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Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali Roma, 25 settembre 2012 Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari Camera dei Deputati

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Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali

Roma, 25 settembre 2012 Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari

Camera dei Deputati

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La presente pubblicazione è stato curata da Stefania Forte e Alessandro Riccardo Ungaro dell’Istituto Affari Internazionali.

© Ottobre 2012 IAI

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Indice

Premessa p. 5

Messaggio del Consigliere Militare del Presidente della Repubblica p. 7

Saluti introduttivi del Presidente della Camera dei Deputati p. 8

Intervento del Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri, Staffan De Mistura p. 12

Sessione 1 p. 16

I relatori p. 17

Introduzione di Paolo Magri p. 18

Sintesi del dibattito p. 20

Sessione 2 p. 26

I relatori p. 27

Introduzione di Mario Arpino p. 28

Sintesi del dibattito p. 30

Intervento del Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri, Marta Dassù p. 37

Sessione 3 p. 41

I relatori p. 42

Introduzione di Vincenzo Camporini p. 43

Sintesi del dibattito p. 45

Sessione 4 p. 51

I relatori p. 52

Introduzione di Michele Nones p. 53

Sintesi del dibattito p. 55

Discorso conclusivo del Ministro della Difesa p. 60

Allegati p. 66

Approfondimenti p. 67

Programma p. 68

Rassegna stampa p. 70

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Via Angelo Brunetti 9 00186 Roma Tel.: +39 06 3224360 Fax: +39 06 3224363 E-mail: [email protected]

www.iai.it

Nato oltre 70 anni fa, l’ISPI persegue da sempre alcuni obiettivi primari:

Promuovere la conoscenza delle problematiche

internazionali (con una particolare attenzione alla politica e all’economia)

Favorire la consapevolezza del ruolo dell’Italia in

un contesto globale in continua evoluzione

Fornire un forum di discussione, analisi e dibattito ad alto livello

Preparare individui destinati ad operare in ambiti

internazionali. L’attività dell’Istituto è caratterizzata da un approccio interdisciplinare – assicurato dalla stretta collaborazione tra specialisti in studi economici, politici, giuridici, storici e strategici, provenienti anche da ambiti non accademici – e dalla partnership con analoghe istituzione di tutto il mondo.

Promotori

Ente senza fini di lucro, lo IAI fu fondato nel 1965 su iniziativa di Altiero Spinelli, suo primo direttore.

L'Istituto mira a promuovere la conoscenza dei problemi della politica internazionale e contribuire all'evoluzione del mondo verso forme di organizzazione sopranazionale (art.1 dello Statuto). Il finanziamento è assicurato dai soci individuali e collettivi, da enti pubblici e privati, dalle principali fondazioni nazionali e internazionali e da un contributo di legge erogato dal Ministero degli Esteri. L'Istituto persegue quattro obiettivi: ricerca, promozione di idee e strategie politiche, diffusione delle conoscenze e formazione.

Via Clerici 5 20121 Milano Tel.: +39 02 8633131 Fax: +39 02 8692055 E-mail: [email protected]

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Premessa

E’ con grande soddisfazione che siamo lieti di presentare la pubblicazione degli atti del convegno “L’Italia e le missioni internazionali” svoltosi presso la Camera dei Deputati il 25 settembre 2012 sotto l’Alto Patronato del Presidente della

Repubblica. Come promotori e organizzatori del convegno, l’Istituto Affari Internazionali (IAI) e l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) hanno constatato con pia-cere una eccezionale partecipazione di pubblico nonché il profondo interesse suscitato dall’iniziativa presso il mondo istituzionale, politico, militare, accademi-co ed industriale. Il convegno è stato un’occasione unica per favorire un dibattito aperto sul ruolo che l’Italia svolge da oltre 30 anni nelle missioni internazionali di pace, analizzando la situazione negli scenari di crisi e l’efficacia dell’azione italiana. Le quattro diverse sessioni hanno approfondito come vada ripensato lo strumento delle missioni internazionali nel contesto globale attuale cercando di rispondere alla domanda su che ruolo l’Italia voglia e possa svolgere a livello internazionale. Come riconosciuto dallo stesso Presidente della Camera, On. Gianfranco Fini, che ha inaugurato i lavori “è necessario che le forze politiche e la società civile

operino per mantenere alto il sostegno alle nostre missioni anche in una fase in cui la scarsità di risorse finanziarie può aprire la strada a tentazioni di rinun-cia”. Nel concludere il convegno, gli ha fatto eco il Ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, sostenendo come l’Italia debba “contribuire fattivamente alla sicurez-za globale mettendo a disposizione degli organismi internazionali uno strumento militare moderno, integro ed efficace: bisogna ristrutturare, riformare, concen-trarsi per mantenere operatività e capacità di intervento”. Siamo persuasi che il riconoscimento dell’utilità e del valore della partecipazio-ne italiana alle missioni internazionali passi anche per un sostegno il più possibi-le informato, convinto e consapevole da parte delle autorità istituzionali, del mondo politico e della società civile. Ci auguriamo quindi che tale iniziativa, promossa dallo IAI e dall’ISPI, abbia costituito un piccolo ma importante contri-buto in questa direzione. Stefano Silvestri Giancarlo Aragona Presidente IAI Presidente ISPI

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Nuova Aula del Palazzo dei Gruppi Parlamentari Camera dei Deputati

L’Aula

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MESSAGGIO DEL CONSIGLIERE MILITARE DEL PRESIDENTE DELLA

REPUBBLICA

GEN. ROLANDO MOSCA MOSCHINI

In occasione del convegno “Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali”, che si terrà sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, il Capo dello Stato, mio tramite, desidera esprimere il suo vivo apprezzamento per l’iniziativa. Nel contesto della comunità internazionale, l’Italia garantisce ormai da oltre vent’anni, un contributo altamente significativo al mantenimento della pace ed al ripristino di condizioni di stabilità e di sicurezza nei teatri di crisi. In tempi recenti, l’ulteriore rapida evoluzione degli scenari, con il sopraggiunge-re di una grave e persistente contingenza economico-finanziaria e l’emergere di nuove potenziali cause di conflittualità, ha posto l’esigenza di una profonda riqualificazione degli interventi e dell’organizzazione delle Forze armate, fermo restando l’impegno del paese, in ambito Onu, Unione europea e Nato. Il convegno potrà utilmente concorrere all’importante processo di trasformazio-ne intrapreso dai dicasteri degli Esteri e della Difesa, per la definizione di un

nuovo e più efficace approccio alla cooperazione multinazionale e per una ra-zionalizzazione dello strumento militare nazionale volta ad incrementarne l’efficienza e a finalizzarne più specificamente le capacità ai prioritari compiti da assolvere. In questa prospettiva, trasmetto a tutti i convenuti l’augurio di buon lavoro del Capo dello Stato ed il Suo cordiale saluto, cui unisco il mio personale.

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Autorità, signore e signori, il convegno che si tiene oggi per

iniziativa di due prestigiosi istituti di ricerca – lo IAI e l'ISPI – vedrà impe-gnati rappresentanti del Governo, parlamentari ed esperti delle rela-zioni internazionali su un tema non scontato e non privo di complessità. L'Alto Patronato del Presidente della

Repubblica, l'autorevolezza dei due istituti promotori, i documenti preparatori del convegno, e la complessa fase internazionale nella quale questa iniziativa si colloca, pongono i relatori di fronte ad un obiettivo ben più ambizioso di quanto non appaia dalla traccia fornita dal titolo del convegno. A trent'anni dall'avvio delle storiche missioni in Libano, che segnarono l'inizio della nostra presenza internazionale, non sarebbe certo inutile rivisitare un ca-pitolo della storia del nostro paese, ripercorrendone le scelte – spesso corag-

giose – e ricordando, altresì, tanti episodi di sacrificio, alto senso del dovere e profonda umanità, che hanno visto protagonisti i soldati dei nostri contingenti. Tuttavia credo che le domande che il convegno di oggi pone richiedano una prospettiva rivolta in primo luogo agli scenari futuri, partendo dal fatto che l'attuale scenario internazionale è caratterizzato da una maggiore imprevedibi-lità del quadro geo-strategico rispetto al passato. Gli anni Novanta sono stati caratterizzati da un deciso affermarsi della cultura dei diritti umani nel mondo e dalla diffusione dei valori di libertà e democrazia, specie a seguito del processo di dissoluzione dell'Unione Sovietica. L'avvicina-mento di popoli e culture molto diversi tra di loro in nome di questi valori ave-vano determinato un diffuso clima di ottimismo nella comunità internazionale. Sembrò allora più vicina la creazione di un mondo nel quale libertà, prosperità e diritti non trovassero più alcun ostacolo. In realtà gli indicibili orrori del Ruanda e della Bosnia ammonivano già allora

sui pericoli sempre presenti del fanatismo, dell'intolleranza e della barbarie. Oggi, dopo gli eventi tragici del primo decennio del nuovo millennio, la comuni-tà internazionale affronta con rinnovato timore le sfide che ha di fronte e che assumono in primo luogo la forma del terrorismo fondamentalista, dell'odio etni-co-religioso, dell'intolleranza nazionalista.

SALUTI INTRODUTTIVI DEL PRESIDENTE DELLA CAMERA DEI DEPUTATI

ON. GIANFRANCO FINI

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Fenomeni che la crisi economica mondiale negli ultimi anni ha rafforzato crean-do situazioni di forte disagio sociale in molte parti del mondo e determinando condizioni favorevoli al riemergere di forze oscure e distruttive. Occorre evitare un duplice rischio; il primo è ritenere che i processi in corso sia-no caratterizzati da meccaniche di carattere deterministico sulle quali la comuni-tà internazionale non può in realtà intervenire o può comunque fare poco. Il secondo consiste nel perdere un chiaro orizzonte strategico, sotto la pressione delle contingenze e sulla base di interessi di breve periodo. Stiamo certamente vivendo una delle grandi svolte della storia. Molto più gran-de e più profonda di quanto forse il nostro sguardo non riesca ancora ad ab-bracciare. E' prudente, quindi, non sottovalutare l'importanza di ciò che accade intorno a noi e la rete fittissima di interdipendenze della quale siamo parte. Perché è proprio nei grandi tornanti della storia che riprendono vigore gli o-rientamenti più profondi, i caratteri dei popoli e la storia delle comunità, come ci ricorda il recentissimo saggio di un maestro del pensiero geopolitico, Robert Kaplan, "La vendetta della geografia". S'iniziano a intravedere alcune tendenze di fondo, quali l'emergere di nuove potenze regionali, l'esigenza di un maggiore impegno degli alleati europei ri-spetto alla sicurezza e stabilità regionali, la focalizzazione dell'impegno ameri-cano verso l'area asiatica e il Pacifico.

Per affrontare efficacemente questo nuovo e difficile contesto occorre evitare ogni tensione dialettica tra interesse nazionale e dinamiche mul-tilaterali. E' un compito che investe in pieno la politica nelle sue finalità più alte, quelle che mirano alla defini-zione del destino di una comunità. Non è infatti possibile mettere a fuoco l'interesse nazionale senza

considerare gli obiettivi di fondo della comunità internazionale e la necessaria dinamica della cooperazione, bilaterale e multilaterale. E al tempo stesso, dob-biamo essere consci che risulterebbe in fondo sterile il nostro apporto all'azione comune se tra i decisori politici e nella coscienza profonda del paese si indebo-lisse l'attenzione al nostro interesse nazionale. Grazie alla partecipazione alle missioni internazionali l'Italia ha incrementato la sua credibilità internazionale, acquisendo un ruolo più incisivo specie nell'ambito dell'Unione europea e della Nato. Ciò è dipeso dall'impegno profuso e dalla serietà con la quale abbiamo affrontato queste missioni, alcune delle quali nei contesti più pericolosi e difficili del pianeta. Un ruolo non minore ha svolto la

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particolare filosofia che anima l'operato dei nostri uomini, tanto da far parlare, in ambito internazionale, di un modello italiano di peace-keeping, caratterizzato dalla specifica attenzione alle esigenze della popolazione civile e più in gene-rale agli aspetti umanitari, culturali e relazionali. Voglio ricordare come il Co-mandante della missione ISAF in Afghanistan, il Generale Allen, abbia elogiato le soluzioni adottate dagli italiani, nell'ambito del Regional Command West, nel campo dello stato di diritto, del coordinamento con le forze di sicurezza afgane e della vicinanza alla popolazione locale, dichiarando quanto esse siano state vincenti e di esempio agli altri contingenti. Tuttavia, questi importanti risultati non devono far perdere di vista l'elemento più importante: l'Italia e i paesi alleati nelle più difficili di queste missioni non difendono soltanto il loro prestigio e non svolgono esclusivamente attività di carattere umanitario. Difendono in primo luogo la sicurezza di tutti e di ciascu-no; è una circostanza che troppo spesso tendiamo a dimenticare, giudicando aree remote quelle che, sul piano geo-strategico, sono invece punti vitali degli attuali equilibri internazionali che, in quanto tali, coinvolgono direttamente an-che nostri interessi fondamentali. Penso in primo luogo all'Afghanistan, paese in cui la comunità internazionale sta pianificando una complessa operazione politico-militare e di State-building, volta a determinare le condizioni per un disimpegno quanto più possibile scevro di rischi.

Penso inoltre alla preziosa opera svolta dalla nostra Marina Militare per tutelare la sicurezza di rotte vitali per il nostro approvvigiona-mento energetico, come quella che dal canale di Suez giunge al Golfo Persico; a questo riguardo è dovero-so rivolgere un pensiero ai due fuci-lieri del Reggimento San Marco, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, dei quali tutti auspichiamo un rapido rientro in Italia. Il nostro interesse nazionale è coinvolto anche dai problemi posti dall'esigenza, di natura non solo tecnica, di garantire l'interoperabilità delle Forze armate di ciascun paese con gli apparati di difesa e sicurezza dei paesi alleati. È un tema che da molto tempo è all'attenzione dei vertici militari e politici e che ha conse-guenze sull'industria della difesa e su tutti i settori ad alta tecnologia, nei quali l'Italia ha ancora importanti eccellenze che occorre sostenere e rafforzare me-diante investimenti significativi ed un costante lavoro di ricerca scientifica e di adeguamento tecnologico. A questo riguardo, le missioni hanno fornito un potente impulso ai processi di

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innovazione delle nostre Forze armate avviati dalla professionalizzazione rea-lizzata con le riforme degli anni '90 e del decennio scorso. Per tali ragioni è necessario che le forze politiche e la società civile operino per mantenere alto il sostegno alle nostre missioni anche in una fase in cui la scarsità di risorse finanziarie può aprire la strada a tentazioni di rinuncia. La congiuntu-ra economico-finanziaria ci impone semmai di definire al meglio i nostri obiettivi e le nostre priorità sullo scenario internazionale. La definizione di un insieme coerente e realistico di obiettivi strategici, tali da indirizzare scelte operative cru-ciali per il futuro della presenza dell'Italia nelle missioni internaziona-li, è quindi punto focale della agen-da politica nazionale e la dovremo definire partendo dalla consapevo-lezza che – da Bruxelles alla riva Sud del Mediterraneo – il quadro internazionale è in rapida evoluzio-ne. A questo fine risulta centrale il ruolo del Parlamento ed è apprezzabile che questo importante convegno sia ospitato alla Camera dei Deputati. Il Parlamen-

to italiano, per espressa disposizione costituzionale, autorizza preventivamente le missioni internazionali, accompagnandole poi nel corso del loro svolgimento. Se guardiamo complessivamente all'esperienza italiana di controllo democratico della partecipazione a contingenti multilaterali, dobbiamo riconoscere che essa ha raggiunto un equilibrio che risulta fra i più avanzati rispetto alle soluzioni politico-istituzionali adottate dalle principali democrazie occidentali: è un mo-dello che ha saputo temperare efficacemente le esigenze di riservatezza e tem-pestività insite nell'azione di Governo e le ragioni del controllo democratico e dell'indirizzo politico, prerogative irrinunciabili del Parlamento. Nel nome di questa consapevolezza, nel dare il benvenuto agli autorevoli rela-tori e graditi ospiti, formulo un fervido augurio di buon lavoro.

Per il video dell’intervento in forma integrale:

http://webtv.camera.it/portal/portal/default/

Archivio?IdEvento=5273&IdIntervento=3619

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Il mio contributo, se permettete, è basato su un’esperienza di 42 anni in 19 zone

di conflitto dove ho visto tante volte in azione sia la Nato che le forze di pace

delle Nazioni Unite e, soprattutto, i nostri soldati ed ufficiali nelle varie opera-zioni di peace-keeping. Quindi mi baserò soprattutto su quel tipo di esperienza nel mio contributo al dibattito di oggi.

Come primo punto forse sarebbe bene non dimenticare da dove ve-niamo, quale è stata l’evoluzione di questo strano “animale” che era co-minciato con un sogno, quello del peacekeeping, ai tempi di Dag Hammarskjöld. Ciò ha avuto un im-patto su come la Nato in ultima ana-lisi, ma noi tutti, abbiamo dovuto adeguarci nel caso di conflitti che cambiavano sia di forma che di na-

tura. La prima fase è ben nota ed è quella del peace-keeping classico, in poche

parole le missioni di caschi blu che venivano schierati quando il conflitto era in teoria terminato, in quanto il principio vigente era “non si può fare la pace tra chi non vuole la pace”. E quindi forse un’azione di intromissione, alla quale con-tribuivano varie nazioni, a volte anche noi come Italia. Queste erano operazioni classiche ed andavano alla lunga senza alti né bassi ma senza gloria né grandi sfide. Un caso esemplare è Cipro, un altro è il Kashmir: sono operazioni presenti in quelle zone da anni e servono a rendere complicata la tentazione a chi vor-rebbe riprendere il conflitto in maniera accidentale, dato che in maniera tradi-zionale può sempre avvenire ma non è mai avvenuto. Poi c’è stata una fase di boom, di esplosione di interventi nel campo del peace-keeping. È stato dopo la caduta del muro di Berlino. Fu allora, quando il mondo ha pensato e creduto che si poteva finalmente concentrarsi sul peacekeeping nella maniera più intensa. Ormai non c’era più la Guerra fredda ma l’opposto, ovvero l’esplosione delle guerre civili. In poche parole, quei regimi o quei go-verni che si erano affidati all’una o all’altra alleanza per giustificare la propria esistenza cominciarono ad avere problemi interni, stimolati poi da interessi e-sterni dando luogo a varie guerre civili. Non sta a me ricordarvi i Balcani, la Somalia, il Ruanda. In poche parole in mancanza di interessi da parte dei gran-di players – i grandi giocatori dell’epoca, da una parte all’altra, cioè l’est e l’ovest – si decideva di affidare all’Onu il ruolo di farlo, il quale ebbe un boom di numeri e di operazioni, ancora di tipo classico sebbene molto più muscolari.

INTERVENTO

ITALIA E NATO NELLE MISSIONI INTERNAZIONALI

STAFFAN DE MISTURA, SOTTOSEGRETARIO DI STATO AGLI AFFARI ESTERI

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Il risultato non posso dire che sia stato buono, è riconosciuto da noi tutti, dall’Onu e dagli stessi Stati membri. L’esempio di Srebrenica, Vukovar , il Ruanda e an-che l’esempio non efficace della Somalia, dove l’operazione dell’Onu fu masto-dontica ma non con i risultati che ci auguravamo. E il Ruanda è stato poi una conseguenza della stanchezza e della delusione dell’operazione in Somalia. Basta vedere i dati. A tutte queste missioni io, prima o poi, sono stato presente ed ho potuto vedere con i miei occhi i limiti. Tanto è vero che abbiamo poi avuto la fase tre, senza dubbio più efficace. Era basata sul concetto di un lead country, uno Stato membro che prendeva per motivi logistici o di interesse geo-politico il lead, e dopodiché una coalition of the willing – un gruppo di nazioni che fossero interessate ad intervenire in termini muscolari – vi si aggregava. Con una benedizione temporanea o una vera e propria decisione di mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu per dargli una legalità e una legittimità. Il risultato non è stato male, basta pensare all’operazione Alba guidata dall’Italia in Albania e all’operazione in Kosovo che alla fine, anche obtorto collo, furono poi legittimate dall’Onu. E poi effettivamente anche Timor Est che era forse quella dove c’era meno interesse geopolitico ma soprattutto interessi di diritti umani. Fu l’Australia in quel caso ad essere il lead country.

La conclusione è che ci si rese conto che la cosa migliore da fare nel pea-cekeeping operation fosse una prima operazione rapida e muscolare, che

normalmente non poteva essere rea-lizzata dall’Onu poiché i tempi del reclutamento e mobilizzazione delle truppe e dell’equipaggiamento era-no lunghi e a volte esitanti da vari veti. Invece quello del coalition of willing con uno Stato lead, che pren-

deva buona parte della responsabilità politica soprattutto logistica per vicinan-za, capacità o interesse particolare, aveva l’effetto di bloccare la crisi in manie-ra muscolare passando poi la palla all’Onu. In poche parole, come un medico e l’ambulanza che arrivano all’improvviso, stabilizzando il paziente ferito e, una volta stabilizzato, si dà all’ospedale che può occuparsene con calma. Ed è qui che entra in gioco la Nato. Avendo visto che queste operazioni, che chiamerei ibride – in cui c’è una combinazione tra la compenetrazione muscolare e quella tradizionale onusiana – avevano una efficacia molto maggiore, ci si è domandati giustamente come sfruttare tale modus operandi tramite una struttura già esistente in grado di rispondere più efficacemente rispetto ad un approccio tipico della coalition of willing. Questo coincise, e la vita è fatta anche di coincidenze storiche e politiche, con una Nato che si domandava cosa fare da grande. Visto che il muro di Berlino era crollato e dato che non c’era più una raison d’etre classica in base allo sta-

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tuto della Nato, la domanda era quindi cosa doveva e poteva fare l’Alleanza in circostanze attuali. Ed è li dove la Nato a mio modesto pare-re ha dimostrato – nonostante la lungaggine classica delle grandi strutture – una capacità di reinven-tarsi, ri-adeguarsi e riaggiustare il

tiro proprio sul tipo di crisi attuali che sono molto più poliedriche e molto più complesse. Il caso classico l’abbiamo visto con la Nato e più recentemente in maniera diversa con la Libia. La domanda seguente è: questi casi possono essere ripetuti? Probabilmente la risposta più onesta sarebbe dire no. Ogni caso è un caso speciale. Tanto è vero che in Siria la Nato non concepisce, neppure a questo punto, un intervento di tipo libico. Come vedete in Afghanistan, la Nato si è trovata ad affrontare un conflitto molto diverso rispetto a quello che si era previsto inizialmente sia in termini di tempo sia di intensità. Invece sono passati 12 anni e ora si procede verso una strategia chiara e decisa della transition e dell’uscita graduale. In questo contesto, che tipo di peace-keeping vediamo nel campo della Nato? L’adeguamento alla realtà. La realtà è che non basta essere rapidi – cosa che la Nato ha dimostrato di poter essere efficacemente e ben oltre il settore pura-mente europeo – ma essere anche capaci di toccare argomenti nei quali nor-malmente non si era preparati, come quello del civil representative che è una ottima istituzione che abbiamo testato efficacemente in Afghanistan. E adesso con un rappresentante sulle questioni delle donne, aspetto fondamentale visto che in quasi tutti i paesi dove si è operato la sensibilità religiosa e culturale verso le donne e i diritti delle donne ci riguarda profondamente. A parte il caso di Bin Laden, l’unico motivo che ci aiuta a confortarci nel fare quel miglio in più di coinvolgimento faticoso, costoso, e purtroppo ancora con sangue nostro, è quello di vedere almeno che la vita futura delle donne in Afghanistan sia mi-gliore di quella che era ai tempi dei talebani. Per ciò che concerne il ruolo dell’Italia – non perché siamo in contesto italiano e senza voler far arrossire i nostri militari che peraltro non arrossiscono – non cre-do che sia un understatement dire che i militari italiani sono diventati veramente delle eccellenze nelle operazioni di peace-keeping e nelle operazioni della Na-to. Lo dico con cognizione di fatto, l’ho visto con i miei occhi. La loro professiona-lità è aumentata enormemente, la loro capacità di comunicare linguisticamente è diventata equivalente e maggiore di molte altre nazioni. Hanno in più un equi-paggiamento che secondo me è molto adeguato con quello che sono oggi le guerre poliedriche e asimmetriche, tipiche dell’Afghanistan e di altre zone. E in più c’è questa componente immodestamente italiana che in alcuni casi viene considerata rara, ma in effetti è molto frequente nel caso italiano: quella capa-cità di adeguarsi a contatto con l’opinione pubblica locale, che è fondamentale

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perché queste operazioni non richiedono una presenza militare pesante, ma piuttosto una stabilizzazione di un paziente del quale vogliamo la complicità e compartecipazione affinché l’operazione sia terminata e passata di mano tra-mite l’addestramento delle forze di polizia, funzione quest’ultima in cui i nostri carabinieri sono un’eccellenza nel panorama internazionale. E’ ovvio che tutto questo richiede sforzo, preparazione e purtroppo a volte anche gravi sacrifici. Domanda: ma allora dovremo in futuro, visti i costi e gli impegni, ridurre la no-

stra presenza in ambito Nato o in generale in queste operazioni? La mia mode-sta opinione è francamente no. Certo, in Afghanistan, se dipendesse dalla mia opinione personale, noi dovremmo fare come gli inglesi, ovvero cominciare a porsi la domanda sui tempi e modi di redeployment interno. Per quel che riguarda la nostra partecipazione a operazioni future di peace-keeping la mia risposta è chiaramente positiva, a condizione che siano suggella-te in qualche forma dall’Onu. Alternativa? L’alternativa sarebbe molto grave, perderemmo la nostra capacità di influenzare le operazioni che sono fonda-mentali nelle zone spesso limitrofe all’Italia. Basti pensare al Mediterraneo e al Libano – dove abbiamo un comandante italiano, una forza delle Nazioni Unite a guida veramente italiana per la seconda volta – dove il nostro interesse e quello del Libano coincidono perfettamente e i nostri interessi potrebbero essere difesi soltanto con una presenza reale, altrimenti non potremmo giocare le no-stre carte. La seconda è perché si tratta di un addestramento veramente effica-ce che avviene in maniera dimostrativa della nostra partecipazione, della partnership che noi abbiamo sempre voluto avere ed aspettarci che gli altri vo-gliano da parte nostra. In poche parole, io credo che l’Italia oggi abbia dimo-strato in ambito Nato e Onu con i propri militari grandi capacità e queste capa-cità vanno messe a frutto sia per l’Italia che per il resto del mondo. Quindi la Nato ha un ruolo e continuerà ad averlo; il segreto sarà nel suo reinventarsi continuamente e ha dimostrato che può farlo. Deve farlo più in fretta e farlo a più riprese perché le cose cambiano. E il ruolo dell’Italia deve continuare come adesso e deve essere un ruolo di eccellenza.

Per il video dell’intervento in forma integrale:

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Sessione 1

LO SCENARIO STRATEGICO INTERNAZIONALE

TRA INSTABILITÀ E AREE DI CRISI

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I RELATORI DELLA PRIMA SESSIONE

Antonello Biagini

Professore ordinario di Storia dell'Europa Orientale e

prorettore per la Cooperazione e i Rapporti Internazionali,

Università di Roma La Sapienza

Giorgio Cornacchione

Consigliere Militare del Presidente del Consiglio dei Ministri

Gian Maria Gros - Pietro

Professore Ordinario di Economia dell'Impresa,

Università LUISS Guido Carli di Roma

Enrico Letta

Onorevole, Commissione Difesa,

Camera dei Deputati

Vittorio Emanuele Parsi

Professore ordinario di Relazioni Internazionali,

Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

Riccardo Sessa

Ambasciatore e Rappresentante Permanente d'Italia presso il Consiglio

Atlantico, Nato

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Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali è stato determinato dal profondo

mutamento che ha attraversato il sistema internazionale dopo il crollo del muro di Berlino. Similmente a ciò che è avvenuto nei principali paesi europei, l’impegno italiano nelle missioni internazionali infatti ha inizio negli anni ’90: è la fine della Guerra fredda che cambia lo scenario, proprio a partire dal vicinato orientale europeo con la dissoluzione della ex-Jugoslavia. Gli interventi della Nato e dell’Onu nei Balcani rappresentano le missioni che hanno segnato l’apertura di una inedita stagione di interventismo e hanno introdotto le principali novità delle missioni internazionali: il crisis management, le peace-keeping operations, i primi progetti di State-building e le missioni out of area. Un nuovo lessico, ormai entrato a far parte del linguaggio comune degli addetti ai lavori, che testimonia una fase del tutto nuova rispetto al passato. Più in generale, la fluidità del sistema internazionale successiva al collasso dell’impero sovietico, ha lasciato spazio a nuove minacce alla sicurezza: conflitti civili, diffusione dei failed states, un nuovo protagonismo di attori non-statuali legati al terrorismo internazionale, la proliferazione di armi di distruzione di massa. Ciò che accomuna tutte queste sfide è proprio il fatto che possono essere affrontate dalla comunità euro-atlantica solo con un nuovo attivismo internazionale che preveda forme di intervento nelle aree di crisi. Non è casuale infatti che tanto l’Onu quanto la Nato e l’Ue abbiano registrato negli ultimi vent’anni una vera e propria proliferazione di missioni. Questo scenario chiama necessariamente l’Italia – al pari dei suoi partner europei – a un nuovo impegno e a nuove responsabilità. Sul piano strategico questo mutamento ha impresso una svolta alle politiche di sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati europei e dunque anche dell’Italia. La svolta si è caratterizzata per un progressivo abbandono di una postura difensiva passiva a favore di un ruolo attivo di promozione della sicurezza al di fuori dei confini nazionali. Se nel caso degli Stati Uniti si è trattato di un aggiornamento delle priorità strategiche della loro proiezione militare globale, per i paesi europei si è trattato di una rivoluzione delle loro politiche di sicurezza. Tale rivoluzione è stata visibile – e di fatto per l’Italia è avvenuta – primariamente nella trasformazione della Nato la quale ha fatto ricorso all’uso della forza, per la prima volta nella sua lunga storia, dopo la fine della Guerra fredda con le missioni in Bosnia, Kosovo, Afghanistan e Libia. Proprio la trasformazione della Nato, prima ancora che l’inaugurazione di politiche di difesa comune europee, ha introdotto nuovi compiti (e in particolar

INTRODUZIONE ALLA PRIMA SESSIONE

LO SCENARIO STRATEGICO INTERNAZIONALE TRA INSTABILITÀ E AREE DI CRISI

DI PAOLO MAGRI (MODERATORE)*

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modo la partecipazione alle missioni internazionali) che hanno richiesto all’Italia una profonda revisione del settore difesa: investimenti nella dotazione di nuovi mezzi militari, aggiornamento dei corsi di preparazione per il personale militare, interoperabilità con altre forze nazionali europee. Proprio questo agganciamento alla Nato pone l’Italia di fronte a due questioni di primaria importanza per il suo ruolo nelle missioni internazionali. In primo luogo, alla luce delle difficoltà in Afghanistan e delle crescenti pressioni per

ridare alla Nato un carattere eurocentrico è necessario che l’Italia avvii una profonda riflessione sulle priorità geopolitiche del paese e in particolar modo su quale debba essere lo spazio strategico su cui ritiene indispensabile concentrarsi per la propria sicurezza – ossia se questo debba essere lo spazio euro-mediterraneo oppure l’impegno dell’Italia nell’Alleanza debba essere di natura globale. In secondo luogo, è fondamentale che l’Italia valuti il proprio ruolo nella Nato in modo disincantato, chiedendosi se il paese è stato all’altezza della trasformazione dell’Alleanza, quali limiti ha mostrato e quali sono gli investimenti necessari per rimanere un alleato di primo piano (almeno a livello europeo), capace di avere un ruolo significativo nei processi decisionali in materia di missioni internazionali.

* Paolo Magri è Vice Presidente Esecutivo e Direttore dell’ISPI

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SINTESI DEL DIBATTITO

LO SCENARIO STRATEGICO INTERNAZIONALE

TRA INSTABILITÀ E AREE DI CRISI

La consapevolezza che, soprattutto in quest’ultimo ventennio, l’Italia ha ricoperto un ruolo di rilievo nel mantenimento della pace e della sicurezza internazionale,

ha costituito lo spunto per una riflessione sui rischi emergenti legati ad alcune aree di crisi e, più in generale, allo scenario strategico internazionale in sempre più rapida evoluzione. Nel corso di questa sessione, sono stati affrontati i seguenti temi: Le recenti tendenze dello scenario internazionale e la partecipazione italiana alle

missioni di pace

La partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali viene in genere valutata in base ad una serie di considerazioni, tra cui assumono particolare rilievo quelle legate all’evoluzione dello scenario strategico internazionale. Tali valutazioni incidono in modo significativo nel processo di decision-making che porta l’Italia a definire se e in quale misura intervenire in una determinata missione di pace, anche in base alla sua tipologia (peace-keeping, peace-enforcement, combat operations, assistenza umanitaria). Il moltiplicarsi di attori statali e non-statali sulla scena internazionale, soprattutto a partire dalla fine

della Guerra fredda, rappresenta senza dubbio un fattore da tenere in considerazione. Tale proliferazione di nuovi soggetti nelle relazioni internazionali include non solo il crescente processo di regionalizzazione ma anche l’emergere di nuove potenze, il moltiplicarsi del fenomeno dei cosiddetti failed states e il diffondersi di minacce legate ad attori para-statali quali il terrorismo e la pirateria.

I processi di regionalizzazione che sembrano caratterizzare in maniera sempre crescente l’evoluzione recente e futura del sistema internazionale costituiscono un fattore determinante nell’influenzare la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali. Nel corso del dibattito ci si è infatti chiesto fino a che punto tali fenomeni contribuiscano a restringere lo spazio

geopolitico entro cui l’Italia è chiamata a svolgere un ruolo di primo piano (Europa, Mediterraneo e Nord Africa) e in che misura essi tendano a rendere più incerto lo scenario internazionale richiedendo quindi un maggiore attivismo anche sotto il profilo della partecipazione alle missioni internazionali “fortemente out of area”. È emerso come, nel decidere un intervento militare

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italiano fuori dai confini nazionali, non ci si possa basare esclusivamente su un mero calcolo delle distanze geografiche – il cosiddetto “metodo del compasso” – in quanto la natura globale degli interessi economici e politici comporta che l’importanza di una crisi per l’Italia non possa essere stabilita in base alla mera vicinanza geografica. Senza dubbio il fenomeno crescente della regionalizzazione comporta che l’Italia, in passato spesso etichettata come “media potenza”, abbia un peso e un’influenza maggiore in alcune aree (ad esempio il Vicino Oriente) piuttosto che in altre. È stato tuttavia sottolineato

come sia fondamentale evitare di rimanere intrappolati in aree d’interesse stabilite da altri, valutando invece di volta in volta i rischi e le opportunità, come accaduto nel caso del rafforzamento della missioni UNIFIL in Libano nel 2008.

Le missioni di pace cui l’Italia partecipa dovrebbero in ogni modo garantire il mantenimento di un ranking di prestigio tra i paesi europei impegnati in operazioni fuori area. Se l’Italia intende mantenere un ruolo di prim’ordine a livello europeo, deve necessariamente affrontare le grandi sfide della sicurezza, contribuendo il più possibile al buon funzionamento del sistema internazionale. In un contesto

internazionale in cui la globalizzazione procede senza integrazione ed efficace governance, è verosimile che le situazioni di crisi aumenteranno, rendendo gli interventi sempre più “muscolari” e la distinzione tra peace-keeping e peace-enforcement sempre più labile. Sarà pertanto vitale l’adeguamento dello strumento militare al nuovo contesto strategico, ovvero garantire il mantenimento di Forze armate efficaci ed efficienti, in grado di essere proiettate a distanza in conflitti a bassa, media e alta intensità, con un forte livello di interoperabilità con i maggiori alleati europei e transatlantici.

Il rapporto con gli alleati nella gestione di crisi internazionali

Il contributo italiano alle missioni di pace è spesso percepito in modo differente sia a livello interno sia a livello internazionale. Si assiste ad un paradossale divario: da una parte, l’opinione pubblica italiana – in un periodo di forte crisi economico-finanziaria – tende a non riconoscere appieno il ruolo del paese nelle missioni militari all’estero; d’altra parte, il fatto che l’Italia offra attualmente contributi quantitativamente e qualitativamente cospicui a livello di missioni internazionali, assumendo anche ruoli di responsabilità e di comando, viene ampiamente riconosciuto ed apprezzato a livello internazionale. È stato infatti notato come, soprattutto a livello di alleati, l’Italia venga vista come protagonista di eccellenza grazie alle proprie Forze armate che sono state in grado di adeguarsi ai nuovi scenari strategici e alle nuove richieste operative creando un’effettiva sinergia tra politica militare ed estera del paese. È stato

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riconosciuto da più parti che i militari italiani sono sempre più richiesti e spesso addirittura preferiti a quelli di altri paesi. Un esempio classico è costituito dalla Multinational Specialized Unit (MSU) progettata concettualmente e operativamente dall’Arma dei Carabinieri, che è ormai divenuta un modello per operare in situazioni di conflitti civili caratterizzati da grande instabilità. L’Italia è divenuta quindi un modello di partecipazione alle missioni internazionali, a partire dalle missioni condotte sotto la propria leadership, quali l’operazione Alba in Albania (1997) ed UNIFIL in Libano (2008). Proprio in Libano – è stato

notato – si è dimostrata l’importanza della complementarietà delle componenti

militare e diplomatica, che lavorano in stretto contatto.

Sono state poi discusse le conseguenze per l’Italia del profondo processo di trasformazione della Nato iniziato negli anni Novanta e tuttora in corso. Tale processo di adeguamento ha riguardato anche l’Unione europea, nonostante il suo ruolo nell’ambito della difesa sia rimasto, e rimarrà verosimilmente ancora a lungo, una realtà in nuce per mancanza di

volontà politica. La Nato, al contrario, è una reale alleanza politica dotata di

un effettivo strumento militare, un aspetto quest’ultimo che la rende un player unico sullo scacchiere mondiale. Per adeguarsi e sopravvivere all’evoluzione dello scenario strategico internazionale, la Nato ha dovuto necessariamente avviare un processo di trasformazione: è passata dall’essere uno strumento di difesa territoriale degli Stati membri contro una minaccia concreta e convenzionale ad uno strumento di garanzia e di sicurezza contro nuove minacce non convenzionali. I paesi membri si sono evoluti e adattati a loro volta, riconoscendo che i confini della loro sicurezza nazionale debbano essere tracciati ben oltre quelli territoriali, come avevano già dimostrato alcune crisi degli anni Novanta, quali Timor Est, la Somalia e, più recentemente, l’Afghanistan.

L’interazione tra componente militare e civile nelle missioni di pace

Negli ultimi vent’anni le missioni internazionali hanno subito una trasformazione radicale rispetto ai loro esordi. La componente civile, lo State-building e la stabilizzazione politica sono elementi che sempre più interagiscono con la componente militare delle missioni. Da questo punto di vista, l’Afghanistan rappresenta un caso paradigmatico

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perché è impossibile immaginare una vittoria militare disgiunta dal successo dei progetti di State-building. Così come è altrettanto impossibile immaginare un disimpegno militare non accompagnato da un rinnovato segnale di aiuto allo sviluppo economico e sociale del paese. Nel corso del dibattito è stata quindi sottolineata la stretta relazione fra componente militare e civile, che ha finito per influenzare sia lo svolgimento delle missioni che il concetto stesso di cooperazione allo sviluppo. Nello specifico, ci si è domandati se persistano le tradizionali diffidenze e competizioni fra le due componenti o se qualcosa sia

cambiato rispetto al passato. Sull’efficacia delle missioni multi-task e della cooperazione civile-militare è stato evidenziato come i conflitti odierni siano più complessi, rendendo di conseguenza difficoltosa la ricostruzione durante e dopo le ostilità. In tale contesto, anche l’affermazione della componente civile risulta quantomeno problematica, rendendo necessario un maggiore sforzo per

renderla più efficace.

Il coordinamento a livello interno e internazionale

La complessità delle missioni odierne si traduce in una sfida per le diverse istituzioni che operano sul campo. Uno dei principali problemi delle missioni all’estero degli ultimi anni è senz’altro quello della sempre maggiore necessità di

coordinamento fra i vari contingenti nazionali, le organizzazioni internazionali coinvolte e, a volte, le diverse missioni impegnate in teatro. Quanto più le missioni internazionali si qualificano come multilaterali, tanto più il coordinamento è una delle chiavi del successo. Notevoli progressi sono stati compiuti recentemente nonostante alcune criticità permangano tuttora; è stato infatti ricordato come, nelle prime missioni fuori area (ad esempio in Somalia), le Forze armate italiane non fossero preparate al coordinamento, né in termini procedurali, né tantomeno in termini linguistici. Da allora sono stati compiuti grandi progressi a livello militare, per esempio garantendo una costante e maggiore presenza di ufficiali italiani presso le organizzazioni internazionali, in particolare alla Nato, per apprendere ed applicare procedure comuni a tutti gli alleati sia a livello amministrativo che operativo. A questo si aggiunga lo sforzo messo in atto per diffondere la conoscenza delle lingue straniere nelle Forze armate, in primo luogo l’inglese e quelle utilizzate nei teatri operativi in diverse aree del mondo. Per quanto riguarda il coordinamento tra i diversi attori coinvolti a livello nazionale, è stato sottolineato come gli sforzi di miglioramento siano stati notevoli. In particolare, la recente creazione, in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dell’organismo interministeriale per la gestione delle crisi ha contribuito a creare una visione comune tra i Ministeri degli Affari Esteri e

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della Difesa, coinvolgendo nel processo decisionale anche altri soggetti istituzionali interessati. Tale organismo, nato in occasione della gestione della crisi libica, include un nucleo permanente di Ministri i cui dicasteri sono direttamente coinvolti nei diversi aspetti di gestione delle crisi internazionali, mentre altri attori vengono coinvolti di volta in volta in base alle questioni e agli interessi in campo. Il rapporto fra il quadro economico internazionale, la gestione delle crisi e

l’evoluzione del settore della difesa

Le esigenze contingenti legate alle missioni internazionali hanno spesso assorbito notevoli risorse, anche a discapito di importanti programmi di ammodernamento delle Forze armate in tutti i principali paesi. Nel caso europeo, la frammentazione dei mercati della difesa ha, inoltre, trovato nuova linfa nell’esigenza di ricevere rapidamente gli equipaggiamenti necessari, ragion per cui, il processo di concentrazione e razionalizzazione dell’industria aerospaziale e della difesa sembra essersi sostanzialmente arrestato. Ci si è dunque domandati se prevarranno le ragioni strategiche per una maggiore integrazione europea e se la specificità del sistema industriale italiano possa avere conseguenze sulle politiche di difesa. È stato evidenziato come dal punto di vista dell’analisi industriale, sviluppo e produzione avvengano sulla base di esigenze operative.

Queste ultime sono in rapida evoluzione – data la complessità del nemico da identificare ed affrontare – e necessitano quindi di investimenti adeguati in ricerca e sviluppo, che portino all’ottenimento del miglior

prodotto possibile.

Il “sistema Italia” necessita sempre più di applicazioni tecnologiche up-to-date, piattaforme complesse aviotrasportate, o anche via terra e mare, a cui si aggiungono tecnologie di monitoraggio, sorveglianza e comunicazione. Poche industrie in Italia sono in grado di affrontare queste grandi sfide, ma esistono ottime capacità di sviluppo di soluzioni applicative ad alto contenuto tecnologico che provengono anche da altri campi di applicazione, come quello civile. Non si tratta più quindi di stimolare economie di scala, bensì di ricercare una maggiore specializzazione. È quindi emerso come la politica militare debba essere legata alla capacità industriale in quanto la specializzazione delle industrie può portare a capacità specifiche. È stato infine sottolineato come, in vista di una vera integrazione europea, ciascun paese europeo dovrebbe concentrarsi a livello industriale su ciò che sa fare meglio coordinandosi, allo stesso tempo, con gli altri paesi.

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Il consenso politico interno

Emerge con chiarezza l’importanza di un ampio consenso interno per accrescere la coerenza e l’efficacia della partecipazione italiana alle missioni internazionali. Salvo rare eccezioni, le missioni italiane

all’estero hanno sempre goduto di un appoggio bipartisan da parte delle forze politiche in Parlamento. Non solo, in occasione del voto per il rifinanziamento delle missioni all’estero, le maggioranze sono tradizionalmente ampie poiché godono dell’appoggio, oltre che dei partiti di governo, dei principali partiti all’opposizione. Una tendenza che è valsa negli ultimi vent’anni sia per i governi di centro-destra che per quelli di centro-sinistra. Si è dunque discusso se la trasversalità del consenso circa gli impegni internazionali del paese sia destinata a durare o, al contrario, uno scenario internazionale in rapida trasformazione rischi di creare fratture e divisioni. Data la crescente complessità delle missioni internazionali in termini di uso della forza, durata e costi, si potrà ancora contare su un consenso bipartisan delle forze politiche? Nel corso dell’ultimo trentennio le missioni hanno fatto guadagnare credibilità internazionale all’Italia, soprattutto grazie alle capacità operative delle Forze armate italiane, riconosciute sia dall’opinione pubblica nazionale sia a livello internazionale. Nelle prime due fasi che hanno

contraddistinto le missioni internazionali – con una prima fase che comprende gli anni ’80-’90 e una seconda fase che si estende fino ad oggi – sono state poste le basi e accumulate “ricchezze” che non possono essere disperse ma bensì continuare ad evolvere. È tuttavia necessario concentrarsi sulla poliedricità delle missioni per renderle ancora più complete, valorizzando il ruolo del personale civile e prestando più attenzione alla dimensione economico-industriale ad esse legata. Alla luce di questa crescente complessità delle missioni internazionali nonché della difficile congiuntura economico-finanziaria, risulta fondamentale che, anche in futuro, si mantenga un consenso il più ampio possibile sullo

strumento delle missioni internazionali.

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Sessione 2

IL RUOLO E L’INTERESSE ITALIANO NEL

MANTENIMENTO DELLA SICUREZZA

INTERNAZIONALE

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I RELATORI DELLA SECONDA SESSIONE

Cristiano Bettini

Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa

Luciano Bozzo

Professore Associato di Relazioni Internazionali e Studi

Strategici,

Università degli Studi di Firenze

Alberto Cutillo

Min. Plen., Direzione Generale per l’Unione Europea,

Ministero degli Affari Esteri

Bruno Antonio Pasquino

Min. Plen., Capo Ufficio per gli interventi umanitari e di

emergenza, Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo,

Ministero degli Affari Esteri

Luigi Ramponi

Senatore, Commissione Difesa,

Senato della Repubblica

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INTRODUZIONE ALLA SECONDA SESSIONE

IL RUOLO E L’INTERESSE ITALIANO NEL MANTENIMENTO DELLA SICUREZZA INTERNAZIONALE

DI MARIO ARPINO (MODERATORE)*

Il ruolo e l’interesse nel mantenimento della sicurezza internazionale sono fuori discussione. È importante dunque cercare di individuare e discutere alcuni problemi reali e “operativi”, quasi mai nuovi e, al contrario, spesso ricorrenti. Nelle missioni internazionali la cooperazione per lo sviluppo ha un ruolo autonomo di importanza crescente, che spesso è concomitante con quello delle Forze armate. Tradizionalmente esiste un buon coordinamento tra Esteri e Difesa. Coordinamento che, con le Ong, sembra invece piuttosto carente. “Non lasceremo solo l’Afghanistan dopo il 2014”, ha dichiarato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La cooperazione sembra quindi dover assumere un ruolo determinante, al quale, non c’è dubbio, si sta già predisponendo. Ma come, più in generale, si sta preparando il “sistema Italia” a questa amplificazione dei ruoli? Ritornando al concetto di “interesse”, questo può essere di carattere generale, ovvero comune a tutti, o di diretto impatto nazionale. Come si muovono Cooperazione e Difesa in queste due dimensioni? Il “politicamente corretto”, così attraente nelle aule parlamentari e nei vertici internazionali, sul terreno, in cielo ed in mare non lo è affatto, e soprattutto non funziona. Gli esempi al riguardo sono molti, e purtroppo ricorrenti, dalla Guerra del Golfo alla Libia, dal Kosovo all’Afghanistan. Nonostante le Forze armate italiane operino sempre ai più alti livelli di professionalità, il nostro paese dà tuttavia l’impressione di “lanciare il sasso e nascondere la mano”. E’ il caso, per esempio, dei cosiddetti caveat nazionali. In Afghanistan, fino a poco tempo fa, i cacciabombardieri italiani erano autorizzati solamente per ricognizioni fotografiche mentre, per il supporto aereo ravvicinato, l’Italia doveva ricorrere al supporto dei propri alleati. Fattispecie simili sono quantomeno disdicevoli, perché, l’inevitabile percezione internazionale di questo “tormento” tutto italiano potrebbe erodere credibilità, affidabilità e porre ingiuste ombre sul generale consenso che invece si conquistano sul campo i nostri militari. Può talvolta accadere che il nostro intervento attivo sia stato autorizzato non tanto per il “mantenimento della pace e della sicurezza internazionale”, che non erano affatto in pericolo, ma per necessità di non rimanere isolati nell’ambito della comunità internazionale. La campagna di Libia si presta bene come “esempio perfetto”. Essa solleva infatti un dubbio: la cosiddetta responsibility to protect (“responsabilità di proteggere”) sembra poco proponibile come motivazione credibile per un intervento militare, visto che la sua applicazione è ormai dettata dalla convenienza. I più scettici potrebbero anche pensare che questa “responsabilità” – concetto politicamente molto corretto – venga

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utilizzata da taluni per scopi decisamente diversi, dando per scontata, dietro questa foglia di fico, la legittimazione dell’Onu. Il carattere parlamentare dell’ordinamento italiano comporta che l’indirizzo politico per l’impiego delle Forze armate spetti alle due Camere ed al Governo. Dopo l’11 settembre 2001, il dibattito ha assunto aspetti di più ampio rilievo, con particolare riferimento alla ratifica delle risoluzioni delle organizzazioni internazionali ed alla convalida di quelle del Governo. Spesso

questa procedura è lunga, time consuming e non rende giustizia alla sincerità della volontà di partecipazione. Perché il Parlamento, che dovrebbe dare solo indirizzi, a volte scende addirittura nel particolare del tipo di armamento da usare? All’estero, ciò viene percepito in maniera negativa. I nostri militari, ad esempio, giudicano come carenza di interesse della politica il fatto che le missioni internazionali si svolgano ancora nell’ambito del Codice Militare di Pace, con le complicazioni che ne derivano. E ancora, non sarebbe necessario risolvere l’ambigua posizione dei nostri soldati, che, pur sparando, combattendo e morendo, giuridicamente non sono né in pace, né in guerra? Il ruolo e l’interesse italiano per il mantenimento della sicurezza internazionale diventano credibili anche dimostrando la volontà politica di risolvere questi piccoli

dettagli.

* Mario Arpino è membro del Comitato Direttivo ed Esecutivo dello IAI e già Capo di Stato Maggiore della Difesa

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Quando si parla di missioni internazionali, l’Italia si colloca tra i più importanti paesi contributori, sia in termini di uomini impiegati sia in termini di contributo

finanziario. Le operazioni di pace degli ultimi anni hanno tuttavia dimostrato che l’azione militare non è sufficiente da sola per conseguire l’obiettivo della stabilità. Alla luce del concetto più ampio di sicurezza sviluppatosi negli ultimi anni e dell’adeguamento dello strumento militare, l’aspetto civile della gestione delle crisi e la sinergia tra attività militari e civili assumono un rilievo sempre più importante. Nel corso di questa sessione, sono stati affrontati i seguenti temi:

Gli “interessi” italiani nel mantenimento della sicurezza internazionale

I molteplici interessi italiani nel partecipare al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale non possano essere messi in discussione. Lo dimostra il fatto che, quando si parla di missioni internazionali, l’Italia si colloca tra i primi paesi contributori. Per esempio, in ambito Nato l’Italia si pone come quarto paese contributore in termini di uomini e come quinto paese per ordine di contributo finanziario all’Alleanza atlantica. In ambito Onu, invece, l’Italia è al sesto posto tra i paesi che più contribuiscono a finanziare le missioni, con il 5% dei contributi totali. Tuttavia, dal dibattito sono emerse alcune criticità legate

alla definizione di cosa costituisca un “interesse nazionale”. Ad esempio, è stata citata una sorta di “vergogna” nel riconoscere che vi siano degli interessi reali, anche puramente economici, alla base della partecipazione italiana alle missioni. Ed è anche stata sottolineata una certa incapacità nel valutare e riconoscere gli interessi stessi nonché nel raccogliere i frutti ottenuti attraverso tali sforzi internazionali. Nonostante queste difficoltà siano spesso caratteristiche del “sistema Italia”, esse sono comunque condivise da tutti i partner con cui l’Italia si trova ad operare in ambito internazionale. Tali difficoltà sono infatti legate alla natura stessa degli interessi nazionali, che non essendo fissi ed immutabili, possono cambiare all’evolversi di specifiche situazioni, soprattutto in quei casi in cui il paese non è in grado di condizionare il corso degli eventi ma deve necessariamente adattarcisi. Questo, ad esempio, è stato il caso

dell’intervento libico, caratterizzato da una certa fluttuazione della posizione italiana e da un’assenza di

dibattito pubblico sul tema.

È stato anche sottolineato come le difficoltà nel presentare le missioni internazionali come uno strumento per la tutela dell’interesse nazionale siano figlie di un approccio culturale di natura “latina”, sostanzialmente

SINTESI DEL DIBATTITO

IL RUOLO E L’INTERESSE ITALIANO NEL MANTENIMENTO DELLA SICUREZZA

INTERNAZIONALE

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diverso dal modus operandi che caratterizza il mondo anglosassone. Tra le differenti sfaccettature di quello che può essere definito il “fattore sicurezza”, la protezione degli approvvigionamenti energetici è stata identificata come una delle questioni di maggiore criticità per

l’interesse nazionale italiano. Da questo punto di vista, sono innegabili i legami commerciali ed economici (soprattutto energetici) tra il nostro paese e il quadrante mediorientale. Se il benessere occidentale è infatti legato alla disponibilità di risorse energetiche/minerarie – o più in generale naturali – è anche vero che quest’ultime stanno diventando una delle principali fonti di conflittualità. Basti pensare alle cause socio-economiche all’origine della cosiddetta primavera araba; ciò comporta che l’approvvigionamento energetico italiano è e sarà condizionato dall’instabilità di determinate aree tra cui: il Nord Africa; lo Stretto di Hormuz; altri stretti e choke points soggetti a rischi quali la pirateria; la Nigeria; il Sahel; il corridoio che dai Balcani, attraverso il Caucaso, porta in Asia Centrale. La garanzia di stabilità in questi teatri passa anche dalle capacità dello strumento militare di agire in collaborazione con i principali organismi internazionali quali l’Onu, la Nato, e l’Ue. In futuro, le operazioni internazionali saranno in modo preponderante missioni atte a ripristinare la pace tra forze in conflitto. Tuttavia, secondo taluni, il principio guida della partecipazione italiana dovrà essere dapprima la tutela dell’interesse nazionale e, in seconda battuta, valutazioni di carattere puramente umanitario. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, è stato affrontato il tema della cosiddetta “responsabilità di proteggere”. Negli ultimi anni tale principio ha sostituito il diritto di intervento a fini umanitari, introdotto ufficialmente nel 2005 in seno alle Nazioni Unite. In occasione del Summit, infatti, tutti gli Stati membri hanno formalmente accettato la responsabilità di ciascuno Stato di proteggere la sua popolazione dal genocidio, dai crimini di guerra, pulizia etnica e crimini contro l'umanità. Qualora uno Stato non sia in grado di adempiere a tale responsabilità, la comunità internazionale ha il dovere di aiutare le persone minacciate da tali crimini a proteggersi in “modo tempestivo e decisivo” attraverso il Consiglio di sicurezza dell'Onu e in conformità con la Carta delle Nazioni Unite. In questo senso, il principio è chiaramente consolidato e non sono possibili arretramenti su quanto stabilito formalmente in seno alle Nazioni Unite. Ciò su cui invece è necessario e doveroso discutere sono le

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modalità con cui il principio viene attuato e il caso libico costituisce un esempio estremamente interessante. In Libia, la “responsabilità di proteggere” è stata la motivazione principale per giustificare la necessità di intervento, ovvero per tradurre in azione i “fini umanitari”

stabiliti dalle Risoluzioni 1970 e 1973 del Consiglio di Sicurezza. In pratica però, la “responsabilità di

proteggere” si è trasformata in un’operazione di regime change, snaturandone,

forse in parte, gli obiettivi stessi.

Il “ruolo” italiano nel mantenimento della sicurezza internazionale

Per quanto riguarda il ruolo nelle missioni di pace, gli interventi italiani sono saldamente ancorati alla partecipazione a coalizioni o alleanze politico-militari. In questo contesto, il ruolo dei militari italiani ha una valenza particolarmente importante e può essere ritenuto un modello per i partner internazionali per

quattro motivi principali:

1) la componente dottrinale e la capacità di adattamento;

2) la componente industriale che garantisce l’efficienza dei nostri uomini sul

campo;

3) la capacità di dialogo e interazione con il tessuto sociale in teatro;

4) la capacità dei militari di assicurare le prime forme di “cooperazione” ancor prima che intervengano le forze civili dedite specificamente a questo tipo di

attività.

Nel dibattito, tuttavia, è stato evidenziato come sussista un elemento di continuità nella politica di sicurezza italiana di natura sostanzialmente negativa. A volte essa sarebbe percepita all’estero come ambigua, cinica, e persino volatile, determinando una scarsa credibilità e affidabilità del paese come attore di sicurezza internazionale. Questa caratteristica della politica di sicurezza italiana non sarebbe casuale, bensì determinata da una serie di motivazioni di tipo geografico, storico, politico e sociale. Per quanto riguarda la definizione del ruolo italiano, è stato sottolineato come quest’ultimo venga a sovrapporsi/confondersi con il concetto di rango, e pertanto con i tentativi del paese di difendere il proprio prestigio e la propria appartenenza ad uno specifico gruppo di attori internazionali. La sovrapposizione tra ruolo e rango risulta essere misleading: il ruolo, infatti, dovrebbe essere determinato in base alla capacità dell’Italia di assumersi responsabilità e pagarne il prezzo. Tuttavia, dietro al tentativo di ricoprire un certo rango a livello mondiale, vi sarebbe l’incapacità italiana di definire realmente quale sia il proprio interesse nazionale nonché una certa incapacità nell’individuare temi ed aree di interesse

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primario per il paese. Ne consegue che l’Italia pagherebbe un prezzo molto alto, disperdendo risorse umane e finanziarie senza realmente raggiungere obiettivi concreti. Vi sarebbe pertanto la necessità di un lavoro di riflessione atto a identificare le direttrici degli interessi nazionali in modo tale da non sprecare risorse alla ricerca di un rango “apparente”. Allo stesso tempo, la politica di sicurezza italiana ha dimostrato una spiccata attitudine all’adattarsi alle circostanze esterne, attitudine determinata soprattutto dalle caratteristiche del sistema politico interno: l’enfasi sulle pratiche del multilateralismo ed il

ricorso alle missioni internazionali rappresentano uno strumento funzionale alle necessità del paese, contribuendo ad ottenere e mantenere legittimità internazionale e, contemporaneamente, acquisire stabilità interna. In questo senso, il binomio multilateralismo/missioni internazionali è definito come un “coniglio estratto dal cappello”, in grado di soddisfare le esigenze di ciascun attore della politica italiana. Nonostante ciò, la limitata capacità di definire in modo chiaro interessi e ruolo del paese, rischia di impegnare il paese in contesti internazionali a tutela di obiettivi altrui, creando un corto circuito tra risorse impegnate e risultati ottenuti.

L’adeguamento delle Forze armate alle sfide future

Nonostante la presenza di alcune difficoltà da parte italiana nel definire in modo esplicito e con chiarezza il proprio ruolo ed i propri

interessi nel partecipare alle missioni internazionali, il paese ha dimostrato una certa abilità nella gestione delle proprie capacità e dei propri assetti. Oggi il cuore operativo dello sforzo militare italiano è concentrato in Afghanistan e in Libano, mentre il fulcro dell’interesse strategico italiano rimane il Mediterraneo. Inoltre, l’Islamismo militante rappresenta un’importante sfida per l’Occidente e per

l’Italia. È lecito pertanto porsi una serie di quesiti:

1) lo strumento militare italiano è adeguato?

2) per fare cosa?

3) per assicurarsi da quali rischi?

4) gli strumenti operativi attualmente disponibili sono quelli più adatti per la

partecipazione alle missioni in un futuro più o meno prossimo?

A riguardo, è stato notato come il Ministero della Difesa stia dedicando uno sforzo particolare allo studio delle Forze armate e delle loro capacità di rispondere ai rischi di lungo periodo. I due principi cardine del futuro approccio devono essere da una parte sacrificare la quantità per la qualità dello strumento e, dall’altra, passare da una visione statica e lineare ad una visione

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dinamica dei rischi e delle risposte per contrastarli. I sistemi in cui si opera attualmente possono essere definiti “aperti” trattandosi di sistemi particolarmente complessi che sottopongono decisori e responders ad una rapida sequenza di differenti input da analizzare. In queste circostanze, il tradizionale metodo di analisi delle crisi basato sulla “teoria dei giochi” non risulta essere più adeguato e soddisfacente, mentre è necessario mutuare l’approccio dai processi di “gestione del rischio” (risk management) basandosi su quattro aspetti fondamentali: 1) le valutazioni preventive; 2) la capacità

analitica dell’evento; 3) l’identificazione di soluzioni adeguate; e 4) l’utilizzo di

strumenti necessari.

Il crescente ruolo della cooperazione allo sviluppo nelle missioni di pace

Alla luce del concetto più ampio di sicurezza sviluppatosi negli ultimi anni, l’aspetto civile della gestione delle crisi e la sinergia tra attività militari e civili assumono un rilievo sempre più importante. E’ stato più volte sottolineato come il solo intervento di natura militare non sia più sufficiente a conseguire gli obiettivi della sicurezza e della stabilità. Occorre quindi qualcos’altro, che è dato dal “come” la forza militare si pone nei confronti delle popolazioni. L’Italia è stata una delle prime sostenitrici di questo concetto, tanto che la cosiddetta “dottrina Petraeus” veniva applicata dai contingenti italiani all’estero molto prima che le venisse attribuito questo nome. In questo modo così italiano di svolgere le missioni, la cooperazione allo sviluppo riveste un ruolo di importanza rilevante e crescente. Ruolo a volte autonomo, ma spesso concomitante con quello delle

Forze armate, a volte preventivo ed altre successivo. Nel secondo caso, esiste una forma di coordinamento tra Ministero degli Affari Esteri e Ministero della

Difesa. Detto ciò, si pongono alcuni quesiti importanti:

1) gli attori coinvolti sono soddisfatti del funzionamento del sistema?

2) quale tipo di coordinamento esiste con le Ong?

3) tale coordinamento risulta efficace?

Il legame tra l’azione della cooperazione allo sviluppo ed il ruolo dei militari in teatro risulta indissolubile, anche alla luce del fatto che sono proprio questi ultimi a garantire la sicurezza fisica degli operatori della cooperazione. Dal punto di vista teorico, questo forte legame tra azione civile e militare potrebbe essere considerato come eccessivo in ambito internazionale.

Tuttavia, la ricerca di una sempre maggiore complementarità tra i ruoli di civili e militari sta portando anche altri partner internazionali ad avvicinarsi alle posizioni già assunte dall’Italia. In linea teorica, la cooperazione dovrebbe intervenire in campo solamente a crisi terminata. Tuttavia, dato che non sempre i

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limiti temporali di una crisi sono netti e distinti, è possibile che gli interventi civili vivano momenti di difficoltà e incertezza. Il ruolo della cooperazione civile è ben chiaro: salvare vite umane, migliorarne le condizioni basilari e supportare chi opera sul campo con queste stesse finalità. La cooperazione italiana si adatta completamente alle linee guida adottate nei diversi consessi internazionali, ma allo stesso tempo l’esperienza e le best practices italiane vengono prese ad esempio dai partner internazionali. Un esempio recente è costituito dalla sinergia tra il Ministero degli Affari Esteri ed il Comando

Operativo di vertice Interforze (COI) durante la crisi libica.

Dal punto di vista legislativo, la normativa italiana permette agli operatori della cooperazione di lavorare in situazioni nelle quali sarebbe altrimenti impossibile intervenire. Tuttavia, lo strumento legislativo dovrebbe poter garantire alla cooperazione italiana una maggiore e più lunga presenza in teatro. Senza una possibilità di questo tipo, l’attività della cooperazione è soggetta alle dinamiche di volatilità delle aree estremamente fragili in cui si trova ad operare, determinando una minore capacità di contribuire alla stabilizzazione della situazione ed una relativa debolezza nel garantire

e tutelare gli interessi nazionali in

gioco.

La definizione dell’indirizzo politico e i vincoli all’attività operativa

Il ruolo e l’interesse italiano per il mantenimento della sicurezza internazionale non sono un fattore recente, ma potrebbero addirittura risalire alla guerra di Crimea. L’Afghanistan, l’Iraq, il Libano, il Kosovo, la Bosnia, Timor Est e l’Albania sono solo alcuni tra gli impegni più importanti autorizzati dal Governo e dal Parlamento. Tuttavia, la questione si complica quando, dopo la prima fase in cui si riaffermano principi generalmente condivisi – almeno in ambito occidentale – si tratta di passare ai fatti. Decidere in pratica lo schieramento e l’uso di uomini, forze aeree e navali è il momento che ridimensiona molti entusiasmi e porta a disposizioni che, in termini di chiarezza e intelligibilità, spesso riflettono un lontano sapore “badogliano”. Ad esempio, durante la guerra del Golfo e quella del Kosovo, nonché nella prima fase della campagna libica, non era possibile menzionare la possibilità che l’Italia partecipasse a “missioni di attacco”. All’inizio dell’operazione in Afghanistan, i piloti dell’Aviazione della Marina Militare hanno svolto un buon numero di missioni complesse assieme ai colleghi della U.S. Navy, ma senza essere autorizzati a sganciare l’armamento di precisione, di cui pur disponevano. Sempre in Afghanistan, per molto tempo, i velivoli aerotattici italiani sono stati autorizzati ad utilizzare le sole capacità di ricognizione fotografica, avendo il divieto di usare armamento di caduta.

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Altrettanto delicato è il problema dei caveat posti dalla autorità politica ai militari italiani in missione, che ne hanno reso talvolta difficoltoso l’impiego da parte dei comandanti alleati. Si pongono dunque molti quesiti: l’asserito interesse italiano per il mantenimento della sicurezza è finalizzato maggiormente all’apparire che all’essere? Dal momento che è generalmente riconosciuto che l’Italia operi con grande professionalità e capacità operativa sul campo, è un peccato constatare che la percezione internazionale di questa

“dicotomia” tutta italiana possa in parte porre ombre sul generale consenso acquisito dai nostri militari. Nonostante queste criticità, dal dibattito è emerso come recentemente si stia sviluppando un interesse maggiore per l’impiego dei contingenti italiani nelle missioni di pace all’interno del Parlamento. In passato infatti le missioni internazionali – nonostante costituissero uno strumento fondamentale per la politica estera italiana – venivano discusse solamente ai fini del rifinanziamento, senza un’analisi e una valutazione delle caratteristiche specifiche delle missioni a cui le Forze armate italiane prendevano parte. Costituisce pertanto un segnale in controtendenza il nuovo decreto sulle missioni, che impone al governo di riferire ogni quattro mesi con un dibattito in aula sulle missioni, attribuendo al Parlamento un ulteriore ruolo di controllo e indirizzo politico.

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Alla luce degli interventi che hanno preceduto il mio, preferirei concentrare il mio intervento sulla “missione” che sta dietro alle missioni: vorrei cercare di

discutere con voi sul perché l’Europa non abbia ancora una politica estera e di sicurezza unitaria e convincente e quali passi ulteriori dovremmo fare verso il raggiungimento di una difesa europea. Questi sono temi rispetto ai quali il governo italiano, soprattutto negli ultimi mesi, si è dedicato con forte interesse, producendo contributi di riflessione importanti. Come Sottosegretario agli Esteri non posso che affermare come il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali sia stato assolutamente cruciale per l’immagine e la credibilità internazionale del nostro paese, al punto che alcuni osservatori, penso ad esempio a Lucio Caracciolo, hanno visto in questo impegno internazionale dell’Italia una sorta di surrogato di una vera e propria strategia di sicurezza e politica estera. Su questo punto ho un’opinione leggermente diversa. Penso che sia nell’interesse dell’Italia partecipare a queste missioni, tenendo però a mente il contesto

storico in cui ci troviamo, una fase in cui sul problema generale dell’interventismo democratico esistono importanti ripensamenti. In apertura, vorrei di nuovo testimoniare, come esponente del Governo italiano, la gratitudine che tutti noi italiani dobbiamo ai nostri militari, internazionalmente riconosciuti come estremamente bravi e competenti. Il nostro compito, in una fase caratterizzata da un intenso dibattito sul modo di intervento internazionale, è in primis non sprecare ciò che abbiamo fatto fin ad oggi. E mi riferisco in particolare ad uno dei teatri più delicati, l’Afghanistan, dove il modo in cui resteremo impegnati anche dopo un progressivo ritiro militare previsto per la fine del 2014 è decisivo affinché l’impegno che abbiamo profuso negli anni passati non vada sprecato. Quindi, esprimo il mio grazie come esponente del Governo e cittadino italiano per l’impegno dei nostri soldati nel mondo. Passando al mio tema, vorrei invece capire qual è il rapporto tra le missioni PESD e la possibile missione dell’Europa di diventare attore internazionale, affrontando brevemente tre punti: a) il rapporto tra la crisi dell’Eurozona e la politica di sicurezza, quello che gli

americani chiamerebbero the economics of security;

INTERVENTO

ITALIA E UNIONE EUROPEA NELLE MISSIONI INTERNAZIONALI

MARTA DASSÙ, SOTTOSEGRETARIO DI STATO AGLI AFFARI ESTERI

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b) quali sono i nodi difficili che impediscono di realizzare quello che avevamo prospettato secondo il Trattato di Lisbona, cioè un politica di sicurezza comune e in prospettiva una difesa comune;

c) come l’Italia contribuisce a tale processo nella prospettiva di more Europe nel

campo della sicurezza e difesa comune. Secondo la tesi dominante, la gestione della crisi dell’Eurozona ha causato una

perdita di soft power per l’Europa, la quale ora si ritrova di nuovo rivolta all’interno. Io non sono del tutto d’accordo, per due ragioni principali: da una parte penso che la gestione della crisi sia assolutamente indispensabile anche in termini di stabilità internazionale, dall’altra la crisi fiscale degli Stati nazionali crea una sorta di incentivo, anche se distorto, a concepire la cooperazione europea in materia di sicurezza e difesa come un’economia di scala, una window of opportunity. In effetti, è un incentivo perché se la ristrutturazione degli apparati di difesa avvenisse solo in una logica nazionale, questo naturalmente creerebbe delle difficoltà notevoli. Il salto di mentalità è concepire questa ristrutturazione su scala europea e c’è un vasto campo di ragionamento su cui l’Italia si sta muovendo molto bene e sul quale abbiamo fatto uno sforzo congiunto Esteri-Difesa, mettendo insieme riflessioni interessanti con la speranza di concretizzarle nei fatti. Ora mi sembra che la strategia dell’Italia su questo argomento sia chiara: riteniamo che la crisi fiscale dell’Unione europea vada vista come una possibilità per fare dei passi in avanti nella costruzione di più cooperazione in materia di difesa europea. Naturalmente, rientra nella visione italiana che la difesa europea sia perfettamente compatibile e coerente allo sforzo che facciamo come alleati e partner della Nato, fatto quest’ultimo confermato dall’atteggiamento degli Stati Uniti in materia. Quindi, in modo paradossale abbiamo una opportunità. È un’opportunità ma molto difficile da concretizzare per una semplice ragione: mentre la ristrutturazione dell’Eurozona sta avvenendo fondamentalmente sulla base di un difficile trade-off tra la Germania e i grandi debitori mediterranei, in politica estera, di sicurezza e difesa è impensabile concepire un core europeo con questi stessi paesi. In altre parole, l’area della zona Euro e l’area della sicurezza e difesa non collimano perfettamente in quanto sussiste un fondamentale e cruciale fattore: la Gran Bretagna. Ho sempre pensato che realizzare delle cooperazioni strutturate senza la Gran Bretagna in materia di difesa sia molto difficile perché in realtà, come tutti sappiamo, in Europa esistono due potenze militari “più uguali” delle altre – se non altro perché possiedono armi nucleari e siedono nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Ed esiste poi una Germania che, come ha dimostrato nella vicenda libica, in materia di sicurezza, difesa e politica estera ha una linea in fase di aggiustamento. Tuttavia, il problema vero è che mentre la risoluzione della crisi economica prevede la centralità della Germania, i progressi possibili nei campi della sicurezza e difesa prevedono necessariamente un accordo con il paese che si è tenuto fuori da questa vicenda economica, ossia con la Gran Bretagna. Diventerà quindi importante capire come completare e potenziare l’area del

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mercato comune della difesa, tema tanto più rilevante da quando è sul tavolo una possibilità di accordo tra BAE e EADS. Questa fusione rappresenterebbe la potenziale nascita di un grande monopolista industriale, a meno che non emerga un mercato unico della difesa davvero integrato. Al tempo stesso, questi cambiamenti sono un grande incentivo per il Governo italiano e per la struttura industriale italiana affinché agiscano con rapidità su questo terreno. Se la prima condizione è economica, la seconda condizione per una Europa che

sia in grado di fare sicurezza e difesa è però politica. In effetti, affinché ci sia una vera politica in questo campo è necessaria una convergenza di interessi comuni di sicurezza, sulle ambizioni e che ci sia una solidarietà sufficiente.

Sebbene esista, infatti, una clausola di solidarietà nel Trattato di Lisbona − il

famoso art. 222, sulla carta limitato a due eventualità concrete, quella di un attacco terroristico nei confronti di uno Stato membro e quella di un disastro o

una catastrofe naturale − sulle due grandi crisi di questi ultimi anni la vera

solidarietà non c’è stata. Se la vicenda libica ci insegna molto sulle relazioni tra europei e l’importanza comunque di un appoggio americano, anche quella siriana sembra dimostrare che quando gli Stati Uniti non sono interessati o

disposti ad intervenire prima delle

elezioni − insieme alle difficoltà di un

intervento di questa specificità − ciò

non può che condurre al non intervento. Questo è un punto

importante perché malgrado i risultati dell’interventismo possano essere discussi o valutati più o meno criticamente, è chiaro che vi sono dei costi molto rilevanti anche quando non si interviene.

Nel frattempo, la politica europea si sta spostando, in queste missioni militari, dai Balcani verso il Mediterraneo e verso l’Africa: ci sono nuove missioni politiche, civili e militari, previste in Africa centrale e nel Sahel mentre in effetti stiamo riducendo notevolmente i nostri vecchi impegni nei Balcani occidentali. In questi paesi resta, di fatto, solo la parte civile delle vecchie missioni militari, aspetto questo, abbastanza ragionevole, se riteniamo che i Balcani occidentali non rappresentino più il fronte critico della sicurezza europea. Queste missioni hanno quindi come caratteristica principale una forte componente civile rispetto a quella militare. Sostenere che l’insieme di queste missioni costituisca una politica di sicurezza o una difesa comune è forse eccessivo. Una missione militare Ue comunemente ritenuta un successo è la missione ATALANTA di protezione navale rispetto ai fenomeni di pirateria a largo delle coste somale. È interessante perché la cooperazione in campo navale sembra uno dei terreni che sta andando più in fretta degli altri. Questo spostamento del focus geografico dovrebbe trovare una collocazione nella strategia esplicita dell’Unione europea. L’Europa ha una “Strategia di

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Sicurezza Europea” datata (è del 2003) e di cui si discutono aggiornamenti. L’Italia, insieme alla Svezia, alla Spagna e alla Polonia, ha proposto di rivederla. Abbiamo deciso di incaricare lo IAI e altri istituti di preparare dei contributi per la definizione di una strategia globale dell’Unione europea. Infine, due parole su cosa fa l’Italia. Cerchiamo di suscitare una riflessione nel senso in cui dicevo in precedenza; ci sono stati vari esempi di questo tentativo italiano negli ultimi mesi e vorrei citare il documento Westerwelle, l’attuale

Ministro degli Esteri tedesco. Ai lavori di questo documento hanno partecipato 11 Ministri dell’Unione europea e hanno elaborato alcuni punti importanti, tra i quali l’idea che la politica estera e di sicurezza possa funzionare se aumenterà il numero delle decisioni a maggioranza, o perlomeno se verrà potenziata l’astensione costruttiva, se l’Europa deciderà di trovare maggiori forme di rappresentanza unitaria negli organismi internazionali e se ci sarà più coordinamento fra i vari strumenti della politica estera europea. Sulla difesa, il documento parla del pooling and sharing e sulla necessità di un esercito europeo. Su questo punto credo che il dibattito debba prima concentrarsi sul come mettere in comune maggiori capacità e maggiore capacità decisionale congiunta. In conclusione, ho l’impressione che il tema della sicurezza e della difesa sia un tema in cui lo sforzo profuso per imprimere una razionalizzazione alle nostre posizioni sia stato notevole, con una strategia sulla carta chiara. Credo che il futuro dell’Europa certamente non possa essere racchiuso nella vicenda dell’Euro, per quanto importante sia, ma necessita di una gamba politica più solidale costruita attorno alla politica estera e alla sicurezza.

Per il video dell’intervento in forma integrale:

http://webtv.camera.it/portal/portal/default/

Archivio?IdEvento=5273&IdIntervento=3621

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Sessione 3

LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLE MISSIONI

INTERNAZIONALI: CRITERI E PRIORITÀ

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I RELATORI DELLA TERZA SESSIONE

Marco Bertolini

Comandante del Comando Operativo di vertice Interforze,

Stato Maggiore della Difesa

Sonia Lucarelli

Professore Associato di Scienza Politica,

Università degli Studi di Bologna

Luca Giansanti

già Rappresentante dell’Italia presso il Comitato Politico e di Sicurezza

Alessandro Colombo

Professore associato di Relazioni Internazionali,

Università degli Studi di Milano

e Direttore dell’Osservatorio “Sicurezza e Studi Strategici”, ISPI

Francesco Rutelli

Senatore, Commissione Difesa,

Senato della Repubblica

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Le motivazioni che hanno indotto e potranno condizionare in futuro il nostro paese a partecipare alle missioni sono molto articolate, variano nel tempo e da missione a missione: da quelle più tradizionali della promozione della sicurezza nei contesti geopolitici di riferimento, alle motivazioni legate al riconoscimento e al rango internazionale, alla fedeltà ai contesti multilaterali e ai legami di alleanza. A livello politico è peraltro indispensabile considerare i rischi che queste motivazioni possono produrre in termini di orizzonte strategico e, non da ultimo, valutare con attenzione l’effettiva disponibilità delle risorse necessarie, al fine di evitare una dispersione degli impegni, nonché delle reali capacità che lo strumento militare esistente può assicurare. La storia recente, infatti, ci insegna che la categoria che va sotto il nome di “missioni internazionali” comprende una vastissima varietà di operazioni, che vanno da quelle di osservatori numericamente limitati - per quanto ci concerne inquadrati nelle Nazioni Unite, nell’Osce o nell’Unione Europea - ai massicci interventi combat come quelli della prima guerra del Golfo o dell’invasione

dell’Iraq. È ovvio che per affrontare con successo, e con il minor livello di rischio, questa varietà di operazioni serve personale adeguatamente addestrato e indottrinato e servono unità di diversa tipologia. Inoltre, data la necessità di avvicendare i contingenti secondo turnazioni che evitino un eccessivo stress operativo, i cicli addestrativi devono susseguirsi secondo un continuum da curare con particolare attenzione. La preparazione, anche psicologica, deve essere fornita a livello sia collettivo che individuale in modo da garantire un approccio che venga percepito come non ostile da parte delle popolazioni civili coinvolte, e la tipologia delle unità deve tener conto dello specifico compito operativo e dell’ambiente peculiare di ogni operazione. In questa ottica è diventato imperativo un salto di qualità nel coordinamento delle politiche relative alle capacità militari all’interno dell’Unione europea, in cui deve avvenire un’analisi condivisa delle crisi, in modo da decidere e modulare gli interventi in relazione alle disponibilità dei singoli paesi. In questo quadro, occorre un deciso impulso da parte degli organi dell’Unione, in particolare l’Alto Rappresentante, a prescindere da chi lo impersoni oggi, al fine di dare in futuro quanto meno degli indirizzi affinché gli Stati membri armonizzino le rispettive pianificazioni militari. Ciò consentirebbe all’Unione di disporre di tutte le capacità richieste, con il minimo di inutili duplicazioni. Un ruolo chiave in quest’opera di raccordo e armonizzazione lo può giocare

INTRODUZIONE ALLA TERZA SESSIONE

LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLE MISSIONI INTERNAZIONALI: CRITERI E PRIORITÀ

DI VINCENZO CAMPORINI (MODERATORE)*

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l’Agenzia Europea della Difesa, la quale, vista la particolare vocazione multidimensionale degli interventi decisi dall’Unione, potrebbe vedere anche ampliati i propri terms of reference al fine di considerare anche la questione della generazione delle forze per missioni civili di gestione delle crisi. Si tratta di una visione comunitaria futuribile, mentre al momento, a livello nazionale, non appare ancora risolta la questione del rapporto tra Parlamento ed Esecutivo nell’elaborazione delle decisioni di avviare e partecipare alle

attività operative della comunità internazionale. Per esempio, che voce in capitolo deve avere il Parlamento sull’utilizzo di un certo tipo di munizionamento in un determinato teatro? Così come è tuttora una esclusiva responsabilità nazionale la tematica della strutturazione delle forze: è in avanzato esame parlamentare un progetto di riforma estremamente incisivo del nostro strumento militare, i cui contorni potranno essere valutati appieno solo quando saranno presentati i conseguenti decreti legislativi delegati. Al momento, ci si deve domandare se questo tipo di procedura, disegno di legge delega oggettivamente generico, e successiva definizione con atti normativi delegati, sia giudicata dal Parlamento adeguata a questa fase ricostituiva delle nostre Forze armate. Infine, come in ogni democrazia, anche in Italia l’opinione pubblica è un elemento importante nella formulazione della politica estera del paese, in particolare quando questa implica l’uso della forza. Non si può quindi trascurare l’atteggiamento dell’opinione pubblica italiana ed europea in relazione alle missioni di pace. Sarebbe interessante capire, ad esempio, se il contesto multilaterale (o meno) nel quale le operazioni avvengono, influenzi l’atteggiamento dell’opinione pubblica e se esistano differenze significative nei diversi paesi europei.

* Vincenzo Camporini è Vice Presidente dello IAI e già Capo di Stato Maggiore della Difesa

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SINTESI DEL DIBATTITO

LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLE MISSIONI INTERNAZIONALI:

CRITERI E PRIORITÀ

La partecipazione italiana ad una determinata missione internazionale è stata

in genere giustificata in base a diverse e articolate motivazioni che, in modo assolutamente variabile nel tempo, si sono intersecate tra di loro: il contrasto o la prevenzione di minacce alla sicurezza nazionale, la stabilizzazione militare e politica di aree ritenute geograficamente e/o funzionalmente rilevanti per gli interessi nazionali in senso lato, ma anche il contributo a sforzi internazionali e a legami di alleanza. Tuttavia non è stato sempre evidente quale siano stati i criteri e le priorità che hanno guidato queste scelte né è sempre stato chiaro se, come e quanto la partecipazione italiana ad una specifica missione internazionale sia servito a tutelare gli interessi nazionali. Il dibattito ha approfondito diversi aspetti legati ai criteri e alle priorità della partecipazione italiana alle missioni internazionali, tra i quali:

Le motivazioni della partecipazione italiana alle missioni internazionali

Nel corso del dibattito è emerso come l’Italia abbia perseguito il

proprio interesse nazionale, o meglio un combinato di interessi sia immediati – come la gestione dei rischi e delle minacce – sia legati al riconoscimento internazionale, alla fedeltà ai contesti multilaterali e ai legami di alleanza. Tuttavia, tali motivazioni sollevano un problema di coerenza: la fedeltà ai contesti multilaterali e la difesa del proprio prestigio implicano la necessità di seguire tali contesti, indipendentemente dall’impegno richiesto, semplicemente per difendere la propria posizione acquisita nel tempo. Ciò può essere un buon investimento, lo è stato in passato ma non è detto che lo sia in futuro. E’ stato dato per scontato, almeno implicitamente, che il prossimo ventennio possa riflettere quello passato ma sarebbe un errore pensare che la crescita delle missioni internazionali possa continuare anche in futuro. Anzi, è possibile che il numero delle missioni internazionali, e quindi la partecipazioni italiana, assuma una portata differente rispetto a quella negli ultimi dieci anni. Emergono infatti alcuni “criteri restrittivi” che influenzeranno la determinazione dei prossimi criteri di partecipazione alle missioni internazionali e che, a loro volta, sembrano

corroborare l’idea di un futuro cambio di rotta del contesto strategico:

a) una perdurante crisi economica che limiterà la disponibilità dell’Italia e dei

suoi alleati di assumere ulteriori impegni a livello internazionale;

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b) una crisi del multilateralismo (Unione europea e Nato) che restringe lo spazio

per missioni internazionali inserite in tale ambito;

c) un radicale cambiamento nella volontà degli Stati Uniti di esercitare il loro

potere a livello internazionale.

Di fatti, il contesto globale non si configura più come post-bipolare ma sta entrando in una fase totalmente

nuova, lungo le due dimensioni fondamentali del “potere” e dello “spazio”: è necessario considerare che le missioni multilaterali potranno essere contraddistinte non più da una lead occidentale bensì da altri paesi, come Russia e Cina. Ciò ha ripercussioni sulla dimensione

spaziale: la trasformazione geopolitica del contesto internazionale, la cosiddetta “rivincita della geografia”, vedrà la presenza di aree regionali che assumeranno un ruolo e un peso sempre maggiore. Tali aree, comunque, non si

rivelano come “spazi vuoti” − oggetto di futuri interventi di stabilità da parte di

Stati Uniti, Ue e Italia − ma saranno in grado di generare ed esercitare delle

leadership regionali, plasmando un nuovo assetto multilaterale. In tale contesto, la partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali potrebbe, di nuovo,

riflettere connotati e caratteristiche diverse dal passato.

È stato infine evidenziato come la situazione appena descritta porti con sé dei rischi: la struttura delle risorse destinate alla difesa ha subito negli ultimi anni una radicale trasformazione, tant’è che le spese riservate all’addestramento e alla manutenzione dei mezzi e dei materiali non sono state finanziate prevalentemente mediante bilancio ordinario ma con i bilanci semestrali, o annuali, destinati alle missioni internazionali. È una situazione quasi paradossale in cui le Forze armate possono sopravvivere mantenendo una certa operatività

solo se regolarmente impiegate nelle missioni stesse.

L’addestramento delle Forze armate per le missioni di pace odierne

Le missioni internazionali necessitano di personale adeguatamente addestrato e indottrinato, anche dal punto di vista psicologico, affinché determinati atteggiamenti o comportamenti sociali siano considerati in modo positivo, non compromettendo l’operazione in teatro. Rispetto alle passate operazioni di pace – in cui le Forze armate ricoprivano un ruolo di interposizione e controllo tra le warring factions (come accaduto in Libano, Somalia, Mozambico) – nelle missioni odierne le Forze armate occidentali e italiane svolgono un ruolo di partecipazione attiva sostenendo una delle due parti in conflitto. Anche la composizione dei contingenti è un fattore determinante: innanzitutto, i contingenti sono insiemi armonici di capacità operative, con risorse diverse, ognuno con una diversa funzione per affrontare compiti complessi. Le operazioni odierne

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richiedono capacità tecniche che si acquisiscono con un addestramento continuativo e non attraverso un crash course di breve durata prima dell’impiego. L’addestramento avviene, in primo luogo, mediante un processo standardizzato a livello Nato e Ue, di force generation, nel quale ogni nazione provvede al suo offering di forze – processo comunque oggetto di validazione e controlli da parte dell’Alleanza con l’obiettivo di valutare che gli standard operativi siano

rispettati. Le unità richiedono inoltre un elevato livello tecnologico di strumenti interoperabili con le altre Forze armate dei diversi paesi senza, tuttavia, dimenticare che l’elemento umano – il semplice soldato – gioca un ruolo determinante e insostituibile. In seguito, è previsto un addestramento collettivo indirizzato ai comandi operativi: anche tale addestramento è impostato sulla base di specifiche procedure Nato e Ue altamente complesse. Infine, la preparazione psicologica: le operazioni odierne di contro insorgenza, denominate COIN (counterinsurgency), si svolgono all’interno di contesti urbani nei quali è essenziale interfacciarsi con la popolazione locale. Di conseguenza, il primo requisito è capirne la cultura ossia conferire alla propria unità operativa

una cultural awareness adeguata.

La riduzione del contingente italiano in Afghanistan ha implicazioni sui cosiddetti “pacchetti di capacità”: la difficoltà sta nel non compromettere eccessivamente la situazione in teatro ritirando tali pacchetti. In Afghanistan, l’Alleanza è in una fase di apprendimento, di dottrina e per le Forze armate italiane è stato

fondamentale partecipare alla missione, grazie alla quale sono state acquisite nuove capacità che, per essere mantenute, necessitano di un continuo

addestramento in patria.

L’Unione europea nella gestione delle crisi

A n c h e i n u n m o m e n t o d i razionalizzazione, è necessario che vengano stabiliti degli indirizzi o criteri secondo i quali alla riduzione delle forze a livello nazionale corrisponda una rinnovata capacità complessiva dell’Unione. In tale contesto, quale ruolo può assumere l’Agenzia Europea per la Difesa? Inoltre, come è possibile mobilitare le capacità civili dell’Unione europea, come strumento pressoché unico e efficace nella risoluzione delle crisi internazionali? In questi ultimi anni, l’Unione ha fatto passi importanti per incrementare il suo comprehensive approach in risposta alle crisi internazionali sebbene, a livello operativo e nazionale, la situazione risulti ancora complessa. Un esempio

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chiarificatore è rappresentato dalle prime due operazioni di Politica di Sicurezza e Difesa Comune (PSDC) in Corno d’Africa a cui poi si sono aggiunte altre missioni, questa volta civili, a compimento di una strategia fondata proprio sul comprehensive approach. Tale approccio però

sottintende dei rischi: innanzitutto, la possibilità che l’Unione abbandoni l’aspetto militare per concentrarsi e spingersi verso la realizzazione di missioni civili sia perché finanziate in gran parte dal bilancio comunitario – gravando meno sui bilanci nazionali – sia perché risulta più agevole far convivere le due anime, quella civile e quella militare, in tali missioni. Esiste quindi la possibilità di un indebolimento della politica di sicurezza e difesa della Ue che vede nella componente militare la sua ragion d’essere. In aggiunta, va ricordato che lo sviluppo di capacità militari ha un duplice obiettivo: consentirebbe infatti all’Ue di svolgere il suo ruolo di attore globale nella gestione delle crisi e adempiere alla sua difesa come stabilito dal Trattato sull’Unione Europea.

Nonostante il Trattato di Lisbona preveda che i due soggetti preposti al processo decisionale siano l’Alto Rappresentante e il Servizio Europeo di Azione Esterna (SEAE), la realtà oggi è ben diversa. Sono ancora gli Stati membri, o

meglio il Consiglio, a ricoprire il ruolo di propulsore per il lancio di nuove missioni. In effetti, il 2010 e il 2011 sono stati due anni di stallo per la politica di sicurezza e difesa; sia il SEAE che l’Alto Rappresentante si sono dimostrati piuttosto timorosi nel pianificare e condurre nuove missioni, quest’ultimo essendo più propenso all’impiego dello strumento civile piuttosto che di quello militare. Sussiste quindi la necessità di invertire la tendenza per evitare una deriva soft

power con il rischio di un abbandono delle ambizioni europee.

In ambito civile il problema è noto e, come si è visto anche in Afghanistan, è rappresentato dall’assenza di un meccanismo comunitario in grado di realizzare un surge civile sulla stessa falsariga delle procedure di force generation presenti in ambito militare. Sul fronte della difesa, il tema riguarda l’iniziativa di pooling and sharing rilanciata nel 2010. In tal senso, l’Italia si è fatta promotrice di nuove riflessioni per favorire una pianificazione delle capacità militari, individuando il giusto grado di complementarietà con i partner. L’iniziativa deve però essere promossa e sostenuta a livello politico in quanto l’approccio bottom up ha incontrato, e incontra tuttora, dei limiti oggettivi. Ne consegue che un impulso top down, dall’alto, risulti quindi indispensabile al fine di determinare un cambiamento delle regole del gioco. È stato inoltre sottolineato come il meccanismo di finanziamento delle missioni sia controproducente ed inefficace; dato che le missioni militari sono a carico dello Stato promotore della missione, il

paese si trova a pagare due volte, sia in termini finanziari che di risorse umane.

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Il ruolo dell’opinione pubblica

In generale, la reazione e l’atteggiamento dell’opinione pubblica nei confronti delle missioni internazionali sono altresì funzionali nel processo di formulazione della politica estera di un paese. L’opinione pubblica italiana tende ad essere qualificata prevalentemente come “pacificamente interventista” ossia più propensa ad accettare il termine “missioni di pace” piuttosto che “missioni internazionali” o “missioni con uso della forza”. Tale inclinazione è frutto sia del

passato storico italiano che della preoccupazione in seno alle elite politiche qualora fosse utilizzato un termine diverso da “missioni di pace” che evocasse un uso più “muscolare” della forza. Tuttavia, osservando con attenzione i dati che emergono dal rapporto Transatlantic Trends, si rileva che non esiste una specificità italiana: l’opinione pubblica italiana è, ad esempio, mediamente più multilaterale rispetto a quella di altri paesi europei. Le differenze più sostanziali si ritrovano alla domanda circa la rilevanza della legittimazione internazionale da par te di organizzazioni multilaterali alle missioni internazionali. Qui, le risposte tra le due sponde dell’Atlantico sembrano riflettere due punti di vista discordanti,

t rat teggiando una l inea di demarcazione tra Europa e Stati Uniti. Il dato aggregato dimostra che un contesto multilaterale è ritenuto legittimante per una missione internazionale soprattutto in Europa mentre negli Stati Uniti circa il 44% degli americani ritiene che possa addirittura rappresentare un vincolo. In seguito, è emerso che esiste una differenza significativa fra affermazioni di principio e realizzazioni pratiche. Ad esempio, in riferimento alla “responsabilità di proteggere” si constata, da una parte, un consenso quasi unanime (circa il 70% per il caso italiano) per il principio stesso e, dall’altra, posizioni divergenti tra i paesi europei in relazione all’attuazione concreta di tale principio. Questa tematica ha permesso di toccare e osservare un ulteriore punto di discussione: la propensione all’uso della forza. In questo contesto, sebbene si ritenga che l’Italia sia meno propensa ad utilizzare lo strumento della forza rispetto a paesi come Francia e Gran Bretagna, dai sondaggi non si riscontra una tale differenza; addirittura, il caso iraniano sembra dimostrare piuttosto quanto italiani, francesi e inglesi condividano una visione d’insieme comune, considerando legittimo e persino opportuno (quasi la metà della popolazione italiana) un intervento armato con forze di terra sul suolo iraniano.

A questo punto, è possibile delineare due chiavi di lettura: da un lato, l’opinione pubblica italiana è sicuramente più matura e capace di concepire la possibilità di utilizzare le forze armate all’estero ma, al tempo stesso, è un’opinione

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pubblica “schiacciata” in modo ideologico rispetto al tema dell’uso della forza. Quest’ultima valutazione sembra essere la conseguenza di un dibattito pubblico eccessivamente generalizzato nel quale è assente una discussione più articolata

e complessa su cosa sia in gioco nelle varie e differenti missioni internazionali.

Il rapporto tra Parlamento ed Esecutivo nel processo di avviamento e

partecipazione delle missioni

Durante il dibattito è emersa l’importanza del Parlamento come organo che concorre nel processo decisionale in grado di rappresentare non solo l’orientamento dell’opinione pubblica, ma anche l’interesse nazionale. Quello delle missioni internazionali è quindi uno degli ambiti più importanti, uno dei test principali per la decisione e la responsabilità politica del Parlamento. Da non dimenticare tuttavia l’incidenza delle ali politiche più estreme che hanno compromesso il naturale proseguimento di alcune legislature proprio in relazione al tema delle missioni internazionali. Per quanto riguarda la questione delle risorse, è stata sottolineata la necessità di un riorganizzazione profonda dello strumento militare – evitando tagli lineari – seguendo la procedura parlamentare, ritenuta la strada migliore per il paese. Nella prospettiva di un ridimensionamento dello strumento, è essenziale valutare le implicazioni di tale riassetto organizzativo sul morale delle Forze armate e più in generale sul personale militare. Proseguendo, viene affermata la necessità di definire un documento che delinei una strategia di sicurezza nazionale. Non un libro bianco nei termini classici, ma un documento più asciutto di indirizzo strategico che tenga in considerazione il ruolo delle Forze armate, la problematica della missioni internazionali, i fabbisogni dell’industria militare, l’apporto della diplomazia e la funzione dell’intelligence così come l’integrazione dei soggetti operanti in tale settore. Ci si è quindi augurati che la prossima legislatura politica possa essere una legislatura “cos t i t uente” vo l ta ad una ridefinizione dell’interesse nazionale e all’elaborazione di una strategia di sicurezza e difesa per il paese.

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L’ADEGUAMENTO DELLO STRUMENTO MILITARE TRA

NUOVE ESIGENZE OPERATIVE E RISORSE DISPONIBILI

Sessione 4

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I RELATORI DELLA QUARTA SESSIONE

Filippo Andreatta

Professore ordinario di Scienza Politica,

Università degli Studi di Bologna

Roberta Pinotti

Senatrice, Vice-Presidente Commissione Difesa,

Senato della Repubblica

Giuseppe Orsi

Presidente e Amministratore Delegato,

Finmeccanica

Gianfranco Giglio

Direzione Armamenti Terrestri,

Segretariato Generale della Difesa/ Direzione Nazionale degli Arma-

menti

Guido Crosetto

Onorevole, Commissione Difesa,

Camera dei Deputati

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La forte proiezione internazionale legata alla partecipazione alle missioni e,

insieme, i vincoli legati alla crisi finanziaria ed economica, hanno spinto da tempo la Difesa ad avviare una profonda riorganizzazione dello strumento militare per la quale servono, però, anche alcuni interventi di carattere legislativo. Anche il settore della Difesa risulta, infatti, “ingessato” da numerosi vincoli legislativi che ne rendono più complicata la riorganizzazione e, a volte, lo stesso funzionamento. L’obiettivo è quello di ridurre il personale, migliorandone l’organizzazione, l’addestramento e gli equipaggiamenti. Questo comporta anche una nuova struttura gestionale e di supporto (tenendo, inoltre, conto delle possibilità offerte dalla loro informatizzazione). La spinta al cambiamento delle Forze armate marcia parallela a quella dell’industria. Fra le ragioni, pesano le lezioni apprese nelle missioni: i mezzi in servizio vengono testati in condizioni estreme; in alcuni casi emergono meglio le effettive esigenze operative; anche per il supporto logistico si è entrati in un’altra dimensione; il fattore tempo è diventato una delle priorità.

La maggiore operatività richiesta alle Forze armate comporta, fra il resto, un adeguato equipaggiamento. La sua disponibilità passa attraverso una più moderna impostazione del rapporto fra Difesa e industria: quest’ultima deve passare sempre più da fornitore a partner. Questi sono alcuni dei cambiamenti che stanno caratterizzando il nuovo mercato della difesa. Sul piano politico, dopo anni di contrapposizioni quasi esclusivamente ideologiche sull’opportunità della nostra partecipazione alle diverse missioni internazionali, nel dibattito è entrato un nuovo attore, molto più importante, quello della crisi economica e della necessità di tagliare la spesa pubblica. Le missioni costano e per sostenerle serve un forte consenso da parte del mondo politico e dell’opinione pubblica. Vi è sicuramente molto da fare per favorire la formazione di questo consenso, anche se, in realtà, sul piano economico l’impegno del nostro paese nel campo della difesa e della sicurezza sta già sotto la media europea. Va, però, considerato che le spese per gli equipaggiamenti militari servono anche per favorire l’innovazione di processo e di prodotto in uno dei pochi settori a tecnologia avanzata ancora presenti nel nostro paese, dopo che sono stati persi negli ultimi decenni pezzi su pezzi dei settori di punta. Per quanto attiene le missioni internazionali, l’intervento del Parlamento è stato in questi anni più che altro concentrato sul loro finanziamento. E’, invece,

INTRODUZIONE ALLA QUARTA SESSIONE

L’ADEGUAMENTO DELLO STRUMENTO MILITARE TRA NUOVE ESIGENZE OPERATIVE

E RISORSE DISPONIBILI

DI MICHELE NONES (MODERATORE)*

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evidente che il Parlamento dovrebbe avere un ruolo anche nel definire la partecipazione italiana alle missioni internazionali e verificarne poi i risultati. In generale, sulle missioni si è registrata in passato una sostanziale convergenza fra i partiti più responsabili. L’opposizione è stata limitata ad alcuni settori dell’opinione pubblica e ad alcuni esponenti politici alla ricerca di facili consensi. L’attuale crisi politica potrebbe, però, scalfire questo quadro. Già si è registrato qualche sbandamento sulle spese per la difesa e sui maggiori programmi di armamento. Bisogna ora evitare che durante la prossima

campagna elettorale queste posizioni possano allargarsi, rischiando poi di condizionare le forze politiche che governeranno il nostro paese.

* Michele Nones è Direttore dell’Area Sicurezza e Difesa dello IAI

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L’impegno italiano nelle missioni internazionali richiede personale militare altamente qualificato, e comporta un costante impiego delle forze a

disposizione nei teatri operativi più diversi. In un contesto economico-finanziario difficile quale quello attuale, i maggiori paesi europei hanno reagito riducendo le dimensioni numeriche dei propri strumenti militari e cercando di salvaguardare le capacità operative. Se l’Italia non vuole precludersi in futuro l’utilizzo di uno strumento importante come quello delle missioni internazionali sarà indispensabile ridefinire quale livello di partecipazione militare l’Italia intenda perseguire e, allo stesso tempo, favorire il necessario processo di adeguamento dello strumento militare. La situazione, per certi versi paradossale, per cui le Forze armate italiane possono sopravvivere mantenendo una certa operatività solo se regolarmente impiegate nelle missioni stesse, non è sostenibile. Il disegno di legge per la revisione dello strumento militare nazionale, che è attualmente all’esame del Parlamento, è potenzialmente in grado di svolgere un duplice ruolo. Da una parte diminuire sostanzialmente le componenti ancillari e dall’altra salvaguardare, e se possibile potenziare, le necessarie capacità operative nonché gli investimenti tecnologici. Quest’ultimi permettono di disporre nel medio-lungo periodo di

Forze armate efficaci ed efficienti, in grado di essere proiettate a distanza in conflitti di diversa intensità, con un forte livello di interoperabilità con i maggiori alleati europei e transatlantici. Tutto questo dovrà essere praticato attraverso una serie di riforme non facili, tra cui la graduale revisione numerica che porterebbe nel 2024 il personale militare italiano a circa 150.000 unità. Il dibattito ha approfondito diversi aspetti relativi a questo adeguamento:

Quale consenso per l’adeguamento dello strumento militare

È stato sottolineato come il problema dell’adeguamento dello strumento militare vada affrontato anche dal punto di vista parlamentare. Infatti, anche lo strumento militare è “ingessato” da regole, vincoli legislativi che limitano la possibilità di manovra. Come si sta muovendo il Parlamento per adeguare lo strumento militare alle nuove esigenze/necessità? E’ stato auspicato prima di tutto che il tema delle Forze armate, delle missioni e più in generale della difesa non rimanga circoscritto ai soli addetti ai lavori ma trovi spazio, vivacità

SINTESI DEL DIBATTITO

L’ADEGUAMENTO DELLO STRUMENTO MILITARE TRA NUOVE ESIGENZE

OPERATIVE E RISORSE DISPONIBILI

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e apprezzamenti anche all’interno dell’opinione pubblica. Entrando nel merito della domanda, il Parlamento registra delle difficoltà nel procedere verso la realizzazione della riforma dello strumento militare e la causa sembra derivare dalle modalità con cui si tende ad affrontare tale questione, ritenute eccessivamente ideologiche e poco realiste. Se è vero che si è assistito un cambiamento importante nel livello di partecipazione dell’opinione pubblica rispetto alle Forze armate, nella quotidianità questa partecipazione diffusa tende a venir meno e si ritorna ad essere condizionati da fattori puramente

ideologici e di parte. È stato poi sottolineato come questa riforma sia necessaria, a partire dai drastici tagli attuati in passato, in quanto l’equilibrio tra le risorse e lo strumento risulta assolutamente disallineato (la ripartizione dei fondi vede al momento un 70% delle spese destinate esclusivamente al personale), con difficoltà che emersero già durante il passaggio dall’esercito di leva a quello professionale. Infine, è stata riscontrata la necessità di un stravolgimento culturale non solo a livello politico ma anche in quei settori economici-industriali responsabili del sistema paese. Un passaggio culturale sarebbe, prima di tutto, assegnare alla difesa e alle Forze armate – così come ad altri soggetti che lo richiedono – una loro “specificità”, del tutto incomparabile con altri settori professionali. In secondo luogo, sarebbe opportuno considerare come il sostegno all’industria della difesa rappresenti un investimento che, per sua natura, può avere ricadute positive solo nel lungo periodo ed esclusivamente se l’industria opera in modo efficiente. A questo proposito l’industria italiana ha ottenuto sia risultati lodevoli, ed è il caso degli elicotteri, sia fallimenti, ad esempio l’Eurofighter: al di là delle caratteristiche qualitative di tale velivolo, la ragione del suo fallimento va ricercata nell’incapacità sia manageriale che politica di “fare sistema”.

L’adeguamento tecnico-amministrativa dello strumento militare

Durante la discussione è stato evidenziato come la profonda evoluzione delle missioni di pace odierne imponga una riflessione sul progetto di revisione che ha investito lo strumento militare e l’area tecnico amministrativa. Si tratta di un progetto di razionalizzazione delle procedure e ottimizzazione delle risorse con l’obiettivo di assicurare un supporto adeguato alle unità italiane impegnate in patria e all’estero. In questo contesto, assume particolare rilevanza il processo di trasformazione delle direzioni tecniche dell’area tecnico-amministrativa che si configurano come uno dei core business. Un progetto che enfatizza la struttura in linea con le direzione tecniche dal Segretariato Generale della Difesa,

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realizzando una visione unitaria tra tutte le direzioni del ciclo di approvvigionamento, dalla fase di ricerca e sviluppo fino alla fase di introduzione in servizio. L’obiettivo principale è di accorciare la catena tra il Segretariato e le direzioni tecniche, conferendo a quest’ultime maggiore efficienza ed efficacia nell’azione tecnico-amministrativa, ponendo forse le premesse per un futuro segnato da una sempre più crescente integrazione verso un’unica struttura, ossia verso una vera e propria Direzione Nazionale degli Armamenti. È una struttura che deve far leva sull’internazionalizzazione dei

programmi, sul sostegno all’industria nazionale e su un’informatizzazione sempre

più capillare.

La razionalizzazione della spesa e la salvaguardia degli assets industriali e

tecnologici nazionali

Durante il dibattito ci si è domandati come trovare un punto di equilibrio tra l’esigenza di razionalizzazione della spesa, alla luce della crisi economica, e la necessità di salvaguardare alcuni assets industriali e tecnologici dell’Italia. Le risorse sono sicuramente insufficienti ma, aspetto più preoccupante, si stanno raggiungendo soglie critiche e punti di non ritorno per alcuni settori e tecnologie. Al tempo stesso, data l’impossibilità di incrementi finanziari, ciò che deve cambiare è la modalità di gestione di tali risorse e una delle soluzioni evocate è quella di un maggior coinvolgimento dell’Europa. Il vecchio continente è ancora nel suo complesso un grandissimo produttore di sicurezza internazionale ma paradossalmente è un “edificio contabile”, non esistendo

un’Europa della difesa. Utilizzando i parametri della spesa per il personale rispetto agli investimenti è possibile calcolare il costo di una “non-Europa”: se non avessimo duplicazioni si potrebbe ambire a ridurre quella media europea del 50% di spese destinate al personale. A bilanci europei correnti, il costo di una “non-Europa” ammonterebbe attorno ai 45/50 miliardi di euro. In sintesi, le risorse non sono adeguate ma devono diventarlo, aumentando le economie di scala sugli investimenti attraverso “più Europa” e sfruttando ulteriormente i programmi di collaborazione europei che, ancora oggi, pesano relativamente poco sulle spese del

procurement.

L’adeguamento della base industriale italiana

È lecito dunque domandarsi come l’industria italiana stia cercando di adeguarsi rispetto ai cambiamenti in corso sia in riferimento al mercato della difesa sia in relazione allo scenario operativo in cui intervengono le Forze armate che utilizzano gli strumenti prodotti dall’industria. La complessità assunta dal tipo di missioni, la necessità di una crescente interoperabilità, l’evoluzione tecnologica

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delle forze in gioco, la capacità degli attori ostili di creare rapidamente mezzi di offesa, e il tasso di usura dei mezzi rendono necessario un rapporto diverso da parte dell’industria nella sua capacità di fornire un supporto operativo. A questi elementi si

aggiunge il fattore tempo, ossia quello che viene denominato l’operational tempo: se in passato la

velocità non rappresentava uno dei fattori importanti nella capacità di sviluppare sistemi di difesa, ora la rapidità dell’approvvigionamento e la capacità di adattamento sono fondamentali. Tra l’altro, l’immediatezza delle esigenze operative fa si che il rapporto tra la prima linea e il fornitore sia molto più diretto di quanto fosse un tempo, non mediato dagli uffici di Stato Maggiore o dagli uffici studi. Di conseguenza, in un momento in cui il mondo militare si trova a diretto contatto con l’industria, è necessario trovare alternative al normale processo di procurement pur rimanendo nel rigore amministrativo e in un contesto di costo-efficacia. Tuttavia, è altrettanto doveroso continuare a lavorare sul lungo periodo, ossia in termini strategici. In estrema sintesi, l’obiettivo ultimo è disporre di un sistema di procurement in grado di rispondere a esigenze di adattabilità dello strumento militare e, al tempo stesso, abile nel sostenere i contingenti all’estero attraverso una capacità

di reazione immediata.

L’esperienza delle missioni internazionali, sia per durata sia per intensità, ha rivoluzionato il modus operandi del sistema dell’industria della difesa italiana. Si è reso necessario fornire soluzioni tecnologiche per rispondere a esigenze operative d’urgenza (che si trasformano immediatamente in innovazioni-prodotto), realizzare un sistema di procurement rapido ed efficace e concepire un sistema organizzativo per migliorare i rapporti tra Forze Armate e industria. La maggior operatività delle Forze armate ha forzato le modalità classiche di acquisizione con l’introduzione di percorsi alternativi pur rimanendo nell’ambito della correttezza amministrativa: nei paesi anglosassoni si parla infatti di Urgent Operational Requirements (UOR) mentre in Italia di Mission Need Urgent Requirements (MNUR). L’esperienza sul campo ha arricchito l’industria, fornendo la capacità per fornire riposte rapide ed efficaci. Ciò nonostante, una società ha dei limiti intrinseci, motivo per cui è determinante lavorare in partnership; quella con le Forza armate è il valore aggiunto più

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importante che si riflette altresì sugli acquisti off-the-shelf, laddove questi possano rivelarsi un vantaggio immediato nel breve periodo. Nel caso però sussista la necessità di adattamento o di architetture aperte occorre una società partner alle Forze armate. Non è necessario fare affidamento completamente sull’industria nazionale ma l’industria nazionale può e deve essere il partner delle Forze armate per l’esatta “costumizzazione” di ogni mezzo e strumento. È stato inoltre sottolineato che lo

sviluppo di tecnologie e di nuovi strumenti difesa avviene in tutto il mondo attraverso fondi governativi o tramite i contratti con le Forze armate. È altrettanto evidente che senza questi fondi perderemmo sia la capacità competitiva a livello mondiale sia la capacità di fornire alla nostra difesa gli equipaggiamenti allo stato dell’arte. Per esempio, per quanto efficiente ed efficace sia una società come Finmeccanica non potrà mai nel settore della difesa sviluppare – con le sole proprie forze finanziarie – nuovi modelli e nuovi sistemi. Infine, per quanto riguarda la possibile fusione tra BAE-EADS, è stato notato che mentre un accordo politico sulla difesa è realizzabile anche senza il sostegno dell’industria, l’industria non sarà mai in grado di trovare una intesa senza un

accordo politico.

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Innanzitutto, vorrei iniziare con due “grazie”. Il primo “grazie” è agli organizzatori di questo convegno e

a tutti quelli che sono intervenuti, perché sono stati interventi di spessore. Il secondo “grazie” credo, invece, debba andare al soggetto vivente dell’oggetto di questa conferenza: quelle donne e quegli uomini che oggi, ieri e domani sono impegnati e si impegneranno sul tema della conferenza, le missioni internazionali. Voi sapete, l’avete visto, sono rientrato dall’Afghanistan domenica sera e ho visto una realtà di vero grande spessore: umana e operativa. Qui non possiamo continuare a dirci che noi siamo l’“Italian way to peace-keeping”. Intendendo con questo che noi siamo bravi, siamo buoni, italiani brava gente, noi portiamo gli aiuti come la Croce Rossa. Non è questo l’“Italian way to peace-keeping”. Sono le

capacità operative gestite in maniera intelligente e quindi in maniera umana e umanistica: questo è l’“Italian way to peace-keeping”, non la Croce Rossa. Quindi, quando sento il dibattito “Le Forze armate, perché sono armate?”, personalmente dico: allora non facciamo le Forze armate. Ma so che questa non è una posizione seria. I nostri militari sono gente seria, non solo umanamente. È gente che ha capacità operative vere, che vive giorno per giorno insieme agli americani, ai francesi, agli inglesi senza alcun complesso d’inferiorità. Io ho passato molti anni nella Difesa, so - e lo dico con rispetto - cos’erano le capacità nell’82 in Libano. Per questo, ripeto con cognizione di causa, oggi le capacità che ci sono in Afghanistan, ma anche in Libano, e altrove, nell’Afghanistan in particolare, sono assolutamente di primo livello. Perché dico questo? Perché questa è la legacy che ci hanno lasciato quelli che prima di noi hanno visto giusto e hanno costruito il presente con impegno, con visione, e anche con risorse; e mi riferisco ai Governi, ai Parlamenti e agli italiani che hanno votato questi Parlamenti e questi Governi. Chi ci ha preceduto ha fatto delle scelte giuste. Oggi c’è una realtà operativa di tutto rispetto. Ebbene, noi qui oggi ci dobbiamo porre un problema di responsabilità: cosa ne facciamo di questa capacità operativa? Come assicureremo che fra 10 anni, 15 anni, ci possa essere una capacità operativa dello stesso livello? Qui si parla molto - e io ho apprezzato molto cosa ha detto Marta

DISCORSO CONCLUSIVO DEL MINISTRO DELLA DIFESA

GIAMPAOLO DI PAOLA

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(Sottosegretario del Ministero Affari Esteri) - di realtà europea, di costruzione della Difesa Europea, di costruzione di “Più Europa”. Bene, parlare di queste tematiche – l’ha fatto anche il Prof. Andreatta – è giusto, è sacrosanto e anche corretto, purché non sia una fuga dalle responsabilità. Mentre discutiamo di come adattare, trasformare, rendere operativo anche domani il nostro strumento militare con le risorse che il Parlamento e quindi il popolo italiano ci dà, non possiamo abdicare ad altri la nostra sicurezza e difesa; come se ci dovesse pensare qualcun altro, magari l’Europa che mette le risorse. Ma

l’Europa, come ha detto l’ambasciatore Sessa riferendosi alla Nato, o come direbbe l’ambasciatore Giansanti, l’Europa siamo noi. Quindi la visione di “Più Europa”, cioè una politica più forte e integrata di sicurezza e difesa europea, passa attraverso la nostra responsabilità, che non può essere soltanto declaratoria: non è solo argomento da convegno “dov’è il modello di difesa europeo?” No, il modello di difesa europeo lo costruiamo noi europei, impegnandoci sia a Bruxelles, ma anche in Italia, a far in modo che questo strumento possa avere una linea di avanzamento coerente con gli alleati europei. Perché siamo chiari una volta per tutte: quelle che sono le linee di sviluppo degli strumenti militari, sono ben definite a Bruxelles. Che si tratti della Nato o dell’Unione Europea. Sono linee di sviluppo che parlano di capacità vere, capacità operative vere; ma voi pensate che a Parigi – e qui c è l’ambasciatore francese – quando pensano alla Difesa europea, pensino ad una difesa disarmata, tanto per intendersi? Voi pensate che a Berlino, quando pensano alla Difesa europea pensino a una difesa disarmata? Voi pensate che a Londra quando pensano alla Difesa europea pensino ad una difesa disarmata? Io so che non lo pensate, ma se lo pensaste, vi assicuro che sareste proprio sulla strada sbagliata.

Noi viviamo in un momento in cui, le realtà internazionali sono cambiate notevolmente. Innanzitutto, non è questione di compassi, qui c’è una realtà ineludibile che si chiama globalizzazione. La globalizzazione, di per sé, vuol dire che il compasso non ha più rilevanza; perché io non so se domani noi, sia come Italia o come alleati atlantici o europei, noi saremo nel Sahel, nel Corno d’Africa

o in qualunque altra parte; o anche - mi si passi la battuta - nel Mar Cinese. Non lo so. Ma quello che so è che un domani in ognuno di questi posti, (e ciò non ha niente a che vedere con la distanza geografica) possono nascere delle situazioni, ove noi come paese, nel contesto delle realtà istituzionali di cui siamo parte, potremmo essere chiamati a intervenire e lo decideremo noi insieme agli altri.

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Perché quella che gli americani chiamano homeland security, quindi la sicurezza nostra, dei nostri cittadini, la si fa lì. Le missioni internazionali, la sicurezza internazionale, dovunque essa sia, a 6000, a 10000 o a 3000 km o a 300 km come i Balcani, quella è la sicurezza degli italiani, la sicurezza di noi europei, la sicurezza di noi euro-atlantici. Quindi noi abbiamo come Governo, ma anche come Parlamento, perché il Parlamento è sovrano, la responsabilità di renderci conto di questo. La

Senatrice Pinotti ha spiegato molto chiaramente il dibattito che si sviluppa a volte nelle forze politiche. Io sono il primo che dice si debba fare un Libro Bianco. Nessun problema. Ma guardate che il Libro Bianco non è né il Libro Bianco di Martino, né quello di Mattarella, né quello di Parisi: quelli non sono Libri Bianchi (tra l’altro, modestamente, ho anche contribuito a scriverli), sono dei documenti della Difesa. I Libri Bianchi, spesso si parla di quello della Francia, i Libri Bianchi li fa il Governo, seguiti poi dal dibattito in Parlamento. Sono documenti di Governo, non può essere il documento del Ministro della Difesa e tanto meno del Capo dello Stato Maggiore della Difesa. Il “Libro Bianco” è un documento di governo. In un contesto di difficoltà fiscali molto forti, che continuerà a perdurare negli anni a venire, portiamo avanti la razionalizzazione di quello che abbiamo, per non disperdere quello che abbiamo acquisito. Con l’obiettivo di non tornare, lo dico con il massimo rispetto, alle Forze armate degli anni ‘80 o ‘70. Questo sarebbe il vero torto che noi faremmo agli italiani e quindi all’Italia. Per questo, indipendentemente da quello che potrebbe essere giusto o non giusto per la difesa italiana, quello che ci viene dato - tanto o poco che sia - quello deve essere messo a frutto. Questo è quello che intendo fare con la revisione dello strumento militare, racchiuso nel disegno di legge delega. Cioè, mettere a frutto quelle risorse che il Parlamento sovrano ci mette a disposizione, senza sogni. Per troppo tempo abbiamo vissuto nell’illusione, me compreso, che: “ma l’anno prossimo è un nuovo giorno”, come nella famosa frase di “Via col Vento” nella scena finale. Si, l’anno prossimo è un nuovo giorno, ma è un giorno che continuerà ad essere, quantomeno, non sereno pieno; forse non sarà torrenziale ma, senz’altro, sarà un giorno nuvoloso. E comunque la riforma dello strumento militare oggi, tornerà sempre utile anche domani, dovesse cambiare lo scenario, dovessimo diventare Paperon de Paperoni, dovessero esserci altri tipi di risorse più coerenti con quello che si fa in Europa.

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Queste risorse verrebbero innestate su un tronco che è rimasto sano, perché - come diceva il Prof. Andreatta - se noi scendiamo sotto un certo livello, per cui questo corpo non sarà più sano, non lo recuperiamo più! Questo bisogna comprendere, io credo che tutti voi,

come italiani e come europei e come atlantici, ve ne rendiate conto. La crisi fiscale, la crisi economica è anche un’opportunità. Io credo che Marta Dassù abbia ragione: è un’opportunità per rilanciare una visione di una realtà politica dell’Europa. Guardate che un’Unione politica non deve essere necessariamente gli Stati Uniti d’Europa. Uno lo può anche sognare, personalmente non lo so. Ma certamente si può delineare una visione che si accompagna a quella dell’unione economica. Una visione anche di un’Unione di sicurezza e difesa: in altre parole un percorso. Il Trattato di Roma è stato firmato 30 anni prima di Maastricht, Maastricht ci ha messo 10 anni per vedere la moneta unica, che chiamasi euro – e adesso magari a volte qualcuno la maledice, ma per fortuna che ce l’abbiamo – e da Maastricht a Lisbona - di cui tanto si parla - ci sono voluti vent’anni. Quindi, adesso è il momento di pensare, di usare questo momento di crisi per costruire una visione più integrata e quindi anche una dimensione di sicurezza e difesa europea. Non so quanto tempo ci vorrà perché questa visione diventi realtà. Non lo so, speriamo non ci voglia lo stesso tempo che in passato, nessuno lo può dire. Ma se non si ha il coraggio ora di farlo ne saremo responsabili per quelli che verranno dopo di noi. Credo che questa dimensione europea, non sia solo una realtà necessaria per far fruttare meglio le risorse a disposizione (che complessivamente in Europa sono importanti), ma sia anche una realtà necessaria per rafforzare quell’altra realtà, altrettanto indispensabile, che si chiama rapporto transatlantico. Gli Stati Uniti d’America, che sono un importante, fondamentale, elemento di garanzia della nostra sicurezza, chiedono agli europei di fare di più, di fare meglio e di essere partner, politici e militari, più importanti. Ed io credo che la maniera di rispondere a questa richiesta legittima e doverosa sia quindi quella di rafforzare il rapporto transatlantico attraverso una realtà europea. Quindi, la costruzione europea è un modo di rispondere a questa esigenza che rafforza, non indebolisce il rapporto transatlantico. Questo è fondamentale. Ciò non soltanto nell’interesse del nome dell’Europa, ma anche nel nome del rapporto transatlantico, che è l’essenza della politica italiana in campo internazionale da sempre. E’ l’essenza della visione di De Gasperi. E’ l’essenza degli uomini che hanno fatto la politica italiana in questo campo.

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Naturalmente, questa realtà europea che noi vogliamo costruire, oggi passa attraverso la messa in ordine in ciascun paese europeo delle proprie capacità, del proprio strumento; lungo le linee di coerenza, delineate nel contesto euro-atlantico. Quand’è che riscriveremo la European Security Strategy? Sarebbe assolutamente il caso, un po’ come se

quella diventasse il Libro Bianco dell’Europa, che va fatto al massimo livello. Ma lo possono fare i Ministri della Difesa. Io ero a Riga domenica scorsa. C’era una security conference a Riga. E c’erano i Presidenti e i Primi Ministri dei paesi, baltici e nordici, e parlavano solo e soltanto della crisi finanziaria. Era chiaro: era il tema centrale del momento. Poi sono andati via i Primi Ministri, sono arrivati i Ministri della Difesa e parlavano della sicurezza. Io ho detto: “ finché ne parlo io non conta niente, se ne parla il Presidente Monti conta”. Quindi, quando Monti, Merkel, Hollande e Cameron parleranno loro di questi temi, allora sì che vedremo un percorso di costruzione. Noi in questo momento dobbiamo far sì che quando matureranno queste idee, quando maturerà questa visione, noi saremo pronti con gli strumenti, perché allora faciliteremo il percorso. E’ questo, quello che ci viene chiesto. E’ in questa visione che allora anche le risorse della Difesa acquistano una dignità. E allora non si dibatterà più di F35 o no, dei “Lince” o no, ma si dibatterà delle vere problematiche della sicurezza. Certo, la dimensione industriale è una componente essenziale . Se non lo fosse i paesi che alla difesa annettono un valore proprio fondamentale non ne dibatterebbero così spesso. Perché oggi si dibatte dell’operazione possibile EADS/BAE? Perché, giusta o sbagliata che sia (e non sta a me in questo momento commentare) è chiaro che si rendono conto che un consolidamento dell’industria della difesa, nel contesto internazionale, è necessario. Ed è chiaro, quindi, che anche l’Italia deve contribuire a questo consolidamento: l’Italia ha una base industriale, l’Italia ha una solida base industriale della difesa. Questi sono investimenti. Non sono costi, non sono spese, non sono esercizio; questi sono veri e propri investimenti per il futuro di questo paese. E per quella costruzione europea che noi vogliamo e che a parole - sento dire - tutti vogliono. Questi sono fatti, non parole. Quindi noi ci dobbiamo muovere in questa direzione. Noi lo dobbiamo, credo, agli italiani in primis, lo dobbiamo alle istituzioni di cui siamo parte, alle grandi istituzioni internazionali di cui siamo parte. L’Italia non è un paese minore – qui la dobbiamo smettere di piangerci addosso

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– l’Italia non è un paese minore, l’Italia è un paese minore quando si comporta da paese minore; ma l’Italia, quando mette a frutto le sue energie intellettuali, etiche, è un grande paese. L’Italia alla storia del mondo ha dato tanto. Ricordiamocene, ritroviamo questo orgoglio, quest’etica dell’italianità nel contesto europeo; perché diventa un’etica italiana, europea. Ebbene, se ci mettiamo in quest’ottica, il lavoro che stiamo facendo, e lo chiedo a tutti i parlamentari che sono qui, acquisterà un’altra luce, un’altra importanza.

Grazie.

Per il video dell’intervento in forma integrale:

http://webtv.camera.it/portal/portal/default/

Archivio?IdEvento=5273&IdIntervento=3622

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Allegati

Approfondimenti Programma Rassegna stampa

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Allegato 1

APPROFONDIMENTI

http://www.iai.it/pdf/DocIAI/iai1205.pdf

http://www.ispionline.it/it/documents/ISPI%20StudiesItalia.htm

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PROGRAMMA

9.30-9.35 APERTURA DEI LAVORI: Stefano Silvestri, Presidente IAI e Giancarlo Aragona,

Presidente ISPI 9.35-9.50 SALUTO INTRODUTTIVO:

Gianfranco Fini, Presidente della Camera dei Deputati 9.50-10.00 PRESIEDE:

Stefano Silvestri, Presidente, IAI 10.00-10.15 INTERVENTO:

ITALIA E NATO NELLE MISSIONI INTERNAZIONALI Staffan de Mistura, Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri

10.15-11.25 SESSIONI:

LO SCENARIO STRATEGICO INTERNAZIONALE TRA INSTABILITÀ E AREE DI CRISI

MODERATORE: Paolo Magri, Vice Presidente Esecutivo e Direttore, ISPI PARTECIPANTI: Antonello Biagini, Università degli Studi La Sapienza di Roma Giorgio Cornacchione, Consigliere Militare del Presidente del Consiglio dei Ministri Gian Maria Gros-Pietro, Università LUISS Guido Carli di Roma Enrico Letta, Commissione Difesa, Camera dei Deputati Vittorio Emanuele Parsi, Università Cattolica di Milano Riccardo Sessa, Ambasciatore e Rappresentante Permanente d’Italia presso il Consiglio Atlantico, NATO

11.25-11.50 Pausa caffè 11.50-13.00 IL RUOLO E L’INTERESSE ITALIANO NEL MANTENIMENTO DELLA

SICUREZZA INTERNAZIONALE MODERATORE: Mario Arpino, Comitato Direttivo ed Esecutivo IAI PARTECIPANTI: Cristiano Bettini, Sottocapo di Stato Maggiore della Difesa Luciano Bozzo, Università degli Studi di Firenze Alberto Cutillo, Direzione Generale per l’Unione Europea, Ministero degli Affari Esteri Bruno Antonio Pasquino, Capo Ufficio per gli interventi

Allegato 2

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umanitari e di emergenza, Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo, Ministero degli Affari Esteri Luigi Ramponi, Commissione Difesa, Senato della Repubblica

13.00-14.00 Colazione 14.00-14.10 PRESIEDE:

Giancarlo Aragona, Presidente, ISPI

14.10-14.25 INTERVENTO:

ITALIA E UNIONE EUROPEA NELLE MISSIONI INTERNAZIONALI Marta Dassù, Sottosegretario di Stato agli Affari Esteri

14.25-15.40 SESSIONI:

LA PARTECIPAZIONE ITALIANA ALLE MISSIONI INTERNAZIONALI: CRITERI E PRIORITÀ MODERATORE: Vincenzo Camporini, Vicepresidente, IAI PARTECIPANTI: Marco Bertolini, Comandante del Comando Operativo di vertice Interforze, Stato Maggiore della Difesa Alessandro Colombo, Università degli Studi di Milano e Direttore dell’Osservatorio “Sicurezza e Studi Strategici”, ISPI Luca Giansanti, già Rappresentante dell’Italia presso il

Comitato Politico e di Sicurezza Sonia Lucarelli, Università degli Studi di Bologna Francesco Rutelli, Commissione Difesa, Senato della Repubblica

15.40-16.10 Pausa caffè 16.10-17.30 L’ADEGUAMENTO DELLO STRUMENTO MILITARE TRA NUOVE ESIGENZE

OPERATIVE E RISORSE DISPONIBILI Moderatore: Michele Nones, Direttore Area Sicurezza e Difesa, IAI PARTECIPANTI: Filippo Andreatta, Università degli Studi di Bologna Guido Crosetto, Commissione Difesa, Camera dei Deputati Gianfranco Giglio, Segretariato Generale della Difesa Direzione Nazionale degli Armamenti, Ministero della Difesa Giuseppe Orsi, Presidente e Amministratore Delegato, Finmeccanica Roberta Pinotti, Vice-Presidente Commissione Difesa, Senato della Repubblica

17.30-18.00 INTERVENTO CONCLUSIVO:

Giampaolo Di Paola, Ministro della Difesa

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Allegato 3

RASSEGNA STAMPA

AGENZIE GIORNALISTICHE

Afghanistan: De Mistura,fatto nostra parte, accelerare ritiro 'avviare redeployment per poter essere pronti altrove', ANSA - 25/09/2012 Difesa: Dassù, in politica sicurezza necessaria più Europa 'crisi più fare da incentivo per più stretta cooperazione', ANSA - 25/09/2012 Difesa: De Mistura, non ridurre presenza in missioni estere alternativa sarebbe perdita influenza operazioni fondamentali, ANSA - 25/09/2012 Napolitano, da Italia grande contributo alla pace, ANSA - 25/09/2012 Napolitano,crisi ha imposto riqualificazione interventi pace, ANSA - 25/09/2012 Fini, mantenere alto sostegno missioni pace crisi impone definire al meglio obiettivi e priorità, ANSA - 25/09/2012 Fini, terrorismo integralista e' sfida comunita'internazionale, ANSA - 25/09/2012 Fini, con missioni estero Italia più credibile, ANSA - 25/09/2012 Missioni: Napolitano, incrementare efficienza per aiutare la pace, AGI - 25/09/2012 Missioni: Napolitano, incrementare efficienza per aiutare la pace (2), AGI - 25/09/2012 Difesa: Di Paola, quella europea non è fuga da responsabilità, AGI - 25/09/2012 Camera: convegno sul ruolo dell'Italia nelle missioni internazionali, AgenParl - 25/09/2012 Difesa: Di Paola, riforma strumento investimento su futuro, Asca - 25/09/2012 Difesa: Fini, le nuove sfide del terrorismo e dell'intolleranza etnica, Asca - 25/09/2012 Difesa: Fini, con missioni internazionali Italia più autorevole, Asca - 25/09/2012 Difesa: Napolitano, si a missioni ma con crisi riqualificare interventi, Asca - 25/09/2012 Difesa: Napolitano, Italia da 20 anni garantisce contributo per la pace, Asca - 25/09/2012 Il ruolo dell’Italia nelle missioni internazionali nel convegno IAI-Ispi: difesa e sicurezza rimodulando la spesa, Aise - 26/09/2012

CARTA STAMPATA Il ruolo dell'Italia nelle missioni all'estero. Il rapporto Ispi-Iai, Corriere della Sera - 25/09/2012 Afghanistan: De Mistura,accelerare ritiro, Corriere della Sera - 25/09/2012 Afghanistan: De Mistura,accelerare ritiro, La Gazzetta del Mezzogiorno - 25/09/2012

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Alla Camera Convegno sulle missioni internazionali, Il Tempo - 25/09/2012 Napolitano: "Impegno per missioni di pace ma la crisi impone di rivedere le spese", La Repubblica - 25/09/2012 Missioni all'estero, per Napolitano costi da riesaminare, Attualissimo - 25/09/2012 Difesa, Napolitano: “Sì alle missioni ma con la crisi riqualificare gli interventi”, T-MAG - 25/09/2012 De Mistura, via dall'Afghanistan per dispiegare le truppe altrove, La Stampa - 26/09/2012 Gli italiano soldati ombra delle missioni impossibili, Libero - 26/09/2012 Trent'anni da "italiani, brava gente", il Sole 24Ore - 26/09/2012 Difesa, dubbi etici e costi elevati, Famiglia Cristiana - 26/09/2012 Vogliamo o no difendere i nostri interessi nella difesa?, Italia Oggi - 27/09/2012 Missioni di pace, serve più consapevolezza, Liberal - 27/09/2012 Finmeccanica Eyes Strategic Response To Possible Merger, Defence News - 01/10/2012

RIVISTE E QUOTIDIANI ON-LINE Le missioni internazionali e la politica estera italiana, l'Occidentale - 27/09/2012 Rapporto Iai/Ispi, le priorità della politica estera, Formiche.net - 25/09/2012 Costi, benefici e rischi delle missioni all´estero, Formiche.net - 25/09/2012 Così Orsi e Di Paola giudicano Bae/Eads, Formiche.net - 25/09/2012 Missioni, Napolitano: “La crisi impone tagli”, AffarItaliani - 25/09/2012 La crisi impone una spending review anche per le spese militari, BuoneNotizie.it - 26/09/2012 Missioni Pace, Napolitano: Crisi impone riqualificazione interventi, PrimaPaginaNews - 25/09/2012 Fermo impegno ma va misurata la spesa pubblica, la Discussione - 26/09/2012 L'Italia nelle missioni internazionali, AffariInternazionali - 24/09/2012

PROGRAMMI RADIOFONICI E TELEVISIVI

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