il primo amore del tempo che fu

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Centro Sociale L'Incontro di Castiglione del Lago

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Quaderni del volontariato

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Un grazie ai nostri

amici della “grande età”

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C. S. A. L’incontro

Il primo amore del tempo che fu

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CesvolCentro Servizi Volontariatodella Provincia di Perugia

Via Sandro Penna 104/106Sant’Andrea delle Fratte06132 Perugiatel. 075/5271976fax. 075/[email protected]@pgcesvol.net

Pubblicazione a cura di

Con il patrocinio

della Regione Umbria

Progetto grafico e videoimpaginazione

Chiara Gagliano

Foto concesse da non ospitidella Residenza Protetta

© 2008 CESVOL2008 FUTURA soc.coop.

ISBN 88-95132-37-8

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I quaderni del volontariato, un viaggio attraverso un libro nel mondo del sociale

Il CESVOL, centro servizi volontariato per la Provincia di Perugia,nell’ambito delle proprie attività istituzionali, ha definito un pianospecifico nell’area della pubblicistica del volontariato.

L’obiettivo è quello di fornire proposte ed idee coerenti rispetto aitemi di interesse e di competenza del settore, di valorizzare il patri-monio di esperienze e di contenuti già esistenti nell’ambito delvolontariato organizzato ed inoltre di favorire e promuovere la cir-colazione e diffusione di argomenti e questioni che possono rite-nersi coerenti rispetto a quelli presenti al centro della riflessioneregionale o nazionale sulle tematiche sociali.

La collana I quaderni del volontariato presenta una serie di pro-duzioni pubblicistiche selezionate attraverso un invito periodicorivolto alle associazioni, al fine di realizzare con il tempo unavera e propria collana editoriale dedicata alle tematiche sociali,ma anche ai contenuti ed alle azioni portate avanti dall’associazio-nismo provinciale.

I Quaderni del volontariato, inoltre, rappresentano un utile sup-porto per chiunque volesse approfondire i temi inerenti il socialeper motivi di studio ed approfondimento.

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Indice

9 Presentazione

11 Terapia della reminescenza

17 Parte prima: le ideepremessal’educazione nell’adultalitàl’andragogial’autobiografia come metodo di apprendimento

47 Parte seconda: l’esperienza i primi incontriil fidanzamentoil matrimonio

71 Glossario dei termini dialettali

73 Conclusione

74 Bibliografia

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In qualità di Presidente della Residenza Protetta “Creusa BriziBittoni”, ben volontieri ho assicurato, assieme ai consiglieri diAmministrazione, la massima disponibilità affinché la professo-ressa Sannella Maria Pia e la dottoressa Bordini Debora potesse-ro sviluppare il progetto dal titolo “Il Primo amore del tempo che

fu”, valorizzando l’esperienza maturata in un lungo, proficuo rap-porto di collaborazione con la Residenza Protetta “Creusa BriziBittoni” di Città della Pieve.Tale collaborazione si è innanzitutto concretizzata con il colloquioe l’ascolto degli anziani ospiti, dalla cui esperienza di vita si sonotratti interessanti spunti che hanno consentito di approcciarsi allostudio delle problematiche degli anziani con competenza e dedi-zione, concludendosi con la pubblicazione del presente volume.

Il PresidenteVincenzo Cappannini

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Presentazione

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TERAPIA DELLA REMINESCENZA

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Terapia della reminescenza

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Da sempre l’approccio dell’équipe multidimensionale che operaall’interno della struttura, rispetto alla gestione dell’ospitedemente, è quello rivolto ad una diminuzione dell’utilizzo dimezzi di contenzione a favore dell’individuazione di strategiealternative che consentano non solo una corretta gestione del-l’ospite, ma soprattutto una valorizzazione delle sue abilità resi-due e quindi di una qualità di vita migliore. In ambito riabilitati-vo un aiuto nella gestione delle demenze è costituito da terapienon farmacologiche che si rivolgono alle componenti cognitive,affettive e comportamentali della malattia. Da questo assunto di base sono stati, nel corso degli anni, attiva-ti all’interno della residenza progetti di terapia occupazionale,musicoterapia, pet-therapy e progetti centrati sulla terapia dellareminiscenza realizzati di volta in volta da esperti che sonodiventati parte integrante dell’équipe.Le terapie non farmacologiche si configurano appunto come unapproccio multidimensionale, coinvolgente più figure professio-nali, finalizzate a conservare il più elevato livello di autonomiacompatibilmente con una determinata condizione clinica. Queste terapie sono costituite da un insieme di tecniche che, purdifferenziandosi per basi teoriche, presentano spesso procedureed obiettivi comuni, come ad esempio l’obiettivo di contrastarel’impatto dei deficit sull’autonomia nelle attività della vita quoti-diana al fine di incrementare la qualità di vita nei pazienti. Le aree sulle quali è possibile intervenire nelle demenze, attraver-so le terapie non farmacologiche, sono relative alle abilità cogni-tive, al tono dell’umore e ad alcuni aspetti comportamentali(competenze sociali, gestione dell’aggressività ecc.). Nell'ambitodelle strategie riabilitative utilizzabili sia nel paziente anzianocon depressione dell'umore sia nel paziente con deficit cognitivi,un ruolo importante è rivestito dalla Terapia della Reminiscenza,nella quale gli eventi remoti rappresentano lo spunto per stimola-re le risorse mnesiche residue e per recuperare esperienze emoti-vamente piacevoli.

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Terapia della reminescenza

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La Terapia della Reminiscenza si fonda sulla naturale tendenzadell'anziano a rievocare il proprio passato che si manifesta natu-ralmente nell’ultima fase della vita di una persona in cui il ricor-do e la nostalgia possono essere fonte di soddisfazione ed idea-lizzazione. Da un punto di vista metodologico la terapia della reminiscenzafa riferimento al ruolo positivo che il ricordo di esperienze pas-sate ha sull’autostima, sul mantenimento dell'identità personale esul tono dell'umore nell'anziano; momento centrale del program-ma riabilitativo è l'utilizzazione del ricordo come strumento indi-spensabile per gettare un ponte tra passato, presente e futuro alfine di meglio interpretare e vivere la realtà quotidiana ed amplia-re quindi la memoria recente. In pratica i soggetti vengono incoraggiati a parlare del loro pas-sato, a ricordare e riportare al gruppo esperienze vissute durantel'età adulta e l'infanzia; successivamente, stimolati a verbalizzarei loro problemi attuali e ad ascoltare quelli degli altri per permet-tere di comprendere meglio la loro condizione, così da raggiun-gere un sempre maggior adattamento al presente ed un migliorlivello di socializzazione.La Reminiscenza può svolgersi in modo informale, spontanea-mente, durante gli incontri giornalieri ma può anche essere inse-rita nell'ambito di un'attività strutturata, individuale o di gruppo.Credendo nella validità di questo tipo di terapia, come ulteriore pos-sibilità di supporto psicologico agli anziani in contrasto con la depres-sione e la sensazione di solitudine, il Consiglio d’Amministrazione el’équipe multidisciplinare della residenza hanno scelto di inserireun’attività strutturata che accogliesse i principi della Teoria dellaReminiscenza e allo steso tempo consentisse di mettere in evidenzal’identità della persona, attraverso il contenuto socio-culturale diun’antropologia vissuta, costituita da singolari tradizioni e infinitigesti del quotidiano cioè un progetto ispirato al metodo autobiografi-co.

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Terapia della reminescenza

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Infatti indagini articolate ed accurate sull’esperienza di vita del-l’anziano consentono una migliore erogazione dei servizi edun’adeguata programmazione centrata sulla ricchezza dell’espe-rienza dell’ospite come risorsa essenziale, non solo della “cura”,ma anche della comprensione civile e permettono inoltre di arric-chire le informazioni che si possiedono sull’ospite, con notizierelative ai singoli bisogni (affettivi, cognitivi, fisici) all’interno diuna comunicazione umanamente significativa.Per l’attuazione del progetto autobiografico è stato chiesto il sup-porto della professoressa Maria Pia Sannella che per anni si èoccupata di educazione degli adulti con una specializzazionerelativa all’applicazione del metodo autobiografico. Il progetto è iniziato in via sperimentale nella primavera del 2007dando vita ad una piccola pubblicazione relativa al periodo dellaseconda guerra mondiale e del dopoguerra e successivamente èripreso nell’ottobre dello stesso anno spostando l’attenzione sulprimo amore che ha poi dato origine a questa pubblicazione.

Debora Bordini

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PARTE PRIMA: LE IDEE

PREMESSA

L’EDUCAZIONE NELL’ADULTALITÀ

L’ANDRAGOGIA

L’AUTOBIOGRAFIA COME METODO

DI APPRENDIMENTO

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Premessa

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Le narrazioni degli ospiti della Residenza Protetta “C.BriziBittoni” di Città della Pieve, il cui tema dà il titolo a questa rac-colta, sono il frutto di un progetto realizzato con gli operatori pergli anziani che in primo luogo vogliamo ringraziare. Ho deciso dipartecipare alla realizzazione di questo progetto sull’autobiogra-fia per la mia profonda convinzione che l’educazione svolganella vita di ogni soggetto un ruolo fondamentale per la rispostaai suoi bisogni, espressi o inespressi, personali e relazionali; perla mia fiducia nella funzione educativa del metodo autobiografi-co; per la diversa percezione della persona anziana rispetto all’at-tuale vissuto sociale, condivisa con i diversi operatori di questapiccola comunità di anziani. Nella grave crisi della società contemporanea, caratterizzata dalcrollo del mito della ragione che ha travolto con sé la speranza, asubirne maggiormente gli esiti sono i più deboli, particolarmentemarginalizzati dai rapidi cambiamenti indotti dall’industrializza-zione. L’anziano è forse il più debole perché su di lui si scarica-no le contraddizioni ed i vuoti di una visione produttivistica cheha informato di sé ogni aspetto della nostra vita ed ha postol’adulto produttivo al centro tra un bambino che non lo è ancoraed un anziano che non lo è più. Così l’anziano, con la scomparsadella sua cultura cresciuta nell’integrazione tra gli uomini e conl’ambiente, sradicato dalle sue piccole comunità o sopravvissutoalla loro dispersione, alienato dalla mortificazione del propriobagaglio esperienziale, socialmente vissuto come parassitaimproduttivo che, “colpevolmente” longevo, sottrae lavoro e red-dito ai più giovani, troppo lento e riflessivo da rallentare la corsa,un po’ oscurantista e un po’ presago di sventure, non ha potutoche far propria questa visione, aiutato anche dall’informazione dimassa, ed accettare di farsi da parte o di essere “trasferito” in luo-ghi “più adatti” a lui.Che sia in famiglia o in casa di riposo l’importante è che capiscadi non darsi più da fare che è meglio per lui e per gli altri. Non è

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Premessa

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più riconosciuto depositario di valori e conoscenze, di quellamemoria collettiva e di quella saggezza che erano un tempo ilriferimento della comunità, se non a parole, fiumi di parole permascherare una cattiva coscienza sociale che si ingegna ad orga-nizzare mondi separati, pagando in denaro piuttosto che in affet-tività. La nostra società, in cui si abusa della parola integrazione,ritiene l’emarginazione dell’anziano una naturale conseguenzadella fine della sua produttività, intesa ristrettivamente solo comeproduzione di beni materiali. Così la sua vita scivola via caratte-rizzata dal “silenzio” e dalla “separazione” in un tempo tutto con-tratto in un indifferenziato presente perché il passato megliotacerlo ed il futuro gli è sottratto dalla perdita di “cittadinanzaattiva”.Ho accettato questa proposta perché non credo che l’anziano siafuori dal processo produttivo perché la forma più alta della pro-duzione umana è quella delle idee, quella dei “grandi vecchi”della storia, punti di riferimento delle grandi civiltà; perché noncredo che ci sia un’età in cui non si può più apprendere; perchého sperimentato quanto il metodo autobiografico sappia attivarele potenzialità sopite dell’uomo, educandolo senza rimetterlo suibanchi di scuola, ma liberandolo dalla sudditanza educativa perrenderlo educatore di se stesso.Condividendo con gli operatori ed i responsabili queste idee sul-l’anziano e la sua educabilità, abbiamo ritenuto necessario farprecedere i brevi racconti degli ospiti della Residenza protetta daquesto capitolo teorico per spiegare i presupposti psico-pedago-gici che hanno guidato la formulazione e la realizzazione delnostro progetto sull’autobiografia. Le narrazioni che presentiamo, infatti, a differenza di molte rac-colte di storie di vita, delle quali ultimamente è invalso l’uso el’abuso, non sono trascrizioni di “interviste” ma l’esito di un per-corso “educativo-rieducativo”.I presupposti teorici che lo giustificano si ritrovano in principiormai acquisiti dalla ricerca delle diverse scienze umane e che,

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Premessa

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per quanto ci riguarda, potremmo riassumere in: l’anziano è edu-cabile e la sua educazione è un diritto ed un dovere; il metodoautobiografico è particolarmente adatto a questa esigenza. Da quiè partita la nostra esperienza a Città della Pieve che ha avuto ini-zio l’anno scorso concludendo la prima fase con la pubblicazio-ne Cesvol del 2007 dal titolo “Mi ritorni in mente” .È seguita questa seconda fase soprattutto per il desiderio degliospiti di ripeterla e quindi riteniamo necessario accennare agliinizi del lavoro perché rappresenta il presupposto necessario percomprendere il momento più importante dell’impostazionepsico-pedagogica di tutto quanto è seguito. Malgrado l’esiguitàdelle pagine, la prima raccolta ha, oltre ad una innegabile poesiadocumentaria, il merito di aver aperto una nuova strada alla tipo-logia relazionale degli ospiti in questione.L’applicazione del progetto della primavera 2007, essendo comedetto il primo per Città della Pieve, ha necessitato di un periodoiniziale di conoscenza reciproca per l’ instaurazione di un rappor-to empatico sereno, reso divertente grazie anche a numerose let-ture da me fatte, non a caso, di Autori dialettali perugini chehanno portato a confrontarci su parole, modi di dire ed aneddotivia via ripescati per gioco nella memoria di ciascuno di noi. Ho detto “non a caso” perché si vedrà più avanti come sia fonda-mentale, nel lavoro autobiografico, partire dalla motivazione delpresente o comunque creare una condizione piacevolmente moti-vante. Così, ad ogni appuntamento, ci incontravamo con gioia, sidecideva se leggere qualcos’altro e si continuava poi a parlarementre gradualmente si circoscriveva l’argomento per consentirea ciascuno di narrare la propria esperienza. Erano già emersinumerosi richiami al tempo di guerra che ha attraversato e segna-to la vita di tutti loro ed è per questo che abbiamo dedicato piùincontri a raccontarci quei giorni.Non allentando mai l’attenzione ai loro bisogni, alla loro stan-chezza o ritrosia, al protagonismo di alcuni o alla demotivazione

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Premessa

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di altri convinti di essere ormai solo in attesa all’ultima “fermatadell’autobus”, ho cercato, insieme agli operatori, di rimuovereogni piccolo problema per liberare un cuore angosciato, unamente assorta altrove, una lingua immobilizzata da troppi silenzie per riabituarli alla capacità di ascolto.Ho cercato di far capire loro, con la mia curiosa attenzione, checiascuno era il più competente su ciò che narrava e che delle loroconoscenze specialmente i più giovani avrebbero potuto far teso-ro per comprendere il loro presente e riflettere sulle radici cultu-rali di valori oggi dispersi. Ho detto che, se loro fossero statid’accordo, avremmo pubblicato i loro racconti ed avremmo cer-cato di organizzare incontri con i ragazzi per presentare e com-mentare questi scritti. Scuotevano la testa alcuni, stringevano lespalle altri ma intanto certi occhi brillavano e un fremito di vigo-re sembrava attraversare i più vigili. Così, passo dopo passo,siamo andati avanti e quel primo risultato, che può apparire mode-sto, è in realtà enorme per il percorso che lo ha prodotto.Quando ci siamo salutati abbracciandoci, al termine del primociclo di incontri, ci siamo dati appuntamento per altre “chiacchie-rate”.Poco tempo dopo è partita la seconda serie di appuntamenti,senza il sole a scaldare il gazebo sul prato, con qualche acciaccoin più, con l’influenza intermittente e la tristezza del cielo ma conlo stesso affetto fra di noi e con la voglia di parlarci ed ascoltar-ci. Non era passato molto tempo dai precedenti incontri, spuntiper riprendere ce ne erano già e le poesie dialettali erano semprea disposizione.Per lo studio e l’esperienza didattica da me svolti sull’uso delmetodo autobiografico nella formazione degli adulti, avevo benchiaro che “il percorso prevale sul prodotto” e non mi sono pre-occupata della quantità dei racconti ma piuttosto delle modalitàdi produzione considerando anche che, oltre ai reiterati attacchidell’influenza, non andava sottovalutata l’incidenza del fattore

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Premessa

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argomento proposto, “il primo amore”, quasi un tabù per la gene-razione autrice di questo opuscolo.Sulla dolcezza, la nostalgia o il rimpianto non poteva non pesareil perbenismo, il senso del peccato, il controllo sociale e l’educa-zione rigida di quegli anni dell’immediato dopoguerra che hannolasciato segni profondi di ritrosia e “pudore”. Porsi nel gruppocome persona fra persone è stato fondamentale per rompere certebarriere e dunque parlare di me prima di domandare e saper pro-cedere con gradualità, dialogicamente, con grande attenzione allerisposte anche e soprattutto non verbali.Di quanto si è discorsivamente detto daremo giustificazione teo-rica nelle tre parti di questo capitolo introduttivo dedicate a:I – l’educazione nell’adultità; II – l’andragogia; III – l’autobiografia come metodo di apprendimento adulto. Solo tenendo conto di quanto detto e di quanto esporremo diseguito si potranno correttamente leggere i racconti dei mieiamici che, nella loro brevità, nelle pause di sospensione ed inaccenni di ironia, consentono di cogliere un mondo ben piùampio di quello che potrebbe apparire ad una lettura rapida esuperficiale. Il testo di una narrazione autobiografica non è infat-ti un prodotto finito da consumare nel tempo breve della curiosi-tà ma la materializzazione di un processo che il lettore può rico-struire e che apre a confronti, collegamenti, contestualizzazioni eriflessioni molto più ampie. Da un punto di vista pedagogico-didattico potrebbe rappresentare,specie per i giovani, il punto di partenza per una ricerca socio-poli-tico-antropologica che, muovendo dal contesto rappresentato, siallarga ad uno sempre più ampio e, per noi operatori, la base perl’ individuazione delle possibilità e dei bisogni educativi di que-sti anziani.Ci auguriamo che le seguenti notazioni teoriche possano dare rispo-ste convincenti sulla possibilità ed utilità dell’ educazione dell’an-

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Premessa

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ziano e sulla rispondenza del metodo autobiografico a questo biso-gno educativo.Ma soprattutto vorremmo che predisponessero ad una lettura atten-ta ed amorevole di frammenti di vita di chi ha lottato, sofferto, amatoe costruito un futuro per i propri figli attingendo ad una cultura anti-ca e creativa.

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L’educazione nell’adultità

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L’EDUCAZIONE NELL’ “ADULTITÀ”

Per poter parlare di educabilità dell’anziano non bisogna tornaremolto indietro nel tempo dato che il concetto si evince dagli esitimaturati nella ricerca delle scienze umane degli ultimi cinquan-t’anni; vi accenneremo limitatamente alla psicopedagogia eall’educazione degli adulti che maggiormente ci riguardano e cheproprio dal secondo dopoguerra, con il nascere delle democrazieeuropee ed il consolidarsi di quella americana, hanno prodotto imaggiori risultati. Al termine del secondo conflitto mondiale,infatti, di fronte alle spaventose devastazioni materiali e moraliprodotte, esplode un’ansia di ricostruzione animata da un profon-do desiderio di pace, giustizia e riaffermazione dell’uguaglianzae della libertà di tutti gli uomini. Se ne fanno portavoce e propu-gnatori, sulla base della riscoperta dei comuni fondamentali dirit-ti umani, nuovi organismi internazionali che vedono nell’educa-zione lo strumento fondamentale per la rinascita dei popoli. In questi anni è anche forte la richiesta di educazione degli adul-ti che viene dal mondo del lavoro per la ricostruzione prima el’industrializzazione poi. Tuttavia proprio l’emergenza economi-ca e poi la spinta all’industrializzazione, accanto ai benèfici effet-ti dell’alfabetizzazione e della qualificazione, produrranno unaenfatizzazione della formazione al lavoro a scapito dell’educa-zione dell’uomo e del cittadino dando l’avvio ad una scissionenella visione educativa dell’adulto che arriverà fino ai giorninostri aggravata dalla progressiva egemonia della visione produt-tivistica.I due percorsi si intrecciano, attingono ai medesimi risultati dellaricerca ma li usano ciascuno in funzione del fine diverso che sipropongono: uno l’efficienza del sistema produttivo attraverso laspecializzazione del lavoratore, l’altro la realizzazione dell’uomoe del cittadino. Per convenzione useremo per il primo la defini-zione di “formazione” e per il secondo quella di “educazione”,

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L’educazione nell’adultità

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termini in genere indifferentemente usati nelle trattazioni, conqualche rischio di confusione.Possiamo ritenere indicativi i riferimenti ai precedenti storici chesi fanno nell’ambito dei due percorsi. La storia dell’educazionedell’adulto si rifà alla “Dichiarazione Universale dei Dirittidell’Uomo”considerata quasi il suo atto di nascita nell’età moder-na. Promulgata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delleNazioni Unite, sulla base dei valori fondamentali della pace, deidiritti e dignità di tutti gli uomini e del progresso sociale nella piùampia libertà affermati nel proprio Statuto, la Dichiarazione defini-sce in 30 brevi articoli i principi portanti della nostra civiltà, tra iquali il diritto all’istruzione (art.26) e alla produzione e fruizionedella cultura (art.27), diritti purtroppo tutt’ora disattesi anche daglistessi paesi membri. Immediatamente dopo l’ educazione degliadulti si collega al dibattito dell’UNESCO che, a partire dal 1949,con la Conferenza di Elsinor, apre un’ importante riflessione sul-l’educazione intesa come formazione di cittadini “illuminati ecoscienti” che dovranno divenire soggetti di sviluppo sociale edemocratico, delineando così il contesto di riferimento dell’edu-cazione nelle democrazie occidentali; l’accesso all’istruzione edalla conoscenza si configura come imprescindibile diritto-doveredi ogni uomo per la realizzazione di se stesso, della propriacomunità e della democrazia (per l’evoluzione storica di questaproblematica si rimanda, tra gli altri, a A.Lorenzetto,1976 eG.Bocca,1993).Per quanto concerne invece lo sviluppo del secondo percorso,che abbiamo definito della formazione, viene in genere fatto rife-rimento ai fenomeni socio-economici che caratterizzano il secon-do dopoguerra italiano come il progressivo aumento della popo-lazione, determinato dal miglioramento delle condizioni di vita,ed il bisogno di manodopera qualificata per la ricostruzione, laripresa economica ed i processi di rapida industrializzazione.Nel primo periodo della ricostruzione l’educazione-formazione

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degli adulti si configura soprattutto come recupero della scolari-tà dalla quale emerge, alla fine degli anni ’50, l’importanza del-l’istruzione per la crescita economica. Gli anni ’60 vedono lanascita di importanti esperienze educative per lo sviluppo dicomunità deboli, come quelle di D.Dolci in Sicilia o di DonMilani a Barbiana e successivamente l’intervento del Ministerodella Pubblica Istruzione con offerte formali di educazione per ilconseguimento del titolo minimo di studio per l’accesso al lavo-ro. Gli anni ’70 e ‘80 presentano maggiore quantità di iniziativeormai inserite nel più elaborato quadro dell’educazione perma-nente su cui hanno proseguito i lavori le commissioni UNESCOe più tardi il Consiglio d’Europa. Ma fondamentalmente si dannorisposte a bisogni produttivi o a rivendicazioni politiche e sinda-cali tra le quali va menzionata la conquista, nel ’73, delle cosid-dette “150 ore”per l’esercizio, attraverso appositi corsi, del dirit-to allo studio dei lavoratori. Del ’77 è il passaggio alle Regionidelle competenze in materia di educazione degli adulti e educa-zione permanente, completato dalla legge 84/78 sulla formazioneistituzionale degli adulti lavoratori, che intendeva essere la rispo-sta più idonea ad un bisogno territoriale.Oltre ai rispettivi riferimenti storici, ciò che soprattutto differen-zia i due percorsi dell’educazione adulta è la visione dell’uomo acui è finalizzata la formazione o l’educazione. Malgrado l’atten-zione comune ai risultati della ricerca, la prima li usa in funzionedel miglioramento dei livelli di produttività economica decretan-do la fine dell’investimento formativo con l’avvicinarsi del pen-sionamento. Tale concezione dell’uomo ci riporta ad una supera-ta visione adultocentrica della prima metà del XX secolo, secon-do cui si suddivideva generalmente il corso della vita umana intre stadi, più o meno rigidi, contenenti tre età: infanzia, adole-scenza ed età adulta, considerando quest’ultima il punto di arrivoe le due precedenti la sua preparazione. Di conseguenza la psico-logia dell’apprendimento e la pedagogia incentravano la loro

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L’educazione nell’adultalità

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ricerca sui primi due stadi perché solo dal loro superamento sipoteva accedere allo stadio dell’adulto. Il suo compito era ritenu-to il raggiungimento ed il consolidamento della stabilità: “appro-di e passaggi a essa, socialmente, sono stati e sono ancora chia-mati: il lavoro, il matrimonio, la paternità o la maternità” pur conle diversificazioni determinate dai contesti socio-politico-cultu-rali (D.Demetrio, 1990, p. 24). La psicoanalisi e la psicologia cli-nica si sono inizialmente interessate all’adulto solo nel caso distati patologici. La geriatria (scienza medica per l’anziano) è laprima a sviluppare la ricerca sull’invecchiamento per la cura dimalattie e disabilità ritenute proprie di questa età che ha iniziatoad espandersi notevolmente. Ma grazie anche all’incrementodella ricerca medica, la psicologia generale e quella dell’appren-dimento procedono a nuove sperimentazioni ed elaborazioni con-cettuali che porteranno ad una visione dell’adulto come portato-re di un’identità composita, fragile, in disequilibrio continuo,soprattutto quando è coinvolto in processi di cambiamento fre-quente e rapido come quello iniziatosi in quegli anni.L’età adulta non viene dunque più considerata un prodotto bio-grafico ma una costruzione continua di cui è artefice lo stessosoggetto con le decisioni che prende in rapporto alle opportunitàche incontra ed ai molteplici ruoli che ricopre; l’intero corso dellavita si rivela come un “continuum” evolutivo che dovrà essereaffiancato da un continuum educativo.Negli anni ’70 lo statunitense D.Levinson suddivide la vita adul-ta in “prima adultità” (25-40 anni), “adultità di mezzo” (40-65anni) e “tarda adultità” (oltre i 65 anni) utilizzando questa nuovaterminologia per la sua fluidità e plasticità che esprimono ilperenne evolversi della struttura vitale individuale; un contributoimportante per il superamento della vecchia visione adultocentri-ca della concezione stadiale che aveva decretato la marginalizza-zione dell’anzianità come età di chi “non è più” adulto, con tuttele conseguenti implicazioni negative di “perdita” delle capacitàriproduttivo-produttive.

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L’educazione nell’adultalità

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Analogamente si modifica la visione dell’educazione dell’adultoche esce dalla sudditanza nei confronti della pedagogia; ad operadi pensatori e formatori che rintracciano le sue radici fin nell’an-tichità, si viene a costituire un corpus “di conoscenze riguardan-ti i discenti adulti in modo parallelo e distinto rispetto al model-lo pedagogico dell’apprendimento infantile” che, a partire dallafine degli anni ’90, viene chiamato ‘andragogia’ (M.Knowles,1996, p. 72).Per approfondimenti si rimanda ad alcune delle più note pubbli-cazioni italiane sull’argomento dalle quali si può evincere comegli anni ’70, caratterizzati da una complessa crisi socio-politico-economica, siano stati, non a caso, i più fecondi per la costruzio-ne di una scienza dell’educazione degli adulti (M.Mencarelli,

1970; Lorenzetto, 1976 D.Demetrio, 1977;Demetrio, 1980

M.Mencarelli, a cura di, 1986; G.Bocca, 1993; A.Allegra, 1999).

In questi anni infatti, come quasi sempre avviene nei momenti dicrisi, “l’educazione ha dovuto interrogarsi sulla sua funzione, e inparticolare sulle possibilità di una sua funzione creativa (…)davanti alle pressioni economiche e sociali, ideologiche e politi-che” (M.Mencarelli, 1986, p.16).La nuova concezione dell’adulto è in una prospettiva dinamica incui si alternano periodi di integrazione interna a periodi di regres-sione e di sviluppo sia nella sfera mentale che affettivo-emozio-nale che dei comportamenti sociali, caratterizzati da un insiemedi componenti infantili, pre-adolescenziali, adulti e pre-senili incontinua ricombinazione. Superando ma non escludendo le pre-cedenti teorie comportamentiste, cognitiviste e umanistiche, sielaborano nuovi modelli teorici di apprendimento adulto fino aquello sistemico attualmente privilegiato dall’andragogia e checaratterizza la ricerca di tutte le scienze umane dalla maturazio-ne della crisi degli anni ’80.Molto brevemente accenneremo solo al nodo critico della cultu-ra contemporanea della postmodernità caratterizzato dalla crisi

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della ragione che ha prodotto la complessità ed ha visto estender-si la frammentazione dell’oggetto della scienza e della tecnologiaall’intero orizzonte dell’esistenza, assumendo anche connotazio-ni antagonistiche: basti pensare a quella fra cittadini e pubblicaamministrazione nello Stato di diritto.La caduta dei grandi e piccoli sistemi, delle ideologie e dei valo-ri unificanti, insieme alla caduta di fiducia nella ragione, ha pro-dotto il bisogno estremo di riconduzione all’unità; attualmenteperseguita dalle scienze umane con il proprio metodo è più omeno consapevolmente ricercata dagli individui attraverso per-corsi disparati, spesso acritici e discutibili, di recupero di energievitali disperse o stroncate da logiche produttivistiche. La visioneproduttivistica, che ha posto al centro dell’attenzione l’adulto produt-tivo, decretando l’esclusione dell’anziano come adulto non più pro-duttivo, ha informato di sé ogni aspetto della nostra vita costruendosistemi basati sui principi dell’“avere anziché creativamente cresciu-ti sui principi dell’essere” (cfr. M:Mencarelli, 1986). Da ciòanche la riduzione della visione dell’uomo a “homo economi-cus”, secondo la definizione del Dewey, con la contemporaneaperdita di consapevolezza che la storia non è fatta solo dai biso-gni materiali ma anche dalle idee e dai valori. Questi prodottiimmateriali sono in realtà la più alta forma di produzione propriadell’uomo, un uomo a più dimensioni, costruttore di cultura e distoria. Questa riduzione è conseguenza del cambiamento cultura-le del XX secolo prodotto dal rapido passaggio da una societàprevalentemente rurale ed artigiana ad una industriale che ha tra-volto la cultura contadina senza saperla sostituire con una nuova.La società industriale, sotto la spinta della produttività, ha provo-cato la crisi dell’artigianato e della famiglia come impresa e, purattenuando le differenze sociali, ha livellato i gusti in risposta aleggi di produzione che prediligono l’omologazione, cioè l’ap-piattimento delle soggettività.Anche il sapere postmoderno si presenta come un assieme diinformazioni che possono venire trasmesse o scambiate come

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merci rapidamente deperibili; non a caso in quest’epoca dell’in-formazione si registra una diffusa molteplicità di analfabetismicollegati alla sostituzione della comunicazione interpersonalecon la comunicazione di massa i cui benefici sono pagati con pas-sivizzazione, perdita di pensiero critico, assimilazione di model-li funzionali al sistema socio-economico.L’informazione mediatica, inoltre, vanifica i suoi benefici colsovraccarico e la velocità che non consentono la riflessionenecessaria per la sua rielaborazione ed appropriazione soggettivache potrebbero trasformarla in cultura. Si caratterizza sempre piùcome funzionale alle leggi della produzione provocando l’appiat-timento delle soggettività con l’induzione di bisogni secondariomologati che mortificano la creatività individuale e collettiva;con ciò si paralizza la vocazione culturale delle comunità piccolee grandi, si recidono le sue radici e se ne interrompe la trasmissio-ne.I saperi diffusi sono selezionati in funzione dell’efficienza tecno-logica e di mercato orientando verso questi obbiettivi anchel’educazione/formazione che, come la tecnologia, scade rapida-mente e deve essere aggiornata con sempre nuove informazionipreconfezionate che non si possono sommare per farne cultura.In tale contesto appare evidente, o forse no, come i saperi dell’an-ziano risultino superati, frenanti e risibili perché non sono ricetteusa e getta ma saggezza acquisita e trasmessa in un contesto cul-turale altro. Si aggiunga la sua fisiologica lentezza, il suo profon-do legame col passato, la sua riflessività e l’assenza di motivazio-ne al successo e si comprenderà bene perché l’anziano sia oggiconsiderato prevalentemente un peso sociale.Tuttavia, attraverso le varie forme di recupero della memoria(musei della civiltà contadina, nicchie di agricoltura tipica, festepiù o meno medievali, sagre con cibi e giochi tradizionali edaltro) appaiono chiari segni che la società postindustriale soffre lamancanza di radici culturali, di socializzazione, di gioco libero e

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creativo, di appartenenza e identità. Sofferenza che può esseresuperata non da iniziative sporadiche ma dalla messa in atto dipercorsi di crescita culturale che ricompongano l’uomo e la suastoria.L’assunzione dell’ approccio sistemico da parte delle scienzeumane si è posto come necessità primaria per una ricerca che, puranalizzando le singole parti, restituisse loro il senso di apparte-nenza all’unità. La scomposizione del tutto che la scienza del XXsecolo aveva operato per favorire la ricerca aveva anche compro-messo la possibilità psicologica di una sua riunificazione. Soloper esemplificare si pensi agli enormi progressi ottenuti dallascienza medica specializzandosi in parti sempre più piccole delnostro corpo che tuttavia quotidianamente paghiamo non senten-doci più ascoltati come soggetti di quella parte che ci procuradolore, senso di perdita, angoscia per un eventuale conseguentearresto o cambiamento di un progetto giornaliero o di vita.L’attuale ricerca sull’adulto in situazione educativa si basa sulconcetto di unità molteplice per cui nell’uno c’è sempre la mol-teplicità ma organizzata come sistema a significare che l’unitànon è la somma delle sue parti ma la sintesi della loro interrela-zione. Così la mente è una ma come sintesi di tre intelligenze, cogniti-va, corporea e relazionale, che interagiscono costantemente fra diloro per cui anche l’azione su una sola di esse mette necessaria-mente in moto le altre. Questo contributo è di fondamentaleimportanza per il superamento della separazione invalsa nellacultura occidentale tra mente e corpo e quindi tra educazioneintellettuale e manuale ed anche per l’importanza restituita allarelazione. L’approccio sistemico-relazionale sostanzialmente ciindica che l’azione educativa deve rivolgersi all’unità, cioè allapersona, mentre la didattica si occuperà delle parti ma considera-te in relazione tra di loro e col tutto. Da ciò si può anche dedurre che, in presenza di limitazioni o

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carenze in alcune parti l’azione sulle potenzialità residue attiveràcomunque il tutto e viceversa. Parallelamente all’unità-comples-sità della mente, la vera educazione non è la somma delle singo-le operazioni volte a modificare le singole intelligenze ma unacostruzione complessa i cui risultati dipendono dall’interazionedi tutte le sue componenti e dai collegamenti di queste con il con-testo di appartenenza (famiglia, scuola, istituzione...) con la con-seguente rivalutazione della storia personale, familiare, locale ecosì via.La scommessa degli anni ’80 sull’educazione ricorrente, conti-nua e permanente per il superamento della crisi della societàpostindustriale è ancora aperta; malgrado l’acquisizione teoricadi concetti importanti, tale resterà finché non si attuerà un serioproposito di educazione per tutta la vita come esperienza fonda-mentale dell’uomo perché diventi, a qualsiasi età, autore di pro-gresso, promotore di storia, pilota di se stesso attraverso l’acqui-sizione di una coscienza storica sofferta ma liberante. Compitodei nostri tempi è sostanzialmente quello di promuovere proces-si di autoeducazione delle persone e delle comunità per la presadi coscienza dell’uomo nei confronti di se stesso, dell’altro, del-l’ambiente e della vita secondo la dimensione dell’essere anzichédell’avere. Da qui può anche scaturire la riapertura di quel dialo-go interrotto con l’anziano che superi la compassione, l’assisten-zialismo e le artificiosità rianimative delegate ad altri da figli enipoti.

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L’ANDRAGOGIA

Riteniamo ora opportuno dire che cosa si intende per andragogiae soprattutto fare un po’ di chiarezza nella molteplicità di termi-ni in uso nel settore dell’educazione dell’adulto. Quelli fin quiusati di educazione degli adulti, educazione permanente e educa-zione in età adulta, ufficialmente riconosciuti in questa branca distudi, non sono intercambiabili: con il primo, infatti, ci si riferi-sce all’aspetto prevalentemente pratico del problema educativo,con il secondo a quello teoretico e con il terzo a quello soggetti-vo.L’educazione degli adulti, generalmente abbreviata in EDA, puòcollocarsi o no dentro la dimensione teoretica dell’educazionepermanente ed assolvere a diverse finalità. Può essere usata per ilmantenimento e la riproduzione del potere ma anche come stru-mento di emancipazione di soggetti e gruppi attraverso la diffu-sione di diritti e valori e lo sviluppo di capacità di liberazione dadiverse forme di dipendenza; comprende anche l’insieme di tuttele iniziative per la formazione lavorativa. Generalmente si attuain modo strutturato ed in ambiti più o meno formali.L’educazione permanente nasce come idea portante di un proces-so educativo autonomo per tutto il corso della vita e si configuracome campo di elaborazione teoretica delle basi, dei metodi e delfine dell’educazione adulta nelle sue diverse forme.L’educazione in età adulta invece definisce l’educazione non for-male che si sviluppa dalle circostanze della vita per il bisogno didare risposte ai molteplici interrogativi che pongono, per operarescelte, per accrescere la propria autostima e il bisogno di autorea-lizzazione.In questo multiforme contesto la definizione di andragogia nascedall’ esigenza di delimitare un campo di indagine specifico perl’educazione dell’adulto, così come era avvenuto con la pedago-gia per l’educazione nell’infanzia e nell’adolescenza.

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Il discorso andragogico prende corpo in America, Europa ed exUnione Sovietica dalla ricerca di una sintesi tra i diversi orientamen-ti dell’EDA e si pone come “punto di vista che rivendica autonomiascientifica e teoretica all’educazione degli adulti”(Demetrio,1997).

Il termine “andragogia” fu introdotto per la prima volta daAlexander Kapp, nel 1833, per definire tutto ciò che riguardal’educazione intesa come un continuum esistenziale; fu successi-vamente ripreso in modo episodico nel centro Europa finché, nel1968, fu fatto proprio da Malcom Knowles che da tempo pratica-va e studiava l’educazione degli adulti. Entusiasta di “poterdisporre di un termine che (...) permettesse di discutere il corpocrescente di conoscenze riguardanti i discenti adulti in modoparallelo e distinto rispetto al modello pedagogico dell’apprendi-mento infantile” (M.Knowles, 1996, p. 72), questo “decano del-l’educazione degli adulti, noto come guru della formazione ‘sulcampo’, ma anche come coraggioso inventore di concetti(...)”(L.Formenti in M.Knowles, 1996 p. 9), si impegnò a realiz-zare uno stretto collegamento tra le formulazioni teoriche e laprassi educativa, soprattutto americana, degli adulti diffusa neipiù disparati settori. Del 1970 è la sua prima presentazione peresteso del modello andragogico con il libro “Modern Pratice ofAdult Education: Andragogy Versus (contro) Pedagogy”.Con chiaro riferimento alla pratica educativa Knowles sostieneche nell’educazione del bambino (da lui definita “modello peda-gogico”) prevale l’eterodirezione che trasmette e consolida la suadipendenza. La sua esperienza non è considerata una risorsa perl’apprendimento e non gli è dato sapere a cosa gli servirà ciò chesta apprendendo; la sua motivazione è quindi determinata da fat-tori esterni come i voti e la promozione. Al contrario il “modelloandragogico” è centrato sull’autonomia e l’autodirezione. Già nel 1948, sulla base della sua esperienza di educatore degliadulti, verificata da approfondimenti teorici, Knowles era perve-nuto all’individuazione di “13 principi dell’insegnamento all’adul-

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to” caratterizzati dallo stretto legame con la vita. Da questi, elabo-rando prassi e ricerca, arriva ad una prima definizione dei presuppo-

sti del modello andragogico:- gli adulti hanno bisogno di conoscere il motivo per cui devonoapprendere una data cosa; - gli adulti hanno un concetto di sé come persone responsabili delleproprie vite per cui hanno bisogno di essere considerati e trattaticome capaci di autodirezione;- l’esperienza personale ha un ruolo rilevante e per questo è fon-damentale il massimo dell’individualizzazione dell’apprendi-mento e del ricorso a tecniche esperienziali, come nel caso del-l’autobiografia, che maggiormente valorizzano il vissuto deidiscenti rispetto a tecniche trasmissive;- la motivazione all’apprendimento adulto è centrata sulla vita ei motivatori più importanti sono quelli intrinseci come il deside-rio di migliorare la qualità della vita o il livello di autostima, lasoddisfazione sul lavoro e così via;- bisogna tener sempre conto degli effetti negativi che possonoessere stati indotti dall’esperienza come abitudini mentali, pre-giudizi e atteggiamenti di chiusura che l’educatore dovrà rimuo-vere. (Knowles, 1996).

Già da questa prima codificazione emerge l’esigenza di unanuova figura di educatore che lo stesso autore inizia a delineare.Da una prima analisi della teoria del management taylorianoKnowles individua una figura di leader vicino all’insegnante del“modello pedagogico” che definisce “leader di controllo”.A questo, dati i presupposti andragogici, contrappone un “leadercreativo”, caratterizzato dalla fiducia nelle potenzialità deglialtri; egli promuove la partecipazione, crede nell’influenza posi-tiva delle aspettative elevate, valorizza le individualità e pratical’individualizzazione, fa leva sulla motivazione interna e sull’au-tonomia dei soggetti. Dalla prima definizione del leader creativoKnowles perverrà, per ricerca teorico-pratica, a quella del “faci-

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litatore di apprendimento” conseguente alla consolidata visionedella centralità delle potenzialità e risorse del discente in ogniprocesso di apprendimento adulto.Questo facilitatore, oltre alla formazione professionale pedagogi-co-didattica di base, dovrà possedere anche competenze sulledinamiche e sulla conduzione di gruppi che caratterizzeranno sem-pre più le modalità apprenditive. Nei gruppi strutturati i discenti parteciperanno alle scelte di obiet-tivi, percorsi di approfondimento e valutazione dei risultati in rela-zione alle competenze da acquisire, secondo un progetto dato,soprattutto nell’ambito dell’EDA. Prevalentemente nell’ambitodell’educazione in età adulta si avranno i gruppi non strutturati incui prevalgono le finalità di gratificazione personale e migliora-mento dell’autostima attraverso l’apprendimento di atteggiamentie abilità interpersonali. Nel 1980, a seguito della riflessione sulle nuove esperienze sue edi alcuni colleghi ed il conseguente approfondimento teoricodelle intuizioni emerse, Knowles ripubblica il testo del ‘70 con ilsottotitolo modificato in “Pedagogy to (verso) Andragogy” perspiegare la sua nuova visione del rapporto pedagogia-andragogia.Se in una prima fase Knowles ritiene che pedagogia e andragogiasiano antitetiche perché la prima è praticata generalmente in mododa mantenere i bambini in una situazione di dipendenza “che costitui-sce la (...) principale gratificazione nell’insegnamento” (M.Knowles,

1996, p. 73), dalla sua successiva esperienza matura la convinzionedell’intercambiabilità dei due metodi, a seconda delle situazioni,ma a condizione che siano all’interno di un progetto comune diperseguimento dell’autonomia educativa del soggetto per tutto ilcorso della vita. Contribuisce a questa evoluzione lo studio di auto-ri da lui ritenuti fondamentali come P.Freire per l’importanza attri-buita alla “consapevolezza” nella sua pedagogia degli oppressi;Rogers per la terapia centrata sul cliente, Maslow per il concetto diautorealizzazione; Faure per la prospettiva di tutto il ciclo vitalenell’apprendimento; Torshen per l’educazione basata sulle compe-

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tenze; altri per cui si rimanda all’VIII capitolo del suo testo“L’educazione degli adulti come autobiografia” (1996) che si apresul futuro.Un capitolo interessante per il nostro discorso perchédimostra l’inesauribile desiderio di apprendere di chi, fin da pic-colo è stato aiutato a coltivare la propria curiosità e attrezzato conil necessario per soddisfarla anziché essere scoraggiato dal faredomande e fornito di risposte preconfezionate. Interessante per-ché dimostra che si può apprendere per tutta la vita per la gioia didare risposte alle molteplici domande che fino alla morte ciponiamo o ci potremmo porre se qualcosa o qualcuno non ciavessero spinto a rinunciare per poi emarginarci come inutili osuperati.Al percorso dell’autore americano si aggancia subito, in Italia, ilpedagogista D.Demetrio che nel suo studio per una ridefinizionedell’educazione degli adulti (Laterza, Bari 1997) riassume inquattro i “principi andragogici”: autonomizzazione, interattività(storie di vita come risorsa), aderenza al compito prioritario,spendibilità immediata. La sua originale ricostruzione della complessa storia dell’educa-zione degli adulti ne ricerca le tracce in ogni fonte teorica e pra-tica che direttamente o indirettamente possa contribuire alla pre-cisazione del suo significato e della sua funzione nell’attualesocietà post industriale. Accolta la lezione della complessità e fatto proprio l’approcciosistemico, l’indagine di Demetrio fa anche riferimenti alle cultu-re orientali per il recupero di quelle componenti “non razionali”delle quali l’uomo è stato spogliato dal razionalismo e tecnologi-smo della nostra società. A queste componenti, egli sostiene,sono ormai riservati spazi a parte, quasi completamente fuoridalla comunicazione di massa e dalla comune vita sociale, comead esempio il teatro e tutte le altre manifestazioni dell’arte, o lepratiche di meditazione e di gioco libero e creativo.Anche perquesto molti, in modo acritico o illecito, sono spinti a cercareopportunità di “compensazione” in situazioni artificiose di fuga

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dalla realtà, di momentaneo benessere, spesso utilizzate da altri afini di lucro. Squallidi se non tragici surrogati di appagamento deldesiderio frustrato di una ricomposizione dell’unità della personadimezzata in una società che non si è potuta o voluta porre come“società educante”; quella società che in Faure è “il punto di arri-vo di un processo di intima compenetrazione tra scuola e tessutosociale, politico ed economico in famiglia e nella vita del cittadi-no” (E.Faure, 1973, p. 269). Società educante che per M. Mencarelli può realizzarsi solo inuna società autenticamente democratica che vive e prospera solose si comprende che essa non va intesa solo come un modo digovernare: essa deve attingere la sua linfa vitale dalle proprieradici culturali (non è quindi un modello standard trasferibile) ele sono coessenziali i valori fondamentali su cui mosse i primipassi già nell’antichità, oggi schiacciati dai principi dell’ “avere”egemoni su quelli dell’ “essere” (M. Mencarelli, a cura di, 1986).

In questi rapidi cenni si può cogliere traccia di un’altra importan-te acquisizione della ricerca andragogica: gli studi sulla “cura disé” che rimandano alle nostre radici greche della “mente sana inun corpo sano” ed alla massima delfica del “conosci te stesso” come presupposto per ogni vera conoscenza. A quella visione diunità di mente e corpo, soppiantata nella cultura occidentale dalmito della ragione, ha continuato ad alimentarsi un sottile filo diricerca che trova una pietra miliare nell’opera di Don Milani ilquale, nella “Lettera ai giudici” del 1965, scrive: Su una paretedella nostra scuola c’è scritto grande “I care”.È il motto intraduci-bile dei giovani americani migliori, “me ne importa mi sta acuore”.È il contrario esatto del motto fascista “ Me ne frego”.Ne sono oggi timide tracce la medicina omeopatica, la fitoterapia,la musicoterapia o lo Yoga che ci ricollegano alla cultura orientaledove non si è verificata la nostra separazione tra mente e corpo.Questi studi, relativamente recenti nell’ambito dell’andragogia,hanno evidenziato anche i valori di “cura” intrinseci al metodo

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autobiografico e questo ci sembra molto significativo per la vali-dazione dell’esperienza proposta ai nostri anziani.Di questi ed altri indirizzi di ricerca si alimenta attualmente ildiscorso andragogico che cerca di operare una sintesi tra i diver-si bisogni educativi dell’adultità e la pluralità delle offerte di edu-cazione-formazione, troppo spesso dettate da interessi economicio politici in un’iperattivismo che nasconde un profondo vuotoculturale e valoriale. Anche la ricerca medica, che molto ha aggiunto alla conoscenzadelle potenzialità e strategie compensative della mente umana ingenerale e di quella dell’anziano in particolare, e del ruolo signi-ficativo dell’attività intellettuale nella prevenzione ed il control-lo di alcune malattie degenerative, sostiene l’ottimismo andrago-gico.Gli spazi dell’educazione adulta si sono così dilatati, in partico-lare dagli anni ’90, a nuovi ambiti soprattutto idonei a chi è usci-to dal sistema di istruzione, come nel caso della vecchiaia o“grande adultità”.Lo statunitense D.A.Peterson, nell’individuare diverse attivitàvolte all’aggiornamento delle conoscenze e alla fruizione deltempo libero, ricreativo, socialmente impegnato, cioè del tempoper se stessi, riferisce di un primo tentativo di definizione, per noiinteressante, fatto nel 1926 dall’Associazione americana perl’Educazione degli adulti che inserisce accanto all’istruzione“tutto ciò che risponde alle aspettative di sopravvivenza, salute,convivenza, comunicazione di una certa, anche molto circoscritta,aggregazione sociale”(D. Demetrio, 1997, p. 233).

Sostanzialmente, sostiene Demetrio, “Quattro sono oggi gli scopi di

base che l’Educazione degli adulti è chiamata a perseguire nel

mondo occidentale: la facilitazione del cambiamento; la partecipa-

zione alla vita dello Stato e la diffusione dei valori della demo-

crazia; la promozione e l’innalzamento della produttività econo-

mica e dell’imprenditoria; il miglioramento di ogni forma di svi-

luppo e la crescita personale” (ivi, p. 234).

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Riguardo alla “crescita personale” Demetrio, a cui ci riferiamo perl’ampiezza dello studio condotto e per la ricca bibliografia allaquale rimandiamo, propone il modello di Mezirow che prevede trelivelli: relazionale, di autorealizzazione e della creatività. Lerisposte a questo bisogno di crescita nascono nella cosiddettaarea “informale”, cioè nelle diverse esperienze di apprendimentodiffuse nella vita quotidiana o appositamente create là dove unacomunità, anche piccola, vive e si relaziona; in questo caso sitratterà di costruire interattivamente, nella situazione data, unprogetto da portare avanti secondo i principi metodologici della“ricerca-azione” in modo da rendere minimo lo scarto tra offertae bisogni, principi che ci hanno guidato nell’esperienza da noicondotta.Consapevoli di aver appena accennato ad alcuni dei principaliargomenti chiamati in causa dalla domanda se sia possibileun’educazione dell’anziano, riteniamo di poter concludere cheanche per la vecchiaia, che preferiamo chiamare con Demetrio“grande adultità”, è possibile e scientificamente corretto parlaredi educazione attingendo all’andragogia per finalità e metodolo-gie; ma soprattutto riteniamo di poter affermare che questa edu-cazione è un diritto ed un dovere propri di una società autentica-mente democratica. Un diritto perché la conoscenza rende liberirimuovendo condizionamenti, pregiudizi e chiusure che frenanola creatività e la progettualità individuali ed un dovere perché unasocietà democratica vive e prospera grazie al contributo di ciascu-no alla produzione e diffusione di quei valori e di quella cultura dicui sono portatori soprattutto coloro che non producono più benimateriali. La loro emarginazione ad opera di una società produttivistica,dimentica che sono soprattutto le idee a modificare il corso dellastoria, è non solo un male per loro ma piuttosto per noi e per inostri figli che faticano a costruire un futuro migliore per man-canza di radici culturali che garantiscano la creazione di unanuova cultura.

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L’autobiografia come metodo di apprendimento

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L’AUTOBIOGRAFIA COME METODO DI APPRENDIMENTO

È importante precisare subito che intendiamo qui parlare solodell’autobiografia come metodo educativo e delle motivazioniandragogiche che possono determinarne la scelta.M.Knowles è il primo a sperimentarla in EDA e a darle una siste-matizzazione teorica sulla base di principi andragogici così rias-sumibili:1 – l’attività di raccontarsi introduce ordine, informazione esenso in un processo di per sé complesso, caotico e disomogeneo;mettendo in parole un’esperienza diretta e generalmente irrifles-sa è possibile scoprire le strutture latenti che le danno senso efinalità;2 – nel suo processo di apprendimento l’adulto (ma non solo) habisogno di affermare la sua autonomia cognitiva, assumendone laguida, la decisionalità e la valutazione. L’autonomia cognitiva(secondo le posizioni bioepistemologiche più recenti) è una pro-prietà costitutiva dei sistemi viventi per cui la formazione è auto-formazione nella misura in cui è il sistema vivente che decidecosa fare di ciò che ha appreso e cosa apprendere da ciò che fa;3 – l’opportunità di superare la separazione tradizionale fra i trepoli standardizzati e fissi del triangolo docente-discente-sapericon l’instaurarsi di una dinamicità relazionale al suo interno.È implicito che anche l’ascolto della biografia altrui produce ana-loghi effetti per cui sembra favorire, secondo Demetrio, unapproccio “ecologico” al sapere modificando il rapporto cono-scente-conoscenza.Per quanto concerne la funzione educativa del metodo autobiogra-fico è necessario:1 – esplicitare le sue componenti, 2 – individuare gli obiettivi, 3 – esporne la modalità apprenditiva.1) Componenti:

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a – ermeneutica: in quanto ricostruzione del passato sulla basedelle motivazioni del presente mediante un processo di attribu-zione di senso;b – esperienziale: cioè costruzione di saperi attraverso la risorsaesperienza; c – emancipatoria: in quanto presa di coscienza e superamento dischemi e strutture interiorizzate o esterne.

2) Obiettivi:a – metacognitivo con l’osservazione della propria mente al lavo-ro;b – formativo con la scoperta della dimensione progettuale dellapropria vita;c – euristico esplicativo trovando spiegazione e senso delle azio-ni passate in vista del futuro;d – trasformativo: dalla conferma di un passato dato alla riaper-tura di possibilità di scelta attraverso la scoperta di potenzialitàinespresse e vite non vissute.

3) Modalità apprenditiva:a) creazione di occasioni di esperienza di secondo livello e rifles-sione sulle proprie operazioni mentali ed i loro effetti, tecnicamen-te definiti processi meta-cognitivi e meta-esperienziali che caratte-rizzano l’ apprendimento superiore.Il metodo autobiografico, successivamente sviluppatosi in tuttal’area europea con diverse caratterizzazioni culturali, trova inItalia la sua più importante elaborazione da parte di DuccioDemetrio e del gruppo “Condizione adulta e processi formativi”presso l’Università degli Studi di Milano che mettono a punto unmodello “bio-sitemico” in educazione degli adulti. Calato fin dall’inizio in una visione eco-sistemica del mondo edell’essere umano, il modello milanese accoglie e rielabora lalezione della “complessità” e dell’approccio sistemico-relaziona-

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le che Demetrio collega ai più importanti contributi delle scienzeumane per la elaborazione della sua “micropedagogia”.Per motivi di opportunità ci limiteremo ad evidenziare solo i temipiù strettamente legati al suo modello autobiografico. Come riportato nel suo volume “Raccontarsi – L’autobiografia

come cura di sé” (1995, pp.166 e seg.) le sue tesi poggiano sulfatto che l’intrinseca socialità della vita non “educhi (...) al rico-noscimento della reciproca soggettività (...), all’accettazionedelle differenze, all’amore di sé come prerequisito per amare econdividere con gli altri ogni esperienza affettiva e di lavoro.” Per facilitare le relazioni umane è necessario un progetto che“metta al centro l’autoeducazione di ciascuno, basata sull’impa-rare a riflettere innanzitutto con e su se stessi”; l’autobiografia ciconsente, nell’apprezzare la nostra narrazione, di fare altrettantocon quella degli altri, con i pochi altri disponibili con i quali siimparerà a giocare “senza difese e paure di offendere in un rassi-curante benessere” che favorisce l’autoeducazione e l’educazio-ne, in prospettiva, di figli, nipoti e amici, rendendo l’ascolto “unviaggio verso l’altro attraverso se stessi”.Che la pratica autobiografica sia una modalità di apprendimentoce lo dimostrano i processi in essa attivati di tipo meta-cognitivoe meta-esperienziale entro i quali si sviluppano funzioni logico-espressive, affettività, creatività e autonomia organizzativa. Va tuttavia tenuto presente che in quest’area educativa dellalibertà il riferimento a “regole” o più correttamente a “logiche”,è indispensabile per sottrarla all’assoluta estemporaneità ed evi-tare la caduta nello sfogo gratuito o in una pratica meramenteconsolatoria e renderla opportunità “ecologica” di apprendimento.Queste “logiche” non possono tuttavia che essere la traduzione el’adattamento caso per caso di quanto è stato fin qui esposto com-binando nella ricerca-azione competenze e conoscenze pedagogi-co-andragogiche, psicologiche, delle dinamiche di gruppo e quan-t’altro possa contribuire a dare risposte alle domande che dobbia-

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mo continuamente porci sull’efficacia di tutto il percorso. Il fondamentale assunto è che la responsabilità di questa efficacia èsempre e comunque del “facilitatore”che deve porsi come personatra persone con il suo vissuto tra altri vissuti di pari dignità. Laresponsabilità gli è accreditata dalle competenze di cui dispone peraiutare gli altri componenti del gruppo a scoprirsi come soggetti diconoscenza autonoma nel momento in cui, attraverso la narrazioneautobiografica, ricostruiscono i pieni ed i vuoti della propria cresci-ta, i punti di svolta del proprio percorso di costruzione con la presad’atto delle coerenze o incoerenze tra scelte e idee, delle potenzia-lità inespresse e/o delle vite non vissute che si possono ancora vive-re grazie a quelle potenzialità. Così l’autobiografia può configurar-si, con la presa in carico del proprio passato, come una opportuni-tà di riapertura di possibilità di scelta e di proiezione nel futuro sot-tratto all’anziano, riscattandolo dalla frustrazione del pregiudiziodell’ignoranza perché poggia e si alimenta delle sue peculiari com-petenze, perché solo chi l’ha vissuta è competente della propriavita.Forse a questo punto apparirà più significativa la nostra introduzio-ne con le indicazioni metodologiche che discorsivamente abbiamodato ed alle quali rimandiamo; forse saremo anche più pronti allalettura di questi grandi frammenti di vite.

Maria Pia Sannella

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PARTE SECONDA: L’ESPERIENZA

I PRIMI INCONTRI

IL FIDANZAMENTO

IL MATRIMONIO

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I primi incontri

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I PRIMI INCONTRI

Alla proposta di raccontarci cosa ricordavamo del primo amore siè innescato un circuito di piccole reticenze, ammiccamenti, sor-risetti maliziosi, un linguaggio non verbale eloquente e rivelato-re di vissuti e contesti databili e significativi. Lina, scanzonata,diretta e con uno spiccato senso dell’ironia, ha preso la parolaquasi subito, andando diritta al punto e aprendo la strada aglialtri, ancora in difesa, anche se desiderosi di parlare.

Lina C. I primi amori iniziavano da12 anni in poi: si cominciavacon il bacino, ma di nascosto tra un covone e l’altro, un “crino”d’erba e l’altro. Per esempio io sono più grande di mio fratello dinove anni e dovevo “badarlo” qualche volta ma, al momentoopportuno, lo mettevo dentro un solco, così non cadeva, con unpo’ d’erba sotto che non si facesse male e intanto io facevo l’er-ba, poi il ragazzino veniva vicino...Quando ero più piccola unomi disse – “Dammi un bacio”.Io gli risposi – “Che è?”. Io non lo sapevo cosa era un bacio, chevoleva dire un bacio e allora lui mi disse – “Vieni qua te lo dicoio”. Il primo bacio gliel’ho dato sulla guancia ma poi lui mi hainsegnato quello vero.Qualche tempo dopo, avrò avuto 14-15 anni, per l’Ascensione miricordo che c’era il fieno da portare a casa e quel ragazzino midisse – “Io c’ho da portà ‘l fieno, te non t’azzardà d’ andà a lamessa”.Io invece volevo andà alla messa a San Biagio, che è la chiesadella mia infanzia dove ho fatto la comunione e la cresima, e cosìci andai. La domenica dopo da Maranzano andavo alla messa allaPieve e per la strada ho incontrato lui, mi è venuto incontroall’improvviso e mi diede uno schiaffo nella guancia perché ladomenica prima non avevo fatto come aveva detto lui. Poi lui èandato a Torino ma l’ho rivisto qui dentro dopo 45 anni perché è

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parente di un ospite della Residenza. Ci siamo salutati volentierie con molto affetto, così gli ho ricordato dello schiaffo, lui non siricordava ma io si! Questo è rimasto un amore segreto se no quelli di casa mia... ! Ilbabbo non menava ma la mamma, con gli schiaffoni...! Lemamme erano più cattive, chissà perché?

Dina C. È vero, anche la mia quando ho iniziato ad incontrare iprimi ragazzi mi brontolava, il babbo invece no. La mamma midiceva di non fermarmi a parlare con i maschi ma io non gli davoretta, lei avrebbe voluto trovarmi il marito che voleva lei inveceio lo volevo trovà da me. La mamma era anziana e col fatto chesono l’unica figlia femmina me teneva sotto, ero sempre sottol’occhio. Il babbo era più bono, lui ci portava a ballà.

Maria R. Mia mamma prima te le dava poi ti diceva te le dò!. Ilbabbo invece diceva – “Hai capito?”. Bastava quello.

Rosa B. Anche a me la mi mamma mi guardava parecchio e midiceva – “Stà attenta ai maschi!”. Ma io non gli davo retta.

Lina C. Le mamme sapevano sempre tutto ed erano molto seve-re: mi ricordo di una volta che c’era un ragazzetto che mi stavadietro...io andavo a fare l’erba e un giorno mi disse – “Dammi unbacio”.E io – “Se nun te levi te dò “no sventolone!”.Poi andai a casa e la mamma sapeva tutto e mi disse – “Ti hovisto con un ragazzetto, ti ha toccato?” E io – “No”.Lei insisteva – “Dove ti ha toccata ? Il seno?”.E io – “No non è stato niente”E lei – “Ma ti ho vista io!”E io – “Si ma non mi ha toccato!”In verità un pochino mi aveva toccato..., ma mica gli detti il

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bacio! A quei tempi doveva passare almeno un mese prima didare il primo bacio... ufficialmente.

Rosa B. È vero, una volta era diverso: i fidanzati per esempio siincontravano alle veglie...ah erano belle! Si cantava, si ballavafino a mezzanotte e anche l’una. Però i primi tempi io e il miofidanzato non potevamo nemmeno stare vicini, poi piano piano lasituazione è cambiata anche perché io ho minacciato i miei geni-tori che sarei andata via di casa.

Elide B. Quando noi facevamo le veglie veniva il mio fidanzatocon tutta la famiglia perché erano anche vicini di casa ma rara-mente riuscivamo a stare un po’ da soli perché c’era sempre tantagente.

Maria R. Mi ricordo che quando stavo a Roma andavo a passeg-gio con tre amiche, una più grande di me, una molto più piccolae una coetanea; un giorno eravamo a villa Borghese e dietro a noisi sono accodati dei militari. Uno è intervenuto nel nostro discor-so con una frase che adesso non ricordo e la mia amica più gran-de è intervenuta dicendo – “Se non te ne vai ti do una scarpa intesta”. Questo per dire che non ero molto abituata a dare confi-denza agli estranei.

Ivana A. Anche io ho avuto ragazzini che mi facevano la corte,ma non ho mai dato troppa confidenza a nessuno... .E pensare cheanche adesso ho le mie occasioni. Prima di venire qui c’era unsignore che mi faceva la corte, ma poi la “cosa” non l’ho coltiva-ta: c’era mia madre che stava male ma comunque non ho rim-pianti. Comunque, andando a pescare in ricordi ormai lontani,rammento di un ragazzino compagno di scuola, che un giornouscendo di classe mi regalò un cuore di zucchero così è nata unasimpatia. Poi, andando avanti nel tempo, mi ricordo di un brigadiere

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che è venuto a Panicale, nel ‘56 ci siamo conosciuti e cominciammoad andare a spasso insieme. Lo avevo anche fatto conoscere ai mieima non come fidanzato, come amico, niente di ufficiale, c’era solo unpo’ di simpatia. Lui è stato lì solo tre mesi, dopo lo hanno trasferito aRoma. Lui avrebbe voluto che continuassimo a frequentarci ma io hocominciato a pensare che avrei dovuto trasferirmi a Roma... .Questomi ha frenato molto e così ci siamo persi di vista. Ma la cosa più bellaè che lui dopo 25 anni è venuto a farmi un saluto. Lui si era sposatoed aveva avuto dei figli ma, pensare che dopo 25 anni ha voluto farmiun saluto, mi ha fatto un piacere incredibile.

Caterina O. Io per la prima volta mi sono innamorata a sei anni delfiglio del dottore del Vaiano. Io abitavo a Firenze quindi lo vedevosolo in estate quando andavo al Vaiano dai nonni. Un amore innocen-te...non avevo bambole non avevo balocchi!.

Questa prima parte presenta già numerosi aspetti significativi perun’analisi delle relazioni tra i due sessi in rapporto all’età, ai luoghi,all’educazione genitoriale ma soprattutto ci dice che, al di là dellediversificazioni, quell’emozione-trasgressione ci accomuna tutti. Ilpresente soffre forse proprio la mancanza di questa “poesia” e cercaemozioni in situazioni estreme.

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La mite autorità paterna

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Il fidanzamento

IL FIDANZAMENTO

Dolores P. Io nella mia vita ho avuto un unico amore, mio maritoFirmino; ci siamo conosciuti quando io ero molto giovane, una voltache ero andata a ballare: eravamo molto amanti del ballo e lui eramolto bravo. È stato un amore folle e tribolato, ci siamo ripresi novevolte. Lui aveva un negozio di profumi a Perugia e con i suoi profu-mi conquistava tutte le donne, loro gli cascavano tutte ai piedi. Lui era un bellissimo uomo, elegante poi aveva l’accento franceseperché aveva abitato in Francia, però mia madre si era accorta cheera un po’ farfallone e non voleva che lo frequentassi e una volta midisse – “l’hai trovato chi ti struscia l’erre”. Io avevo un debole per laerre moscia. Come dicevo piaceva molto ed andava tutte le sere aballare mentre io potevo andarci solo con la mamma quindi, quandonon c’ero... quando scoprivo che andava con le altre donne non gliparlavo più e lo lasciavo poi però, siccome ero diventata amica dellesorelle, capitava che lo rivedevo e allora ci ricascavo.Eh...gli volevo troppo bene!.

Lina C. Ai nostri tempi c’era una piccola regola in amore: il ragaz-zo prima guardava se c’era qualche ragazza che gli potesse andarbene poi, se gli piaceva, si avvicinava e passava la domenica parlan-do con questa ragazza e cominciava a domandare – “Sei fidanza-ta? Ti fidanzeresti?”.Lei magari rispondeva – “Ma dipende...”.Se tutto procedeva bene la terza domenica i genitori, che sapeva-no sempre tutto, dicevano – “O lo fai venire a casa o non lo devipiù vedere!”. La ragazza lo riferiva al ragazzo, lui se aveva inten-zioni serie diceva – “Facciamolo!” Allora si mettevano d’accor-do e lui andava a pranzo la domenica successiva. La tradizioneera che il ragazzo mandasse un mazzo di fiori sopra il tavolo, nonin un vaso ma solo appoggiati, poi arrivava il ragazzo e diceva albabbo e alla mamma – “Io sono venuto a chiedere la mano di

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Il fidanzamento

vostra figlia”. Se invece cominciava a dire – “Ma aspettiamo”,significava che non voleva impegni e la ragazza si regolava.Quando uno non aveva intenzione di conoscere la famiglia lagente diceva – “ Quello ti porta in giro”.

Maria R. Io non conoscevo questa regola poi per me era diver-so, ho sposato uno dello stesso paese, vicino di casa, le famigliesi conoscevano molto bene quindi è stato tutto abbastanza natu-rale.

Ivana A. Neppure io ricordo una regola particolare però ricordofidanzamenti lunghissimi che poi magari si lasciavano e per laragazza, dopo che era stata fidanzata così a lungo, era difficiletrovare marito

Caterina O. Io abitavo a Firenze e lì non c’erano regole partico-lari per il fidanzamento. Il mio primo fidanzato l’ho avuto a 22anni, lui ne aveva 23 ed è venuto lui di persona a parlare con miopadre. Frequentavamo la stessa facoltà. Gli disse che voleva fre-quentarmi e mio padre gli rispose che prima io dovevo finire glistudi. Ma era convinto che ci saremmo lasciati prima. Durante ilfidanzamento, quando ci vedevamo, o mio padre o mia madreerano sempre presenti, mai lasciati soli neppure per andare amessa. Veniva a casa e si giocava a ramino con il babbo. Non cisiamo dati mai neppure un bacio. Poi ci siamo lasciati, lui ha spo-sato una con i quattrini. Ma il vero amore della mia vita l’hoconosciuto quando avevo 40 anni, era un mio collega ma miopadre con il suo atteggiamento e con la sua gelosia ha rovinatotutto. In amore la mia vita è stata una battaglia, una guerra!Perfino a 40 anni mio padre mi ha impedito di sposarmi: lui eravenuto a chiedergli se mi poteva sposare e gli ha detto di no; miricordo che disse – “Se vi volete sposare andate fuori di casa. Tee tua madre andate con lui e io sto tranquillo, non mi venite a cer-

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Il fidanzamento

care!”. Allora il mio fidanzato disperato se n’è andato a lavorarein Egitto. Però prima siamo stati molto insieme: Martire sì, ver-gine no!Dopo due anni è tornato a casa a trovarmi, poi tanti anni dopo,quando mi sono ammalata, mi è venuto a trovare all’ospedale emi ha detto – “Abbiamo fatto uno sbaglio, non ti ho fatto fare unfiglio, era meglio almeno tuo padre era costretto a farci sposare”.Eravamo tanto innamorati!... .

Ivana A. Vi voglio raccontare la mia storia bella perché non misono sposata e son rimasta zitella! Quanto è bello lu primo amorelu secondo è più bello ancor!. Si certo c’era uno che era bono tanto ma lo vedevo un po’ tonto-lone e non mi ispirava niente. Forse ero un po’ troppo esigente.Poi magari qualcuno che mi piaceva di più non mi guardava! È così la vita...! Ricordo comunque che mi ero innamorata di ungioielliere e che lui mi voleva molto bene, forse questo avevacreato un po’ d’invidia. Successe che qualcuno in paese scrisseuna lettera con tante maldicenze su di me e la spedì alla mammadi lui che da quel momento non volle più che lui mi frequentas-se. Questo per dire che c’era anche tanta cattiveria nei paesi, nonerano tutte rose e fiori e per una ragazza era difficile districarsitra tutto questo. Poi ho saputo anche chi aveva scritto questa let-tera ma io ho sempre perdonato. La verità è che la cattiveria c’èsempre stata...!

Lina C. Poi c’era anche il caso che ci fosse bisogno di una terzapersona che aiutasse i due giovani ad incontrarsi e a fidanzarsi:questa figura si chiamava il “corsone”, il cosiddetto sensale. Sele cose andavano a finire bene e c’era il matrimonio, la ragazzadoveva fare un regalo a quest’uomo, in genere una camicia.

Guglielma C. Io non ho mai saputo che c’era questa usanza

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anche perché io non mi sono mai fidanzata con nessuno; io pen-savo a lavorà e basta. Solo una volta, quando avevo 16 anni, men-tre raccoglievo la ghianda uno attaccò discorso ma io non glivolevo parlare, troncai subito il discorso e gli dissi di andare via.

Lina C. Benchè abitassi a Città della Pieve come mio marito, nonlo conoscevo. Io lavoravo da una famiglia e avevo poche ore libe-re e in quei momenti qualche volta andavo a passeggio per ilpaese e incontravo quest’uomo che con la mano sinistra “sfalcet-tava” l’erba “su un greppo” e noi passando lo chiamavamo“Mancinaccio, mancinaccio”Poi un giorno incontrai un vicino che mi disse – “C’ è uno che tivuole sposare”Gli dissi – “ Ma chi è?”Lui – “Peppe Convito è rivenuto dalla Francia, però in casa nunce lo vogliono”Gli dissi – “Ora ho poco tempo ma appena c’ho due ore ce voglioparlà”Un giorno ci incontrammo e gli domandai – “Ma sei quello chechiamano il mancinaccio?”E lui – “Si e tu eri quella a passeggio con la Vera”Perché lei la conosceva bene ma conosceva anche me! Allora luiiniziò a dire – “Sono tornato dalla Francia e in casa non mi ci rivo-gliono perché sono tanti e allora mi voglio sposà!”.Io gli dissi – “Ne riparleremo, adesso ho fretta non ti dico niente”.Dopo ho cominciato a pensà da me da me che a casa mia era unperiodo che cominciavo un pochino a esse di troppo...anche se ioa casa ci stavo poco, ci andavo solo a dormì. A casa mia c’era ilmi fratello, la mi cognata, i due figlioli e mi genitori e la casagrande non era e anche se ci andavo solo a dormì mi sentivo ditroppo. Allora mi dissi: vediamo di conosce meglio quest’uomo;mi consigliai anche con la mia padrona che mi disse – “Lina seibella grande e vaccinata però io ti posso dare un consiglio: cerca

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di essere sicura di quello che fai”.Io avevo capito che a lei gli dispiaceva perché avrebbe dovutotrovare un’altra donna e gli risposi – “Certo ora ci penso poivedremo”.Poi con la padrona partimmo per il mare a Follonica e io diedi aPeppe l’indirizzo della casa dove alloggiavamo. Mi ricordoanche che avevo nella gamba un fruncolo molto fastidioso e ildottore presso il quale lavoravo mi aveva curato. Peppe mi scri-veva e dalle parole mi sembrava un brav’uomo e chiedeva ancheinformazione sullo stato del mio fruncolo e un giorno scrisse“quest’anno un bruciolo il prossimo un figliolo!”.Questo succedeva nel giugno del 1959 e il 24 ottobre dello stes-so anno ci siamo sposati!

Rosa B. Quando ho conosciuto mio marito ero molto giovane, luiè venuto a “chiedermi” a mio padre e dopo poco ci siamo sposa-ti. Era davvero un bel giovanotto, alto, io invece ero piccina. Civedevamo a casa ma molto di più in campagna dove ci siamo datiqualche bacio ma di nascosto altrimenti ci menavano con illegno! Adesso invece è cambiato tutto. Ma noi eravamo vera-mente innamorati: lui era bello con i capelli e gli occhi neri, civolevamo tanto bene... ma lavoravamo pure tanto! Adesso nonc’è più, è lassù che mi aspetta!

Lina T. Io mio marito Fernando l’ho conosciuto alla messa, ioero con sua cugina che era anche una mia amica. Usciti dallamessa me lo presentò. Poi ci siamo rivisti al pascolo perché ioandavo a badà le pecore; durante le sue visite si chiacchierava equalche volta si perdevano di vista le pecore che andavano a fa’danno. Un giorno venne a casa dai miei genitori perché io glidissi – “Se fai sul serio bene, sennò a casa!”. Poi venne a trovar-mi tutte le domeniche, andavamo alle veglie e dopo due anni cisiamo sposati.

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Il fidanzamento

Rosa M. Io mio marito l’ho conosciuto ad una festa da ballo allasala del Moiano.Io c’ero andata con i miei genitori, abbiamo ballato e poi mi hachiesto l’indirizzo. Ci siamo scritti poi incontrati altre volte e poi ha cominciato afrequentare la nostra casa, ma senza una presentazione o unfidanzamento ufficiale. Solo disse a mia madre che voleva starecon me. Ci siamo fidanzati dopo 20 giorni A quei tempi si usavache dopo conosciuti, i genitori suoi e i miei si trovavano per fareun pranzo insieme. Dopo il fidanzamento lui veniva a casa miauna o due volte a settimana.

Dina C. Io mio marito l’ho conosciuto perché facevamo la stes-sa strada per andare alla messa e lui passava davanti al mi’ pode-re e m’accompagnava, avevo 19 anni. Lui mi “balzellava” equando passavo mi veniva dietro. La mamma non era tanto con-tenta invece il babbo mi disse – “Se ti va bene a te”. Così lui èvenuto a conoscere i miei genitori dopo poco che ci eravamoincontrati. Dopo veniva tutte le domeniche dopo la messa e stavatutto il giorno a casa mia ma ci si vedeva anche dietro al “paglia-io” dove ci davamo qualche bacino e anche altro...!Ci siamo sposati dopo 19 mesi.

Domenico G. Io la mì moglie la conoscevo da figlio, lei abitavavicino alla chiesa della Madonna degli angeli e anche io mi sonotrasferito lì quando avevo 15 anni e lei ne aveva 13.

Di fronte a questi racconti ci colpisce la distanza che li separa dainostri giorni, incommensurabile rispetto al periodo reale di circacinquant’anni e sulla quale molto ci sarebbe da riflettere.

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Il fidanzamento

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Il matrimonio

IL MATRIMONIO

Lina C. Il mio parroco era Don Oscar che seguiva due chiese: ilGesù (dentro al paese) e San Pietro(fuori dal centro storico) lamia parrocchia, e quindi avrei dovuto sposarmi lì ma per arriva-re alla chiesa avrei dovuto scendere una lunga gradinata ed io coni tacchi avevo paura di cadere così dissi a Don Oscar – “Senta losò che mi devo sposare a San Pietro ma io metto per la primavolta le scarpe con il tacco (era basso ma per me era altissimo) eho paura di scapicollarmi giù per quelle scale allora mi possosposare al Gesù?”E lui disse – “Non c’è problema io ti sposo lì”.Il vestito che indossai per il mio matrimonio era di colore rossochiaro, intero normale che però non ho portato più. Mi regalarono anche un altro vestito di velluto intero con unagiacchina per dopo il matrimonio. Il dottore mi regalò i soldi esua moglie una bella borsa che io non sapevo portà, non sapevodove metterla. Il vestito di mio marito glielo scelsi io e lo fecicucire dal sarto.Eravamo una bella coppia elegante. Durante la cerimonia Peppe sbagliò a mettermi la fede, me lamise nella mano destra.Poi andammo a pranzo in una trattoria del paese, eravamo 18 per-sone, solo i familiari e la famiglia dove lavoravo. Dopo il pranzopartimmo per il viaggio di nozze: una settimana a Roma ospiti diun cugino mio, visitammo tutta la città, fu molto bello. Mi ricor-do del matrimonio di una mia cugina: lei abitava a Poggio aPiano lui per la strada che va a Piegaro. Per trasportare tutti iparenti avevano affittato un pulman. Era tradizione che il pranzolo facevano a casa di uno e la cena a casa dell’altro sposo; lefamiglie non volevano sfigurare e allora facevano pranzi contanta roba da magnà...perché la gente contava le portate. Partendodagli antipasti qualcuno ne faceva anche 25. Ma come se fa?!

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Il matrimonio

Domenico G. Non è vero che una volta i matrimoni erano menolussuosi di adesso: chi poteva spendere faceva matrimoni anchetroppo sfarzosi e chi non poteva faceva le cose un po’ alla bona.Quando mi sono sposato io, mi ha dato da magnà ‘l mi’ socerosennò manco da magnà c’ avevo. Alla cerimonia c’erano io, miamoglie, mio cognato, i miei suoceri e due testimoni: uno era ‘lporo Peppe del Piccino. Mi ricordo che mi sono sposato in chie-sa e per l’occasione ho comprato un vestito dal poro Cestola adebito; gli ridiedi i soldi un po’ alla volta. Mia moglie aveva unvestito alla bona come era alla bona anche il mio. Il pranzo l’hapagato ‘l mì socero, io non avevo i soldi neppure per quello: si èfatto in casa e non al ristorante come si fa adesso. Io in quelperiodo non lavoravo, sono stato disoccupato per 5-6 mesi.Quando sono andato in Svizzera a lavorare avevo quasi mezzomilione di debito per i negozi perché “segnavo” a bottega. A queitempi facevamo i debiti per mangiare, non per i lussi, poi c’era-no i figli che dovevano andare a scuola e ci volevano i soldi e glisvaghi non ce li potevamo permettere: niente cinema, solo la pas-seggiata il sabato e la domenica. Dopo sposati abbiamo cambiato tre volte casa in tre anni: miricordo che della prima volevano 18.000 lire al mese e io ne pren-devo 15.000 allora io gli dissi... – “Come faccio a pagare i soldi,li sconto in galera” .Allora il padrone fu abbastanza comprensivoe abbassò il prezzo a 14.000.Mia moglie andava a servizio e gua-dagnava qualcosa e così con i suoi e i miei soldi andavamo avan-ti.

Dolores P. Io e Firmino ci siamo sposati dopo due anni e mezzodi fidanzamento il 3 Marzo, è stata una cerimonia semplice. Io avevo un vestitino nuovo ma niente di eccezionale, comunqueè stato un bel matrimonio e poi sono nati tre figli: due maschi euna femmina. Il pranzo lo abbiamo fatto in famiglia con pochiparenti e amici anche se lui di amici ne aveva molti perché suo-nava il mandolino in un gruppo e faceva le serate.

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Il matrimonio

Dina C. Io mi sono sposata grazie al babbo perché la mi mammanon voleva e allora il mì babbo disse – “Dunque glielo damomarito a ‘sta ragazza si o no?”.E la mamma disse – “Oramai avete deciso voi, fate come vi pare” E io sono stata contenta perché gli volevo proprio bene e poi sononati Mauro e Marino. Mi sono sposata a Luglio, avevo un vesti-to grigio fino composto da gonna e giacca che aveva cucito unamia parente di Vaiano che lo fece anche a mio marito.

Lina T. Io mi sono sposata a metà Febbraio, il pranzo fu a casadei miei e la cena a casa sua, dopo cena ci fu una bella festa daballo. Lui era in licenza perché era militare e dopo il matrimonioripartì...ma ritornò quasi subito.

Rosa M. Io mi sono sposata il 31 Marzo 1950, avevo 19 anni elui 18 e la sera prima di sposare io e mio marito abbiamo litiga-to...eravamo a cena a casa dei miei genitori e lui voleva farel’amore. Io dura niente! Allora lui mi minaccia dicendo – “E iodomani mattina non ci vengo”.E io di rimando – “E pazienza se ci venghi ci venghi se no pace!”.La mattina dopo c’erano tutte le donne a preparare il pranzo e sic-come io mi gingillavo e non mi vestivo mi dissero – “Oh Rosama non ti vesti? A momenti arriva tuo marito e ancora sei qui!”E io – “Eh, ancora c’è tempo!”.Ma lo sapevo io come stava la faccenda. Dopo lui arrivò con suofratello, la cognata e gli altri parenti a piedi, mi salutò e mi diedeun bacio. Quando lo vidi mi si aprì il cuore e allora, oramai tran-quilla, gli dissi – “Ma mi avevi detto che non ci venivi!”E lui rispose – “No dicevo per scherzo”. Così siamo andati a spo-sarci alla chiesa di San Litardo che era stata preparata con un po’di cocce di fiori, niente di eccezionale. Io indossavo un vestitonormale, color rosa pallido, mio marito indossava un vestitonero: ce li aveva cuciti una sarta. Successivamente li abbiamo

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Il matrimonio

usati ancora sia io che mio marito. Pranzammo a casa mia e lacena a casa di mio marito...a quei tempi c’era un’altra allegria,tiravano i confetti !.

Lina C. A proposito del pranzo mi ricordo che dopo mangiato,quando gli sposi dovevano uscire per andare a cena, lei piangevadi solito, perché abbandonava la casa dei genitori e fuori i paren-ti urlavano – “Fuori la sposa, fuori la sposa!” e appena fuori giùconfetti!. Sempre con i confetti, per prima cosa, durante il pran-zo, rompevano il bicchiere della sposa.

Rosa M. È vero il pranzo era molto divertente, infatti di solitonon ci volevano il prete perché dicevano tante zozzerie!. Per ilpranzo delle mie nozze le donne di casa hanno cominciato a pre-parare qualche giorno prima polli, ochi... .Doveva essere belloper non sfigurare, eravamo circa 40 persone, lo abbiamo fatto inuna rimessa per i carri che era stata addobbata per l’occasione.

Lina C. Sì, la gente contava le portate e ogni portata veniva con-tata mettendo da parte un confetto: 15 confetti voleva dire chec’erano state 15 portate.

Rosa M. Come dicevo cenammo a casa dei suoceri e proprio laprima notte di nozze partorì una vacca e così poi ho pensato chemio marito la sera precedente l’aveva previsto e per questo vole-va per forza fare l’amore!

Dina B. Al nostro pranzo di nozze eravamo in 25 ma perché ave-vamo le famiglie numerose perché comunque erano invitati soloi familiari più stretti. Il pranzo l’abbiamo fatto a casa mia; fuori c’erano tante bellepiante alte che facevano molta ombra e avevamo apparecchiato lìsotto era Agosto!

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Il matrimonio

Il pranzo era organizzato come quando lo facevamo per le treb-biature perché da noi non c’era la tradizione di mangiare qualcosadi particolare.

Lina T. Da noi invece, a Castellazzara, c’era la tradizione di pre-parare i biscotti degli sposi che venivano mangiati durante il pran-zo di nozze. Anche noi al pranzo saremo stati una ventina e l’ab-biamo fatto in casa.

Dina C. Anche noi eravamo solo i familiari al pranzo ed ha cuci-nato la zia; mi ricordo che uccidemmo un “billo” di 15 chili. Mio babbo cercò di farlo bello il pranzo perché ero l’unica figliafemmina. In viaggio di nozze non ci siamo andati perché i soldierano pochi e a quei tempi...se lo potevano permettere in pochi.Poi siamo andati a vivere in casa con i suoceri: eravamo tanti per-ché mio marito aveva otto fratelli e sorelle. Ma io ero felice per-ché ci volevamo tanto bene.

Lina C.: Da noi c’era l’usanza che finito il pranzo si partiva perla casa degli sposi.Se stavano poco distanti ci si andava a piedi eallora i vicini mettevano una fune di traverso per la strada chetiravano su quando passavano gli sposi e gridavano “viva glisposi” e loro erano obbligati a fermarsi e a scendere dal carro.I vicini gli tiravano i confetti e gli veniva offerto da bere e que-sto si ripeteva per tutta la gente che abitava tra le due case. Unavolta due sposi si sono dovuti fermare sette volte!!!

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Il matrimonio

Una coppia di sposi

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Il matrimonio

1940

Matrimonio a Città della Pieve

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Che dire di queste foto ingiallite dal tempo che non hanno

perso contorni ma si sono arricchite di poesia; conservano la

concretezza di una vita dura ma solidale in cui le tappe

significative della vita di ciascuno erano condivise dalla

comunità e rappresentavano per i suoi componenti veri e propri

riti di iniziazione e passaggio ad altri ruoli socialmente

attribuiti e riconosciuti.

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Glossario dei temini dialettali

Badare: sorvegliare, prendersi cura, occuparsi di qualcuno (bam-bini, gregge).

Balzellare: appostarsi per avvistare una persona.

Billo: tacchino

Crino: cesta di vimini usata per portare erba, fieno e similari.

Greppo: parte scoscesa di terreno che raccorda due livelli diversi.

Pagliaio: grande ammasso conico o tondeggiante di paglia, postoall’aperto.

Sfalcettava: da falce, piccolo attrezzo agricolo a forma di mezzaluna usato per tagliare l’erba.

Sventolone: colpo violento inferto con la mano aperta nel movi-mento dello sventolare.

Zozzerie: parlare di cose con riferimenti sessuali.

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Conclusione

PENSO CHE...

Pur nella sua brevità questa narrazione autobiografica consentedi ricostruire alcuni aspetti di costume e sociali del contesto cul-turale e storico di appartenenza degli ospiti coinvolti nel proget-to. Per ciò che emerge dai racconti rispetto a quanto ormai ampia-mente narrato anche nelle ricerche socio-antropologiche potrem-mo dire “tutto qui?”. Sarebbe errato perché la particolarità dicerti dettagli usciti dalla memoria dei nostri “grandi adulti” è diassoluta originalità e vivezza derivanti dalla comunicazione par-tecipata di chi li ha vissuti e riproposti col nitore e la poesia chesolo il ricordo consentono. L’emozione che abbiamo provato alsuono di quelle voci che via via si scaldavano e di quegli occhiche si facevano lucenti tra i segni del tempo ci ha toccato pro-fondamente, come un rapporto d’amore che non potrà più can-cellarsi anche se materialmente potrà interrompersi. Ogni voltache ci rivediamo sento che è così, che la relazione tra noi è dialtro tipo perché non sono mai stata l’intervistatrice che poi sen’è andata ma una educatrice di adulti che li ha aiutati a comu-nicare ricordi imparando da loro a migliorare se stessa.

Con gratitudineMaria Pia

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Bibliografia

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76

Hanno collaborato:

Gli ospiti della Residenza Protetta “Creusa Brizi Bittoni” di

Città della Pieve

Prof. ssa. Maria Pia Sannella già docente di Educazione degli

adulti all’Università degli Studi di Perugia.

Dott.ssa Debora Bordini Coordinatore dei Processi Gestionali

territoriali presso la Coop Polis.

Donatella Marzucchi animatrice presso la Residenza Protetta

“Creusa Brizzi Bittoni” di Città della Pieve, operatrice della

Coop Polis.