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1 IL SOLE, UNA STELLA VIVENTE Francesca Marenzi

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IL SOLE,

UNA STELLA VIVENTE

Francesca Marenzi

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INDICE:

1. Introduzione ...................................................................................................................................... 4

2. Le stelle ............................................................................................................................................. 4

2.1 Nascita, vita e morte di una stella ............................................................................................... 8

2.2 Tipi di stelle e classi spettrali ................................................................................................... 16

2.2.1 Spettro elettromagnetico ................................................................................................... 18

2.2.2 Stelle doppie (e triple) ....................................................................................................... 19

2.2.3 Stelle variabili ................................................................................................................... 21

2.2.4 Lettere di Bayer ................................................................................................................. 22

3. Il Sole .............................................................................................................................................. 23

3.1 Nascita del Sole ........................................................................................................................ 23

3.2 Composizione ........................................................................................................................... 24

3.2.1 Fenomeni sul Sole ............................................................................................................. 27

3.2.2 Ciclo solare ....................................................................................................................... 33

3.2.3 Processi nucleari: catena protone-protone ........................................................................ 36

3.3 Studi passati e scoperte importanti ........................................................................................... 38

3.3.1 Le macchie solari di Galilei .............................................................................................. 38

3.3.2 Righe di Fraunhofer .......................................................................................................... 39

3.3.3 Il brillamento di Carrington .............................................................................................. 44

3.3.4 Il numero di Wolf .............................................................................................................. 50

3.3.5 I magnetar ......................................................................................................................... 52

3.4 Studi in corso ............................................................................................................................ 53

3.4.1 Macchie solari ................................................................................................................... 53

3.4.2 Macchie riconteggio non ponderato .................................................................................. 55

3.4.3 Spettroscopia ..................................................................................................................... 73

3.4.4 Il problema dei neutrini ..................................................................................................... 75

3.4.1 Missioni verso il Sole ........................................................................................................ 77

3.5 Effetti spettacolari del Sole sulla Terra .................................................................................... 79

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3.5.1 Eclissi ................................................................................................................................ 79

3.5.2 Aurora polare .................................................................................................................... 82

3.6 Prospettive per il Sole............................................................................................................... 92

4. Conclusioni ..................................................................................................................................... 96

5. Bibliografia ..................................................................................................................................... 97

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1. Introduzione

Ho scelto di parlare della vita delle stelle, con un approfondimento sul Sole, principalmente perché da

molti anni ho una grande passione per l’astronomia. Il Sole è la stella a noi più vicina, e quindi più

facilmente osservabile e studiabile. Le scoperte fatte in questo modo sono poi facilmente trasportabili

su altre stelle, anche in diversi stadi della loro vita.

Ho iniziato il mio lavoro con un’introduzione alla vita delle stelle, nascita, vita e varie possibilità di

morte, soffermandomi inoltre sui vari tipi e sulle diverse classificazioni delle stelle. Quindi ho iniziato

i capitoli riguardanti il Sole, come è composto e i processi fisico-chimici che avvengono al suo interno.

Ho ripercorso la storia dello studio del Sole, le scoperte più importanti e la biografia di astronomi che

hanno contribuito in modo significativo alla ricerca in questo ambito. Arrivando ad oggi ho esposto le

ricerche ancora in corso; siamo molto lontani dal sapere tutto quello che c’è da sapere sul Sole.

Ogni nuova scoperta odierna va ad integrare (o a modificare) il Modello Solare Standard, ovvero il

modello comunemente accettato dalla comunità scientifica.

In questo ambito ho potuto integrare le informazioni trovate con dei disegni fatti da me in un

osservatorio solare, la Specola Solare Ticinese, a Locarno Monti, dove ho avuto l’opportunità di fare

uno stage. Infine ho esposto le ipotesi su una probabile fine del Sole, basate sull’osservazione di stelle

simili ad esso.

Il Sole è stato da sempre osservato e studiato, a cominciare dagli antichi che lo consideravano una

divinità per arrivare agli scienziati oggi, che ne riconoscono l’importanza, in quanto fonte di energia

quasi esclusiva per le forme di vita del nostro pianeta e la fonte principale per le attività umane. Le

conoscenze acquisite sul Sole si sono potute applicare, rivelandosi molto preziose, a molti campi della

scienza, spaziando dall’astrofisica stellare, alla fisica nucleare e allo studio dell’evoluzione climatica.

Lo studio del Sole continua quindi ad essere ancora oggi molto importante. Una prima ragione è che il

Sole è un laboratorio naturale molto interessante in quanto presenta al suo interno caratteristiche molto

difficili o addirittura impossibili da riprodurre in un laboratorio umano. Osservando il Sole è possibile

ottenere informazioni molto importanti, ad esempio sulla fusione nucleare. Il Sole inoltre è la stella più

vicina a noi, ed è quindi più facilmente osservabile rispetto alle altre. Osservazioni e scoperte fatte sul

Sole possono essere trasportate ed applicate anche sulle altre stelle, anche con caratteristiche molto

diverse.

Infine, il Sole è il responsabile della vita sulla Terra, e ci fornisce quasi tutta l’energia che usiamo per

vivere; non solo tramite pannelli fotovoltaici, ma anche i combustibili fossili sono frutto della

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trasformazione naturale di vegetali e animali vissuti milioni di anni fa, e che sono cresciuti e vissuti

grazie alla fotosintesi (le piante) o mangiando gli organismi fotosintetici (gli animali). Lo stesso vale

per l’energia idroelettrica, che si basa sul ciclo di evaporazione dell’acqua dovuto al calore del Sole e

per l'energia eolica, dovuta agli spostamenti d’aria causati dalle differenze di temperatura.

Osservare e studiare il Sole continua quindi ad essere ancora oggi molto importante per le

informazioni che può darci sia sull’Universo in cui viviamo o su processi altrimenti difficilmente

riproducibili, sia per comprendere fenomeni che avvengono sulla Terra.

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2. Le stelle

Noi siamo abituati a considerare il Sole e le altre Stelle come eterne; le stesse costellazioni che brillano

nel nostro cielo sono state cantate da Saffo; i moti dei pianeti e le eclissi di Sole e Luna che noi

sappiamo essere fenomeni normali, hanno spaventato e incuriosito gli uomini delle caverne. Eppure

anche i corpi celesti hanno una loro vita; alcune stelle nascono e muoiono nel giro di pochi milioni di

anni, come la brillante e azzurra Rigel (ha esaurito l’idrogeno nel suo nucleo ed è entrata nelle fasi

finali della sua vita), altre seguiteranno a brillare per molte decine di miliardi di anni e saranno ancora

praticamente immutate quando la specie umana sarà forse scomparsa da tempo.

Oggi è comunemente accertato che le stelle si formino da addensamenti della materia interstellare,

sebbene siano ancora in gran parte oscuri i dettagli di come questo avvenga. Si pensa che nello spazio

interstellare, dove vagano gas e minuscole particelle solide (le cosiddette polveri interstellari), si

formino casualmente delle concentrazioni di materia 10, 100 o anche 1000 e 10 000 volte più dense.

Sono le nubi interstellari, che si manifestano o come chiazze luminose, che diffondono la luce delle

stelle che vi sono immerse, o come macchie scure che assorbono completamente la luce delle stelle

retrostanti (Figura 2.1).

Figura 2.1 - Nubi oscure (testa di cavallo in Orione). Si noti la luce delle stelle retrostanti diffusa dalla nube (Fonte: Giorgio

Tave).

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Anche queste nubi, confrontate con il vuoto che noi sappiamo produrre artificialmente, sono molto

più “vuote”. Però in esse si possono formare, sempre casualmente, delle condensazioni di materia un

po’ più dense del mezzo circostante. Queste condensazioni attraggono con la loro forza di gravità altra

materia. La piccola condensazione iniziale cresce e più cresce più aumenta la sua forza di attrazione

gravitazionale; altra materia le cade addosso e in qualche decina o centinaia di migliaia di anni essa

raggiunge una massa “stellare”. Durante le prime fasi di contrazione la materia è ancora rarefatta e

trasparente; il calore prodotto dalla compressione viene rapidamente dissipato nel mezzo circostante.

Ma, con l’aumentare della densità, il mezzo diventa opaco, e il calore non sfugge più così facilmente.

Il gas si riscalda e arriva un momento in cui la temperatura è abbastanza alta da permettere che

l’idrogeno (che costituisce il 70% della massa dell’universo) si trasformi in elio. Infatti, alta

temperatura vuol dire alta velocità o grande energia cinetica delle particelle. Solo grazie a questa

energia più particelle positive come i protoni possono vincere la forza repulsiva che agisce su particelle

dello stesso segno e fondersi a formare un nucleo più pesante. Quattro nuclei di idrogeno (o protoni) a

temperature che variano fra i 5 e i 50 milioni di gradi (circa 1000 volte la temperatura superficiale), a

seconda della massa che si condensa, si uniscono a formare un nucleo di elio. (Figura 2.2)

Figura 2.2 - Idrogeno diventa elio (Fonte: Pianeta Scienza, 2010).

Il procedere delle reazioni nucleari con trasformazione di idrogeno in elio mantiene costante la

temperatura del centro della stella e costante resta anche la pressione del gas che è dovuta proprio al

moto casuale delle singole particelle, moto che è tanto più rapido quanto maggiore è la temperatura del

gas. Se, per esempio, il tasso a cui si verificano le reazioni nucleari rallenta, la temperatura diminuisce;

e di conseguenza diminuisce anche la pressione che non sarà più in grado di equilibrare la forza di

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gravitazione. Si avrà allora una compressione con conseguente riscaldamento del gas. Questo aumento

di temperatura provoca un aumento di energia prodotta dalle reazioni nucleari e l’equilibrio si

ristabilisce. Analogamente, se il tasso di reazioni cresce troppo, e la temperatura aumenta tanto che la

pressione del gas supera la forza di gravitazione, si avrà un’espansione con conseguente

raffreddamento e l’equilibrio verrà ristabilito. Così, una stella spende la maggior parte della sua vita

consumando l’idrogeno contenuto nella sua parte centrale più calda, producendo energia in maniera

costante e irraggiando nello spazio l’energia prodotta (Hack, 1997).

2.1 Nascita, vita e morte di una stella

La nascita di una stella è la fase meno conosciuta di tutta la vita stellare. Il fatto che tutte le stelle

giovani siano immerse in nubi di gas e polveri ci fa pensare che le stelle nascano da condensazioni

formatesi casualmente dentro le nubi stesse. Queste nubi hanno temperature molto basse, vicine allo

zero assoluto: non solo quindi non emettono luce, ma assorbono anche completamente la luce che le

stelle in formazione potrebbero irradiare. È molto difficile quindi capire cosa succede al loro interno.

Se una qualche perturbazione, come l'esplosione di una supernova o un vento stellare di particolare

intensità, crea instabilità gravitazionale nella zona della nube interessata dall'onda d'urto, le molecole

presenti, fino a quel momento in equilibrio, iniziano ad avvicinarsi sempre di più. Così si formano i

globuli di Bok, zone dove esiste un maggiore addensamento di materia, e che, in futuro, a causa della

forza gravitazionale, saranno destinate a diventare stelle.

Nella fase iniziale la pressione interna o di radiazione non è più sufficiente a contrastare il collasso

gravitazionale e quindi la protostella si contrae. L'energia gravitazionale viene convertita in energia

termica: il nucleo comincia a scaldarsi.

Tra tutte le protostelle solo quelle con una massa compresa tra 0,08 e 100 masse solari possono

raggiungere la fase di stabilità.

Le altre stelle terminano la loro vita in due modi:

- Se la massa di partenza è inferiore a 0,08 masse solari allora resteranno oggetti freddi e con

bassissima luminosità detti nane brune, dove sono assenti fenomeni di fusione nucleare;

- Se la massa iniziale supera le 100 masse solari allora si verificherà un'esplosione detta

ipernova, perché la forza gravitazionale ha il sopravvento sulla pressione radiativa si hanno

bruciamenti esplosivi, il nucleo collassa e l'onda d'urto che ne consegue espelle tutti gli strati

esterni nello spazio. Gli elementi espulsi di cui è composta la stella andranno a formare altri

oggetti cosmici.

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Dopo la sua formazione, la stella diventa stabile quando incomincia a produrre energia attraverso la

fusione nucleare dell'idrogeno e si stabilisce un equilibrio idrostatico al suo interno, cioè la pressione

degli strati esterni che gravano sul nucleo, eguaglia quella della radiazione prodotta all'interno dello

stesso. Risulta evidente che più grandi sono i nuclei atomici, maggiore è la repulsione elettrica, quindi

temperatura e pressione necessarie per i processi di fusione.

Affinché la stella raggiunga una temperatura centrale di circa 10 milioni di gradi, quella necessaria per

la fusione dell'idrogeno in elio, sono necessarie alcune decine di milioni di anni.

La fusione di due nuclei atomici è ostacolata dalla reciproca repulsione elettrostatica (chiamata

repulsione Coulombiana), pertanto, è necessario che il gas abbia altissime pressioni e temperature, cioè

una grande energia cinetica, per poter vincere la repulsione dei nuclei e riuscire a fonderli.

La fusione utilizza due atomi d'idrogeno, l'elemento più semplice dell'universo, composto da un

protone ed un elettrone, per produrre un atomo di deuterio, formato da un protone, un neutrone e un

elettrone. Nella reazione di trasformazione di un protone in un neutrone viene emessa energia sotto

forma di radiazione ed il rilascio di un neutrino (ν) e un positrone (e+).

La fase successiva prevede la fusione di un atomo di deuterio con un atomo d'idrogeno e la

generazione di un atomo di elio-3 (3He).

La terza fase utilizza due atomi di elio-3, la cui fusione dà origine ad un atomo di elio (4He) ed il

rilascio di due protoni.

La seconda fase si ripete due volte per produrre due atomi di elio-3, con il coinvolgimento di 6 atomi

d'idrogeno; poiché la produzione di elio rilascia a sua volta due protoni, per ogni atomo di elio

prodotto si consumano 4 atomi di idrogeno.

Tutte le stelle iniziano la propria vita bruciando idrogeno nel nucleo e trasformandolo in elio, ma la

loro evoluzione successiva dipende dalla loro massa iniziale, quella che possiedono al momento della

nascita; la massa di una stella determina ovviamente la quantità di combustibile a disposizione per le

reazioni di fusione nucleare.

Una volta che la stella ha avviato il ciclo di fusione s'inserisce nella sequenza principale del

Diagramma Hertzsprung-Russel (Figura 2.3) che cataloga le stelle in funzione della luminosità e della

classe spettrale/temperatura a cui appartengono (astronomia.comze, 2012).

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Figura 2.3 - Diagramma H-R (Fonte: astronomia.comze).

La luminosità è il parametro di misura del ritmo con il quale la materia viene consumata. Il tempo

di vita di una stella, cioè il tempo necessario affinché essa consumi tutto il combustibile a sua

disposizione, è circa pari al rapporto tra la sua massa e la sua luminosità:

Tvita stella = Massa / Luminosità

Dato che la luminosità L aumenta con la massa M secondo una legge di potenza del tipo L = Mx, dove

x è un numero compreso fra 3 e 4, il precedente rapporto è tanto più piccolo quindi quanto più

massiccia è la stella. Le stelle più calde, massicce e luminose, quelle che popolano la parte alta della

sequenza principale, sono dunque quelle che vivono meno a lungo (astronomia.comze, 2012).

Una volta che si è consumato quasi tutto l’idrogeno la stella, composta prevalentemente da elio che

è più pesante dell’altro elemento chimico, si contrae ma questa volta fino ad una temperatura ancora

più elevata. I nuclei di elio si fondono insieme per dare origine a nuclei di carbonio.

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L’impiego di una temperatura maggiore contribuisce anche ad una maggiore quantità di energia

emessa dalla reazione, per cui la stella comincia ad estendersi, a raffreddarsi ed a cambiare il suo

colore: la stella è diventata una gigante rossa.

Adesso, si aprono altri destini diversi, che dipendono sempre della sua massa iniziale:

- massa iniziale come quella del Sole: la stella tende a disfarsi dei suoi strati più esterni, che

vengono successivamente trascinati via da particelle più piccole che formano il vento stellare. Dal

momento in cui la stella si è privata del suo involucro più esterno, il corpo celeste diventa un nucleo

rovente che si contrae e si riscalda, dando origine a successive fusioni nucleari. Dopo che si è esaurita

la fusione la stella comincia a raffreddarsi, diventando una nana bianca.

Ci sono, inoltre, dei casi in cui le stelle provocano delle vere e proprie esplosioni: in questo caso

danno origine a delle stelle supernovae, caratterizzate da un aumento improvviso della loro luminosità

a causa dell’esplosione.

- massa iniziale di almeno una decina di volte quella del Sole: si trattano di stelle con nuclei

ferrosi che tendono a collassare, ciò spinge il corpo celeste verso temperature elevatissime, fino a

provocare una vera e propria esplosione. Gran parte della stella, definita supernova, si disperde nello

spazio. Il materiale rimasto dopo l’esplosione provoca un grande aumento di pressione che fa fondere

protoni ed elettroni. La fusione da origine ad una stella di neutroni.

- massa iniziale di qualche decina di volte quella del Sole: quest’ultime, dopo lo stadio di

supernova, cominciano a contrarsi. La loro contrazione, però, è talmente forte che la stella non riesce a

contenere l’energia sprigionata, dando origine ad un buco nero (Pianeta Scienza, 2010). (Figura 2.1)

Figura 2.4 - Schema vita delle stelle (Fonte: Liceo Cafiero, 2014)

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Quando una stella come il nostro Sole ha consumato la maggior parte dell'idrogeno, nel suo nucleo

si riduce la temperatura. Come conseguenza, venendo meno la pressione radiativa (ossia quella forza

che tendeva a far espandere la stella) il peso degli strati superiori ha la meglio e iniziano a collassare

verso il centro. Questa caduta innalza pressione e temperatura che, raggiunti i 100 milioni di gradi,

innesca un bruciamento rapido dell'elio, detto appunto Flash dell'elio, trasformandolo in carbonio ed

altri prodotti secondari della fusione, tra cui l'ossigeno. La fusione sfrutta due atomi di elio e origina un

isotopo instabile del berillio. Questi è instabile e tende a decadere nuovamente nei due nuclei di elio

(d). Se la temperatura è dell'ordine di 100 × 106 °C, si instaura un equilibrio per il quale il berillio è

sempre in presenza di elio; la fusione di elio e berillio produce carbonio.

Questo processo è detto triplo-alfa, perché l'atomo di elio è anche indicato come particella alfa. La

fusione dell'idrogeno residuo nelle zone prossime all'inviluppo produce un sovrariscaldamento. Non

essendoci nulla in grado di contrastare la pressione radiativa generata dalla fusione dell'idrogeno,

l'inviluppo di espande e la successiva rarefazione induce un conseguente raffreddamento.

La serie di espansioni e successive contrazioni, creano una sorta di pulsazione che tende a rilasciare

radialmente i gas dell'inviluppo attorno alla stella.

L'astro esce dalla sequenza principale del diagramma di Hertzsprung-Russel per entrare nel ramo

laterale delle giganti (Figura 2.3).

A questo punto si delineano due possibilità, in base alla massa della stella (M stella):

Se M stella < 2 M sole (ad esempio il nostro Sole)

Terminato l'elio, la massa dei nuovi prodotti di sintesi che compongono la stella non è sufficiente ad

aumentare nuovamente la pressione e la temperatura del nucleo per avviare la fusione del carbonio.

Mancando la pressione radiativa, il nucleo collassa ma l'astro declina in un corpo noto come nana

bianca, composto di carbonio ed ossigeno, estremamente densa (circa 1 tonnellata per centimetro cubo)

e calda sulla superficie (circa 10000 gradi). La radiazione ultravioletta emessa da questo corpo ionizza

la nube di gas e polveri che erano il suo inviluppo, rendendola visibile in alcuni casi già con modesti

telescopi amatoriali. L'astro composto da una nana bianca e dalla nube di polveri ed elementi è definita

nebulosa planetaria e rappresenta la fase finale della vita di una stella di media grandezza come il

nostro Sole. La nana bianca si spegnerà lentamente nell'arco di 15 miliardi di anni.

Una nana bianca molto densa, ricca di carbonio e ossigeno, che si trovi vicino ad una compagna

rossa, ne attira la materia e quando la pressione della massa acquisita supera il limite d'innesco, si ha

una combustione improvvisa (bruciamento esplosivo o cataclisma) con il rilascio di una rilevante

quantità d'energia anche nello spettro visibile. È il fenomeno della Nova.

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Se la nana bianca non riesce a bruciare il combustibile acquisito e prosegue a strappare materia alla

compagna gigante, è possibile che la sua massa superi un specifica soglia d'innesco, pari a 1,44 masse

solari (detto limite di Chandrasekhar). In questo caso la pressione è tale da provocare l'implosione del

nucleo a cui fa seguito un evento di esplosione distruttiva, che trascina con se anche la gigante rossa in

quella che viene definita esplosione di Supernova di tipo Ia.

Si tratta dell'evento più energetico attualmente noto ed il risultato è la vaporizzazione dell'intero

sistema binario.

La curva della luminosità delle supernove è sempre uguale, pertanto dalla sua analisi, grazie alla

specifica relazione magnitudine-distanza è possibile calcolare quanto distano questi oggetti dal nostro

pianeta. Le Supernovae di Tipo Ia sono quindi dette anche candele standard perché sono utilizzate

come punti di riferimento.

Le esplosioni di Supernovae di Tipo Ia sono anche prodotte da fenomeni di merging, ossia dalla

fusione di sue nane bianche in orbita stretta una attorno all'altra.

Se M stella > 2 M sole

La pressione degli strati esterni è tale da far aumentare pressione, densità e temperatura del nucleo e

quando questi ha raggiunto circa 700-800 milioni di gradi, i nuclei di carbonio incominciano a

fondersi.

La stella si sposta dalla regione delle giganti rosse di nuovo verso la sequenza principale.

Grazie alla massa di gas che grava sul nucleo, queste stelle ripetono più volte il ciclo di contrazione ed

espansione, innescando ogni volta la fusione di un elemento più pesante all'esaurirsi del combustibile

precedente, mentre il loro nucleo si riscalda sempre più.

- Combustione del carbonio A circa 700-800 milioni di gradi incomincia la fusione dei nuclei di

carbonio con la produzione di ossigeno, magnesio, sodio e neon. I bruciamenti rilasciano come

prodotti secondari nuovo idrogeno, elio, neutroni e raggi gamma (γ).

- Combustione del neon La fusione del neon avviene a temperature di circa 1,2 miliardi di gradi,

dopo che il processo precedente ha consumato tutto il carbonio. Il nucleo si raffredda e la forza

di gravità prende il sopravvento comprimendolo ed aumentandone densità e temperatura finché

non raggiunge il punto di innesco della fusione del neon. Durante la fusione del neon si ha la

produzione di ossigeno e magnesio, assieme a elio, neutroni, e neodimio. In pochi anni la stella

esaurisce il neon, il nucleo si raffredda dando inizio ad una nuovo incremento della pressione

gravitazionale che innalza densità e temperatura.

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- Combustione dell'ossigeno A temperature di circa 1,4 miliardi di gradi i nuclei di ossigeno si

fondono, proseguendo nella catena dei bruciamenti stellari, formando silicio, zolfo, fosforo e

nuovamente - come prodotti secondari - magnesio, idrogeno, elio, neutroni e raggi gamma (γ)

- Combustione del silicio Oltre i 2,7-3 miliardi di gradi i nuclei di silicio si fondono formando

nichel che decade prima in cobalto che a sua volta decade in ferro che è stabile. Nel processo di

decadimento sono rilasciati positroni (e+), e neutrini (νe)

Il silicio accumulato dalla stella si consuma in appena un giorno o poco più.

In queste condizioni, a causa del susseguirsi dei bruciamenti, la stella assume una struttura a cipolla, in

cui ogni strato è interessato alla fusione di un elemento (Figura 2.5). La temperatura, la pressione e la

densità (la lettera greca rho - ρ) crescono con la profondità (astronomia.comze, 2012)

Figura 2.5 - Possibile struttura di una stella pari a 20 masse solari nella fase di supernova (Fonte: astronomia.comze).

Solo le stelle con massa superiore a 10-12 volte quella del Sole percorrono tutto il ciclo dei

bruciamenti nucleari, arrivando a sintetizzare il ferro nel proprio nucleo.

Dopo la combustione del silicio, il nucleo della stella non può produrre ulteriore energia e quindi si

raffredda; la contrazione gravitazionale non è più compensata dalla produzione di energia e quindi

dalla pressione radiativa, pertanto la stella collassa su se stessa.

I nuclei di ferro si frantumano e, sotto l'enorme pressione alla quale sono sottoposti dagli strati di gas

sovrastanti, collassano su se stessi.

Il nucleo si contrae, alla ricerca di una nuova configurazione di equilibrio idrostatico. Gli strati

esterni cadono sul nucleo a grande velocità, urtando contro la sua superficie estremamente densa. Il

successivo rimbalzo provoca un'onda d'urto che riscalda il gas fino a temperature altissime (decine o

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centinaia di miliardi di gradi), caratteristica di un'esplosione definita Supernova di tipo II. Il tutto

avviene in una decina di secondi.

L'onda d'urto fa sì che il gas, arricchito di elementi pesanti sintetizzati dalla fusione nucleare, sia

restituito al mezzo interstellare: l'esplosione delle supernovae rappresenta il principale meccanismo di

arricchimento chimico delle galassie. gli elementi di cui è composta la stella si spargono nello spazio e

a loro volta andranno a formare altri astri, molecole organiche e quindi la vita. Come dice Margherita

Hack: "Siamo tutti figli delle stelle."

La supernova rilascia una enorme quantità di energia che rende possibile la formazione di nuclei

più pesanti del ferro entro pochi secondi dall'esplosione tramite il processo di cattura rapida di neutroni

(definito processo-r). Il ruolo delle supernovae nell'evoluzione delle galassie è quindi fondamentale,

non soltanto perché esse arricchiscono il gas interstellare di elementi pesanti, ma anche perché,

attraverso una compressione dello stesso gas, inducono la formazione di nubi dense e quindi di nuove

stelle.

Figura 2.6 - Supernova Cassiopeia A (Fonte: The Galaxy Today, 2014)

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La sorte del nucleo residuo (che non è esploso), a questo punto, dipende dalla sua massa:

- se il nucleo è inferiore a 3,2 masse solari (definito limite di Volkoff-Oppenhmaier), i protoni si

fondono con gli elettroni, formando una stella compatta e densissima di neutroni;

- se invece la massa del nucleo è superiore al limite di Volkoff-Oppenhmaier nulla può fermare

il suo collasso, che diventa irreversibile. Mentre il nucleo si contrae la forza di gravità in

superficie aumenta. In accordo con la teoria della Relatività Generale, lo spazio intorno alla

stella si deforma, incurvandosi e modificando le traiettorie dei corpi che vi passano vicino.

La stella scompare, perché perfino la luce resta intrappolata all'interno del suo enorme campo

gravitazionale: si è formato un buco nero (astronomia.comze, 2012).

La vita di una stella può essere riassunta così: (Figura 2.7).

Figura 2.7 - Vita di una stella (Fonte: Pianeta scienza, 2010)

2.2 Tipi di stelle e classi spettrali

Le stelle possono essere molto diverse tra loro: alcune stelle possono brillare fino a 600'000 volte

più del Sole, altre fino a 550'000 volte meno. La luminosità di una stella come la vediamo noi dipende

ovviamente dalla sua distanza dalla Terra. Le loro dimensioni variano tra un diametro pari a circa 2000

volte quello del Sole per le più grandi dette giganti (supergiganti, ipergiganti…) e un minimo di 0.17

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masse solari (stimato) per le più piccole dette nane (nane bianche). A seconda delle loro dimensioni

rispetto al Sole le stelle si distinguono in sette classi:

1 - nane (Stella di Kapteyn, Stella di Barnard, Sirio B,...)

2 - subnane (Proxima Centauri, Mira B,.)

3 - sequenza principale (Sirio A, Alfa Centauri, Sole, Procione, Vega, Altair,...)

4 - subgiganti (Capella, Spica, Mintaka, Alnilam, Alnitak, Saiph, Bellatrix,...)

5 - giganti (Menkar, Arturo, Polare, Mirfak, Rigel, Schedar e Aldebaran,...)

6 - supergiganti (Deneb, Sadir, Scheat, Enif, Betelgeuse, Gamma Velorum,...)

7 - ipergiganti (Antares, R Sculptoris, R Leporis, Erakis, La Superba) (astronomia.comze, 2012).

La densità di una stella, essendo riferita all’aria (=1) ed essendo che il gas di una stella si trova in

condizioni molto diverse da quelle terrestri, può essere fino a 2000 volte superiore, mentre la maggior

parte delle stelle tra cui il Sole hanno una densità intorno ai 1,408 × 103 kg/m³ (densità del Sole). Lo

splendore di una stella viene definito magnitudine e si divide in due categorie: magnitudine apparente

e magnitudine assoluta. La magnitudine apparente (m) di un corpo celeste è una misura della sua

luminosità rilevabile da un punto di osservazione, di solito la Terra. Il valore della magnitudine è

corretto in modo da ottenere la luminosità che l'oggetto avrebbe se la Terra fosse priva di atmosfera.

Maggiore è la luminosità dell'oggetto celeste minore è la sua magnitudine. Generalmente la

magnitudine viene misurata nello spettro visibile (vmag), ma a volte possono essere utilizzate altre

regioni dello spettro elettromagnetico. Sirio è la stella più luminosa del cielo notturno nello spettro

visibile, ma nella banda J la stella più luminosa risulta Betelgeuse. Le più luminose sono di grandezza

0 (o negativo), seguite da quelle di grandezza 1, 2, 3, 4, 5, 6. Queste ultime sono appena visibili ad

occhio nudo, mentre con un telescopio si riesce a vedere stelle aventi grandezza fino a circa 20. La

magnitudine assoluta (M) è la magnitudine apparente (m) che un oggetto avrebbe se si trovasse ad una

distanza dall'osservatore di 10 parsec o 1 Unità Astronomica a seconda del tipo di oggetto

(stellare/galattico o corpo del Sistema solare). Più semplicemente, è una misura della luminosità

intrinseca di un oggetto, senza tener conto delle condizioni in cui si trova l'osservatore. Più un oggetto

è intrinsecamente luminoso, più la sua magnitudine assoluta è numericamente bassa, anche negativa.

Le 15 stelle più luminose del cielo sono illustrate in tabella (Tabella 1).

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2.2.1 Spettro elettromagnetico

La classificazione principale delle stelle è fatta in base al loro spettro, che a sua volta è collegato

alla temperatura superficiale dell’astro. Tutte le stelle emettono ad ogni frequenza dello spettro

elettromagnetico, dalle onde radio ai raggi gamma, con aumenti e picchi in frequenze diverse per

ciascuna.

Nello spettro visibile i colori vanno dal rosso (il raggio meno rifratto) al viola (il più rifratto),

attraverso l’arancione, il giallo, il verde e il blu. La classificazione spettrale si basa sulla temperatura

superficiale, dividendo le stelle in sette categorie, ognuna contrassegnata da una lettera: O, B, A, F, G,

K, M. Le stelle di tipo O sono le più calde, le altre lettere sono assegnate a stelle via via meno calde,

fino a quelle più fredde di classe M. È uso descrivere le stelle di classe O come "blu", quelle di classe

B come "azzurre", quelle di classe A come "bianche", quelle di classe F come "bianco-gialle", quelle

Tabella 1 - Le 15 stelle più luminose (Nome comune, Nome con lettera di Bayer, Magnitudine apparente, Distanza anni-luce).

Nome comune Nome con lettera di Bayer Magnitudine apparente Distanza anni-luce

Sirio α Canis majoris -1,46 8,6

Canopo α Carinae - 0,73 200

Rigel Centaurus α Centauri - 0,27 4,3

Arturo β Bootis - 0,06 32

Vega α Lyrae 0,03 27

Rigel β Orionis 0,08 800

Capella α Aurigae 0,09 45

Procione α Canis Minoris 0,35 11

Achernar α Eridani 0,50 100

Agena β Centauri 0,61 200

Altair α Aquilae 0,75 16

Acrux α Crucis 0,80 270

Betelgeuse α Orionis 0,80 (var.) 500

Aldebaran α Tauri 0,81 70

Spica α Virginis 0,96 230

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di classe G come "gialle", quelle di classe K come "arancioni" e quelle di classe M come "rosse"

(Tabella 2), cioè i colori più presenti nello spettro di quella particolare stella.

Tabella 2 - Classificazione delle stelle secondo il criterio della temperatura superficiale (Fonte: astronomia.comze).

Tuttavia i colori che appaiono all'osservatore possono differire da questi in ragione delle condizioni di

osservazione e delle caratteristiche della stella osservata. Il Sole, ad esempio, è una nana gialla

contrassegnata quindi dalla lettera G. Altre stelle non classificabili in questi gruppi (circa 1%) sono

divise in altri gruppi detti W, R, N, S. Per ricordare l’ordine delle lettere dei tipi spettrali (O, B, A, F,

G, K, M), si usa una frase: Oh Be A Fine Girl/Guy! Kiss Me.

Vi sono inoltre stelle doppie, triple e variabili.

2.2.2 Stelle doppie (e triple)

Molte stelle condividono lo spazio in cui sono nate con una compagna; si parla in questo caso di

stelle doppie. In genere sono stelle di misura molto diversa in cui la più piccola ruota intorno alla più

grande (come per la stella Sirio). Con un telescopio è possibile osservare molte di queste. Ci possono

essere anche stelle con più componenti, come Castore, costituita da tre stelle doppie.

Le stelle doppie sono coppie di stelle che, all'osservazione visuale, appaiono molto vicine tra loro. I

due astri sono definiti componenti del sistema doppio e la loro distanza è definita separazione angolare

ed è misurata in secondi d'arco (1" = 1/3600 gradi).

Alcune possono essere risolte, ossia è possibile osservare le due componenti, già con un binocolo,

altre solo con telescopi. Minore è la loro separazione angolare, maggiore dovrà essere la capacità dello

strumento ottico (diametro, qualità delle lenti e ingrandimenti).

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Ci sono binarie propriamente dette o doppie fisiche, e le doppie prospettiche, dette anche doppie

ottiche.

Proprio per questa catalogazione generica, qualora un astrofilo scoprisse un sistema binario, di

primo acchito non sarebbe in grado di discriminarne il gruppo di appartenenza.

Le doppie fisiche sono stelle che orbitano l'una attorno all'altra rispetto al centro di massa del

sistema e sono quindi legate gravitazionalmente. I sistemi binari fisici tendono a riunirsi in coppie

gerarchiche, ossia sistemi che rimangono accoppiati in orbite stabili per tutta la loro vita. Possono

iniziare come sistemi multipli, ad esempio tripli, ma lo fanno in configurazione instabile, con orbite

non determinabili e disordinate a causa del problema noto in meccanica celeste come il problema dei

tre corpi.

Nel tempo solo due stelle del sistema prenderanno una configurazione stabile e deterministica,

orbitando attorno al comune centro di massa; la terza stella assumerà una posizione nello spazio in

un'orbita che non potrà perturbare la binaria.

Le stelle doppie o sistemi binari comprendono anche sistemi più complessi: abbiamo esempi di

quattro stelle che hanno trovato la loro stabilità creando due coppie gerarchiche in mutua orbita tra

loro; è il caso della doppia-doppia ε (Epsilon) Lyrae, nei pressi di Vega, costellazione della Lyra.

Come si intuisce dal sinonimo con cui sono anche definite, le doppie ottiche sono tali solo grazie

ad un effetto prospettico che le mostra vicine se proiettate su un ipotetico piano. Data l'enorme

distanza che ci separa da loro, quando le osserviamo, molte stelle ci appaiono proprio come proiettate

su una superficie e quindi le indichiamo come "vicine", anche se magari distano tra loro centinaia di

anni luce.

Se le orbite sono inclinate, oppure avvengono fenomeni di mutua eclisse, è possibile notare

variazioni periodiche di luminosità; per questo fenomeno sono dette binarie ad eclisse o binarie

fotometriche.

Nel caso di piccole dimensioni di uno degli astri o di una luminosità ridotta, la presenza di una

binaria è rilevabile analizzando le flebili variazioni nel moto della stella principale lungo la propria

orbita. Poiché per l'identificazione ci si avvale di misure astronomiche, si definiscono doppie

astrometriche.

Se la presenza di un sistema binario è scoperto grazie alla variazione delle righe spettrali, a causa

dell'Effetto Doppler provocato dalla leggera variazione di posizione della stella analizzata rispetto al

punto di osservazione, si parlerà di binarie spettroscopiche. Il numero dei sistemi binari conosciuti

costituisce più del 20% delle stelle, ma le stelle doppie sono sicuramente in percentuale più alta (pare il

56%); solo a causa della grande distanza che li separa da noi molti sistemi binari non sono ancora stati

scoperti.

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L'importanza dei sistemi doppi risiede nel fatto che sono le sole stelle di cui è possibile determinare

i valori della massa, della densità e del raggio (astronomia.comze).

2.2.3 Stelle variabili

Le stelle variabili hanno una luminosità che varia fino ad arrivare all’esplosione, come ad esempio

le novae, stelle bianche molto dense la cui luce aumenta rapidamente fino a raggiungere oltre 100'000

volte il valore iniziale e in seguito decrescono oppure come alcune stelle rosse giganti o supergiganti la

cui grandezza può variare da 4 a 10 volte durante periodi particolari che possono durare da qualche

mese a qualche anno.

La variazione di luminosità rilevata a carico di alcune stelle, introduce il concetto di Stelle

Variabili, ossia oggetti la cui luminosità è soggetta a variazioni periodiche nel tempo, di cui le binarie

ad eclisse sono solo un esempio banale.

Esiste un'intera classe di variabili definite pulsanti di cui le più famose sono le Cefeidi (dal nome

della prima, Delta Cephei), stelle giganti la cui luminosità varia con periodi tra 2 e 150 giorni, grazie al

movimento periodico di contrazione ed espansione dell'inviluppo che si ripete con estrema regolarità.

Questo comportamento permette di utilizzarle per la misura delle distanze cosmiche fino a qualche

decina di milioni di anni luce.

Henrietta Swan Leavitt (un'astronoma statunitense che visse a cavallo del XIX e XX secolo)

dimostrò che ad un dato periodo è associato un solo valore di luminosità assoluta: si può dedurre

quindi che le Cefeidi posseggono una luminosità assoluta in funzione del periodo della loro variabilità.

Quindi, conoscendo il periodo di variabilità, e rilevato il valore di magnitudine apparente della

stella, si ricava facilmente la distanza dall'osservatore, pertanto, se occorre determinare la distanza di

una galassia vicina, si cercano le sue Cefeidi e se ne misura il periodo.

In quest'ambito, una stella con le caratteristiche di una Cefeide è definita candela standard poiché

nota la luminosità assoluta ed una misura del flusso è possibile determinarne la distanza.

Per questo ed altri motivi, lo studio delle stelle variabili offre all'astrofilo una concreta possibilità di

ricerca e di collaborazione, anche con gli Osservatori Astronomici Nazionali, con l'unione Astrofili

Italiana o la AAVSO (American Association of Variable Star Observers).

Utilizzando un raro tipo di stelle variabili Cefeidi è possibile arrivare a 300 milioni di anni luce.

Queste candele standard sono le cosiddette Cefeidi a lungo periodo (Ultra Long Period Cepheids, o

ULP Cepheids). Si tratta di stelle pulsanti che, a differenza delle altre Cefeidi, sono massicce ed

estremamente luminose.

Altre stelle variabili sono le variabili cataclismatiche, note anche come novae o variabili eruttive.

Esse subiscono occasionali, violente esplosioni non distruttive oppure vanno incontro a drammatici e

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conclusivi aumenti di luminosità (esplosioni distruttive) a causa di processi termonucleari negli strati

superficiali (inviluppo) o in quelli interni.

Una classe peculiare è data dalle variabili rotanti, la cui variazione luminosa è dovuta a chiazze

opache o brillanti oppure gruppi di macchie stellari superficiali. La casistica di studio le colloca

sovente in sistemi binari (astronomia.comze, 2012).

2.2.4 Lettere di Bayer

Gli antichi chiamarono con nomi propri, le stelle più brillanti che formavano le costellazioni

principali. Ancora oggi, le stelle più splendenti hanno conservato, nella tradizione, il nome d'origine.

A seconda dell'origine, avremo:

- dal greco, Sirius nel Cane Maggiore, che vuol dire “Stella tremolante”,

- dal latino, Regulus nel Leone, che vuol dire “Piccolo Re”,

- dall'arabo, Altair nell'Aquila che significa “Aquila volante”.

In questo modo, tutte le altre stelle meno luminose, non possedevano un nome proprio, ma erano

soltanto degli anonimi puntini lucenti sparsi nel cielo.

Nel 1603, il cartografo tedesco Johann Bayer, inventò un nuovo sistema di catalogazione: battezzò

ogni stella con una lettera dell'alfabeto greco, attribuendo la prima lettera dell'alfabeto alla stella più

luminosa, la seconda lettera alla seconda in splendore e così via. Una volta esaurite le lettere greche,

veniva utilizzato l'alfabeto latino, dapprima in lettere minuscole, poi maiuscole.

Per cui: la stella più brillante di una costellazione sarà: "α" , quella meno:"β" e così via. Sirius, per

esempio, è anche chiamata: "α Canis Majoris". Le lettere greche che nominano le stelle, vengono dette

Lettere di Bayer (Astrofili Astrum Caeli, 2014). In realtà non sempre le lettere corrispondono

all’effettiva luminosità delle stelle (ad esempio Rigel, beta Orionis, è più luminosa di Betelgeuse, alfa

Orionis), per variazioni o perché Bayer ha osservato più la posizione delle stelle in quella

costellazione, ma gli astronomi moderni hanno preferito tenere comunque la classificazione originale

di Bayer.

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3. Il Sole

3.1 Nascita del Sole

Il sistema solare ha iniziato a formarsi 4,6 miliardi di anni fa da una nube fredda di polveri e gas

detta nebulosa solare che si estendeva in uno spazio molto più vasto rispetto all'attuale sistema solare.

La nebulosa solare era composta perlopiù da idrogeno ed elio allo stato gassoso e da grani di polvere.

La temperatura della nebulosa era molto bassa, circa -230°C.

Nel corso di milioni di anni la nebulosa solare iniziò a collassare su se stessa, condensando la

materia ed i gas in un corpo centrale detto protosole. Non si conoscono le cause che innescarono tale

processo. La concentrazione della materia e dei gas provocò l'innalzamento della temperatura della

regione centrale della nebulosa. Il protosole cominciò a produrre energia tramite il principio della

fusione nucleare. La crescente forza di gravità del protosole attirò a sé gran parte delle polveri e dei gas

della nebulosa, formando intorno a sé un immenso disco protoplanetario composto da vari anelli. La

presenza del disco protoplanetario contribuì ad aumentare ulteriormente la temperatura del protosole

che progressivamente assunse la forma sferica dell'attuale Sole.

I granelli di ghiaccio e di polveri del disco protoplanetario iniziarono ad urtarsi, fondendosi in

oggetti sempre più grandi (detti 'planetismi'). I planetismi erano corpi della grandezza di pochi

chilometri, la cui forza di gravità era tuttavia sufficiente per attirare a sé tutte le altre polveri e resistere

alle radiazioni solari che man mano stavano spazzando via dal sistema solare i materiali non ancora

aggregati in corpi solidi più grandi. Dalle collisioni dei planetismi presero vita i primi protopianeti.

Grazie all'accresciuta dimensione, i protopianeti acquisirono una forza di gravita tale da attirarono a sé

anche i gas. Si formarono dense atmosfere intorno ai nuclei rocciosi. Nacquero in questo modo i

giganti gassosi come Giove e Saturno. I protopianeti più vicini alla regione centrale e calda del sistema

solare mantennero invece una composizione prevalentemente rocciosa. Dalle collisioni e dalle fusioni

dei protopianeti, infine, presero vita gli attuali pianeti del sistema solare, circa 4,5 miliardi di anni fa

(Ecoage, 2014).

Per studiare il Sole neonato è sufficiente cercare le stelle giuste della nostra galassia, dato che molte

di loro sono proprio negli istanti della prima infanzia. TW Hydrae è una di queste ed è nata da soli

dieci milioni di anni.

La stella si trova a 190 anni luce da noi, è di tipo K e pesa circa l’80% del Sole. Un esempio quasi

perfetto. Osservazioni X e nel visibile ci mostrano chiaramente che è circondata da un disco di

accrescimento, dove probabilmente si stanno formando o si sono già formati i primi proto pianeti.

Tuttavia, la stella continua a ingoiare materia dello stesso disco, in modo molto violento anche se non

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costante. Può aumentare o diminuire nel giro di pochi giorni e quindi l’osservazione permette

veramente di seguire istante per istante il metodo di alimentazione.

Il materiale che piomba sulla stella crea delle onde di shock e fa salire la temperatura fino a tre

milioni di gradi e anche oltre. L’emissione, perciò, oltre che nel visibile avviene anche negli X.

Per la prima volta, questa fase importantissima di una stella è stata seguita in diverse lunghezze

d’onda e in tempo reale. Sembra proprio di essere tornati indietro di 4.5 miliardi di anni. Si nota che

parte del materiale viene ricacciato all’esterno come vento stellare impetuoso, altri getti formano degli

anelli e delle prominenze. Nel frattempo si è scoperto che le giovani stelle sono molto più attive

magneticamente di quelle di mezz’età e molti processi di interazione tra campo magnetico e disco

proto planetario si stanno chiarendo (Astronomia, 2013).

3.2 Composizione

Il Sole è una nana gialla di sequenza principale (diametro di 1.4 milioni di km), di temperatura media

(superficiale 6000°C, del nucleo 15 milioni °C) di classe spettrale G2 (gialla).

Secondo il Modello Solare Standard, il modello comunemente accettato dalla comunità scientifica dei

fisici solari, la struttura del Sole è suddivisa in due parti, a loro volta suddivise in altre:

- Interno del Sole

• il nucleo

• la zona radiativa

• la zona convettiva

- Atmosfera solare

• la fotosfera

• la cromosfera

• la corona

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Figura 3.1 - Struttura del Sole (Fonte: liceo Berchet).

Nucleo

La temperatura è dell'ordine di 15 milioni di gradi e la pressione raggiunge i 100 g/cm3. Tali

condizioni sono l'ambiente nel quale possono avvenire le reazioni nucleari che trasformano l'idrogeno

in elio in un processo chiamato reazione protone-protone. Una stella, a causa della sua soverchiante

massa, è perennemente sull'orlo del collasso: l'energia delle reazioni nucleari appena descritte sono ciò

che mantiene il Sole stabile, proteggendolo da tale eventualità.

Zona radiativa

Le reazioni nucleari che avvengono nel Nucleo producono in prevalenza raggi gamma; questi sono i

protagonisti dei movimenti all'interno della zona radiativa. In essa i raggi gamma sono assorbiti e

successivamente riemessi più e più volte ad energie progressivamente inferiori dalla materia che

vengono ad incontrare uscendo dal Nucleo. Tale processo, detto "irraggiamento", costituisce una delle

tre modalità di propagazione della radiazione elettromagnetica, insieme a convezione e conduzione. La

propagazione avviene tanto frequentemente che i raggi gamma impiegano milioni di anni per arrivare

effettivamente in superficie. In conseguenza di ciò la l'energia solare arrivata sulla Terra si è in realtà

formata nel Nucleo milioni di anni prima.

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Il processo di irraggiamento diminuisce il livello di energia della radiazione finchè essa non raggiunge

una temperatura vicina a quella della materia solare; quando ciò si verifica l'energia è ormai nella zona

convettiva.

Zona convettiva

Il nome deriva dal processo fisico, la convezione, tramite il quale l'energia viene trasportata fino

allo strato più esterno del Sole: la Fotosfera. Il gas sale e scende.

Fotosfera

La Fotosfera è la superficie del Sole visibile dalla Terra: ha uno spessore di quasi 500 km e una

temperatura di circa 6.000° K.

L'opacità della Fotosfera, rendendo inosservabili gli strati più interni del Sole, rendono possibile

considerarla una sorta di "superficie"; in analogia con i pianeti tutto ciò che è altre tale limite è definito

atmosfera. L'elevata temperatura è dovuta all'assorbimento dell'energia trasmessa dallo Strato

Convettivo, energia poi riemessa sotto forma di radiazione visibile: perciò i gas della Fotosfera sono

luminosi. La Fotosfera è sede di numerosi fenomeni perturbatori, quali macchie e perturbamenti. Il

limite superiore della Fotosfera segna il minimo della temperatura che raggiungono i gas, tuttavia

allontanandosi la temperatura risale fino a raggiungere decine di migliaia di gradi nella Cromosfera, e

addirittura passare il milione nella corona.

Cromosfera

La Cromosfera, spessa poche migliaia di chilometri, più che un vero strato è un sistema di decine di

migliaia di getti gassosi emessi contemporaneamente, detti spiculae; getti dal diametro superiore a

1000 km rilasciati a velocità superiore ai 30 km/s.

Corona

L'ultimo strato del Sole, la Corona, ha una brillantezza estremamente bassa, specie comparata con

quella di Foto-Cromosfera; pertanto essa è visibile soltanto durante le eclissi totali di Sole. Questo

determina una certa imprecisione nello stabilire i confini esatti del Sole. Un'interessante caratteristica

della Corona è il cambiamento di forma che si veifica seguendo un ciclo di 11 anni; nei periodi di

massima attività ha forma quasi circolare, affusolata in minima attività, intermedia tra questi estremi.

Nel cambiamento ha un ruolo determinante la distribuzione dei campi magnetici. Essendo composta in

massima parte da gas, la densità di questo strato è molto bassa (circa un miliardesimo dell'aria terrestre

a livello del mare). La bassa densità combinata all'elevatissima temperatura evidenzia la natura di gas

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ionizzato, che compone la Corona. Queste particelle ionizzate, eccitate dall'alta temperatura, si

muovono a velocità tali da riuscire a sfuggire alla gravità solare, dando vita al fenomeno noto come

vento solare (Liceo Berchet, 2014).

3.2.1 Fenomeni sul Sole

Granuli

A forte ingrandimento la fotosfera non appare uniformemente luminosa. Le fotografie ad alta

risoluzione rivelano un alternarsi di punti chiari e punti più scuri.

L'immagine è stata paragonata a quella di una specie coperta di chicchi di riso (Figura 3.2). Ogni

"chicco" ha un diametro di circa 1000 km, ma talvolta si formano "chicchi" più grandi fino a 4000

km. A proposito di questi aspetti si parla rispettivamente di granulazione e di supergranulazione. Un

esame più accurato rivela che i punti più chiari si avvicinano a noi, mentre quelli più scuri si

allontanano. Quanto alla temperatura, è maggiore nei punti chiari, minore in quelli scuri.

L'interpretazione di questi fenomeni è che gli strati più superficiali del Sole ribollono per moti

connettivi che trasportano il calore nel guscio esterno del Sole: le zone più chiare sono zampilli di

materia calda in ascesa, le zone più scure ricadute di materia più fredda in discesa. La vita media di un

granulo è di circa dieci minuti.

Figura 3.2 - Fotosfera con granuli (Fonte: SDO, 2014)

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Macchie Solari

Gli antichi immaginavano il Sole e le stelle come corpi perfettamente immutabili. In realtà ogni

stella è in evoluzione e ne dà segni più o meno evidenti. Il Sole sta attraversando una lunga fase di

stabilità tipica delle stelle più comuni, che dura almeno dieci miliardi di anni. L'attività solare è visibile

soltanto perché la osserviamo da molto vicino e si manifesta nelle macchie, nei brillamenti nelle

protuberanze, nella variabile conformazione della corona. La forma e le dimensioni delle macchie

(Figura 3.3) sono estremamente variabili e possono cambiare anche in tempi brevi (dell’ordine di

poche ore); ciò può essere facilmente compreso se si pensa che la fotosfera, sulla quale esse si

formano, si trova allo stato gassoso con una temperatura che si aggira intorno ai 6.000 gradi centigradi.

Per contro la temperatura nel nucleo di una macchia può variare da 4.000 a 5.200 gradi centigradi

mentre nella penombra raggiungiamo valori pari a 5.500 gradi centigradi; di conseguenza le macchie

appaiono scure solo per contrasto con le regioni fotosferiche adiacenti soggette a temperature più

elevate.

Figura 3.3 - Sole con macchie (Fonte: SDO, 2014)

L’esistenza di un ciclo delle macchie solari è stata scoperta dal farmacista tedesco S. H. Schwabe

(1789 - 1875) il cui lavoro venne divulgato nel 1851. Schwabe stava cercando un ipotetico pianeta

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interno a Mercurio e per questo motivo osservava tutti i giorni attentamente il Sole e le macchie nella

speranza di individuarne un transito. Non lo trovò (oggi sappiamo che quel pianeta non esiste) ma per

contro scoprì il ciclo solare. Per convenzione si è stabilito che un ciclo di attività solare cominci con un

numero minimo di macchie e finisca con l'inizio del minimo seguente. Analisi statistiche effettuate su

valori registrati a partire dal 1715 hanno mostrato che la durata media del ciclo solare è di 11,4 anni; il

periodo più lungo è stato di 17,1 anni (dal 1788 al 1805) mentre quello più breve durò 7,3 anni (dal

1829 al 1837). Una teoria completa che spieghi nei dettagli la nascita, evoluzione e scomparsa di una

macchia solare e l’esistenza del ciclo undecennale ancora non esiste. Quello che si sa è che le macchie

solari sono sedi di intensi campi magnetici che affiorano dalla fotosfera provenendo dalle regioni

sottostanti; in questo modo il flusso di energia, proveniente dall’interno del Sole e diretto verso

l’esterno, viene parzialmente interrotto e la zona interessata diventa più fredda. La temperature delle

macchie è di circa 2000 K in meno della fotosfera. Sono formate da una zona più scura, detta ombra, e

spesso (soprattutto le più grandi) da una zona meno scura detta penombra (Figura 3.4).

Figura 3.4 - Gruppo di macchie dettaglio (Fonte: Apod, 2014).

Protuberanze

Le Protuberanze sono addensamenti di idrogeno che talvolta si innalzano rapidissimi nello spazio,

curvandosi secondo le linee di forma dei campi magnetici, simili a colossali fontane (Figura 3.5).

La loro densità è circa 100 volte maggiore quella della corona nella quale si muovono, mentre la

temperatura è 100 volte inferiore. Già notate con meraviglia dagli antichi durante le eclissi totali si

Sole, si è potuto studiarle nei minimi particolari a partire dalla seconda metà dell'Ottocento grazie a

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strumenti e filtri speciali. Quando non si levano dal bordo ma si proiettano sul disco, le protuberanze

assumono l'aspetto, e il nome di "filamenti". In funzione del loro comportamento si distinguono due

protuberanze: le quiescenti, che possono mantenere il loro aspetto per molti giorni e anche in alcuni

casi per più di una rotazione solare; e le eruttive, che sono a rapida evoluzione, salgono a grande

velocità e ricadono in poche ore. Anche le protuberanze, come le macchie, sono fenomeni legati

all'attività solare, nella quale i campi magnetici svolgono un ruolo di grande importanza.

Figura 3.5 - Protuberanza (Fonte: Link2universe, 2011).

Brillamenti

Con il numero delle macchie variano anche il numero dei brillamenti. Questi sono fenomeni che si

verificano al di sopra della fotosfera, nella cromosfera, e liberano in pochi minuti enormi quantità di

energia.

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I brillamenti maggiori sono visibili anche in luce bianca poiché riescono a spiccare persino sullo

sfondo abbagliante della fotosfera ma in genere la maggior parte della loro emissione avviene nei

raggi X, nell'ultravioletto, nelle onde radio e sotto forma di particelle atomiche fortemente

accelerate. In poche ore l'onda di particelle può investire la Terra, causando splendide aurore polari ma

anche disturbi delle comunicazioni radio. Se compaiono sul bordo del Sole, i brillamenti hanno

l'aspetto di getti gassosi che dalla cromosfera salgono nella corona a varie centinaia di km al secondo.

Se compaiono sul disco fotosferico, nelle riprese cinematografiche si vede una sorta di folgore che si

propaga per decine di migliaia di chilometri (Figura 3.6). L'energia scatenata in questo fenomeno è

pari a quella di due miliardi di bombe H, o se si vuole un paragone più pacifico, equivale all'energia

prodotta in un secondo da 30 milioni di centrali elettriche da 1000 MW (Liceo Berchet, 2014).

Figura 3.6 - Brillamento con Terra con diametro in scala (Fonte: Huffingtonpost, 2014)

Vento solare

Il vento solare è un flusso di particelle e radiazioni elettromagnetiche generato dall'espansione della

corona solare. Il vento solare viaggia nello spazio causando perturbazioni magnetiche in tutto il

sistema solare. Il flusso di particelle irradiato dal Sole (vento solare) e dalle stelle (vento stellare) è

composto da particelle atomiche cariche, al 95% formate da protoni ed elettroni, che sfuggono alla

corona solare della stella e si irradiano nello spazio in tutte le direzioni. Per il 5% restante il vento

solare è composto da particelle alfa. Quando arriva sulla Terra il vento solare viaggia a una velocità

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media di 400 km al secondo. Tale velocità aumenta durante le tempeste solari. Sulla Terra il vento

solare genera delle tempeste geomagnetiche che interferiscono con il campo magnetico terrestre e

talvolta possono causare dei danni alle apparecchiature elettromagnetiche, in particolar modo ai

satelliti artificiali in orbita intorno alla Terra. Il passaggio del vento solare lascia nell'atmosfera

terrestre anche degli effetti ottici ben visibili nelle aree polari con le aurore polari, l'aurora boreale e

l'aurora australe, fra la mesosfera e la termosfera. Il vento solare deforma anche la magnetosfera dei

pianeti del sistema solare formando su questi delle code cometarie in direzione opposta al Sole. Gli

effetti del vento solare sono oggetto di studio della meteorologia spaziale. Le radiazioni

elettromagnetiche veicolate dal vento solare possono causare danni alle apparecchiature elettroniche

(Ecoage, 2014).

Buco coronale

I buchi coronali sono zone scure, fredde, nella zona più estrema dell’atmosfera, e la fonte di linee

aperte nel campo magnetico che si dirigono nello spazio. Sono la fonte del vento solare.

Figura 3.7 - Buco Coronale (Fonte: SDO, 2014).

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3.2.2 Ciclo solare

Il Sole presenta un'attività periodica, con momenti nei quali sono presenti in grande numero

macchie, facole, protuberanze, brillamenti e eruzioni coronali di massa (espulsioni di grandi quantità

di materia ad alta velocità), e altri nei quali l'attività è più tranquilla, con diradamento e perfino la

scomparsa totale per settimane dei fenomeni. La periodicità, scoperta intorno alla metà dell'Ottocento,

è pari a circa 11 anni (Figura 3.8); questo valore è medio, sono possibili cicli più corti (fino a 9 anni) e

altri più lunghi (fino a 13 e perfino 14 anni).

Figura 3.8 - Ultimi 5 cicli solari (Fonte: Specola Solare, 2014 – SIDC, 2014)

Tuttavia, se si considera la polarità magnetica dei gruppi di macchie solari, che appare invertita a

ogni nuovo ciclo (legge di Hale), bisogna concludere che il reale ciclo solare (che si completa quando

il Sole ritorna alla configurazione magnetica iniziale) ha una durata media di 22 anni (Specola Solare,

2014). Infatti in ogni ciclo (inteso di 11 anni) le Regioni Attive dell'emisfero Nord e quelle

dell'emisfero Sud, pensate semplicemente come dipoli magnetici, presentano una certa polarità (ad

esempio il polo positivo a sinistra e quello negativo a destra) esattamente opposta, nel senso che la

parte che precede ha polarità opposta rispetto a quella che segue. Questa polarità si inverte nei due

emisferi nel ciclo degli 11 anni successivi: quindi un vero ciclo di attività dura 22 anni circa. Dai

magnetogrammi (Figura 3.9) è possibile capire se un certo gruppo di macchie, associata ad una data

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Regione Attiva, appartiene per esempio ad un ciclo che si va esaurendo piuttosto che a quello nuovo

che sta incominciando (Solarspots, 2014).

Figura 3.9 - Magnetogramma (Fonte: SDO, 2014)

Al ciclo solare undecennale si sovrappongono poi cicli di durata più lunga (Figura 3.10), come il

ciclo di Gleissberg (70-90 anni), il ciclo di Suess (200-230 anni) e il ciclo di Hallstatt (circa 2.300

anni). Le osservazioni della fotosfera sono iniziate solo nel 1600 con Galilei e sono state eseguite con

rigore scientifico solo dal 1850 in poi, quindi la scoperta di questi cicli più lunghi è frutto dell'analisi di

indicatori indiretti, come il carbonio-14 negli anelli di accrescimento delle piante e il berillio-10 nei

ghiacci estratti con i carotaggi nelle regioni polari della Terra (Specola Solare, 2014).

Figura 3.10 Numero di Wolf 1600-2000 (Fonte: Specola Solare, 2014)

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L’ultimo picco è stato a cavallo tra il 2000 e il 2001, quindi ci si aspettava un accrescimento a

cominciare dal 2006 per arrivare al massimo tra il 2011 e il 2012, ma questo non è successo. L’ultimo

ciclo, il ciclo n. 24 ha preso avvio all'inizio del 2008 ma solo dalla fine del 2009 l'attività fotosferica è

diventata significativa (Figura 3.11). Ora siamo intorno al massimo e si tratta di un ciclo

particolarmente leggero. Le anomalie del ciclo n. 24 potrebbero rientrare in una normale fluttuazione,

o forse no; c’è perfino qualche ricercatore che sostiene che ci troviamo alla vigilia di un nuovo Minimo

di Maunder, con la scomparsa del ciclo solare per alcuni decenni (nella seconda metà del 1600, visibile

nel grafico Figura 3.10). In particolare, un recente studio sull'intensità del campo magnetico locale dei

gruppi di macchie solari ha rilevato una diminuzione progressiva che, se confermata e proiettata nel

futuro, induce a prevedere la loro totale scomparsa a partire dal 2016.

Figura 3.11 - Numero di Wolf ultimi 13 anni (Fonte: SIDC, 2014)

Il nuovo ciclo solare presenta alcune ulteriori anomalie. Per cominciare, l'intensità osservata nella fase

attuale è inferiore a quella prevedibile considerando l'andamento medio dei cicli del passato. Inoltre i

gruppi di macchie solari hanno fatto la propria comparsa a latitudini significativamente inferiori a

quelle prevedibili in questa fase.

Se il "minimo prolungato" sia normale è difficile dirlo. L'osservazione del Sole con le conoscenze

attuali è prevalentemente fenomenologica: si effettuano misurazioni e si prende atto dei risultati.

Anche nel migliore dei casi, la correlazione fra previsioni teoriche ed evidenze osservative è tutt'altro

che precisa (Specola Solare, 2014).

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3.2.3 Processi nucleari: catena protone-protone

La reazione coinvolge 4 atomi di idrogeno (H) che si trasformano in 1 atomo di elio (He).

Il Sole si sta consumando ad una velocità di 4 milioni di tonnellate al secondo: mano a mano che

l’idrogeno si consuma, l’elio che si forma si concentra nel nucleo solare che perciò aumenta di

dimensione. Ciononostante, le riserve del Sole sono sufficienti ad alimentare la reazione ancora per

100 miliardi di anni. Il Sole però subirà profondi cambiamenti già molto prima dell’esaurimento

dell’idrogeno.

H u.m.a = 1.008 x 4 = 4,0329

He uma = 4,0300 Tra la massa di 4 atomi di H e 1 di He c’è una differenza di 0,0029

uma che viene liberata

Anche se l’avanzo liberato è piccolo, secondo la legge di Einstein E=mc2

(c= 300 km/s) moltiplicando

la massa piccola per la velocità della luce enorme si avrà un’energia E comunque molto grande.

La catena protone-protone si divide in tre reazioni (Figura 3.12):

1) Nella prima reazione due protoni si fondono in un nucleo di deuterio, formato da un protone e

un neutrone, con emissione di un positrone (destinato a convertirsi in energia elettromagnetica

appena incontra un elettrone) e di un neutrino che invece abbandona il Sole. Perché essa possa

svolgersi, i due protoni carichi positivamente devono essere portati molto vicini uno all’altro

(circa 10 -14

m ). Questo non è possibile se non si fornisce loro l’energia sufficiente a vincere

l’enorme repulsione elettrostatica. Occorrono quindi altissime temperature.

Questo tuttavia non è ancora sufficiente: durante i brevissimi istanti in cui questa condizione si

verifica un protone deve trasformarsi in neutrone. Che entrambe queste condizioni si

verifichino è molto raro, la reazione ha una velocità di alcune decina di miliardi di anni, ma i

protoni presenti nelle zone centrali caldissime delle stelle sono tantissimi, dunque la reazione

può avvenire al tasso richiesto dalle condizioni generali della stella.

H+ + H

+ -> D

2 + b

+ + n

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2) La seconda fase è estremamente probabile per il gran numero di protoni presenti nell’ambiente

e per la grande reattività nucleare del deuterio. Ne risulta un nucleo dell’isotopo leggero

dell’elio, e un’emissione di radiazione elettromagnetica altamente energetica sotto forma di

raggi g. Velocità: alcuni secondi.

D2

+ H

+ -> He

3 + g

3) La terza fase ha luogo quando 2 nuclei di He3

vengono a trovarsi nelle condizioni di incontrarsi

e di formare un nucleo di He4

rimettendo nell’ambiente 2 protoni in eccesso. Tali opportunità

richiedono per ogni nucleo di elio coinvolto alcuni milioni di anni.

He3

+ He3 -> He

4 + 2 H

+

Per calcolare la velocità complessiva della reazione occorre tener conto del contenuto percentuale di

idrogeno ed elio presenti nelle zone interessate dalle reazioni, e più ancora dalla temperatura. Gli

studiosi sono in grado di valutare accuratamente queste dipendenze, e ad esempio si può concludere

che all’interno del Sole prende parte alla reazione circa 1/7 dell’intera massa.

Figura 3.12 - Schema catena protone-protone (Fonte: Link2universe, 2011)

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3.3 Studi passati e scoperte importanti

3.3.1 Le macchie solari di Galilei

Quando si sente pronunciare il nome di Galilei lo si collega immediatamente all’astronomia, ma non

così prontamente al Sole. Sono molto più conosciute le sue scoperte riguardanti i satelliti di Giove, il

perfezionamento del cannocchiale e il suo sostegno alla teoria copernicana. Tuttavia, proprio grazie al

cannocchiale Galilei fece importanti scoperte intorno al Sole, in particolare alle macchie solari,

arrivando a dimostrare che non sono corpi estranei intorno al Sole ma fanno parte del Sole stesso.

“Sono circa a diciotto mesi, che riguardando con l'occhiale nel corpo del Sole, quando era vicino al

suo tramontare, scorsi in esso alcune macchie assai oscure; e ritornando più volte alla medesima

osservazione, mi accorsi come quelle andavano mutando sito, e che non sempre si vedevano le

medesime, o nel medesimo ordine disposte, e che talvolta ve n'eran molte, altre volte poche, e tal ora

nessuna. Feci ad alcuni miei amici vedere tale stravaganza, e pur l'anno passato in Roma le mostrai a

molti prelati e altri uomini di lettere; di li fu sparso il grido per diverse parti d'Europa, e da quattro

mesi in qua mi sono state mandate da vari luoghi varie osservazioni disegnate, e in particolare tre

lettere circa a questo argomento scritte al Sig.re Marco Velsero d'Augusta”

Galileo Galilei, lettera scritta da Firenze il 2 Giugno 1612 a Maffeo Barberini (futuro papa Urbano VI).

Con molte difficoltà Galilei riuscì ad osservare il Sole durante il tramonto quando la sua luce è molto

meno intensa (ma non meno pericolosa per la vista) e scoprì che sulla sua superficie, ad occhio nudo

immacolata, erano presenti alcune macchie scure di varie forme e dimensioni le quali, con il passare

dei giorni, potevano cambiare aspetto e posizione sul disco della nostra stella.

Questo fu l’inizio di una vera e propria rivoluzione scientifica (ma anche l’inizio dei guai che il grande

astronomo ebbe con la Santa Inquisizione). Galileo non sapeva che le macchie del Sole, o macchie

solari, erano già state osservate e studiate da svariati secoli dagli antichi astronomi cinesi poiché quelle

più grandi raggiungono la visibilità ad occhio nudo.

Infatti in un documento cinese risalente al 28 a.C. si narra dell’osservazione di una macchia solare che

viene descritta come un vapore nero grande come una moneta. La macchia in questione dovette essere

veramente grande; stime attuali indicano un diametro di circa 40 mila chilometri (il diametro della

Terra è di circa 12 700 km) (Planet.racine.ra, 2006).

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L'invenzione del telescopio ad opera di Galilei, nel 1610, segna l'inizio degli studi solari moderni con

la scoperta delle macchie,

La scoperta delle macchie solari fu molto importante, soprattutto in quel periodo storico, per il

dibattito sulla natura del Sistema Solare: il loro movimento dimostrava infatti che il Sole ruota su se

stesso e il fatto che appaiono e scompaiono che il Sole ha dei mutamenti, in contraddizione con la

teoria di Aristotele. Infatti, gli aristotelici consideravano il Sole purissimo ed incorruttibile, mentre

Galileo affermò giustamente che le macchie appartengono alla sua superficie e che dal loro movimento

si deduce la rotazione, a velocità uniforme, effettuata dall' astro su se stesso, che stimò essere di circa

25 giorni all’equatore e 33 giorni ai poli (a causa della natura gassosa dell’astro)

Intanto, in Germania, vennero pubblicati alcuni documenti su questo tema dal padre gesuita Scheiner.

Nacque, così, una polemica che assume poi toni sempre più aspri, non tanto per la priorità della

scoperta, ma per l'interpretazione fisica delle macchie, in quanto la presenza di queste dà un colpo

mortale alla teoria aristotelica dell'incorruttibilità del Sole.

Queste nuove ed innovative idee di Galileo finiscono ben presto per imporsi sulle altre e per essere

accettate da tutti, tanto che Scheiner, vent'anni dopo, raffigurerà il Sole come un mare infuocato

costellato di vulcani, senza alcuna somiglianza con le rappresentazioni precedenti, che lo volevano

come una sfera senza macchie (Liceo Cuneo, 2014).

3.3.2 Righe di Fraunhofer

L’esistenza di un mistero in relazione alla natura del Sole era stata accertata già nel 1801, quasi in

coincidenza con il momento in cui William Herschel aveva cominciato a coinvolgere la comunità

scientifica in una discussione sulla vera natura dell’astro. Il chimico inglese William Hyde Wollaston

aveva fatto passare la luce solare attraverso un prisma, proiettando lo spettro risultante su un muro

distante un po’ più di tre metri, e aveva così potuto osservare quattro righe oscure che tagliavano la

sequenza dei colori dell’arcobaleno. Wollaston ipotizzò che esse costituissero semplicemente una serie

di lacune naturali tra i colori e la questione rimase a questo punto fino al 1814, quando il ventisettenne

Joseph von Fraunhofer riscoprì le righe.

Fraunhofer aveva un unico scopo nella vita: riuscire a fabbricare il miglior vetro del mondo. Figlio

di un povero molatore di vetri, rimasto orfano a undici anni dovette andare a lavorare come apprendista

presso Philipp Anton Weichselberger, tagliatore di cristalli e fabbricante di specchi. Tre anni più tardi

Joseph venne sepolto vivo nel crollo della bottega di Weichselberger, ma riuscì a salvarsi.

Sorprendentemente questo evento si rivelò in qualche modo utile: il principe elettore Massimiliano IV

Giuseppe di Baviera (il futuro re Massimiliano I) era presente mentre Fraunhofer veniva estratto

incolume, dopo quattro ore, dal cumulo di macerie da cui era già stato recuperato il corpo schiacciato

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della moglie di Weichselberger. Qualcosa nel giovane Fraunhofer attirò l’interesse del principe che gli

fornì vari libri e si adoperò perché gli fosse garantito il tempo necessario per poter studiare. Al

salvataggio era presente anche Joseph Utzschneider, uomo politico e imprenditore. Anche costui

stimolò le ambizioni di Fraunhofer. Grazie alla protezione dei due personaggi, Fraunhofer studiò con

grande impegno e, in capo a otto mesi, riuscì a ottenere un posto nell’Istituto di ottica di Utzschneider

a Benediktbeuren, l’antico monastero trasformato allora in uno stabilimento specializzato nella

fabbricazione e nella lavorazione del vetro. Lasciandosi alle spalle la situazione di quasi schiavitù della

bottega di Weichselberger, Fraunhofer si applicò, nell’istituto di Benediktbeuren, alla produzione del

vetro con la passione di un alchimista, miscelando metalli fusi al vetro liquido per produrre lenti da

telescopio che presto gli vennero invidiate in tutto il mondo.

Mentre provava le sue lenti per rilevare la dispersione dei colori naturali da esse prodotta,

Fraunhofer scoprì le righe scure comprese nello spettro solare. Studiandole attentamente trovò che la

sequenza con cui si presentavano non cambiava mai e che alcune erano spesse e nere, mentre altre

erano semplicemente barre di colore molto chiaro. Fraunhofer associò alle otto righe scure le lettere da

A ad H (Figura 3.13). Tra le righe più marcate, B e H, poté contare 574 altre righe di varia intensità e

si dispose a registrarne accuratamente la posizione.

Figura 3.13 - Spettro solare - luce visibile (fonte: astronomia.comze)

Durante tutta la sua carriera Fraunhofer tornò spesso a occuparsi delle righe presenti nello spettro

solare. Nel 1823 si servì di un nuovo strumento da lui stesso inventato, il reticolo di diffrazione, per

ottenere spettri più accurati di quelli prodotti dai prismi di vetro. Ciò gli permise di vedere le righe

meglio di come era mai riuscito a fare prima e di effettuare accurate misurazioni delle lunghezze

d’onda della luce corrispondenti alle righe più scure.

Come passo successivo, Fraunhofer utilizzò il suo reticolo di diffrazione per osservare le stelle più

luminose e scoprì che anche questi corpi presentavano righe oscure nei rispettivi spettri. Nelle

disposizioni delle righe si potevano rilevare sia somiglianze che differenze tra le varie stelle e tra

queste e il Sole. Che cosa erano queste linee? Qual era il loro significato? Alcuni ritennero che si

trattasse del risultato dei difetti dei telescopi, altri che fossero dovute a fenomeni in atto nell’atmosfera

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della Terra, oppure (un’ipotesi, questa, ben più stimolante) nell’atmosfera del sole e delle altre stelle.

Prima che Fraunhofer potesse individuare una risposta, la tubercolosi mise fine alla sua vita. Non

aveva che trentasette anni. (Clark, 2009)

Appena la conoscenza delle righe di Fraunhofer si diffuse nella comunità scientifica molti

ricercatori si misero al lavoro per scoprire la loro provenienza. Meno di un anno dopo la morte di

Fraunhofer, John Herschel con il suo collaboratore William Fox Talbot scoprirono che ogni elemento

emetteva, durante la combustione, una sequenza specifica di righe colorate. L’osservazione dello

spettro di una fiamma ottenuto con un prisma poteva quindi indicare quali sostanze essa conteneva. In

seguito a questa scoperta, alcuni studiosi iniziarono ad ipotizzare che le righe scure di Fraunhofer

fossero in qualche modo relazionate alle righe luminose ottenute bruciando le sostanze chimiche in

laboratorio. Se le cose stavano così, le righe di Fraunhofer potevano quindi indicare la presenza di

sostanze allo stato di vapore nell’atmosfera del Sole e delle altre stelle. Se avessero potuto determinare

quali righe erano prodotte dai diversi vapori, gli astronomi si sarebbero trovati a disporre di un

incredibile capacità: quella di dedurre dall’osservazione la composizione chimica dei corpi celesti.

(Clark, 2009).

Negli anni successivi le scoperte furono molte. Herschel dimostrò che l’insieme delle righe si

estende anche nel campo dell’infrarosso, inumidendo una striscia di carta con dell’alcool ed

esponendola alla banda invisibile dello spettro scoperta da suo padre al di là dei colori visibili ,

rilevando che la striscia si asciugava in una serie di zone distinte separate da spazi, l’equivalente

secondo lui alle righe di Fraunhofer nell’infrarosso.

Contemporaneamente Fox Talbot eseguiva ricerche sugli elementi litio e stronzio. Entrambi

bruciando davano una luce rossa, e facendo passare queste luci attraverso un prisma, si accorse che

producevano due sistemi diversi di righe rosse, arrivando quindi alla conclusione che quando non si

riusciva a distinguere gli elementi in base al solo colore delle fiamme era possibile farlo analizzandone

gli spettri. Altri sperimentatori accertarono che la riga D di Fraunhofer corrispondeva all’elemento

sodio (Figura 3.14) e che esisteva una somiglianza sospetta tra le righe rosse del potassio e un fitto

insieme di righe scure affastellate intorno alla riga A (Clark, 2009).

Figura 3.14 - Spettro sodio (Fonte: astronomia.comze)

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I problemi tuttavia erano molti. Per prima cosa, era difficile ottenere sostanze chimiche pure e gli

elementi contaminanti emettevano anch’essi le proprie righe, modificando le sequenze proprie degli

elementi. Ad esempio bastava una minuscola traccia di sodio sotto forma di sale per produrre una linea

gialla nella posizione D della sequenza di Fraunhofer. Inoltre c’era anche un altro enorme dubbio: le

linee di Fraunhofer erano scure, mentre quelle negli altri spettri erano luminose.

Furono il fisico Gustav Robert Georg Kirchhoff e il chimico Robert Wilhelm Bunsen a trovare la

connessione tra le righe scure e quelle luminose. Bunsen, oltre ad aver inventato un bruciatore

alimentato a gas che oggi porta il suo nome, riuscì a produrre campioni di sostanze estremamente puri,

che permettevano di rilevare e calibrare le righe dello spettro in maniera affidabile, mentre Kirchhoff

progettò un’apparecchiatura estremamente precisa per analizzarle. La scoperta più importante avvenne

il giorno in cui Kirchhoff portò ad incandescenza un campione di calce ottenendo una luce forte e

bianca: La sostanza bruciava con una fiamma che produceva una serie continua di colori se la si faceva

decomporre da un prisma. Kirchhoff fece però in modo che, prima di colpire il prisma, una piccola

parte del raggio di luce si focalizzasse sulla fiamma di un bruciatore di Bunsen. Fece cadere un pizzico

di sodio sulla fiamma che produsse un lampo di luce gialla, cioè del colore caratteristico dell’elemento.

Sullo schermo Kirchhoff poté allora osservare l’apparizione della riga scura D di Fraunhofer nello

spettro della luce bianca (Figura 3.15). Il vapore di sodio aveva assorbito la lunghezza d’onda specifica

di quel particolare giallo dalla luce bianca e aveva illuminato tutto l’ambiente con la fiamma gialla.

Figura 3.15 - Spettro sodio (Fonte: astronomia.comze)

Kirchhoff ripeté l’esperimento con la luce solare, ma questa volta utilizzò una sostanza chimica, il

litio, che non aveva una riga corrispondente nella serie di Fraunhofer. Spargendo la polvere di litio

sulla fiamma del becco Bunsen, ebbe così modo di osservare, non senza stupore, l’apparizione di una

riga scura del litio nello spettro solare. In un colpo solo Kirchhoff dimostrò che nel Sole doveva essere

presente il sodio, perché nello spettro solare era ben evidente la riga D, mentre non c’era il litio, la cui

riga non appariva nello spettro rilevabile in natura. (Clark, 2009)

Proseguendo con gli esperimenti, arrivò a tre conclusioni:

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- Un oggetto solido molto caldo (o un gas denso e molto caldo) dà origine a uno spettro

continuo, un’intera fascia di colori in sequenza dal blu al rosso, come nell’arcobaleno

- Un gas non denso e molto caldo produce uno spettro di emissione, cioè una sequenza di righe

dai colori brillanti con disposizioni diverse a seconda della composizione chimica del gas

stesso.

- Un corpo solido molto caldo circondato da un gas poco denso e più freddo fornisce uno spettro

di assorbimento, cioè uno spettro continuo dal quale però alcune lunghezze d’onda sono state

sottratte, assorbite, dando origine a serie di righe oscure in posizioni identiche a quelle delle

righe di emissione del gas.

La regolarità di questi fenomeni li assimilava a leggi naturali e forniva una prova sicura dell’esistenza

di legami tra le righe d’emissione e quelle di assorbimento (Clark, 2009).

Grazie all’analisi spettrale, astronomi di tutto il mondo individuarono nel Sole la presenza di ferro,

magnesio, calcio e altre sostanze.

Oltre a fornire i mezzi per conoscere la composizione chimica del Sole, le leggi di Kirchhoff

consentivano di trarre alcune altre inevitabili conseguenze sulla natura stessa dell’astro. Gli

esperimenti condotti in laboratorio dimostravano che i metalli dovevano essere portati ad altissime

temperature per fondere ed emettere vapori, cioè raggiungere lo stato gassoso. Quindi l’atmosfera del

Sole doveva essere enormemente calda, con una temperatura di migliaia di gradi, per contenere gli

elementi metallici allo stato di gas e mantenerli in tale stato fisico. Il corpo del Sole stesso doveva

essere ancora più caldo, per fornire lo spettro continuo con tutti i colori della luce che in parte

venivano assorbiti dai gas presenti nell’atmosfera, dando origine alle righe di Fraunhofer

Gli astronomi assegnarono allo strato visibile del Sole il nome di fotosfera e compresero, in modo

inequivocabile e definitivo, che non si trattava di uno strato di nubi sovrastante un corpo solido. Nulla

poteva rimanere allo stato solido a temperature che superavano le migliaia di gradi.

Al di sopra della fotosfera si estendeva l’atmosfera solare. Emessa dalla fotosfera, la luce raggiungeva

lo spazio attraversando l’atmosfera solare contenente metalli allo stato fuso: questi producevano le

righe di Fraunhofer rilevabili nello spettro della luce stessa. Esisteva però un fattore che poteva creare

confusione: la luce del Sole doveva anche attraversare l’atmosfera della Terra. Ciò significava che

alcune delle righe di Fraunhofer dovevano essere false o spurie, perché prodotte da sostanze presenti

nell’atmosfera del pianeta e non in quella del Sole. Con il procedere delle osservazioni condotte dagli

astronomi sullo spettro solare risultò che le righe di Fraunhofer sembravano dividersi in due campi: un

insieme comprendeva righe che non cambiavano mai di intensità e un altro righe che presentavano

un’intensità leggermente variabile nell’arco della giornata. Quando l’astro era più basso nel cielo, la

luce compiva un tragitto più lungo nell’atmosfera terrestre ed alcune delle righe di Fraunhofer

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diventavano più intense. Queste righe corrispondevano dunque alle sostanze chimiche presenti nella

nostra atmosfera. Le righe la cui intensità rimaneva inalterata rivelavano le sostanze presenti

nell’immensa atmosfera del Sole.

3.3.3 Il brillamento di Carrington

Il 2 settembre 1859, una nave, la Southern Cross, diretta a San Francisco si trovava nel Pacifico, al

largo delle coste del Cile, quando scoppiò una terribile tempesta di vento. Quando gli spruzzi

dell’oceano spazzati dalla bufera diminuirono sottovento, gli uomini si accorsero che il battello stava

navigando in un mare di sangue: ovunque dirigevano lo sguardo l’oscillante orizzonte era diventato di

un color porpora molto scuro. Quello che videro, alzando gli occhi verso il cielo, fornì loro una

spiegazione. Era evidente, anche attraverso le nuvole: il cielo era ammantato di uno splendore

rossastro che tutto avvolgeva.

I marinai riconobbero subito quelle luci: si trattava dell’aurora australe, un fenomeno inspiegabile il

cui fantastico e un po’ sinistro chiarore abbelliva di solito i cieli presso il Circolo Polare Antartico,

proprio come, nell’altro emisfero, l’equivalente fenomeno era strettamente associato all’Artico. Vedere

le aurore australi ben più a nord, nelle acque del Pacifico a latitudini di clima temperato, era

decisamente inusuale, soprattutto considerando l’intensità del fenomeno. Mentre il turbine ululava

sempre più intensamente gli uomini si accorsero della presenza di altre strane luci, assai più vicine dei

bagliori dell’aurora. Erano avvinghiate alla nave stessa e formavano aloni intorno alle sagome degli

alberi e dei pennoni. La loro luminosità tra l’azzurro e il bianco spesso si presenta sulle navi durante le

tempeste molto violente, ma quella notte il pallido chiarore aveva la stessa tonalità rosata dell’aurora in

alto in cielo.

Al loro arrivo a San Francisco, i marinai scoprirono di non essere stati gli unici ad osservare il

fenomeno: una vasta parte di mondo si era trovata nella morsa elettromagnetica delle aurore e,

sfuggendo alla tempesta da cui era stata investita la Southern Cross, le aveva osservate come un

silenzioso fenomeno che occupava tutto il cielo.

A 33 anni Richard Cristopher Carrington era già un giovane astronomo con buone competenze.

Aveva ricevuto un’educazione di prim’ordine al Trinity College di Cambridge e aveva compilato un

utilissimo e assai richiesto catalogo stellare che era stato elogiato da tutti; lavorava senza compenso

come infaticabile portavoce della Royal Astronomical Society (RAS), (Clark, 2009).

Nella mattina del 1 settembre 1859, il giorno prima dell’avvistamento della aurore, Carrington stava

lavorando nel suo osservatorio privato a Redhill, a sud di Londra, dove dal 1853 osservava, disegnava

e prendeva misurazioni sulle macchie solari, attraverso un telescopio d’ottone lungo due metri. In quel

periodo nessuno sapeva con esattezza cosa fossero quelle macchie: alcuni pensavano si trattasse di

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aperture nelle nubi luminose del Sole attraverso cui era possibile osservare la vera superficie del Sole,

altri che fossero cime di montagne visibili ogni tanto dal movimento dell’atmosfera solare. Oggi

sappiamo che sono zone di “bassa” temperatura (rispetto alla fotosfera) e che quindi ci appaiono scure.

La macchia che Carrington stava osservando quel giorno era enorme, più grande di quanto si potesse

immaginare: da un’estremità all’altra la larghezza era almeno pari a dieci volte il diametro della Terra

e tuttavia si estendeva appena per un decimo del disco infuocato.

Alle 11.18, senza alcun indizio premonitore apparvero, al di sopra del mostruoso gruppo di

macchie, due forme di luce d’un bianco accecante, simile a perle di una collana, scintillanti come un

fulmine biforcuto, ma incurvate e non a zig-zag, e persistenti invece che fluttuanti. Decisamente

sorpreso, Carrington sul momento immaginò che un raggio di luce solare fosse riuscito a passare

attraverso lo schermo oscuro applicato al suo telescopio. Mise le mani sullo strumento e lo scosse,

aspettandosi che il raggio vagante saltellasse qua e là in tutta l’immagine. Invece l’insieme di punti

luminosi manteneva tenacemente la stessa posizione nel gruppo delle macchie. Qualunque fosse la

natura del fenomeno, non si trattava di un riflesso accidentale. Mentre Carrington le fissava sbalordito,

le macchioline diventavano sempre più luminose, assumendo la forma di due reni. La sua formazione

scientifica tornò istantaneamente a farsi valere: in un rapido appunto prese nota dell’ora esatta, poi,

rendendosi conto dell’eccezionalità della situazione (di sicuro nessuno aveva mai reso pubbliche, in

precedenza, descrizioni di un simile comportamento del Sole), si diede da fare per trovare qualche

testimonianza.

Non appena ebbe ripreso l’osservazione, meno di sessanta secondi più tardi, la sua eccitazione si

trasformò in delusione, quando gli fu possibile constatare che le strane luci apparse a cavalcioni

dell’enorme macchia solare si erano affievolite. Esse erano tuttavia ancora visibili e Carrington poté

osservarle mentre si muovevano percorrendo in tutta la sua estensione la gigantesca macchia. Durante

questo spostamento si contraevano, diventando semplici punti ed infine scomparendo all’improvviso.

Carrington prese di nuovo nota dell’ora: le 11.23, Tempo Medio di Greenwich, e fece schizzi con

appunti dell’apparizione e della scomparsa delle luci. Poi, sconcertato da quanto aveva visto, rimase

inchiodato al telescopio per più di un’ora, senza osare spostarsi per non mancare l’eventuale

ricomparsa delle luci. La sua vigile attesa non ebbe risultati: in un attimo il Sole era tornato normale.

In effetti l’astronomo non riuscì a rilevare alcuna indicazione del fatto che il fenomeno si era realmente

verificato.

In seguito Carrington si mise al lavoro sui dati matematici. La durata delle luci era stata di appena

cinque minuti, tuttavia gli fu possibile scoprire che esse, in quell’intervallo di tempo, avevano percorso

56 000 km (una lunghezza pari a poco più di quattro volte e mezzo il diametro della Terra); ne

risultava che la strana anomalia aveva “viaggiato” alla velocità di quasi 680 000 km/h. Una velocità

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così straordinaria deve aver fatto vacillare anche la fiducia di Carrington nella validità delle sue

certezze: come gli altri vittoriani era ancora abituato ai treni a vapore che sbuffando avanzavano a

circa 80 km/h. E non era finita con i grandi numeri: a giudicare dall’estensione del lampo riportato nei

suoi disegni (Figura 3.16), ognuna delle palle di fuoco originali doveva aver avuto all’incirca il

diametro della Terra (Clark, 2009).

Figura 3.16 - Il disegno di Richard Carrington relativo al brillamento solare verificatosi il 1° settembre 1859 su una macchia

solare. A e B indicano le posizioni in cui le due macchie luminose reniformi sono comparse, C e D quelle in cui esse, già ristrette,

sono scomparse (Fonte: Clark, 2009).

I resoconti non riportano se Carrington riuscì o meno a trovare un testimone tra i suoi familiari, ma

si rese conto di aver bisogno di una conferma scientifica indipendente per quello che aveva visto. Il

posto migliore per trovarlo era l’Osservatorio di Kew, dove Warren De la Rue, suo amico e collega

nella Royal Astronomical Society era impegnato in un progetto sperimentale per la fotografia del Sole.

La notte, circa diciotto ore dopo l’osservazione di Carrington, nell’atmosfera terrestre si ebbe

un’esplosione di aurore boreali, tra cui quella osservata dai passeggeri della Southern Cross. Tra i

dettagli comuni a tutti i racconti, c’è il fatto che quasi sempre le luci delle aurore si sono protratte fino

al mattino, anche se spesso sono state interrotte dalla comparsa di nubi temporalesche.

Sulle possibile cause di queste stupende apparizioni i vittoriani non riuscivano a trovare spiegazioni.

L’unico indizio risaliva al 1741, anno in cui Olof Petrus Hiorter, uno studente svedese laureatosi con il

professor Andreus Celsius (il cui nome è associato alla scala centigrada delle temperature), accertò un

sensibile disturbo nell’orientamento degli aghi delle bussole ogni volta che in cielo appariva un’aurora

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boreale. Secondo quanto Hiorter scriveva, sei anni più tardi, nel dar conto dell’evento, quando ebbe

riferito la sua scoperta a Celsius (il quale era anche suo cognato), il professore gli disse di aver egli

stesso notato la perturbazione, ma di aver deciso di non parlarne, per vedere se l’allievo l’avrebbe

rilevata.

L’aurora polare era quindi una sorta di fenomeno magnetico ma, a parte tale caratteristica, la gente

ne sapeva ben poco. A proposito di questo fenomeno, gli studiosi erano rimasti praticamente a un

punto morto per più di cento anni. Ma tutto è cambiato il giorno in cui Carrington si è incamminato

verso Kew.

Quando Richard Carrington raggiunse l’Osservatorio, notizie buone e cattive lo attendevano. La

cattiva: nessuno a Kew aveva visto il brillamento e neppure fotografato il Sole. L’ultima fotografia

scattata risaliva al 31 agosto. Tuttavia, e questa era la buona notizia, qualcosa di strano si era verificato

il 1° settembre; qualcosa che aveva provocato una sorta di terremoto nel mantello magnetico del

pianeta.

I rilevatori del magnetismo terrestre avevano catturato queste perturbazioni, registrandole. A

Carrington vennero mostrati i rotoli relativi alle date 1 e 2 settembre. Con l’approssimazione che si

poteva dedurre dalla scala piuttosto ristretta delle oscillazioni della traccia, il campo magnetico

terrestre sembrava aver subito un contraccolpo, come se un pugno l’avesse colpito esattamente nel

momento in cui l’astronomo aveva osservato il brillamento. La parte in cui l’alterazione appariva

bruscamente durava appena tre minuti, ma ne erano poi passati altri sette prima che essa si smorzasse e

il tracciato riassumesse l’andamento normale. Questo fatto sembrava costituir un notevole ostacolo per

la comprensione dei fenomeni. Ammettendo di non essersi fatti ingannare da una semplice

coincidenza, sembrava proprio che il brillamento visto da Carrington avesse in qualche modo colpito

la Terra superando 150 milioni di chilometri di spazio vuoto. Carrington poté vedere che, diciotto ore

dopo l’alterazione iniziale, gli aghi magnetici di Kew si erano mossi di nuovo, con oscillazioni più

intense di quelle dovute alla stoccata delle 11.20. Questa volta la Terra, invece di incassare un unico

pugno, aveva incominciato a subire un attacco sostenuto, senza precedenti nei decenni trascorsi da

quando a Kew avevano iniziato a raccogliere dati di questo tipo. In effetti il giorno in cui Carrington si

trovava a Kew, gli aghi magnetici apparivano ancora in agitazione. Per quanto meno intensa, la

tempesta magnetica non era affatto passata.

Al cadere delle tenebre, la sera del 2 settembre, le aurore imperversavano ancora, offrendo

all’Europa la prima visione dello spettacolo luminoso senza precedenti. (Clark, 2009). Si registrarono

aurore a magnitudini molto basse e temporali molto forti in altre località.

Mentre Carrington era a Kew, scoprì che un altro uomo aveva puntato quel giorno (1 settembre

1859) il telescopio sul Sole. Era Richard Hodgson, di Highgate, membro della Royal Astronomical

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Society. Con sollievo di Carrington, le cui teorie iniziavano ad essere messe in dubbio, anche Hodgson

riteneva di essere stato testimone di “un fenomeno assai sorprendente”. Carrington decise quindi che

fosse meglio non scambiare altre informazioni tra di loro e presentare autonomamente i loro resoconti

durante la successiva riunione alla Royal Astronomical Society.

Nei giorni seguenti giunsero rapporti dai quali si capiva che le aurore avevano avuto anche effetti

dannosi. Le affascinanti luci avevano in qualche modo reso inefficiente il sistema telegrafico

cancellando varie comunicazioni in tutto il mondo, proprio come accadrebbe di certo oggi se qualcun

“staccasse la spina” di Internet. Come la rete mondiale WWW conta oggi sull’esistenza delle onde

elettromagnetiche, alla metà del XIX secolo gli affari si basavano sull’uso del telegrafo per vendere

merci o azioni, i governi se ne servivano per ottenere notizie e informazioni anche riservate, e la gente

comune affidava a questo mezzo messaggi di ogni tipo.

Per vari giorni dopo il brillamento osservato da Carrington la natura non ha permesso alle

informazioni di scorrere liberamente lungo questi canali. Nei casi meno gravi, la discontinuità aveva

provocato fastidiosi inconvenienti, come quando l’aurora fece squillare, a Parigi e in altre città, i

campanelli di segnalazione dei messaggi in arrivo senza che ve ne fossero. Nei casi peggiori, gli effetti

dell’aurora misero in pericolo la vita stessa della gente: a Philadelphia un telegrafista fu tramortito da

una fortissima scossa mentre utilizzava il suo trasmettitore. Nelle stazioni che utilizzavano il sistema

Bain, nel quale i segni del codice telegrafico erano ottenuti con scariche elettriche su carta preparata

chimicamente, il lavoro divenne estremamente pericoloso: se l’intensità della corrente elettrica

diventava molto grande, la carta poteva infatti prendere fuoco riempiendo la stazione di fumo

soffocante. A Bergen, in Norvegia, la comparsa dell’aurora produsse un rialzo dell’intensità di corrente

tanto forte che l’operatore dovette affrettarsi a interrompere l’alimentazione dell’apparecchio per

salvare tutto l’impianto, ma rischiò di essere fulminato. (Clark, 2009)

L’11 novembre 1859 i membri della Royal Astronomical Society si riunirono a Londra. Carrington

presentò un resoconto della sua osservazione insieme con una copia dei suoi disegni e alcune

fotografie dei rotoli di Kew, indicando lo sbalzo della traccia magnetica nell’istante in cui c’era stato il

brillamento e portando l’attenzione sulla fortissima tempesta magnetica che si era manifestata subito

dopo, in coincidenza con le aurore boreali.

Hodgson descrisse la sua osservazione dello stesso fenomeno, a grandi linee d’accordo con

Carrington. Non era riuscito a fare un disegno con misure accurate ma si era limitato ad uno schizzo,

che oggi è andato perduto. Anche i tempi concordavano con quelli di Carrington.

Carrington aveva ipotizzato che, poiché la superficie dell’astro non era apparsa diversa prima e

dopo il fenomeno, il brillamento doveva aver avuto luogo a una certa altezza sopra il gruppo di

macchie. Si aprì un dibattito tra una possibile connessione tra il brillamento e le aurore.

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Una delle ragioni dell’evidente prudenza di Carrington era legata all’impossibilità, per lui e ogni altro

suo contemporaneo, di immaginare un meccanismo tale da convogliare sulla Terra l’energia liberata da

un’esplosione solare. Se un legame esisteva davvero, serviva una nuova fisica per spiegarlo. In

mancanza di questa, tutto ciò di cui Carrington poteva disporre erano due pilastri su entrambi i bordi di

un immenso baratro, senza nulla che potesse unirli come un ponte. Chiaramente non era però da lui

commettere il classico errore dei dilettanti di trarre una conclusione di enorme peso da un singolo e

isolato caso esemplare.

Oggi, potendo contare sul senno di poi che ci viene da un secolo e mezzo di osservazioni e studi,

siamo in grado di capire che il brillamento di Carrington è stato uno dei picchi e un punto di svolta

nella storia dell’astronomia. L’improvvisa dimostrazione della possibilità che il Sole possa

sconvolgere la vita sulla Terra ha gettato a capofitto gli astronomi in una corsa allo studio della nostra

stella per capirne la natura. In precedenza simili indagini costituivano una sorta di zona stagnante

dell’astronomia, mentre la parte più consistente della ricerca si concentrava sulla preparazione di carte

celesti da usare per rendere più sicura la navigazione. Nello stesso anno in cui Carrington vide il suo

brillamento, in Germania era stato compiuto un grande passo avanti nel campo delle tecniche per

l’analisi della luce. Questa scoperta forniva agli astronomi i mezzi per indagare sulla composizione

chimica del Sole. Dopo aver applicato queste tecniche allo studio dell’abbagliante luce solare, gli

astronomi le hanno adattate all’analisi della luce delle diverse stelle e l’astronomia tradizionale ha

incominciato a trasformarsi nell’astrofisica che pratichiamo oggi.

Fulcro di questo cambiamento è stato l’aver compreso che l’energia magnetica emessa dal Sole può

colpire la Terra: questo fatto costituiva la prova evidente di legami tra i corpi celesti che in precedenza

non erano immaginabili. Tuttavia il brillamento osservato da Carrington e il conseguente caos

elettromagnetico non sono stati i primi eventi a obbligare gli astronomi a prendere in esame la

possibile esistenza di legami tra Sole e Terra, che andava oltre la semplice presenza della luce del

giorno.

Mezzo secolo prima l’emerito astronomo William Herschel, famoso soprattutto per la scoperta del

pianeta Urano, aveva proposto alla Royal Society una serie di ipotesi sulla natura del Sole. Nell’ultima

di queste, Herschel spiegava come qualcosa nella fluttuazione dei prezzi del grano lo avesse fatto

pensare a una correlazione con la comparsa delle macchie solari. Il solo fatto di aver illustrato la sua

idea aveva suscitato un gran trambusto nell’assemblea e Herschel era stato ridicolizzato pe le sue

ipotesi. (Clark, 2009).

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3.3.4 Il numero di Wolf

Il Sole, così regolare nel proprio percorso durante l’anno, era per gli Antichi un indicatore preciso del

trascorrere del tempo e uno strumento indispensabile per determinare i momenti adatti alla semina e al

raccolto. In apparenza immutabile nel tempo, il Sole venne trasformato perfino in divinità da molte

civiltà. Eppure nelle antiche cronache cinesi e coreane si trovano indizi che possono essere interpretati

come osservazioni a occhio nudo di "macchie" sul Sole. Il primo disegno di una macchia solare

conosciuto nella letteratura occidentale si trova in uno scritto del cronista inglese John da Worcester

(1118-1140).

Bisogna però giungere all’inizio del Seicento, con le prime indagini razionali e strumentali che

seguono la nascita della scienza moderna, frutto dell’intuizione e del genio di Galileo Galilei, per

trovare la prima conferma delle macchie solari. Intorno al 1610 sono numerosi gli osservatori europei,

oltre a Galileo in Italia, che ne attestano la presenza: Thomas Harriot in Inghilterra, Christopher

Scheiner in Germania, David e Johann Fabricius in Olanda. È difficile per quell’epoca fornire

un’interpretazione teorica del fenomeno, che quindi di volta in volta viene collocato nell’atmosfera

terrestre oppure sul Sole stesso.

Purtroppo la seconda metà del XVII secolo vede una drastica diminuzione dell’attività solare, fino

quasi alla sua scomparsa: è il Minimo di Maunder. Conseguenza: gli astronomi del Settecento perdono

interesse per i fenomeni superficiali del Sole e le osservazioni si diradano. Solo nel XIX secolola

nostra stella ridiventa oggetto di indagine scientifica rigorosa, grazie all’opera di Heinrich Schwabe e

di Rudolf Wolf. Schwabe (1789-1875) era un farmacista tedesco appassionato di astronomia che si era

prefisso il compito di rivelare l’eventuale esistenza di un pianeta interno all’orbita di Mercurio. La

posizione così vicina al Sole ne avrebbe resa impossibile l’osservazione diretta, dunque Schwabe seguì

un rigoroso programma di osservazione quotidiana delle macchie solari nella speranza di evidenziare

uno o più transiti del pianeta. Non trovò ciò che cercava (oggi sappiamo che quel pianeta non esiste),

ma scoprì qualcosa che non si sarebbe aspettato: il ciclo solare. Infatti le osservazioni di Schwabe

mostrarono come il numero e l’estensione delle macchie solari segue una periodicità che il farmacista

tedesco stimò intorno a 10-11 anni.

L’ottocento è stato il secolo della rinascita dell’interesse scientifico per il Sole, con decine di

Osservatori che rivolgevano i propri strumenti verso la stella a noi più vicina. In questo panorama

intellettuale, svolsero un ruolo centrale le ricerche effettuate in Inghilterra, in Germania e in Svizzera.

Alla fine del secolo l’esistenza del ciclo solare era dimostrata al di fuori di ogni dubbio.

Nel 1847 Rudolph Wolf(1816-1893), direttore dell’Osservatorio di Berna, partì dalle osservazioni di

Schwabe per iniziare un rigoroso programma di indagine del ciclo solare. Trasferitosi nel 1855 a

Zurigo, dove divenne professore presso il Politecnico Federale, Wolf fondò l’osservatorio di Zurigo

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nel 1865 e, fra gli altri, vi installò lo strumento con il quale aveva intrapreso la propria indagine: un

cannocchiale Fraunhofer da 80 millimetri di apertura e 1.100 millimetri di lunghezza focale, che

raggiungeva un ingrandimento di 64 volte.

Non solo: Wolf intraprese una ricerca storica delle osservazioni precedenti raccolte nelle cronache

per ricostruire l’andamento del ciclo solare nel passato.

L’intuizione principale di Rudolph Wolf consistette nel superare le precedenti osservazioni qualitative

e nel quantificare in maniera precisa la presenza e l’estensione delle macchie. A questo scopo

introdusse un indice, che da lui prese il nome: il Numero di Wolf, indicato con la lettera R.

La formula di Wolf, tuttora impiegata, è la seguente:

R = k (10 g + f)

dove g è il numero di gruppi sulla fotosfera solare, f il numero totale di macchie e k un

coefficiente di riduzione relativo all’osservatore che rende la sua misura confrontabile con

quella di tutti gli altri osservatori.

Il programma di ricerca di Wolf sopravvisse al proprio creatore, che morì nel 1893. I successivi

direttori dell’osservatorio di zurigo proseguirono infatti le ricerche sull’attività solare: dapprima

Wolfer (dal 1894 al 1926), poi William Brunner (dal 1927 al 1944) e infine Max Waldmeier (dal 1945

al 1979).

Nel 1980 l’Osservatorio di Zurigo venne assorbito dall’Istituto di Astronomia del Politecnico

Federale e gli indirizzi di ricerca vennero modificati.

Il nuovo direttore e professore di fisica solare, Jan Stenflo, si orientò verso la polarimetria di alta

precisione. Il programma intrapreso da Wolf, con una storia ormai superiore a 125 anni, sembrava

destinato all’abbandono. Tuttavia l’URSI e il Committee on Space Research (COSPAR) si attivarono

per mantenerlo in vita e cercarono un nuovo istituto che potesse fungere da centro di coordinamento

della attività degli Osservatori. La scelta cadde sull’Osservatorio Reale del Belgio,

che già in precedenza apparteneva alla rete degli Osservatori partecipanti al programma e che aveva

collaborato attivamente con l’Osservatorio di Zurigo.

Nel 1981 venne quindi creato a Bruxelles il Sunspot Index data center (SIdc),, con lo scopo di

proseguire la raccolta e l’elaborazione dell’indice visuale della macchie solari, il precedente numero di

Wolf, a quel punto ribattezzato International relative Sunspot number (IrSn) e indicato con ri. Fin

dall’inizio della propria attività, il SIDC ha implementato una forte informatizzazione dei dati e

ampliato il network degli Osservatori, con lo scopo di migliorare la stabilità statistica dell’IRSN.

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L’attività del SIDC è ora più estesa: oltre a proseguire l’antico programma di Wolf, che ormai ha

superato i 150 anni di durata, si occupa anche di prevedere le eruzioni solari e le tempeste

geomagnetiche.

Nel network del SIDC, il 34 per cento delle stazioni è costituito da Osservatori professionali e il

rimanente 66 da collaboratori non professionali. Tutti devono però rispettare una serie di criteri:

assiduità (almeno 10 osservazioni al mese), regolarità (nessun mese scoperto) e stabilità del

coefficiente k, che determina la possibilità di un confronto con gli altri Osservatori.

Nel 1957 Max Waldmeier, direttore dell’Osservatorio Federale di Zurigo, favorevolmente

impressionato dalla qualità delle osservazioni dell’ingegner Karl Rapp, un collaboratore che viveva a

Locarno, decise di aprire una stazione per l’osservazione solare a sud delle alpi. nacque così la Specola

Solare, la cui attività di monitoraggio dell’attività solare è proseguita ininterrottamente per più di

mezzo secolo, ed ha all’interno del SIDC un ruolo di stazione pilota (Specola Solare, 2014).

3.3.5 I magnetar

Il 27 dicembre 2004 il più potente dei lampi di raggi gamma (GRB, Gamma Ray Burst) mai registrato

ha attraversato il Sistema Solare. Sommersi dalla radiazione, i satelliti artificiali hanno

immediatamente incominciato a trasmettere segnali d’allarme ai centri di controllo sulla Terra. Mentre

il torrente di queste onde elettromagnetiche altamente energetiche scivolava oltre il nostro pianeta, una

parte di esse è rimbalzata sulla Luna e ci ha colpito di nuovo. Gli astronomi, con un calcolo di

triangolazione, hanno accertato che la raffica non proveniva dal Sole, ma dalle profondità dello spazio.

Seguendone a ritroso la traiettoria, hanno individuato soltanto un oggetto celeste che poteva esserne

stato l’origine: si trattava del cuore probabilmente morto di una stella del diametro di appena 20

chilometri e a una distanza di 50 000 anni-luce. L’oggetto apparteneva a una poco comune stirpe di

corpi celesti, i magnetar, che hanno i più potenti campi magnetici noti in natura. Il nome deriva da

magnetic star (stella magnetica). Se si potesse trasportare un magnetar a mezza strada fra la Terra e la

Luna, tutte le carte di credito che usiamo sulla Terra verrebbero cancellate.

Analizzando i dati registrati relativi ai raggi gamma, gli astrofisici hanno riscontrato cifre

sbalorditive. L’eruzione di questo magnetar aveva, in un decimo di secondo, rilasciato nello spazio una

quantità di energia maggiore di quella della luce emessa dal Sole in centomila anni. Constatare che un

oggetto tanto lontano poteva inondare la Terra con una tale quantità di energia sotto forma di

radiazioni è stato, per gli esperti, davvero sconvolgente. Astronomi e astrofisici hanno dunque deciso

di convocare un incontro per condividere i dati raccolti. Il titolo del convegno era: “Un gigantesco

brillamento in un magnetar: la Terra colpita dalla profondità della galassia”.

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Uno degli oratori, Umran S. Inan della californiana Stanford University, ha illustrato come gli era

stato possibile registrare le radioonde di bassissima frequenza prodotte al momento del lampo dagli

strati più alti dell’atmosfera terrestre. I risultati delle registrazioni di quel giorno erano stupefacenti.

L’intensità dell’energia dei raggi gamma risultava essere molto più grande di qualunque valore mai

registrato nelle emissioni solari: i raggi avevano spezzato atomi in tutta l’atmosfera della parte del

pianeta che era stata colpita. L’atmosfera stessa ha impiegato oltre un’ora per tornare allo stato

normale.

Quasi 150 anni dopo che Carrington vide il Sole liberare, anche se nella tarda estate, la “prima

rondine” del 1859, gli astronomi hanno dato, alla fine del 2004, il primo sguardo alla primavera dei

magnetar (Clark, 2009).

3.4 Studi in corso

Lo studio del Sole continua ad essere ancora oggi molto importante. Una prima ragione è che il Sole è

un laboratorio naturale molto interessante in quanto presenta al suo interno caratteristiche molto

difficili o addirittura impossibili da riprodurre in un laboratorio umano. Osservando il Sole è possibile

ottenere informazioni molto importanti, ad esempio sulla fusione nucleare. Il Sole inoltre è la stella più

vicina a noi, ed è quindi più facilmente osservabile rispetto alle altre. Osservazioni e scoperte fatte sul

Sole possono essere trasportate ed applicate anche sulle altre stelle, anche con caratteristiche molto

diverse.

Infine, il Sole è il responsabile della vita sulla Terra, e ci fornisce quasi tutta l’energia che usiamo

per vivere, non solo attraverso i pannelli fotovoltaici, ma anche i combustibili fossili sono frutto della

trasformazione naturale di vegetali e animali vissuti milioni di anni fa, e che sono cresciuti e vissuti

grazie alla fotosintesi (le piante) o mangiando gli organismi fotosintetici (gli animali). Lo stesso vale

per l’energia idroelettrica, che si basa sul ciclo di evaporazione dell’acqua dovuto al calore del Sole e

per l'energia eolica, dovuta agli spostamenti d’aria causati dalle differenze di temperatura.

3.4.1 Macchie solari

Il Modello Solare Standard, per quanto sofisticato e in gran parte coerente con le evidenze

osservative recenti, non riesce tuttavia a spiegare la fenomenologia solare in tutta la sua completezza.

In particolare, non è chiaro come si producano le variazioni da un ciclo all'altro, i cicli di più lunga

durata e, soprattutto, le epoche durante le quali il ciclo solare scomparve completamente. E' il caso per

esempio del famoso Minimo di Maunder (che prende il nome da Edward Walter Maunder, l'astronomo

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inglese che alla fine dell'Ottocento lo scoprì studiando le antiche osservazioni delle macchie solari): si

tratta di un periodo di circa 70 anni, fra il 1645 e il 1715, durante il quale l'attività solare visibile

scomparve quasi totalmente.

La ricerca, sia teorica sia osservativa, sul ciclo solare è quindi di grande interesse e di grande

attualità. Soprattutto nell'ambito delle osservazioni e delle misure, richiede molta pazienza, tenacia e

rigore e si sviluppa su tempi lunghi, nell'arco di decenni. In quest'ambito, il Numero di Wolf si è

rivelato essere un parametro importante e prezioso, sia per la sua significatività fisica sia perché, così

com'è definito oggi, consente di effettuare un confronto coerente fra osservazioni recenti e antiche. al

momento presente, inoltre, il monitoraggio continuo dell'attività solare è importante perché siamo di

fronte a un'anomalia significativa (Specola Solare, 2014).

Le macchie solari sono quindi osservate quotidianamente, disegnate e il Numero di Wolf viene

comunicato al SIDC a Bruxelles, dove viene calcolato il Numero di Wolf del giorno mediando le

osservazioni provenienti da tutto il mondo. Nel network del SIDC, il 34 per cento delle stazioni è

costituito da Osservatori professionali e il rimanente 66 da collaboratori non professionali. Tutti

devono però rispettare una serie di criteri: assiduità (almeno 10 osservazioni al mese), regolarità

(nessun mese scoperto) e stabilità del coefficiente k, che determina la possibilità di un confronto con

gli altri Osservatori.

È pari a quattro secoli il periodo storico all’interno del quale è possibile ricostruire il valore del

numero di Wolf, sia attraverso stime effettuate su osservazioni precedenti il 1848 sia a seguito

dell’inizio del programma nel 1848. In sostanza, ben 35 cicli solari possono essere considerati coperti

e confrontabili con altri indicatori dell’attività solare, come le abbondanze isotopiche di berillio-10 nei

carotaggi polari e di carbonio-14 negli anelli di accrescimento delle piante, indicatori che in questo

modo possono essere tarati e consentono di spingere la conoscenza del ciclo solare ancora più indietro

nel passato, in epoche pre-strumentali in cui l’osservazione scientifica rigorosa delle macchie solari

non era possibile. Nell’ambito della ricerca scientifica sul Sole, il Numero di Wolf è un dato di grande

importanza. Nel solo periodo compreso fra il 2000 e il 2006, l’Abstract Distribution System ha

catalogato più di 430 pubblicazioni scientifiche che si riferiscono a un generico "sunspot number".

Rileviamo in particolare l’aumento dell’interesse per la ricerca associata all’attività superficiale del

Sole: queste pubblicazioni costituiscono un quarto del totale catalogato a partire dalla fine del XIX

secolo. Lo spettro delle discipline interessate è molto ampio e spazia dalla climatologia alla

planetologia, dallo studio delle comete alle tecnologie spaziali. In particolare, per quanto riguarda la

fisica solare, l’IRSN viene impiegato per verificare la correttezza dei modelli della dinamo solare

utilizzati per prevedere l’intensità dei cicli futuri e per ricostruire l’emissione di energia del Sole nel

passato. Inoltre si rivela prezioso per studiare la correlazione fra le variazioni climatiche del nostro

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pianeta e l’evoluzione secolare dell’emissione elettromagnetica e materiale del Sole. Non solo: l’IRSN

è ormai indispensabile anche nell’ambito della previsione dell’impatto dei fenomeni solari sulle attività

umane nello spazio (attività extraveicolari, satelliti in orbita bassa, telecomunicazioni, GPS) e al suolo

(reti di distribuzione elettrica ad alta tensione, blackout) (Specola Solare, 2014).

3.4.2 Macchie riconteggio non ponderato

Quest’estate ho avuto l’occasione di fare uno stage alla Specola Solare di Locarno Monti.

La Specola Solare

La Specola Solare nasce nel 1957, in occasione dell'Anno Geofisico Internazionale, come stazione

al sud delle Alpi dell'Osservatorio Federale del Politecnico di Zurigo. Questo osservatorio era

specializzato, fin dalla metà del secolo scorso, nell'osservazione solare e in particolare nella

determinazione dell'indice internazionale di attività del Sole, denominato "numero relativo di Wolf".

Nel 1981 la nuova direzione dell'Osservatorio Federale cambiò completamente il programma

scientifico di lavoro e rinunciava alla determinazione dell'indice di Wolf che veniva affidata al

neocostituito "Sunspot Index Data Center" presso l'Università Libera di Bruxelles. Si decise la

chiusura della Specola di Locarno e la messa in pensione anticipata dei due funzionari scientifici che vi

lavoravano.

Un gruppo di soci della Società Astronomica Ticinese prese allora l'iniziativa di assicurare la

continuazione dell'attività scientifica e divulgativa della Specola anche per il futuro, cercando le

necessarie sovvenzioni presso il Cantone, i comuni del locarnese, gli enti pubblici e privati. A questo

scopo si costituiva una associazione specifica, l’Associazione Specola Solare Ticinese (ASST),

separata dalla Società Astronomica, che è riuscita a procurare i finanziamenti fino ad oggi, in modo da

garantire l'impiego di un responsabile scientifico a metà tempo e la collaborazione a tempo parziale di

altre persone adeguatamente istruite.

Il programma scientifico comprende, come lavoro prioritario, la determinazione del Numero di

Wolf che viene inviato regolarmente al S.I.D.C. di Bruxelles, di cui la Specola è diventata la stazione

di referenza a livello mondiale.

Per una quindicina di anni (1981-1995) il gruppo di fisica applicata dell'Università di Berna ha

collaborato con la Specola, eseguendo osservazioni ottiche di fenomeni solari transienti (eruzioni

cromosferiche, protuberanze ecc.) nel laboratorio eliofisico, osservazioni che si sono concretizzate in

lavori di licenza e dottorato in fisica di una decina di studenti universitari svizzeri.

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Una buona parte del tempo dei collaboratori della Specola è utilizzato per l'attività divulgativa con

conferenze, collaborazioni ai giornali, alla radio e alla TV, consulenza telefonica, corsi serali di

astronomia (tra cui i corsi per adulti del D.E.C.S.), visite di scolaresche e di gruppi culturali.

La strumentazione originale della Specola, specializzata nell'osservazione solare, è costituita da un

rifrattore Zeiss da 150 mm di apertura diaframmato a 80 mm installato in una cupola emisferica.

I disegni e i dati delle macchie solari ottenuti giornalmente (tempo permettendo) vengono spediti

regolarmente al Solar Influences Data Analysis Center – SIDC (Specola Solare, 2014).

L’idea iniziale era uno stage di 2 settimane, a luglio, poi per varie ragioni i tempi si sono allungati

e continuo ancora adesso ad andare nei week-end e nelle vacanze scolastiche. Durante lo stage ho

avuto l’opportunità di usare il telescopio solare per fare ogni giorno (sempre tempo permettendo) un

disegno in parallelo a quello ufficiale (fatto dal direttore della Specola Marco Cagnotti) e poterlo

confrontare con il suo. Ho quindi potuto osservare e iniziare ad imparare a fare il disegno e a “contare”

le macchie per calcolare il Numero di Wolf del giorno.

Nei disegni (Figura 3.17, Figura 3.18, Figura 3.19, Figura 3.20, Figura 3.21, Figura 3.22, Figura

3.23, Figura 3.24, Figura 3.25, Figura 3.26, Figura 3.27, Figura 3.28, Figura 3.29, Figura 3.30, Figura

3.31, Figura 3.32) si possono osservare le macchie solari presenti quel giorno a quell’ora, il numero del

gruppo (g) (il numero 1 è il primo nuovo gruppo comparso quell’anno), la posizione dei gruppi (B), il

“tipo” di ogni gruppo (t) (ai gruppi è assegnata una lettera da A a J a seconda della dimensione, se il

gruppo contiene macchie con penombra e se sono bipolari) e il valore che io ho dato a ciascuna

macchia e quindi a ciascun gruppo (f).

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Figura 3.17 - Disegno 17.7.2013

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Figura 3.18 - Disegno 19.7.2013

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Figura 3.19 - Disegno 20.7.2013

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Figura 3.20 - Disegno 22.7.2013

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Figura 3.21 - Disegno 23.7.2013

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Figura 3.22 - Disegno 24.7.2013

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Figura 3.23 - Disegno 25.7.20

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Figura 3.24 - Disegno 26.7

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Figura 3.25 - Disegno 20.8.2013

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Figura 3.26 - Disegno 21.8.2013

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Figura 3.27 - Disegno 29.8.2013

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Figura 3.28 - Disegno 30.8.2013

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Figura 3.29 . Disegno 31.8.2013

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Figura 3.30 - Disegno 30.12.2013

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Figura 3.31 - Disegno 31.12.2013

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Figura 3.32 - Disegno 12.4.2014

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Inoltre, ho iniziato un lavoro di riconteggio dei vecchi disegni della Specola, dal 1980 ad oggi. Il

lavoro è dovuto ad una discrepanza trovata tra i Numeri di Wolf precedenti a Waldmeier e quelli

successivi ed era stato iniziato da un altro studente in stage, Alex.

Oggi, alla Specola Solare, contando le macchie, si usa il metodo della “ponderazione”, cioè

assegnare un valore diverso alle macchie a seconda della dimensione. Ad esempio, una macchia con la

penombra varrà 3, anche se è piccola, e se dovesse essere grande o con più di un’ombra all’interno può

valere 4 o 5 in casi rari anche 6 o 7; le macchie senza penombra, invece possono valere 1 se sono

piccole o 2 se sono più grandi, oppure due molto piccole possono valere insieme 1. La domanda che è

sorta è che il metodo della ponderazione possa essere stato introdotto non da Wolf, ma in qualche

passaggio successivo nella catena dei successori, senza che sia stato registrato. Questo potrebbe

significare una discontinuità nel Numero di Wolf della Stazione Pilota. Per capire quanto la

ponderazione “pesi” effettivamente sul Numero di Wolf del giorno e quindi sui grafici ho iniziato un

lavoro di riconteggio sui vecchi disegni, cioè riconto tutti i disegni fatti in Specola tutti i giorni

(sempre tempo permettendo) dal 1980 senza ponderare, contando ogni macchia indipendentemente

dalla sua grandezza. Una volta che avrò finito faranno un confronto con il mio conteggio e quello

ponderato “ufficiale” e vedranno se la discrepanza trovata è dovuta effettivamente a questo. Lavorando

da luglio ad oggi in Specola e anche da casa sono arrivata all’inizio del 1998 (sto andando all’indietro

negli anni, da dove era arrivato Alex).

Il lavoro è piuttosto ripetitivo, ma mi ha permesso di osservare un intero ciclo solare attraverso i

disegni, osservando il picco del 2000 e paragonandolo a quello attuale che invece sto osservando in

diretta, oltre che il movimento delle macchie lungo il Sole giorno per giorno e l’evolversi dei vari

gruppi.

3.4.3 Spettroscopia

La spettroscopia solare è l’analisi dello spettro del Sole. L'analisi degli spettri ha aperto enormi

possibilità agli astronomi per la conoscenza dei corpi celesti, permettendo di conoscerne la

composizione chimica, la temperatura, la pressione, la velocità di movimento, la direzione e l'esistenza

di campi magnetici. Tutta la classificazione delle stelle si basa sui loro spettri, come gli studi

cinematici sulla rotazione delle galassie, e le velocità di recessione delle remote galassie, dovute al red-

shift cosmologico. Recentemente, la spettroscopia ad altissima risoluzione è diventata lo strumento

principe per la scoperta di pianeti extra solari, identificati da lievissime oscillazioni dovute agli effetti

doppler, causati sul moto delle stelle da perturbazioni di pianeti orbitanti attorno ad esse (Astrofili

veronesi, 2014).

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EFFETTO DOPPLER

L’effetto Doppler è un fenomeno che coinvolge il cambiamento dell’acutezza di un suono quando la

sorgente che lo produce si muove oppure quando noi ci muoviamo verso la sorgente. In particolare,

quando osservatore e sorgente si avvicinano, il suono percepito dall’osservatore è più acuto del suono

originale, mentre quando essi si allontanano uno dall’altro il suono ha un’acutezza minore del suono

originale. L’effetto Doppler non vale tuttavia solo per le onde sonore, bensì per tutti i fenomeni che

coinvolgono le onde: ad esempio le galassie che si spostano lontano dalla nostra mostrano una luce con

frequenza inferiore alla loro originale (si parla perciò di red shift, o spostamento verso il rosso, infatti

le onde visibili con frequenza più bassa sono le onde di colore rosso), mentre la luce delle galassie che

si avvicinano mostrano uno spostamento verso il blu-viola (le onde visibili con frequenza maggiore), si

parla perciò di blue shift (Scientifico Asti, 2014).

REDSHIFT

Il redshift è lo spostamento delle righe dello spettro di un corpo celeste verso le lunghezze d’onda

più lunghe (verso quindi il rosso). L’ipotesi di fondo senza la quale questo metodo perde di significato

è che l’universo si sia formato dal Big-Bang, teoria questa ormai accettata dalla maggioranza degli

studiosi che hanno messo da parte la teoria dell’universo stazionario. Negli anni trenta fu scoperta da

Hubble la legge che porta il suo nome che mette in relazione il red-shift o spostamento verso il rosso

con la distanza radiale.

dove z è il redshift misurato della galassia, D è la sua distanza, c è la velocità della luce e H0 è la

costante di Hubble, il cui valore attualmente stimato è attorno a 2,176 aHz (67,15 km/Mpc s). Le

formule hanno validità se ammettiamo che lo spostamento verso il rosso sia dovuto esclusivamente

all’effetto Doppler (Old.isaacnewton, 2000).

Il redshift nella fisica solare è usato per esempio per determinare la velocità di rotazione del Sole in

modo più preciso che osservando le macchie solari. Osservando l'effetto Doppler sullo spettro della

luce solare proveniente da lembi opposti. Dalla velocità con cui un lembo si avvicina e l'altro si

allontana si può giungere a misure molto precise, avendo natu ralmente l'accortezza di eliminare la

componente dovuta allo spostamento della Terra sulla sua orbita (praticamente trascurabile è invece il

moto di rotazione, che comporterebbe un errore di appena 2 m al secondo). La velocità di un punto

sull'equatore del Sole è di circa 2 km/s.

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Il primo a suggerire il metodo spettroscopico fondato sull'effetto Doppler fu Vogel nel 1871. Da allora,

molti hanno fatto osservazioni sistematiche: Dunér a Uppsala tra il 1880 e il 1903, Halm a Edimburgo

dal 1903 al 1906, Adams a Monte Wilson nel 1908, Giorgio Abetti ad Arcetri tra il 1933 e 11 1942 e

altri in tempi più recenti. I risultati differiscono a seconda delle righe dello spettro prese in esame. In

genere, più una riga è evidente, minore è la differenza delle velocità di rotazione in funzione

dell'aumento di latitudine. I risultati più accurati di Abetti denunciano uno spostamento in gradi nelle

24 ore di 14",04 all'equatore; 13",18 a 15 gradi di latitudine; 13’’,05 a 30 gradi; 12",35 a 45 gradi;

12",16 a 60 gradi (Bianucci, 1992).

EFFETTO ZEEMAN

L'effetto Zeeman è un fenomeno che consiste nell'allargamento o sdoppiamento delle linee spettrali

(in realtà anche in caso di allargamento si è comunque in presenza di uno sdoppiamento, solo che il

potere risolutivo dello strumento usato è insufficiente per mostrarlo) a causa di un campo magnetico

esterno: in gran parte degli atomi esistono molte configurazioni di elettroni con la stessa energia, in

modo che le transizioni tra queste configurazioni ed un'altra corrisponde ad una singola line spettrale.

La presenza di un campo magnetico rompe tale equilibrio, dato che un campo magnetico interagisce in

modo diverso con gli elettroni con differente numero quantico, modificando lievemente le loro

energie. Ciò provoca il risultato che, ove prima esistevano configurazioni con la stessa energia, tali

configurazioni hanno ora energie diverse, dando luogo a diverse righe spettrali vicine. Senza un campo

magnetico, ad es., le configurazioni a, b , c e d, e e f della figura hanno la stessa energia e danno luogo

ad una riga singola. In presenza di un campo magnetico i livelli di energia si diversificano dando luogo

a molteplici righe. Essendo la distanza tra le righe sdoppiate proporzionale all'intensità del campo

magnetico, questo effetto può essere usato per misurare il campo magnetico del sole e delle altre stelle.

Non tutte le righe tuttavia mostrano allo stesso modo il fenomeno: le righe del ferro sono

particolarmente indicate, e molte di esse giacciono vicino alle righe atmosferiche dell'O2 , utili per

effettuare comparazioni, specialmente per dimostrare che un eventuale allargamento osservato delle

righe del ferro non sia dovuto interamente ad effetti strumentali (Pno.astronomy, 2014).

3.4.4 Il problema dei neutrini

Durante la prima metà del ventesimo secolo, gli scienziati si convinsero che il Sole brilla convertendo,

nel suo interno, idrogeno in elio. Secondo questa teoria, 4 nuclei di idrogeni detti protoni (p) si

trasformano, all’interno del sole, in un nucleo di elio (4He), due anti-elettroni (e

+, elettrone con carica

positiva) e due particelle elusive e misteriose chiamate neutrini (Ve).Si pensa che questo processo di

conversione nucleare o fusione nucleare sia responsabile per lo splendore del sole e di conseguenza per

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la vita sulla Terra. Il processo di conversione, che coinvolge molte e diverse reazioni nucleari, può

essere scritto schematicamente:

4p --> 4He + 2e

+ + 2 Ve

Ogni volta che avviene la reazione nucleare c’è la produzione di due neutrini. Dato che quattro protoni

sono più pesanti di un nucleo di elio, più due elettroni positivi e due neutrini, la reazione nucleare

produce molta energia che alla fine raggiunge la terra sotto forma di luce solare. La reazione avviene

molto frequentemente. I neutrini facilmente sfuggono dal Sole e la loro energia non appare sotto forma

di calore solare o luce solare. Alcune volte i neutrini sono prodotti con energie relativamente basse, e il

sole assorbe molto calore. Alcune volte sono necessarie energie più elevate per produrre i neutrini e di

conseguenza il Sole assorbe meno energia.

I neutrini non hanno carica elettrica, interagiscono raramente con la materia, e – secondo il modello

standard delle particelle elementari– non hanno massa. I neutrini sono praticamente indistruttibili:

quasi nulla può accadergli. Per ogni 100 miliardi di neutrini solari al secondo che penetrano nella

Terra, solo circa uno interagisce con la materia di cui è fatta la Terra. Dato che i neutrini interagiscono

raramente, essi possono facilmente fuggire dalla parte interna del sole dove sono creati e portare sulla

Terra informazioni dirette riguardanti le reazioni di fusione nucleare solare. Si conoscono tre tipi di

neutrini. La fusione nucleare nel Sole produce solo neutrini che sono associati ad elettroni, i cosiddetti

neutrini elettronici (Ve). Gli altri due tipi di neutrini, i neutrini muonici (Vμ) e i neutrini tau (Vt) sono

prodotti, per esempio, in acceleratori di ricerca, o in esplosioni stellari, insieme con le versioni più

pesanti dell’ elettrone, le particelle muoni (m) e tau (t) (sns.ias, 2014).

Il problema dei neutrini solari ha inizio alla fine degli anni sessanta. La necessità e la volontà di

provare che l’energia generata all’interno del Sole fosse effettivamente prodotta da reazioni nucleari

portò R. Davis Jr. e collaboratori a proporre un esperimento per la rivelazione dei neutrini solari. Nel

1970, con la pubblicazione dei risultati, si ebbe la possibilità di capire se veramente l’energia solare

fosse prodotta da reazioni nucleari e se le previsioni dei modelli solari e dell’evoluzione stellare

fossero corretti. Con grande stupore di tutta la comunità astrofisica e scientifica in generale, i risultati

ottenuti dalle prime misure di Homestake non corrispondevano alle previsioni. Soltanto un terzo dei

neutrini previsti erano stati rivelati. Con il passare del tempo, ma soprattutto con nuovi risultati, si

delineò un nuovo puzzle per tutta la comunità scientifica, il cosiddetto problema dei neutrini solari. Il

primo esperimento con cui si è riusciti a rivelare i neutrini solari è 2 stato realizzato intorno alla fine

degli anni ’60 da un équipe, guidata da R. Davis, del Brookhaven National Laboratory nella miniera di

Homestake, nel Sud Dakota (Stati Uniti). Da allora tutti gli sforzi sono stati concentrati soprattutto

nello smentire i risultati di Homestake, cercando una spiegazione della mancanza di circa i 2/3 del

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flusso di neutrini previsti. Il rivelatore utilizzato per effettuare l’esperimento di Homestake è stato

l’isotopo 37Cl, presente in un composto chimico quale il percloroetilene, C2Cl4 (Buonbros, 2000).

Furono suggeriti tre tipi di spiegazioni per risolvere il mistero. La prima spiegazione fu che forse il

calcolo teorico era errato. Ciò poteva accadere in due modi: o il numero di neutrini previsti dal conto

teorico non era corretto, o la quantità di atomi di argon calcolata non era corretta. La seconda

spiegazione offerta fu che forse l’esperimento di Ray era sbagliato. La terza spiegazione, la più audace

e la meno discussa, fu forse i fisici non avevano capito il comportamento dei neutrini quando

percorrono distanze astronomiche.

I calcoli teorici furono rifatti e verificati molte volte nei venti anni seguenti, da molti ricercatori. I

dati usati per i calcoli furono migliorati e le previsioni diventarono più precise. Non furono trovati

errori significativi sia nel modello computerizzato del Sole che nei calcoli sulla probabilità di cattura

dei neutrini da parte del serbatoio di Ray. Nel frattempo, Ray migliorava la sensibilità del suo

esperimento. Egli condusse anche un certo numero di verifiche sulla sua tecnologia per cautelarsi che

nessun neutrino fosse trascurato. Non furono trovati errori.

La soluzione del mistero dei neutrini solari mancanti è che i neutrini non sono affatto mancanti. I

neutrini che precedentemente non erano stati contati sono trasformati da neutrini elettronici in neutrini

muonici e di tipo tau che sono più difficilmente rivelabili. I neutrini muonici e di tipo tau non furono

rivelati dall’esperimento di Davis con il cloro; non furono rivelati dagli esperimenti col gallio in

Russia e in Italia; e non furono rivelati dai primi esperimenti SNO. La mancanza di sensitività ai

neutrini muonici e di tipo tau è la ragione per cui questi esperimenti sembravano suggerire che la

maggior parte dei neutrini solari erano mancanti. Invece gli esperimenti ad acqua giapponesi

(Kamiokande e Super–Kamiokande) e quelli con acqua pesante SNO avevano una certa sensibilità ai

neutrini muonici e di tipo tau, oltre alla sensibilità primaria per i neutrini elettronici. Questi

esperimenti con l’acqua pertanto rivelarono frazioni più alte dei neutrini solari previsti (sns.ias, 2014).

3.4.1 Missioni verso il Sole

Pioneer 5 - USA Solar Monitor - (11/03/59) Una sonda spaziale che rimane in orbita attorno al Sole

Pioneer 6 - USA Solar Probe - (16/12/65) Una sonda che sta trasmettendo tutt’ora dalla sua orbita

solare.

Pioneer 7 - USA Solar Probe - (17/08/66) Un’altra sonda solare spenta da poco.

Pioneer 8 - USA Solar Probe - (13/12/67) Una sonda che sta ancora trasmettendo dalla sua orbita

solare.

Pioneer 9 - USA Solar Probe - (08/11/68) Una sonda solare che si è spenta nel 1987

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Skylab - USA Stazione spaziale - (26/03/73) Questa è stata la prima stazione spaziale USA e fu abitata

per 171 giorni da tre equipaggi, durante il 1973 e il 1974. La stazione era dotata del Apollo Telescope

Mount (ATM nome con cui è nota la stazione in campo astronomico), con cui furono prese più di

150.000 immagini del Sole, anche a raggi X. Lo skylab fu abbandonato nel febbraio 1974 e si distrutto

nell’atmosfera nel 1979.

Explorer 49 - USA Solar Probe - (10/06/73) Una sonda solare piazzata in orbita lunare.

Helios 1 - USA & West Germany Solar Probe - (10/12/74) Una sonda solare piazzata su di un’orbita a

47 milioni di km dal Sole

Helios 2 - USA & West Germany Solar Probe - (16/01/76) Sonda solare che è arrivata a 43 milioni di

km dal Sole.

Solar Maximum Mission - USA Solar Probe - (14/02/80) SMM era stata inviata per eseguire

osservazioni solari coordinate di attività solare, e in particolare brillamenti solari, durante il periodo di

massima attività. La sonda patì problemi che furono riparati nel 1984 da una missione con equipaggio,

dopo di che la sonda funzionò fino al 24/11/89. Il rientro nell’atmosfera avvenne il 02/12/89.

Ulysses - USA & Europe Sun Flyby - (06/10/90) Questo è un progetto internazionale per lo studio dei

poli del Sole e dello spazio interstellare sopra e sotto I poli. La sonda usa Giove per avere l’as-sistenza

gravitazionale che le ha permesso di lasciare il piano dell’eclittica e raggiungere i poli solari. La sonda

è passata vicino a Giove il 08/02/92 e il primo passaggio sul polo sud solare è avvenuto nel giugno

1994, il passaggio sull’equatore solare è stato nel febbraio 95, mentre il polo nord solare è stato

sorvolato nel giugno 95.

Yohkoh - Japan/USA/England Solar Probe - (31/08/91) Questa sonda ha studiato l’emissione ad alta

energia

SOHO - Europe Solar Probe - (12/12/95) Lo scopo principale era di studiare l’interno del Sole

attraverso lo studio della velocità di oscillazione e le variazioni dell’emissione, nonché studiare i

processi fisici che portano al riscaldamento della corona e alla formazione del vento solare. SOHO fu

immesso in orbita nel punto di Lagrange, cioè dove le forze gravitazionali della Terra e del Sole si

bilanciano a 1,5 milioni di Km da noi.

Genesis - USA Solar Wind Sample Return – (inizialmente prevista per il 2001) Lo scopo di questa

missione è prelevare campioni di vento solare e riportarli a Terra (Planetarium Pythagoras, 2014).

SDO – USA – (11/2/2010) Il Solar Dynamics Observatory (SDO) è la prima missione che è stata

lanciata dal programma della NASA Living with a Star (LWS), programma progettato per capire le

cause della variabilità solare e il suo impatto sulla Terra. SDO è progettato per aiutarci a capire

l’influenza del Sole sulla Terra e sullo spazio vicino alla Terra studiando l’atmosfera solare in una

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piccola scala di spazio e tempo in molte lunghezze d’onda contemporaneamente (SDO, 2014 -

traduzione).

Solar Orbiter – USA - (previsto 01/2017) Avvicinandosi al Sole alla distanza di 0.28 UA, il Solar

Orbiter potrà osservare il Sole ad un’alta risoluzione spaziale e combinare alle misurazioni in loco

misurazioni dell’eliosfera circostante. Grazie alla sua orbita, il Solar Orbiter potrà consegnare

immagini e dati dell’inesplorata regione polare del Sole e della faccia solare non visibile dalla Terra

(Solar Orbiter, 2014 - traduzione).

3.5 Effetti spettacolari del Sole sulla Terra

3.5.1 Eclissi

Si ha un’eclissi di Sole quando la Luna si frappone fra il Sole e la Terra. Questo può avvenire,

evidentemente, solo alla fase di Luna nuova.

Si ha invece un’eclissi di Luna quando la Terra si trova fra il Sole e la Luna. In questo caso, la Luna

non è coperta alla nostra vista, come avviene per il Sole durante le eclissi, ma accade semplicemente

che il nostro satellite viene a trovarsi nel cono d’ombra della Terra, ed è debolmente illuminato dalla

luca solare diffusa dall’atmosfera terrestre. Le eclissi di Luna possono verificarsi solo alla fase di Luna

piena.

Per un caso fortuito noi vediamo Sole e Luna sotto lo stesso angolo di circa mezzo grado. Ciò

significa che il rapporto “raggio diviso distanza dalla Terra” è quasi uguale nei due casi. In altre parole,

il Sole ha un raggio circa 400 volte quello della Luna, ma si trova anche ad una distanza 400 volte più

grande. Se la Luna si muovesse esattamente sul piano dell’eclittica, avremmo un’eclissi di Sole ad

ogni Luna nuova e un’eclissi di Luna ad ogni Luna piena. Ma poiché la Luna si muove su un’orbita

inclinata di circa 5 gradi rispetto al piano dell’eclittica, le eclissi possono verificarsi solo quando è

Luna nuova o Luna piena nel momento in cui la Luna si trova molto prossima a uno dei due nodi, cioè

uno dei due punti in cui l’orbita della Luna incrocia quella della Terra. Solo allora avremo un perfetto

allineamento dei tre corpi. La durata delle eclissi dipende sia dalla maggiore o minore prossimità della

Luna a uno dei due nodi, sia dalla distanza Terra-Sole e Terra-Luna, che varia leggermente poiché le

orbite della Terra e del suo satellite non sono circolari, ma leggermente ellittiche. Se, ad esempio, la

Luna si trova esattamente in uno dei due nodi quando è nuova, e si trova anche alla minima distanza

dalla Terra (perigeo), e la Terra invece si trova alla massima distanza dal Sole (afelio), avremo

un’eclissi solare della massima durata, circa 7 minuti, perché la Luna avrà un diametro angolare

massimo e il Sole un diametro angolare minimo. Nel caso opposto – Luna all’apogeo e Terra al

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perielio – avremo un’eclissi anulare, perché il disco della Luna non copre completamente il disco

solare (Figura 3.33).

Figura 3.33 - Eclissi solari e lunari (Fonte: Moterma Altervista, 2014)

Avremo eclissi parziali quando la distanza dalla Luna dai nodi è abbastanza grande. Mentre

un’eclissi di Sole è visibile solo da una ristretta fascia del nostro globo, un’eclissi di Luna è visibile da

tutti i luoghi in cui la Luna è presente in cielo (Hack, 2005).

Anche un’eclissi di Luna può essere totale o parziale. E’ totale quando la Luna transita vicino all’asse

del cono d’ombra proiettato dalla Terra (Figura 3.34) e quindi è totalmente immersa nell’ombra mentre

è parziale quando transita lontano dal centro ed in parte nel cono d’ombra e quindi parte della

superficie lunare non viene totalmente oscurata. La stessa cosa vale per il cono d’ombra proiettato

dalla Luna sulla Terra mentre passa davanti al Sole.

Durante un’eclisse si possono distinguere diverse fasi: entrata nella penombra, entrata nell’ombra,

uscita dall’ombra ed uscita dalla penombra. La Luna entra nel cono di penombra da ponente e ne esce

da occidente. In media il tempo che il satellite impiega ad attraversare la penombra è di 1h mentre

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quello nell’ombra è di 2.5h, quindi un’eclisse dura in totale 4.5h. La durata molto lunga di questo

fenomeno fa si che più della metà della superficie terrestre possa godersi lo spettacolo.

Oltre alle eclissi parziali e totali sia la Luna che il Sole sono soggetti anche a quelle che si

definiscono eclissi di penombra .Questo fenomeno è molto più frequente rispetto agli altri due..

Durante un’eclisse di penombra la Luna o la Terra non passano nel cono d’ombra ma soltanto in quello

di penombra.

Durante la fase di totalità di un’eclisse di Luna, ciò che colpisce maggiormente l’osservatore è che

il nostro satellite non scompare totalmente, come accade durante un’eclisse del Sole, ma viene il disco

rimane visibile assumendo una colorazione rossastra che varia da evento ad evento.

A causa della presenza dell’atmosfera terrestre, che rifrange una parte dei raggi solari, la Luna

continua a ricevere un po’ di luce anche durante le eclissi totali; questa parte dei raggi solari che viene

filtrata e rilasciata, una volta deviata come radiazione verso il rosso, viene riflessa dalla superficie

lunare e attraversa di nuovo la nostra atmosfera. Pertanto, durante le eclissi lunari, è possibile eseguire

osservazioni sul comportamento della nostra atmosfera, che viene attraversata due volte dai raggi

luminosi. Ad esempio, dopo un’eruzione vulcanica, la presenza delle polveri nell’alta atmosfera

provocherà una maggiore deviazione rispetto al normale di conseguenza il disco eclissato assumerà

delle tonalità rosse più cupe (Astrogeo.va, 2014).

Figura 3.34 - Eclissi lunari (Fonte: Massimo Miraglia, 2011)

Sia il Sole sia la Luna ritornano periodicamente nella stessa posizione rispetto a uno dei nodi,

quindi le eclissi ricorrono a intervalli di tempo regolari, nell'ambito del cosiddetto ciclo di Saros.

Questo ciclo, noto già agli antichi babilonesi, ha periodo poco maggiore di 6585,3 giorni, cioè circa 18

anni, 9-11 giorni (a seconda del numero di anni bisestili coinvolti) e 8 ore, e corrisponde quasi

esattamente a 19 passaggi del Sole nello stesso nodo, a 242 passaggi della Luna nello stesso nodo e a

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223 mesi lunari. La differenza tra il numero di passaggi della Luna e il numero di mesi lunari è causato

dal movimento dei nodi verso occidente che si verifica con un ritmo di 19,5° all'anno. Le eclissi che

avvengono a distanza di un ciclo di Saros hanno caratteristiche identiche, ma sono visibili 120° più a

ovest sulla superficie terrestre, a causa della rotazione che la Terra compie nel cosiddetto terzo di

giorno, cioè nelle otto ore del periodo di Saros.

Durante un ciclo di Saros avvengono circa 70 eclissi, di cui in genere 29 lunari e 41 solari; di

queste ultime solitamente 10 sono totali e 31 parziali. Ogni anno si verificano in media quattro eclissi,

con un minimo di due e un massimo di sette. Alla fine del XX secolo saranno avvenute, nei cento anni,

375 eclissi: 228 solari e 147 lunari (Icbernareggio, 2014).

3.5.2 Aurora polare

In base all’emisfero nel quale si manifestano vengono distinte in aurora boreale e australe.

Nel 1600 Galileo Galilei le aveva chiamate “boreale aurora” o “alba settentrionale”.

Nel 1621, la denominazione era stata lievemente modificata in “ aurora boreale” dall’illustre

astronomo Pierre Gassendi, che aveva assistito ad una manifestazione di colore rosa, tipica delle

latitudini più basse, che ricorda l’alba.

La descrizione e la spiegazione del fenomeno aurorale ha messo a dura prova gli intelletti più acuti

di tutti i tempi, infatti ci sono voluti più di venticinque secoli perché, a partire dalle prime ipotesi

sull’origine del fenomeno, si riuscisse ad arrivare a una definizione corretta.

I primi tentativi risalgono al V secolo a.C., quando filosofi greci e latini, quali Ippocrate, Aristotele,

Seneca e Plinio il Vecchio, cominciarono a indagare sull’origine di questo misterioso fenomeno che

d’improvviso riempiva il cielo di vivaci fiamme colorate. Alcuni facevano appartenere le aurore al

gruppo delle comete, altri alle meteore altri ancora ad altri fuochi celesti.

Ci si potrebbe chiedere come mai i filosofi dell’antichità avessero potuto conoscere le aurore, visto

che vivevano in regioni dove gli avvistamenti sono rari se non rarissimi.

Ma è probabile che a quell’epoca le aurore fossero visibili più a sud di oggi, in quanto è dimostrato che

il polo magnetico terrestre a quell’epoca si trovava più a sud dell’attuale.

Tra le principali interpretazioni possiamo trovare quella di Ippocrate che nel V secolo a.C. circa

affermò che si producessero in seguito alla riflessione della luce solare e quella del greco Annassimene

che nel 450 a.C. suppose che le aurore fossero causate da vapori ardenti che cadevano dal cielo e si

accumulavano sulle nuvole fino a incendiarsi.

Aristotele, Seneca e Plinio invece si limitarono a darne semplicemente una descrizione o a raccontarne

un aneddoto.

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Durante il Medioevo si era diffusa in tutta Europa la percezione dell'aurora come messaggio di

sventura o di punizione divina. In particolare la spaventosa visione della sfera celeste che si accendeva

di rosso intenso, aveva spinto gli osservatori a credere che il fenomeno preannunciasse guerre,

pestilenze e terremoti.

Nel tempo, fino all’età moderna, numerosi avvenimenti furono associati all’apparizione delle

aurore. Nel 44 a.C. un’aurora preannunciava l’assassinio di Giulio Cesare; nel 566 d.C. veniva prevista

l’invasione dei Longobardi in Italia, avvenuta nel 569; la morte di Thomas Becket avvenuta nel 1170

fu anticipata da una manifestazione aurorale; il 15 gennaio 1192 preannunciò la carestia che scoppiò in

Europa nel 1192; l’8 ottobre 1728 era preavviso del terremoto verificatosi in Sicilia e in Inghilterra;

infine uno degli ultimi avvenimenti associati all’avvistamento di un’aurora, fu lo scoppio della II

Guerra Mondiale, preannunciata il 25 gennaio 1938 da un’aurora color rosso intenso visibile in gran

parte d’Europa.

Solo nei primi anni del Novecento, grazie ai contributi di numerosi scienziati che a partire dal

Seicento cominciarono a fare luce sui misteri che l’aurora celava dietro la sua origine, si è riusciti a

scoprire che essa si genera in seguito all’interazione tra le particelle del vento solare con i gas che

compongono l’alta atmosfera terrestre. Si dissolsero così tutte le superstizioni che la loro inspiegabile

origine aveva creato.

La comprensione del meccanismo di formazione dell’aurora è stato possibile grazie a una rivoluzione

nelle conoscenze scientifiche sull’ambiente magnetico della Terra.

Per molto tempo si è supposto che il campo magnetico terrestre fosse essenzialmente un campo di

dipolo, come quello di un magnete a barra, in cui le linee di forza del campo magnetico decorrono, dal

polo sud al polo nord, simmetricamente rispetto all’asse geomagnetico.

Ma la Terra non è immersa nel vuoto; essa è continuamente investita dal vento solare, un plasma

diluito di ioni idrogeno (protoni) e di elettroni emessi dalla corona solare.

Il vento solare confina il campo magnetico terrestre in un volume di forma simile ad una cometa, la

magnetosfera. Sul lato rivolto al Sole il vento solare comprime la magnetosfera fino a una distanza dal

nostro pianeta pari a circa dieci volte il raggio solare. Sul lato opposto la magnetosfera è delimitata in

una struttura a forma di manica a vento, la coda magnetosferica, che si estende per di più di mille volte

il raggio terrestre.

La magnetosfera contiene plasmi rarefatti di densità e temperatura diversi, derivanti dal vento solare e

dalla ionosfera interagenti.

Negli anni sessanta i fisici iniziarono a rendersi conto del fatto che il vento solare può estendere e

trasportare il campo magnetico della corona fino alle frange più lontane del sistema solare, dando così

origine al campo magnetico interplanetario.

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Questo campo magnetico può fondersi con le linee di forza del campo geomagnetico che hanno

origine nelle regioni polari della Terra. Questo fenomeno, chiamato riconnessione magnetica avviene

con la massima efficienza quando il campo magnetico del vento solare è orientato verso sud, ossia

quando è antiparallelo al campo terrestre.

Le particelle del vento solare fluiscono lungo il confine della magnetosfera, la magnetopausa, e

attraversano le linee del campo magnetico riconnesse. Gli ioni positivi e gli elettroni, avendo carica

elettrica opposta, sono deflessi in direzioni opposte e generano una corrente elettrica. Infatti la

magnetopausa costituisce un gigantesco generatore che trasforma l’energia cinetica delle particelle del

vento solare in energia elettrica, con una produzione di più di un milione di megawatt. Questo

meccanismo alimentato dall’interazione tra il vento solare e la magnetosfera è il “generatore aurorale”.

Il meccanismo del generatore spinge gli ioni positivi verso il lato dell’alba del piano equatoriale della

magnetopausa, formando una sorta di terminale positivo; mentre gli elettroni sono deflessi verso il lato

del crepuscolo o terminale negativo.

Nei plasmi rarefatti permeati da linee del campo magnetico gli elettroni, a causa della forza di Lorenz,

si muovono lungo traiettorie elicoidali che si avvolgono intorno alle linee di forza del campo

magnetico.

Il passo della traiettoria elicoidale dell’elettrone tende a diminuire via via che l’elettrone si avvicina

alla Terra, dove il campo è più intenso. Il suo moto diventa puramente circolare a quote molto

superiori alla ionosfera, e a quel punto l’elettrone è riflesso verso l’alto. Tuttavia le aurore indicano che

gli elettroni sono in grado di penetrare in profondità nella ionosfera.

Il processo comincia quando gli elettroni delle correnti alternate formano con il campo fasci sottili,

laminari. Quando nella magnetosfera viene "pompata" abbastanza energia e i fasci laminari

raggiungono un’intensità sufficientemente elevata, intorno ai fasci si sviluppa un particolare campo

elettrico, la cosiddetta “struttura di potenziale aurorale” a una quota compresa tra i 10 mila e i 20 mila

chilometri.

La regione interna alla struttura sembra suddividersi in strati aventi carica positiva e negativa, che

danno origine a un campo elettrico interposto molto intenso.

L’esatta natura di una struttura a doppio strato presente nell’alta atmosfera è attualmente oggetto di

discussione.

Comunque sembra che gli elettroni vengano accelerati verso il basso dal campo elettrico associato al

doppio strato. Nel momento in cui arrivano all’estremità inferiore della struttura di potenziale aurorale

essi possiedono un’energia di alcune migliaia di elettronvolt, sufficiente per farli penetrare fino a una

quota dove l’atmosfera è abbastanza densa da rendere le manifestazioni aurorali visibili ad occhio

nudo.

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Quando gli elettroni, accelerati dalla struttura di potenziale aurorale, colpiscono le molecole e gli

atomi nella bassa ionosfera questi ultimi emettono delle radiazioni. Gli urti dissociano le molecole in

atomi eccitati che emettono radiazioni nel campo del visibile e a varia lunghezza d’onda cui

corrisponde un determinato colore, mentre ricadono a un livello energetico più basso.

Gli elettroni rallentati dalle collisioni possono anche emettere raggi X.

Un’altra radiazione è prodotta quando gli elettroni deviati colpiscono ed eccitano gli atomi; questi

possono anche venire ionizzati e poi emettere radiazioni nel ricombinarsi con gli elettroni.

Una delle ultime teorie sulla genesi del fenomeno aurorale che mostra ancora molti punti oscuri, pone

in particolare risalto la cattura delle particelle del vento e il loro successivo moto spiraloide intorno alle

linee del campo nelle fasce di Van Allen.

Quando queste sono sovraccariche, gli elettroni e i protoni in eccesso entrano nell'alta atmosfera, in

corrispondenza delle due aree centrate nei poli nord e sud magnetici, zone dove il campo magnetico

terrestre è praticamente verticale e dove le particelle precipitano, provocando collisioni con i gas

atmosferici e generando le aurore.

L’energia del generatore aurorale è controllata dall’attività solare, in particolare da eventi quali

brillamenti solari e l’espulsione di grandi quantità di gas coronale, che generano onde d’urto che si

propagano nel vento solare. Subito dopo il fronte d’onda il vento solare raggiunge una velocità

compresa fra i 500 e i 1000 chilometri al secondo, cosicché il campo magnetico interplanetario viene

compresso e perciò incrementato. Quando l’onda d’urto collide con la magnetosfera, l’energia prodotta

dal generatore può balzare a 10 milioni di megawatt. In queste situazione può prodursi una tempesta

magnetica durante la quale l’ovale aurorale (zona ovale continua che le aurore creano intorno ai poli)

si allarga in modo anomalo.

L’emissione rossa degli atomi di ossigeno, alla lunghezza d’onda di 630 nanometri, risulta

notevolmente accentuata in queste aurore, forse perché l’incremento di energia eccita termicamente gli

atomi di ossigeno a livelli energetici più elevati.

Contemporaneamente l’intensificazione delle correnti nelle fasce di Van Allen dà origine ad intensi

campi magnetici anche alle basse latitudini e al suolo.

Un altro fenomeno solare che influenza l’attività aurorale è rappresentato dai “buchi” coronali

(regioni prive di macchie solari). Questi buchi, che sono particolarmente sviluppati durante la fase

declinante del ciclo di attività solare, generano flussi di vento solare di alta velocità.

Le aurore, come già ampiamente espresso, sono provocate da protoni ed elettroni precipitanti

sull’atmosfera terrestre.

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L'aurora polare è un fenomeno permanente, ma la sua frequenza dipende fortemente dall'attività

solare; subisce infatti un sensibile aumento durante i periodi di massima attività solare (ciclo

undecennale).

Le aurore creano, intorno ai poli magnetici di entrambi gli emisferi, una zona ovale continua, ovale

aurorale, la cui proiezione sulla Terra determina la zona aurorale dove i fenomeni possono essere

osservati più frequentemente e con un'intensità maggiore.

L'ovale aurorale varia con l'attività solare, quando quest’ultima aumenta, l’ovale si allarga verso

l'equatore.

Il massimo di frequenza aurorale si registra in una fascia compresa tra 60° e 70° di latitudine ma si

verificano anche a latitudini inferiori quando l'attività solare è molto intensa.

Per quanto concerne la loro durata questa si prolunga per un periodo notevole durante l’anno del Sole

"inquieto", cioè quello che si verifica ogni undici anni di relativa quiete, quando il fenomeno è

studiabile solo con strumenti ottici e spettroscopici.

I limiti superiori sono compresi tra i 100 e i 300 km, mentre i limiti inferiori tra gli 85 e i 170 km,

con due massimi ben definiti uno a 100 e l'altro a 106 km. L'estensione può raggiungere perfino i 500

km.

La luminosità aurorale si manifesta quando i fasci di elettroni in arrivo subiscono collisioni ad alta

energia con la ionosfera eccitando o ionizzando atomi e dissociando molecole con la formazione di

altri atomi allo stato eccitato.

Gli atomi eccitati e quelli ionizzati emettono radiazioni in un ampio intervallo spettrale

(dall’ultravioletto estremo all’infrarosso) via via che gli atomi eccitati ritornano ai livelli di energia più

bassi e gli ioni si combinano con elettroni liberi.

L’emissione aurorale più comune è una luce verde-biancastra con la lunghezza d’onda di 557,7

nanometri, che è emessa da atomi di ossigeno. Una bella emissione rosa è prodotta da molecole

eccitate di azoto. Diversi atomi e molecole presenti nella ionosfera danno origine a emissioni aurorali

delle lunghezze d’onda dell’estremo ultravioletto, dell’ultravioletto e dell’infrarosso, che non possono

essere osservate da terra perché vengono assorbite dall’atmosfera.

Tre sono i principali aspetti che influenzano il colore dell'aurora: i gas che compongono l'atmosfera,

l'altezza alla quale si sviluppano e l'energia posseduta dalle particelle del vento solare.

Il primo è molto importante perché ogni gas dell'atmosfera, una volta eccitato emette luce con delle

frequenze caratteristiche e quindi il colore dell’aurora può essere considerato come “l’impronta

digitale” dell'atmosfera perché permette di risalire alla sua composizione.

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Anche l'altezza è determinante: al di sotto dei 120 chilometri, l’aurora assumerà un colore blu o viola;

tra i 120 e i 180 chilometri avrà un colore verde scuro (Figura 3.35); al di sopra dei 180 chilometri si

avrà un colore rosso intenso (Figura 3.36) (planet.racine.ra, 2006).

Figura 3.35 - Aurora verde (Fonte: Marco Togni, 2013)

Figura 3.36 - Aurora rossa (Fonte: Forwwalpaper, 2013)

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L’energia delle particelle eccitatrici è molto influente perché se, per esempio, la collisione con un

atomo avviene con particelle molto energetiche, il rilascio di energia sarà notevole e l'aurora avrà un

aspetto tendente al blu-violetto (Figura 3.37).

Figura 3.37 - Aurora blu-viola (Fonte: Marco Togni, 2013)

Se invece il vento solare non è molto energetico l'energia finale rilasciata tingerà l'aurora di una

sfumatura rossa molto tenue (Figura 3.38).

Figura 3.38 - Aurora rosata (Fonte: Marco Togni, 2013)

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L’intensità dell’aurora è legata all’attività solare.

Non sempre le aurore sono visibili ad occhio nudo a causa della loro bassa luminosità, ma oggi con i

moderni strumenti ottici si riescono ad osservarle tutte perfino quelle di intensità minima.

In base ai dati ottenuti da varie osservazioni è stato possibile individuare 5 classi principali di

luminosità corrispondenti alla luminosità di altri corpi celesti luminosi conosciuti.

- Luminosità 0 – Aurore visibili solo con strumenti ottici (kRa minore di 1)

- Luminosità 1 – Aurore di luminosità paragonabile alla Via Lattea, hanno un colore bianco (1

kRa)

- Luminosità 2 – Aurore di luminosità paragonabile ai cirri illuminati dalla Luna, hanno colori

appena visibili e tendenti al giallo-verde (10 kRa)

- Luminosità 3 - Aurore di luminosità paragonabile a grosse nuvole illuminate dalla Luna, hanno

colori molto evidenti (100 kRa)

- Luminosità 4 - Aurore di luminosità paragonabile alla Luna piena, hanno colori netti ed

effimeri (1000 kRa)

Esiste una varietà infinita di forme tra cui possiamo trovare (Figura 3.39,

Figura 3.40, Figura 3.41 Figura 3.42):

- Forma ad arco (A): corrisponde alla forma più comune, tipica dei periodi con bassa attività

solare. Appare come un nastro luminoso in apparenza allineato ad un parallelo geomagnetico

lungo fino a numerose migliaia di chilometri, con dimensione trasversale di qualche decina di

chilometri e con spessore che varia da 200 m a qualche chilometro.

- Forma a banda (B): Tipica dei periodi di attività solare medio-bassa. Formata da un arco con

ampie pieghe serpeggianti.

- Forma a chiazza (P): Formata da piccole regioni di luminosità. Ha una colorazione bianca.

- Forma a raggio (R): Tipica dei periodi con elevata attività solare. I raggi si allineano lungo il

campo magnetico terrestre e le variazioni di forma avvengono velocemente. La lunghezza dei

raggi può arrivare a parecchie centinaia di chilometri.

- Forma a velo (V): Caratterizzata da luminosità uniforme che copre una gran parte del cielo.

- Forma a ricciolo: Deriva da una rotazione in senso antiorario. Ha un diametro compreso tra 1 e

5 chilometri.

- Forma a piega: Si presenta come una curva a forma di S.

- Forma a drappeggio: Formata da una banda a lunghi raggi con delle pieghe.

- Forma a spirale: Si verifica durante condizioni disturbate.

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- Forma a corona: Compaiono nei periodi di massima attività solare. Appaiono come un cerchio

luminoso in corrispondenza dello zenith. Si muove e cambia molto velocemente.

- Forma a tenda: La larghezza delle bande e la lunghezza dei raggi occupa quasi tutto il cielo. La

sua intensità varia molto velocemente.

Figura 3.39 - Aurora boreale (Fonte: Marco Togni, 2013)

Figura 3.40 - Aurora boreale (Fonte: Marco Togni, 2013).

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Figura 3.41 Aurora boreale (Fonte: Marco Togni, 2013)

Figura 3.42 - Aurora boreale (Fonte: Marco Togni, 2013).

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Altri due aspetti sono molto importanti per la distinzione delle varie aurore: la struttura e il

comportamento.

In base alla struttura vengono definite:

- Omogenee: quando manca una struttura interna.

- Striate: quando sono formate da filamenti.

- Radiali: quando sono costituite da raggi.

In base al comportamento si distinguono in:

- Calme: quando hanno una luminosità stabile.

- Pulsanti: quando si verifica un ritmico affievolirsi e brillare di luce con una periodicità di 10-

100 secondi.

- Tremolanti: quando avvengono rapidi cambiamenti di intensità, circa 5-10 volte al secondo.

- Fiammeggianti: quando sono visibili delle variazioni di luminosità dal basso all'alto.

- Fluenti: quando la luminosità aumenta orizzontalmente (planet.racine.ra, 2006).

3.6 Prospettive per il Sole

E’ ora giunto il momento di affrontare il momento più tragico che aspetta il nostro Sole, ovvero la

sua “morte”.

Si ricordi che la vita di una stella verte sul delicato equilibrio tra la forza gravitazionale, che

tenderebbe a far collassare tutto il sistema, e le reazioni di fusione termonucleari (innescate

paradossalmente dalla prima forza) che, al contrario, farebbero espandere la stella nell’immensità del

cosmo. Questo equilibrio, che dura sino all’esaurimento dell’idrogeno all’interno del nucleo, persiste

nel nostro Sole da più di 4 miliardi di anni e continuerà per periodo altrettanto lungo. Ma prima o poi

l’idrogeno nel nucleo finirà e il Sole, come tutte le stelle, inizierà la sua ultima fase di vita, fase diversa

da stella a stella in quanto dipende dalla massa iniziale della stella stessa.

Per capire meglio l’evoluzione stellare ci aiuteremo con il diagramma H-R (Figura 3.43),

diagramma che mette in relazione la luminosità di un astro (espressa in magnitudine assoluta) con la

sua temperatura. Come si vede dalla figura sotto riportata, il digramma evidenzia una diagonale

principale, detta appunto sequenza principale, e due “isole”: in alto a destro a rappresentare le giganti

rosse ed in basso a sinistra a rappresentare la zona della nane bianche (Astrogeo.va, 2014).

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Figura 3.43 - Diagramma H-R (Fonte: Astrogeo.va, 2014)

Attualmente il Sole si trova a metà della sequenza principale e ci resterà per altri 4 miliardi di anni.

All’esaurirsi dell’idrogeno la gravità, non più bilanciata dalle reazioni nucleari, prenderà il

sopravvento e il nucleo (e solo lui!) subirà una prima contrazione. La contrazione provocherà un

riscaldamento del gas e il calore sviluppato porterà ad una espansione degli strati di idrogeno

sovrastanti. Il Sole tenderà ad aumentare il suo raggio fino ad inghiottire l’orbita di Mercurio e forse

Venere, arrivando forse a sfiorare Marte, il suo colore virerà da giallo a rosso e la sua vicinanza

renderà quasi impossibile la vita sulla Terra. Il Sole è ora nella fase di Gigante Rossa (e si sposterà in

alto a destra nel diagramma H-R).

Nel nucleo collassato, grazie all’innalzamento improvviso di temperatura, si riaccenderà, ma solo

come un ultimo grido, la fornace nucleare dando inizio alla fase chiamata helium flash ovvero la

fusione dell’elio in carbonio che coinvolge solo la parte più interna del nucleo. Dopo quest’ultima

fiammata il Sole subirà un’ulteriore contrazione che darà come risultato finale la formazione di una

nana bianca con conseguente nebulosa planetaria, ovvero l’alone di gas espansi che brillano nel cosmo

grazie a meccanismi di eccitazione-riemissione provocati da fotoni emessi dalla stella centrale.

Una nana bianca è un oggetto molto denso che brilla in cielo grazie al calore emanato dalla sua

caldissima superficie (non esiste nessun meccanismo interno di produzione dell’energia). Secondo le

più fondate previsioni, la nana bianca che nascerà dal Sole avrà un diametro di circa 15000 Km e sarà

così circa 100 volte più piccolo delle dimensioni attuali ma con una temperatura superficiale 10 volte

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maggiore. Dato che la luminosità di una stella è proporzionale al quadrato del suo raggio e alla quarta

potenza della sua temperatura, la nana bianca che resterà avrà comunque una luminosità paragonabile a

quella del Sole originale.

Infine, una nana bianca è inevitabilmente destinata a spegnersi, vagare nello spazio in modo

invisibile disperdendo giorno dopo giorno l’aureola di gas che ne formavano, prima gli strati più

esterni e successivamente la nebulosa planetaria (Astrogeo.va, 2014).

Per capire quale sarà l'evoluzione finale di una stella come il Sole, gli astrofisici guardano altri

sistemi stellari ed in particolare essi hanno osservato di recente la morte di una stella di tipo solare che

si trova ad una distanza di circa 550 anni-luce. La stella, denominata Chi Cygni , ha cominciato a

pulsare come una sorta di gigantesco cuore e si trova attualmente nelle sue fasi finali del ciclo di

evoluzione stellare (astronomicamentis.blogosfere, 2010).

.

Figura 3.44 - Chy Cygni (Fonte: astronomicamentis.blogosfere, 2010).

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I dati indicano che le pulsazioni non sono solamente di tipo radiale, ma casuali, forse dovute a delle

disomogeneità, come la grande macchia rossa apparsa quando la stella si trova alla dimensione

minima. Le stelle che si trovano in questa fase sono note come variabili di tipo Mira. Una volta che

inizia il ciclo di pulsazione, la stella butta fuori gli strati più esterni che creano successivamente, dopo

qualche centinaia di migliaia di anni, una spettacolare nebulosa planetaria. Chy Cygni ha un ciclo di

pulsazione pari a 408 giorni e quando si trova nella fase di minimo appaiono sulla superficie macchie

di plasma ad altissima temperatura che formano una struttura granulare, analoga a quella che si osserva

sulla superfice del Sole, ma la dimensione dei granuli è molto più grande. Si calcola che man mano che

la stella si raffredda e diventa via via sempre più debole, il suo diametro aumenta sempre di più al

punto che, nel Sistema Solare, raggiungerebbe la fascia degli asteroidi.

Bisogna dire che lo studio di questi oggetti è molto complesso. Ad esempio, nel caso delle variabili

di tipo Mira, le stelle si trovano all'interno di un guscio denso e compatto costituito da polveri e gas.

Quindi per osservare la superficie della stella, gli astrofisici devono utilizzare la banda infrarossa dello

spettro elettromagnetico. Inoltre, le stelle si trovano a distanze enormi perciò appaiono molto piccole.

Anche se esse hanno le dimensioni tipiche di una stella come il Sole, la distanza a cui esse si trovano li

rende tali al punto che diventa come osservare dalla Terra una casetta sulla superficie della Luna. I

telescopi tradizionali non hanno l'adeguato potere esplorativo perciò gli scienziati devono ancora una

volta ovviare il problema facendo uso della cosiddetta tecnica interferometrica che permette di

combinare la luce proveniente da diversi telescopi per arrivare ad avere un potere esplorativo pari a

quello di un singolo telescopio che ha le dimensioni equivalenti alla distanza a cui si trovano i singoli

strumenti ottici (astronomicamentis.blogosfere, 2010).

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4. Conclusioni

Mano a mano che continuavo con le mie ricerche scoprivo nuovi argomenti estremamente interessanti.

Ho dovuto fare una selezione su quali riportare in maniera approfondita e quali invece limitare ad una

descrizione generica. L’argomento è davvero vasto, troppo per poter essere approfondito in maniera

esauriente in questo contesto, anche perché per entrare nei dettagli dei processi sono necessarie

conoscenza fisico-matematiche al momento fuori dalla mia portata. Mi sono quindi limitata ad

un’introduzione generica sulla vita delle stelle per contestualizzare il lavoro e ad approfondire solo

determinati aspetti del Sole, lasciando tuttavia molti altri appena abbozzati.

È stato un lavoro molto interessante e soddisfacente, che mi dato informazioni di base sulla fisica

stellare oltre a permettermi di approfondire molti argomenti che mi interessavano in modo particolare.

Mi ha molto interessato ripercorrere la storia delle scoperte, vedere come intuizioni portano a

scoperte straordinarie e come ogni dettaglio contribuisce ad approfondire il quadro. Tutte le scoperte

sono collegate tra loro.

Inoltre ho studiato i meccanismi che portano alla formazione di fenomeni che noi osserviamo

comunemente, ma sui quali raramente ci interroghiamo, come la catena protone-protone che ci fornisce

l’energia per vivere sotto forma di calore, o che osserviamo meno comunemente, come le eclissi o le

aurore polari. È straordinario come è possibile osservare e riscoprire il mondo da un altro punto di

vista, interrogandosi su ogni dettaglio e cercando una spiegazione per tutto.

Ringrazio i miei insegnanti, in particolare Mosè Nodari, e il direttore della Specola Solare di

Locarno, Marco Cagnotti.

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