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cultura I mondi lontani di Giuseppe Tucci STEFANO MALATESTA e BERNARDO VALLI il racconto Il giallo sulla morte di Lawrence LEONARDO COEN le storie I diari delle donne in motocicletta EMANUELA AUDISIO l’incontro Patty Pravo: “Per me il passato non esiste” DARIO CRESTO-DINA spettacoli Addio Greenwich, l’arte cambia casa ERNESTO ASSANTE e GABRIELE ROMAGNOLI i luoghi Mediterraneo, il mare della poesia TAHAR BEN JELLOUN A ll’albadel24agosto,ildottorEvanJBlakedelcen- tro nazionale per gli uragani in Florida sorseggiò il suo terzo vaso di caffè amaro e guardò lo scher- mo del radar Doppler. Sul tavolo di lavoro, il col- lega del turno di notte aveva lasciato una nota: «Keep an eye on the Bahamas thing», tieni d’oc- chio la “cosa” della Bahamas e il dottor Smith aveva seguito il consiglio. La “Bahamas thing”, un innocente sbuffo di nubi e di vento come mille altri attorno alle settecento isole delle Baha- mas, era cresciuto mostruosamente nella notte, nutrito da un oceano che aveva raggiunto la temperatura umana, 37 gradi. Il dottor Blake non perse tempo. Scrisse in cinque righe asciutte il certificato di nascita della dodicesima “depres- sione tropicale” atlantica 2005. Era ancora troppo piccina, troppo debole, per meritare un nome che avrebbe acqui- sito soltanto se fosse cresciuta fino a essere un uragano ma, per curiosità, Evan J Blake scorse la lista dei nomi al- ternati maschili e femminili preparati in anticipo per la “hurricane season” 2005. (segue nelle pagine successive) VITTORIO ZUCCONI I l Po ha rotto, dalle parti di Ferrara e Occhio- bello. È la sera del 14 novembre 1951. «Parti subito», dice il capocronista della Gazzetta del Popolo di Torino. Noi della cronaca eravamo gente di trincea, come i pompieri della caser- ma di corso Valdocco che dormivano vestiti e scendevano all’allarme scivolando sulle pertiche. Non proprio così ma quasi. Il tempo di passare a ca- sa per prendere qualche ricambio e poi via nella not- te con la tua auto, perché quelle del giornale non ci sono mai, tutte fuori per i direttori e i redattori capo. La mia auto è una Topolino rossa, cinquecento di cilindrata, due posti, ma va sul ghiaccio e nel fango e non si rompe mai. Dove? A Ferrara e al Po, la stra- da per arrivare sul posto dove c’è da vedere e da scri- vere la troviamo sempre. La Via Emilia nella notte è una fila di camion ma la conosciamo a memoria, i panini degli autogrill sono di stoppa ma l’impor- tante è andare. (segue nelle pagine successive) GIORGIO BOCCA Il diluvio La città cancellata dall’acqua, la gente sui tetti, la fuga disperata: oggi a New Orleans, come cinquant’anni fa nel nostro Polesine DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005 D omenica La di Repubblica FOTO AFP PHOTO/HO/US NAVY/PHAN JEREMY L. GRISHAM

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cultura

I mondi lontani di Giuseppe TucciSTEFANO MALATESTA e BERNARDO VALLI

il racconto

Il giallo sulla morte di LawrenceLEONARDO COEN

le storie

I diari delle donne in motociclettaEMANUELA AUDISIO

l’incontro

Patty Pravo: “Per me il passato non esiste”DARIO CRESTO-DINA

spettacoli

Addio Greenwich, l’arte cambia casaERNESTO ASSANTE e GABRIELE ROMAGNOLI

i luoghi

Mediterraneo, il mare della poesiaTAHAR BEN JELLOUN

All’alba del 24 agosto, il dottor Evan J Blake del cen-tro nazionale per gli uragani in Florida sorseggiòil suo terzo vaso di caffè amaro e guardò lo scher-mo del radar Doppler. Sul tavolo di lavoro, il col-lega del turno di notte aveva lasciato una nota:«Keep an eye on the Bahamas thing», tieni d’oc-

chio la “cosa” della Bahamas e il dottor Smith aveva seguito ilconsiglio. La “Bahamas thing”, un innocente sbuffo di nubi e divento come mille altri attorno alle settecento isole delle Baha-mas, era cresciuto mostruosamente nella notte, nutrito da unoceano che aveva raggiunto la temperatura umana, 37 gradi.

Il dottor Blake non perse tempo. Scrisse in cinque righeasciutte il certificato di nascita della dodicesima “depres-sione tropicale” atlantica 2005. Era ancora troppo piccina,troppo debole, per meritare un nome che avrebbe acqui-sito soltanto se fosse cresciuta fino a essere un uraganoma, per curiosità, Evan J Blake scorse la lista dei nomi al-ternati maschili e femminili preparati in anticipo per la“hurricane season” 2005.

(segue nelle pagine successive)

VITTORIO ZUCCONI

Il Po ha rotto, dalle parti di Ferrara e Occhio-bello. È la sera del 14 novembre 1951. «Partisubito», dice il capocronista della Gazzetta delPopolo di Torino. Noi della cronaca eravamogente di trincea, come i pompieri della caser-ma di corso Valdocco che dormivano vestiti e

scendevano all’allarme scivolando sulle pertiche.Non proprio così ma quasi. Il tempo di passare a ca-sa per prendere qualche ricambio e poi via nella not-te con la tua auto, perché quelle del giornale non cisono mai, tutte fuori per i direttori e i redattori capo.

La mia auto è una Topolino rossa, cinquecento dicilindrata, due posti, ma va sul ghiaccio e nel fangoe non si rompe mai. Dove? A Ferrara e al Po, la stra-da per arrivare sul posto dove c’è da vedere e da scri-vere la troviamo sempre. La Via Emilia nella notte èuna fila di camion ma la conosciamo a memoria, ipanini degli autogrill sono di stoppa ma l’impor-tante è andare.

(segue nelle pagine successive)

GIORGIO BOCCA

Il diluvioLa città cancellatadall’acqua, la gentesui tetti, la fugadisperata:oggi a New Orleans,come cinquant’annifa nel nostroPolesine

DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

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di Repubblica

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(segue dalla copertina)

primi dieci erano stati consumati da uraganigià passati dal mese di giugno, Arlene, Bret,Cindy, il primo disponibile era l’undicesimo.Un nome da straniera, grazioso. Katrina.

Cinque ore più tardi, a tremila chilometridi distanza dal meteorologo in Florida, Wal-

ter Maestri compose sul telefono cellulare il nume-ro del redattore del Times Picauyne, il quotidiano diNew Orleans, che da anni era il suo contatto. «Ho unbrutto presentimento — disse il vecchio italo ameri-cano, ex direttore dei servizi di emergenza a New Or-leans — con questa depressione dalla Florida».«Walter, Walter, sono vent’anni che tu hai brutti pre-sentimenti…». Maestri non rise. «Questa mattinasono andato a dare un’occhiata alle mie dighe sul la-go. Non hanno fatto niente, neanche un lavoro diquelli che avevo raccomandato e se ci arriva addos-so un uragano, che Dio ci protegga». «Che Dio ci pro-tegga» lo salutò il reporter, che aveva poca fede mamolto da fare. Quando anche lui, come tutta la reda-zione del “Times” fu costretta a scappare in barca,rimpianse di non avere pregato.

Katrina fu straordinariamente veloce, ma anchedispettosa. Corse zigzagando e attraversando ilGolfo in soli tre giorni, ingannando i cacciatori di di-sastri mandati dalle network per farsi sbatacchiarein diretta nel centro di New Orleans, che entravanoe uscivano dal “Sonny’s bar” nel French Quarter, l’u-nico rimasto aperto, a bere “Margaritas” a metàprezzo, senza catastrofi da raccontare. All’ultimoistante, erano le sei del mattino della domenica 27 inLouisiana, la carognetta aveva fatto l’ennesimo zig,si era addomesticata a una “categoria 4”, appena 240chilometri l’ora, e stava passando accanto, non so-pra New Orleans, lasciando i reporter sotto unapioggia qualsiasi, in strade lucidate dall’acqua, maintatte. Nel pomeriggio, mentre Katrina bastonavacittà a est — Biloxi, Mobile, Baton Rouge, delle qua-li al pubblico non importava nulla — gli inviati, fu-riosi per la buca e irritati per l’esaurimento della te-quila da “Sonny’s”, si rassegnarono a dire che «NewOrleans poteva tirare un sospiro di sollievo».

Fu un cronista della Fox TV a rilanciare una voceche frullava nel vento. «Si sente dire che uno degli ar-

gini a est abbia ceduto». Voci, e non poteva essereuna cosa grave. In quelle ore il Presidente america-no, il “pater familias” della nazione, con tutti i mez-zi a disposizione, dopo avere invitato tutti a lasciarela città era tornato sereno nel suo ranch a esercitarsisu una chitarra con il simbolo presidenziale incisosopra, omaggio di un cantante “country western”. Ilsindaco di New Orleans, un nero e democratico perdi più, Ray Nagin, che aveva previsto la fine del mon-do e aveva detto «se restate qui, morirete», aveva fat-to la solita figura del catastrofista di sinistra.

Ma non fu l’uragano a uccidere New Orleans, né ilDio di Sodoma e Gomorra. Sono stati gli uomini, i go-verni, gli amministratori stolti e improvvidi. La pri-ma onda arrivò da nord-est, dalla parte della auto-strada 510. Non fu granché.Una lunga leccata d’acqua tra-cimata dalla diga sul lato delLago Pontchartrain che non èun lago come il Garda, ma unaenorme pozzanghera piatta elimacciosa che ha soltanto, co-me tutti gli altri laghi che cir-condano New Orleans — LagoBourgne, Lago Maurepas, La-go Salvador — il difetto di esse-re di cinque metri più alto dellafondina entro la quale sta lacittà. Lungo quella diga, sca-valcata dalla pozzangheragonfiata, c’erano soltanto lecasupole di legno e cartongesso, della città nera, diquel 27 per cento di abitanti che vivono sotto il livel-lo della povertà ufficiale, oltre che dell’acqua.Muoiono i poveri, nessun allarme. Una foto che sol-tanto il Los Angeles Times ha osato pubblicare, mo-stra una donna grassa che naviga accanto a un argi-ne ponte, a faccia in giù. Un’altra donna, sulla spal-letta, accarezza il suo cane spaventato e guarda il ca-davere scivolare via.

La seconda ondata arrivò con la terza, la quarta, laquinta, con tutta la massa che aveva spezzato i “le-vies”, come li chiamano, gli argini di terra e ghiaiarinforzati da una piccola parete di cemento armatoche il Genio Militare costruì, secondo gli ordini rice-vuti dall’alto, per resistere a un uragano forza 3. «Perragioni di costi e benefici», spiegano ora, perché i“Categoria 5” sono rari e innalzare la barriera sareb-

bero costato troppo. I 500 milioni di dollari per co-struire i nuovi stadi si trovano, ma i 36,5 milioni cheWalter Maestri aveva chiesto dal 2003 per alzare al-meno i lati più esposti non c’erano mai. Nella finan-ziaria in corso, quella 2005, il sindaco e il Genio se lierano visti rifiutare. L’Amministrazione, intenta a ri-durre le tasse e a pagare il conto dell’Iraq, ne avevaassegnati 10 e tagliati 200 dal fondo nazionale per ladifesa delle coste. E il Genio militare aveva allora am-messo che la cassa era dissanguata dalla guerra.

Mercoledì 31 agosto, mentre George W Bush era aSan Diego davanti alla flotta del Pacifico per comme-morare la resa del Giappone, New Orleans era conl’acqua alla gola e si arrendeva. Non è neppure pos-sibile oggi, a una settimana esatta dal passaggio di Ka-

trina, immaginare quanti sianoi morti — se siano diecimila co-me si sente dire — quanti sianoi danni, che cosa ci sia sotto il la-go che ha riempito la fondinaurbana. Si possono soltanto ap-piccicare insieme schegge diuna realtà che nessuno cono-sce. Si può partire dal Superdo-me, il vecchio stadio di footballdove almeno ventimila perso-ne senza mezzi e soldi per fug-gire da New Orleans furono in-truppate, accatastate sui sedilima tenute lontane dal campoverdissimo di astroturf, erba ar-

tificiale, riassettato in attesa dell’inizio imminentedel campionato. Ventimila persone che in poche oreavevano trasformato i gabinetti pubblici in bugliolida lager, per il riflusso di feci e urine, senza cibo, sen-za acqua, senza medicinali, tranne quelli portati dipersona dai profughi, la «Dome People», come furo-no chiamati ricordando la Boat People. In tre si sonobuttati dall’anello superiore, sporcando l’astroturf,forse suicidi, forse buttati giù in una rissa per una bot-tiglia o una pillola. Una bambina di dieci anni è ca-duta in coma diabetico, salvata perché dal fondo diuna borsa una donna anziana, con meno vita da per-dere, ha tirato fuori la sua siringa di insulina.

Si può andare all’ospedale della Carità, dove unbambino leucemico di sette anni, operato di tra-pianto del midollo sabato, è stato portato via lunedìnotte dentro una gabbia di ferro appesa a un elicot-

tero, tra le braccia della madre che reggeva le flebo.Un bambino più fortunato, forse, degli otto cardio-patici acuti portati sul tetto del “Charity Hospital” al-lagato e coi generatori sott’acqua e morti dopo duenotti all’aperto, nei 35 gradi all’umido, davanti a car-diologi impotenti. Quando la “battaglia di New Or-leans” è cominciata, venerdì sera, e le colonne dimezzi militari e di soccorsi civili hanno cominciatoa entrare per riconquistare la città, l’acqua avevapreso il quartiere francese, lavato via i resti del bar diSammy, sventrato le hall degli alberghi, portato ca-daveri dove saranno trovati quando l’acqua scen-derà, forse quelle migliaia delle quali ha parlato il sin-daco Ray Nagin. Tra loro, la donna che per una inte-ra notte ha retto abbracciata al marito sul crinale deltetto lambito dall’acqua prima di lasciarsi scivolaregiù e salvare almeno il suo uomo stremato. Titanicon the Mississipi, ma vero.

Non ci sono, sette giorni dopo l’uragano, notiziedai “bayou”, dalle paludi e dai villaggi dove serpi ve-lenose, alligatori e uomini si contendono le terreasciutte, mentre l’acqua stagnante sta incubandoun raccolto miracoloso di zanzare. Le armi, vendu-te dai grandi magazzini in belle vetrinette comeswatch o collanine, sono sparite nei saccheggi. Nel-l’acqua alta, nel centro direzionale dei grattacieli,passano pick up e suv rubati — 95 soltanto in unanotte, spesso di soccorritori volontari spodestati euccisi — carichi di armati bianchi e neri, “buoni” o“cattivi”, predoni o samaritani.

Quando l’acqua arriva alla gola di chi non haniente da perdere e niente più da temere, dopo cheun poliziotto su due saggiamente è scappato, pani-co, rabbia, odio, razza, rancori, tutto rigurgita inbocca, come il putridume umano e il liquame d’i-drocarburi dalle fogne. «Se avessi avuto un fucile,avrei sparato» diceva Miss (nel sud si chiamanoMiss anche le nonne) Rosy Badieux, una delle “Do-me People”, delle profughe americane. Ma a chi? Ache cosa? «Al buio, a tutti», racconta la nonna, cheha un nipotino di tre anni disperso nell’acqua, «aquelli che hanno permesso questo». «Ma tutto tor-nerà più bello di prima», ha promesso Bush, chesente l’acqua della responsabilità pubblica salirglialla gola. Forse. L’America ce la farà, è grande, forte,perfettamente organizzata. O almeno così credeva-mo, fino al giorno in cui il dottor Blake vide Katrinanascere dalle acque e New Orleans affondare.

VITTORIO ZUCCONI

Non è stato l’uraganoKatrina a uccidere

la città dei SantiÈ stato un argine

difettoso, trascuratodal bilancio federale

2005.Le onde sopra New Orleans

la copertinaCon l’acqua alla gola

Una tempesta tropicale sommata agli argini malmessi di un lagocostiero. Le piogge d’autunno che gonfiano un grande fiumesommate alle difese fragili di golene piene di case fuorilegge.È passato mezzo secolo, ma alla radice dei grandi disastric’è sempre un mix di natura violenta e di umana sciatteria

26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

‘‘La BibbiaE le acque

prevalsero tantograndemente

sulla terra che glialti monti che eranosotto i cieli furono

coperti

La Genesi

7: 19 — 7: 20

I

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(segue dalla copertina)

Dove? A Occhiobello, da qualcheparte questo Occhiobello dovràpur esserci e infatti c’è e ci sono lerotte negli argini, il grande gonfioincontenibile fiume nero che vagiù ruggendo nel vuoto della Bas-

sa Padana, una voragine a Vallice di Paviole, al-tre due a Bosco e Malcantone: sono i nomi del-la secolare povertà e della disgrazia che la seguecome la sua ombra. Il cronista ha imparato unacosa dal suo mestiere: che tutte le vaghe notizieche gli arrivano, per radio o a voce nella nottebuia, sono vere perché le persone e i luoghi nonspariscono, li trovi al loro posto, dove li ha mes-si la storia, la vita.

In più il cronista sa un’altra cosa: che non èsolo, che a quell’ora, nel buio pesto, sulle loroauto stanno correndo nella notte quelli dellasua pasta, il gruppo mobile che arriva di corsasulle sciagure e sulle feste di un paese tornato avivere dopo la guerra: ribellioni nel Sud e cac-cia al bandito Giuliano; crollo di case marce aBarletta; Bartali e Coppi sul Galibier; l’ultimafucilazione degli assassini di Villarboit, chehanno ucciso dieci persone con una mazza perbuttarle in una fossa; e un mese su e giù per laValle d’Aosta per cercare Nadir Chiabodo, l’im-bianchino della Legione straniera che ha ucci-so a coltellate sul greto della Dora la Cavallero,ma sì la cugina del bandito, guarda le combina-zioni della vita. Ci siamo tutti nella notte del 14novembre del ‘51 noi della cronaca, probabil-mente già davanti a tutti il vecchio Toscano, ilfotografo del Corriere che avrà quarant’anni, èrobusto come un toro ma che a noi ventennisembra un vecchio.

Ogni cosa, ogni persona è al suo posto nelcaos della vita per chi le dà la caccia, per chi vuolconoscerla da vicino. È al suo posto Nerio Cam-pioni, il sindaco comunista di Occhiobello.«Pensavano che esagerassi — racconta — manoi il Po lo conoscevamo, andavamo sull’argi-ne a controllare e alle due del pomeriggio co-mincia a tracimare in diversi punti. Corro dal-

l’ingegner Corazza del Genio civile per darglil’allarme, ma lui si mette a urlare: “Lei non si az-zardi perché crea panico. Se continua la faccioarrestare”. Sono tornato in comune, mi sonomesso la fascia da sindaco e ho detto: da ora co-mando io. Al parroco dico di far andar le cam-pane a martello, al direttore della Cassa di ri-sparmio di suonare la sirena come durante gliallarmi aerei. Poco dopo sono arrivati da Mo-dena i primi sciacalli per comperare sottocostocase e animali».

Nella prima giornata di alluvione i morti aOcchiobello sono ottantotto, nelle case di gole-na. Non dovrebbero esserci case abitate nellegolene, i campi fra il grande argine e le secondedifese, ma nessuno nel Po-lesine degli anni Cinquantapuò dire no alla povera gen-te, fra le più povere d’Italia,che vive a polenta e a erbe.In una stanza della casa piùvicina al fiume si erano rifu-giati in diciotto, stretti allepareti, per sentirsi più sicu-ri. L’acqua strappò via metàcasa, se ne portò via sette,anche un bambino di cin-que anni che non è stato piùritrovato.

I cronisti si ritrovanosempre nello stesso alber-go. Lavorano e vivono in compagnia, amici esospettosi: dove va uno, gli altri lo seguono. Siparte all’alba per arrivare al Po, all’immensolago che ha formato da Occhiobello fino al ma-re. I primi giorni il lago è torbido di fango, vigalleggiano carogne di animali, alberi divelti,mobili; è percorso da correnti che creano gor-ghi. Poi l’acqua si cheta, il lago prende un colo-re azzurro grigio, solo voli di uccelli passanonel suo silenzio, nell’incanto di un paesaggioterso e immobile, fino alle Alpi dolomitiche ecarniche già imbiancate di neve. Il lago copredue terzi della provincia di Rovigo, centomilaettari coltivati, con due metri d’acqua comemedia ma anche sei, sette fra Cavarzere e Lo-reo. Qualcuno conosce i numeri della inonda-zione, o esondazione come dicono i tecnici: ot-

to miliardi di metri cubi di acqua, nelle primeore seimila metri cubi al secondo in movimen-to vicino alla rotta.

A Pontelagoscuro, un altro dei nomi di scia-gura, la portata del fiume è stata di dodicimilametri cubi al secondo di fronte ai novemila del-la piena del 1917 che sembrò la peggiore. Cosafacciamo noi cronisti? Partiamo all’alba. C’èuna strada a Ferrara, un rettilineo che va dirit-to al Po, asfaltata, la strada nazionale per Vene-zia. Ma al Po è interrotta, bisogna avventurarsisugli argini dove gli sfollati bivaccano per cer-care un posto su uno degli anfibi dei pompierio su una barca del Genio dell’esercito.

L’Italia povera del ‘51 si è mobilitata, sono ar-rivati da ogni parte, dalla Si-cilia, da Reggio Calabria,dalle Isole, che già non san-no come provvedere ai lorobisogni, alle loro disgrazie,ma si danno da fare, dormo-no e mangiano come posso-no, aiutano, rincuorano.

Navighiamo a vista per ilgrande lago, a vista di cam-panili perché i borghi quasicoperti dall’acqua non si ve-dono, bisogna guardare glialberi, perché sugli alberi cisono quelli che sono scam-pati arrampicandosi fra i ra-

mi come uccelli sperduti e intirizziti dalla famee dal freddo da tirar giù di forza e avvolgere incoperte. E chi è quello che si agita in piedi sultetto di un camion dove c’era l’azienda Folega?L’unico sopravvissuto di sei o sette che sonoriusciti a salire sul tetto quando l’acqua ha co-minciato a crescere. Andiamo a prenderlo, nonriesce neanche a parlare, suo figlio Aldo di ottoanni è stato l’ultimo a scomparire nell’acqua.

Navighiamo a raccogliere naufraghi mezzimorti e mezzi vivi e ad ascoltare le loro storie:«All’allarme abbiamo portato al primo pianoalcuni mobili e anche un maiale, poi siamo ar-rivati al sottotetto. Ci siamo rimasti tredici gior-ni, mangiavamo grano pestato con una pietra eimpastato con l’acqua».

E viene anche il giorno di rompere l’isola-

mento di Adria. In città c’erano trentacinque-mila abitanti. Il sindaco è il socialista Sante Tu-gnolo, lo aiuta la senatrice Lina Merlin, quellache abolirà i bordelli. Chiedono per radio daRovigo che tempo fa. C’è un nebbione tremen-do ma la Merlin risponde: «Un sole splendido».Partiamo anche noi con un convoglio di anfibiche vanno lenti come rinoceronti, la via princi-pale è diventata un Canal Grande con case ve-neziane, bifore, marmi, acqua e battelli e genteche applaude alle finestre. Passiamo davanti albordello, le «signorine» sono tutte sul balconea gridare ed applaudire, hanno issato una gran-de bandiera tricolore, chi sa dove l’hanno tro-vata, forse era lì dalla Grande Guerra.

«È stata una tragedia in bianco e nero» diràGioia Beltrame, l’assessore alla Cultura dellaProvincia di Rovigo. «Non c’era la televisione,le notizie arrivavano per radio, e con i giornali».Sui giornali i cronisti raccontavano le cose vi-ste. I giornalisti celebri, le grandi firme, inven-tavano i titoli a tutta pagina: «Acqua traditora»si leggeva su La Stampa a firma Paolo Monelli.

Centosessantamila persone abbandonaronola provincia di Rovigo e si associarono, magraconsolazione nei “Polesani nel mondo”. Ma unabuona parte finì nella Val d’Aosta dove c’eranoposti nelle miniere di Cogne e di Morgex. Moltimorirono per la polvere di carbone finita nei pol-moni, fino a poco tempo fa riconoscevi i soprav-vissuti dalla raucedine cavernosa della voce.Erano dei poveri più poveri dei valdostani, cheperciò subito li distinsero chiamandoli i «giapu-neis», quelli delle baracche vicine alle gallerie edelle case popolari ad Aosta. Oggi i loro eredihanno l’auto e vestono come i boys americani.

Tutto ricostruito, tutto dimenticato: i 52 pon-ti caduti, le 1.200 abitazioni danneggiate, i55mila ettari di coltivazioni coperti dalla sab-bia, i 13mila capi di bestiame morti, un centi-naio di persone perite. Lo scolo delle acque fucostoso, dopo tre mesi la superficie allagata siera ridotta a un terzo ma per i campi coperti disabbie sterili ci sono voluti anni. Buona partedei 174mila sfollati si è sistemata altrove. E icronisti? A loro il lavoro non è certo mancatonell’Italia dello sfascio incombente e delle con-tinue sciagure.

GIORGIO BOCCA

Un lago immenso,dagli argini rottial mare. I primi

giorni è fangoso,ci galleggiano

carogne di animali

1951.Il Po cancellò la Bassa

LA GRANDE INONDAZIONE

La mattina del 12 novembre 1951, dopo giorni di forti

piogge, l’acqua sommergeva l’isola di Polesine Camerini,

con lo sfollamento di 3mila persone. Il 14 novembre

l’acqua del Po, già in piena, irrompeva nelle campagne

alla velocità di 6000 mc al secondo. Prima che il Genio

riuscisse ad arginare il disastro, tutto il Basso Polesine

era sommerso, costringendo 180mila persone

a abbandonare case e averi. Le vittime furono 84

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

‘‘OvidioAltro

castigo gli piacque:sommergere

il genere umano,versando pioggia

dirotta da tuttele parti del cielo

Le Metamorfosi

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Alle partite, che nel cricket possono du-rare sette o otto ore, per il momento gliitaliani non vengono, a parte qualchecurioso. Ci sono i parenti e gli amici deigiocatori, i parenti e gli amici degli av-versari, qualche dirigente e il signorFerrari, il capo: «Bisogna davvero esse-re ammirati da queste persone, dalla lo-ro laboriosità e serietà. Noi italiani nonaccettiamo più di svolgere certi mestie-ri, è un po’ quello che accadde con le im-migrazioni dal Sud. Ma gli indiani di se-conda generazione sono ormai inseritibenissimo, hanno il lavoro, la casa, lamacchina, sono spesso vegetariani equasi sempre molto religiosi, è gentemite che conosce il valore dei soldi: san-no risparmiare, e poi sicomprano la casetta. Unacosa che i nostri ragazzinon fanno quasi più, per-ché preferiscono buttaretutto lo stipendio in telefo-nini, benzina e ristoranti.So quello che dico, vendo eaffitto appartamenti e no-to che a volte gli indiani so-no più in gamba di noi».I posti dove vivono si chia-mano Montebello e Arzi-gnano, Villafranca e Mon-tecchio, meglio i paesi del-le città, meglio il cricket delcalcio. «Nel nostro sportservono occhio, forza e ve-locità, e se sbagli non puoidare la colpa agli altri, è so-lo un problema tuo», spiega MadanBirha. «Lo spirito del gioco è l’amicizia,la prima regola è la correttezza. La divi-sa a maniche lunghe bianca, secondo latradizione, indica persone di buon ca-rattere, uomini puliti. Anche se d’estateè un po’ calda da portare». Poi vannotutti sull’erba, per mostrare al profanocome si fa. Qualcuno si copre il viso conle larghe tese del berretto d’ordinanza,naturalmente bianco. Ma non c’è maiombra abbastanza, a parte quella dellenuvole di moscerini e degli aerei. Il lan-ciatore ha movenze di danza, prima discagliare la palla che pesa cinque oncee mezza ed è di cuoio rosso. Colpi secchinell’aria immobile e rovente.

ANTICO GIOCODI IMPORTAZIONESopra il Trentino

Cricket Club

under 17, terzo

alle finali nazionali

In Italia lo sport

fu importato dagli

Inglesi nell‘800

In origine anche

Genoa, Juventus

e Milan, erano

club di cricket

Le medaglie future e la carica dei nuovi italianiMARCO MENSURATI e FERRUCCIO SANSA

Squadre interamente composte di extracomunitari. Che gioca-no nel profondo Nord. E raccolgono il tifo di migliaia di perso-ne, leghisti compresi. L’integrazione passa anche per questi

piccoli rettangoli d’erba a Rovereto, Varese, nella periferia di Mila-no, dove la domenica pomeriggio centinaia di persone si raccolgo-no per tifare le squadre di paesi e di quartieri dimenticati dal calcioe dagli altri sport “maggiori”. In campo giocatori vestiti di elegantidivise bianche, in mano una mazza di legno e una palla di cuoio ros-sa. Si muovono con movimenti precisi, ordinati, secondo regole che

molti, anche tra i tifosi, non conoscono.È il cricket: alzi la mano chi sa esattamente di che

cosa si tratti. Da vent’anni, però, in tutta Italia le squa-dre si sono moltiplicate. E anche i giocatori: sono al-meno cinquantamila, forse di più (i tesserati sonomille, il cinquanta per cento stranieri). Quasi tuttipakistani, indiani, cingalesi. Stranieri, meglio extra-italiani, immigrati che sono ormai usciti dalla zonabuia della clandestinità e che dopo la regolarizzazio-ne di legge cercano anche una accoglienza sociale.Immigrati di prima, ma sempre più spesso di secon-da generazione. Nuovi italiani, insomma.

L’immigrazione non incrocia più solo il mondo dellavoro, ma anche quello dello sport. Con effetti posi-tivi per l’Italia: «In India, Pakistan, e Sri Lanka lo sportnazionale è il cricket», spiega Simone Gambino, pre-sidente della Federazione Cricket Italiana (www.crickitalia. org). E aggiunge: «Molti vivono in Italia daanni, stanno diventando italiani, ma il centro di ag-gregazione e di identificazione della comunità è il

campo di cricket». Insomma, su quel campo i colori, i rumori, levoci sono gli stessi che senti sui prati di India e Pakistan. La vita perun attimo sembra seguire regole e ritmi familiari, quelli del cricket.Negli stretti confini del prato le migliaia di chilometri di distanzasembrano cancellate.

Ecco allora nascere un po’ dovunque squadre “meticce”: Medi-royal, Palestrina, San Martino e Viterbo (composte interamente dacingalesi), Aprilia, e Narni (dove giocano quasi esclusivamente in-diani del Punjab). Per non dire delle compagini multietniche che suun prato di un ettaro scarso raccolgono cinque continenti: Eura-tom, Azzurra, Kingsgrove, Scaligero e Mantua. Sono soprattuttosquadre di serie B, perché nella massima divisione è ancora previ-sta una quota minima di sette giocatori italiani schierati in campo.

Non è una vita facile. Qui non è come nel calcio: anche se ilcricket è stato riconosciuto come sport federale dal Coni, di soldinon ne arrivano. Il campo devi mantenerlo tu. Un fenomeno dinicchia? «No. La pratica dello sport si sta rapidamente diffonden-do. Basta andare nei parchi delle città e dei paesi dove c’è una squa-dra: ormai i ragazzi oltre il calcio giocano anche il cricket», è sicu-ro Gambino. Servono soltanto un piccolo prato, una mazza e unapallina. E del resto, dopo il calcio, questo è lo sport più diffuso delmondo, con oltre centoventi milioni di praticanti.

Non sono soltanto extra-italiani, ma anche italiani doc. Come

nel Trentino Cricket: «All’inizio eravamo una squadra interamen-te italiana», racconta il presidente, Luca Avancini. «Poi nel piazza-le davanti al Palazzetto dello Sport abbiamo incontrato un gruppodi ragazzi indiani e pakistani che si allenavano. Così abbiamo de-ciso di metterci insieme». E gli immigrati, appena varcato il confi-ne del campo, si sono trasformati in fuoriclasse, perché nel cricketgli indiani sono come i brasiliani nel calcio. La storia si ripete, masenza ingaggi miliardari. Gli assi stranieri del Trentino Cricket so-no arrivati in Italia per fare i muratori o i meccanici. Al mattinosgobbano in officina e la domenica pomeriggio sono sul campo dicricket: idoli dei tifosi. Il risultato è una squadra mista che gioca inA. Negli spogliatoi si parlano italiano, inglese indu e dialetti delPunjab e del Pakistan. Quando si vince, la festa è a base di piatti delTrentino e del Punjab. Ma la vera vittoria è la leva giovanile: qui nonci sarebbero limiti al numero di giocatori stranieri in campo, ma iragazzi di quindici anni sono immigrati di seconda generazione ecosì la squadra che ha appena vinto il titolo under 15 è composta datrentini, indiani e pakistani. Tutti cittadini italiani.

È soltanto l’inizio, secondo il professor Antonio Dal Monte, unodei più noti medici sportivi italiani: gli effetti di questa immigrazio-ne “sportiva” si faranno sentire nei prossimi dieci-venti anni. E po-trebbero essere sorprendenti. L’Italia che fino a oggi sa a malapenache cosa sia il cricket, un giorno potrebbe giocarsela con nazioni tra-dizionalmente molto, molto più forti. «Gli immigrati arrivando inItalia — spiega Dal Monte — possono portare con sé una tradizio-ne sportiva, come avviene appunto per il cricket e per l’hockey suprato. Ma c’è di più: alcune popolazioni hanno caratteristiche fisi-che che gli italiani non hanno e che potrebbero portarci a primeg-giare in sport dove tradizionalmente non siamo forti».

Insomma, oltre a una componente culturale, sociale, ce n’è an-che una più strettamente fisica. Esempi? «Gli africani della costaoccidentale per millenni hanno vissuto di caccia sviluppando lamuscolatura bianca. Hanno quindi una grande potenza a disca-pito magari della resistenza. Sono forti negli sport che comporta-no scatto e sforzi di breve durata: corsa veloce, pugilato, basket. Gliafricani della costa orientale vivevano di pastorizia e questo li haportati ad accrescere la resistenza e a primeggiare nel fondo e nelmezzofondo».

Ancora, l’arrivo di immigrati dell’Est europeo potrebbe dare im-pulso a discipline come il sollevamento pesi o la ginnastica artisti-ca. I turchi hanno una grande tradizione nella lotta. Le medaglie diimmigrati di lusso come Fiona May e Josepha Idem potrebbero es-sere soltanto le prime. Con una differenza. Qui non si tratterebbepiù di atleti stranieri immigrati in Italia per praticare lo sport, ma digiovani che crescono nel nostro Paese, che qui diventano campio-ni. Già, in teoria, ma c’è un’incognita fondamentale: «Bisogna ve-dere — mette in guardia Dal Monte — se i genitori immigrati avran-no risorse sufficienti per mandare i loro figli ad allenarsi. Nel nostroPaese non esiste lo sport di Stato. E nemmeno la scuola svolge unruolo importante. Gli sport sono pilotati dalle famiglie, dalle mam-me. Insomma, molti immigrati potrebbero essere atleti sublimi,ma senza soldi tutto sarebbe inutile».

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l’inchiestaItalia multietnica

Vengono dall’India, dal Pakistan, dallo Sri Lanka.Sono immigrati di prima e, sempre più spesso,di seconda generazione. Formano la spina dorsaledi decine di squadre capaci di portare al successoanche nelle nostre città un gioco che, dopo il calcio,è il più popolare al mondo

L’Azzurradi Villafranca,che oggi disputala finale di serie B,è fatta tutta di indiani“Ma ora - dicono -faremo propagandanelle scuole per averecon noi qualcheitaliano. È importanteper l’integrazione”

un groviglio di maglie e pantaloni. Losport in Italia, ecco.«Io ho vent’anni» dice Satish Kumar.«Sono a Verona da tre, arrivo da unacittà che si chiama Jalandhas, mio papàera qui da nove anni e ci ha detto di ve-nire, a me e ai miei fratelli. Lavoro in-sieme a loro in una conceria di Arzigna-no. Ogni due domeniche, a mezzogior-no e mezzo, c’è la partita di campiona-to oppure l’allenamento, così come ilsabato». Lì vicino ascolta suo fratelloVishal, di un anno più giovane, occhiverdissimi. «Anch’io lavoro in conce-ria, anch’io gioco a cricket, ho amici ita-liani, ci troviamo bene». Il terzo delladinastia dei Kumar è un ragazzino paf-futo e sorridente (ma tutti in realtà sor-ridono, ed emanano gentilezza comeun fluido) che si chiama Gourhva: «Hosedici anni, tra poco entrerò in squa-dra. Invece in conceria preferirei di no,sto studiando da meccanicoed è quello il mestiere chevorrei».Nessuno è clandestino, solouno è precario, l’allenatoreKumar Ravi detto “Bharti”,cioè l’indiano, che però è inItalia da poco. Si arrangia rac-cogliendo frutta e verdura co-me stagionale. Tutti lavorano,perché emigrano solo dopo ilpassaparola giusto, quandoparenti e amici gli hanno giàtrovato il posto. «Abbiamo unaspecie di cooperativa e ci aiu-tiamo molto tra di noi» diceMadan Birha, il direttore dellasquadra. «In India ho studiatoimpianti di climatizzazione,ma qui faccio il responsabiledella produzione di una dittache tratta alluminio. In dieci anni di Ita-lia ho trovato amici, un posto fisso e so-no anche riuscito a comprarmi un ap-partamento a Nogarole Rocca». Perché la bizzarra storia della Polispor-tiva Azzurra di Villafranca lancia la suapalla assai oltre lo sport, molto più in làdei ciuffi d’erba troppo alta che prima opoi si troverà il modo di tagliare. Spie-ga, questa storia, come una comunitàdi uomini gentili e laboriosi, molto uni-ti tra loro, molto amici e solidali, si siainserita nel tessuto sociale del nord-estnon sempre facile e aperto, usando an-che uno sport per i più ostrogoto. Inve-ce di chiudersi nel loro universo, gli in-diani vestiti di bianco stanno facendopropaganda: al cricket, a loro stessi, alloro paese, a una diversa possibilità diintegrazione. Lo dicono quasi in corodue altri giocatori appena arrivati alcampetto con le mani piene di borse diCoca Cola, si chiamano Singh Man-deep e Singh Sandeep, 19 anni il primo,24 il secondo, appena una consonantea dividerli, un sacco di cose a unirli.«Quando abbiamo visto gli altri gioca-re, ci siamo sentiti a casa. È stato cometornare bambini. Il razzismo non sap-piamo cosa sia, al massimo c’è qualchevicino di casa che si lamenta perché lanostra cucina manda un odore un po’forte, però poi i ristoranti indiani sonopieni di italiani». Il cibo è un altro pez-zo di tradizione, perché prima di ognipartita i ragazzi preparano qualcosa,per lo più bombe caloriche al curry op-pure torte, lo portano al campo insiemealle bibite (devono essere rigorosa-mente gassate, devono gonfiare la pan-cia altrimenti non c’è soddisfazione) etra un tempo e l’altro si mangia insiemeagli avversari, questo è l’uso.«Mio zio è in Veneto dall’85, e un giornomi ha chiamato» dice Singh Mahavir, 33anni e una robustissima stretta di ma-no. Ma prima di arrivare qui, ho giratoun po’ l’Italia. Sono stato uomo di faticain un luna park di Lecce, poi ho attacca-to i manifesti pubblicitari per il CircoAmericano, e dal 2001 faccio il gruista aVerona, pilotando la gru sul carro pon-te. Ho una famiglia, due bambini e gio-co a cricket. Il vantaggio del nostro sportè che puoi praticarlo anche se non seipiù giovanissimo, infatti il direttoreMadan farà anche il giocatore nella fi-nale di Bologna, eppure ha 41 anni». Ilgruista che lavorava alle giostre, vera-mente, avrebbe un’altra specialità, po-tendo: «In India mi sono laureato in sto-ria dell’arte».

PARTITE LUNGHEFINO A OTTO OREIn questa pagina

i giocatori

della Polisportiva

Azzurra di Villafranca

durante l’allenamento

Le partite possono

durare anche otto ore

Nella Federazione

Italiana Cricket

il 50% dei tesserati

è formato

da extracomunitari

Cricket, i gesti bianchidello sport meticcioMAURIZIO CROSETTI

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

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VILLAFRANCA

Quando passa l’aeroplano, iragazzi in campo smetto-no di parlarsi perché tantonon si capirebbe. L’unico

rumore sordo che resiste, dentro quel-lo gigante dei motori, è lo schiocco del-la palla contro la mazza da cricket.Schiocco contro rombo: davvero unabella gara sonora. E poi ci sono altrecreature volanti, oltre alle pance d’ac-ciaio degli aerei che vanno e vengonodall’aeroporto di Villafranca, propriodietro il campetto dove l’erba è un po’troppo alta: cioè moscerini bionici, in-quietanti, capaci di avvolgere comeuna nuvola nera il lanciatore o il batti-tore, che viceversa sono vestiti di chia-ro come impeccabili gentlemen inglesidi metà Ottocento, o come antichi ten-nisti dai gesti bianchi.Nero, bianco, verde, tonfi, rombi e risa-te. Veramente strano, però bello, ilmondo in cui si muove la più specialesquadra d’Italia: la Polisportiva Azzur-ra di Villafranca, la provincia è Verona,lo sport è il cricket, il paese è l’India.Perché i diciotto giocatori più l’allena-tore e il direttore tecnico sono tutti in-diani del Punjab. «Ma quest’anno pen-siamo di fare un po’ di propaganda nel-le scuole elementari e medie della pro-vincia, così potremo avere con noi an-che qualche italiano» racconta MadanBirha, il direttore tecnico. «Sa, è impor-tante anche per l’integrazione». Inten-dendo quella degli italiani.Con il cricket si sono ritrovati a casa, co-sì lontano da casa. Perché in India è co-me da noi il pallone, tutti i bambini cigiocano e non smettono più. Ma il viag-gio dal Punjab al Veneto delle villette aschiera dietro l’autostrada, non è pro-prio una passeggiata. E oggi, dopo ap-pena due anni di attività e un solo cam-pionato vero, i diciotto piccoli indiani sigiocheranno la finale nazionale di serieB a San Lazzaro di Savena, Bologna,contro la Mediroyal di Latina: loro tuttidell’India, quegli altri tutti dello SriLanka. La terza grande area etnica delcricket è il Pakistan. Alcuni sono già di-ventati italiani con cittadinanza e pas-saporto, e per i loro figli sarà inevitabile.«La nostra polisportiva si era sempreoccupata di baseball e softball» raccon-ta Silvio Ferrari, il presidente nonchéunico italiano della compagnia. «Ungiorno, incontrando dei ragazzinipakistani in una scuola, perché io sonoun ex insegnante di educazione fisica,si è parlato di cricket. Che, per inciso,conoscevo pochissimo. La chiacchie-rata è arrivata alle orecchie del nostroamico Madan Birha, che conoscevauno di questi ragazzini, così lui si è pre-sentato al campo e mi ha detto “buon-giorno, se volete giocare a cricket io so-no qui”. La curiosità ha fatto il resto. Lacuriosità e il telefono». Perché Madanha cominciato a chiamare tutti i suoiamici indiani della provincia, uniti dal-la passione per uno sport che rappre-senta la radice comune, il legame con lapropria terra e la voglia di giocare insie-me. Trovata la squadra, coinvolto losponsor, l’impresa Finotti che ha scrit-to il suo nome sulle immacolate divise,e preso atto dell’erba del campo. «Finoa qualche mese fa la tagliavano gli alpi-ni in congedo, grazie a un accordo co-munale. Ora siamo in un momento didifficoltà, la macchina per tagliare sei-mila metri quadrati di prato costa quin-dicimila euro e non ce la possiamo per-mettere, insomma bisogna trovare unasoluzione». Come per gli spogliatoi chenon è stato possibile finire, troppo altala spesa dopo i 160 milioni di vecchie li-re sborsati per il resto dell’impianto:dunque i ragazzi fanno la doccia a casae arrivano già cambiati, oppure si tol-gono i vestiti e indossano le loro casac-che direttamente qui, sotto la tettoia, in

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il viaggioGiallo d’epoca

Il 13 maggio 1935 l’avventuriero inglese sta tornandoa casa quando perde il controllo della sua amatamoto Brough. Finisce in coma e dopo sei giornimuore. Sin qui la versione ufficiale, dietro la qualesi nascondono però molte incognite e domandesenza risposta. Che siamo andati ad indagare

LEONARDO COEN

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dalla meccanica perché lo metteva al riparo da qualsiasi co-municazione con le donne.

Non essendoci donne nelle macchine, nessuna donnaavrebbe potuto comprendere la felicità assoluta di un mec-canico nel servire e disporre i suoi bulloni e tutti gli altri pez-zi. La velocità era virtù e peccato, per Lawrence. Disse: «Rap-presenta la natura umana, questo bisogno di andar semprepiù veloci». Invece, il giorno dell’incidente Lawrence anda-va piano: 38 miglia, meno di sessanta chilometri l’ora.

Come avvenne, allora, la maledetta sbandata, se non cor-reva e se conosceva a menadito il percorso? Il Memorial chesegnala il luogo dell’incidente si trova ai margini di unospiazzo-osservatorio sul poligono di tiro dei carristi e degliartiglieri di Camp Bobington. Quando arrivo assieme all’a-mico Christian Tyler, scrittore ed ex caporedattore del Fi-nancial Times, c’è una bimba che sta appoggiando dei fiorisu una lapide, appoggiata ad una quercia piantata nel 1983da Tom Beaumont, “primo mitragliere Vickers” nella cam-pagna di Palestina del 1917-18, uno che combatté con Law-rence. I genitori, compiaciuti, la fotografano. Lei scandiscelentamente le parole scalpellate sulla pietra: «Near this spotLawrence of Arabia crashed on his motorcycle and was fatal-ly injured». Vicino a questo punto Lawrence d’Arabia ebbeun incidente e rimase fatalmente ferito.

Era un lunedì mattina, quel 13 maggio del 1935. La stradi-na del West Dorset fiancheggiava, come fiancheggia ancora,le servitù militari di Camp Bovington, dove ha stanza il RoyalTank Corps e dove si esercita il Royal Fire Power Artillery.Non a caso i cartelli stradali mettono in guardia gli automo-bilisti distratti: «Attenzione: carri armati in addestramento»,con tanto di eloquente figurina. Allora non c’erano cartelli.Salvo quelli provvisoriamente piazzati sul terriccio che av-vertivano di piccoli lavori in corso a metà strada tra CouldsHill e Bovington. La strettoia dei lavori in corso dovette ral-lentare per forza Lawrence. Non avrebbe quindi dovuto sor-prenderlo più di tanto l’arrivo di due fattorini in bicicletta, incima al dossetto che precedeva il breve rettilineo di casa. Al-bert Hargreaves, garzone di macellaio. Frank Fletcher, con-segne a domicilio. Secondo la versione ufficiale, Lawrenceper evitarli sterza bruscamente e vola fuori strada.

Un testimone la raccontò diversamente, però. Il capora-le Ernest Catchcole del Royal Army Ordnance Corps, distanza a Bovington, stava passeggiando col cane sul prato afianco della strada. Vide una vettura scura puntare la motodi Lawrence. Uno strano sorpasso, mentre i due ciclisti sta-vano sopraggiungendo in direzione contraria, pedalandouno dietro l’altro. L’impressione è che l’auto e la moto sisfiorino. Si tocchino. Lawrence «ha sterzato di colpo, e haperso il controllo della moto. Sono accorso subito. L’ho tro-vato sulla strada. Il suo volto era coperto di sangue. Era in-cosciente». Transita un camion dell’esercito. Catchcole sisbraccia, lo ferma. Caricano Lawrence sotto il telone, nelcassone posteriore. Schizzano verso Camp Bovington. So-no le undici e trenta quando arrivano al The Wool MilitaryHospital di Bovington Camp.

Le strane mosse

Nemmeno il tempo di ricoverare mr. Shaw (alias Lawrenced’Arabia) che si presentano agenti della Special Branch dipolizia. Un paio sorvegliano il reparto di rianimazione edimpediscono a chiunque di avvicinarsi: uno sta accanto allettino, l’altro davanti alla porta. Quattro funzionari del-l’intelligence si occupano, con sollecitudine e riservatezzainconsueti, dei testimoni: al caporale intimano di nonmenzionare mai più la storia della vettura scura. Ai due ra-gazzi vietano di raccontare per tutto il resto della loro vita lemodalità dell’incidente. I due negheranno di aver mai vistoun’auto nera tra loro e Lawrence, contraddicendo la ver-sione del caporale. Costui, qualche anno dopo, si suicideràsparandosi un colpo di fucile.

Mentre i testimoni vengono intimiditi, altri uomini deiservizi si fiondano al cottage per impedire l’accesso agli

ps di Bovington: Thomas Edward Shaw, il nuovo nome. Di-venterà la sua identità legale nel 1927. Con la connivenza deiservizi segreti? È molto probabile: ma non abbiamo le prove.Stranamente, infatti, i dossier su Lawrence sono rimasti topsecret. I documenti attualmente accessibili riguardano lasua posizione militare, mai quella che occupò nell’intelli-gence (io ho consultato il Royal Air Force file AIR 1/2696, ri-ferimento 338171 Shaw, Thomas Edward “Secret” file, 2002).Winston Churchill lo volle come assistente personale al Co-lonial Office. Lawrence lo lasciò nell’agosto del 1922. E disseno all’offerta di diventare Viceré dell’India. Preferì riottene-re la modesta reintegrazione nella Raf come meccanico ae-ronavale. Che si realizzò nel 1925. Destinazione: la base diCranwell. Due anni dopo, missione a Karachi. È il gennaio del1927. Lavoro d’ufficio, a sbrigar la corrispondenza. Il tempolibero lo occupa traducendo l’Odissea per Bruce Rogers, uneditore-designer americano. Una “copertura” quasi perfet-ta. Che crolla quando lo trasferiscono a Miranshad (alla fron-tiera con l’Afghanistan) nel maggio del 1928. Poco doposcoppia la guerra civile in Afghanistan. Bastò ai giornali perassociarvi Lawrence d’Arabia, “l’istigatore”: tedeschi e so-vietici accusarono la Gran Bretagna di fomentare rivolte tra-mite Lawrence, per destabilizzare il Medio Oriente. Forsenon avevano torto. Fatto sta che Lawrence venne rocambo-lescamente rimpatriato nel gennaio del 1929.

Stavolta gli toccò la base aeronavale di Plymouth. Unabrutta avventura con un idrovolante lo stimola ad occu-parsi di un nuovo problema: il salvataggio in mare. In veritàcontribuisce in modo decisivo allo sviluppo di motovedet-te rapide (utili per azioni di commando più che di salvatag-gio) e diventa controllore dei cantieri navali di Felixstowe eHythe. Il primo marzo del 1935 è messo in congedo, dopododici anni di onorato servizio contraddistinto da costantie positive valutazioni caratteriali “V.G.” (very good) e di al-trettanto encomiabili giudizi “EX” (eccellente) per le suequalità tecniche. Tra le quali, appunto, l’indiscussa abilitàdi guida motociclistica.

Lawrence è un patito della velocità e delle moto. Pretendeil meglio. Il meglio si chiama Brough. Le assemblano a Not-tingham. Sono moto costruite a mano, su misura del clien-te: quella targata GW 2275 è la settima che possiede, la se-sta modello SS 100. La prima l’ha avuta nel 1922. Le chiamatutte con lo stesso nome e le numera, come si usa fare coisovrani: George VII sta per cedere il sellino alla prossimaGeorge VIII. Lawrence aspetta da un giorno all’altro la chia-mata di George Brough, l’artigiano costruttore. Erano le sueBoa (da Boanerger, i figli del tuono). A Robert Graves, poe-ta che gli fu sempre affezionato, disse che era affascinato

L’ultimo mistero di LawrenceCLOUDS HILL

«Èsparito in fondo a quel rettilineo», indicaMichael Chapman, che abita davanti al cot-tage di Lawrence d’Arabia, in localitàClouds Hill (ora monumento nazionale),

non lontano da Wareham (West Dorset): «Non più di tre-quattrocento yards». Ancora venti secondi e sarebbe ritor-nato a casa, sano e salvo come tutti i giorni, avrebbe varca-to il cancelletto e avrebbe dato un’occhiata affettuosa almotto in greco classico sul timpano di pietra della portad’ingresso: «Non preoccuparti», citazione rubata ad Ero-doto. «Si era recato all’ufficio postale di Bovington per spe-dire un telegramma al suo ultimo amico, lo scrittore HenryWilliamson», spiega Chapman. Col romanziere Lawrencecondivideva la passione della motocicletta e quella per levirtù austere del corpo e dello spirito. Qualcuno temeva dipeggio: che spartisse anche le pericolose opinioni fasciste.«Pranzo martedì West Fine Cottage 1 miglio Nord Boving-ton Camp», fu l’essenziale messaggio di Lawrence, per con-fermare l’appuntamento del giorno dopo con l’amico.«Una semplice consulenza. Stava tornando ed era di buonumore», precisa Chapman. Lo dice come fosse successo og-gi, invece che settant’anni fa: «Era una bella e luminosamattinata di primavera, la strada non era asfaltata e non eracosì larga né così trafficata: sono stati i prigionieri italianidella Seconda guerra mondiale a raddrizzarla e a raddop-piarne la carreggiata. Hanno fatto un buon lavoro».

Uno dei loro muretti costeggia la proprietà di Mr. Chap-man. Il quale porta gagliardamente i suoi 75 anni. Ha vissu-to un’esistenza rocambolesca in giro per l’Asia, roba da 007(negli anni Cinquanta fu incaricato di proteggere e salvare ilDalai Lama). Poi, chissà come, è approdato a Clouds Hill eper una dozzina d’anni è stato il custode del cottage di Law-rence. Ora vende libri e memorabilia: comprese le preziosis-sime puntine del fonografo “Expert” made E. M. Ginn di SohoSquare, London, il migliore di quei tempi, che Lawrence ac-quistò per ascoltare gli amati Beethoven, Mozart e Bach. «Lasua Brough Superior SS100 targata GW 2275 era la migliormoto in circolazione, la Rolls Royce delle due ruote. E Law-rence, un pilota di straordinaria abilità, oltre che un compe-tente meccanico. Trattava la sua moto con meticolosa peri-zia. La Brough era sempre in perfette condizioni». Eppure,quel 13 maggio del 1935, Lawrence non seppe controllare latenuta di strada della superba Brough, lui che la pilotavaspesso al limite e che la portava sino a cento miglia orarie intracciati assai più insidiosi e traditori. Sbandò per evitare dueciclisti, finì fuori strada, sbatté la testa e rimase in coma. Il 19maggio si spense. Aveva 46 anni.

L’inchiesta frettolosa

Questo racconta la versione ufficiale: un’inchiesta frettolo-samente conclusa due giorni dopo il decesso in meno di dueore seppellisce ogni mistero con la banale formula di «mor-te per incidente». Trecento yards ed eccoci al “MemorialOak Tree at Crash Incident”. In Gran Bretagna non c’è bi-sogno di aggiungere altro per capire che ti riferisci al postodove si schiantò l’ultima grande leggenda dell’Impero Bri-tannico. A due passi da Bovington Camp, base militare del-l’esercito. Un luogo qualsiasi della campagna inglese, nonparticolarmente bello, tantomeno romantico. Semmai,anonimo come pretendeva d’essere Lawrence d’Arabia.Sosteneva, l’autore de I sette pilastri della saggezza, di nonsopportare il peso della sua popolarità e cercò di sfuggirla.In modo ambiguo: cambiando identità due volte. La prima,arruolandosi come aviere semplice nella Raf (col nome diJohn Hume Ross) al Royal Aircraft Establishment di Farn-borough. Scoperto dai giornali, dovette mollar tutto all’ini-zio del 1923 in seguito allo scandalo.

Nel marzo dello stesso anno ci riprovò col Royal Tank Cor-

La velocità era molto ridottae un testimone parla di un’autonera che lo avrebbe sfiorato,ma gli uomini dei servizigli impongono il silenzioL’ombra dei rapportidell’ex agente segretocon il circolo dei nazisti inglesi

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

estranei e per setacciare l’austero alloggio di Lawrence. Por-tano via casse di documenti, libri, persino oggetti. Come sevolessero cancellare tracce compromettenti. Di quale atti-vità? Pochi minuti dopo l’incidente — altra curiosa coinci-denza — il ministero dell’Aviazione (ufficio D) piglia in ca-rico la faccenda e fa sapere alla stampa che non c’erano sta-ti testimoni nell’incidente di Clouds Hill. Il War Office gesti-sce la vicenda a livello politico. È la vedova del romanziereThomas Hardy a riconoscere Lawrence. Lo stesso fanno ilpittore Johns, Churchill e Charlotte Shaw, la moglie delgrande commediografo George Bernard Shaw. Due medicipersonali della Corona inglese assistono l’agonia di Law-rence: il maggior generale West, chirurgo del re e sir Far-quhar Buzzard, internista del re.

Nei sei giorni in cui Lawrence rimane in coma, i titoli deiquotidiani progressivamente preparano l’opinione pub-blica all’inevitabile. «Lawrence coinvolto in un incidente».«Lawrence d’Arabia incosciente». «Lawrence resiste, ma lasperanza è debole». «Il colonnello Lawrence si batte per so-pravvivere». Sino al fatidico annuncio: «Lawrence è morto.La Gran Bretagna onora l’eroe d’Arabia». Lawrence morì il19 maggio pochi minuti dopo le otto del mattino, senza mairiprendere conoscenza. Due giorni dopo l’affare venne ar-chiviato. I solenni funerali si svolsero a Londra, nella catte-drale di San Paolo: c’era tutta l’Inghilterra che contava. ReGiorgio V scrisse a Arnold Lawrence: «Il re ha appreso conprofondo rammarico la morte di vostro fratello, e vi testi-monia, a voi e alla vostra famiglia, tutta la simpatia per que-sta perdita crudele».

Un personaggio scomodo

Una perdita o un’eliminazione? Lawrence era diventatoun personaggio ingombrante, negli ultimi tempi era asse-diato dai giornalisti che volevano chiedergli essenzial-mente la conferma di due indiscrezioni: «È vero che avreb-be incontrato Hitler?». «È vero che si sta preparando a di-ventare il futuro dittatore della Gran Bretagna?». Preoccu-pavano certe apparenti derive politiche: l’amicizia conWilliamson, noto esponente del partito fascista britanni-co fondato da sir Oswald Mosley, aperto sostenitore di Hi-tler. E una sorta di progetto politico condiviso da altri suoiamici, come Lord e lady Astor (il famoso “Cliveden set”),come Geoffrey Dawson, direttore del Times, come LionelCurtis (fondatore del Royal Institute of International Af-fairs col quale intendeva fare per la politica mondiale ciòche la Royal Society aveva realizzato per le scienze): ap-poggiare un grande blocco europeo in funzione antiso-vietica. Diceva Curtis che lo scopo della discussione non

poteva essere che la decisione e l’azione.Chi meglio di Lawrence per impersonare ciò? Ma forse

Lawrence era stato “infiltrato” in questa accolita per con-trollarla e riferire. In ogni caso, con premura sospetta, la mo-to incidentata fu spedita alla Brough per essere immediata-mente aggiustata e rivenduta. Otto anni fa fu messa all’asta,senza successo, per 3,3 milioni di sterline. Troppi, anche peril mistero più oscuro della storia d’Inghilterra dopo quello diJack lo Squartatore.

ARCHEOLOGO E SPIA

Archeologo, agente segreto al servizio di Sua Maestà, paladino

del nazionalismo arabo, Thomas Edward Lawrence nasce in Galles

il giorno di Ferragosto del 1888. Inviato al Cairo durante la Prima guerra

mondiale, entra nella leggenda per aver partecipato alla rivolta

delle tribù arabe contro i turchi tra il 1916 e il 1918, che racconta

nel libro di memorie I sette pilastri della saggezza. Deluso dalle decisioni

prese dalla Conferenza di pace di Parigi riguardo al mondo arabo,

torna in Inghilterra dove cambia più volte nome. Muore il 19 maggio

del ’35 in seguito a un ancora poco chiaro incidente motociclistico

L’AVVENTURIEROLawrence su un cammello

La sua doppia vita

di archeologo e 007

e la morte misteriosa

hanno alimentato un mito

ormai entrato nella leggenda

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

EMANUELA AUDISIO

le storieNuove strade

Hanno facce allegre, soddisfatte e fiere: sonole “centaure” che hanno scelto e scelgono le due ruoteper spostarsi e per cercare l’avventura. Come AnnyNinchi Cacciaguerra che nel ’53 andò dall’Italia all’Indiaa bordo di una Lambretta. O come la texana Della Creweche con la sua Harley Davidson attraversò gli Stati Uniti

I diari delle donne in motocicletta

ra. Ai fratelli Michele e Eugenio Werner,russi emigrati a Parigi, si deve, oltre allarealizzazione di modelli di grande suc-cesso, l’invenzione del nome motocy-clette. Le cronache citano tra le prime eentusiaste motocicliste mademoiselleRenée Divonne, quarta alla Parigi-Nizzadel 1898 su uno schieramento di undiciconcorrenti maschi; e mademoiselle Jo-livete settima, in sella ad una Pécourt da-vanti ad una folta compagine maschilein una famosa riunione in pista all’ippo-dromo di Deauville nel 1902. In Inghil-

terra nel 1901 è scan-dalo per l’avventuro-so viaggio, da Coven-try a Londra, di miss F.H. De Veulle in sella aduna Coventry Motet-te. Per la sua coraggio-sa prestazione avrà inpremio da Harry Law-son, fondatore del Bri-tish Motor Syndacate,un anello con brillan-ti. Due anni dopo lesorelle Gibbs con il lo-ro triciclo Singer com-piono un raid di oltre1600 chilometri.

Ma la più celebre èmiss Muriel Hind chenel 1902, a 21 anni, ac-quista una Singer conil motore nella ruotaposteriore. Nel 1905

ottiene l’iscrizione al Motor Racing Clube la licenza di corridore. L’anno seguen-te vince la sua prima gara ad Edimburgo.Nel 1910 prende parte, in sella ad una Rexbicilindrica a V, realizzata su suo proget-to e denominata, naturalmente, BlueDevil, a gare di trial, in salita, e con Bea-trice Langston e Mabel Hardee alla SeiGiorni Scozzese. Nel 1912 si sposa con ilpilota Reginald Lord e si ritira dalle gare.Muriel sarà anche la prima giornalistadonna del settore. Nel 1910, inizia a col-laborare con la rivista Motor Cycling, cu-rando la rubrica “The Lady Motorcicly-st”, nel 1931 viene addirittura elettamembro a vita della “Association of Pio-neer Motor Cyclists”.

Si sa, la libertà è contagiosa. E così l’in-glese Marjorie Cottle è “miss Nuvolari”non solo per la somiglianza con il grandepilota mantovano, ma anche per le suecapacità. Gareggia con Edith Foley e

Louie McLean. Nel 1926 partecipano al-la Sei Giorni Internazionale portando atermine la gara senza penalità, conqui-stando la medaglia d’oro e l’anno se-guente il vaso d’argento. Theresa Walla-ch nel 1935, a diciassette anni, parte in si-decar con una amica con l’intenzione diraggiungere Città del Capo. Saranno leprime ad attraversare il deserto del Saha-ra, a trovare in un altro modo le parole

per dirlo. In Germania si distingueHanni Kohler: nel 1928 partecipa ad

una gara di resistenza di circa 3.400chilometri, nel 1931 in sella alla

Bmw, è protagonista di un avven-turoso raid in India.

Oltreoceano, all’inizio delNovecento è una ragazza del

Minnesota a far parlare di sé.La quindicenne Clara Wa-

gner, bellissima figlia diGeorge, costruttore

delle motocicletteWagner, nel 1907 rice-ve la tessera della Fe-deration of AmericanMotorcyclists. Tre an-ni dopo prende partealla gara di resistenzada Chicago a Indiana-polis. Il regolamentonon permette alle donnedi partecipare, ma Clarariesce a convincere gli or-ganizzatori a farla gareg-giare in forma privata.Quando gli uomini nonsono mascalzoni. In sellaad una monocilindrica difamiglia arriva al traguar-do senza penalità e gli al-

tri concorrenti si tassanoper offrirle una medaglia

d’oro. Buffa la storia di Del-la Crewe di Waco (Texas),

che nel 1915 decide di attraver-sare gli Usa, con la propria Harley-

Davidson, in compagnia del suo cagno-lino Trouble.

E in Italia? Diventa famosa la ferrareseVittorina Sambri, la prima donna cam-pione di motociclismo italiana. Dal lu-glio del 1913 alla metà degli anni Venti èuna delle più attive partecipanti al cam-pionato su pista, suscitando la curiositàdel pubblico per il suo viso da giovanet-to, il taglio dei capelli e il modo di vestire,tanto che molti fanno delle illazioni sulsuo sesso: Vittorina o Vittorio?

Oggi le ragazze cavalcano le moto percomodità e convenienza. Lontane da chiil 2 ottobre 1905, pubblicò un trafilettosul quotidiano Penrith Guardian, in ri-sposta ad una inserzione di lavoro: «So-no una zitella di 46 anni ed ho un orroreprofondo per gli uomini pur essendoconsiderata belloccia. Desidero soloavere ogni settimana mezza giornata dilibertà per dedicarmi alla mia motoci-cletta». Mezza giornata, solo.

za». Un vero viaggio: Salonnico, Istan-bul, Ankara, Beirut, Damasco, Bagdad,Teheran, Bam, Quetta, Lahore, NuovaDelhi. Tre mesi di polvere e di avventura,l’arrivo a metà novembre, il ritorno inItalia, «io però in aereo», e anche l’amo-re tra i due perché certe affinità elettive inmoto scoppiano meglio. La loro primafiglia si chiamerà Ambretta. «Ricordo unbagno turco in Iran. Entrai e le donne gri-darono di paura. Loro erano in carne, iomolto magra e bianca. Mi presero per unragazzo e mi cacciarono».

Le donne e la moto, storia di marce chegrattano, ma ingranano. Paolo Prosperi,presidente del Registro Storico Benelli,ha curato con passione a Pesaro nelle of-ficine Benelli una mostra che esponemoto, oggetti, foto, ri-cordi. La prima gara dicui si ha notizia risaleal 15 giugno 1897. ALongchamp, vicinoParigi, quel giornoc’era il pubblico dellegrandi occasioni: sfi-da tra undici motoci-cliste. Dopo una par-tenza laboriosa, quat-tro delle concorrenti,infatti, rimasero al pa-lo, il successo andò amademoiselle Lea Le-moine. Il primo veico-lo a due ruote con il te-laio aperto è quellocostruito dal franceseFelix Millet nel 1893,la tedesca Hildebrande Wolfmuller del 1894è la prima motociclet-ta prodotta in serie.

Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio delNovecento si fanno parecchi tentativiper rendere popolari le motociclette perle donne, con telaio aperto e motore si-stemato in modo da non imbrattare lagonna della guidatrice. In Italia la torine-se Rosselli è la prima a costruire motoci-clette, avendo presentato nel 1903 unabicicletta a motore con trasmissione acinghia. Sono diciannove le case italianeche hanno in listino, sino alla fine deglianni Trenta, modelli per signore. Per lenobildonne, ma soprattutto per chi haesigenze di lavoro e deve muoversi infretta, anche nelle campagne. Ostetri-che, insegnanti, all’estero anche vigilidel fuoco donne. La pubblicità racco-manda: «Per signore ed ecclesiasti». Perchi porta la gonna, insomma. Come lagente di chiesa.

La velocità è di trenta chilometri all’o-

PESARO

Vedi le facce, e capisci: l’al-legria, la soddisfazione, lafierezza. Non quella do-lente di Virginia Woolf.

Leggi i nomi: madame, mademoiselle,miss, mrs. Guardi cosa cavalcavano: fer-ri in movimento, piccola velocità di ac-ciaio, motore a quattro tempi, e apprez-zi la voglia di andare. Sarà costata mal direni, di schiena, di braccia, e pessima re-putazione se ancor oggi le cicliste piùvecchie d’Inghilterra (Rosslyn LadiesCycling Club) vengono accusate in un li-bro di essere tutte «sessualmente devia-te». Si capisce, la libertà di muoversi efuggire nasconde torbide pieghe di pia-cere. Le vedi: piegarsi in curva, driz-zarsi davanti alla vita, attraversa-te dal vento. Ma sempre conl’aria di chi non rimpiange la le-zione di cucito o di piano.

Ascolti Anny Ninchi Caccia-guerra, ottant’anni oggi, raccon-tare di ieri, di quando nel ‘53 partìda Pesaro per Nuova Delhi, in In-dia. On the road, su due ruote.«Mi annoiavo, cercavo qualco-sa che potesse cambiare la miavita, non sapevo guidare, mi fe-cero un corso accelerato, parti-vo di corsa, da pilota dicevano.In Siria ebbi un incidente,avevo bisogno di aiuto, sifermò un’auto: siete in-glese, chiesero? No, ri-sposi, e quelli se ne an-darono». Già, roba dainglesi. Da circolo diBloomsbury in ver-sione sportiva, daLawrence d’Arabia,da Chatwin. Attraver-sare il mondo su unaLambretta modello E,messa in moto a strappo, permezzo di una maniglia e un cavo, comenei motori marini. Anny veniva da unafamiglia di attori, sua cugina era AveNinchi, lei stessa faceva l’annunciatricein tv, ma si annoiava appunto. Quandoincontrò il conte Franco Cacciaguerra,in tuta da meccanico color celeste, glichiese il perché di quel bizzarro abbi-gliamento. «Tra alcune settimane andròin India in Lambretta», rispose lui. E leisubito: «Vengo con te».

La Innocenti ogni anno indiceva unconcorso a premio riservato a quei clien-ti che avessero percorso oltre diecimilachilometri di un itinerario prestabilito.Già l’anno prima Cacciaguerra avevapartecipato al raid Parigi-Tibet senzafortuna, avendo dovuto abbandonate ametà strada. Solo che Anny non era maisalita su una moto e così al romano Lui-gi Ciai, pilota anche della Benelli, spettòl’arduo compito di un corso di guida in-tensivo. «Fu un angelo, pieno di pazien-

Mi annoiavo,cercavo qualcosa

che potessecambiare la miavita, non sapevo

guidare e mifecero un corso

accelerato

LA MOSTRA“Il ruolo della donna

nelle due ruote”.

È il tema della mostra

in programma fino

al 30 settembre

presso le officine

Benelli di Pesaro

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MENFIFondata da Re Narmer, nel II millennio

a.C. era la città più grande del mondo

ATENENel V sec. a.C, l’era di Pericle, divenne

la capitale culturale del Mediterraneo

CARTAGINECittà fenicia, nel V sec. a.C. fu il centro

di un enorme impero commerciale

ALESSANDRIAFino al III secolo d.C. fu l’erede di Atene

nel ruolo di guida culturale del mondo

LE CAPITALI

i luoghiMare antico

Prima ancora di un modo di vivere è un modo di essere,sulle sue sponde anche il tempo ha una durata diversa,vaga: qui tutto si mescola in una quotidianità quasiletteraria. E forse solo attraverso le parole degli scrittorie dei poeti potrà tornare a farsi sentire con una voce fortein grado di parlare al mondo

Il suo azzurro è talmenteluminoso che le acque siconfondono con i riflessi

dei raggi della luna piena

Il Mediterraneo è una perla. Come le pietre prezio-se, è sorto dalle viscere della Storia, attraversandomolte prove e difficoltà. È un’area geografica, cer-to, e una parte importante della storia dell’uma-nità: un mare con le sue sponde, con diversi paesie popolazioni; e una serie di stereotipi, usati a pro-

prio vantaggio dall’industria turistica. Ed è anche un co-modo gadget per organizzare colloqui, che consentonoai promotori di giustificare le sovvenzioni di cui fruisco-no. Ciò che si dice in quei convegni — ovviamente nonsempre, ma in alcuni casi — se ne va via col vento, tratte-nendo al massimo l’attenzione di pochi isolati, o appas-sionati della realtà mediterranea. È ormai un filone, unabuona ricetta per parlare senza dir nulla, o magari per

proclamare frasi generiche del tipo «ilMediterraneo lago di pace», pur sapen-do benissimo che pochi altri luoghihanno visto esplodere tante guerre ci-vili e conflitti tra stati. Ma questo lagoche non è un lago, per quanto calmepossano essere le sue acque, è un enig-ma, un mistero che affascina e intriga.

Il Mediterraneo, prima ancora cheun modo di vivere, è un modo di esse-re. Per comprendere bene quest’affer-mazione basta immaginare un asiaticoo un nordico condannati a lavorare aNapoli o a Beirut: troverebbero diffici-le, se non impossibile, assimilare l’im-maginario dei mediterranei, e soprat-tutto la loro concezione del tempo, il lo-ro modo di consumarlo. Qui il concet-to della durata, così preciso e sempremisurato altrove, è vago, estensibile, ea volte anche poetico, nel senso che i

punti di riferimento dell’essere si perdono o si confon-dono, mescolando le necessità tecniche e amministrati-ve con l’affettività, gli interessi familiari, le pulsioni irra-zionali ecc. È una questione di grammatica e di sintassi,che nel Mediterraneo non sono come altrove. Si può par-lare la stessa lingua, farsi capire passando per l’inglese olo spagnolo, ma il modo di fare e di comportarsi, i gesti, isimboli cui ci si richiama sfuggono inevitabilmente allastruttura della lingua propriamente detta.

* * *Nel mondo arabo, il Mediterraneo è chiamato «il ma-

re bianco di mezzo». Di fatto non è bianco, né sta nel mez-zo. Al limite, lo si può collocare al centro della carta delmondo: tutto dipende dal luogo in cui si sta, da dove lo siguarda. Bianco, perché il suo azzurro è talmente lumi-noso da confondersi con la luce lunare, quando la luna èpiena. Il mondo arabo non si è fatto una fama di tradi-zioni marittime, benché i suoi scambi commerciali sia-no sempre passati per il Mediterraneo. Oggi però i leaderpolitici lo citano di rado. Forse perché appartengono al-

la sua area più povera e sovrappopolata, che più segna ladifferenza rispetto alle nazioni del Nord. Un’area checerto avrebbe voluto poter godere delle stesse ricchezzedei dirimpettai dell’altra sponda.

Il dramma è che il Mediterraneo è multiplo e squili-brato, sia sul piano economico che su quello demografi-co. La sua area settentrionale è ricca, ma scarsamentepopolata; e ha bisogno della manodopera dell’altrasponda, meno sviluppata ma sovraffollata di gente chesogna di emigrare, lasciandosi alle spalle la povertà in cuivegeta da molti lustri. Questa disuguaglianza è anorma-le. Si contava sull’Europa perché ristabilisse l’equilibrio,facendo del Mediterraneo un’entità armonica, forte,bella e di sangue misto. Ma l’Europa ha preferito rivol-gersi ad Est, e ha integrato vari paesi di quell’area consconcertante rapidità. Ha dimenticato il Sud, gli ha vol-tato le spalle. Ma il Sud continua a guardare all’Ue, ad os-servarla. E se non è l’Europa a venire al Sud, è la sua gen-te ad andare, per vie legali o clandestine, verso quell’Eu-ropa che l’ha trascurata.

I ministri dell’interno del G5, che comprende tre pae-si mediterranei, si sono riuniti a Evian, nell’Alta Savoia,per mettere in comune le loro infrastrutture e concorda-re i voli organizzati per espellere gli immigrati clandesti-ni, raggruppati a seconda dei paesi di provenienza. Co-me ha detto il ministro francese Nicolas Sarkozy, si trat-ta di «coordinare i nostri sforzi finanziari e politici» (LeMonde, 5 luglio 2005). Inoltre, per meglio sottolineare illegame di quell’Europa del Nord con gli stati dell’Est,Sarkozy ha proposto di trasformare il G5 in G6, inseren-do nel gruppo anche la Polonia.

La migrazione rimane una costante del Mediterraneopovero. Un tempo erano i portoghesi, gli spagnoli e gliitaliani a lasciare il proprio paese per cercare lavoro sul-l’altra sponda; mentre oggi questi stessi paesi — e so-prattutto i due ultimi — sono divenuti terre d’immigra-zione. Nel 2004 si contavano in Spagna 375.767 immi-grati marocchini regolari, di cui 128.686 nella sola Cata-logna. Dal 1996 la popolazione straniera si è triplicata.Con la regolarizzazione di varie centinaia di migliaia diimmigrati privi di documenti, la Spagna e l’Italia hannovoluto risanare una situazione in cui il lavoro nero face-va comodo a molti imprenditori, ma insidiava lo statutodei lavoratori e defraudava lo Stato dei contributi nonversati per questi lavoratori clandestini, inesistenti sulpiano legale. Un gesto che è stato criticato dalla Francia,e usato persino come argomento per incitare al voto con-tro il progetto di Costituzione europea. Uno dei leader didestra di questa campagna è arrivato a dire che presto «imarocchini e gli albanesi regolarizzati verranno da noi,a creare disoccupazione nella nostra società».

* * *Il Mediterraneo è tutte queste cose: variegato e ugua-

le a se stesso, complesso e irrazionale, seducente e con-traddittorio. Ma come farne un’entità unita e forte, unasorta di blocco ove le ricchezze siano distribuite conequilibrio e giustizia, la demografia si sviluppi in manie-

TAHAR BEN JELLOUN

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

Mediterraneola poesiadel lago di luce

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ROMAPer sei secoli, fino al 476 d.C., fu

la capitale politica del Mediterraneo

COSTANTINOPOLILa nuova Roma sopravvive mille anni

alla prima: nel 1452 diventa Istanbul

GRANADANel XII secolo, è la perla luminosa

(e islamica) del medioevo europeo

VENEZIANata sulle isole per sfuggire ai barbari,

fino al 1700 è la regina del Mediterraneo

LE CAPITALIIL CENTRO DEL MONDOIn queste pagine, antiche

cartine geografiche

Nonostante le evidenti

inesattezze, la costa

mediterranea è delineata

con sorprendente

precisione

Sono stati i grandiviaggiatori come MarcoPolo a portare in giro lospirito di questi Paesi

intitolata Figli del sole:

«La luce, bella luce del sole,Crudele messaggio dell’impossibile,Annuncio dorato di un fuoco sottratto all’uomo,Ci invia la sua folgorante promessa strappataSempre e per sempre in cielo, serenamente statico(Sombras del paraiso; 1939-1943).

Nel settembre 1941, l’altro premio Nobel della lettera-tura, il greco Georges Seferis, descriveva con parole sem-plici la quotidiana bellezza di questo Mediterraneo:

«Il mare ti appartiene e il ventoCon un astro sospeso al firmamento.Signore, essi non sanno che noiSiamo solo ciò che possiamoCurando le nostre piaghe con erbeRaccolte sui verdi pendii,Non laggiù ma qui, molto vicino.Respiriamo come possiamo,Con la timida preghiera d’ogni mat-

tinoChe si fa strada verso la riva Lungo le faglie della memoriaSignore, non con loro. Sia fatta altri-

menti la tua volontà».

* * *Come già disse il poeta francese René

Char, «gli uccelli non hanno cuore dicantare in un cespuglio di domande». Ilbacino mediterraneo, e più precisa-mente la sua parte più povera, il Sud, so-miglia a una foresta di interrogativi, diproblemi, di destini contrastati. I poetisono i migliori analisti di una situazionestrutturale. Vedono lontano e in profondità. Perciò biso-gna consultarli — cioè leggerli in via prioritaria, se si vuo-le che questa parte del mondo possa divenire un luogo incui far vivere e cantare i valori dell’umanesimo. Sarebbedifficile chiedere al cancelliere tedesco, al presidente delconsiglio italiano o al premier britannico di tener contodella voce dei poeti. Ma già Platone, e in seguito ancheNietsche, molto prima di quest’epoca moderna così vio-lenta e manichea, avevano detto quanto i politici hannobisogno della filosofia e della poesia. Viviamo in un mon-do bipolare, dove per il momento domina l’asse anglo-sassone; e il mondo asiatico sta avanzando. L’uno e l’al-tro hanno in comune una cosa: del Mediterraneo nonsanno neppure dove si trovi. Per alcuni è un club di va-canze, per altri un supermercato che vende prodotti col-tivati a migliaia di chilometri di distanza.

Ragione di più perché i mediterranei prendano co-scienza dell’eccezione culturale che rappresentano, del-l’opportunità di essere diversi, del loro interesse a raffor-zare i reciproci legami politici, economici e culturali.

(Traduzione di Elisabetta Horvat)

ra armonica e la violenza sia messa al bando?L’Europa avrebbe potuto fare la scelta di orientarsi

verso il Mediterraneo, tenendo in giusta considerazionel’importanza di questa sua componente, con le sue de-bolezze e i suoi punti di forza. Ma l’Ue è ancora incom-pleta, e sta attraversando una seria crisi. Potrebbe darsiche il no al progetto di costituzione — un rifiuto moltoambiguo — rappresenti un’opportunità per il Mediter-raneo. Ma per renderla realizzabile occorrerebbe con-vertire alla “religione” mediterranea paesi quali la Ger-mania, l’Olanda, il Belgio, la stessa Gran Bretagna. È que-sto il vero problema: un problema che non è né politiconé economico, ma culturale. La cultura mediterranea ècresciuta attraverso incontri, scambi, passioni, commi-stioni di razze, duttilità, ma anche forti ambizioni. Agliarabi si deve la traduzione di Aristotele in arabo e in lati-no. E sono stati viaggiatori arabi come Ibn Batouta, o ita-liani come Marco Polo, a portare nel mondo lo spirito diquesto Mediterraneo. I viaggi, i commerci, le vicende diguerra e pace, i ritrovamenti e i matrimoni, le successivesimbiosi culturali, nella musica come nella pittura o nel-l’arte culinaria: ecco ciò che più fedelmente definisce ilMediterraneo di oggi e di ieri.

* * *Saranno forse la letteratura e la poesia a unificare il Me-

diterraneo, dandogli una voce in grado di arrivare lonta-no e di parlare al mondo. È con la cultura e con la poesiache il Mediterraneo resisterà — poiché si tratta di resiste-re a una globalizzazione che sacrifica il Sud. Non possia-mo contare sui politici, più preoccupati della propria car-riera che del futuro del Mediterraneo. La resistenza, la fan-no i visionari, coloro che portano nel cuore questa lucemediterranea e la celebrano, la cantano al di là del tempoe delle contingenze. I poeti ci parlano di giardini che nonhanno più un paese ove fiorire, e ci rammentano «i fruttinella poesia e nel mare». Sono parole di un poeta libanesefrancofono, Georges Schéhadé, che ci dice ancora:

«Quando avremo Spiagge dolci da toccare con lo sguardoE una vita ove l’ombra si scosta dalla luceVerrà il riposo con i suoi tesoriTu ed io sulla Terra delle spiaggeO amore mio che i viaggi Al sonno stai domandando».

E come per rispondergli, il poeta greco Yannis Ritsosscrive, nel marzo 1972:

«Il nudo sentiero, il sole, i ramoscelli secchi, le pietre. Raggiunta infine la sorgente, al meriggio,Davanti al fragore e all’abbondanza dell’acqua,Comprendiamo quanto la nostra seteSia poca cosa».

L’andaluso Vicente Aleixandre evoca il sole, che è l’al-tra faccia enigmatica e immobile del mare, in una poesia

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

I LIBRI

HENRI PIRENNE

In Maometto e CarlomagnoLaterza, le origini

dell’Europa

vengono ricondotte

alla rottura,

ad opera dell’Islam,

dell’unità politica

del Mediterraneo

PEDRAG MATVEJEVIC

Il Mediterraneo e l’Europa, edizioni

Garzanti, esplora

il rapporto che lega

il Mediterraneo

e l’Europa, senza

trascurare la sponda

meno sviluppata

del nostro mare

FERNAND BRAUDEL

Civiltà e imperi del Mediterraneonell’età di Filippo II,Edizioni Einaudi

Allo schema classico

della crisi dopo

il 1492 contrappone

un Mediterraneo vivo

per tutto il XVI sec.

FOLCO QUILICI

Il mio Mediterraneo,

Edizioni Mondadori,

è un viaggio

nell’archeologia,

nelle tradizioni

e nella natura dei

popoli che abitano

le sponde del mare

più antico del mondo

JEAN-CLAUDE IZZO

Marinai perduti,Edizioni E/O, la storia

di tre Ulisse di oggi

bloccati a Marsiglia,

in balia di un

Mediterraneo

che dietro l’apparenza

solare nasconde

un destino tragico

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Fascista più per interesse che per vocazione, esploratore,studioso orientalista, scrittore, ma soprattutto un uomod’azioneamante dell’imprevisto e delle imprese rischiose.

Affrontate per trovare alleati nella lotta contro il razionalismodei suoi contemporanei occidentali. Una personalità complessae affascinante, che ora torna d’attualità con un nuovo libro

Ai piedi del Potala, nel tardoautunno di due anni fa,socchiudo gli occhi e lascioalla fantasia il compito diricostruire Lhasa cosi co-me era nel 1948, quando

Giuseppe Tucci vi mise piede per l’ultimavolta. Ho appena letto la sua descrizione,ed anche di altri, in particolare quella me-no aristocratica e più passionale diAlexandra David - Néel della stessa epoca.La città, cresciuta senza un piano, presta-bilito, è popolata da gente di tutte le razzee vestite in tutte le fogge. È una tavolozzadi colori sui quali prevalgono il rosso e ilgiallo. Sulle piazze e le strade scorre un fiu-me umano in piena: pellegrini, mercanti,mendicanti, asceti si confondono con uo-mini e donne del posto; si muovono comeun gregge senza pastore, in direzione dipagode cariche d’oro e gremite di statue,tra i cumuli di rifiuti e le fosse che servonoda latrine, esposte a tutte le curiosità e atutte le intemperie. La luce nobilita anchegli angoli più luridi. La luce del Tibet non èparagonabile a nessuna altra. L’azzurrointenso del cielo e il bianco antico dellemontagne innevate si contendono il cri-stallo dello spazio. Il sole accende i colorisenza attenuare il gelo, che quasi non sisente tanto è asciutto. Con la sua molemassiccia, il Potala protegge la città e do-mina l’intera valle tagliata dal corso delChiciu e serrata a nord e a sud da monta-gne nude, quando non sono coperte di ne-ve. Là, oltre la città, si stende un paese si-lenzioso e strano; geloso dei suoi segreti;apollaiato sul tetto della Terra, l’altare delmondo, a un’altitudine che può ucciderechi vi sale partendo dal livello del mare; al-lungato su steppe sterminate, costellate dilaghi la cui acque gelate sono di un blu piùintenso di quello del cielo.

Quando riapro gli occhi, per alcuni mi-nuti tengo alto lo sguardo, lascio che siperda nello spazio in cui si riflettono colo-ri eterni e inviolati. Cerco di non disper-dere subito le immagini recuperate dagliscritti dei viaggiatori di un tempo. Con-cludo il gioco infantile ritornando al traf-fico, automobilistico e umano, simile aquello di tante altre città della Cina. La Ci-na che ha inghiottito il Tibet conosciutoda Giuseppe Tucci, riducendolo a un pae-se come tutti gli altri. O quasi.

Tucci ha avuto la fortuna di esplorare,di conoscere, di studiare quel Tibet ingran parte scomparso. Vi aveva trovatouna terra promessa, un rifugio per evade-re dall’Occidente industrializzato e in ge-nerale dalla sua modernità, che aborriva.Aveva partecipato alla Prima guerramondiale e l’esperienza l’aveva spinto,come altri giovani ufficiali, verso il fasci-smo. E questo lo induceva a pensare chela battaglia, l’azione, il rischio, fossero «unantidoto alla fredda razionalità e allaspersonalizzazione dell’era contempo-ranea». Anche la conoscenza delle reli-gioni orientali poteva servire a immuniz-zare l’Occidente da quei mali che l’avreb-bero portato a un’inevitabile decadenza.Per salvarsi la civiltà euro-pea doveva attingere forze eidee dalla civiltà asiatica. IlTibet, per la sua inviolataautenticità, era l’antidotoper eccellenza. Era inconta-minato. Immobile nella suaperenne, preziosa, incanta-ta antichità. Qualcosa di si-mile a uno scrigno smarrito,dimenticato, lassù, sullevette più alte. Irraggiungi-bile per gli affannati comu-ni abitanti delle metropolioccidentali a corto di fiato.

Le difficoltà materiali perraggiungerlo ed esplorarlo,e il lavoro intellettuale peraprirlo e decifrarne il conte-nuto, impegnavano tutte lesue doti e sollecitavano lesue ambizioni, eccezionalie sconfinate. Il fisico, l’intel-ligenza, la cultura (cono-sceva le principali lingueeuropee, il cinese, il sanscri-to, il tibetano, l’hindi e variantichi idiomi asiatici), euna passione alimentata dauna vanità incontenibile,gli consentivano di affron-tare avventure perigliose eimprese scientifiche rima-ste esemplari, per gli stu-diosi dell’Asia (un tempochiamati orientalisti).

L’immagine che si ha dilui assomiglia a quella di un superuomo,cosciente di essere tale. E quindi superbo.Non sempre simpatico. Altezzoso. A trat-ti arrogante. Cosi mi apparve quando loincontrai e non mi lasciò neppure il tem-po di porgli una domanda. Parlò per piùdi un’ora. Ma non mi pentii di averloascoltato in silenzio. Era anche un sedut-tore. Alla fine sentii una profonda ricono-

scenza per il tempo che mi aveva conces-so. A trent’anni, grazie a Carlo Formichi,suo professore di sanscrito, Tucci ottienela cattedra di lingua e letteratura italianaall’Università indiana di Shantiniketan,fondata da Rabindranath Tagore. E inquel periodo traduce dal cinese e dal san-scrito vari testi classici.

Ma l’esperienza in quell’università nondura a lungo. L’interrompe un incidenteal quale lui è personalmente estraneo.Tramite Carlo Formichi, il governo italia-no invita Tagore a Roma, e durante la vi-sita il poeta si indigna per il modo in cui lastampa affianca fascismo e nazionalismoindiano, e rompe ogni tipo di collabora-zione con l’Italia. I tentativi di sfruttare i ri-chiami di Gandhi (e di Nehru) al Risorgi-mento italiano, e in particolare a Mazzini,si ripeteranno anche negli anni seguenti,da parte di Carlo Formichi, il cui obiettivoera appunto di alleare fascismo e nazio-nalismo indiano in funzione anti britan-nica. Costretto a lasciare l’università diTagore, Tucci resta comunque a Calcuttae poi a Dacca con vari incarichi universi-tari e pubblica alcuni saggi sul confucia-nesimo e il taoismo.

L’esibita fede fascista gli servirà poi perottenere i finanziamenti indispensabilialle sue spedizioni. Per questo non esiteràa sottoscrivere il documento del regimesulla condanna della razza ebraica. Tut-tavia la passione per le esplorazioni e la ri-cerca scientifica prevarrà ampiamente,consentendogli alla caduta del fascismodi far apparire quella ideologia più stru-mentale che autentica. L’indiscutibilevalore dei suoi studi, e il prestigio interna-zionale, contribuiranno a ristabilire mol-to presto la sua autorità anche sull’Ismeo(Istituto per il Medio ed Estremo Oriente)da lui fondato nel ‘34, con Giovanni Gen-tile. I suoi studi restano oggi un punto di

In Nepal scrive: “Il silenzio sospeso nell’ariavegliava, solo, sul luogo dove era natoGauthama Siddhartha che doveva, dopo ilsuo risveglio spirituale, diventare Budda”

UN POPOLO DI PENSATORIAl centro della pagina,

una foto, scattata da Tucci

stesso, della città

di Baktapur, in TIbet

Sopra, con un tibetano

«sembrano oziosi

— scrive nei suoi racconti —

e in realtà sono profondi»

BERNARDO VALLI

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

Giuseppe Tucciuna vita nomadea caccia del mito

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riferimento per chiunque si occupi di Ti-bet e in particolare di arte tibetana. Comevengono riconosciute e celebrate alcunesue scoperte archeologiche, anche in Ci-na, in Iran, in Pakistan, nel Nepal.

Tucci amava la vita nomade. Nella rac-colta di suoi scritti appena pubblicata,con una introduzione di Stefano Malate-sta (Il paese delle donne dai molti mariti,Neri Pozza, euro 17,50), racconta «l’irre-quietezza mai sazia» che gli faceva dete-stare fin da ragazzo le pareti dome-stiche e prediligere il vagabondag-gio come forma di vita. Gli esempidi due concittadini, entrambi naticome lui a Macerata, l’hanno subi-to spinto verso l’Oriente. La grandeavventura intellettuale di MatteoRicci in Cina nel tardo Cinquecen-to, e quella di Cassiano Beligatti inTibet nel Settecento, hanno accesola sua fantasia d’adolescente.Amava le carovane, la solitudinesulle alte valli del Tibet, del Sikkim,del Nepal, e le avventurose indagi-ni per arrivare a un manoscritto o aun dipinto.

Nel ‘52, quando ha cinquantotto anni,dopo una marcia di quaranta giorni dallafrontiera tibetana, Giuseppe Tucci arrivain prossimità di Rumindei (oggi Lumbini,nel Nepal). È il 27 novembre ed è già il cre-puscolo. Il sentiero polveroso sul qualeavanza nella pianura monotona sembrasenza fine. I soli rilievi in cui inciampa losguardo sono due leggere prominenze,due timide gobbe, che nella luce metalli-ca del tramonto sembrano un trepidantemiraggio destinato a sparire in quellasconfinata solitudine.

«...Il silenzio sospeso nell’aria vegliava,solo, sul luogo dove era nato GauthamaSiddhartha che doveva, dopo il suo risve-glio spirituale, diventare il Budda». Cosi

Tucci descrive quel momento, mentre staper raggiungere la sottile striscia di terrasu cui è nata una delle religioni più dure-voli e viventi. E davanti alla colonna spez-zata e solitaria che si alza in quel luogo de-solato, Tucci rivede la scena di ventiduesecoli prima, quando Asoka, il re guerrie-ro, in preda al rimorso per le migliaia diuomini caduti nelle sue battaglie vittorio-se, viene in pellegrinaggio a Rumindei percercare la pace nelle parole di Siddhartha.

Tucci è affascinato da quella cele-bre conversione del sovrano tor-mentato dal rimorso per la violen-za delle guerre in cui ha trionfato.

Anche lo studio del buddismo(tantrico, cioé iniziatico ed esote-rico) che incontra in Tibet condu-ce Tucci a qualcosa di molto simi-le a una conversione. Ma non auna conversione totale. Le sue re-stano le incursioni di un occiden-tale. Egli si tuffa nell’Oriente manon vi si perde. Non si lascia in-ghiottire. Per lui le scuole di queltardo buddismo, annidate nei

grandi monasteri (in cui ama soffermar-si e discutere, conquistando i monacicon la sua conoscenza della loro lingua edella loro cultura), sottopongono a un’a-cuta analisi il nostro io e servono a enu-cleare dall’imperfetta creatura che sia-mo un essere perfetto al di là di ogni con-tingenza e dolore.

Ma la teologia e la metafisica di quellescuole, pur avendo una poderosa impal-catura logica, devono dimostrare anzi-tutto la falsità delle opinioni e delle teo-rie correnti, e condurre alla conclusioneche il vero è oltre la formula logica, nonoggetto di conoscenza, ma di esperien-za. Tucci trova sul tetto del mondo un al-leato contro il razionalismo dei suoi con-temporanei occidentali.

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

RACCONTI DI VIAGGIO

Il paese delle donne

dai molti mariti è il titolo

del primo libro della serie

di racconti di viaggio

della Neri Pozza Editore

che raccoglie gli articoli

e le note di Giuseppe Tucci

sulle sue spedizioni in Tibet

L’attrazione fatale per il Tibet

Giuseppe Tucci è stato un visionariocome lo erano i santi e i profeti diuna volta. Ma come questi avevano

passato la loro vita a cercare gli dei, cosìTucci aveva passato la sua ad evitarli, al-meno quelli delle culture monoteistiche. Ilbuddismo, questa forma suprema di laici-smo scelta da anime religiose che non siadattano ad avere un pantheon di padripadroni sopra di loro, l’aveva messo inguardia sulla vanità e sull’inadeguatezzadella mente inutilmente sovrana del pas-sato e del futuro, del prossimo e del remo-to. E sulla necessità, imperiosa per gli uo-mini, di staccarsi dall’effimero tragitto cheporta dalla nascita alla morte. Quando iol’ho conosciuto aveva passato gli ot-tant’anni e si era appena rotto una gambasalendo in montagna. «Sono stato per mo-rire», disse, con una voce che sembravaprovenire da quell’inferno tibetano cheaveva così ben studiato: «Un’esperienzastraordinaria».

(...) Aveva già incominciato a interessar-si del paese delle donne dai molti mariti, co-me lo aveva chiamato, andando alla ricercadi scomparsi testi buddistici in sanscritoche però erano rintracciabili nella tradizio-ne tibetana. Ma questa esigenza filologicaci dice pochissimo su quello che provò Tuc-ci quando mise piede per la prima volta nelTibet. Non fu solo un cambio o un’alter-nanza di studi, fu un’attrazione fatale.

Chiunque sia arrivato per la prima voltanel Tibet, ha sempre avuto l’impressione distare su un altro pianeta. A differenza di al-tri, Tucci fece completamente suo quelmondo alieno come se stesse aspettandol’incontro da innumerevoli vite: qualcosadi traumatico che gli impedì di scriverneper anni prima che l’eccitazione si fosse de-positata in una assoluta consapevolezza.Raccontava spesso che arrivato di fronte alKailas, montagna sacra a tre religioni, gli erasembrato di trovarsi in presenza di un dioche faceva piegare le ginocchia. E il lagoManasarovar, il lago di Brahma, aveva il ful-gore del simbolo «dell’eterna essenza delcosmo» e di quell’incognita energia checrea «l’infinite forme dell’essere». Le suedescrizioni dei paesaggi partivano sempredai modi occidentali, cioè l’individuazionedei particolari, accompagnati da uno stilecoloristico, e finivano nella spiegazionemistica, nella ricerca di un significato piùprofondo. Il Chomolai aveva pareti a piccoinaccessibili su cui nemmeno le nevi e ighiacci facevano presa e in cima nasconde-vano una dea. Nelle pianure immense infondo alle quali, verso sud, si addormenta-va in uno scintillio rossastro la catena hi-malayana, gli uomini e le bestie apparivanominuscoli e insignificanti, schiacciati dallamaestà delle rocce che li sovrastavano.

(dalla prefazione a “Il paese delle donnedai molti mariti”)

STEFANO MALATESTA

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Per anni è stato il centro culturale dell’America:Bob Dylan e Paul Simon lo hanno celebrato nelle loro canzoni,qui ha debuttato come comico Woody Allen, nei suoi caffè

si poteva trovare Jack Kerouac. Ma ora l’avventura è finita:le case costano troppo,i locali chiudono e gli artisti se ne vanno. A decretarne l’epilogo il “Village Voice”,lo storico settimanale fondato da Norman Mailer

Adesso i turisti vengonoqui per vedere dove sonostati girati “Sex and thecity” e per incontraregli attori di “Friends”

«Oscillavo con lamia vecchiachitarra\ ag-grappato aduna manigliadella metropo-

litana\ e dopo un viaggio di scossoni escuotimenti\ atterrai dal lato deldowntown\ Greenwich Village». Can-tava così il giovane Bob Dylan inTalking New York raccontando il suoarrivo nel cuore della Grande Mela, inquel Greenwich Village che di lì a pocolo avrebbe adottato come uno dei suoifigli migliori, contribuendo a farlo di-ventare una leggenda. In quello stranoquartiere, agli inizi degli anni Sessan-ta, si stava verificando una curiosa sal-datura tra diversi tasselli della nuovacultura. Era il rifugio di artisti, disadat-tati di ogni risma, esponenti della newleft, ma anche di musicisti, jazz e folk,di scrittori bohemien, una sorta di co-munità alternativa nella quale comin-ciavano a ritrovarsi tutti coloro chenon si riconoscevano nei valori ufficia-li del Paese.

Il Greenwich fu uno straordinariolaboratorio, una culla, un vero e pro-prio brodo primordiale la cui alchi-mia ha dato origine alla nuova vocedella protesta. Insomma, il luogo do-ve, all’inizio dei “Sixties”, inizia aprendere forma la nuova storia delrock, attraverso il folk revival, il tea-tro, la poesia e la politica che in essovivevano e si sviluppavano. Oggi nonè più così e, se dovesse arrivare ungiovane Bob Dylan, una volta scesodalla metropolitana non troverebbeun coffeshop dove suonare la sua ar-monica, non ci sarebbe qualcuno che,come lui racconta, gli dice «abbiamobisogno di folksingers, qui». Ma sa-rebbe travolto da qualche comitiva dituristi giapponesi o europei, con le lo-ro macchine fotografiche digitali,pronti a catturare le ultime immaginidi un luogo che è stato leggendario eche per molti versi oggi non lo è più.

Il grido d’allarme lo ha lanciato la“bibbia” del quartiere, il Village Voice,il giornale settimanale che cinquantaanni fa, nell’ottobre del 1955, fu fon-dato da Norman Mailer, Dan Wolf eEd Fancher, e che fino ad oggi è statala voce della New York più liberale, al-ternativa e sofisticata. «Il Village stamorendo», recita il titolo di un artico-lo di qualche settimana fa, sottoli-neando come i poveri poeti, gli artistiin cerca di fama, i musicisti squattri-nati, gli attori senza contratto non so-no più i beniamini del quartiere, han-no dovuto cambiare casa, cambiarezona, perché «per vivere al Village og-gi bisogna essere ricchi». Paul Simon,nel 1964, celebrava Bleecker Street inuna sua canzone ricordando che contrenta dollari si pagava l’affitto. Ogginon bastano trecento dollari per tro-vare un appartamento, le piccole bot-teghe sono state pian piano sostituitedai grandi negozi, i MacDonald han-no preso il posto dei coffeshop e deipiccoli ristoranti a gestione familiare,le librerie e i negozi di dischi sono di-ventati dei supermarket editoriali e,come racconta Karen Kramer nel suodocumentario The ballad of Greenwi-ch Village, lo scenario del quartiere ècompletamente cambiato.

Il Village é sempre stato uno deicentri culturali più attivi d’America,nelle vie irregolari del quartiere (l’u-nica zona di New York in cui le stradenon seguono la classica numerazionema hanno dei nomi, e non si incrocia-no ad angolo retto come nel resto del-la città), tra Bleecker Street e Wa-shington Square nacquero organi distampa come il già citato GreenwichVillage Voice, l’East Village Other,giornale più politicizzato e intransi-

GreenwichERNESTO ASSANTE

medy Cellar (dove esordì Woody Al-len), che hanno visto nascere una in-tera generazione di attori comiciamericani. Chi ama Dylan può anda-re in pellegrinaggio al Cafè Wha?, ilcoffeshop cantato in Talking NewYork, o al Gaslight, dove il musicista siincontrava con Ginsberg e GregoryCorso, entrambi ancora aperti in Mc-Dougal Street, la strada dove Dylanprese casa nel 1969.

Ma sono in pochi a cercare questiindirizzi, oggi i turisti arrivano pervedere le strade dove è stato giratoSex and the City, o i luoghi dove si in-contravano gli attori di Friends, en-trambi ambientati nelle vie del Villa-ge, e i attori, bohemien, cantanti epoeti non ne trovano più, emigrativerso Tribeca, verso la Bowery oAlphabet City, o altrove ancora, lon-tani da quel quartiere leggendarioche è stato, per poco meno di un se-colo, il cuore culturale di New York.

gente del vecchio Voice, fondato an-cora da John Wilcock. Al Village creb-be la pop art americana, furono getta-ti i semi della “new left”, la nuova sini-stra degli anni Sessanta con gli Yip-pies di Jerry Rubin e Abbie Hoffman. Enelle strade e nei locali attorno a St.Mark’s Place, nel corso dagli anni Cin-quanta e fino ad oggi sono cresciutediverse generazioni di artisti rock, daDylan a Hendrix, da Paul Simon a Pat-ti Smith, da Tracy Chapman a Suzan-ne Vega, fino agli attuali Strokes.

Molti locali celebri non ci sono più,come il Cafe Metro (oggi The Te-lephone) che era frequentato da Jacke Louise Reed, Emma Goldberg, Eu-gene O’Neill, Leone Trotsky, WilliamBurroughs e Jack Kerouac, o il Cafè LaMama, dove nacque buona parte delteatro “off-broadway” americano,soprattutto il Living Theatre, moltiinvece ci sono ancora in attività, co-me il White Horse (dove Dylan Tho-mas bevve il suo ultimo drink), comeil leggendario Village Vanguard, do-ve, da musicisti come John Coltrane,sono state scritte alcune delle più im-portanti pagine della storia del jazz, ol’Oscar Wilde Bookshop, il negozio dilibri gay e lesbo più antico di NewYork, o ancora The Boston e The Co-

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

7TH STREET SOUTHIl Village Vanguard, nella parte sud

della Settima Strada, è uno

dei templi del jazz americano.

Hanno registrato nel club John Coltrane,

Bill Evans, Dizzy Gillespie, e giovani

come Joe Lovano e Brad Meldhau

TUTTO DA RIDEREMcDougal Street ospita il palco

di Comedy Cellar, dove ha esordito

un giovanissimo Woody Allen

BLEECKER STREETAd un angolo di questa strada

c’è il Bitter End,

uno dei pochi club dove

è ancora possibile ascoltare

nuovi folksinger. È qui

che ha iniziato la sua fortunata

avventura musicale

la cantautrice Tracy Chapman

8TH STREET WESTIl Greenwich Village

ospita ancora

gli Electric Lady Studios,

gli studi entrati

a far parte della

storia del rock

per essere stati la “casa”

di Jimi Hendrix,

che ha inciso lì il suo

“Electric Ladyland”

BLEECKER STREETPaul Simon celebra

una delle strade più importanti

del Village in una sua canzone

del 1964. Sono molti i locali

da visitare nella strada,

soprattutto il leggendario

Village Gate, storico

locale del jazz

VillageCala il sipario sul palcoscenico di New York

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

L’11 settembre del 2001, mentre tutti fuggivano dalla zonasud di Manhattan, un uomo andò controcorrente. Ben-ché avesse una gamba ferita salì a piedi i 29 piani della Li-

berty Tower in Liberty street, a un solo isolato da Ground Zero. En-trò nel suo attico pieno di polvere e detriti, in cima a un palazzoevacuato perché giudicato pericolante. Si proclamò capitano del-la nave: ultimo a lasciarla, deciso ad affondare con quella. Avevain frigo dieci scatolette di tonno, nella dispensa soltanto baratto-li di frutta secca. Il telefono era scollegato e nessuno gli avrebbecomunque consegnato a quell’indirizzo il cibo a domicilio. Strac-ciò le lenzuola per farne maschere da mettere sul viso, che ba-gnava di continuo. Era divorziato, aveva due figli lontani: il suomondo era lì, in quella parte di Manhattan che aveva contribuitoa inventare. Si chiamava Joseph Pell Lombardi, aveva sessant’an-ni, otto palazzi e un nonno napoletano. Ristrutturava vecchi edi-fici e li metteva al centro di mondi che non esistevano prima di es-sere nominati. Aveva imparato una ricetta che è sempre la stessa,dovunque nel mondo: prendi quattro scrittori, tre sessualmenteambigui, due personaggi del jet set, uno chef, li spalmi su cinquechilometri quadrati, spazzi i resti di quel che c’era prima, spolve-ri, agiti bene la stampa, alzi la fiamma dei prezzi, battezzi con unriuscito acronimo, et voilà: è nata una stella, una nuova “zona cal-da” di una qualsiasi metropoli.

Quando Joseph Pell Lombardi cominciò a occuparsi di immo-bili Manhattan finiva a Union Square. Dalla Quattordicesima ingiù viveva chi non poteva permettersi altro o era un ratto. IlGreenwich Village cambiò le cose. A downtown fu il primo mar-chio immobiliare di successo. Improvvisamente le casette bas-se con la scala antincendio e le pareti interne scrostate divenne-ro ricercate quanto i grattacieli con i commodori al portone e imuri di cristallo. Perché al Greenwich abitavano i poeti, le dragqueen, i figli ribelli con papà su Fortune, i cuochi dei nuovi ri-storanti di tendenza. Pochi anni e fu tutto esaurito. In molti sen-si. Esaurita la vena degli artisti del Village, esaurito il portafoglioper pagare affitti in crescita, esaurito lo spazio.

Bisognava farsi più in là e inventare qualcosa di nuovo, pro-clamare «la fine del Village» poi decretare la nascita degli eredi.Primogenito: SoHo, acronimo di “SOuth of HOuston street”, pa-lazzi di ghisa, regolamenti condominiali in cui si esige la certifi-cazione che l’inquilino è “artista” per approvare il contrattod’affitto (esperienza personale: ho dovuto portare due libri edieci recensioni, ma non hanno preteso che fossero positive).Secondogenito: Nolita (NOrth of Little ITAly). Terzogenito: lacreatura di Joe Lombardi, Tribeca. Fino agli anni Settanta erasemplicemente «dove finisce il Village e comincia il nulla». Pois’inventarono TRIangle BElow CAnal, il triangolo sotto Canalstreet, ristrutturarono vecchi magazzini abbandonati, ci mise-ro ad abitare Harvey Keytel, David Letterman, John John Ken-nedy e, soprattutto, Robert De Niro. Soprattutto, perché De Ni-ro portò Nobu, il più fantasioso chef giapponese e per mangia-re da Nobu a Tribeca tutta New York si mise in fila. L’ultimo mar-chio fu Wevar, WEst of VARick street. Lì Lombardi avrebbe do-vuto restaurare un gigantesco frigorifero che un tempo conte-neva prosciutti e formaggi.

Poi arrivò l’11 settembre, ma quello del 1999, quando ancoraWall Street creava ogni giorno nuovi ricchi. Già allora, scrisseTom Wolfe, «tutti i quartieri degli artisti di Manhattan — SoHo,WeVar, TriBeCa, il Village, Nolita — erano storia». O qualcunoaveva il coraggio di proporre Nothing, nulla, il quartiere imma-ginario North Of anyTHING o bisognava ricominciare da capo,riarrotolare la coperta e rivendersi tutto ripartendo da nord. Sic-come spacciare Harlem per nuova “zona calda” richiedeva unosforzo speciale fecero ricorso a un testimonial eccezionale, met-tendoci l’ex presidente Clinton. Ha funzionato, la macchina è ri-partita. Ora tramonta downtown e risorge Spanish Harlem, mail gioco è scoperto e ciclico. Si proclama la «fine del Village» perpoterlo, tra qualche anno, riscoprire, mandandoci a vivere qual-cuno che ne era scappato vent’anni prima. Dalla cima della Li-berty Tower a Joe Lombardi basta adesso girare la testa versonord per vedere il “nuovo che avanza”. E gli basterà aspettareperché ritorni ai suoi piedi, tutto sia riscoperto e rivenduto aprezzo raddoppiato.

Non è solo New York a giocare questa partita a “monopoli”. Tut-te le metropoli d’occidente hanno quartieri che sbocciano,muoiono e risorgono. A Parigi è stato il Marais. A Londra NottingHill (consacarato come marchio da un film con Julia Roberts e Hu-gh Grant che l’aveva per titolo). A Roma, dopo anni di sforzi (per-ché fuori dal centro storico sunt leones) stanno finalmente riu-scendo a vendere il Pigneto, dove, va da sé, stazionano scrittori etrans, oltre alla seconda sede della catena di acconciature “Con-testa Rock Hair”, che ha un negozio anche a Miami, per dire.

E chi pensa che accada soltanto in Occidente, si faccia un giroa Beirut. Per anni la strada dove tutto accadeva era Monot: c’e-rano i locali di tendenza, la gente giusta, la trasgressione. Le fo-to scattate a Monot finivano su Wallpaper e dintorni. Poi qual-cuno ha dichiarato che Monot era «finita». Cosa era mai acca-duto? Come muore un quartiere? Semplicemente avevano datolicenze per aprire qualche decina di locali in un’altra strada:Gemmayze. Mentre Monot entrava nell’ombra, a Gemmayzee siaccendevano le luci di caffè, ristoranti, pub e, soprattutto, sali-vano i valori immobiliari delle vecchie case tradizionali affac-ciate su una strada fin lì spopolata dopo il tramonto. Ci sono an-cora tre o quattro licenze da piazzare, altrettanti negozi di can-dele e liquirizie da convertire e poi anche Gemmayze cominceràa “finire”. L’erede è già stato concepito: è la zona di fronte al por-to dove stanno aprendo i locali notturni nei quali le multinazio-nali tengono, a rotazione, le loro serate promozionali con i mi-gliori dj. Intorno ci sono vecchie case che qualcuno sta già com-prando. Manca solo l’acronimo giusto, il logo da stampare sopraal pacchetto immaginario e, lì come altrove, il gioco sarà fatto.Aspettando di riscoprire Monot, il Marais, il Greenwich Village,perché tutto quel che sarà è già stato, quel che cambia è soltan-to la generazione che se lo compra.

GABRIELE ROMAGNOLI

L’inventoredei quartieridi successo

IL VILLAGGIO DI BOBMolti i luoghi “storici” del Village legati

a Bob Dylan, a partire dal Cafè Wha?

al 115 di MacDougal Street, dove debuttò

WASHINGTONSQUARE PARKIl cuore

del Greenwich Village

è dedicato alla musica

Da sempre,

ogni domenica,

si suona

dal vivo nel parco

Un grande numero

di musicisti

in cerca di successo,

molti buskers

e artisti di strada

e, decisamente

meno spesso, celebrità

di passaggio

si esibiscono

per la gioia dei passanti

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Valorizzare la bellezza è il nostro

obiettivo. Celebrarla nell'arte e nella

cultura il nostro impegno.

Perché la bellezza è soprattutto

una questione di testa e nel cinema

trova fascino e creatività espressiva.

Abbiamoil cinemain testa

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

Il regista coreano si smarca da Tarantino e dal cinema hollywoodiano

Park: “La mia vendetta sporca e cattiva”VENEZIA«La vendetta oggi è cosa da cinema western, è stata

proibita in ogni società civile. Ma nel mondo contempora-neo è alla base di molti comportamenti, penso ai tanti con-flitti regionali che esplodono come ritorsione, alle guerredi religione, penso alla reazione dei soldati americani inIraq quando viene ucciso un loro compagno, non è solo sulcolpevole che si sfoga la vendetta. Mi appassiona il temaproprio perché è uno dei sentimenti negativi più profondinell’animo umano».

Dopo Mr. Vendettae Old boy, Park Chan-wook con LadyVendettaconclude la sua trilogia. Protagonista Lee Young-ae, una delle attrici più amate in Corea, nel ruolo di unadonna che esce dal carcere dopo tredici anni per aver par-tecipato al rapimento di un bambino e averlo ucciso: la suavittima è Choi Min-sik, il vendicatore di Old boy.

C’è differenza tra donna e uomo nel sentimento del-

la vendetta?

«Formalmente sì: una donna si prepara, cerca i det-tagli, nel trucco del volto come nella ricerca di un’armaesteticamente bella. Un uomo si vendica con qualun-que mezzo. E c’è una differenza sostanziale: la donna inrealtà non ha ucciso il bambino, è stata costretta a con-fessare dal vero colpevole. Ha partecipato al rapimen-to senza prevederne le conseguenze, si sente in colpa.

Credo sia tipico delle donne, il senso di responsabilitàè molto più forte per loro».

Perché ha scelto di trasformare in collettiva la ven-

detta individuale?

«Alla scoperta che l’assassino ha ucciso non uno ma al-meno altri quattro bambini, Lady Vendetta decide dicoinvolgere nella vendetta i genitori di tutte le piccolevittime. M’interessava analizzare i comportamenti e lereazioni diverse di un piccolo gruppo di persone: farsigiustizia da soli o consegnare il serial killer a un tribuna-le? È un microcosmo simile al parlamento di un paese oall’assemblea generale delle Nazioni Unite».

Che differenza c’è tra la sua Lady Vendetta e la Uma

Thurman di Kill Bill?«Essenziale: nel film di Tarantino c’è una ricerca di bel-

lezza nelle sequenze della violenza e delle uccisioni. Nonnel mio film: vendetta e violenza non hanno niente dibello, restano solo il dolore e il tormento della morte. Ese nel cinema commerciale la vendetta è liberatoria, iocerco gli aspetti etici del sentimento che spinge qualcu-no alla vendetta e anche l’etica di chi la subisce».

Com’è visto il suo cinema in America?

«Lo amano i cinefili. Hollywood prepara il remake diOld boy e mi propone molte sceneggiature, ma io prefe-risco pensare al mio prossimo film che si svolgerà in unospedale psichiatrico sul tema: chi sono io?».

spettacoli & tvMostra di Venezia

NATALIA ASPESI

VENEZIA

Il regista e il film più esotici del-la 62esima Mostra del Cinemanon vengono dalla Corea o dal-la Cina, ma dalla Francia: lui è

Philippe Garrel, che con i suoi lunghiricciuti capelli grigi e lo sguardo lan-guido è l’immagine impolverata di untempo che sembra non essere maiesistito. Il suo film è Les amants regu-liers, e in tanti si era pronti a piantar-lo lì a metà, non tanto per i suoi 178minuti quanto perché a chi gliene im-porta più del sepolto, dimenticato,antidiluviano ‘68 visto da uno che l’havissuto, soprattutto dopo The Drea-mers di Bernardo Bertolucci? In piùGarrel è un regista fuori moda, perchéera ed è rimasto povero in un epoca incui la povertà, tanto temuta, è segnodi fallimento.

Il suo film è costato meno di unospot, un milione e mezzo di euro, eper risparmiare all’osso ha anchepreso come attori il padre Maurice e ilfiglio Louis (bello, protagonista diDreamers) a paga da elemosina. Il suolinguaggio nelle interviste pare anti-co come il sanscrito: parla di classeoperaia, di borghesia, di rivoluzionecome se, arrivato ventenne allo stori-co Maggio parigino, lì si fosse instal-lato tra pavé disselciato e cariche del-la polizia, rifiutando di guardare oltrela sua giovinezza, il mondo che cam-biava, invecchiava, regrediva.

Garrel è uno dei casi tipici del cine-ma: quello di un regista che, girandosempre film sublimi, osannati anchese pesantemente francesi, maestro dirigorose pellicole di idee e d’amore,quasi nessuno sa chi sia, quasi nessu-no ha visto i suoi lavori, se non in raf-finati cineclub o da noi in televisione,trasmessi poco prima dell’alba, eneppure doppiati. Eppure il pubblicoè rimasto di sale, incantato: bianco enero, visi innocenti di giovinezza deirivoluzionari illusi, dei poeti libertariche sognavano di non diventare maifamosi, barricate in strada e hashishin casa, amour fou e morte, in un lun-go racconto nostalgico di tempi chemalgrado tutto erano belli e vivi, e cheagli scoraggiati giovani spettatori dioggi paiono favole. Si sa che ai festivaldel cinema si accumula di tutto, an-

che alla rinfusa, perché, come nei su-permercati, è l’abbondanza dellamerce (non sempre di qualità) checonta.

Quel che si trova si trova, quel chec’è c’è. Può sembrare per esempio unprodotto succulento e addirittura dimarca l’ennesimo Casanova (dopoquelli di Steno, Comencini, Fellini,Scola) fuori concorso, questa voltaamericano, diretto dallo svedese Las-se Hallstrom, che sullo sfondo di unaVenezia ridipinta come nei quadri diGuardi, accumula bellezze comeSienna Miller e Lena Olin: ma vienecommesso l’errore scemo di dimenti-carsi del fascino astuto che il vero Ca-sanova si attribuì, affidandone il ruo-lo al biondo atleta burroso e asessua-to Heath Ledger (sexy invece comecowboy gay in Brokeback mountain)e non all’inquietante Jeremy Irons:che malgrado la pioggia di rughe e leocchiaie sataniche, desta ancora fre-

miti di cupidigia nelle signore. L’han-no invece ridicolizzato, con parruccaa frangetta, facendone un inquisitoreovviamente bacchettone e sciocco.Non è chiaro perché, sia pure inomaggio alla città di Casanova, la Mo-stra abbia inserito un film come quel-lo di Hallstrom che, oltretutto, purstudiato per la cassetta, non sembradestinato alle folle oceaniche.

A un festival — e a quello di Veneziain particolare — il personaggio piùambito, quello che assicura il lustro eil successo, almeno di stima, resta an-cora il Venerato Autore, una tipologiapurtroppo in estinzione, come Gar-rel, o come Manoel de Oliveira, cheimperterrito da 63 anni (è nato nel1908 ed è più vispo e agile che mai),continua a regalare film di poco pub-blico ma d’incantato piacere, comequesta volta il suo Specchio magico:come si fa a non lasciarsi travolgeredalla laica ebbrezza di sentire per 137

minuti discutere sull’eventualità chela Madonna fosse ricca, e che perciòanche i ricchi abbiano un’anima, at-tendendo ansiosamente, come laprotagonista, che la Madonna in per-sona si faccia viva per parlarne?

Non è detto che il Venerato Autoresia sempre da venerare, ma a nessunoverrebbe mai in mente di sottoporre aesame il suo nuovo film, che così vie-ne golosamente accettato per il solofatto di portare la sua firma. E peresempio Park Chan-wook, coreanopoco più che quarantenne, è una ce-lebrità recente, molto apprezzatadalla critica giovanilistica, anche selui stesso confessa che se nei cinemaasiatici i suoi film sono presi d’assal-to nel mondo occidentale il pubblicoè molto scarso. Il che non scoraggia iFestival che, come quello di Cannesdell’anno scorso, ha assegnato il granpremio della giuria al suo Old boy, incui il protagonista, incazzato per es-sere stato tenuto prigioniero per 15anni da ignoti e per ignota ragione,dopo essersi rifocillato con disgrazia-ti polipi vivi, si mette a tagliare linguee a strappare denti ai suoi avversari.Anche se ancora più sanguinario,Lady Vendetta, in concorso adesso aVenezia, ha un po’ deluso suscitandorisate anziché spavento.

Eppure non gli manca proprio nul-la per far felici gli ammiratori delle ef-feratezze coreane di un autore che sidichiara molto cattolico: dalla forbi-ce piantata nella nuca, alla lente degliocchiali rotta che per tradizione pre-lude a horror dei più sanguinolenti.Infatti. Catturato il maestro rapitore eassassino di bambini, lady Vendettadal volto candido e soave, lo affida al-la giustizia dei genitori che da annicercano invano i loro bambini scom-parsi: previdenti, armati di asce e col-telli, indossano camicioni di plasticaper difendersi dagli schizzi di sangue,poi ad uno ad uno procedono al ma-cello. Coreanamente, la storia è mol-to confusa: ventenne accusata di averucciso un bambino perde la sua pic-cina adottata da una volgare coppiaaustraliana; viene rinchiusa in unaprigione tutta rosa per 13 anni, concompagne di cella inimmaginabiliper bruttezza, brutalità e imperiisporcaccioni. Libera, si tinge le pal-pebre di rosa, compra una pistola ele-gante e diventa lady Vendetta.

“Les amantsreguliers”di Philippe Garrelha incantatoil pubblicocon i visi innocentidi giovinezza dei suoirivoluzionari illusi

AL LIDO

SUTHERLAND

Racconta Donald

Sutherland, Casanova

per Fellini: “Nel ’92

Federico mi disse di avere

un progetto su Venezia

con Berlusconi che

comprava la città e

trasformava il Canal

Grande in Canale 5”

BELLUCCI

“Divento strega solo

quando mi devo difendere”

dice Monica Bellucci,

testimonial di SkyCinema, e strega

cattiva in I fratelliGrimm di Terry

Gilliam. In verità ama

Cappuccetto Rosso

SODERBERGH

“La tv è piena di reality

show che non raccontano

la realtà. Con Bubbleho voluto prendere

un ambiente reale,

persone vere, e far

diventare questo un

film”, dice il regista

Steven Soderbergh

Il Sessantotto è già in bianco e nero

MARIA PIA FUSCO

LES AMANTS REGULIERSClothilde Hesme e Louis

Garrel, protagonisti del film

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i saporiTradizioni ritrovate

Al centro di “Cheese”, in calendario a Bra tra due finesettimana, i prodotti del latte di un animale a lungo bistrattatoe oggi riabilitato perché refrattario agli allevamenti intensivie all’alimentazione industriale. Un comparto in crescita,dove gli affinatori italiani ormai eguaglianoe spesso scavalcano in fatto di qualità i rivali francesi

Casieddu di MoliternoNella terra del pecorino

canestrato, d’estate

i pastori della Val d’Agri,

filtrano il latte con foglie

di felce e nepitella,

realizzando una

cacioricotta dal sentore

di latte e aromi d’erbe

CapriniFormaggi

Il trionfo della capra. Bistrattata, trascurata, vilipesa —sei una capra! — confinata nell’elenco degli animali distretta sussistenza. Errore clamoroso. Chiunque abbiafatto scivolare in bocca un petit morceau— il “piccolomorso” che i francesi riservano ai bocconi più golosi —di Chevrotin o di Robiola di Roccaverano, sa esserle

eternamente grato. Perché con il suo latte si fanno dei for-maggi meravigliosi, che dopo anni di colpevole oblio abbia-mo riabilitato, diventando produttori orgogliosi e raffinati,tanto da sfidare a testa alta i campioni francesi. E infatti, SlowFood dedica ai caprini la nuova edizione di “Cheese”, in pro-gramma a Bra, Cuneo, tra due fine settimana (informazioni suwww. slowfood. it).

Nessun razzismo caseario. Il latte trasformato di pecore emucche, animali altrettanto benedetti, a “Cheese” godrà dispazi e passerelle adeguate, soprattutto nelle versioni artigia-nali e di pascolo — il francese fermierche troviamo su certe sca-tole di Camambert — ovvero i formaggi come dovrebberosempre essere, figli delle erbe infinite che riempiono i prati edell’aria libera.

Da questo punto di vista, la capra è l’animale simbo-lo dell’ecoagricoltura: innamorata degli spazi aperti,anche a costo di arrampicarsi e saltabeccare su rocceimpervie, va pochissimo d’accordo con allevamenti in-tensivi, alimentazione industriale (insilati), produzio-ne forzata. In compenso, sa essere docilissima, se è ve-ro che l’uomo l’ha addomesticata subito dopo il cane,facendone una compagna di lavoro indispensabile eaffezionata da quasi diecimila anni, a partire dalla Gre-cia (primo sito di ritrovamenti caprini in Europa).

Indipendenti e fedeli, trasmettono carattere ancheal loro latte, che può essere lavorato secondo due prin-cipi diversi. La cagliata lattica — senza aggiunta di ca-glio (coagulante) o quasi — èsinonimo di pazienza, perchérichiede quasi un giorno inte-ro di riposo e dà origine ai clas-sici caprini freschi e morbidi,

leggermente aciduli. Quella presamica, invece, è svel-tita dalla presenza di caglio e dal riscaldamento dellamassa: in questo modo si realizzano pezzature piùgrandi e dalla consistenza compatta, strutturata.

I risultati sono comunque deliziosi e tanto differen-ziati da tradursi in una fitta costellazione di forme e for-mine, che ancora fatichiamo a catalogare. Del resto,l’unica Dop attribuita a un caprino, la Robiola di Roc-caverano, permette l’utilizzo di latti diversi, soprattut-to vaccino, per adeguarsi alle esigenze dell’industriacasearia. Così, Slow Food ha inserito la Robiola di puracapra — cioè la lavorazione storica — tra i suoi Presìdi,aiutando gli allevatori dell’Alta Langa a ritrovare moti-vazioni e qualità di produzione.

Il tutto, mentre in Francia, dove anche il più micro-bico dei formaggi viene battezzato con nome e prove-nienza, i responsabili delle Aoc (le Dop francesi) stan-no progressivamente restringendo i paletti dei disci-plinari, vietando l’utilizzo degli insilati e mantenendointatte le ricette della tradizione. Altro problema, quel-lo legato alla qualità del caglio e dei lieviti, inseriti nellatte per indirizzarne la trasformazione: proprio comeper i vini, il pericolo è quello di produzioni sempre piùomologate.

Per fortuna, la “Resistenza Casearia” sta dando i suoifrutti: nelle degustazioni “cieche”, i nostri caprini ven-gono premiati spesso e volentieri. Perché il latte di ca-pra è scritto nel nostro dna. Come raccontano i Fiori-Guffanti, famiglia di affinatori benemeriti, i fenici bat-tezzarono i francesi oi Galatoi (i Galli) ovvero gli alleva-tori, e gli italiani oi Italoi, i pastori. E infatti, a differen-za degli altri latti, l’intolleranza a quello vaccino è mol-to più italiana che europea. Le capre sono roba nostra,insomma. Basterà passeggiare tra gli stand di “Cheese”per capirlo. Tra un assaggio e l’altro.

MarzolinaSi produce in primavera

sui monti Ausoni (Fr)

Si gusta fresca o

stagionata prima

su graticci di legno

e poi in barattolo, a secco

(piccante) o con olio

(morbida). Ha profumo

caprino e sapore ricco

Robiola di Roccaverano Il più “francese” dei nostri

caprini lotta contro

il disciplinare della Dop

che consente l’uso fino

all’85% di latte vaccino,

mentre i produttori storici

usano solo latte di capra

Sa di yogurt e nocciole

ScimudinRealizzato in Valtellina

con latte di capra — ma

oggi quasi soppiantato

da quello vaccino —

il “piccolo Scimud”

(formaggio) matura

un mese, ha crosta sottile,

un lieve strato di muffa

protettiva e sapore dolce

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

LICIA GRANELLO

CacioricottaCilentanoLa capra cilentana

produce un latte ricco

in antiossidanti e acidi

grassi insaturi. Lavorato

con tecnica mista,

si gusta fresco

con il miele, o stagionato

da grattugiare

Torna l’antica ricetta dei pastori

le produzioni protette

dall’Unione europea

32

i formaggi tradizionali

censiti dalle regioni

481

le tonnellate di formaggi

italiani esportate ogni anno

219mila

i kg di formaggio consumati

da ogni italiano in un anno

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ITALIANI

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Banon à la feuilleSi dice che l’imperatore

Antonino ne mangiò fino

a morirne. Il caprino più

famoso della Provenza

matura in foglie

di castagno, vanta una

pasta morbida, cremosa,

quasi untuosa, sentori

di frutta secca e terra

CharolaisTipico delle pianure

del Charolais, Borgogna,

e lavorato per tradizione

dalle donne, conserva

gli aromi primari del latte

di capra. Matura da 2 a 6

settimane e sviluppa

una crosta profumata

con muffe bianche

Chevrotindes BaugesProdotto sui pascoli

di Bauges da latte crudo

(come quasi tutti

i formaggi francesi),

subisce un affinamento

di 4-6 settimane. Ha

pasta burrosa e fondente

e sapore di nocciola

Crottinde ChavignolPrende forma e nome da

una lampada di terracotta

del Sancerre. Matura in 5

settimane, ha una pasta

gustosa e profumata, e

una crosta fiorita bianco-

bluastra. Tra i più usati

in cucina, anche cotto

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

Il mito di Giove e Amalteaun cibo divino, dolce e cremoso

CORRADO BARBERIS

Immaginava, la gentile capretta Amaltea, mentre nutriva il piccolo Giove, cheun editore palermitano avrebbe pubblicato un libro, Ragù di capra dedica-to alle peripezie di un giovanotto milanese sceso in Calabria per organizzar-

si una piccola ‘ndrina ma rimasto crudelmente — e giustamente — beffato? Me-schino! Se invece di spingersi nella profonda Locride, si fosse arrestato nella pre-Sila greca, tra gli albanesi di San Demetrio Corone, avrebbe potuto consolarsioltreché con il ragù, anche con lo shtalp: uno scodellato di formaggio caprinoche sta al latte come certi “sughi” dell’Emilia stanno al mosto appena pigiato.

L’esplosione dei formaggi caprini è uno dei più interessanti capitoli della ri-voluzione alimentare italiana: circa il cinquanta per cento in più, negli ultimivent’anni, pur rimanendo un po’ al di sotto dell’incremento caseario totale.

Ma con questa differenza: che, mentre il parmigiano reggiano o il gorgonzo-la erano già ben conosciuti e quindi era relativamente facile invitare la gente acomprarne di più, il caprino era un oggetto misterioso, un cibo invisibile nei ne-gozi. Al punto che l’unico formaggio denominato caprino era in realtà prodot-to da un’eccellente casa lombarda con latte di tutta vacca: secondo onesta indi-cazione dell’etichetta. Eppure, quel molle cilindretto dolce rappresentava ve-ramente l’idea platonica del caprino come poi l’avremmo costruito una voltaimparato a servirci della materia prima appropriata.

C’era, insomma, in ciascuno di noi una intuizione, un modello iperuranico dicaprino che aspettava solo il latte giusto per scendere in terra. Cremoso secon-do la lezione che ci viene da un dipartimento della Francia centrale, il Cher, per-ché la crema annega il piccante come una bella aureola di florido grasso avvol-ge ed elimina, nel prosciutto, il salato del magro. Invero a sfogliare le aggiorna-te pagine dell’Atlante dei prodotti tipici: i formaggi che Agra-Rai Eri presenteràai primi di ottobre ci si accorge che di caprini in Italia ce ne sono tantissimi altrie squisiti. Ma sono elaborati che, per usare un termine venatorio, chiameremo«da buca» perché, come il cacciatore agguatato nella botte, attendono il turistadi passaggio per fare il colpo. Fatulì dell’Adamello, marzelline ciociare, caso pe-ruto cioè avvizzito: una sfida, con quel nome all’estetica gastronomica. Tutto ilSud spreca le sue capre nel pur splendido cacioricotta la cui perfezione è rite-nuta massima quando, stagionato, è pronto per la grattugia (ma per questo c’ègià il parmigiano...).

Per andare all’attacco dei mercati, perché il cacciatore vada veramente a cac-cia e non stia solo rintanato in buca, occorrono dunque i caprini cremosi quel-li che hanno cominciato ad andare di moda dopo il Sessantotto quando alcuniragazzi delusi dalla rivoluzione mancata si sono messi ad allevare, general-mente saanen, questa specie di frisona caprina, forse non eccellentissima macosì comoda per tutte le versioni.

A portare sul mercato i blu di capra e ad avvolgere gli elaborati di preziose fo-glie sono gli affinatori: un Vittorio Duberti di Acqui Terme, un Carlo Fiori di Aro-na. Così tutto il mondo della capra è in grande evoluzione. Un tempo come car-ne stagionata c’erano solo i violini della Val Chiavenna, spesso rinsecchiti. Og-gi ci sono i prosciutti, finalmente prosciutti della scuola salisiana di Ploaghe,Sassari: morbidi, come un caprino. Soddisfatta, Amaltea?

(L’autore è Presidente dell’Istituto nazionale di sociologia rurale)

Il lucano RobertoRubino, uno dei piùcolti e appassionatiesperti di formaggiodel mondo,è il fondatoredell'Associazione

nazionale formaggisotto il cielo, a difesadelle produzionidi pascolo, e del premio"Caseus" per il migliorcarrello di formagginei ristoranti italiani

Sulla Strada

della Lavanda,

nell’Alta Provenza,

tra i monti Lure

e Ventoux, questo

delizioso, piccolo

borgo medievale

affondato tra i campi

di cereali e piante

aromatiche “battezza” ogni anno oltre mezzo milione

di piccole forme legate con la rafia

DOVE DORMIRE

HÔTEL DES VOYAGEURS

Place de l’Hotel de Ville

Camera doppia da 38 euro, colazione inclusa

Tel: +33 04 92 73 21 02

DOVE MANGIARE

DOMAINE DES ANDÉOLS (con camere)

D2 direzione Gordes, Saint Saturnin Les Apt

Tel. +33 04 90755063

Senza chiusura estiva, menù da 42 euro

DOVE COMPRARE

FROMAGIER JOËL CORBON

La Pourcine, Limans Banon

Tel. +33 04 92730154

Banon (Francia)Il comune più alto

della Langa astigiana

è appoggiato su una

rocca (che insieme

al torrente Ovrano

ne determina il nome)

quasi ai confini

con la Liguria.

Al di là della piccola

chiesa-gioiello del ‘200 dedicata a San Giovanni,

si estendono i pascoli

DOVE DORMIRE

L’AMACA B&B

Loc. Caramello Piandonne 16

Tel. 0144 93048

Camera doppia da 38 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

CIRIO MADONNA DELLA NEVE (con camere)

Loc. Madonna della Neve, Cessole

Tel. 0144 80110

Chiuso venerdì, menù da 28 euro

DOVE COMPRARE

ARBIORA

Casa dell’Antica Filanda, Via Consortile 18, Bubbio

Tel. 0144 850000

Roccaverano (At)Moliterno (Pz)

itinerariÈ uno dei centri

più suggestivi

della Basilicata

montana (879 metri

sul mare), incastonato

nell’alta Val d’Agri,

vicino al Lago

del Pertusillo.

Di origine

preromanica, vanta un maestoso castello di fattura

longobarda. È zona di pascoli e di produzione casearia

DOVE DORMIRE

HOTEL MINERVA

Via Valinoti Latorraca 11

Tel. 0975 67900

Camera doppia da 77 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

AGRITURISMO AIA DEI CAPPELLANI

contrada Maurino, Trecchina

Tel. 0973 826937

Senza chiusura estiva, menù da 18 euro

DOVE COMPRARE

FORMAGGI ANGIOLA AGRELLO

Contrada Tempa del Conte

Tel. 0975 67454

PoulignySaint-PierreUn nome da Tour,

per il caprino a forma

di piramide tronca

della valle della Brenne.

Profuma di landa

e lupinella, ben presenti

nel formaggio, insieme

a paglia e nocciola

Isabel AllendeIl piacere carnale più intenso, goduto senzafretta in un letto clandestino, sa di baguette,

prosciutto, formaggio francese e vinoda Afrodita. Ricette, racconti ed altri afrodisiaci

Edizioni Feltrinelli

FRANCESI

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le tendenzeConsumi di ritorno

Trionfo di computer, e mail, sms, palmari. E ancora,blocco demografico e scuole svuotate. Eppure le aziendeche producono biro e stilografiche non conoscono crisi,anzi rilanciano. Grazie a robuste iniezioni di hi techche rendono sempre più piacevole la scrittura manualee grazie al fascino di un gesto antico come la Storia

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

AL FEMMINILE È impreziosita da Swarovski Ici et là Crystal Special Edition di Waterman

PUNTA DI DIAMANTE Dalla collezione S.T.Dupon Diamon Head, un accessorio pregiato con lavorazione orefice

SACRO E PROFANO L’Aurora Papa è decorata da due stemmi papali, l’aquila e la croce

OMAGGIO AL PALLADIO La stilografica Signum prende il nome dall’omonimo architetto

UN BEL FUSTO Metallo bilanciato e forma esagonale per il fusto della Newton di Rotring

RASSICURANTI ROTONDITÀ Stilografica E-motion Faber-Castell, bombata e in legno di pero

LA DIVINA A cent’anni dalla nascita dell’attrice ecco la penna Greta Garbo. Di Montblanc

SCINTILLII Le quattro mani di lacca conferiscono a Latitude, di Parker, un effetto metallico

VENTI DA EST Simboli orientali decorano l’anello della penna Asia, di Aurora

UNA ROSSA SCATTANTE Aurora Lacca Style: giovane stilografica dai colori accesi

PROFILO GRECO Signum omaggia l’antica Grecia con Dorica, che prende il nome dalla forma a capitello della clip

CONCEDETEVI IL LUSSO Ricercata, con foglia d’oro. Non poteva che chiamarsi Louis Cartier Dandy

LA SIGNORA IN BLU Madame Montblanc Bohème Jewels ha placca di platino e un topazio sulla clip

PenneLe

La post-scrittura?Tutta fatta a mano

TONI MORRISONAmericana,

ha esordito nel ’70

con The Bluest Eyes.Nel’93 ha vinto il Nobel

per la Letteratura

Antica quanto la storia, assediata nel suo fortino di gloriadalla civiltà dell’immagine e della parola fuggitiva, la scrit-tura manuale resiste e osa perfino qualche sortita. L’espo-nenziale diffusione di computer da tavolo e portatili, sms,palmari e agende elettroniche, la prevalenza del parlato, iltrionfo della posta elettronica che ha causato la scompar-

sa della normale corrispondenza d’amicizia e di cortesia (per posta arri-vano solo più bollette, pubblicità e comunicazioni bancarie o giudizia-rie) non sono riuscite a condannare all’estinzione le penne e nemmenole antiquate stilografiche. Dal 2000 a oggi questi strumenti di scrittura ap-parentemente obsoleti si sono attestati sulla linea di resistenza di un fat-turato italiano stimato in circa 400 milioni di euro all’anno. E parliamodei soli prodotti di marca, che oltre alla concorrenza dell’hi tech devonoaffrontare anche quella della grande distribuzione. Il tutto malgrado il

nostro scarno tasso di natalità, che ha vuotato le scuole e de-presso la domanda di penne a basso prezzo.

Insomma, ad allungare l’elenco delle profezie sbagliate suicambiamenti indotti dall’innovazione tecnologica, insieme al-la smentita del tracollo dei consumi di carta, va anche la scom-parsa della scrittura manuale e dei suoi strumenti: penne e sti-lografiche. E non solo perché è il metodo di scrittura ancora inuso in tutte le scuole italiane. Umberto Eco, per esempio, ha par-lato nella sua Bustina di Minervadell’influenza della scrittura alcomputer sullo stile: grazie alla tecnologia il flusso dello scrive-re ha raggiunto la rapidità del flusso con cui le parole si formanonel pensiero, ma con la conseguenza di un probabile aumentodi sciatteria. Scrivere a mano invece significa difendere, fino al-l’autolesionismo, la sofferenza della creatività. È la riconquistadella lentezza in quanto riappropriazione di uno stile più sorve-gliato e ponderato, anche se gli autori che ancora usano carta epenna sono pochi e la filologia delle varianti non ha più mano-scritti pieni di cancellature e correzioni su cui esercitarsi.

Ma la scrittura manuale resiste soprattutto perché, in fondo, èpratica. Quando si devono prendere pochi rapidi appunti non siperde tempo ad accendere marchingegni e selezionare pro-grammi. Tanto più che, grazie alle iniezioni di hi tech nelle pen-ne, l’atto di scrivere è sempre più efficace e piacevole. Le macchie

d’inchiostro delle antiche stilografiche sono state eliminate dagli inchio-stri a essiccatura rapida come aveva intuito Laszlo Biro. E oggi sono mol-to apprezzati i gel liquidi e solidi, le punte di fibra, i roller, e perfino i grip(leimpugnature) ergonomici, ultramorbidi che hanno trasformato la tedio-sa fatica dell’amanuense nel sottile godimento di un fluido vergar parole.

In parallelo alle ragioni della ragione, come direbbe Pascal, resistonole ragioni del cuore. Praticità ed efficacia garantiscono la sopravvivenzadella scrittura manuale nella vita quotidiana, ma nostalgia, stile, passio-ne salvano dall’oblio anche le penne a sfera di lusso e perfino le stilogra-fiche: piccoli capolavori della meccanica con i loro serbatoi, sistemi diaspirazione e pompaggio dell’inchiostro, oggi dettagli di storia dellascrittura per collezionisti ma ieri armi per combattere la sfida con la con-correnza a colpi di innovazioni e brevetti. Come per le penne hi tech, an-che per le penne di lusso ogni anno ci sono novità. Perché la penna di pre-stigio continua a esercitare il suo fascino, conferisce importanza a ciò che

si scrive. Scripta manent, le cose scritte restano. Ma se le scrive-te a mano è come se restassero un po’ di più.

Vince la nuovagenerazionedei gelliquidi e solidi,delle punte di fibra,dei roller e dei gripultramorbidiper renderepiù piacevolel’impugnatura

AURELIO MAGISTÀ

Toni MorrisonCi sono scrittori capaci di creare direttamente su computerIo no. La mia ricerca della penna stilografica perfettaha rivaleggiato solo con la mia ricerca della parola perfetta

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SAUL BELLOWCanadese, figlio

di ebrei russi. Nel ‘76

il Nobel “per la sua

comprensione

dell’umanità”

WOLE SOYINKANigeriano, è uno

dei più grandi

drammaturghi africani

E’ stato insignito

del Nobel nell’86

CLASSICO MAI TRAMONTATO Si chiama Ipsilon, qui nella versione in resina rossa, ed è di Aurora

PER VERI INTENDITORI Pelikan Script è una stilo ideata per la scrittura calligrafica

OTTANTA CANDELINE, E UNA PENNA Per il suo ottantesimo compleanno Omas si è regalata Bologna

PREZIOSA DA TASCHINO Il decoro di Eternal Bird di Montegrappa è rifinito a mano da maestri orafi

TIRATO A NUOVO Edizione speciale dello storico Tratto Pen Fila, che compie trent’anni

GEOMETRIE Linea simmetrica per la Exception Night and Day Gold di Waterman

SCIENTIFICA Omas Imagination ha la teoria della relatività incisa a diamante su argento massiccio

ECONOMICA Compagna per tutti i giorni, Rolly Scatto Pentel è ergonomica e rivestita in gomma

INDIMENTICABILE Evoca nostalgia la Bic Cristal, icona della scrittura e prima usa&getta

PASSIONI GIOVANILI Stabilo Passion è un roller a inchiostro liquido, ideale per la scuola

CON LOGO Per i fashion victim, ecco la penna Gucci. Lavorata a mano e decorata dalla doppia G

DI RAZZA Pen of the Year Graf von Faber-Castell è rivestita dal pregiato pellame Galuchat

PER POCHI Ommage à Pope Julius II è una crezione artigianale Monblanc dedicata al Papa mecenate

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

Se la macchia sul vestito di Monica ha cambiato la storia degli Stati Uniti, ispi-rando a Philip Roth uno dei suoi romanzi più belli, la chiosa blu di ordinanza sul-la tasca delle camicie bianche degli uomini che oggi hanno quaranta, cin-

quant’anni — simbolo di un’esistenza scombinata e scapola, dove le parole l’aveva-no vinta sulle lavatrici, la poesia sulla prosaica manutenzione domestica — è stata co-me il segno dell’angelo sulla porta per una generazione di donne. L’uomo da amare,o da evitare, a seconda della direzione che intendevamo dare alla nostra vita, che vo-lessimo salvarci o rimanere per sempre invischiate nella meravigliosa inconcluden-za del distratto intellettuale. Le nostre Bic di donne, invece, allagavano il fondo dellaborsa di pelle, tatuandola per sempre. Macchie blu.

Poi, lentamente, l’inchiostro blu è uscito dalle nostre vite. Quotidiani, libri, rivendica-zioni delle Br, istruzioni dei telefonini, avvisi in bacheca: tutto è diventato nero. Per sem-plicità, credo, nero su bianco. Garanzia di inoppugnabilità, anche in metafora. Assertivie senza appello questi anni, dai quali rimpiangere un po’ la malinconia, come direbberogli inglesi, o quantomeno l’incertezza, timidezza anche del blu. Adesso la scrittura si è af-francata anche dalla carta, e le lettere sono diventate digitali, ologrammi prodotti dal fre-netico scalpiccìo dei tasti. Computer, telefonini, palmari. Di che colore sono gli sms?

Per chi ha imparato a scrivere negli anni Settanta, la penna era la Bic. L’unica, se si esclu-de lo spaventoso sigarone bianco e blu, praticamente impossibile da impugnare, che con-teneva diversi refil di diversi colori. Rosso, verde, nero, giallo e blu. Con un gesto del pol-lice, abbassando un gancetto di plastica, si potevano alternare. Ma il sigarone non servi-va a scrivere, era una specie di antistress. In classe, sotto interrogazione, il tac tac tac delgancetto era la colonna sonora dell’ansia.

La Bic, che prima di essere trasparente era gialla, chissà perché aveva una sezione a pen-tagono, o qualcosa di simile. Che detto così non significa niente, ma tra le dita era una raf-finata tortura. Lasciava tra l’indice e il medio un segno concavo, a forma di pentagono,appunto. Un’infiorescenza callosa. Quando noi donne ci ritrovavamo finalmente tra lemani le mani degli uomini con la macchia blu, ne tastavamo rapite il calletto. Ricono-scerlo, era come trovare l’amuleto al collo dell’eroe, il segno incontrovertibile del ricono-scimento, l’epifania. Chissà se agli uomini quel bitorzolo sulle nostre mani procurava lastessa emozione o lo trovavano ripugnante, rabbrividivano sentendolo raschiare controla pelle della loro schiena.

Scrivere con la Bic era faticoso, un lavoro muscolare che lasciava segni sul corpo. Ifogli scritti a Bic si potevano leggere da entrambi i lati, erano scolpiti più che scritti, lagrafia era pesante, runica. Piegava i quaderni, li accartocciava. Senza rimpianti siamopassati alla Tratto, non appena è stata immessa sul mercato. Che goduria, che legge-rezza. La Tratto è una penna docile, che prende la forma della tua scrittura dopo po-che pagine. La punta si modella, e quando la poggi sul foglio non devi fare altro cheorientarla sempre nello stesso modo. Ha un unico difetto, come tutti i pennarelli: la to-tale mancanza di impermeabilità. Provate a versare anche solo una lacrimuccia su unapagina scritta a Tratto. Si trasformerà immediatamente in un pantano, un unico mac-chione sbiadito ai lati. La storia del mondo attraverso le sue macchie.

Ah, e la rispettabilità. Se davvero dovessi dire cosa rimpiango della Bic, è la sua collo-cazione merceologica. La Bic, nei vecchi spacci ma anche nei supermercati, a differen-za di tutte le altre penne stava accanto alle lamette da barba e ai preservativi. Nell’uni-verso semantico del peccato, insomma. Il migliore, quello che mi sembra il più affine al-la scrittura.

Una macchia blu sulla nostra vitaELENA STANCANELLI

‘‘Saul BellowIn anni recenti ho fatto ritorno alla penna. La maggior parte dei miei manoscrittiè nella forma che una volta si chiamava “scrittura per esteso”

Wole SoyinkaSemplicemente non riesco a realizzare una poesiase non attraverso quel dialogo a tre:la mente, la penna e il compiacente foglio di carta

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l’incontroVite contromano

DARIO CRESTO-DINA

ROMA

«Saluta il signore». Ilbraccio del pupazzodi corda si anima al-l’improvviso. La

bocca si apre, fa «ciao, ciao» con quellavoce inconfondibile, un’eco di lava epietra pomice, e lei ride strizzando gliocchi cinesi, danzando felice della suapiccola sceneggiata da ventriloqua sul-la terrazza al sesto piano di via Naziona-le. Roma è adagiata sotto il suo sguardoe porta all’orizzonte i segni di un tempo-rale in arrivo, il vento solleva e abbassala tenda bianca della stanza da letto, unaspecie di duna sul tetto, un corvo («il miocorvino, ah ah ah», dice) precipita dalcielo tra i grandi vasi di limoni con lasfrontata sicurezza di chi sa di incrocia-re rotte casalinghe. Sembra di stare in unfilm di Kiarostami. La sospensione del-l’immagine è quasi assoluta e ciò che simuove lo fa con soggezione, ondeggian-do dentro il fantasma tremolante dellacalura che increspa l’aria.

Lei è essenziale come tutti gli oggettiche ha portato fin quassù e che la cir-condano, magrissima, una donna in fi-ligrana: niente orologio al polso, nienteanelli alle dita, due rosari laici, uno d’o-ro l’altro colorato, a una caviglia, la ma-no sinistra, sempre solo quella, che va acercare i capelli dietro la spalla e li ravviauna, due, tre volte. Si siede sul divanobianco, le gambe unite come un soldatosull’attenti, la schiena diritta, il mentoproteso come nelle fotografie nude etanto amate di Angelo Frontoni.

Un budda senza peso, in qualche mo-do svestita, anche adesso, mentre cele-bra la sua assenza dal mondo nostro fat-to di carne e sudore e sangue, un’astra-zione non si sa bene fino a che puntoinaccessibile. «Il tempo non esiste», di-ce. «Quando cominci a ragionare in ter-

era andata a Londra. Non ha mai volu-to figli, «i figli sono un atto di egoismo, imiei figli sono il mio pubblico», ne im-maginò uno con Gordon Faggetter, maerano troppo giovani o troppo pazzi,fantasticarono per un po’ di portarseloai concerti nella culla attaccata alla bat-teria di lui, poi lasciarono perdere e for-se fu meglio per tutti, anche per il bebémai procreato. Quattro mariti, altrequattro storie importanti, l’ultima fini-ta pochi mesi or sono. Adesso è single.Non ha un’alta considerazione degliuomini di oggi, ci commisera: «Avetementi piccine, vi siete fatti distruggeredalle donne, senza ottenere nulla incambio. Così la maggioranza di voi sitrova a essere totalmente rincoglionitao insopportabilmente gelosa». Non vaal cinema, «troppi spifferi», eppureama i film americani che si proietta incasa. Da quasi dieci anni non guarda igiornali, «sono ogni giorno uguali al

mine di anni, ma anche soltanto di ore,finisci inevitabilmente per alzare unabarriera che ti tocca poi scavalcare, enon sai la fatica. Due ore fa. vent’anni fa.Non lo dico mai, non esiste il passato perme, contano soltanto il presente e il fu-turo. Odio sentire la sgradevolissimasensazione della vita che ti si attacca, vo-glio passarci attraverso, alla vita. E nonvoglio impermeabilini contro la piog-gia, preferisco infradiciarmi dalla testaai piedi».

Nicoletta Strambelli è nata il 9 aprile1948. Ha cinquantasette anni. Non è piùuna ragazza. «Lo so». E non è più neppu-re la ragazza del Piper: «Era ora, menomale». Spinge l’aria davanti a sé con ipalmi aperti come per allontanarne il ri-cordo. E non è più tante altre cose. Un’i-cona, per esempio, la chiamavano divi-na: «Oggi tutto è un’icona, troppo faci-le». O un simbolo della trasgressione:«Fino ai trent’anni puoi fare di tutto. Do-po, il tutto diventa un rischio, non riescipiù a ripulire il tuo corpo». Prendiamo ilsesso: «Arriva il giorno in cui bisogna di-re basta. Non concepisco il sesso da vec-chi, per me il sesso è anche estetica. Asettant’anni ci dovrà ben essere qualco-sa di diverso dal sesso tra un uomo e unadonna». Prendiamo la droga: «Qualchecanna, ogni tanto. Basta con il resto daun sacco di tempo. Mai provato l’eroina,per quella roba lì bisogna esserci porta-ti. Voglio dire che purtroppo devi averladentro la testa». Accanto al divano hauna bottiglia d’acqua minerale, più tar-di offrirà fette d’anguria, quasi a confer-mare ciò che ha appena detto, il suo sa-lutismo in età matura...

Le parole sono un bisturi, scarnifica-no il pensiero fino all’osso: «Non sonomai andata a votare, una volta dissi cheProdi mi faceva vomitare. Esagerai,chiedo scusa adesso, ma continua anon piacermi né mi piace Berlusconi.Rappresentano la mediocrità assolutaal potere. La verità è che mi fa orrorequesto paese: troppi partiti, quanti so-no adesso? settanta? novanta? almenosi dividessero semplicemente in con-servatori e progressisti, che sono anchedue belle parole. Troppa ideologia,quando l’ideologia è finita in tutto il re-sto del mondo, troppa politica mentreuno Stato dovrebbe essere ammini-strato come una casa. E ancora: scarsosenso civico, figuriamoci, abbiamo unpremier che invita a non pagare le tas-se e a lavorare in nero; scarsissima vo-cazione internazionale e, infine, pocosenso dell’umorismo. Ci sarebberosufficienti motivi per fuggire, e inveceresto qui perché questo è un posto sco-modo dove vivere, perché è una sfida, eperché voglio vedere se i ragazzi che og-gi hanno tra i sedici e i vent’anni saran-no capaci di migliorarlo. Qualcosa midice che loro ce la faranno. I trentenni,invece, non valgono nulla».

Patty Pravo ha avuto quattro mariti,il primo a 17 anni, quando aveva da po-co lasciato a Venezia la nonna che l’a-veva iniziata alla musica e alla danza e

giorno prima, noiosi e scritti male». Quest’estate sta leggendo qualsiasi

cosa trovi di Truman Capote, L’illusio-ne della finedel sociologo francese JeanBaudrillard, il Demostene e Cicerone diPlutarco e Il governo dei filosofi di Pla-tone. La sua casa è piena di carte, foglidi quaderni, appunti, strane sottoli-neature, punti esclamativi e interroga-tivi. Ha l’ossessione della parola, nonscrive al computer ma su una vecchiaOlivetti Lettera 32 che si è fatta regalareda un’amica dopo che la sua le si era in-chiodata per sempre.

Non canta, se non quando deve can-tare, trascorre molti pomeriggi al pia-noforte: «Il vero musicista è colui chescrive musica e testo, gli altri sono canta-storie. Io non ho bisogno di cantare, lanatura mi ha dato uno strumento perfet-to, la voce, che non devo nemmeno alle-nare. Ho invece bisogno di scrivere». Dibuono vede poco in giro: siamo ancora aVasco Rossi, De Gregori, Paolo Conte,Zucchero, qualcosa, appena qualcosa,acconsente con una smorfia gentile, diJovanotti, «soprattutto perché è difficilefare rap in italiano, e lui rivela coraggionel farlo». Nicoletta adora le canzoni de-gli anni Sessanta, «ci sono pezzi bellissi-mi», e il vecchio repertorio napoletano,«culla della nostra musica».

È quasi sera e i tetti di Roma sono di-ventati più morbidi, quando Patty Pra-vo si addolcisce a sua volta, ripone il col-tello, e svela l’altro lato di sé, lasciandotilì a ascoltarla soggiogato — o rincoglio-nito, ti viene il sospetto — dalla sua vocedi cobra, dalle mani che disegnanotraiettorie lisergiche, dalle discese e dal-le risalite della sua narrazione, dalle ri-sate che esplodono improvvise. «Ho bi-sogno di ridere molte volte al giorno, ri-do per cose tragiche. Non sono mode-sta. Sono consapevole. Ho capito che sa-pevo cantare solo tre o quattro anni fa.Mi piace il mio corpo androgino, avevo15 anni quando mio padre a uno che glichiedeva se ero davvero una femminadisse di toccarmi sotto per vedere se ave-vo o no le palle e lo minacciò di buttarloin un rio se ci avesse provato sul serio.Non sopporterei di avere le tette grosse,quando vado a correre me le schiacciocon le mani, così, per non sentirle sob-balzare. A cinquantasette anni sono an-cora bella, poserei di nuovo nuda per lacopertina di un disco. Sto bene, nonprendo medicine, solo l’aspirina che èun farmaco totale. Aspetto i sessanta perla prossima metamorfosi, i miei ciclivanno di dieci anni in dieci anni. Non houn grande ego, sono pigra. So fare beneil niente. Credo nell’amicizia, non so de-finire l’amore ma ho amato tanto e qua-si ogni giorno ho momenti d’amore ver-so gli altri. Non sono bugiarda, ma se micapita di esserlo le mie bugie non sonomai piccolissime, semmai m’inventoqualcosa di clamoroso e affascinantecome l’amore appunto. Sono attentasempre, anche se sembro svagata e as-sente. A Roma faccio spesso l’autostop,mi caricano soprattutto quelli con i fur-

goncini del Dhl, l’altro giorno mi ha ri-portato a casa uno con il motorino,quando siamo arrivati qui sotto mi fa:“Signò, sono il suo macellaro”. Con il ca-sco non l’avevo riconosciuto. Questacittà è meravigliosa, è un parco giochi. Avolte sto via sette, nove mesi l’anno, va-do nei deserti, in Cina, in Africa, in SudAmerica, ma alla fine torno qui».

Si alza, s’affaccia sulla terrazza, indicaun tavolo di pietra rotondo: «È un tavolodi Lorenzo Papi, ci parlo da quarant’annie lui parla a me. Parlo con gli uccelli, par-lo con le piante. Credo nella materia e nel-l’energia, nella luce che ognuno di noi hadentro di sé, una luce che sopravviverà al-la nostra morte perché essa non può mo-rire. Non credo nel dio delle religioni. Hafatto una quantità di disastri. Magariavessi la certezza dell’esistenza di uncreatore, un bel signore con la barba bian-ca che sta a pensà ai cazzi nostri. Ma va. Sec’è un disegno divino è nella materia, dioè il tutto, questa grande spirale che ci ab-braccia. La magnificenza è nella natura eio sono un animale».

Mi spiega che lei «sente» la vita, siaquella che ha davanti sia quella appenaperduta. «Mentre vivo mi accorgo chec’è una parte di me che se ne va, che pas-sa da un’altra parte. Non ho paura del fu-turo che si restringe. Prima della finespero che avrò un po’ di tempo da tra-scorrere in solitudine e un posto dove la-sciarmi spegnere con buon gusto, sensi-bilità e ancora qualcosa in cui credere.Ci sono due età durante le quali bisognaessere tutelati: quando si è bambini equando si è vecchi. È la sola regola che ri-corderò a chi mi sarà vicino».

Fuori il corvo si esibisce in un’altra evo-luzione, arpiona uno sperone che escedal muro e inclina il collo a cercare la pa-drona di casa, lei gli dice qualcosa in unalingua sconosciuta. Le domando che co-sa avrebbe voluto essere se non fosse di-ventata Patty Pravo. «Avrei voluto essereuna donna pericolosa», risponde. Ma co-me, non lo è stata? «Non abbastanza».

Io non credo nel diodelle religioni.Credo nella materiae nell’energia,nella luce che ognunoha dentro di sée che sopravviveràalla nostra morteperchénon può morire

È magrissima, androgina, essenziale:una donna in filigrana, un buddasenza peso. La “Ragazza del Piper”ha 57 anni, voce di cobra, idee limpidee usa le parole come un bisturi.

“Il tempo non esiste -dice - per me contanosolo presente e futuro.Odio la sensazionedella vita che ti siattacca. Voglio passarciattraverso alla vita,e non voglioun impermeabile

per scansare la pioggia, preferiscoinfradiciarmi dalla testa ai piedi”

Patty Pravo

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 4 SETTEMBRE 2005

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