticidi organofosforati, gli erbicidi ureici appartengono a questo gruppo. Essi sono fortemente assorbiti sulle parti idrofobiche della sostanza organica del terreno e competono per i siti di assorbimento con le molecole d’acqua della soluzione circolante, formando legami di natura fisica. Questi pesticidi interagiscono con la sostanza organica e ciò dipende dalla solubilità, polarità e grandezza delle loro molecole.

Infine, i pesticidi interagiscono con gli organismi viventi del terreno poiché creano un ambiente tossico non soltanto per le piante ma anche per i microrganismi, funghi, attinomiceti, collemboli, acari, lombrichi, miriapodi che svolgono un ruolo importante nel determinare le condizioni di fertilità del suolo. Gli erbicidi, insetticidi ed anticrittogamici possono gravemente danneggiare le popolazioni microbiche del terreno o di alcuni strati, soprattutto quando sono impiegati in dosi eccessive, in termini di quantità per intervento e di frequenza. Quando sono somministrati alle dosi prescritte essi sono presenti nel terreno ad una concentrazione di circa due milligrammi per chilogrammo di terreno, supposto che essi si distribuiscono uniformemente nei primi 15 cm di suolo.

Tuttavia, quando sono applicati per via fogliare, la distribuzione sul terreno, a seguito del gocciolamento del prodotto o del dilavamento, non è più omogenea e possono trovarsi punti con concentrazioni finanche 50 volte superiori.

In conseguenza, possono aversi gravi alterazioni dell’equilibrio biologico e possono passare degli anni, prima che si ristabiliscano condizioni naturali. Infatti, fungicidi e fumiganti operano delle selezioni in popolazioni di funghi saprofiti come Trichoderma, Aspergillus, Penicillium che possono diventare dominanti per lunghi periodi, in rapporto alla resistenza acquisita, alla velocità di crescita ed alla distruzione di specie antagoniste.

Inoltre, la distruzione di lombrichi ed altri invertebrati, causata, ad esempio, da pesticidi cuprici, ha come conseguenza il deterioramento della struttura del suolo e l’incremento di popolazioni patogene per il mancato attacco ai residui delle piante. Poi, dato che gli invertebrati assorbono i pesticidi del terreno, quando essi sono predati da vertebrati trasferiscono a questi ultimi il prodotto tossico, con insorgenza di fenomeni legati a tossicità acuta e cronica.

I pesticidi possono indurre danni anche alle piante coltivate per un problema di residui (ortaggi e frutta). Per questo, prima di impiantare la coltura successiva a quella che ha ricevuto il trattamento, o in consociazione con essa, bisogna lasciare il tempo necessario affinché il prodotto chimico possa essere degradato, lisciviato ed allontanato dalla zona delle radici.

L’accumulo dei pesticidi nel terreno o in strati di esso è legato, almeno in parte, al periodo di semitrasformazione, cioè il tempo necessario affinché la concentrazione del pesticida si riduca alla metà. Nel caso di pesticidi a lungo periodo di semitrasformazione, l’effetto di una dose massiccia, ai fini dell’accumulo, è maggiore di quello di dosi tali che

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la loro somma sia uguale a quella della dose massiccia. Il movimento dei pesticidi nei terreni, un altro aspetto inquietante che diffonde

l’inquinamento ed amplia lo strato tossico, è legato al movimento dell’acqua, alla diffusione, al trasporto di massa ed alla volatilizzazione:

a) Movimento dei pesticidi attraverso l’acqua: la soluzione circolante del terreno è in grado di operare il movimento dei pesticidi così come la corrente di un fiume trasporta il materiale che trova lungo il percorso. Per questo, se l’acqua si muove lungo il profilo del terreno con una corrente discendente (acqua di percolazione) od ascendente (acqua di evaporazione, acqua capillare) il pesticida subirà lo stesso percorso.

b) Diffusione dei pesticidi: dipende dal coefficiente di diffusione, dalla composizione mineralogica del suolo e dalla densità del terreno ed avviene per distribuzione uniforme delle molecole del pesticida che si spostano da zone di alta concentrazione a zone con concentrazione più bassa. La diffusione avviene nella fase liquida ed in quella gassosa. La quantità d’acqua nel terreno è il principale fattore da cui dipende il contributo della fase gassosa e liquida alla diffusione. In terreni molto secchi, con acqua in quantità inferiore all’1%, il coefficiente di diffusione totale (somma di quello nella fase gassosa, di quello nella fase liquida e di quello alle interfacce suolo-soluzione e soluzione-aria), è praticamente irrilevante, ma cresce rapidamente all’aumentare dell’umidità. Con ulteriore aumento della quantità d’acqua, il coefficiente di diffusione nella fase liquida assume un peso preponderante nei confronti di quello nella fase gassosa. Ciò è stato accertato per il lindano, il dimetoato, l’atrazina, la propazina e la simazina. Per trifluralin l’effetto dell’umidità sulla diffusione nella fase gassosa è trascurabile. Per disulfoton, il valore della diffusione totale è costante, indipendentemente dal contenuto in acqua, per la contemporanea riduzione della diffusione nella fase gassosa ed incremento di quella nella fase liquida, con bilanciamento dei due effetti. La propazina, la prometrina, l’atrazina ed il 2,4 D diffondono poco perché sono molto assorbiti dal terreno, mentre la dieldrina, particolarmente in terreni molto secchi ed a larga superficie di esposizione all’aria, diffonde molto perché poco assorbita dal terreno anche se questo è dotato di elevato potere assorbente come quello argilloso. La densità del terreno, inversamente proporzionale agli spazi occupati dall’aria e dall’acqua, agisce sulla diffusione di un pesticida in modo opposto, nel senso che se essa aumenta, diminuisce l’aria e l’acqua del terreno e quindi diminuisce anche la diffusibilità del prodotto chimico. Pertanto, la diffusione assicura la distribuzione del pesticida nei pori e negli aggregati di piccole dimensioni del terreno, perciò pesticidi quasi insolubili in acqua (DDT, dieldrin) e poco volatili possono liberarsi nell’atmosfera in forma gassosa, proprio perché il rapporto aria/acqua controlla la diffusione nella fase gassosa e perché la solubilità di un composto determina la sua quantità nella fase liquida.

c) Trasporto di massa dei pesticidi: avviene a causa del movimento delle particelle del terreno sulle quali il pesticida è stato assorbito (simazina, linuron, paraquat). Considerando non preponderante la caduta di particelle (ad esempio montmorillonite), ricche di pesticida assorbito, in crepe profonde del terreno, il trasporto di massa e quindi la distribuzione di un pesticida lungo il profilo di terreno è legato al movimento dell’acqua (picloram, lindano, fenuron, diuron, neburon, atrazina ed altri): pesticidi molto assorbiti rimangono in superficie mentre quelli scarsamente assorbiti si distribuiscono uniformemente lungo il profilo di terreno (figura 3A); il punto di massima concentrazione di un pesticida, lungo il profilo di

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un terreno è indipendente dalla sua quantità impiegata (figura 3B); la velocità con cui si raggiunge l’equilibrio tra assorbimento e desorbimento di un pesticida nel terreno condiziona la dispersione di quest’ultimo per cui più lento è il raggiungimento dell’equilibrio più il pesticida si disperde lungo il profilo, maggiore è la velocità con cui si raggiunge l’equilibrio maggiore è la sua concentrazione in un certo punto del profilo (figura 3C). La capacità d’assorbimento, da parte delle particelle meno mobili del terreno (come quelle della sostanza organica che non si lasciano facilmente trasportare dall’acqua), induce un rallentamento del trasporto del pesticida.

Fig. 3 – Effetto dell’assorbimento di un pesticida sulla distribuzione lungo il profilo di un terreno (A); effetto della concentrazione del pesticida sulla sua distribuzione in profondità (B); effetto della velocità di raggiungimento dell’equilibrio assorbimento/desorbimento del pesticida sulla sua distribuzione verticale nel terreno. La distribuzione di un pesticida lungo il profilo del terreno dipende dalla sua capacità di essere assorbito (K), non è influenzata dalla concentrazione (C), è funzione della velocità (α) di raggiungimento dell’equilibrio assorbimento/desorbimento (da Cervelli, 1979).

d) Volatilizzazione dei pesticidi: è il passaggio nell’atmosfera di una certa quantità di pesticida che può raggiungere anche il 50%. La volatilizzazione dipende dalla natura del pesticida, dalla formulazione, dalle condizioni atmosferiche e dalle modalità di somministrazione. Il processo di volatilizzazione è sostenuto dall’equilibrio tra la quantità di pesticida assorbito e quella che passa in soluzione, tra la concentrazione del pesticida nella soluzione circolante (influenzata dalla concentrazione di sali di quest’ultima) e quella nell’aria del suolo (influenzata dalla differenza di concentrazione tra la fase liquida e l’interfaccia soluzione-aria e dalla

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tendenza del pesticida a passare nella fase di vapore), tra la concentrazione del pesticida nell’aria del suolo e quella nell’atmosfera (tale equilibrio è spostato tutto verso l’atmosfera in quanto in questa la concentrazione del pesticida è quasi nulla). La quantità d’acqua presente nel suolo ha grande rilevanza sulla volatilizzazione, tanto che, nella somministrazione di un pesticida, per ridurre le perdite, il terreno dovrebbe essere secco cosi che l’assorbimento sul complesso di scambio è massimo e la diffusione nella fase di vapore minima. Bisogna però tener presente che la secchezza del terreno impedisce il movimento dell’insetticida che, pertanto, non può avere effetto, mentre irrigando il terreno l’effetto può manifestarsi.E’ possibile rimuovere un pesticida che induce tossicità nel terreno o determina uno

strato tossico con il ricorso alla pratica agronomica dell’irrigazione agendo sulla quantità d’acqua e sul tipo d’irrigazione.

Se la quantità d’acqua è superiore a quella trattenuta dal terreno (saturazione) non si avranno effetti sul trasporto dei pesticidi lungo il profilo del terreno; se la quantità d’acqua è minore (terreno non saturo), agendo sulla quantità, diventa possibile la rimozione del prodotto chimico.

Piccole dosi potranno operare il trasporto del pesticida verso un profilo più profondo non interessato dalle radici.

Circa il tipo d’irrigazione, quella a solchi determina un movimento verticale ma anche orizzontale per cui si ha una distribuzione superficiale del pesticida rimosso, mentre l’irrigazione a pioggia causa un movimento prevalentemente verticale e lo spostamento del pesticida avviene verso il basso (figura 4).

Fig. 4 – Influenza del tipo d’irrigazione sulla distribuzione di un pesticida lungo il profilo del terreno. Si determina una distribuzione superficiale quando l’irrigazione è a solchi ed una distribuzione più in profondità nel caso dell’irrigazione a pioggia con elevati volumi d’acqua (da Cervelli, 1979).

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Fiume Francesco 72

Le lavorazioni (arature più o meno profonde), che hanno l’effetto di portare alla superficie gli strati tossici d’inibizione, di arieggiare il terreno e di aumentare al massimo la superficie esposta ai raggi solari (che inducono la fotodegradazione dei pesticidi) ed all’aria (volatilizzazione e degradazione per ossidazione), possono fornire buoni risultati (dieldrin).

Giacitura

La giacitura indica la posizione di un terreno nello spazio (piano, colle, monte) in rapporto ai punti cardinali (esposizione), ai fenomeni fisici in generale, all'influenza diretta o indiretta dei terreni circostanti (giacitura valliva, di fondovalle, di mezzacosta, esposta, calda, fredda).

La giacitura, in rapporto ai terreni circostanti ed all’inclinazione, é, più semplicemente, la posizione del terreno rispetto all’orizzonte. A tal proposito va detto che il calore ricevuto da una certa superficie da parte dei raggi solari è tanto maggiore quanto più la superficie è perpendicolare ai raggi stessi.

Questo perché la quantità di calore distribuita da due raggi equidistanti si ripartisce su una superficie sempre più ampia quanto più il loro angolo d’incidenza sul terreno si allontana da 90°.

Quando i raggi sono paralleli alla superficie del terreno non si ha riscaldamento per irraggiamento ma solo per convezione.

Pertanto, terreni piani ricevono la massima quantità di calore quando il sole è allo zenit, mentre terreni inclinati avranno la massima quantità di calore diretto in tempi intermedi tra il sorgere del sole e la sua posizione zenitale e tra questa ed il tramonto (figura 5).

Fig. 5 – Relazione tra inclinazione del terreno e suo riscaldamento da parte della radiazione solare incidente (1: riscaldamento ottimale; 2: mediocre; 3: scarso).

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Il microclima che si viene a creare in un fondovalle è sempre legato alla giacitura del terreno. Infatti, in un avvallamento, avviene lo scivolamento dell'aria fredda – formatasi a causa della perdita di calore per irraggiamento da parte della superficie del terreno al sopraggiungere della notte – lungo i pendii, che si accumula nel fondo valle dove ristagna.

Alle diverse quote dell'avvallamento si verifica una stratificazione dell'aria in relazione alla sua temperatura: è fredda in corrispondenza del suolo, raffreddatosi per perdita di calore per irraggiamento, ma è man mano sempre più calda verso l'alto, per convezione (aria calda, meno densa che s'innalza), per poi di nuovo raffreddarsi (gradiente termico).

Questo effetto è detto inversione termica del suolo. Il rischio di gelate è minore nelle parti più alte delle pendici, moderato nelle valli

ampie e nelle conche, molto elevato nelle valli strette e nelle depressioni nel cui fondo l’aria fredda ristagna (figura 6).

Da quanto detto, si può rilevare la grande importanza che assume la giacitura di un terreno sulle condizioni d’abitabilità per le piante, sullo sviluppo di queste ultime e, quindi, sulla resa produttiva. Pertanto bisogna scegliere opportunamente gli appezzamenti di terreno nel rispetto della vocazione colturale della zona.

Fig. 6 – Inversione di temperatura al suolo e stratificazione dell’aria a seguito del raffreddamento notturno in un fondovalle.

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Non s'impiantano colture sensibili in terreni freddi di un fondovalle, tenendo sempre presente che differenze anche di pochi metri di altezza lungo una pendice, in relazione alla sommità dello strato di inversione, possono determinare livelli di danno molto diversi o anche nessun danno (figura 7).

Fig. 7 – Danni da freddo ad una carciofaia impiantata sulle pendici di un fondovalle.

Il concetto geometrico di posizione trova applicazioni di studio nella valutazione delle condizioni riassuntive della fertilità naturale dei terreni, che l'uomo può modificare (difetti di giacitura) entro limiti assai ristretti con interventi vari di bonifica e colturali. L'esame delle caratteristiche fisiche di giacitura costituisce una fonte importante di valutazione agronomica dei terreni in relazione ai microclimi ed alle vocazioni colturali.

Considerazioni sulla giacitura dei terreni hanno interesse ai fini delle sistemazioni collinari e montane, sia in linea strettamente agronomica, sia idrogeologica per il consolidamento delle pendici, la scelta delle opere più idonee e delle specie meglio rispondenti ai fini dell'inerbimento e della copertura verde in generale.

In relazione alle caratteristiche morfologiche i terreni sono denominati:Terreni piani sono quelli a superficie uniformemente orizzontale. In rapporto alla

loro altezza rispetto al livello del mare, i terreni piani si distinguono in altopiani se sono in posizione elevata e bassopiani se posti alla stessa altezza od in prossimità.

Terreni pianeggianti sono quelli più o meno piani.Terreni inclinati sono quelli che hanno una superficie uniformemente pendente, in

un solo senso, che forma con il piano orizzontale un angolo il cui valore, espresso in gradi, fornisce l’intensità dell’inclinazione. Quest’ultima può anche essere indicata come pendenza fra due punti la quale esprime il rapporto percentuale tra il dislivello dei due punti e la loro distanza orizzontale. Pertanto, un terreno piano ha una pendenza dello 0% mentre una superficie inclinata di 45° ha una pendenza del 100%. La pendenza, in pratica, si può rilevare come il dislivello che si rileva ogni 100 m orizzontali, perciò se il dislivello fra due punti posti ad una distanza di 100 m (misurata orizzontalmente) è di 2

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m la pendenza è del 2%.Terreni ondulati sono quelli con una superficie mediamente orizzontale ma con

rilievi dolci e graduati.Terreni accidentati sono quelli che presentano una superficie con rilievi e

depressioni più o meno accentuati, bruschi e stretti ed a dislivelli più o meno forti.Terreni sconvolti o tormentati quando le irregolarità della superficie sono molto

accentuate.L’inclinazione della superficie di terreno, insieme con quella del sottosuolo ha una

grande importanza sui movimenti dell’acqua e soprattutto su quella che si chiama acqua di ruscellamento. Questa è quella quota d’acqua meteorica o d’irrigazione che, giunta sulla superficie, non trova la possibilità d’infiltrarsi nel terreno, si raccoglie e poi tende a scorrere lungo linee di pendenza più o meno accentuate.

L’importanza del ruscellamento è influenzata da condizioni primarie come le precipitazioni, in particolare la loro uniformità, intensità ed azione battente (è tanto maggiore quando più le piogge sono concentrate in determinate periodi, quanto più intenso è l’evento meteorico e più elevata è la velocità di caduta dell’acqua) e da importanti cause secondarie come la capacità del terreno di lasciarsi penetrare ed attraversare dall’acqua (capacità di percolazione) e velocità di scorrimento superficiali tanto più elevate quanto più marcate sono le pendenze. La pendenza del terreno è il parametro fondamentale nel determinare l’entità del ruscellamento, pertanto, tanto più ripido è il terreno tanto minore è il tempo di contatto tra ogni goccia ed un’area unitaria di superficie, in quanto l’energia gravitazionale propria della goccia si scompone in due vettori, di cui uno parallelo alla superficie del terreno con un’intensità tanto più elevata quanto maggiore è la pendenza del terreno (vettori CB e C’B’ della figura 8). Quindi, all’aumentare della pendenza diminuisce la probabilità d’infiltrazione ed aumenta quella di ruscellamento. La quantità d’acqua ruscellante diviene sempre più pericolosa al crescere della lunghezza dei percorsi con elevata pendenza. In tal caso bisogna intervenire con la realizzazione di solchi trasversali o di sbarramenti di varia natura che interrompano la continuità delle pendici.

Fig. 8 – L’energia gravitazionale dell’acqua meteorica è maggiore nel terreno più inclinato → → (CB > C’B’).

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Un terreno con eccessiva pendenza dà luogo, pertanto, ad ingenti perdite d’acqua che non s'infiltrano e, soprattutto, non vanno a costituire un’adeguata riserva idrica. Pertanto i terreni molto inclinati vanno incontro frequentemente a siccità anche in relazione all’incidenza dei raggi solari che, in rapporto all’inclinazione ed all’esposizione, possono colpire mediamente la superficie con un angolo retto per un tempo piuttosto lungo.

L’inclinazione del terreno può essere un fattore limitante nella realizzazione delle lavorazioni. Infatti, se la pendenza non supera il 5% i lavori possono essere eseguiti facilmente in tutte le direzioni e le acque possono essere regimentate con le sistemazioni adottate per la pianura. Se la pendenza supera il 5% le lavorazioni debbono essere fatte soltanto nel senso di direttrici che permettono alle macchine agricole di procedere senza che insorgano problemi di stabilità e di trazione; spesso, in tali casi, le lavorazioni devono essere eseguite secondo le linee di massima pendenza, tenendo presente che i limiti posti all’impiego di mietitrebbiatrici sono pendenze del 15-20%, per mietitrebbiatrici autolivellanti del 25-30%, per macchine per la falciatura e fienagione del 35-40%. Se la pendenza supera il 45% è sconsigliabile qualsiasi lavorazione e la destinazione del terreno potrebbe essere quella silvo-pastorale o meglio, allo scopo di ottenere la massima protezione contro il ruscellamento, diventa necessario costituire densi mantelli forestali ricchi di specie arboree, arbustive ed erbacee di sottobosco. Pertanto, per terreni dotati di forti pendenze, molto attenta deve essere la scelta delle colture da attuare, tenendo presente che quelle arative annuali, e soprattutto le sarchiate, offrono scarse garanzie di protezione, sia perché ricoprono il terreno per un periodo dell’anno relativamente breve, sia perché, anche quando si trovano nel periodo di massimo sviluppo della loro parte epigea, lasciano sempre porzioni di terreno esposte all’azione battente delle piogge. Una differente azione è invece svolta dalle cotiche erbose continue, basilari nelle colture di foraggere poliennali, che possono ottimamente difendere il terreno dall’acqua di ruscellamento (l’erba medica ha un apparato radicale che può raggiungere anche i 15 m di profondità).

La pendenza del sottosuolo svolge un ruolo importante nella stabilità di un terreno, insieme alle caratteristiche fisico-chimiche. I terreni con una certa pendenza ed in grado di contenere grandi quantità d’acqua (terreni argillosi) possono dar luogo a smottamenti e frane, spesso con disastrose conseguenze a causa dello scivolamento degli strati superficiali sopra un sottostante orizzonte o sottosuolo impermeabile. Tuttavia, un movimento franoso può verificarsi per frantumazione e diminuita coesione della parte superiore di terreno che scivola a valle, mentre la parte profonda rimane in sito, senza che si venga necessariamente a creare una superficie di scorrimento.

Un ruscellamento, quindi, non sufficientemente controllato in terreni con superficie dotata di una certa pendenza è il primo responsabile dell’erosione del terreno.

I vari tipi ed i differenti gradi del processo di erosione di un terreno sono in larga misura correlati con la morfologia dei terreni, di pianura e di collina, la continuità nel tempo degli eventi piovosi, la loro intensità, l’assenza di colture protettive o l’inadeguata disposizione dei filari di piante, con riferimento al decorso ed al gioco delle pendenze.

L’erosione che si determina è laminare, imponente, oppure intermedia. E' di tipo laminare quando riguarda tutta la superficie di terreno la quale si distacca dal sottosuolo sotto forma di strati più o meno coerenti (sheet erosion); questo tipo di erosione agisce subdolamente poiché è poco appariscente.

Oppure l'erosione è imponente quando causa la formazione di burroni (gully erosion) che si manifestano da principio come piccoli sprofondamenti che s’incuneano e

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si allargano nel corso di ogni precipitazione.Oppure l'erosione assume caratteri intermedi, con formazione di piccoli solchi,

alvei e canali (rill erosion).Questi processi negativi, distruttivi del terreno agrario, sono sicuramente da mettere

in relazione con gli interventi antropici di scarsa oculata gestione dell’esercizio dell’agricoltura.

L’azione della giacitura ed in particolare della pendenza del terreno si evidenzia al massimo nel caso della cosiddetta catena dei suoli, che consiste nella formazione di differenti tipi pedologici che si originano sullo stesso substrato ma in condizioni morfologiche differenti lungo una pendice collinare. Classico è il caso della “catena” della collina siciliana costituita da suoli con differenti profili (figura 9).

Fig. 9 – Caratteristica catena di suoli della collina argillosa siciliana. 1: regosuoli; 2: suoli bruni, a volta vertici; 3: suoli alluvionali vertici o vertisuoli.

In conclusione alcuni dati pratici, vale a dire che un’erosione apprezzabile comincia già con inclinazioni di 5-10° e che velocità dell’acqua ed erosione sono tra loro in rapporto geometrico, cioè un raddoppiamento della velocità dell’acqua aumenta di 4 volte l’erosione stessa. Di notevole importanza, anche ai fini dell’esecuzione di una sistemazione di collina e nella delimitazione delle dimensioni dei campi, è la lunghezza del piano inclinato, per cui, con una pendenza del 9%, raddoppiando la lunghezza del pendio il ruscellamento aumenta di 1,8 volte e l’erosione di 3 volte.

Esposizione

L’esposizione è un’altra caratteristica statica del terreno perché non modificabile dall’uomo. Essa indica verso quale punto cardinale è esposto un determinato terreno.

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Fiume Francesco 78

Essa è correlata alla giacitura, cioè a parametri di morfologia terrestre e quindi si esprime soltanto per terreni posizionati su pendici, essendo quelli di pianura esposti a tutti i punti cardinali.

Con la denominazione di punto cardinale si indicano i punti d'incontro dell'orizzonte col meridiano (cerchio massimo passante per i poli e lo zenit) e col primo verticale (cerchio massimo passante per lo zenit e perpendicolare al meridiano). Essi pertanto sono punti convenzionali posti a 90° l'uno dall'altro e sono Nord (N) quello corrispondente alla direzione della Stella Polare e gli altri, presi successivamente nel senso orario, est (E), sud (S), ovest (W od O). I punti cardinali sono importanti per l'orientamento e per indicare l'esposizione.

Secondo l’esposizione dei versanti aumenta o diminuisce la durata delle insolazioni, con riflessi sulle proprietà termiche dei suoli, sulla natura ed intensità della vegetazione, sul microclima, sulla forza e direzione dei venti, sulla durata delle piogge, sulla formazione di nebbie e così via.

Ad est o levante, dove il sole sorge o si leva all'alba, i terreni e l’aria, investiti per primi dai raggi solari, si riscaldano rapidamente ma si raffreddano con altrettanta rapidità perché cessano di ricevere la luce ed il calore prima del tramonto. Pertanto, in corrispondenza di questo punto cardinale si hanno forti variazioni di temperatura del terreno ed una temperatura media diurna piuttosto bassa, il che rende frequenti le gelate ed il processo gelo-disgelo. Pertanto in terreni esposti ad est si possono coltivare piante che sopportano bene gli sbalzi di temperatura (pero, melo) e non quelle che hanno bisogno di un clima mite come peschi, albicocchi, piante da orto, leguminose da granella.

A sud o mezzogiorno il riscaldamento è graduale, la temperatura media diurna è la più alta e l’umidità relativa è bassa. Le gelate sono molto rare e l’eventuale disgelo è abbastanza lento perché l’escursione termica è ridotta. Sui terreni rivolti a questa esposizione si coltivano piante che hanno bisogno di calore come gli agrumi, peschi, albicocchi, piante orticole, patate, fagioli e tutte quelle piante dalle quali si vuole ottenere una produzione precoce.

Ad ovest o ponente, dove il sole tramonta di sera, la temperatura aumenta gradualmente mentre l’insolazione, anche se ritarda al mattino, in compenso si protrae fino al tramonto. La perdita di calore è lenta e la temperatura media giornaliera è di poco inferiore a quella dell’esposizione sud ma il passaggio dalla temperatura diurna a quella notturna è meno dannoso di quello inverso che si ha, di mattina, a levante. Per i terreni esposti a questo punto cardinale, o a quello intermedio sud-ovest, sono previste colture che hanno bisogno di caldo o che devono fornire una produzione fuori stagione.

A nord o tramontana l’insolazione diretta è praticamente nulla ed il calore arriva solo per convezione. La temperatura perciò si mantiene costantemente bassa e di conseguenza gli sbalzi termici sono molto ridotti, mentre l’umidità relativa è alta. I cambiamenti dal giorno alla notte sono lenti e meno sensibili che negli altri versanti. I terreni esposti a nord possono, pertanto, ricevere coltivazioni che resistono al freddo ed all’umidità, che hanno bisogno d’intensità luminose non eccessivamente elevate.

Pertanto, i terreni esposti a mezzogiorno o a ponente sono i più caldi e quindi sono quelli che meglio si prestano ad essere messi a coltura nei climi caldi e temperato-caldi; tali terreni hanno qualità meno favorevoli alla maggior parte delle colture nei climi caldi e temperato-caldi.

Per verificare l’importanza dell’esposizione di un terreno sulle coltivazioni basta portarsi a condizioni estreme. Sul monte Adamello, il limite del pascolo e delle malghe (una malga può ospitare 100-200 capi bovini) giunge ad oltre 2800 m nel versante esposto a sud ed a 2570 m in quello con esposizione nord. Nelle regioni dove l’olivo

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soffre per le gelate, queste sono più dannose alle piante coltivate su terreni esposti ad est o sud (terreni soggetti a forte escursione termica) che non alle piante coltivate su terreni esposti ad ovest o nord.

Nei terreni piani è importante l’orientamento delle piante che deve essere tale che si possano utilizzare al massimo le disponibilità di calore ed evitare nello stesso tempo le escursioni termiche tra il giorno e la notte. Così, per creare condizioni più favorevoli alle piante e per ottenere una maggiore precocità delle produzioni in colture da orto (pomodoro), è preferibile assolcare il terreno in direzione est-ovest e porre le piantine sul lato del solco rivolto a sud.

L’esposizione di un terreno determina la possibilità di coltivare piante lontane dalla loro area di coltura. Così diventa possibile coltivare l’olivo nella collina veronese, molto più settentrionale del limite normale di coltura di questa pianta, ma volta a mezzogiorno ed è possibile coltivare fiori sulle pendici rivolte verso il mare delle colline liguri.

Come già detto l’esposizione di un terreno è strettamente collegata all’esposizione e più l’angolo d’incidenza dei raggi solari si avvicina a 90° più alto è l’assorbimento d’energia da parte del terreno. Nel nostro emisfero, fatta uguale a 100 la quantità di calore ricevuta da una superficie orizzontale, una superficie inclinata di 30° riceve, a media latitudine, differenti quantità di calore a seconda dell’esposizione e precisamente a sud 129, ad est 92, ad ovest 90 ed a nord 50. L’esposizione nord di una pendice con una pendenza di appena il 5% riduce la temperatura media del terreno, rispetto ad una superficie orizzontale, quanto uno spostamento verso il polo di 450 km.

Costituzione

Per costituzione meccanica del terreno s’intende la sua composizione granulometrica. Determinare la costituzione meccanica di un terreno significa individuare le dimensioni delle particelle che ne costituiscono la massa.

Dallo studio della disgregazione e della decomposizione delle rocce si è visto che il terreno è un sistema formato di elementi meccanici e fisici di forma e grandezza tra le più varie e le più diverse e che normalmente, in ogni terreno, i costituenti rocciosi si rinvengono in tutta la gamma delle loro dimensioni, partendo da blocchi, ciottoli, ghiaia, sabbia e via via fino a giungere ai costituenti di dimensioni colloidali. In ogni caso si tratta di una serie continua nella quale difficilmente è dato riscontrare degli sbalzi o dei vuoti.

Dove i differenti terreni si distinguono, da un punto di vista meccanico e quindi della costituzione, non è dunque nelle dimensioni delle particelle, bensì nelle proporzioni secondo cui le particelle delle varie dimensioni sono rappresentate nel terreno. Dunque, determinare la costituzione di un terreno significa individuare le quantità secondo cui le diverse particelle rientrano nella costituzione del suolo medesimo. Ma, determinare le particelle di tutte le grandezze sarebbe un lavoro molto lungo e non del tutto necessario, per cui, allo scopo di rendere più semplice il lavoro di analisi e d’individuazione della costituzione di un terreno, i diversi costituenti meccanici sono stati raggruppati in classi opportunamente definite che consentono di procedere e stabilire, speditamente, la quantità delle particelle di ciascuna classe.

Numerosissime sono le classi proposte ed adottate, ma il sistema di classificazione che ha incontrato maggiore favore e che quindi risulta attualmente il più diffuso è quello adottato dalla Commissione internazionale della scienza del suolo per proposta di

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Atterberg (1912). Secondo tale classificazione, come del resto per qualsiasi altra, bisogna distinguere nel terreno la frazione di costituenti grossolani detta scheletro, con particelle superiori a 2 mm di diametro, ed una frazione di costituenti minuti detta terra fina di diametro inferiore a 2 mm. Nello scheletro vanno distinte due classi di costituenti e cioè i ciottoli e la ghiaia. Nella terra fina vanno distinti costituenti di quattro classi diverse e cioè la sabbia grossa, la sabbia fina, il limo e l’argilla che rappresenta, quest’ultima, la frazione colloidale. Questa classificazione internazionale non è ovunque ancora ufficialmente seguita e perciò si ritiene utile riportare le classificazioni delle frazioni separate nell’analisi fisico-meccanica del terreno agrario a norma dei sistemi vigenti in differenti paesi (tabella 11).

Tab. 11 – Classificazioni delle composizioni granulometriche del terreno agrario a norma dei sistemi vigenti in differenti paesi e secondo il metodo internazionale proposto dalla Commissione internazionale della scienza del suolo.

Stati Uniti Inghilterra Italia Germania Internazionale

Frazione ∅ (mm)

Frazione ∅ (mm)

Frazione ∅ (mm)

Frazione ∅ (mm)

Frazione ∅ (mm)

Scheletro 3-1 Scheletro 3-1 Scheletro > 1 Scheletro: Scheletro: > 2

Terra fine: Terra fine: Terra fine: - pietrisco > 10 - ciottoli > 20

- sabbia: - sabbia: - sabbia 1-0,2 - ghiaia 2-10 - ghiaia 20-2

grossa 1-0,5 grossa 1-0,2 - sabbione 2-0,25 Terra fine:

media 0,5-0,25 Terra fine: - sabbia:

fine 0,25-0,1 fine 0,2-0,4 - sabbia fine 0,25-0,02 grossa 2-0,2

finissima 0,1-0,05 - limo 0,04-0,01 - limo 0,2-0,02 fine 0,2-0,02

- limo 0,05-0,005

- limo fine 0,01-0,002 - limo 0,02-0,002

- argilla: < 0,005 - argilla: 0,02-0,001

colloide < 0,002 - argilla < 0,002 - argilla <0,02 colloide < 0,001 - argilla < 0,02

La costituzione di un terreno agrario è un’entità abbastanza fissa e costante per ogni terreno studiato anche se, particolarmente in un suolo naturale non disturbato dalla pratica della coltivazione agricola e quindi naturalmente esposto agli agenti di disgregazione e decomposizione, si osserva sempre uno stato d’accentuata e continua trasformazione.

Infatti, vi sono particelle che passano allo stato di progressiva soluzione e disgregazione diminuendo di volume ed assottigliandosi fino a scomparire ed altre che invece aumentano di volume per apposizione di materiali diversi o variano soltanto di massa per infiltrazione di sostanze già solute.

Vi sono poi particelle che migrano nel terreno trasportate dalle soluzioni circolanti o a seguito di fenomeni legati alle caratteristiche della materia colloidale. Infine vi è l’apporto della materia organica e la sua trasformazione, sia naturalmente per lo svolgersi dei cicli biologici degli organismi macro e microscopici, sia artificialmente per l’attività

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agricola dell’uomo (concimazioni organiche). Tuttavia, questi processi dinamici avvengono in un tempo relativamente lungo,

essendo la loro entità in pratica di poco rilievo e trascurabile in un ristretto periodo. Come già detto, per individuare la costituzione di un terreno bisogna determinare la

sua composizione granulometrica. Per far ciò bisogna effettuare l’analisi del terreno che prevede una serie di operazioni rappresentate dal prelevamento del campione, dalla separazione dello scheletro, dalla separazione della terra fine.

PRELEVAMENTO DEL CAMPIONE

Se il terreno si presenta molto omogeneo è sufficiente prelevare un unico campionamento nella parte centrale dell’appezzamento, a due differenti profondità, così da ottenere un campione di terreno rappresentativo dei primi 40 cm ed un altro che rappresenta uno spessore di terreno compreso tra i 40 e gli 80 cm.

Qualora l’aspetto del campo si presenta variabile, è necessario effettuare diversi campionamenti, ad esempio, lungo le diagonali dell’appezzamento e ad una distanza che dipende dall’eterogeneità dello stesso terreno.

In ognuno di questi punti prefissati si elimina lo straterello superficiale e si scava una buca profonda circa 40 cm dalla cui parete si preleva, con una vanga, una fetta di terreno. Poi si approfondisce la buca fino ad 80 cm e dalla parete, compresa nell’intervallo tra 40 e 80 cm, si preleva un’altra fetta di terreno.

Ognuna delle fette di terreno è accuratamente omogeneizzata per poi prelevarne 1 kg che è portato in laboratorio. Naturalmente le misure indicate sono orientative poiché se il terreno è di scarsa potenza la profondità di prelievo dei due campioni può ridursi.

Un’altra tecnica di campionamento che prevede l’indagine senza tener conto della profondità consiste nella scelta di appezzamenti uniformi da cui si preleva una vangata di terra ogni 50 m circa in direzione della lunghezza del campo, avendo cura di togliere ogni volta un sottile strato della cotica superficiale.

Giunti al termine dell'appezzamento, si ripete l'operazione in senso inverso, tenendosi a distanza di circa 50 m dal primo percorso, e così di seguito. I campioni vengono messi in un sacco, poi rimescolati ben bene così da formare un grande campione omogeneo, dopo di che si procede, con il sistema della quadrettatura, sino ad ottenere un campione di circa 3-5 kg per la spedizione al laboratorio.

E' da notare che, trattandosi di appezzamenti piccoli, la campionatura va praticata a distanze minori di quelle sopra riportate e che, in generale, conviene sempre prendere un numero piuttosto rilevante di campioni.

SEPARAZIONE DELLO SCHELETRO

Il campione di terreno viene asciugato all’aria, posto su uno staccio con fori di 2 mm di diametro e, sotto un filetto continuo d’acqua, viene praticata la separazione dei vari costituenti lo scheletro.

L’acqua torbida passa attraverso i fori dello staccio e, su quest’ultimo, resterà una parte cospicua di materiale più grossolano che non sarà possibile suddividere ulteriormente.

La parte rimasta sullo staccio costituisce lo scheletro del terreno, quella passata

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oltre costituisce la terra fina. Lo scheletro rimasto sullo staccio si lascia asciugare in stufa a temperature non superiori ai 105 °C, si pesa e si riferisce a cento o mille parti di terreno.

I terreni che hanno una quota di scheletro superiore al 40% vengono detti a scheletro prevalente.

Tuttavia bisogna tener presente che la presenza di un solo ciottolo, per esempio, può ingrandire fuori misura il valore percentuale, facendo classificare ciottoloso un terreno che non lo è, come pure vi possono essere terreni che hanno una rada distribuzione di ghiaia che il campione di terreno prelevato potrebbe non comprenderla. Ciò dimostra la necessità di prelevare con raziocinio il campione e di integrare il risultato dell’analisi granulometrica con un opportuno commento.

La quota di terreno che spetta allo scheletro assume grande rilevanza agronomica circa i riflessi sul bilancio idrico degli elementi nutritivi dosati nella terra fine, sull’economia dei fertilizzanti, dell’acqua di pioggia o d’irrigazione, sui movimenti idrici di natura capillare legati all’eventuale esistenza di falde freatiche più o meno superficiali, sul trasferimento in profondità delle particelle più piccole, sull’impiego di macchine ed attrezzi agricoli da usarsi nei lavorazioni del terreno, sull’economia delle raccolte manuali o meccaniche.

L’esame dello scheletro assume notevole importanza perché fornisce utili notizie sulla natura litologica della matrice del terreno e su altre caratteristiche.

Lo scheletro può essere costituito da una parte inorganica e da una porzione organica. La prima può presentare frammenti di rocce o altri materiali come grossi cristalli o parti di essi, mentre la seconda può essere costituita da fossili, come conchiglie di molluschi marini ed altri organismi, che possono far pensare alla passata presenza del mare che può aver impartito caratteristiche salmastre a quel terreno. Inoltre l’osservazione di questa frazione grossolana del terreno consente di ricavare utili informazioni circa l’origine dinamica del substrato: elementi con spigoli vivi e ben evidenti indicano un’origine autoctona colluviale, arrotondati ed a superficie levigata presuppongono un’origine alluvionale, con una sola faccia piana ma non levigata evidenziano un’origine morenica, piatti ed a spigoli arrotondati fanno pensare ad un’origine marina, elementi porosi e lapilliformi sono caratteristici di un terreno piroclastico. L’esame dei residui organici può fornire informazioni sui vegetali di quei terreni ed utili notizie sulla natura della materia organica e sulle caratteristiche pedologiche, connesse con l’estensione dei vegetali (terreni torbosi).

In definitiva, l’analisi dello scheletro, anche microscopica, effettuata allo scopo di individuare le rocce ed i minerali dai quali hanno preso origine un determinato terreno, è un fatto di grande importanza perché, se si mette da parte lo scheletro e si pensa di poter condurre osservazioni finalizzate a tale obiettivo sulla terra fina, ci si accorgerà che il giudizio sui costituenti litologici e mineralogici diventa veramente difficoltoso.

SEPARAZIONE DELLA TERRA FINE

La suddivisione dello scheletro è cosa abbastanza facile, mentre ben più difficile, ed a volte non possibile, è la separazione dei costituenti della terra fine.

Man mano che le particelle diventano più piccole, tanto più si fanno sentire i loro caratteri fisico-chimici che influenzano lo stato di grande suddivisione della materia. Le particelle si attraggono e si addossano le une alle altre, in modo da formare unità fisiche più grandi che possono frantumarsi soltanto col cessare o mutare della causa che ha

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determinato l’aggregazione.Per conoscere la composizione meccanica della terra fine, bisogna portare tutti i

costituenti allo stato disperso eliminando i fattori che determinano l’unione delle particelle e poi saturare l’attivo complesso assorbente con ioni ad alto potere disperdente, in modo da impedire o ridurre al minimo ulteriori possibilità di nuove agglomerazioni. Non sempre è semplice raggiungere questo risultato poiché le forze di aggregazione, di agglomerazione, di flocculazione sono molto forti e spesso sono fornite dalla stessa composizione chimica o mineralogica delle particelle costituenti il terreno. Per escludere tali forze bisognerebbe eliminare unità fisiche primarie, veri costituenti del suolo, con l’effetto paradossale di distruggere il terreno per poterne individuare la sua composizione.

Le cause che provocano la formazione di vari aggregati di particelle del terreno sono legate alla carica elettrica di queste ultime, alla sostanza organica ed agli ossidi ed idrati di ferro ed alluminici.

Con riferimento alla carica elettrica delle particelle va detto che i colloidi del terreno in sospensione acquosa, come gli ioni, hanno carica elettrica e, se sottoposti all’influsso di una corrente continua, migrano verso l’anodo se la loro carica è negativa o verso il catodo se la loro carica è positiva.

La velocità di migrazione è tanto più alta quanto più elevato è il loro potenziale, vale a dire la quantità di carica elettrica.

Tale potenziale è il responsabile della stabilità di una dispersione colloidale perché più esso è alto più elevata è la forza con la quale le particelle di uguale carica si respingono e, viceversa, se esso diminuisce la forza di repulsione si attenua fino al punto che le particelle cadono l’una sull’altra, per la forza di attrazione delle masse, con formazione di flocculi.

Le particelle colloidali del terreno, infatti, che risultano disperse in un liquido, come tutti i colloidi, sono assoggettate al cosiddetto movimento browniano (provocato dall’urto delle molecole del liquido disperdente sulle stesse particelle le quali si muovono tanto di più quanto più esse sono piccole) a seguito del quale vengono fra loro a collisione e poi respinte per effetto della carica elettrica.

Ma se una causa qualunque riesce ad annullare tale carica elettrica, prevalgono le forze di coesione, dovute all’attrazione di massa.

Tali forze causano l’aggregazione delle particelle e la formazione di flocculi. Questi, da un lato aumentano la loro forza di attrazione (non legata alle cariche ma alla massa) verso altre particelle più piccole e danno luogo ad aggregati sempre più voluminosi, dall’altra soggiacciono alla forza di gravità e si depositano sul fondo.

Pertanto, la flocculazione dei colloidi del terreno in sospensione può avvenire sia per reciproca attrazione di colloidi a carica opposta, sia per la presenza di ioni di un elettrolito, di carica opposta a quella degli stessi colloidi, con conseguente neutralizzazione per adsorbimento.

Gli anioni neutralizzano i colloidi positivi, i cationi quelli negativi, provocandone la flocculazione (figura 10).

L’aggregazione dei colloidi del terreno è incrementata con l’aumento della valenza degli ioni e del loro peso atomico e con la diminuzione della loro idratazione.

Sulla forza di coagulazione indotta dagli ioni influisce la valenza degli stessi (il numero delle cariche elettriche), la loro idratazione, il peso atomico, la quantità e l’intensità con cui vengono adsorbiti.

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Fig. 10 – Neutralizzazione di un colloide del terreno per opera di cationi monovalenti di un elettrolita.

Gli ioni idrogeno, tra quelli monovalenti, sono quelli che hanno maggiore capacità di coagulazione, per questo l’aumento dell’acidità del mezzo favorisce l’aggregazione. Come già accennato, la neutralizzazione delle cariche elettriche dei colloidi non avviene soltanto con l’adsorbimento di ioni di segno opposto, ma anche in seguito a reciproca attrazione di colloidi a carica opposta. In tal caso, la completa flocculazione si ottiene solo se la somma algebrica delle cariche è nulla, mentre, se vi è una moderata eccedenza di una carica su un’altra si una flocculazione incompleta; un eccesso di una carica sull’altra provoca l’inversione della carica del colloide presente in minore quantità e quindi assenza di flocculazione. Quindi, sull’aggregazione di due colloidi a carica contraria gioca un ruolo fondamentale non tanto il loro rapporto stechiometrico bensì il rapporto tra le cariche opposte.

La quantità minima di elettrolita necessaria per provocare flocculazione dipende dalle caratteristiche dei colloidi, da quelle dell’elettrolito impiegato e dallo stato d’omogeneità delle particelle in sospensione. Vi sono colloidi - detti liofili o idrofili, con acqua di condensazione sulla loro superficie a formare una pellicola di copertura che induce resistenza alla coagulazione da parte degli elettroliti - che precipitano formando coaguli voluminosi e gelatinosi, con tendenza a ritornare allo stato disperso. Si dice allora che i colloidi passano dallo stato di sol a quello di gel e viceversa. Vi sono poi colloidi, detti liofobi o idrofobi, che assorbono poca acqua, pertanto non sono isolati da alcuna pellicola acquosa, sono molto sensibili agli elettroliti i quali ultimi possono indurre facilmente flocculazione (con flocculi poveri d’acqua, granulosi e compatti) anche in piccole quantità.

Lo stato di idratazione degli ioni dell’elettrolita è influenzato dall’attrazione esercitata sulle molecole d’acqua la quale è direttamente proporzionale alla carica degli ioni ed inversamente al loro diametro. Pertanto, più uno ione è idratato, tanto meno può avvicinarsi alla superficie della particella colloidale ed indurre aggregazione per neutralizzazione delle cariche.

Circa le caratteristiche dell’elettrolito, cioè del sale impiegato per la flocculazione dei colloidi, per l’argilla del terreno, ad esempio, colloide a carica negativa, il catione induce flocculazione perché viene attratto e determina neutralizzazione; l’anione, di carica uguale al colloide argilloso, fa aumentare la stabilità e non induce flocculazione. Il

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suo effetto, tuttavia, è inferiore a quello del catione, poiché l’anione, di carica uguale a quella della particella argillosa, viene respinto e viene a trovarsi in posizione più distante rispetto al catione, perdendo di molto la sua efficacia. Il catione, di carica opposta a quella del colloide, viene da questo attratto, portandosi nelle immediate vicinanze o a contatto, neutralizza la carica e provoca, come effetto finale, la precipitazione del colloide. Non tutti i sali hanno la stessa forza coagulante su cui influisce la caratteristica dell’anione sull’effetto dello stesso catione e viceversa. Ad esempio, i cationi ammonio e potassio vengono assorbiti di più soltanto se si trovano allo stato di solfato che non di cloruro.

Circa l’omogeneità della grandezza delle particelle che si trovano nella sospensione acquosa, la flocculazione è più facile in soluzioni eterogenee e tanto più le particelle sono grosse tanto più alte sono le probabilità che essa avvenga, fungendo le stesse particelle di diametro maggiore da nucleo di condensazione.

Da quanto detto, è facile dedurre come la quantità minima d’elettrolito, necessaria per indurre flocculazione di una soluzione colloidale, sia molto variabile ed è strettamente in relazione col tipo di colloidi e dell’elettrolito e con le caratteristiche granulometriche della dispersione colloidale.

La sostanza organica è un'altra delle cause che svolgono sullo stato d’aggregazione delle particelle di terreno un ruolo molto importante, sia attraverso i componenti più grossolani, sia mediante i composti umici che si formano a seguito della sua decomposizione. In particolare, le soluzioni umifere hanno la tendenza a costituire pellicole di rivestimento che avvolgono le sottili particelle di terreno formando unità fisiche più complesse e di maggiori dimensioni. La temperatura (gelo e calore) favorisce l’effetto di cementazione, tanto più forte quanto più piccole sono le particelle, aumentando la persistenza e la resistenza dell’aggregato. Inoltre la sostanza organica aggrega le particelle, in relazione alla propria carica negativa, venendo a contatto con colloidi di carica positiva, come ad esempio quelli del ferro e dell’alluminio, con conseguente neutralizzazione reciproca delle cariche e reciproca flocculazione. Fenomeno analogo può avvenire fra colloidi argillosi e colloidi umici per una reazione di alcuni gruppi a carica opposta come, ad esempio, i fra i gruppi –SiOH ed =NH2, fra gruppi =AlOH e gruppi ossalici e di ossidrili fenolici. Infine, vi sono materiali organici di essere viventi che possono formare aggregati, come radici capillari delle piante, miceli fungini e colonie batteriche che rinsaldano in unità maggiori piccoli aggregati di terreno. I microrganismi possono intervenire sia con il loro complesso fisico, sia con prodotti della loro attività biologica con formazione di polisaccaridi e poliuronidi che, in forma filamentosa, avvolgono particelle inorganiche di terreno. La stabilità di questi aggregati non è di lunga durata perché la decomposizione delle sostanze organiche provoca la disaggregazione delle particelle terrose.

Gli ossidi e gli idrati di ferro ed alluminio hanno anch’essi un ruolo importante nella formazione di aggregati e nella costituzione di unità strutturali. La loro efficacia è più sentita in ambienti acidi, poiché le loro cariche positive diminuiscono coll’aumentare del pH, ed in ambienti poveri di sostanza organica che con la propria carica elettrica negativa neutralizza la positività di tali colloidi.

Da quanto si è esposto appare chiaro che le particelle di terreno possono trovarsi allo stato di aggregati, formatisi a seguito di flocculazione elettrolitica, i quali sono labili e quindi più facili a disperdersi.

Vi sono poi aggregati, anch’essi capaci di disperdersi con relativa facilità, creatisi per azioni meccaniche, dovute a compressioni fisiche di attrezzi e radici, per la debole azione cementante di soluzioni colloidali inorganiche ed organiche.

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Infine, vi sono aggregati molto stabili, sorti per cementazione di origine colloidale (per effetto del calore e del secco), di origine chimica (concrezioni calcare o ferruginose) e di grande ampiezza (conglomerati, banconi che hanno trasformato il terreno in roccia); in quest’ultimo caso essi non possono essere presi in esame nell’analisi granulometrica del terreno.

La dispersione preliminare del terreno è diretta verso gli aggregati indotti da cariche elettriche e dovuti alle azioni meccaniche. Tale dispersione deve rispettare le altre forme di aggregati (concrezioni ferruginose, noduli di caranto, pezzetti di arenarie che poi si trasformano in sabbia) perché fanno parte integrante delle frazioni grossolane di terreno e, sebbene geneticamente diversi, si comportano come gli altri frammenti rocciosi del terreno che non vanno frantumati.

Dopo quest’ampia premessa, che permette di comprendere come funzionano i componenti colloidali del terreno e la natura delle forze che causano la loro aggregazione, sarà più semplice capire le successive operazioni di separazione delle frazioni costituenti la terra fine.

E’ necessario frantumare gli aggregati instabili e ricondurre i costituenti nello stato d’originaria dispersione. Il terreno, pertanto, se secco, va inumidito, allo scopo di ripristinare il normale stato di idratazione, e poi, dopo dispersione in una certa quantità d’acqua, si sottopone ad una prolungata agitazione.

La disgregazione dei grumi richiede l’asportazione di sostanze organiche e sesquiossidi ferroalluminici cementanti le particelle. La rimozione delle prime si ottiene per mezzo di ossidazione, facendo bollire il terreno in una soluzione al 6% di acqua ossigenata, oppure usando una soluzione 0,004-0,01 N nei casi più comuni o più concentrata fino a 2-3 N, qualora i terreni siano decisamente umiferi. L’asportazione dei secondi si ottiene con una soluzione 0,1-0,2 N di HCl, o con solfuro di ossalato sodico che riduce il ferro allo stato ferroso e porta in soluzione gli ossidi di ferro e di alluminio.

La sostituzione di ioni adsorbiti, ad azione flocculante (Ca2+, Mg2+), con altri ad effetto disperdente (Li+, Na+) si effettua trattando prima con acidi, in modo che gli ioni idrogeno vanno a sostituire gli ioni calcio e magnesio, e poi, dopo l’allontanamento di questi ultimi, per filtrazione ed eliminazione del liquido che contiene gli ioni spostati, si effettua un trattamento alcalino con ioni litio o sodio.

Gli ioni calcio e magnesio adsorbiti possono anche essere eliminati mediante precipitazione con carbonato o ossalato o esametafosfato sodico che formano i corrispondenti sali. Si ricorre a quest’ultima via nel caso di terreni calcarei o ricchi in calcio scambiabile; l’esametafosfato di sodio, che oggi è il più usato, alla soluzione di 102 g/l (s’impiega a 10 cc per 500 cc di liquido), annulla l’effetto coagulante degli ioni calcio e consente la dispersione del terreno anche in loro presenza.

Allo scopo di lasciare il terreno il più possibile integro, è stata proposta la seguente procedura:a) si tratta la terra fina con una soluzione normale di NaCl il quale, come sale neutro, non ha

effetti dannosi sulla massa terrosa, mentre il sodio è in grado di saturare il complesso colloidale del terreno;

b) dopo un’ora, si filtra e si elimina il liquido filtrato contenente gli ioni calcio e magnesio spostati;

c) si aggiunge ancora una quantità di 100 cc della stessa soluzione di NaCl, lasciando a contatto per un’ora ed agitando ogni tanto;

d) si decanta sul filtro usato precedentemente e si lava ripetutamente con acqua distillata fin quando il filtrato diventa lievemente torbido o non passa più;

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e) si lava con acqua distillata contenente fenolftaleina e qualche goccia di soluzione decinormale di NaOH (fino a colorazione rosa, cioè reazione leggermente alcalina, allo scopo di tenere la concentrazione della soluzione d’idrossido di sodio entro limiti modestissimi e non provocare apprezzabili reazioni chimiche sulla massa terrosa, con possibili effetti contrari flocculanti e solventi) allo scopo di impedire che gli ioni idrogeno vadano a sostituirsi agli ioni sodio adsorbiti dai colloidi, di mantenere, per azione di massa, i colloidi stessi saturi di sodio e di conservare il loro stato di alta dispersione;

f) si toglie il terreno dal filtro (con una spruzzetta), si mette in beuta con circa 300 cc di acqua distillata alcalinizzata con NaOH, in presenza di fenolftaleina, e si tiene in agitazione per un’ora;

g) si versa tutto nell’apparecchio di levigazione.Una delle determinazioni più importanti nell’analisi meccanica dei terreni è la

separazione della terra fina nei suoi costituenti meccanici, vale a dire in parti di diversa grossezza. Dal grado di finezza dipendono le principali proprietà fisiche di un suolo quali il potere assorbente, la capacità idrica, la permeabilità, la conducibilità per il calore.

Quest’analisi può essere effettuata o tenendo il liquido immobile, in modo che le particelle sospese sedimentino sotto l’azione della gravità o facendo circolare il liquido dal basso verso l’alto in modo che la corrente, ad una data velocità, trascini soltanto le particelle di una certa dimensione. Per far ciò, bisogna poter disporre di apparecchi detti levigatori, dal nome levigazione che indica il processo che separa le particelle di terreno sospese in un liquido.

Nel primo caso s’impiegano i levigatori a sedimentazione o a velocità di caduta, propriamente detti sedimetatori che permettono alle particelle in movimento discendente di depositarsi in ragione del peso specifico, della forma e del volume e, pertanto, le diverse frazioni possono essere separate raccogliendo il liquido torbido in tempi diversi.

Nel secondo caso si usano i levigatori a circolazione (veri e propri levigatori), basati sull’azione di trasporto dell’acqua corrente. Questi levigatori, determinando un movimento ascendente dell’acqua che urta contro le particelle, sollevandole in ragione del peso specifico, della forma e del volume, danno luogo alla divisione dei granelli in una serie di frazioni di varia grandezza. Ognuna delle frazioni sarà trasportata da correnti idriche di velocità differenti.

Sono stati realizzati numerosi apparecchi che, con semplice manualità, consentono una buona selezione granulometrica delle particelle del terreno e tutti rispondono abbastanza bene allo scopo.

Tra i levigatori a sedimentazione ricordiamo la pipetta di Andresen e gli apparecchi di Appiani e di Atterberg.

Tra i levigatori a circolazione gli apparecchi di Schöne-Kopecki.Con la separazione dello scheletro sono state rimosse, mediante stacci, le particelle

di diametro superiore a 2 mm. Inoltre, sempre mediante stacci, con fori e maglie di differenti dimensioni, è possibile separare particelle di diametro comprese tra 0,2 e 2 mm (sabbia grossa), tra 0,02 e 0,2 (sabbia fina). Ma per la separazione delle particelle con diametro inferiore a 0,02 mm, corrispondenti alle frazioni del limo e dell’argilla, bisogna ricorrere alla levigazione.

I diversi metodi messi a punto per realizzare la levigazione per sedimentazione di un terreno si fondano sulla legge di Stockes, che esprime la velocità di caduta di una particella in seno ad un liquido, secondo le dimensioni della particella e la densità e viscosità del liquido. La legge di Stockes è data dalla seguente relazione:

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2 g r2 (P – d) v = –––––––––––––

9 η

dove v è la velocità uniforme di caduta in cm/sec;g l’accelerazione di gravità pari a 981 m/s2;r il raggio della particella;P il peso specifico delle particelle;d il peso specifico dell’acqua;η coefficiente di viscosità dell’acqua espresso in g sec/cm2.

Per l’esatta applicazione di questa legge si richiedono le seguenti condizioni: particelle sferiche, assenza di moti vorticosi in seno al liquido, nell’adesione tra le particelle sospese ed il liquido le molecole del liquido si muovono soltanto le une rispetto alle altre, piccole dimensioni delle molecole del liquido rispetto a quelle solide, perfetta rigidità delle particelle solide, infinita grandezza della massa del liquido rispetto alla quantità delle particelle sospese.

Nella pratica è difficile che avvengano tutte queste condizioni, specialmente per quanto riguarda la sfericità delle particelle.

Inoltre, i risultati delle levigazioni fondate sulla libera caduta delle particelle in seno ad una colonna d’acqua non danno la quantità di particelle del terreno, il cui diametro è compreso entro determinati limiti, ma soltanto la quantità di particelle considerate come sferiche, che produrrebbero lo stesso fenomeno con una velocità di sedimentazione corrispondente a quella in realtà osservata. Il diametro di queste particelle è detto diametro equivalente e su questo si basa la classificazione delle particelle del suolo.

Se si pone g = 981, p = 2,65 (peso specifico medio dei minerali costituenti il terreno), d = 1 (densità dell’acqua) e η = 0,01, la formula di Stockes diventa:

2 · 981 · r2 (2,65 – 1) v = –––––––––––––––––––

9 η

da cui

v = 35970 · r2

Quest’ultima espressione fornisce una relazione assai semplice tra la velocità di sedimentazione ed il diametro equivalente delle particelle di terreno. La velocità, nel moto uniforme è data dal rapporto tra lo spazio percorso (altezza di caduta h) ed il tempo impiegato (v = h/t).

Sostituendo: h

––– = 35970 · r2

t

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89 Il terreno

In quest’ultima relazione t è il tempo impiegato dalle particelle di diametro 2r per percorrere, con velocità uniforme, l’altezza h in seno al liquido. Ricavando t si ottiene:

h t = ––––––––– 35970 · r2

Pertanto, se si calcola il tempo t di sedimentazione per un’altezza di 10 cm, altezza normalmente prescelta nella comune analisi meccanica, diventa possibile calcolare la massa di particelle con un preciso diametro 2r (tabella 12).

Tab. 12 – Velocità di caduta e tempi di sedimentazione delle particelle costituenti la terra fina.

Diametro delle particelle mm

Velocità di caduta cm/s

Tempo di sedimentazione per h = 10 cm ore minuti secondi

< 0,002 0,00036 7 43 00,02 – 0,02 0,03600 0 4 380,02 – 0,20 2,03000 0 0 5

Va ancora detto che la formula di Stockes, da cui è stata ricavata l’ultima relazione, può applicarsi con precisione solo per particelle molto fini che non superano il diametro di 0,1 mm.

Per particelle di maggiore diametro va applicata la formula di Oseen le cui lettere hanno gli stessi significati che nella formula di Stockes:

La levigazione basata sull’azione di trasporto dell’acqua corrente è funzione della velocità di movimento di quest’ultima ed è capace di trasportare granuli di diversa grandezza, sempre che abbiano naturalmente lo stesso peso specifico. Piccole velocità trasportano particelle piccole, velocità via via crescenti trasportano particelle sempre più grosse.

Nella maggior parte di levigatori a circolazione, la separazione è effettuata con una corrente d’acqua ascendente e verticale in un contenitore cilindrico o in caso contrario almeno in parte di forma cilindrica.

Una certa velocità dell’acqua dal basso verso l’alto si contrappone alla velocità di

3η 9 η 2 – —— ± – —— + 3d (P – d)· g · r r r2

v = ————————— 9 —— d 4

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caduta di quelle particelle che vengono a trovarsi in riposo nel sistema e cioè immobili nel recipiente.

Il diametro di queste particelle segna il limite alle frazioni che si separano perché le più grosse cadono verso il fondo dove permangono, mentre le più fini sono trasportate dall’acqua al di fuori del recipiente; pertanto, per una determinata velocità dell’acqua, si hanno particelle immobili, particelle che sedimentano e particelle che rimangono levigate.

Questi tre stati delle particelle di terreno sono determinati dalla velocità dell’acqua e dalla velocità di caduta e se s’indica con Va la prima e con Vp la seconda, la velocità di una qualunque particella, indicata con V, sarà data dalla seguente relazione:

V = Va – Vp

per cui, se

Va – Vp = 0

e quindi Va = Vp

la particella è immobile;se

Va – Vp < 0

e quindi

Va< Vp

la particella sedimenta sul fondo. Se

Va – Vp

e quindi

Va > Vp

la particella viene levigata, fuoriuscendo dal contenitore.Per la condotta della levigazione, due sono i punti che vanno opportunamente definiti:1) quale deve essere la velocità da imprimere all’acqua perché si addivenga alla

separazione delle varie classi di particelle; 2) quali sono i tempi richiesti per ciascuna delle separazioni da effettuare.

La questione della velocità da imprimere all’acqua non presenta difficoltà poiché per allontanare dal levigatore le particelle di una certa grandezza e quindi di una certa classe, occorre far scorrere in esso l’acqua ad una velocità lievemente superiore a quella corrispondente alla loro velocità di caduta.

Le velocità di caduta per le tre frazioni (argilla, limo e sabbia fina) sono quelle già utilizzate per la determinazione dei tempi di sedimentazione (tabella 12) e quelle stesse velocità, impresse dall’acqua, portano a realizzare la separazione delle stesse tre frazioni per mezzo della levigazione.

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91 Il terreno

Più complessa è la questione relativa alla determinazione dei tempi di levigazione. Il caso che si presenta praticamente è quello della separazione delle particelle di raggio r dalle particelle di raggio r1, essendo:

r1 = r – dr

Evidentemente, in tale circostanza, la velocità da imprimere all’acqua è pari alla velocità di caduta delle particelle di raggio r, indicata come Vr; d’altra parte la velocità con cui si muovono le particelle di raggio r1 è:

V = Vr – Vr1

e quindi la durata di levigazione è condizionata dall’espressione

h t = —————

Vr – Vr1

Ma dalla legge di Stockes è noto che

v = 35970 · r2

Sostituendo nelle relazioni precedenti avremo:

h t = ——————————

35970 · r2 – 35970 · r12

e raccogliendo

h t = ———————

35970 (r2 - r12)

Da quest’ultima espressione si evince chiaramente come la durata della levigazione dipenda dalla differenza dei raggi delle particelle.

Il valore ottenuto è molto variabile e dimostra come il tempo di levigazione non sia destinato ad assumere un valore fisso e determinato.

Tale condizione assume un rilievo importantissimo perchè se, al limite, la differenza tra i raggi delle particelle è uguale a zero (r = r1), la durata della levigazione diventa illimitata.

Continuando lo stesso esempio considerato nel caso della sedimentazione (tabella 12), eccezion fatta per l’ampiezza del percorso (questa volta h = 36 cm), tutti gli altri dati (peso specifico delle particelle, densità e viscosità dell’acqua) sono gli stessi considerati a proposito della sedimentazione (tabella 13).

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Fiume Francesco 92

Tab. 13 – Tempi di levigazione di particelle costituenti la terra fina e valori di velocità dell’acqua (Va).

Diametro delle particelle

(mm)

Valori di Va(cm/s)

Tempi di levigazione per r1 = 0,9 r per r1 = 0,99 r ore minuti ore minuti

< 0,002 0,00036 14 37 134 00,002 – 0,02 0,036 1 25 14 00,020 – 0,20 2,03 0 3 0 30

Nelle operazioni di levigazione bisogna pertanto fissare il grado d’approssimazione desiderato, affinché riesca possibile valutare il tempo minimo richiesto. Di sotto a tale periodo, l’operazione può essere ancora incompleta, mentre andando oltre, ciò potrebbe essere senza alcuna convenienza, poiché si verrebbero ad ingrossare inutilmente le quantità di liquido da manipolare.

I levigatori che ora si andranno ad esaminare si distinguono in levigatori a sedimentazione e levigatori a circolazione.

Levigatori a sedimentazioneL’analisi per sedimentazione, basata sulla velocità di precipitazione in seno ad un

liquido non in movimento, si esegue determinando la concentrazione media delle particelle che si sono dislocate spontaneamente e gradualmente ad un dato livello della sospensione, in un determinato intervallo di tempo.

Le variazioni della concentrazione delle particelle, ad un dato livello del liquido, possono essere misurate con differenti metodiche che hanno dato origine a molteplici strumenti.

Così si può misurare la densità della sospensione in un certo punto (con speciali densimetri) e poi risalire alla concentrazione delle particelle in quel punto; oppure determinare la differenza di concentrazione delle particelle (mediante il manometro differenziale di Wiegner) tra due differenti strati della sospensione; oppure prelevare un campione della sospensione in un certo punto, evaporare l’acqua e pesare direttamente le particelle ottenendo la loro quantità in quel dato volume di sospensione (concentrazione).

Tra i levigatori che forniscono valori legati alla sedimentazione delle particelle si ricordano la pipetta di Andreasen, il levigatore Appiani e l’apparecchio di Atterberg.

PIPETTA DI ANDREASEN La pipetta di Andreasen (figura 11A) è, fra gli apparecchi sedimentatori, quello più

conosciuto, basato sul metodo per pesata.Consta di un cilindro graduato di 500 cc contenente un capillare di vetro che si

approfondisce per circa 20 cm.Un rubinetto a due vie consente il prelievo dei campioni della sospensione ad

intervalli di tempo prestabiliti e secondo volumi misurati dall’apposita pipetta, collegata

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direttamente al rubinetto, che viene svuotata in una capsula di nichel per pesare le particelle di terreno dopo evaporazione dell’acqua.

La metodica consiste nel pesare le particelle da analizzare, cioè la frazione di terreno, separata con stacci dallo scheletro, in modo che essa rappresenti circa l’1% in volume.

Per cui, se s’intende riempire 400 cc del cilindro graduato, si usano circa 4 g del campione.

Si umetta con cura la polvere con il liquido, si versa il tutto nel cilindro graduato e si porta a volume con altro liquido fino al livello calcolato (nell’esempio fino a 400 cc).

Si chiude il levigatore con l’apposito tappo smerigliato attraversato dal capillare che pesca nella sospensione ed è collegato, mediante il rubinetto, alla pipetta graduata.

Si agita energicamente e, dopo 1, 2, 3, 4, 8, 15, 30, 50, 120 minuti, man mano che le particelle sedimentano sul fondo, si prelevano campioni di sospensione per la pesata delle particelle in essa contenute, dopo evaporazione del liquido.

Fig. 11 – Levigatori a sedimentazione: pipetta di Andreasen (A), levigatori di Appiani (B), apparecchio di Atterberg (C).

LEVIGATORE DI APPIANI Il levigatore di Appiani (figura 11B) fraziona la polvere, in base alle dimensioni

delle particelle, sifonando la sospensione. Offre il vantaggio, rispetto ad altri apparecchi, di travasare una minima quantità di liquido e di procedere ad una filtrazione rapida. E’ formato da un cilindro di vetro del diametro interno di 5 cm e della lunghezza di 40 cm,

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con l’apertura provvista di tappo a smeriglio. Inferiormente c’è un piccolo sifone che pesca all’interno con la bocca a 3 cm dal fondo del cilindro, mentre all’esterno ha un rubinetto che consente il prelievo. La tecnica è analoga a quella vista per la pipetta di Andreasen, solo che il prelievo della sospensione con la pipetta è sostituito dal sifone.

Si prelevano 10 g di materiale, si agita con forza nella quantità prestabilita di acqua, si lascia decantare e si conta il tempo di levigazione. Dopo un intervallo di tempo prestabilito, si apre il rubinetto del sifone e si lascia defluire la sospensione sul filtro per poi pesarla una volta asciugata. Le graduazioni del cilindro permettono di operare con diversi carichi d’acqua e velocità di caduta. La durata di levigazione varia secondo quanto riportato nella tabella 14.

Tab. 14 – Velocità di caduta e durata della levigazione con differenti carichi d’acqua per ottenere le frazioni granulometriche della terra fina a seguito dell’impiego del levigatore di Appiani.

Velocitàdi caduta(mm/s)

Durata della levigazione con carico d’acqua di 20 cm 25 cm 30 cm 35 cm ore minuti secondi minuti secondi minuti secondi minuti secondi

0,005 12 - - - - - - - -0,01 6 - - - - - - - -0,05 1 - - - - - - - -0,2 - 16 40 20 50 25 - 30 -2 - 1 40 2 5 2 30 3 -7 - - 29 - 36 - 43 - 5225 - - 8 - 10 - 12 - 15

Dalla velocità di levigazione si può risalire alle dimensioni delle particelle (tabella 15). Pertanto, considerando il tempo di levigazione, per una certa classe di dimensione delle particelle, diventa possibile venire a conoscere la quantità di elementi di dimensioni date, contenute in un certo campione di terreno.

Tab. 15 – Dimensioni delle particelle in relazione alla loro velocità di caduta.

Velocità di caduta delle particelle

mm/s

Dimensioni delle particelle mm

Nomenclatura

< 0,005 < 0,002 Frazione argillosa0,005-0,05 0,002-0,05 Limo0,05-0,2 0,05-0,1 Sabbia finissima

0,2-7 0,1-0,25 Sabbia fine7-25 0,25-1 Sabbia grossa

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Il levigatore di Appiani serve per velocità che non superano i 25 mm/s, quindi adatto per piccole velocità per le quali altri metodi possono presentare qualche difetto.

APPARECCHIO DI ATTERBERG

L’apparecchio di Atterberg (figura 11C) consiste in un cilindro di vetro alto 20 cm, con un diametro interno di 5-6 cm e munito inferiormente di un tubo laterale, che permette la decantazione del liquido.

Il cilindro, che può essere superiormente chiuso con un tappo di vetro, possiede due scale, di cui quella a sinistra presenta divisioni di 5 cm in 5 cm, con lo zero al fondo del cilindro, mentre quella di destra possiede cifre che indicano il tempo necessario affinché la colonna del liquido raggiungente il livello corrispondente contenga unicamente particelle argillose, essendosi già sedimentate le altre particelle più grossolane.

L’analisi si effettua prelevando 20 g di terra fine che si pone in sospensione in 150 cc di acqua distillata. Si agita per circa tre ore in agitatore e poi si versa nel cilindro dell’apparecchio.

Per la determinazione delle particelle argillose con diametro inferiore a 0,002 mm, la sospensione si fa arrivare fino ad un tratto qualsiasi della graduazione della scala di sinistra. Quindi si agita accuratamente e si lascia depositare per il tempo indicato sul corrispondente tratto della scala di destra. Si sifona il liquido e l’operazione viene ripetuta fin quando il liquido diventa perfettamente limpido alla fine del tempo di sedimentazione indicato. Tutte le particelle sospese nel liquido così decantato costituiscono la frazione argillosa del terreno.

Le particelle che si sono sedimentate sul fondo del cilindro costituiscono il limo e la sabbia. Per separare il limo, costituito da particelle di diametro compreso tra 0,02 e 0,05, al residuo depositatosi sul fondo del cilindro si aggiunge acqua distillata fin quando la colonna raggiunge l’altezza di 10 cm. Si rimescola e si decanta dopo 7 minuti, ripetendo l’operazione fino a che il liquido decantato appare perfettamente limpido. Tutte le porzioni di liquido ottenute si fanno evaporare ed il residuo solido rappresenta la quantità di limo contenuta nel terreno.

Per determinare la quantità di sabbia fine e finissima, costituita da particelle con diametro di 0,05-0,25 mm, al residuo rimasto dopo la separazione del limo, si aggiunge acqua fino a che la colonna del liquido raggiunge l’altezza di 20 cm. Si agita e si decanta dopo 10 secondi, ripetendo l’operazione fino ad ottenere un liquido limpido. I liquidi decantati sono evaporati e si pesa il residuo solido.

Le particelle che rimangono sul fondo del cilindro corrispondono alla sabbia media e grossolana, con diametro di 0,25-1,0 mm.

Variando in maniera appropriata la durata della sedimentazione si può ottenere la separazione di un maggior numero di classi di particelle.

Levigatori a circolazione Come già accennato, il loro funzionamento si basa sull’impiego di una corrente di

acqua a velocità variabile la quale, per ciascuna velocità, è in grado di trascinare le particelle aventi un diametro inferiore ad un certo valore.

E’ preferibile usare questo tipo di levigatori per la separazione di categorie di

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particelle di maggiori dimensioni, mentre quelli a sedimentazione forniscono risultati più precisi nella determinazione di frazioni più minute.

I levigatori a circolazione che sono descritti sono il levigatore di Schöne e il levigatore di Schöne-Kopecki.

LEV IGATORE DI SCHÖNE Il levigatore di Schöne (figura 12A): la separazione della sabbia dall’argilla è

ottenuta mediante una corrente d’acqua che trasporta il materiale argilloso più piccolo. Il levigatore di Schöne è costituito da un’allunga, conica nella parte inferiore e

cilindrica in quella superiore.Nella parte cilindrica, detta camera di levigazione, s’innesta un tubo (detto tubo

piezometrico) ripiegato due volte ad angolo di 45°. Esso porta nella ripiegatura un foro circolare di 1,5 mm ed il tubo stesso è graduato, nella parte verticale, in millimetri prima ed in mezzi centimetri poi.

La parte inferiore dell’allunga è ripiegata ad U e viene collegata, mediante un tubo di gomma, con una presa d’acqua a livello costante.

La quantità d’acqua che si fa circolare nell’apparecchio viene regolata mediante un morsetto a vite applicato sul tubo di gomma.

Per eseguire le determinazioni la terra deve essere privata del calcare. A tale scopo, si trattano 10 g di terra con HCl all’1%, a freddo, si filtra e la parte insolubile, lavata, si fa cadere, con un getto d’acqua distillata, in una capsula di porcellana. Si fa bollire per un’ora, aggiungendo acqua man mano che evapora. L’ebollizione ha lo scopo di distaccare l’argilla dalla sabbia. Si lascia raffreddare e si versa il tutto nel levigatore in modo da riempirlo non oltre la metà dell’altezza.

S’innesta il tubo piezometrico ed aprendo la pinzetta del tubo di gomma si fa entrare una certa quantità d’acqua, allo scopo di scacciare ogni bolla d’aria, arrestando l’erogazione dell’acqua prima che l’allunga sia completamente riempita. Si lascia l’apparecchio a riposo per un’ora, quindi si apre la pinzetta per far entrare l’acqua che inizia la levigazione.

L’acqua, che trasporta le particelle argilliformi (quelle più piccole), esce per il foro mentre s’innalza nel tubo piezometrico fino ad un’altezza che è costante per ogni determinata velocità dell’acqua.

La velocità del flusso è data dall’altezza che raggiunge il liquido nel tubo piezometrico.

Per un’altezza piezometrica di 1 cm, nella camera di levigazione la velocità di flusso è di 0,2 mm/s; per un’altezza piezometrica di 7 cm, nella camera di levigazione la velocità del flusso è di 2 mm/s.

Si deve regolare, con la morsetta, l’accesso dell’acqua in modo che l’altezza nel tubo piezometrico non superi i 12 mm. In tal modo, l’argilla esce con l’acqua per il foro, mentre la sabbia, più pesante, rimane nell’apparecchio.

Quando nella camera di levigazione l’acqua è diventata limpida (dopo 8-10 ore), se ne aumenta la velocità per pochi istanti (agendo sempre sulla morsetta), allo scopo di rimuovere la sabbia e liberarla dalle particelle argillose che potrebbe ancora, eventualmente, trattenere.

Si sospende l’erogazione dell’acqua quando questa si mantiene definitivamente

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limpida nella camera di levigazione.

Tab. 16 – Confronto delle frazioni separate, a differenti velocità di levigazione, per il sedimentatore Appiani ed il levigatore Schöne.

Velocità di levigazione Levigatori messi a confrontom/s Appiani (%) Schöne (%)

0,2 15,10 15,042,0 38,62 38,587,0 29,76 29,70

25,0 14,54 14,52Residuo 2,26 2,38

La sabbia rimasta nell’apparecchio si fa cadere in un largo bicchiere, si lascia in riposo, si decanta il liquido limpido sovrastante e si raccoglie sopra un filtro.

Si essicca, si calcina in crogiolo precedentemente tarato e si pesa. Il peso della sabbia, moltiplicato per 10, dà la percentuale di materiale sabbioso

(siliceo e silicato) nella terra fine.Alcuni saggi di confronto tra il sedimentatore di Appiani ed il levigatore di Schöne

hanno dato, con terra fine (sotto 0,3 mm), i risultati riportati nella tabella 16, dall’esame dei quali non emergono differenze apprezzabili fra loro.

Apparecchi fondati su principi differenti forniscono risultati pressoché identici. Tuttavia, è preferibile ricorrere all’impiego del levigatore di Schöne, anziché quello d’Appiani, nel caso in cui le velocità di sedimentazione superano i 25 mm/s e quindi si debbano separare frazioni le cui particelle hanno dimensioni più grossolane.

LEV IGATORE DI SCHÖNE-KOPECK I Il levigatore di Schöne-Kopecki (figura 12B) è costituito da un certo numero di

elementi ciascuno dei quali è un levigatore Schöne, ciascuno collegato al successivo tramite il tubo piezometrico che s’innesta nel tubo di gomma privato della pinza. Inoltre, l’allunga di ogni elemento è di diametro crescente, in modo che la corrente dapprima entra nell’allunga con diametro minore e poi in quelle più larghe, permettendo all’acqua di ridurre via via la propria velocità, mentre la quantità di acqua che passa, nell’unità di tempo e attraverso le singole allunghe, è la stessa.

Il flusso dell’acqua viene regolato agendo sul morsetto del tubo in gomma del primo elemento che è quello, come già visto, che possiede l’allunga più stretta.

La procedura d’analisi consiste nell’introdurre 10 g di terra fine nella prima allunga e facendo passare attraverso l’apparecchio una corrente d’acqua, regolandone la velocità. Le particelle, la cui velocità di caduta è superiore od uguale a 7 mm/s, rimangono nella prima allunga, mentre le altre sono trascinate nelle allunghe successive. Le particelle, la cui velocità di caduta è compresa tra 7 e 2 mm/s, si portano nella seconda allunga e quelle con velocità di caduta di 2-0,2 mm/s arrivano alla terza allunga.

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Fig. 12 – Levigatori a circolazione: levigatore di Schöne (A) e levigatore di Schöne-Kopecki (B).

Le particelle aventi una velocità di caduta inferiore a 0,2 mm/s sono trascinate fuori dell’apparecchio.

Le frazioni rimaste in ciascuna delle allunghe sono raccolte in capsule tarate, essiccate e pesate, mentre il peso complessivo delle particelle più minute, trascinate fuori dell’apparecchio, viene calcolato per differenza, sottraendo cioè da 10 g il peso corrispondente alla somma dei tre residui.

Le particelle, che rimangono nella prima allunga, costituiscono la sabbia grossa e media; quelle della seconda allunga la sabbia fine e finissima e le altre della terza allunga il limo; le particelle trascinate fuori dell’apparecchio corrispondono alla frazione argillosa.

Prima di concludere questa parte, è il caso di evidenziare alcune considerazioni che possono dare un’idea circa le difficoltà che si possono incontrare durante un’analisi granulometrica.

Difficoltà che si fanno ancora più sentite quando si presentano terreni particolari (calcarei, dolomitici, siderolitici, gessosi, umiferi, salini) che richiedono speciali attenzioni e che esigono l’applicazione di specifiche tecniche, di cui è stato già accennato a proposito della rimozione dal campione da sottoporre ad analisi granulometrica, della sostanza organica e dei sesquiossidi ferroalluminici o del calcare.

Inoltre, la separazione delle varie frazioni si fonda sul tempo col quale le particelle

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di vario peso raggiungono il fondo del recipiente. Orbene, quest’ultimo valore è fortemente influenzato dalla temperatura alla quale

l’operazione è effettuata. Così, alla temperatura di 20 °C e 25 °C, le particelle di 0,002 mm di diametro, che

rappresentano il limite massimo per i componenti argillosi, e quelle di 0,02 mm di diametro, che rappresentano il limite superiore del limo, percorrono un’altezza di 10 cm in tempi, rispettivamente, differenti (tabella 17).

Queste velocità di caduta (Comel, 1972) sono state calcolate per particelle di forma sferica, di peso specifico circa 2,6 e per un percorso di caduta rettilineo nel senso verticale, presupposti questi che possono realizzarsi solo teoricamente. Infatti, le particelle quasi mai sono perfettamente sferiche, bensì poliedriche, con vario predominio degli assi e la posizione di questi ultimi nello spazio, durante la caduta, influenza la resistenza incontrata nel mezzo liquido e quindi la velocità e, infine, a parità di volume, il peso specifico gioca un ruolo fondamentale, nel senso che più esso è elevato tanto più rapidamente la particella si deposita sul fondo.

Tab. 17 – Tempi di percorrenza di un’altezza di 10 cm di particelle di differente diametro a due diverse temperature.

Diametro Temperatura di 10 °C Temperatura di 15 °C Temperatura di 20 °C Temperatura di 25 °C

mm ore minuti secondi ore minuti secondi ore minuti secondi ore minuti secondi

0,002 10 25 20 9 5 16 8 - - 7 6 14

0,02 - 6 15 - 5 27 - 4 48 - 4 15

Nelle levigazioni a tempi brevi, il liquido non si mette subito a riposo dopo l’agitazione per cui le particelle sospese non cadono in linea perfettamente verticale, ma a spirale, compiendo, perciò, un percorso più lungo e trovandosi in posizione più arretrata rispetto a quella che avrebbero se fossero cadute in un mezzo non disturbato. Anche la densità della sospensione, alla stessa stregua della temperatura, come si è visto, influenza le misure di sedimentazione.

A tale scopo è consigliabile impiegare, per l’analisi, quantità di terreno non superiore a 20 g per i terreni comuni ed a 5 g per quelli argillosi.

Bisogna però annotare che l’entità di questi errori si riduce drasticamente quando si considera la frazione colloidale, sia perché il tempo di sedimentazione di quest’ultima è piuttosto lungo, sia perché le particelle, quando sono molto piccole, tendono a rivestirsi d’acqua capillare (il cui spessore è, relativamente, tanto maggiore quanto più piccole sono le particelle).

Per questo l’influenza del loro peso specifico (che, per la sostanza minerale secca, tende ad aumentare con l’incremento della finezza) sulla velocità di caduta diventa assolutamente ininfluente.

Infine è da considerare un’ulteriore possibilità d’errore che riguarda la precisa valutazione del momento in cui bisogna sospendere la levigazione per la definitiva avvenuta separazione delle particelle di un dato ordine di grandezza. Molte volte, infatti, allo scadere del tempo prescritto di decantazione, il liquido è perfettamente limpido, la qual cosa influisce sull’esattezza dell’analisi.

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Tuttavia, se l’analisi è eseguita con tutti gli accorgimenti del caso, il risultato che si ottiene è abbastanza soddisfacente e tale da corrispondere comunemente agli scopi pratici per i quali essa è effettuata.

Prima di giungere alla conclusione di questo capitolo sulla costituzione del terreno agrario è il caso di enunciare alcune considerazioni sulla classificazione dei terreni, in base alla loro composizione granulometrica elementare. Una volta ottenuti i risultati dell’analisi fisico-meccanica di un terreno, bisogna definirlo e classificarlo, così da poterlo ben individuare e collocare. Un terreno equilibrato nella granulometria elementare, teoricamente, dovrebbe contenere tutti i vari ordini di grandezza delle particelle che lo costituiscono nella misura del 25% per ciascun gruppo (sabbia grossa, sabbia fine, limo e argilla). Un terreno, da un punto di vista pedologico, viene denominato in base al componente prevalente in percentuale: un terreno che contiene la percentuale più alta in ciottoli (75%) si chiama ciottoloso, più alta in sabbia (75%) sabbioso e così via. Tuttavia, un terreno agrario mal si presta ad essere così individuato perché i vari gruppi di particelle sono in grado di impartire differenti valori agronomici. In pratica contano poco le percentuali aritmetiche con cui le diverse particelle sono rappresentate in un terreno agrario, mentre molto più importanti sono gli effetti che si collegano con le proprietà fisico-chimiche delle particelle di varia grandezza. In altre parole, la denominazione dei terreni agrari, classificati rispetto alla composizione granulometrica elementare, non può essere concepita nel senso che la frazione predominante debba dare il suo nome al terreno. Questa prerogativa spetta a quella frazione che infonde al terreno la sua più specifica caratteristica effettiva.

Pertanto, la caratterizzazione di un terreno agrario deve essere derivata dal confronto di valori ottenuti sperimentalmente da terreni che manifestano con evidenza le peculiarità di una certa frazione granulometrica; di qui la necessità di ottenere dall’analisi fisico-meccanica elementare risultati il più possibile esatti, perché altrimenti può essere compromessa tutta la classificazione che su di essa si basa.

In linea di massima, un terreno agrario è denominato così come indicato nella tabella 18, in relazione alle sole caratteristiche dimensionali delle particelle indipendentemente dalla loro qualità, ossia natura chimica, mineralogica o litologica.

Tab. 18 – Denominazione di un terreno agrario in relazione ai valori minimi percentuali di particelle di un dato ordine di grandezza.

Denominazione del terreno Quota minima di particelle riscontrata all’analisia scheletro prevalente 40% di scheletropietroso o ciottoloso 40% di pietre o ciottolighiaioso 40% di ghiaiasabbioso o a grana grossa 70-80% di sabbia fine e grossalimoso 80% di limoargilloso 40% di argilladi medio impasto 35-55% di sabbia, 25-45% di limo, 10-25% di colloidi

minerali e organiciorganico o umifero (1) 10% di sostanza organica o materiale colloidale organico1) la materia organica e l’humus vanno determinati con criteri differenti da quelli

dell’analisi fisico-meccanica del terreno.

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101 Il terreno

Come si può vedere, esaminando la tabella 18, sono le particelle allo stato d’estrema suddivisione ad avere un effetto prevalente sulle caratteristiche fisico-meccaniche del terreno.

Certe peculiarità si attribuiscono principalmente all’intima costituzione delle particelle e non tanto alle loro dimensioni.

In rapporto alla composizione granulometrica, è possibile riconoscere un terreno a scheletro prevalente, un terreno sabbioso, limoso, argilloso ed, infine, terreni con caratteri intermedi. Di ognuno di questi sono di seguito descritte le principali caratteristiche pedogenetiche, fisiche ed agronomiche, con i loro pregi ed i loro difetti.

TERRENO A SCHELETRO PREVALENTE

Il terreno a scheletro prevalente è incoerente, è scarsamente capace di trattenere l’acqua ed è quindi dotato di buona permeabilità, presenta forte aerazione e quindi è caratterizzato da accentuati processi ossidativi, è modestamente dotato di componenti umiferi, offre scarse possibilità di lavorazione ed è pertanto di difficile meccanizzazione, richiede frequenti interventi irrigui ed abbondanti concimazioni.

Spesse volte il terreno a scheletro prevalente è poco idoneo per la coltivazione delle piante perché ostacola lo sviluppo delle radici delle piante.

Lo scheletro di questi terreni è costituito da materiale grossolano, derivato dalla prima disgregazione meccanica delle rocce ed ha scarsa importanza da un punto di vista della fertilità del terreno perché non influenza la capacità di trattenimento dell’acqua da parte del suolo e non partecipa ai fenomeni di adsorbimento e di desorbimento degli elementi nutritivi.

I terreni a scheletro prevalente sono diffusi tra i terreni autoctoni degli ambienti collinari e montani, ma possono essere anche alloctoni di origine morenica, colluviale e, soprattutto, alluvionale. Si ritrovano in notevole quantità nella fascia pedemontana dell’arco alpino, particolarmente nella media pianura friulana, in Emilia, Umbria, Tavoliere delle Puglie e Basilicata.

Questi terreni hanno una produttività che dipende molto dalla percentuale di scheletro e dal tipo di terra fine che essi contengono.

La scelta appropriata delle coltivazioni e della tecnica colturale può consentire di migliorare naturalmente le rese e, spesso, di portarle a livelli molto soddisfacenti. Infatti, nei ferretti friulani accanto alla vite si coltivano cereali e foraggere, così pure in molte zone collinari la vite riesce a produrre discretamente da un punto di vista quantitativo e si vede esaltare le caratteristiche qualitative.

TERRENO SABBIOSO

I terreni sabbiosi sono sciolti, leggeri, permeabili, dotati di elevata macroporosità, sono molto soffici ed arieggiati, perciò mineralizzano rapidamente la sostanza organica, sono poveri di elementi nutritivi. I terreni sabbiosi sono poveri di azoto perché, tal elemento, non essendo trattenuto dal potere di scambio, che è particolarmente debole in

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questi terreni, è trasportato in profondità dalle acque di percolazione.La sabbia di questi terreni è costituita da piccoli frammenti di roccia, da singoli

minerali di difficile alterazione, da calcari cristallini e pezzetti di materiali fossili. Le particelle di sabbia sono incoerenti e, anche se bagnate, non aderiscono agli attrezzi di lavoro.

Questi terreni, nel caso presentino prevalenza di sabbia grossa, possono andare incontro ad aridità e sterilità, mentre se la sabbia è fina ed è mescolata in maniera equilibrata con materiali limosi ed argillosi danno luogo ad un terreno di medio impasto o terreno mezzano o terra franca o a tessitura equilibrata con caratteristiche agronomiche molto favorevoli poiché le diverse frazioni non prevalgono l’una sull’altra ma si completano vicendevolmente, così che la tenacità e la compattezza dell’argilla e la natura polverulenta del limo sono compensate dall’incoerenza della sabbia, dando luogo ad un substrato ottimale per la coltivazione delle piante.

In Italia s’incontrano terreni sabbiosi sparsi ovunque i quali sono di origine arenacea, granitica, alluvionale, di sedimentazione marina ed eolica. Essendo essi costituiti principalmente da particelle di diametro che si discosta da quello colloidale, essi possono indurre nelle piante manifestazioni di carenza idrica ed alimentare cui è possibile sopperire con le lavorazioni, irrigazioni e concimazioni e quindi si prestano ad un’agricoltura dinamica, con colture che richiedono notevole assistenza (trattamenti antiparassitari, raccolte scalari nel tempo), con rapide successioni (anche due o più coltivazioni nell’anno) tipiche delle aziende orticole. Pertanto un terreno sabbioso può fornire produzioni di elevato reddito purché s’intervenga correttamente con le dovute pratiche agronomiche.

TERRENO LIMOSO

Il terreno limoso, detto anche terreno a grana fine, è un terreno mal strutturato perché le particelle di limo non hanno la tendenza a riunirsi in aggregati, sono generalmente poveri di elementi nutritivi e di non facile coltivazione.

I terreni limosi tendono a formare la crosta superficiale e, se lavorati in eccesso o difetto idrico, danno luogo a zolle durissime, compatte, di difficile rottura specialmente con i normali attrezzi di lavorazione occorrenti per la preparazione del letto di semina. Il ristagno idrico superficiale è frequente e l’irrigazione non sempre è facile a causa della modesta permeabilità che richiede piccoli ma frequenti interventi.

I terreni limosi si riscaldano con difficoltà per questo la vegetazione parte, in primavera, con un certo ritardo. Tuttavia, avendo caratteristiche intermedie tra il terreno argilloso e quello sabbioso, i suoli limosi sono, in linea generale, favorevoli alla coltivazione delle piante le quali difficilmente soffrono la siccità, soprattutto quando l’attività agricola è condotta in modo appropriato, fondato sulla necessità di mantenere un sufficiente stato di aggregazione delle particelle costitutive, anche ricorrendo a laute somministrazioni di materia organica.

Il limo, di cui il terreno è prevalentemente costituito, è formato da silicati di basi diverse che derivano dall’alterazione chimica della roccia madre, da calcare precipitato dalle acque che lo tenevano in soluzione, da frammenti minutissimi di sostanza organica e da residui della disgregazione meccanica delle rocce.

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TERRENO ARGILLOSO

Il terreno argilloso è normalmente compatto, pesante, colloidale, tenace, forte, impermeabile, di difficile lavorabilità.

Esso offre elevata resistenza alla penetrazione degli attrezzi, è capace di trattenere grandi quantità di acqua, aumentando di volume e poi, un volta asciugato, fessurarsi e screpolarsi.

Presenta forte coesione tra le particelle allo stato secco e notevole plasticità allo stato umido, con possibilità di trattenere grandi quantitativi di acqua ma non facilmente cedibile per questo facilmente diventa asfittico e poco adatto alla vita delle piante coltivate.

Inoltre, essendo costituito di materiali colloidali minerali è in grado di ben trattenere anioni e cationi e, quindi, può ritenersi ben dotato di sostanze nutritive per le piante.

Risulta di difficile coltivazione soprattutto perché le lavorazioni debbono essere effettuate in momenti appropriati, cioè quando la quantità di acqua contenuta conferisce un’idonea struttura.

I terreni argillosi se ben trattati sono capaci di fornire ottime produzioni come avviene, per esempio, per il frumento, la bietola e le colture orticole per il mercato fresco e per l’industria.

I terreni argillosi sono crepacciabili, proprio perchè ricchi di colloidi minerali argillosi. Infatti, in seguito ad essiccamento, la contrazione di volume, conseguente alla perdita di acqua, provoca la fessurazione in più punti della massa di terreno, con formazione di un reticolato poligonale e irregolare di crepe larghe da pochi millimetri a 10 cm, profonde anche 1 m, lunghe da 20 a 80 cm circa.

Il fenomeno è molto evidente in un terreno nudo, esposto ad insolazione diretta, mentre sotto la vegetazione si manifesta con minore intensità, anche se nei seminativi arati annualmente (mais, bietole) assume una consistenza maggiore che negli appezzamenti a prato.

La crepacciabilità di un terreno è limitata dall’ombreggiamento indotto dalle piante, da un’uniforme distribuzione dell’umidità del profilo del suolo, dalla presenza delle radici delle piante, dalla sostanza organica depositata in superficie (azione pacciamante) od incorporata nel terreno, da una buona struttura.

La crepacciabilità di un terreno esplica effetti negativi, i quali sono rappresentati dalla dispersione in profondità dell’acqua irrigua e piovana, dalla perdita di acqua per evaporazione, dal danneggiamento degli apparati radicali delle piante.

La crepacciabilità di un terreno argilloso evidenzia anche alcuni effetti positivi come la rottura e la disgregazione delle zolle, la facile penetrazione dell’acqua in profondità, la richiesta di un minore sforzo per le lavorazioni, l’arieggiamento del terreno.

La frazione argillosa di cui questi terreni sono costituiti comprende i silicati idrati di alluminio (argilla vera e propria, cioè caolinite, illite, montmorillonite) ed altri materiali molto diversi come silice, idrati di ferro e di manganese e l’humus, quest’ultimo derivato dalla materia organica ridotta allo stato di colloide.

Come già visto, le piccolissime dimensioni delle particelle argillose e la proprietà di liberare ioni idrogeno evidenziando cariche elettriche negative, conferisce a questo

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materiale caratteristiche differenziali molto nette nei confronti del limo e della sabbia. L’argilla è pertanto un tipico colloide micellare, capace di circondarsi di un alone di

molecole d’acqua, di rimanere sospeso nel mezzo liquido fino a che non sono neutralizzate le cariche elettriche e, al contrario, di coagulare o flocculare quando tali cariche sono neutralizzate da cationi o da colloidi di segno opposto (basoidi come gli idrati di ferro e di alluminio).

In Italia, la dorsale appenninica è ricca di rocce argillose che hanno contribuito ampiamente alla formazione dei terreni coltivati a valle i quali possono fornire ottime rese produttive con il ricorso a tecniche agronomiche appropriate.

TERRENI CON CARATTERI INTERMEDI

Vi sono terreni con caratteri intermedi come i terreni sabbioso-limosi, limo-argillosi, argillo-sabbiosi.

Una tra le più diffuse classificazioni dei terreni, in base alle percentuali di sabbia, limo e argilla, è riportata nel triangolo della tessitura secondo la Commissione Internazionale della Scienza del Suolo e secondo il metodo del Soil Survey americano (figura 13) da cui è possibile individuare diverse classi di tessitura.

La figura 13 mostra il triangolo della tessitura dei suoli secondo la scala granulometrica internazionale ed il triangolo della tessitura secondo il Soil Survey americano. La stessa figura permette di effettuare gli opportuni confronti ed evidenzia, in particolare, anche in rapporto alla differente variabilità territoriale dei suoli, la distinzione in 9 gruppi granulometrici nel primo triangolo ed in 11 gruppi nel secondo.

Fig. 13 – A sinistra: triangolo della tessitura secondo la scala granulometrica internazionale (sabbia > 0,02 mm; limo = 0,02-0,002 mm; argilla < 0,002 mm. A = argilloso; L = limoso; S = sabbioso). A destra: triangolo della tessitura secondo il Soil Survey americano (A = argilloso; L = limoso; S = sabbioso; M = medio impasto o franco).

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In conclusione, la costituzione o tessitura del terreno è una proprietà fisica praticamente stabile ed immodificabile dall’agricoltore.

Soltanto interventi straordinari possono modificare la costituzione di un suolo. Tali sono, ad esempio, specifiche arature molto profonde che rimescolano strati di differente natura fisico-meccanica o particolari pratiche di ammendamento, da realizzare con grandi colmate.

Ciò significa mettere in opera degli apporti massicci di sabbia su piccoli appezzamenti, il cui costo può essere forse ripagato soltanto se essi sono poi coltivati con piante ad alto reddito, in grado di ripagare gli elevati costi di investimento sostenuti.

La tecnica agronomica, nel prendere atto della tessitura del terreno, è in grado di mettere in pratica quegli accorgimenti più idonei e precise metodiche, aventi per obiettivo il miglioramento delle condizioni fisiche e di abitabilità di ogni ambiente pedologico.