il corpo tra soggettivitÀ e alteritÀ · radicalmente e perennemente divergenti? esiste davvero...

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1 IL CORPO TRA SOGGETTIVITÀ E ALTERITÀ 1. PREMESSA 2. DUE ASPETTI DELLA TRADIZIONE CULTURALE OCCIDENTALE 3. IL CENTRO DI SOGGETTIVITÀ 4. LA DISSEZIONE E IL METODO ANALITICO 5. L’INVERSIONE DI TENDENZA 6. L’ACCOPPIAMENTO STRUTTURALE 7. COME SI COSTITUISCE L’ACCOPPIAMENTO STRUTTURALE 8. DARWINISMO, DARWINISMO NEURONALE, BIOLOGIA EVO-DEVO 9. LA MENTE FUORI DALLA MENTE: LA SCRITTURA E IL LINGUAGGIO 10. INTEGRAZIONE CON OGGETTI ESTERNI 11. PERCEZIONE, FUNZIONE A CAVALLO TRA INTERNO ED ESTERNO 12. UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI: GLI AVATAR CHIRURGICI 13. INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI: L’ESEMPIO DI ALTRI AVATAR 14. LA PERCEZIONE HAPTIC REMOTA 15. ADATTAMENTO A/INTEGRAZIONE CON DISPOSITIVI PERCETTIVI 16. INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI 17. IL POSTUMANO 18. PROTESI SENSORIALI 19. PERCEZIONE STRUMENTALE E SENSAZIONE DOLOROSA 20. BIOLOGIA E MEMETICA 21. MEMETICA 22. I NEURONI SPECCHIO 23. PROSSEMICA 24. LA MENTE CALCOLA E RICORDA USANDO E VIRTUALIZZANDO DISPOSITIVI CONCRETI 25. IL SÉ BIOLOGICO 26. IL DISTACCO DEL “SÉ MENTALE” DA QUELLO CORPOREO E MONDANO 27. I QUADRI TEORICI DI RIFERIMENTO 28. COMPORTAMENTO IMMEDIATO INTERATTIVO, IMMEDIATE INTERACTIVE BEHAVIOR (IIB)

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IL CORPO TRA SOGGETTIVITÀ E ALTERITÀ 1. PREMESSA 2. DUE ASPETTI DELLA TRADIZIONE CULTURALE OCCIDENTALE 3. IL CENTRO DI SOGGETTIVITÀ 4. LA DISSEZIONE E IL METODO ANALITICO 5. L’INVERSIONE DI TENDENZA 6. L’ACCOPPIAMENTO STRUTTURALE 7. COME SI COSTITUISCE L’ACCOPPIAMENTO STRUTTURALE 8. DARWINISMO, DARWINISMO NEURONALE, BIOLOGIA EVO-DEVO 9. LA MENTE FUORI DALLA MENTE: LA SCRITTURA E IL LINGUAGGIO 10. INTEGRAZIONE CON OGGETTI ESTERNI 11. PERCEZIONE, FUNZIONE A CAVALLO TRA INTERNO ED ESTERNO 12. UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI: GLI

AVATAR CHIRURGICI 13. INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI: L’ESEMPIO DI ALTRI

AVATAR 14. LA PERCEZIONE HAPTIC REMOTA 15. ADATTAMENTO A/INTEGRAZIONE CON DISPOSITIVI PERCETTIVI 16. INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI 17. IL POSTUMANO 18. PROTESI SENSORIALI 19. PERCEZIONE STRUMENTALE E SENSAZIONE DOLOROSA 20. BIOLOGIA E MEMETICA 21. MEMETICA 22. I NEURONI SPECCHIO 23. PROSSEMICA 24. LA MENTE CALCOLA E RICORDA USANDO E VIRTUALIZZANDO

DISPOSITIVI CONCRETI 25. IL SÉ BIOLOGICO 26. IL DISTACCO DEL “SÉ MENTALE” DA QUELLO CORPOREO E MONDANO 27. I QUADRI TEORICI DI RIFERIMENTO 28. COMPORTAMENTO IMMEDIATO INTERATTIVO, IMMEDIATE

INTERACTIVE BEHAVIOR (IIB)

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1. PREMESSA Prima di entrare nello specifico della soggettività e dell’alterità riferite al corpo, occorre considerare in generale che riferirsi a sé è intuitivo e universale. Corollario è che ci sia qualcos’altro oltre a sé, qualcosa, appunto, di altro, di ulteriore. Stabilito che i “territori” sono due, il problema è quale sia il confine o, a monte, se ci sia un confine… Ammesso che ci sia, che natura ha? Quale è, punto per punto, il suo decorso? Che implicazioni e che conseguenze ha questo tracciato, questa “interfaccia”? E poi: ha dei punti di discontinuità, delle “lacerazioni”? insomma è in qualche modo “pervio”, disponibile a lasciarsi attraversare in un senso e/o nell’altro? Altro problema, e non da meno, è il rapporto tra le due “cose” a cavallo del confine. C’è simmetria? Evidentemente no, se non si ammette di poter rovesciare i termini, accettando che ciò che sta al di là del confine possa divenire un “sé” e ciò che è al di qua un qualcos’altro… Ma prima di eventuali rovesciamenti, mantenendo l’originaria asimmetria, bisogna chiedersi se ciò che sta “lì fuori” e potenzialmente può “invaderci” o “contaminarci” in qualche modo, abbia valenza positiva, di hospes (ovvero di ospite, con il quale si può stabilire un confronto, mostrare accoglienza, aspettarsi un arricchimento, stabilire una relazione dialogica o dialettica…), o negativa, di hostes (che costituisce pericolo, minaccia, che è avverso al proprio interesse, le cui dinamiche sono lesive o sottrattive nei propri confronti e che quindi ci costringe ad arginarlo fuori, ad assumere atteggiamenti di difesa o di aggressione…). Per dirla in una parola: l’estraneità è risorsa o diversità irriducibile? Il che porta a conseguenze e implicazioni ben diverse nel caso di contaminazioni reciproche. Il che può avvenire sia per una espansione del sé, sia per un ingresso di ciò che è esterno. Qualunque transizione che porti qualcosa di esterno dentro di noi equivale a una invasione, con tutto il suo carico di incognite, di pericoli e di minacce? Significa che le barriere di difesa non sono garanzia di ordine, ordine inteso come separazione e persistenza di tale separazione? Insomma il sé perde la sua purezza? O piuttosto ciò che entra può farlo per portare un contributo di risorse, un arricchimento di opportunità e di esperienza? È questa la dialettica “hostes”/“hospes”, la forbice che si apre tra le due possibilità, rispettivamente angosciante ed entusiasmante, della violazione dei confini del sé, dell’irruzione del mondo dentro di noi. Ma il problema è più a monte: ha senso parlare di confini del sé, del continuum di questa linea di demarcazione che, come un Giano, guarda in due direzioni che non si incontreranno mai, radicalmente e perennemente divergenti? Esiste davvero questa linea e, soprattutto, esiste ciò che racchiude? E ciò che tiene fuori? Pur senza aprire le porte a questioni di puro nominalismo, occorre dire che la concezione del “dentro-fuori” va radicalmente rivista, per ridefinire le due parti e soprattutto i rapporti tra esse. In breve, la visione della cesura dentro-fuori, della categorizzazione sé/non-sé, ha una natura culturale, radicata e motivata finché si vuole, magari anche efficace a scopi pratici e teorici, ma pur sempre figlia di scelte di parte, frutto di una costruzione fra le molte possibili. L’ultimo scorcio del Novecento ha visto l’affermarsi di concezioni filosofiche e scientifiche che mettono fortemente in discussione tale dualismo, che dissolvono e lacerano la famosa linea di demarcazione, che spostano i baricentri delle due parti, fino a farli talvolta traslare oltre quel confine. Il confine diviene luogo di scambio, di transazioni, di connessioni… Il mondo può trovarsi dentro di noi, essere parte di noi, il sé può estendersi fino a comprendere il mondo, travalicando e trascendendo i propri limiti. Ma perché tutto questo sia possibile occorre passare attraverso il corpo, vedere come e quanto il corpo fa parte di questo sé, lo costituisce dall’interno.

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2. DUE ASPETTI DELLA TRADIZIONE CULTURALE OCCIDENTALE Per capire bene i termini della questione occorre considerare due aspetti della nostra tradizione culturale: la ricerca di un centro di soggettività autoriferito e il progressivo affermarsi di metodi analitici e dissettori (propriamente e metaforicamente parlando). Iniziamo dal primo dei due.

3. IL CENTRO DI SOGGETTIVITÀ Il problema si pone in particolare per la cultura occidentale perché ha sviluppato il centro di soggettività in modo assolutizzato,esasperando la divisione e la differenza sé/altro. Il sé, che si presenta come una concrezione coagulata attorno al suo nucleo, al suo centro, è il luogo della coscienza, dell’identità (con se stessi) e della differenza (rispetto al mondo). Per svolgere questo ruolo si sforza continuamente di liberarsi di scorie e zavorre che lo legano alla contingenza delle cose, nonché alle cose. La libertà viene cercata recidendo i legami di implicazione con tutto questo, cioè con il mondo e, inevitabilmente, con il corpo, che nel mondo (cosa tra le cose) è immerso inestricabilmente. Al corpo, che pure ci riguarda, viene concesso di appartenere a noi, ma si deve accontentare di stare a guardare (e di essere guardato) da fuori della linea che il sé, la coscienza, traccia attorno al proprio territorio, a ciò che si sente di essere. La cultura occidentale ha tracciato, praticamente sin dalle sue origini, una divisione tra mente (o anima) e corpo, segnando profondamente la concezione dell’uomo in senso dicotomico. E con la divisione di corpo e mente è arrivata anche la gerarchizzazione tra i due, assegnando alla seconda una posizione privilegiata. I tentativi portati dalle posizioni materialistiche hanno prodotto solo transitori (e forzati) rovesciamenti della gerarchia, creando equilibri instabili che non sono riusciti a togliere forza al dualismo corpo-mente o corpo-anima. Per quanto tali posizioni assumessero talvolta i toni di un monismo eliminativo nei confronti della controparte, hanno dovuto comunque, nel tempo, fare i conti con gli aspetti più profondi della nostra cultura, la quale, dell’anima o della mente, in una qualche forma, proprio non riesce a fare a meno, tanto che se viene buttata fuori dalla porta, la fa rientrare dalla finestra. E questo anche e soprattutto perché l’innegabile, l’insopprimibile esperienza del sé, dell’autocoscienza, della soggettività, in particolare a partire dal XVII secolo, è un ospite ingombrante e scomodo da collocare. A tal fine è elettivamente l’anima o la mente o, comunque la si chiami, la parte per così dire “immateriale” dell’essere umano, a fornire una collocazione o un supporto alla soggettività. Merita di essere considerato il sensismo, che compare a tratti nella storia del pensiero occidentale: se ne rintracciano le origini in Protagora, ricompare negli stoici e negli epicurei, lo ritroviamo poi nel pensiero rinascimentale, come pan sensismo magico-naturale di Bruno e, ancora mutato, in quello sei-settecentesco di Locke e Condillac. Dall’ottocento il garante primario dell’oggettività non sono più l’organo e la funzione sensoriale, ma lo strumento: il dispositivo meccanico, artificiale, sostituisce quello biologico, naturale. Nel sensismo è la funzione intellettiva, conoscitiva, rimane tale, è solo obbligata a passare dal corpo per giungere al mondo (o alla verità, che è un po’ la stessa cosa). Il corpo si deve immergere nel mondo, deve subirne l’impatto, perché omogeneo ad esso, fatto della stessa materia e in virtù di ciò è capace di prendere da esso mondo informazioni, contenuti e quant’altro per porgerli all’intelletto che li fa propri, e può usarli perché garantiti dal “marchio di provenienza”… A dire “io” è ancora una volta l’intelletto, di cui il corpo è propaggine, strumento e condizione per la propria attività. Non a caso Locke dirà «Nihil est in intellectu, quod non prius fuerit in sensu» (Saggio sull'Intelletto Umano, Libro II, Cap. 1, § 5) e altrettanto non a caso Leibniz poco dopo puntualizzerà:«excipe: nisi intellectus ipse» (Nuovi saggi sull'intelletto umano, Libro II, Cap. 1, §

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6), come dire: il principio primo di conoscenza, astratto dal mondo e autoreferenziale, non può essere tagliato fuori o messo nell’angolo, il dominio dei sensi non copre tutto il conoscibile. Il sensismo non coincide affatto con il materialismo: il corpo è materiale e accede al mondo in quanto materiale, ma questo non esclude un’ulteriorità dove si svolgono i giochi della conoscenza. L’intelletto, l’anima, Dio sono fatti salvi anche dallo stesso Condillac che assegnava al tatto (un senso di prossimità) una funzione decisiva per l’esser vivo oltre che un soggetto conoscente. Un altro itinerario storico ci porta a considerare che a partire dall’ellenismo e dall’antropologia cristiana inizia il vero e proprio viaggio dentro se stessi, ma è dal basso Medio Evo in poi che inizia gradualmente ad emergere l’attenzione per l’individualità-soggettività del singolo (si pensi a cosa ha significato in tal senso la pittura di Giotto…), un’attenzione in cui anche il corpo ha il suo gioco: dal corpo-ostacolo o corpo-prigione di platonica memoria, adesso si è passati a un corpo-finestra. Se lo si sa attraversare non solo non è opaco impedimento, ma è aiuto per trovare e “vedere” l’anima. Questa tendenza si conferma e si accentua nei secoli che portano alla modernità. È un trionfo del corpo, è vero, ma di un corpo strumento dell’anima, funzione dell’anima, secondo un’asimmetria irreversibile, di una corpo che non brilla mai di luce propria: così come è attraversato in direzione centripeta dallo sguardo esterno di chi lo osserva, altrettanto sfugge dall’interno il rifulgere dell’anima in direzione centrifuga, così il corpo non è mai origine o fine, ma solo luogo di incrocio e di scambio di cose che non lo riguardano direttamente. Descartes dà un contributo decisivo alla svolta in senso introspettivo e soggettivante della cultura occidentale (si pensi anche alla svolta impressa in tal senso dalla logica di Port Royal…) e si dà pena di porre sullo stesso piano, omogeneo o quantomeno simmetrico, la res extensa e la res cogitans. Ma la simmetria non regge, perché il corpo è e rimane passivo, misurabile ma mai “misurante”, pensabile e pensato ma mai pensante: porta su di sé lo stigma di una passività e di una oggettività non redimibile: lo iato non è ricucibile. Quello che per Leibniz è un modo di conoscenza (l’intelletto che conosce se stesso) accanto ad un altro (i sensi che permettono all’intelletto di conoscere il mondo), per Descartes è l’unico possibile se si vuole avere una garanzia assoluta di affidabilità. È questa la tendenza che segna la deriva storica (con alterne vicende ma sempre univocamente orientata) del corpo e della sua incapacità di assumere la titolarità della soggettività. Con un balzo che omette cose di non poco conto, giungiamo al Novecento, un secolo davvero interessante da questo punto di vista. Complessivamente pare di assistere all’allargarsi di una forbice che, se da una parte vede il corpo oggettivato in pratiche e concezioni senza precedenti, dall’altra vede anche tentativi di recuperarlo in una visione integrata dell’uomo, tentativi che, se non rimuovono, almeno mettono veramente in discussione la vecchia dicotomia. Si diceva oggettivazione senza precedenti perché mai come nel Novecento il corpo è stato rappresentato, indagato, osservato, studiato, trasformato grazie a tecnologie di ogni tipo, tecnologie che segnano proprio il XX secolo. Madre di tutti i media tecnologici è stata la fotografia e soprattutto il suo uso più accessibile e diffuso a partire dalla metà della seconda metà dell’Ottocento. La macchina guarda, ritaglia un pezzo di mondo, ne registra con precisione e completezza la memoria. Non a caso il dispositivo attraverso cui guarda il mondo e ne acquisisce l’immagine si chiama “obiettivo”. I sensi umani, meramente biologici, materiali sì, ma soggetti a fluttuazioni e bizzarrie tipici di tutto ciò che vive e si trasforma, abdicano a favore del congegno inorganico. È vero che è l’uomo a farlo, ma è anche vero che a tal fine usa una materia che è eterogenea alla propria, il metallo, il cristallo dell’ottica, e, una volta fatto, tale congegno è qualcosa di totalmente diverso da sé: nessun umore, nessuna influenza di emozioni, nessun processo trasformativo lo può turbare. Di ciò che è meccanico, fisico, ci si può (ci si deve) fidare. E l’obiettivo (all’inizio della sola macchina fotografica, ma via via di tutti gli altri strumenti di registrazione) l’uomo lo rivolge anche, anzi soprattutto verso il proprio corpo. “Sbattuto in prima pagina” concretamente e metaforicamente da una pletora di media che hanno usato e abusato delle loro potenzialità realizzative, replicative e diffusive per raffigurare il corpo in ogni modo e con ogni scopo, messo in trasparenza da radiografie, ecografie, scintigrafie, risonanze

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magnetiche e quant’altro, visto e conosciuto fin nei più minuti recessi grazie a una microscopia e una biochimica che hanno raggiunto livelli straordinari, classificato e identificato grazie a una biometria in grado di “etichettare” ogni essere umano del pianeta, manipolato nella sua morfologia e fin nel codice chiave della vita da chirurgia, microchirurgia e ingegneria genetica e via dicendo, il corpo ha subito una trasformazione profonda, massiccia e capillare, che, se non ha mancato di portare anche ricadute positive in termini di sicurezza e salute, ha sicuramente segnato il suo statuto in senso oggettivante. Ma il Novecento non è, per il corpo, tutto qui. Lo straordinario sviluppo delle neuroscienze che, nel volgere di un secolo, hanno ribaltato ed esteso iperbolicamente le conoscenze sul S.N. umano, ha sicuramente contribuito a riavvicinare (anche se non in linea retta e non senza ostacoli) il corpo e la mente: al di là delle visioni emergentiste, non unanimemente condivise e in parte superate, la correlazione tra il cervello (un organo di carne, cellule e molecole) e la mente (come sistema in grado di produrre ed elaborare conoscenza) ha acquistato sempre più forza e ragion d’essere. Altri segnali in questa direzione giungono dagli ambiti della conoscenza più disparati, anche se mai casuali. L’estetica del Novecento recupera in modo più pieno, come costitutiva dell’atto percettivo e dell’attribuzione del giudizio, proprio la dimensione corporea, la fisicità del rapporto con il mondo, in linea con il programma inscritto nel suo nome: “aesthesis” come ricezione di impressioni materiali. Dagli esordi settecenteschi della teorizzazione moderna dell’estetica, di baumgarteniana e kantiana memoria, senza dubbio altri passi decisivi si sono aggiunti. Anche in forme di espressione artistica come la danza le tensioni idealizzanti lasciano il posto a contaminazioni corporee e ponderali sempre più marcate: il percorso segnato dalla danza moderna, contemporanea e jazz, pur partendo dalla danza classica, è giunto ben lontano in tale direzione… Passando al piano della scienza e della filosofia, se non il comportamentismo (che cerca di liquidare la mente riducendola a metafora e imboccando così un vicolo cieco…), sicuramente la fenomenologia (insieme a certe sue derive) si dà un gran daffare a ridisegnare il perimetro entro cui collocare la soggettività, un perimetro entro cui trovano cittadinanza corpo e mente. Ma il potere (o la malattia) dell’oggettivazione, così tipico della cultura occidentale, pare proprio non sia eliminabile. Mentre il corpo e la corporeità riguadagnano terreno nella costituzione della soggettività umana, la stessa psiche subisce il destino di una progressiva oggettivazione. Oltre alla generale parabola della psicologia e delle psicologie (che, tenendo fede alla promessa legata alla loro stessa denominazione, tentano di inscrivere la psiche nelle dinamiche oggettivanti del logos), si constata che questo scacco tocca anche ai tentativi della stessa psichiatria fenomenologica. Il panorama è complesso e lungi dall’essere definito. Da una parte alcune scienze applicative come l’ergonomia si costituiscono a metà secolo (l’ergonomia contemporanea nasce ufficialmente a Oxford nel 1949) per ridare al corpo dignità e qualità di vita, a dispetto delle origini in cui, in ossequio all’imperativo di incrementare la produttività della nascente industria (siamo nei secoli XVIII-XIX), si studiava il modo per aumentare la resa della prestazione lavorativa dell’operaio e farla stare al passo con la macchina. La nuova ergonomia parte dal presupposto che la qualità della vita e del vissuto (soggettivo) non possa non passare dal corpo e, se esiste una linea di causalità che va dallo psichico al corporeo (la mente che controlla il corpo), ne esiste un’altra altrettanto importante che va in senso opposto, dal corporeo allo psichico: ovvero, anche il corpo è “io”. Dall’altra parte, sempre nel Novecento, una pretestuosa esposizione del corpo e tutto un insieme di attenzioni e cure (promosse dal sistema di produzione-consumo perché ad esso funzionali…), dietro un’apparente considerazione per il corpo, dietro un falso riconoscimento della sua dignità e del suo essere protagonista della scena esistenziale, ne fa in realtà un oggetto effimero e superficiale da sfoggiare, lo strumento di un gioco di vanità, di vuoto edonismo. Un corpo abusato, iperpresente, iperesposto, sotto l’incrocio di mille riflettori, lanciato nell’iperbole dello spettacolo, dell’esagerazione a oltranza, della trasgressione a tutti i costi, dello sballo: ma che non ha diritto di parola, non è soggetto di vita.

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4. LA DISSEZIONE E IL METODO ANALITICO Il secondo fattore della cultura occidentale è la predilezione pressoché universale che è stata praticamente da sempre accordata al metodo analitico: dividere per distinguere e capire, separare per poter ordinare, frammentare per affrontare in modo graduale difficoltà e problemi. Il tutto come se la realtà fosse modulare, scomponibile e ricomponibile a piacere, come se frammentare e ricomporre all’occorrenza fossero operazioni sempre consentite, neutre nei riguardi delle cose e degli enunciati che le rappresentano, come se nulla perdesse la propria natura e identità per il solo fatto di essere distaccato dal resto. Come dire: la realtà è un insieme di componenti più o meno autonomi. La prima divisione che si impone è quella tra interno e esterno, tra l’idea e la cosa materiale, tra il sé e l’altro. Metterci in mezzo una cesura, una linea di demarcazione ha permesso di considerarle separatamente, di divaricarle con una distanza che garantisse tale separazione. Il corpo, così separato dalla mente o dall’anima, non ha mantenuto la sua unità, la sua sistemicità, ma è stato a sua volta scomposto, sezionato, frammentato, atomizzato. L’anatomia, a cominciare da Galeno, ha offerto il modello per eccellenza di tale modo di procedere, almeno nella conoscenza: erano infatti soprattutto i physiologoi a usare la dissezione, che non i technitai che con il corpo, umano o animale, lavoravano. Il logos prima e la ratio poi sono stati strumenti e modi di conoscenza sempre con il coltello dissettorio in mano, coltello in entrambi i sensi, metaforico e proprio. Questo metodo viene applicato in modo sempre più incisivo soprattutto a partire dal Rinascimento e darà luogo a una stagione di grande fortuna dell’anatomia nei secoli successivi. Intersecandosi con una microscopia sempre più evoluta e diffusa, giungerà nel XIX secolo alla grande frontiera della cellula, riconosciuta come organismo nell’organismo, come replica miniaturizzata di quest’ultimo, dotata di tutte o pressoché tutte le sue proprietà. Pare quasi di avvertire un’eco, sia pure lontana e in tutt’altra veste, del preformismo di ben altri tempi… ma nemmeno la cellula sarà l’ultima frontiera dell’opera dissettoria: il Novecento con i decisivi progressi nella biochimica, indagherà tra le molecole per individuare quelle “della vita”. Il risultato definitivo sembra raggiunto con la scoperta di Watson e Crick, a metà secolo, della doppia elica del DNA. I successi nella sintesi di molecole organiche sembra suggerire che non ci siano più limiti ai poteri prometeici dell’uomo nei riguardi della vita. L’esperimento di Miller negli anni ’50 può essere letto come un successo, ma soprattutto come una chiara demarcazione tra chimica organica e biochimica. Si possono ottenere molecole organiche, ma il gran salto della “creazione” della vita a partire dai suoi componenti sembra di là da venire… Anche quando, sempre nel Novecento, con le nuove tecniche di “imaging” del corpo, quest’ultimo diviene trasparente (a partire dai Raggi X, tutta una serie di tecniche si aggiunge, dall’ecografia alla scintigrafia, dalla TAC alle termografia e via dicendo…) e l’interno diviene raggiungibile, visibile, le varie parti vengono viste distintamente, separatamente, si fa a meno della lama metallica che penetra il corpo e ne separa organi e tessuti, ma non si rinuncia all’opera di analisi. Dopo la parentesi del Medio Evo, in cui il corpo fu inscritto nel paradigma teologico (e la sua sacralità impediva approcci conoscitivi naturalistici o simili…), nel Rinascimento la dissezione ebbe un grande ritorno. Il corpo era di nuovo sulla scena, ma ben lontano dallo studioso di anatomia che osservava l’addetto ai lavori intento alla dissezione. Il corpo era un cadavere che meritava l’attenzione dell’occhio e della mente, ma da una distanza che garantiva da qualunque possibile “contaminazione”. Dissettore e chirurgo erano ben distinti e distanti dall’anatomista. Il dottore non usava le mani, tantomeno per toccare corpi e corpi malati. Anche in questo era la sua dignità e il suo prestigio. Il corpo dell’anatomista è quindi un cadavere, una cosa esposta all’osservazione, passiva, che non richiede nessuna cura e offre agli artisti informazioni per la realizzazione delle loro opere. Inizia così un processo che porterà gli artisti stessi dapprima a usare tali informazioni per costruire figure ideali, e poi, sempre di più, a “tirar dentro” l’opera quel corpo particolare, con tutti i suoi accidenti e le sue contingenze. I filtri vengono aboliti, anzi, ciò che è particolare, unico, viene enfatizzato anche a costo di infrangere la perfezione apollinea di corpi ideali, forse proprio con l’ansia di disfarsene.

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Caravaggio è un esempio potente in tal senso. La ricerca è verso il particolare e verso il transitorio: un’espressione fugace, un gesto improvviso, una posa inattesa divengono “materia” della raffigurazione artistica. Con la caratterizzazione fisiognomica si interseca quella patognomica. Siamo nel XVII-XVIII secolo. Più che il corpo ora sono i corpi ad essere sulla scena. A partire dal Rinascimento nasce il ritratto come genere, non più celebrazione o riverberazione dell’effige del sovrano o del santo, ma come lavoro di scavo introspettivo, come ricerca di una soggettività. È un corpo animato da una vita, che brilla di questa luce (sebbene non sia luce propria, ma riflessa: quella che viene da dentro, dall’anima) e che inizia ad acquisire una sua caratterizzazione, distinta da quella più propriamente naturalistica e scientifica dell’anatomista. Perché questa riconquista al mondo della vita investa il corpo degli studi scientifici occorre aspettare il XX secolo, con le tecniche di “imaging” del corpo vivo e persino in movimento. Questo apre la strada all’idea di un corpo tutto intero, a una prospettiva olistica ed ecologica del corpo. corpo che diviene trasparente, che si offre allo sguardo indagatore che non ha più bisogno di aprirsi la strada con una lama affilata, di far giacere l’oggetto delle proprie osservazioni inerte, morto, davanti a sé…

5. L’INVERSIONE DI TENDENZA È con il ventesimo secolo, in particolare nella seconda metà, che si assiste ad una massiccia e significativa inversione di tendenza rispetto ai due capisaldi esaminati: il centro di soggettività e i metodi analitici. A partire dalla metà del novecento infatti la scienza e la filosofia hanno fatto progressivamente spazio a nuove prospettive e costruito le loro strutture intorno ad altri due capisaldi: la relazione (vs l’ente) e l’intero (vs la componenzialità delle cose). Tali elementi, se non nuovi in senso assoluto, acquistano in questo periodo connotazioni e valenze originali e radicalmente diverse. L’approccio di studio inizia a privilegiare non più l’entità circoscritta e isolata, ma l’insieme dei sistemi, in cui i confini divengono sfumati e che richiedono logiche più trasversali e alternative rispetto a quelle convenzionali. Più che ciò che distingue e differenzia, si coglie ciò che accomuna, dato che le somiglianze e le analogie tra strutture diverse e dimensionate secondo scale lontanissime tra loro sono ritenute molto significative. Non sono somiglianze dovute a coincidenza o a casuale e superficiale convergenza, ma legate a ragioni che trascendono la specificità dei fenomeni in un dato ambito. Così una pittura di Pollock, una colonia batterica, una galassia o la mappa delle connessioni fisiche di una quantità elevata di router (dell’ordine di 100.000) rivelano una struttura a rete, non geometrica, rispondente in larga misura a configurazioni caotiche e/o frattali. Sono molte le coppie di termini dialetticamente contrapposti, nelle quali la prospettiva viene rovesciata. Schematizzando, potremmo dire che:

• L’ambiente diviene prevalente sull’ente. Nessun sistema può venir considerato in modo assolutamente decontestualizzato, né può venire isolato da ciò che lo circonda. Causazioni a doppio senso non sono eliminabili.

• L’esterno sull’interno. È proprio nella contestualizzazione e nelle differenze rispetto all’esterno che emerge l’identità. Nulla è di per sé se non è anche e prima per altro.

• La relazione sul soggetto e sull’oggetto. “Tertium datur”, potremmo dire. Rispetto alle due polarità alternative della soggettività in prima persona e all’alternativa complementare dell’oggettivazione e del distanziamento, una prospettiva che includa entrambe da un punto di vista non coincidente con nessuna delle due e comprendente entrambe sembra la “terza via” da percorrere.

• Il noi sull’io e sul non-io. È il corrispondente umano, particolare, del punto precedente, generale.

• Il sistema sull’elemento. Tutto ha una costituzione aggregativa: l’atomo o la monade sono sempre un po’ più in là di quanto l’analisi possa arrivare. Tutto è attraversato da linee di

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separazione che sono anche interfacce di unione, luoghi dove si genera la dialettica, le dinamiche interattive, dove di innescano i processi.

• L’intero sulla parte. Se proprio si arriva a isolare l’atomo monolitico, indiviso e indivisibile, con perfetta continuità interna, questo non è comunque un buon risultato, significa che abbiamo isolato qualcosa di parziale. Occorre attivare il percorso inverso, di riaggregazione, di ricomprensione, di ricontestualizzazione. Ciò al fine di avere di nuovo interezza, sia pur transitoria e relativa. È sempre opportuna perciò una considerazione della realtà che sia inclusiva, estesa, allargata alla totalità del sistema che la comprende, sia pure con la riserva di considerare tale estensione come relativa: l’estensione può essere sempre reiterata e considerare la totalità come parte di una totalità più estesa.

• La connessione sul nodo. Stante la presenza di una pluralità di elementi in ogni dominio di realtà, a prescindere dalla sua estensione, la natura del sistema è data dalle relazioni che tali elementi stabiliscono tra di loro e dalle dinamiche inerenti a tali connessioni. Ogni sistema ha una natura reticolare (sebbene in un’accezione estesa del termine) e le sue caratteristiche scaturiscono (emergono) dalle connessioni più che dagli elementi. Ogni nodo, poi, ha valore e funzione non in sé, ma in base alle sue caratteristiche posizionali e connettive. È nella differenza che si gioca l’identità.

• La periferia sul centro. Le correlazioni e la forza che hanno nel bilancio del sistema fanno sì che si allarghi l’attenzione in senso centrifugo a partire dal nodo. Oltre alla prospettiva che ci fa vedere il mondo a partire da un centro, si vede così il centro a partire dal mondo. È nelle frange della periferia che si gioca la definizione del centro.

• L’emergenza e la co-determinazione sulla determinazione lineare. Il rapporto tra causa ed effetto, per la natura complessa che i sistemi reali hanno praticamente nella totalità dei casi, difficilmente si presta ad essere modellizzata o rappresentata come diretta e immediata. Insieme alla causa operano molte concause, non sempre riducibili alla linearità esatta. Causa ed effetto non possono essere ritagliati nettamente sullo sfondo di un mondo che è loro indifferente ed estraneo.

• La complessità e la sfumatura sull’ordine rigido. La molteplicità dei fattori e i gradienti della possibilità del verificarsi degli eventi fanno sì che le schematizzazioni nette e le alternative duali, del tipo “tertium non datur” non riescono a cogliere la realtà dei fatti.

• L’autorganizzazione sulla catena causa-effetto. Nella catena degli eventi la concatenazione tra fenomeni precedenti e successivi difficilmente si verifica in modo meccanico e lineare, come si è già detto. Superate certe soglie di complessità (condizione tutt’altro che rara), la prevedibilità non è un calcolo esatto.

• L’omeorresi sull’omeostasi. Gli equilibri si realizzano non in corrispondenza della minima energia, ma come risultante (in continuo rifacimento) di tendenze dirette all’allontanamento dalla condizione della minima energia. L’allontanamento dall’equilibrio, ovvero l’auto-organizzazione, in un certo senso, si auto-causa, si auto-rinforza. Questo processo apparentemente paradossale viene detto omeorretico.

Non si tratta solo di un nuovo modo di affrontare l’oggetto di studio o di rivolgersi a nuovi oggetti di studio, bensì di nuovi campi scientifici, perlopiù multidisciplinari: riguardanti la complessità, le reti, etc, sempre avendo come punto di riferimento un approccio sistemico dell’insieme. In questa ottica il corpo e l’individuo non possono più essere considerati autocentrati: il loro centro può essere infatti da qualche altra parte piuttosto che nella profondità interiore e assolutamente privata. Non possiamo stabilire la collocazione delle bandiere che separano un sistema dall’altro, un soggetto dall’altro o dall’ambiente: la realtà è continua, fluida, mutevole. I confini rigorosi ci hanno fatto dimenticare che un modo diverso di comprendere la realtà esiste, come ci indicano le nuove “scienze della totalità”. Le reti, la complessità, i sistemi dinamici, i frattali, l’emergenza,

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l’autorganizzazione ci danno ormai le coordinate gnoseologiche e metodologiche della ricerca scientifica e filosofica. La vecchia rigida ontologia sta diventando sempre più debole!… La natura dei rapporti e delle connessioni che unificano o quantomeno interconnettono i sistemi rendono le distinzioni tra gli elementi di un sistema molto difficile da collocare e priva di un vero significato. La gerarchia di sotto-sistemi, sistemi, sovra-sistemi è, lo stiamo vedendo, convenzionale e non rispondente alle sfumature e alla mutevolezza della realtà La concezione dell’autocentratura dell’individuo deve essere rivista. Il corpo, in particolare, non è un sistema isolato. Da quando si forma lo zigote fino alla morte il nostro corpo e il mondo sono legati uno all’altro da connessioni attive e di natura informazionale/semiotica, al punto che il corpo può essere considerato un elemento di connessione in una rete estesa e complessa di cui fa parte La profonda e incisiva separazione tra sistema e ambiente (o tra organismo ed ecosistema, soggetto e oggetto, soggetto e umwelt, interno ed esterno…) deve essere rivista secondo una prospettiva complessiva del tutto nuova. Dobbiamo tracciare una nuova definizione di sistema, più ampia, più inclusiva, più flessibile. Il più importante organo computazionale del corpo (il cervello) non è un sistema isolato, autonomo, autoreferenziale. Recenti ricerche nel campo della cognizione radicata e incarnata (Embodied Embedded Cognition, EEC) e dei comportamenti interattivi immediati (Immediate Interactive Behavior, IIB), dell’esternalismo dimostrano chiaramente la continuità cervello-corpo e, similmente, cervello/corpo-mondo. Il corpo è un’estensione del cervello, il mondo un’estensione del corpo. questa catena costituisce un legame, una continuità in cui è difficile individuare una cesura che non sia convenzionale e abbia valore assoluto. La tradizione culturale occidentale ha privilegiato Parmenide e la sua distinzione, anzi opposizione tra ciò che è (l’essere, l’ente) e ciò che non è (il non-essere), come garanzia di verità, mettendo in secondo piano il “Tutto scorre” di Eraclito, così come la sua concezione di composizione degli opposti. La determinazione e l’isolamento delle singole entità, la loro identità, la localizzazione del loro centro, la delimitazione dei loro confini sono stati fattori che hanno guidato la scienza e la filosofia occidentali. Solo in pieno XX secolo troviamo lo sviluppo di una vera alternativa.

6. L’ACCOPPIAMENTO STRUTTURALE Possiamo considerare l’accoppiamento strutturale come un nuovo modo di intendere e modellizzare il rapporto. Nuovo tanto da costituire un importante perno di tale inversione di tendenza. L’accoppiamento strutturale (cfr. Maturana e Varela) è un particolare genere di relazione, o forse sarebbe meglio dire che è un particolare modo di studiare le relazioni… Gli AA. lo studiano a proposito del modo di legarsi e di interagire che hanno gli organismi viventi. Possiamo schematicamente definire:

► La sua natura, caratterizzata da codeterminazione o reciprocità di determinazione tra gli elementi che vi partecipano, condivisione di informazioni (secondo un modello di circolazione delle informazioni ben diverso da quello “balistico”, in cui si distingue fonte, destinatario, contenuto del messaggio…) autorganizzazione dell’insieme dei soggetti coinvolti. Non possiamo non pensare al “chiasma” di Merleau-Ponty… Inoltre, e soprattutto, come avremo modo di vedere, tale relazione ha una duplice natura, corporea (materiale) e informazionale, senza che si possa distinguere tra questi due aspetti.

► Le sue implicazioni, che rendono impossibile delineare confini assoluti tra sistemi o tra un sistema e il suo ambiente, tra causa ed effetto.

► I suoi aspetti (cfr. Tom Ziemke, 2001, 2003), che permettono di vedere la molteplicità dei modi in cui si esplica. Possiamo denominarli come fisico (relativo a fattori fisici e chimici, ovvero puramente materiali, a prescindere dalla natura organica o cognitiva del sistema),

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biologico (dato dal fatto che almeno uno degli elementi implicati ha un carattere biologico), noetico (o memetico, dovuto al fatto che almeno uno degli elementi è umano o è una realizzazione umana, con aspetti cognitivi e contenuti memetici; cfr. Vytgosky), ambientale (tra il sistema, che sia fisico, biologico o noetico, e il suo ambiente, per cui il sé e il non-sé sono vicendevolmente coinvolti), sociale (tra due o più umani), storico (è la dimensione temporale dell’accoppiamento strutturale, è il risultato della deriva storica del suo sviluppo). A noi interessano soprattutto l’aspetto biologico e quello noetico, che investono direttamente il corpo, e in modo specifico, aspetti in cui l’informazione si fa segno, la trasmissione-scambio dell’informazione stessa si fa semiosi. Ma è evidente che tutti e tre i tipi di interazione (fisico, biologico e noetico) sono sempre presenti e hanno reciproca influenza.

Nella interazione tra il nostro corpo e “altri” oggetti, esterni, sono implicati tutti questi aspetti. Il termine “accoppiamento strutturale” come la definizione comprensiva dei differenti tipi di relazioni, collegamenti, connessioni, giunzioni, interazioni etc., purché mostrino queste particolari caratteristiche. Accoppiamento strutturale non è semplicemente vicinanza, per quanto stretta, con qualcuno o qualcosa, contiguità o trasmissione monodirezionale di un effetto, ma è piuttosto il tipo di relazione che permette di spiegare, confermare o semplicemente di essere coerente con molte importanti conoscenze scientifiche, che riprenderemo più estesamente in seguito:

1. BIOSEMIOTICA (E TEORIA DELL’INFORMAZIONE). La vita è informazione e tramite la caratteristica o funzione informazionale istituisce relazioni, legami, interdipendenze, integrazioni.

2. DARWINISMO NEURONALE. Senza l’esposizione al mondo, l’immersione nel contesto le potenzialità del S.N. rimarrebbero di fatto del tutto inespresse.

3. SELEZIONE CLONALE. Il sistema immunitario aspetta il confronto con l’ambiente per poter “aggiustare il tiro”. La sua risposta non è “cieca”, ma tarata sull’ambiente.

4. FISIOLOGIA ORMONALE. Gli ormoni sono un sofisticato sistema di comunicazione e concertazione delle funzioni interne ed esterne del soggetto-organismo.

5. MEMETICA (E TEORIA DELL’INFORMAZIONE). L’informazione può essere vista a prescindere dal soggetto che la pone in essere. Conferire uno statuto ontologico relativamente indipendente ai fatti e agli oggetti che costituiscono la comunicazione è se non altro un interessante esperimento mentale di rovesciamento di prospettiva che sposta l’accento fuori dalla singolarità del soggetto.

6. NEURONI SPECCHIO. L’uomo e molti animali superiori, quando sono uno nel campo percettivo dell’altro, si rispecchiano a vicenda, facendo convergere i comportamenti e il sentire dei soggetti coinvolti.

7. PROSSEMICA E SENSO DELLO SPAZIO. Complici verosimilmente i neuroni specchio, la presenza dell’altro è funzione della posizione spaziale e della metrica delle distanza. Siamo esposti a e immersi in uno spazio che ha gradienti semantici e una geografia (mobile e invisibile, ma fortemente strutturata) del sentire.

8. PERCEZIONE HAPTIC REMOTA. Tramite espedienti di elaborazione percettiva si è in grado di “saltare” virtualmente distanze e impedimenti per percepire il mondo. Percezioni indirette divengono dirette nel vissuto di ciascuno.

9. ADATTAMENTO A/INTEGRAZIONE CON DISPOSITIVI PERCETTIVI, rispetto ai quali, quando esclusi, l’occhio (e, per estensione, qualunque recettore) diviene “naked eye”. La mancanza del dispositivo diviene condizione di incompletezza, di deprivazione, una sorta di “ellissi” a posteriori.

10. ADATTAMENTO/INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI, rispetto ai quali, quali, quando esclusi, il corpo diviene “bare body”, analogamente al caso del “naked eye” appena menzionato.

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11. CONTROLLO CORPOREO REMOTO. Quando una nostra azione ha effetto a distanza, su un “avatar” virtuale o concreto (nel primo caso si pensi alla tecnologia “Wii”, nel secondo a un robot remoto), il centro di attenzione motoria e interattiva si sposta al di fuori di noi.

12. “FUORI DI TESTA”: LA MENTE FUORI DALLA MENTE. Scrittura , strumenti di calcolo, mnemotecniche, BCI fanno sì che le facoltà mentali abbiano effetto causale e, secondo qualcuno, esistano tout-court, fuori dai limiti fisici del soggetto. La nostra mente “è” nel mondo, addirittura è il mondo… la materia “è” la mente…

Ci sono anche quadri teorici che possono costituire la cornice delle conoscenze su elencate: EVOLUZIONISMO. L’evoluzione dei viventi è sempre coevoluzione. Isolare una specie e seguirne la linea evolutiva assume spesso il carattere di arbitrarietà. Rapporti di competizione, di collaborazione, di simbiosi, tanto per citare alcune tipologie ricorrenti, legano ogni vivente agli altri, siano essi con specifici oppure no. Inoltre i fattori ambientali non organici, come suolo, condizioni meteorologiche, acque, rientrano anch’essi a pieno titolo nel bilancio evoluzionistico. L’uomo è un po’ un caso a parte: la sua facoltà di pensiero astratto, e tutto ciò che gli è correlato, come la pianificazione di strategie estese nello spazio e nel tempo a prescindere dalle reafferenze ambientali, la produzione di artefatti, cambia le condizioni della propria evoluzione, nell’accezione organica del termine. Il corpo si estende nella mente, reciprocamente a come la mente si estende nel corpo, la continuità è forte e a doppio filo. EPIGENETICA. Il mondo della biologia vede in questo secondo decennio del ventunesimo secolo, una decisiva rinascita delle concezioni epigenetiche. Già il dogma centrale della genetica molecolare era stato attaccato da più direzioni, si pensi solo alla scoperta dei retrovirus, ma adesso la capacità assoluta di determinazione dello sviluppo da parte del genoma ha perso ulteriore terreno. I geni saltatori e i retro-trasposoni possono essere inquadrati in tale ottica. FENOMENOLOGIA. Il chiasma tra soggetto e oggetto rimuove molto delle tradizionali distinzioni e delle riduzioni monistiche della cultura occidentale. CONNESSIONISMO. La reafferenza informazionale che l’ambiente fornisce alle reti neurali (comprese quelle neuronali) è fattore costitutivo del suo sviluppo e della sua strutturazione. ESTERNALISMO. Il mondo interno, mentale e coscienziale, si estende, appunto, al mondo esterno, in senso tanto fisico che cognitivo ed emotivo. EEC. La conoscenza radicata e incarnata (Embodied Embedded Cognition) spiega come e perché senza “incarnazione”, ovvero implementazione corporea e senza “radicamento”, ovvero contestualizzazione nell’ambiente, la conoscenza non solo mancherebbe di qualcosa, ma costitutivamente non potrebbe essere nemmeno tale. IIB. Il comportamento immediato interattivo (Interactive Immediate Behaviour) spiega perché si agisce in tempo reale e in modo appropriato tenendo in debito conto il contesto. La mediazione cosciente e cognitiva non è, in altre parole, necessaria, anzi sarebbe di intralcio. Il sistema nervoso modella direttamente sull’ambiente le proprie capacità di risposta. EVO-DEVO. La EVOlutionary-DEVelopmental biology apre nuove prospettive globali sulle intersezioni tra evoluzione e sviluppo. TEORIA DELLE RETI. Ogni sistema può essere visto come una rete e parte di una rete. In una sorta di organizzazione reticolare frattale tutto esiste e accade in quanto relazionato con altro. Possiamo individuare tre affermazioni principali adatte a riassumere quanto andiamo esponendo:

► Siamo inestricabilmente connessi con il mondo esterno: i trasduttori sensoriali e l’apparato esecutivo possono essere considerati una sorta di “sinapsi”, biologicamente diverse, ma funzionalmente analoghe alle sinapsi propriamente dette. Tali sinapsi improprie sono attraversate da flussi di informazioni verso l’interno e verso l’esterno. I memi non abitano chiusi dentro la scatola cranica, essi fluiscono in una continua omeorresi tra mente/cervello e corpo, tra corpo e mondo.

► Il cervello e la mente degli esseri umani si connettono una con l’altra per formare reti di diverse strutture ed estensioni.

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► Il sapere teorico (know what), il sapere pratico (know how) e gli oggetti artificiali (in senso lato) si collocano in uno stesso circolo di interazioni che consente loro di incrementarsi l’un l’altro.

L’accoppiamento strutturale è uno speciale tipo di connessione che ci fa cambiare la consueta concezione dell’essere, dell’ente, basata su una costante e sicura configurazione/collocazione dei confini tra interno ed esterno. Inoltre siamo abituati a pensare ai confini come qualcosa di continuo e facilmente visibile. Gli ultimi orientamenti scientifici e filosofici mostrano e provano che le cose stanno in modo completamente diverso. Il cervello e il soma possono essere considerati connessi uno con l’altro secondo un rapporto di accoppiamento strutturale, così che abbiamo un unico sistema “cervello-corpo” o “corpo-cervello”. Possiamo classificare questo rapporto come interno. Similmente il corpo (o meglio il sistema corpo-cervello) è connesso al suo ambiente da accoppiamento strutturale, che in tal caso è però più appropriato chiamare esterno. Strutturare un nuovo e appropriato vocabolario, coerente con questa visione completamente diversa, non sarà cosa facile… Confini sfumati o discontinui fanno dissolvere i sistemi ben definiti, contaminandoli e mescolandoli con il loro ambiente.

7. COME SI COSTITUISCE L’ACCOPPIAMENTO STRUTTURALE Sotto il nome di accoppiamento strutturale troviamo molti tipi di connessioni e relazioni, tutti con importanti caratteri in comune. In primo luogo c’è una continua interazione tra soggetto e ambiente, dovuta all’assoluta necessità di informazioni ottenibili per via percettiva e che servono a completare quelle in possesso del soggetto. Questa integrazione tra conoscenza e afferenza è continuamente operante ed è realizzata da opportune strutture cognitive chiamate “completion patterns”. Le strutture dell’ambiente esterno, gli oggetti in esso presenti sono parte dell’apprendimento, della memoria, della comprensione e dei processi cognitivi. Il soggetto ottiene informazioni dall’ambiente e dalla propria memoria-conoscenza, in modo integrato. I dati di entrambe queste fonti sono un continuum (anche se non omogeneo) usato dal soggetto per organizzare e gestire il proprio comportamento. Esplorazioni random dell’ambiente sono di solito sufficienti per fornire al soggetto quanto basta a completamento delle proprie informazioni. Nessuna azione o percezione può essere studiata come evento isolato. Soggetto e ambiente sono sempre in un circuito di interazioni. Nei processi di sviluppo, evolutivi, di apprendimento mente/cervello/corpo e oggetti/ambiente sono ugualmente importanti. Si veda in proposito il principio di Vogel per il comportamento biologico che è estensibile ai processi cognitivi. Usare l’ambiente come fonte di dati ci permette di risparmiare energie, tempo e altre risorse, oltre che offrirci opportunità. Il nostro corpo, con i suoi recettori e il suo apparato motorio, è un sistema sinaptico che ci connette al mondo. Il centro di questo sistema esteso non è certo nel soggetto e forse non si può parlare nemmeno di un centro in senso stretto. Come in ogni interazione multipla, complessa, ogni elemento ha la sua particolare importanza e contribuisce all’emergenza di diverse proprietà: poche regole locali generano un’organizzazione globale oltre le ovvie previsioni. Nel nostro cervello non c’è un homunculus, un “fantasma nella macchina”, non c’è una descrizione testuale, come potremmo intuitivamente immaginare, ci sono solo strutture capaci di interagire con il mondo. Il cervello e una macchina associativa, capace di usare l’interazione con oggetti esterni e ambiente per mezzo di appropriate computazioni di completamento (ad opera dei completion patterns) o per mezzo di individuazione di posizioni in spazi di stato. Strumenti computazionali di natura concettuale e concreta (per esempio, rispettivamente, delle regole matematiche o un abaco) sono un’estensione del sistema mente/cervello che ci fornisce supporto e ripartizione dei compiti.

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Nonostante ciò, non siamo obbligati ad usare sempre questi aiuti esterni. come accade nelle mnemotecniche o nelle computazioni mentali. Cioè si può virtualizzare tali aiuti. Ciò accade in virtù del fatto che impariamo ad usare modelli mentali che simulano l’interazione concreta con un mondo concreto, e ciò è sufficiente a permetterci tale ”autonomia” della mente. Si tratta di una situazione condizionata e provvisoria, sebbene non ci siano “scadenze” necessarie. (cfr. anche Lev Semënovič Vygotskij) È il mondo che diviene parte del sistema cervello/corpo o è il cervello/corpo che si estende verso il mondo esterno? Entrambe le descrizioni sono giuste: la ragione umana è propriamente una “macchina distribuita”: noi siamo parte del mondo e il mondo è parte di noi. Siamo connessi al mondo!!!... La nostra “macchina del pensiero” non è limitata dentro la scatola cranica, il nostro sé non è relegato dentro la nostra pelle.. L’interazione corpo-mondo rende possibili due tipi di emergenza:

► Diretta (o interna), in cui le caratteristiche individuali (e le loro reciproche interazioni) sono primariamente importanti.

► Indiretta (o esterna), in cui l’influenza ambientale è il fattore dominante. In entrambi i casi l’interazione tra fattori controllati e incontrollabili determina la (graduabile) variabile collettiva ed è difficilmente spiegabile con i modelli componenziali perché molti di tali fattori appartengono allo spazio tra il soggetto e il mondo, cioè a quell’interstizio che ha una sua estensione (e non è propriamente una linea senza spessore), a quell’intersezione che sfugge a regole di appartenenza univoca secondo la dualità esterno-interno. I collegamenti al corpo e al mondo non necessariamente devono essere pieni e continui, essi possono talvolta essere sostituiti in modo virtuale, come si accennava. Comunque entrambe le situazioni estreme (la totale dipendenza dall’esterno o l’assoluta chiusura) non sono ottimali: nel primo caso dipendiamo pericolosamente dall’ambiente e siamo alla sua mercé; nel caso opposto, invece, decontestualizziamo le nostre azioni, le rendiamo goffe, cieche, inappropriate. L’ottimale è quindi tendere alla composizione dialettica (di alternanza o integrazione) di uso/non-uso delle reafferenze, similmente a quanto accade nei processi biologici di maturazione/sviluppo di un organismo: esso è influenzato sia dalla determinazione genetica che dalla pressione ambientale. Ma questo non è un conflitto di tendenze opposte: entrambe le componenti sono qui necessarie e complementari: l’informazione genetica non codifica per tutto, molte opportunità, molte scelte sono delegate a fattori ambientali. Lo sviluppo produce una evoluzione che è qualcosa di più e di diverso di una rigida maturazione. Il darwinismo neuronale (già citato) e la selezione clonale sono esempi significativi: in entrambi i casi si risparmia informazione (in termini di codice genetico) e si incrementano le opportunità di successo adattivo. Il “rumore” ambientale, i vincoli e i limiti che pone “sporcano” il soggetto, ma offrono anche un filtro che guida e dirige a bersaglio i processi, inducono il soggetto stesso a cercare opportunità e a sfruttarle al meglio. Per tutte queste ragioni l’ambiente può essere definito in modo ambivalente limite e risorsa. In questo circuito di interazione cognizione/corpo/ambiente i fattori fisici ed informazionali non sono distinguibili. Nei sistemi dinamici computazioni e rappresentazioni sono rimpiazzate da posizioni nello spazio di stato. Ciò può essere preso come modello dei processi fisiologici in generale e nervosi in particolare e rivelano continuità tra fisico e informazionale. Ma dobbiamo considerare che il processo che si svolge in un sistema e il sistema stesso non coincidono e hanno strutture differenti. Il discorso delle variabili collettive, che possono spiegare comportamenti macroscopici emergenti, può essere applicato anche all’insieme cervello-corpo-mondo. Particolari modalità di interazione e specifiche caratteristiche dei componenti conformano il modo e il genere di emergenza. Un iperciclo è un genere di rete che lega due o più reazioni chimiche che dipendono reciprocamente una dall’altra. Il modello dell’iperciclo è basilare nelle teorie di autorganizzazione

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della materia, dato che il suo meccanismo di funzionamento può essere usato per interpretare fenomeni non solo chimici, ma anche biologici. Il connessionismo (re)incarna la mente e la radica al suo ambiente (finalmente!...), ma per così dire lascia il lavoro a metà. La sua più forte (e giusta) idea è che la proiezione omuncolare non esiste e in primo luogo essa deve essere sostituita dalla distribuzione e dalla globalità del cervello e del suo funzionamento. La “rappresentazione” di un singolo dito, per esempio, non può esistere come “entità” isolata: essa potrebbe essere la risultante di un’intersezione di numerose “rappresentazioni”, ciascuna che include quel certo dito in un sistema più esteso. Nel cervello troviamo delle strutture di controllo dette NCS (acronimo di Neural Control Structures): sistemi neurali collocati a un livello gerarchico più alto e che presiedono anche ai processi di richiamo mnemonico, i cosiddetti Multi Modal Recall, oltre che ad altri processi. La funzione è di controllo e anche di direzione, tramite un’azione distribuita attraverso canali di comunicazione e trasmissione che consentono di suscitare, cancellare o inibire un segnale. Lo stato interno non è definibile come di rappresentazione, ma può essere considerato tale quando è correlato e coordinato con fattori corporei e ambientali. Questa reciproca integrazione si realizza in modo “sfumato” e può essere composto in differenti proporzioni dei suoi componenti; questi sono concreti, ma taluni possono essere sostituiti da quelli virtuali. Lo stesso apprendimento non può avvenire senza un’interazione, diretta o indiretta, tra mente, corpo e ambiente. Coerentemente si deve considerare che:

• La pianificazione (dello sviluppo, dell’azione…) deve essere sostituita da un assemblaggio “soft”, flessibile di cervello, corpo e ambiente.

• Non c’è gerarchia o successione lineare tra il pensiero “concreto” dell’infanzia e quello “astratto” dell’adulto.

Il pensiero è e deve rimanere radicato e incarnate. Questa condizione permette di offrire risorse ai processi cerebrali/mentali. Le afferenze sono costituite da informazioni istantanee, “puntiformi” che vengono processati nelle reti neuronali in modo ricorsivo. Questo richiede un certo tempo, che comunque è differente dalla temporalità del mondo. Quest’ultima è computata come dato ulteriore. Si veda a questo proposito il “Dasein” di Heiddegger e il chiasma percezione/azione di Merleau-Ponty. L’architettura delle reti cerebrali non codifica tutto, perciò c’è bisogno della cooptazione di fattori esterni per ovviare a tali carenze (tali fattori vanno a tal punto considerati “esterni”? O si dovrebbe considerarli “interni”?...). grazie a ciò c’è più libertà per il nostro cervello, ma anche ulteriori limiti e vincoli. È per questo che si parla di “Constraint Satisfaction Networks”. Questa condizione di processamento delle informazioni si combina con il “Pattern Completion Style”. Le afferente possono essere l’incipit, l’indicazione di scelte da evitare, scopi da perseguire, e così via. Gli artefatti sono trans-individuali e trans-generazionali; essi mostrano sempre corrispondenze multiple: al soggetto, all’ambiente e allo scopo. Ogni nostro apprendimento è sempre basato su altri precedenti. Ciò restringe, limita, filtra, guida il raggio delle possibilità di quelli ulteriori. Molti autori dicono che l’apprendimento è ostaggio di “path dependance”. Dobbiamo rispettare la propedeuticità, se non ci fa rischiare salti e discontinuità irrecuperabili. Gli apprendimenti precedenti corrispondono (in termini di percorso nello spazio di stato) a minimi locali, ciononostante ulteriori apprendimenti possono migliorare tale condizione. Il pensiero e gli artefatti hanno una relazione reciproca, come la mangrovia e il terreno: essi si tengono uno con l’altro, hanno bisogno uno dell’altro. Non si attiva un semplice circuito riflesso “a tre neuroni”. Ci sono sempre integrazioni cerebrali, e il mondo esterno ha molti modi di entrare a far parte di queste integrazioni… L’omuncolo è un’entità funzionale, non anatomica: troviamo funzionalmente raggruppati insieme (per essere attivati in modo unitario) i muscoli di una sinergia, non quelli contigui.

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La sinergia non corrisponde a uno schema fisso, è sempre pertinente a una pianificazione strategica e all’attuazione tattica dell’azione. E tutto è azione, persino la percezione: per percepire mettiamo in atto un comportamento di aspettativa e di ricerca attiva, che è nervosa prima ancora che mentale. Per organizzare un tale comportamento dobbiamo partire da ipotesi e avere degli scopi, cose che ci consentono di anticipare gli eventi e di scegliere, così da posizionare e dirigere in modo efficace i nostri organi di senso. Questo inoltre rende più facile comprendere e interpretare ciò che percepiamo. La percezione può avere la funzione di un vettore di attivazione (si vedano anche i meccanismi di “spreading activation”) e viene processata secondo modalità di “pattern recognition” che combinano informazioni interne ed esterne. L’influenza sul controllo motorio è correlato alle caratteristiche biomeccaniche del corpo, allo scopo dell’azione (sia immediato che sovraordinato) e alla contingenza del contesto. Così ci troviamo di fronte al problema inverso: dobbiamo calcolare a ritroso l’inizio dell’azione dalla sua conclusione e dal contesto. Il nostro S.N. pare funzionare come un oscillatore o un insieme di oscillatori, in accordo con la Teoria dei Sistemi Dinamici. Vediamo infatti che un insieme di oscillatori dinamici tende alla coerenza e all’equilibrio, cose diverse dalla stasi. Per esempio la nostra vista non è un recettore passivo di dati raccolti a caso in un mondo estraneo, ma “cattura” le cose, insegue bersagli sulla base di aspettative, si orienta (come direzione, grado di convergenza, messa a fuoco…) e sceglie all’interno del campo percettivo (o modifica il campo stesso) e così via. La nostra vista interroga le cose e unisce noi al mondo. Quello che sarà lo spazio che accoglierà la nostra azione è prima ancora lo spazio individuato dalla vista, che precede il movimento, individua spazi e possibilità. I raggi visuali (così come sono concepiti da Empedocle, Platone, Democrito, Alahazen…) sono una metafora molto significativa del nostro modo di vedere e di guardare. I movimenti oculari (con l’aiuto dei movimenti coordinati della testa e dell’intero corpo) divengono agganci visivi, ancore capaci di legarci ad appropriati “bersagli”: guardare il mondo è trovare riferimenti e centri fuori di noi. I nostri movimenti e la maggior parte della nostra vita sono basati su tale attività di osservazione, andiamo dove si guarda, piuttosto che guardare dove andiamo (cfr. Alain Berthoz, Il senso del movimento) Per controllare le nostre azioni è necessario che lo spazio, le cose e il mondo ci “appartengano” quanto il nostro corpo e in modo simile al nostro corpo. Se l’equilibrio fosse regolato semplicemente con il riflesso miotattico, si avrebbero risposte locali e reattive, invece notiamo che il controllo è globale e predittivo. Inoltre esso include gli eventi del mondo e le caratteristiche degli oggetti esterni. La propriocezione e la percezione esterna sono confrontate e integrate una con l’altra per una conoscenza globale e coerente e per gestire un’interazione appropriata. La rappresentazione del corpo (se di rappresentazione si può parlare) non prescinde mai dal mondo, non è mai isolata. I recettori sensoriali sono regolati (perifericamente e centralmente) in accordo all’ambiente, come accade per la pianificazione delle azioni. Notiamo per esempio che l’adattamento agli occhiali prismatici richiede 5-6 giorni. Questo tempo è necessario perché la convergenza funzionale degli apparati visivo e vestibolare non si organizza istantaneamente. L’interazione continua e dialogante tra fattori interni ed esterni non assicura comunque che la percezione sia sempre perfettamente vera. Quando siamo soggetti a illusioni percettive, queste hanno la stessa origine e causa delle percezioni fedeli al vero. In entrambi i casi noi costruiamo la migliore ipotesi tra quelle possibili. Nel XIX secolo le funzioni sensoriali del corpo non sono state più considerate come un modo di acquisire dati dall’esterno, che garantisce la verità. Un’osservazione che si affidi agli strumenti per integrare, assistere o sostituire gli organi biologici, diviene necessaria. I dispositivi artificiali migliorano, amplificano o correggono le percezioni sensoriali. La natura è percepita solo

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indirettamente. Il coinvolgimento fisico diretto negli eventi e cose del mondo è ormai cosa dimenticata o, quantomeno, è fuori dalla ricerca scientifica. Percepire gli oggetti come un insieme di dati strumentali diviene sempre più usuale, fino a considerare questo come la principale o addirittura unica via per l’oggettività.

8. DARWINISMO, DARWINISMO NEURONALE, BIOLOGIA EVO-DEVO La selezione dei gruppi neuronali (cfr. darwinismo neuronale) è un esempio significativo del fatto che il cervello ha assolutamente bisogno dell’interazione con l’ambiente per svilupparsi e raggiungere una appropriata funzionalità. Senza l’interazione senso-motoria con l’ambiente all’inizio della vita non c’è orientamento della selezione dei gruppi neuronali, non c’è eliminazione dei neuroni ridondanti della dotazione iniziale, con la conseguenza della compromissione della futura attività cerebrale. La dotazione neuronale di partenza è ridondante per assicurare diverse opportunità di sviluppo, e deve poi passare attraverso i processi selettivi perché persistano le strutture più appropriate per i contesti in cui il soggetto è inserito. Come dire: o si sceglie ciò che serve, così che funzioni, o, se si tiene tutto, o più del necessario, non funzionerà niente.

9. LA MENTE FUORI DALLA MENTE: LA SCRITTURA E IL LINGUAGGIO La scrittura, in ogni forma, è una oggettivazione, una cosificazione del pensiero, così che esso possa essere condiviso. La scrittura è concreta, e i suoi spazi, le sue strutture, i suoi scemi organizzativi sono tutti fattori correlati con il corrispondente mentale. Ma la materia di cui è fatta la scrittura non è la stessa della mente. Per quanto la relazione sia forte e la possibilità di scambio sia pressoché totale, il salto di differimento crea una disomogeneità, una alterità, una distanza. Questo fino ad autonomizzarsi dal pensiero che l’ha generata, fino a farsi essa stessa causa di pensieri, che nulla e nessuno garantisce essere gli stessi di quelli di partenza. Il circuito rischia di rimanere aperto, ma soprattutto di aprire possibilità inattese e impreviste, fuori da ogni controllo preventivo. È forse avvertendo questa possibilità, questa incognita che grava su ogni forma di scrittura, che Platone, nel Fedro, esprime verso di essa la sua diffidenza. Le assegna lo statuto di pharmakon, ovvero di una sostanza che è al contempo, rimedio e veleno, quindi ambivalente per definizione. Rimedio contro l’ipomnesi (ovvero per la memoria debole), rischia di essere peggiore del male. La scissione tra l’autore (i suoi pensieri) e la scrittura apre a divergenze, eccentricità, spinte centrifughe il cui esito ultimo sfugge… La forza evocativa e concettuale della forma della scrittura è particolarmente evidente in molti e differenti esempi: gli schemi dell’ars combinatoria e dell’ars reminiscendi, che combinano, con un sincretismo

tra il geniale e il rocambolesco, aspetti grafici, geometrici, iconici, verbali, il virtuosismo dei calligrammi che usano il segno grafico come materia per costruire

l’immagine, con un gioco di rimandi tra i contenuti dell’uno e dell’altra (come non ricordare le famose poesie-calligramma di Guillaume Apollinaire?),

la ricerca di nuove vie espressive del futurismo, che tenta di dare nuova e diversa forza dirompente alla parola scritta iscrivendola nei più articolati paradigmi dell’iconicità, rompendo la monotona linearità e unidimensionalità della successione di parole nel rigo, di righe nella pagina, di pagine nel testo: le parole si compongono adesso in modo più simultaneo, più visuale, più materico (es. l’autoritratto di Covoni del 1915).

Tra il contenuto concettuale (la semantica delle parole in quanto parole, prescindendo dalla loro forma) e la forma visuale stessa il rapporto è stretto. Leggere un testo è, in senso pieno, rivolgersi a entrambi questi aspetti, interagire con un oggetto materiale e significante insieme, senza la possibilità di delineare un confine netto.

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La scrittura, pur essendo altro dal soggetto, è comunque una sua espansione. Espansione del soggetto che scrive, in quanto suo prodotto, e del soggetto che legge, in quanto la introduce nella propria sfera di acquisizione di informazioni, di comprensione del mondo. La scrittura è sempre tale per un soggetto che la scrive e/o che la legge. Le operazioni di scrittura/lettura sono imprescindibili nella definizione di scrittura. Non è un caso che i cosiddetti “linguaggi costruiti” siano per lo più scritti, cioè siano realizzati come strutture concrete, persistenti e visive. Si veda U. Eco, La ricerca della lingua perfetta in Europa.

10. INTEGRAZIONE CON OGGETTI ESTERNI All’integrazione con oggetti esterni si assegna una caratteristica prevalentemente motoria, anche se inevitabilmente sono implicate, è ovvio, anche quelle percettive e cognitive. Il corpo, l’esistenza, la gestione delle nostre funzioni e dei nostri processi fisici e mentali, difficilmente prescindono dall’interazione con oggetti “esterni”, dalla contestualizzazione, dall’immersione in un ambiente, in un umwelt, di cui vanno a far parte e che va a far parte di essi. L’ambiente non è solo un contorno, non è solo estensione contigua o contrapposta, non è estraneità, è qualcosa che, in virtù di un’interazione continua e articolata, finisce letteralmente dentro i nostri processi mentali e neurali, diviene depositario di memorie, chiave di comprensione (non solo oggetto da comprendere), si inscrive nella costruzione di coerenze. In molti casi (virtualmente nella totalità dei casi) il corpo interagisce con qualcosa di esterno. Ogni movimento, ogni postura, ogni ricerca di equilibrio o di una sua variazione, ogni spostamento, tutto deve fare i conti con gli oggetti esterni, con il contesto. È impossibile che il corpo sia nudo e isolato da tutto. Se ci spostiamo è grazie alle contrazioni muscolari e alle leve osteo-articolari, ma queste a poco servirebbero se non potessimo far conto sulle reazioni vincolari degli appoggi solidi, alle reazioni elastiche, agli attriti che ci permettono di far presa, alla portanza se siamo in acqua e via dicendo. Il nostro equilibrio si compone sempre con quello degli oggetti che teniamo in mano, alle sollecitazioni che riceviamo dall’esterno. L’esempio dell’equilibrista che tiene in mano un asta è quanto mai pertinente. Le amplificazioni delle microscillazioni che essa fornisce permettono all’equilibrista di anticipare le reazioni di ripristino. La barra è divenuta un “recettore” terminale, remoto, ma non per questo meno integrato nei processi cerebrali e nell’organizzazione del movimento e della postura. Un uomo che porta con sé un bagaglio -la cosa è più evidente se il bagaglio è pesante- riorganizza il suo equilibrio statico e dinamico in funzione della gestione del baricentro complessivo del sistema corpo + bagaglio. Le percezioni vestibolari, la pressocezione plantare, la propriocezione, le re afferenze del controllo motorio, tutto è adesso regolato sul sistema complessiva. Abbiamo la riprova quando la maniglia del bagaglio si rompe inaspettatamente, all’improvviso: l’uomo si sbilancia dalla parte opposta della valigia. Il suo cervello non ha tempo di riorganizzarsi in funzione della gestione del solo corpo. Altro esempio è quello di un cameriere che porta in equilibrio su una mano un vassoio con sopra dei bicchieri pieni di liquido. Egli può mantenere l’equilibrio del vassoio ed evitare accelerazioni tali che comporterebbero la fuoriuscita di liquido, pur senza rovesciare il bicchiere, anche se cambia postura o fa movimenti bruschi. Questo grazie a movimenti di compensazione programmati in tempo reale e che consentono di neutralizzare possibili conseguenze indesiderate. Se qualcuno preleva un bicchiere da vassoio, obbliga il cameriere a riorganizzare l’equilibrio del vassoio, ridistribuendo le pressioni parziali della mano che lo sorregge. La gestione degli angoli corporei è globale e predittiva –si parla di co-variazioni–, finalizzata alla neutralizzazione a priori di squilibri del vassoio o abbrivi tali da far fuoriuscire il liquido dai bicchieri. La risultante (rilevata alla mano che sorregge il carico) rimane invariata a dispetto delle (meglio dire grazie alle) variazioni del corpo. L’asse corporeo e l’assetto del vassoio con su i bicchieri sono gestiti globalmente e in simultanea.

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Il controllo sensomotorio riguarda insieme corpo e mondo. Il corpo, similmente a un Giano, è rivolto tanto al cervello quanto al mondo. E il mondo include (spesso) oggetti artificiali. D’altra parte gli oggetti naturali sono sempre percepiti tramite i nostri schemi culturali e cognitivi, che li filtrano, conferiscono loro una particolare riorganizzazione, li caricano inevitabilmente di senso e significato, così da farceli vivere come il nostro umwelt. Gli oggetti esterni, i cui dati sono acquisiti tramite i vari recettori, divengono parte dei processi neurali e, potremmo dire, del cervello e del corpo tout-court. La computazione, la comprensione, la memoria, la costruzione della coerenza, l’adattamento, l’apprendimento, la stessa azione e tutto il resto non possono prescindere dall’integrazione con l’esterno. Conoscere un oggetto significa comprenderlo e soprattutto determinare cosa esso è per me. Così una semplice pietra può divenire un’arma, un utensile, un sostegno o altro ancora. La nostra percezione è necessariamente frammentaria e viene acquisita da esplorazioni sensoriali casuali e più o meno guidate, ma tale acquisizione è di solito sufficiente per darci una conoscenza completa grazie agli opportuni completion pattern. L’ergonomia, a partire dal 1949 (data ufficiale della sua nascita ad Oxford), ricerca l’ottimale integrazione senso-motoria tra il corpo e gli oggetti/ambiente.

11. PERCEZIONE, FUNZIONE A CAVALLO TRA INTERNO ED ESTERNO “…solo una goccia di informazione raggiunge i centri cerebrali di elaborazione, provenendo dal flusso potenzialmente infinito dell’ambiente circostante. Anche se, per esempio, attraverso il nervo ottico vengono trasmessi sei milioni di bit, solo diecimila raggiungono le aree specializzate della vista, e solo poche centinaia sono implicate nella percezione cosciente: un numero troppo basso per costruire una percezione significativa. Molto probabilmente questo risultato mostra che il cervello costruisce costanti aspettative sull’ambiente esterno, anticipando gli scarsi segnali sensoriali che lo raggiungono.” (Marcus E. Raichle, L’attività del cervello a riposo, in Le Scienze, n. 501, Maggio 2010) Invece di avere i pattern cerebrali che completano i dati in ingresso, seguendo le osservazioni di Raichle, abbiamo che i dati esterni completano schemi interiori già formati. Sembrerebbe, molto probabilmente, che, primo, il completamento reciproco è una funzione sempre attiva e, secondo, si ha il ruolo prevalente di uno o dell’altro componente a seconda della situazione.

12. UN ESEMPIO DI INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI: GLI AVATAR CHIRURGICI

Nella chirurgia laparoscopica (da non confondere con la laparotomia o celotomia, meno interessante in questa sede), nata agli inizi del Novecento grazie a Georg Kelling, c’è un controllo meccanico diretto dello strumento operatorio, mediato dalla lunghezza del laparoscopio che trasmette fedelmente e direttamente i movimenti della mano all’estremo opposto. La chirurgia robotica assistita con il “Sistema Da Vinci” ci mostra una situazione radicalmente alternativa. Le mani del chirurgo, connesse a una sorta di “data glove” forniscono movimenti a una consolle che comprende anche un visore stereoscopico attraverso cui il chirurgo ha la re afferenza visiva (tridimensionale) di ciò che fa. Sul paziente (la distanza paziente-chirurgo è irrilevante) lavora un robot, le cui “mani” si identificano con gli strumenti chirurgici. La motricità di tale avatar chirurgico ha la sua sorgente nella motricità delle mani del chirurgo, interfacciate con il sistema tramite vincoli meccanici, ma non ne è la replica pedissequa: un sistema informatico sofisticato interposto tra il chirurgo e il robot. Per esempio eventuali tremori e altri movimenti accidentali vengono eliminati. I gradi di libertà della mano umana e quelli della “mano” robotica” vengono raccordati, dato che i secondi sono diversi e più ampi. Questo richiede la capacità, da parte del chirurgo, di sviluppare una motricità particolare, efficace con il differimento meccanico e informatico del robot.

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La chirurgia robotica assistita nasce negli anni ’50, ma i risultati significativi vengono raggiunti nel 2000, con il sistema “Da Vinci”. Questo modo indiretto di fare chirurgia permette al chirurgo di interporre una distanza a piacere tra sé e il paziente, da pochi metri a migliaia di chilometri. Per quanto riguarda la visione, lo schermo avvolgente esclude ogni interferenza esterna e richiede che il chirurgo vi si immerga letteralmente con il viso, così da “scivolare” dalla propria postazione al campo operatorio. Le reafferenze, per quanto fedeli e tridimensionali, sono pur sempre di natura virtuale e non coincidono con quelle reali in assenza di differimento, pertanto anche la percezione è “adattata”. Opportuni processi di apprendimento consentono al chirurgo di far evolvere le proprie abilità sensomotorie oltre quelle chirurgiche propriamente dette, che pure sono imprescindibili, e farle divenire appropriate al dispositivo usato. Possiamo dire che il corpo del chirurgo è soggetto a una espansione quantitativa e qualitativa enorme e di esso viene a far parte il vasto e complesso sistema robotico. Se i tradizionali “ferri” chirurgici, per quanto preziosi e perfetti fino al virtuosismo, possono comunque essere ascritti all’ordine degli utensili (una lancetta, per quanto realizzata secondo le più recenti tecnologie, è pur sempre un utensile da taglio, che funziona impugnandola e appoggiandone il filo sulla parte da tagliare, regolando la pressione e l’orientamento per conformare il taglio alle esigenze del caso), con il sistema robotico siamo entrati nell’era degli strumenti chirurgici

13. INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI: L’ESEMPIO DI ALTRI AVATAR

In molti contesti capita di gestire avatar più o meno complessi, cioè entità che agiscono per nostro conto o in nostra vece in contesti differiti, in relazione alle nostre azioni che hanno la funzione di sorgente. L’avatar è un corpo doppio, un altro noi da qualche altra parte. Il collegamento è a “doppio filo”, perché c’è anche un ritorno di informazioni che chiude il cerchio. Il dispositivo remoto può essere concreto (il robot chirurgico) o virtuale (il puntatore sullo schermo del PC, il personaggio del videogioco…), ma i processi neurali implicati sono pressoché gli stessi. Il “rimpiazzo” del corpo però non è una completa esautorazione, il corpo fisico continua a ricevere sensazioni fisiche non differite, e si muove fisicamente a prescindere dalle ricadute remote di tali movimenti, ma il loro significato e la loro funzione sono completamente o pressoché completamente “assorbiti” dalla proiezione differita, remota e subiscono a tal fine le trasformazioni (apprese) necessarie. L’attenzione alla realtà attuale, presente è pressoché nulla. Il cursore del computer Noi controlliamo i movimenti del cursore sullo schermo muovendo il mouse sul pad con la mano. Ciascuno impara presto a usare efficacemente il mouse, basandosi sulle re afferenze dei movimenti del cursore. L’apprendimento non coinvolge necessariamente la coscienza. Pochi si accorgono che i movimenti della mano-mouse sono sottodimensionati rispetto a quelli del cursore (sono i/4 o meno) collocati in uno spazio diverso, giacenti su una superficie orizzontale (il pad) invece che su una verticale (lo schermo). Il sistema mouse-computer-cursore è un dispositivo tecnologico che viene facilmente incluso nel nostro controllo motorio, grazie anche alla sua sostanziale semplicità e analogia. Wii-Games L’avatar dei videogiochi è virtuale quanto il cursore del PC, ma è molto più complesso di quest’ultimo. I n compenso la sua analogia è molto forte. Ha caratteristiche pseudo-umane, un aspetto corporeo facilmente riconoscibile. Nonostante ciò ci sono importanti differenze che richiedono un aggiustamento da parte dei meccanismi di controllo sensomotorio. I videogiochi Wii offrono un doppio del corpo al giocatore. Tale doppio richiama su di sé l’attenzione e costituisce un centro di riferimento per l’interpretazione delle afferenze e la regolazione della motricità.

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Il comportamento di tale corpo virtuale è gestito in tempo reale con movimenti fortemente analoghi a quelli che sarebbero necessari per un’esecuzione fisica. Il feedback visuale proviene dallo schermo e ciò contribuisce a rendere la situazione di genere particolare. Nonostante ciò le differenze vengono presto “assorbite” da adattamenti appresi. Tale assorbimento può essere così marcato da far divenire i movimenti virtuali persino più usuali e ben gestiti di quelli concreti!... il proprio corpo viene “dimenticato” per questo “corpo secondo”, il proprio mondo viene dimenticato per questo “mondo secondo”, dove limiti e problemi vengono eliminati e dove vengono offerte più larghe e ricche opportunità, ulteriori identità, capacità… Il punto di vista del soggetto scivola oltre i suoi occhi fino allo schermo e rimane un po’ dietro l’avatar (come una semisoggettiva in cinematografia) o si identifica con quello dell’avatar stesso. Ciononostante questo doppio virtuale della realtà attira su di sé il centro di attenzione, di percezione e di organizzazione dell’azione del soggetto. La nuova realtà finisce con l’essere considerata più reale di quella concreta, facendocela dimenticare o lasciare in subordine… Alcuni autori parlano di “sublimazione fisica”, di proiezione nell’avatar, fino a sentirsi fuori-di-sé, a sentirsi l’avatar!... La corporeità dell’avatar virtuale è leggera e permette al soggetto di vivere esperienze che possono giungere alla vertigine e all’estasi, o comunque in una dimensione diversa, istituiscono una soggettività ulteriore, eccedente, un medium di relazione nuovo e diverso. “Second life” (il nome di questo video-game è significativo…) e molti altri video-game coinvolgono milioni di partecipanti e li fa appartenere ad una stessa comunità virtuale. Il rapporto con il mondo virtuale non è mediato da recettori sensoriali direttamente stimolati da cose o eventi reali. Il mondo virtuale e il corpo virtuale sono mediati da schermo, joy-stick e altri dispositivi analoghi. Ma accade che tali media sono attraversati e persino “dimenticati”. La natura fisica di tali dispositivi rimpiazza quella del mondo reale, talvolta fino al delirio, con difficoltà a tornare “indietro” nel mondo… Anche la tecnologia cinematografica consente di creare avatar dell’attore che non viene ripreso con la tradizionale tecnica “ottica”, ma attraverso un sofisticato sistema informatizzato, che “muove” una figura di sintesi opportunamente predisposta.

14. LA PERCEZIONE HAPTIC REMOTA Con una penna o una matita (quando scriviamo), con un bulino (quando incidiamo una superficie) o con un archetto (quando suoniamo un violoncello) noi percepiamo superfici remote (non a diretto contatto della mano (rispettivamente della carta, del metallo, delle corde), facendo scivolare il nostro senso del tatto all’estremità libera (opposta a quella che impugniamo) dell’oggetto nella nostra mano. Non avvertiamo l’oggetto in questione (con cui siamo in contatto), ma quello che non tocchiamo direttamente. Per mezzo di un opportuno apprendimento ed esperienza, noi esploriamo e giudichiamo le caratteristiche di oggetti non direttamente accessibili tramite la sensazione “haptic remota”. Oltre agli esempi appena riportati, molti altri se ne potrebbero aggiungere, come guidare un auto (tramite essa si avverte la superficie stradale), usare un bastone da passeggio, ma anche indossare guanti o scarpe (lo strato di tessuto o la suola della scarpa, per quanto di esiguo spessore e poco capaci di alterare la percezione con mano o piede nudi, sono pur sempre qualcosa di interposto tra il corpo e il mondo. In certe esperienze sinestesiche persino la vista può fornire sensazioni tattili!... Le sensazioni haptic remote raramente sono isolate e passive. Spesso sono abbinate con l’azione tramite dispositivi di controllo remoto. Le sensazioni haptic remote e le abilità di controllo remoto sono così correlate in un circuito funzionale di esperienza senso-motoria. L’impressione di avvertire comunque direttamente l’oggetto esplorato è dovuta agli apprendimenti cerebrali che permettono di mettere in atto adattamenti del processamento delle informazioni in ingresso in modo tale da “neutralizzare” l’interferenza dell’oggetto interposto.

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L’accettore di azione di Anokhin comporta che il sistema corticale abbia un modello (non una rappresentazione, il che richiama anche la “simulazione” di Barthoz) dell’azione che è riferita a e comparata con le reafferenze (si veda in proposito Clark, NCS). Questo ci permette di gestire l’azione in modo ottimale. ACCETTORE. Nella teoria dei circuiti digitali, il “sequential logic” è un tipo di circuito logic il cui output dipende non solo dall’input del momento, ma anche dalla storia dell’input. Questo è in contrasto con il “combinational logic”, il cui output è funzione dell’input del momento e soltanto di questo. In altre parole, il “sequential logic” ha una memoria, mentre il “combinational logic” no. Pyotr Kuzmich Anokhin (Пётр Кузьми́ч Ано́хин) (1898 – 1974) è un biologo e fisiologo russo che ha dato importanti contributi alla cibernetica e alla teoria dei sistemi funzionali. Il suo concetto pionieristico di feedback fu pubblicato nel 1935. Ha studiato neurofisiologia e ottenuto un dottorato in medicina. È stato accademico dell’Accademia delle Scienze Mediche e dell’Accademia delle Scienze dell’URSS. È stato uno dei fondatori dell’Istituto di psicologia dell’URSS e del laboratorio di neurofisiologia dell’allenamento. Negli anni ’20 del ‘900 iniziò la sua carriera sotto la guida di Ivan Pavlov, Premio Nobel in medicina nel 1904. Sviluppò il concetto di feedback, pubblicato nel 1935. Inoltre elaborò la teoria dei sistemi funzionali (FS) che implicava sottili meccanismi neurofisiologici è un’integrale attività del soggetto. La teoria FS è considerata il ponte metodologico tra la psicologia e la fisiologia. Il comparatore di Nikolai Bernstein college il cervello alla realtà (concreta, esterna)ed è ‘comparabile con la re afferenza sanzionante di Anokhin e ai nodi mentali di McKay, che collegano percezione e azione. Similmente, i neuroni specchio mostrano la medesima funzionalità quando il soggetto agisce o osserva qualcuno agire. Questi sono “Neurons related to reaching-grasping arm movements in the rostral part of area 6 (area 6a)” (Rizzolatti & Alt., Experimental Brain Research, 82, 1990, pp. 337-350). Similmente c’è una continuità tra l’idea e l’esecuzione, come provato anche dall’effetto Carpenter. Anche l’input e l’output sono correlati: in accordo con alcuni AA. (per es. P.M. Churchland, Neurofilosofia), il cervello è un tensore tra uno e l’altro, ma applicare questa teoria in ogni caso non è facile, e l’ipotesi è ancora in discussione, dato che convertire un vettore in un altro non è così scontato… La vezione è la percezione o l’illusione del proprio movimento nello spazio, il che è correlato ad un sistema di riferimento interno/esterno. Essa origina dal flusso ottico o da stimolazioni optocinetiche. Il carattere illusorio dell’esperienza è eliminato dalla costruzione della coerenza sensoriale grazie alle connessioni cerebrali orizzontali. Per mezzo di tale coerenza i movimenti del mondo sono compensate, così che il soggetto percepisce solo i suoi movimenti. A dispetto di ma anche grazie ai movimenti nostri ed esterni noi conosciamo il mondo e (ri)organizziamo la percezione dello spazio. L’integrazione multisensoriale è realizzata in campi percettivi: non è riferita a o collocata in spazi esterni. I campi percettivi sono confrontati uno con l’altro e sono fusi insieme. Questa integrazione ci permette di costruire un sistema di coordinate spaziali autoriferite e persino con un carattere cartesiano, con il quale ogni futura percezione si confronterà. Le mappe sensoriali di differenti canali sono continuamente riaggiustate al fine di mantenere la coerenza (percettiva) e di essere adattate a eventuali nuove condizioni, come l’interazione con ulteriori oggetti esterni. Questo può spiegare, per esempio, il riaggiustamento della visione invertita ottenuta con lenti prismatiche. Così le ambiguità sono cancellate, le incongruenze di tempo bilanciate e i riferimenti spaziali resi coerenti. “le implicazioni geometriche e dinamiche della coerenza ci obbliga a tre [quattro?] coordinate sensomotorie dimensionali ” (in Jannerod M., Attention and Performance, XIII, Laurence Erlbaum Associates, Hillsdale, NJ, 1989, pp. 495-526) Per fare un disegno noi seguiamo un’idea astratta, ma anche le possibilità e i limiti offerte/imposti dalla matita, dalla superficie della carta, etc.

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Noi continuamente “decidiamo” come scegliere e guidare la percezione e l’azione, così, sia pure indirettamente, guidiamo le trasformazioni dell’architettura cerebrale. Quando usiamo dispositivi esterni, abbiamo una temporizzazione dell’azione diversa da quella che avremmo con il corpo isolato. I meccanismi cerebrali di temporizzazione allargano la loro finestra temporale per permettere l’adattamento alla nuova situazione. Possiamo notare che c’è la stessa risposta neurale alla stimolazione tattile e visiva (se riferita al medesimo oggetto). Nella sensazione haptic remota noi percepiamo, per esempio, il contatto con il suolo e le sue caratteristiche dettagliate, ma riferendo tutto ciò non alla mano, dove la percezione tattile ha effettivamente luogo, bensì alla estremità libera del bastone che usiamo. Anche se percepiamo pressione e relative sue variazioni, vibrazioni etc. nel cavo della mano, dove impugniamo il bastone e questo passa alla mano le sollecitazioni meccaniche, noi percepiamo il suolo all’estremità opposta del bastone, riferiamo il contatto a una localizzazione lontana dalla mano: il nostro corpo si è esteso lungo il bastone stesso!... Percepire il proprio corpo esteso nello spazio esterno ci permette di scegliere riferimenti centrati al nostro interno o al nostro esterno. Ogni cosa esterna ha e pone dei limiti, ma anche gradi di libertà. Questi devono essere combinati con i limiti e la libertà del nostro corpo in modo olistico. Usare un unico processo di completamento rende tutto più semplice e più facile da gestire. Il cervello controlla tutto globalmente, il corpo e gli oggetti esterni in un modo complessivo, olistico, mai locale, considerando contemporaneamente i diversi fattori come co-variabili.

15. ADATTAMENTO A/INTEGRAZIONE CON DISPOSITIVI PERCETTIVI Oltre agli oggetti che estendono il corpo consentendo una percezione haptic remota, sostanzialmente dilatando la nostra frontiera corporea, ci sono altri oggetti che integrano e alterano significativamente le nostre funzioni percettive, con implicazioni e conseguenze che meritano di essere considerate. Gli occhiali prismatici sono un esempio significativo. Provocano un’inversione della visione (alto-basso o dx/sx, a seconda dell’orientamento dell’asse delle lenti) che viene annullata dopo un periodo di alcuni giorni grazie ad adattamenti del cervello. La fotografia integra e supera la visione naturale dell’occhio a partire dal XIX secolo. La macchina da presa diviene la protagonista della visione del XX secolo. La visione microscopica e telescopica, pur segnando l’avvio della rivoluzione scientifica, acquistano soprattutto nel XX secolo un significato particolare, come porta di accesso a mondi altrimenti proibiti, dilagando anche nell’immaginario collettivo. Gli occhiali prismatici appena indossati fanno percepire al soggetto una visione invertita, così come si forma sulla retina. Il ripristino del verso corretto della visione non è dovuto a una diversa proiezione retinale, ma, evidentemente, a processi appresi capaci di cancellare l’inversione ricreando la coerenza sensoriale con le altre afferenze (vestibolari, uditive, tattili, propriocettive, etc.) e la pregressa conoscenza dello spazio. Possiamo considerare che questi processi appresi consistono nell’includere gli occhiali prismatici (o più precisamente l’inversione dell’immagine retinale che provocano) nel “sistema visuale”. Questa non è poi una cosa così anomala: basta pensare che il nostro cervello deve fare qualcosa di simile per correggere l’inversione alto-basso del cristallino. Quando togliamo gli occhiali prismatici a cui ci eravamo “abituati”, di nuovo abbiamo la visione invertita (l’inversione compensativa che il cervello non ha disinnescato “va a vuoto” e provoca ora una inversione). Ma perché tutto ritorni alla normalità occorre molto meno tempo che per adattarsi agli occhiali. Il cervello non ha “dimenticato”la visione originaria. Adesso il soggetto è in grado di passare da una modalità di visione all’altra (con occhiali e senza) con una certa facilità e rapidità. Il cervello possiede entrambe le modalità e la capacità di passare da una all’altra.

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In logoterapia il soggetto emette suoni vocali che sono raccolti da un apposito dispositivo e sono convertiti in tempo reale in un diagramma che appare su uno schermo. Così le caratteristiche acustiche sono tradotte in visuali. Queste forniscono un feedback che permette al soggetto di monitorare e di aggiustare la propria voce (soprattutto di eliminare alcune irregolarità della sua voce che sono in relazione a difetti e problemi nell’uso delle corde vocali) fino a produrre il diagramma richiesto. Persino senza acquisire una chiara comprensione della correlazione tra la funzione organica (l’emissione di voce) e il feedback strumentale, il nostro cervello è in grado di produrre le modificazioni necessarie, funzionando come una scatola nera. Un differente canale di re afferenze viene incluso nel processo di auto-analisi della propria voce: queste informazioni sono integrate con quelle uditive e motorie, e contribuiscono a costruire un’autopercezione globale coerente. Un corpo che interagisce con il mondo senza la mediazione di dispositivi tecnologici è adesso divenuto un “corpo nudo”, non solo meno potente, ma anche senza garanzia di esattezza e oggettività dei propri processi di percezione ed esecuzione. Un esempio particolarmente significativo è l’obiettivo degli strumenti ottici di ripresa: nel XIX secolo la macchina fotografica e nel secolo successivo la cinepresa. Sentiamo che il nostro occhio è più completo (e questo accade regolarmente a chi ha usato per un po’ tali obiettivi) se si guarda attraverso tali dispositivi ottico-meccanici (oggi anche elettronici…). Qui non ci sono umori suggestionabili e mutevoli, fluidi precari e volatili, imprevedibili trasformazioni o bizzarri sviluppi. L’inorganico è regolare e stabile, così è sempre affidabile. Il sistema composto e integrato occhio+obiettivo è orientato tanto al mondo esterno quanto a quello interno: gli strumenti di indagine rendono le profondità del corpo qualcosa di accessibile e visibile. Tali profondità non sono più metafora, un universo oscuro e misterioso, per esplorare il quale occorre ferirlo o addirittura ucciderlo. Persino la dimensione psicologica è considerata approcciabile per mezzo di misure di parametri fisiologici che sono ritenuti correlati agli stati e processi emotivi e cognitivi. L’occhio al suo stato naturale vede il mondo, ma adesso l’occhio nudo è inevitabilmente superato da quello che si avvale di dispositivi artificiali. Riassumendo, questa possibilità di andare oltre è attuata in ogni direzione: Geometrica: con l’imaging di parti interne, lontane dalla superficie, esplorando e misurando la profondità. Dimensionale: ingrandendo l’infinitamente piccolo per mezzo del microscopio. Spaziale: avvicinando l’infinitamente lontano. Psicologica: oggettivando l’invisibile o l’elusivo come l’emozione o la cognizione. Il corpo è soprattutto visualizzato tramite immagini di sintesi con un maggiore o minor grado di analogia con il reale e che sono divenute un inevitabile filtro e un contributo informazionale alla nostra relazione con il e conoscenza del corpo stesso e del mondo. Queste tecniche di imaging sono chiavi di interpretazione che al tempo stesso allontanano e avvicinano il corpo. Comunque esse sono parte della nostra idea di corpo, del nostro vivere il corpo.

16. INTEGRAZIONE MOTORIA CON OGGETTI ESTERNI Meccaniche o elettroniche, motorie o sensoriali, le protesi sostituiscono o surrogano una parte o una funzione mancante o carente e vengono presto integrate nel corpo. L’interfaccia cervello-macchina (Brain-machine interface, in acronimo BMI), può essere attuata tramite il neurofeedback (non invasivo) o la connessione cervello-chip (invasiva). Gli amplificatori di potenza (si pensi agli esempi cinematografici di “Alien 2” o di “Avatar” o la stessa sedia di controllo della gru aumentano a dismisura le capacità umane. Chi usa tali dispositivi impara presto a gestire la forza smisurata e l’enorme ampiezza di movimento come se appartenessero al loro stesso corpo.

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17. IL POSTUMANO Qualche autore pensa che la più estesa e profonda relazione tra l’uomo e gli artefatti ci permetta di definire la condizione umana attuale come “post-umana”. Per la prima volta noi troviamo il termine in “Artificial Life” sin dagli anni ’80 del Novecento. Il termine “Cyborg” è presente da qualche decennio prima, gli anni ’50, nei contesti di guerra fredda. Qualche altro autore, al contrario, dice che l’uomo è sempre stato in tale condizione, dato che gli artefatti sono stati presenti sempre e dovunque insieme a lui. La differenza sarebbe casomai di quantità, dato che il destino prometeico dell’uomo è sempre stato tale. Si tratterebbe allora, casomai, di aver superato una soglia, tale da segnare la perdita di contatto con la natura che, nonostante tutto, fino a un certo momento sarebbe rimasto. Un esempio: una trave di legno è un oggetto artificiale, ma in cui si riconosce ancora il materiale originale di provenienza. Una trave di materiale sintetico, supertecnologico non offre nessuna indicazione percettiva o intuitiva di un supposto materiale naturale di provenienza. È qui che la soglia è superata. Inoltre questi oggetti, la cui traccia o memoria di naturalità è estinta, perduta, talmente lontana da non essere più visibile, ci attanagliano in una morsa sempre più stretta, si fanno invadenti, sfacciati, osano sempre più interferire con il nostro corpo e la nostra vita, fino a cambiarli, divenirne parte, dissolvere la frontiera che li separa(va) da noi. È qui che ci fanno sentire la nostra condizione come “postumana”, ma sarebbe forse più corretto dire “postnaturale”, non nel senso che la natura è superata dall’ulteriorità della techne che interviene su di essa (una selce scheggiata è già tecnica, non più natura… e addirittura lo è prima di essere scheggiata, senza che lo sia, se pensata e usata, dall’uomo, in un certo modo), ma nel senso che tale intervento si è spinto talmente oltre da aver cancellato la natura, la dialettica contenuta in ogni oggetto, sospeso tra la naturalità del materiale di provenienza, delle sue caratteristiche e proprietà, e quanto di tali caratteristiche e proprietà era stato modificato. È venuto meno un interlocutore, pertanto è venuto meno il dialogo. L’opposizione, la resistenza della natura, le sue irregolarità, le fluttuazione della casualità sono venute meno. La techne, dominatrice assoluta, si ritrova a parlarsi addosso, a imbastire i suoi monologhi senza il rischio di vedersi dare torto, di dover lasciare all’“avversario” un lembo di terreno, il diritto alla convivenza, la ricerca di un equilibrio… Certo, le grandi leggi della natura (es. la legge di gravità e via dicendo) non sono ignorate né disattese, ma rimangono sullo sfondo, in silenzio, eterne e ineliminabili, ma la loro viva voce, il rumore continuo della loro presenza non c’è più. Da caccia e raccolta si è passati ad allevamento e coltivazione, ma questa natura addomesticata è ancora natura. Poi allevamento e coltivazioni estensive e artigianali sono divenute intensive e industriali. Il margine di naturalità si assottiglia. E si assottiglia ancora di più con l’agricoltura postindustriale: gestione altamente ingegnerizzata e informatizzata, modificazioni genetiche e via dicendo… Ma l’apoteosi si ha con la “cucina molecolare”: niente più frutti della terra da aspettare dalla terra, si lavora sulle molecole, direttamente, sulle molecole e basta. Si sa, ormai, cosa è che determina (chimicamente) un sapore o un aroma, cosa costituisce (chimicamente) un principio nutritivo. La via chimica è la più diretta, la più “pura”, se si vuole. Perché aspettare che una gallina deponga un uovo? Se voglio un cibo di quel gusto e di quel potere nutritivo metto insieme le molecole necessarie, novello stregone, novello alchimista, e il gioco è fatto. Poco importa che mi sia liberato (o privato) di impurezze, variazioni, qualità accessorie, processi di ottenimento, rumori, interferenze, coloriture che fanno assomigliare le cose a noi, che le rendono contigue e in continuità con noi, omogenee a noi. In questo senso la nostra condizione è postnaturale, e anche postumana, se umanità significa punto di contatto con la natura, continuità con la natura, uso di una tecnica che dialoga con la natura senza esautorarla… Una tecnica che non assomigli a Dionigi che troviamo in Marcovaldo, di Italo Calvino, sempre attento a scovare una traccia di natura, nella città, per eliminarla a colpi di scopa! Questo può sembrare un ordine apollineo assoluto, che ha espulso da sé ogni residuo “panico”, ma occorre pensare se ci siano alternative e se valga la pena di intraprenderle. C’è chi è fatalista e pensa che, bello o brutto, questo è il destino dell’uomo, che gli immancabili, ineliminabili oggetti artificiali sono comun1que un complemento della vita e dell’ambiente umano.

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Senza elementi artificiali l’uomo sarebbe semplicemente incompleto, uomo a metà. Questa è l’opinione di studiosi come A. Gehlen (1981). Comunque sia, la relazione tra l’uomo e le sue realizzazioni, può essere riferita al mito di Prometeo, che è diversamente interpretato dagli autori greci (Eschilo, Esiodo), latini (Tertulliano, Lattanzio) e, più tardi, Francis Bacon. La più entusiastica glorificazione degli artefatti, macchine e dispositivi vari può essere individuata all’inizio del XX secolo con il Futurismo. In tale concezione una macchina o un motore funzionante è posto al vertice nella scala estetica e del desiderio (in senso proprio, fisico, cioè degno di investimento libidico, per dirla con Freud…), e non è semplicemente considerato un ausilio o un completamento del corpo. C’è un’ammirazione smisurata per i congegni che manifestano un funzionamento, la cui natura è considerata migliore e più elevata di quella naturale e di quella umana, includendo le tradizionali opere d’arte: “Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall'alito esplosivo… un'automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia” (Filippo Tommaso Marinetti, Futurist Manifesto, Le Figaro, February, 20th, 1909) Ma non tutti sono così entusiasti dello sviluppo e dell’invasione della tecnologia. Luigi Pirandello scrive: “L’uomo che prima, poeta, deificava i suoi sentimenti e li adorava, buttati via i sentimenti, ingombro non solo inutile ma anche dannoso, e divenuto saggio e industre, s’è messo a fabbricar di ferro, d’acciajo le sue nuove divinità ed è diventato servo e schiavo di esse.” E ancora: “Siete proprio necessario voi? Che cosa siete voi? Una mano che gira la manovella. Non si potrebbe fare a meno di questa mano? Non potreste essere soppresso, sostituito da qualche meccanismo? […] È per forza il trionfo della stupidità, dopo tanto ingegno e tanto studio spesi per la creazione di questi mostri, che dovevano rimanere strumenti e sono divenuti invece, per forza, i nostri padroni.” (Luigi Pirandello, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Garzanti, Milano, 2006, capp.1-2) Una posizione intermedia è quella del già citato Gehlen, che considera gli oggetti artificiali non estranei, ma semplicemente indispensabile complemento per un uomo che ha ormai perso la sua “natura naturale” e la sua dimensione istintuale. La carenza biologica deve essere compensata dall’equipaggiamento culturale e tecnologico. “L’uomo è organicamente l’essere manchevole; egli sarebbe inadatto alla vita in ogni ambiente naturale e così deve crearsi una seconda natura, un mondo di rimpiazzo, approntato artificialmente e a lui adatto, che possa cooperare con il suo deficiente equipaggiamento organico; e fa questo ovunque possiamo vederlo. Vive, per così dire, in una natura artificialmente disintossicata, resa maneggevole, trasformata in senso utile alla sua vita, ciò che è appunto la sfera della cultura. Si può anche dire che è costretto biologicamente al dominio sulla natura.” (A. Gehlen, L’uomo nell’era della tecnica, prefazione di A.Negri, SugarCo, Milano, 1984) Protesi Molte disabilità sono oggi compensate da protesi sempre più spesso ad alta tecnologia. Per quanto possa apparire paradossale, il maggior contenuto tecnologico di tali congegni consente loro di avvicinarsi sempre più alla natura biologica della parte che rimpiazzano, imitandone più fedelmente e con più versatilità le funzioni, talvolta anche l’aspetto estetico!... Possiamo citare come esempi: Walking Assist Device (WAD), Dal 2008 è prodotto dalla Honda, permette a chi lo usa di attuare i movimenti della deambulazione persino se non può eseguirla autonomamente (a causa di un qualche handicap motorio), oppure può incrementare la forza di chi lo indossa per avere un aiuto in prestazioni impegnative. Gli attuali modelli hanno un’autonomia di due ore con una velocità di 4 Km/h. Neuroprotesi Realizzate a partire dal 1971, questi dispositivi generano una stimolazione elettrica funzionale (Functional Electric Stimulations, FES in acronimo) al fine di rimpiazzare l’analoga funzione

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biologica (nervosa) quando si ha un apparato locomotore efficiente, ma manca l’impulso nervoso. Viene così indotta la contrazione muscolare. Il soggetto riceve così un feedback di movimenti corporei non generati da se stesso. Non ci può pertanto essere confronto tra il controllo motorio e le correlate re afferenze entrambi provenienti dal cervello (si veda la funzione della “copia efferente”). Ma dopo un certo periodo il soggetto impara a gestire questa situazione e ottiene vantaggi nell’interazione con il contesto. Il circuito feedforward-feedback è completato e chiuso da informazioni indirette. L’interfaccia cervello-macchina (Brain-Computer Interface: BCI) Nella denominazione anglosassone Brain-Computer Interface (BCI), vanta ricerche che partono negli anni ’70 del ‘900, ma le applicazioni si sono viste solo una ventina di anni dopo. Questi dispositivi sono complementari delle neuroprotesi: qui l’impulso nervoso è ben funzionante, ma l’apparato esecutore non è in grado di eseguire movimenti. L’impulso nervoso del soggetto passa attraverso canali differenti (elettronici) per raggiungere un dispositivo che può eseguire l’ordine del cervello. La connessione neuro-chip (così viene anche detta) può essere invasiva o non invasiva. Quella invasiva implica che appropriate terminazioni artificiali penetrino attraverso le ossa della scatola cranica e siano in diretto contatto (una sinapsi cyborg!...) con le cellule del cervello. La funzionalità elettro-chimica ei neuroni ha potere causativo sulle terminazioni artificiali, attivandole in modo appropriato. Quella non invasiva lavora per mezzo di sensori extra-cranici che raccolgono le onde cerebrali. Queste sono usate come fattore di attivazione di congegni esterni. L’interfaccia neuro-elettronica è per adesso un obiettivo visionario che ha a che fare con la realizzazione di nano dispositivi che permettono ai computer di connettersi al sistema nervoso. Questo richiede la messa a punto di strutture su scala molecolare che permettano il rilevamento e il controllo dell’impulso nervoso da parte di un computer esterno. Il computer deve essere in grado di interpretare, registrare e rispondere ai segnali che il corpo emette quando prova sensazioni. La richiesta che viene fatta a tali strutture è enorme perché molte malattie implicano il decadimento del S.N. (ALS e sclerosi multipla, per es.). Inoltre molti traumi e incidenti possono comportare disfunzioni del SN, paraplegie, etc. Se il computer potesse controllare il SN tramite un’interfaccia neuro-elettronica, i problemi del sistema potrebbero essere controllati, così che le implicazione di malattie e disturbi potrebbero essere ovviati. Due considerazioni devono essere fatte quando si sceglie la sorgente di energia per tali applicazioni. Si tratta di strategie di energia rinnovabile e non rinnovabile. Una strategia “rinnovabile” implica che l’energia sia continuamente o periodicamente fornita da sorgenti esterne di natura sonora, chimica, magnetica. Elettrica, etc. Una strategia “non rinnovabile” implica che tutta l’energia sia accumulata come stoccaggio “interno”, che pertanto va incontro ad esaurimento non appena l’energia stessa è usata. Una limitazione a tale innovazione sono le possibili interferenze elettriche. I campi elettrici, gli impulsi elettromagnetici (electromagnetic pulses, EMP) e campi circostanti dovuti a altri dispositivi elettrici nei pressi possono essere ulteriori cause di interferenza. Inoltre spessi strati isolanti sono richiesti al fine di prevenire dispersione di elettroni, e se è presente un’alta conduttività del mezzo c’è il rischio di un’improvvisa perdita di potenza e di corto circuito. Infine, grossi cavi sono richiesti anche per condurre elettricità senza surriscaldamento. Piccoli progressi pratici sono stati fatti e la ricerca è tuttora in corso. Il cablaggio della struttura è estremamente difficile perché i collegamenti devono essere posizionati con esattezza nel SN. Le strutture che sono preposte all’interfaccia devono anche essere compatibili con il sistema immunitario, così che possano permanere all’interno del corpo per un lungo tempo. Inoltre, la struttura deve anche essere sensibile alle correnti ioniche ed essere in grado di provocare correnti che rifluiscano in senso contrario (all’indietro). Mentre le caratteristiche di queste strutture si presentano come allettanti, i tempi della loro realizzabilità non sono ancora prevedibili. Con questo termine si intende una diretta comunicazione tra il cervello e un dispositivo esterno.

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Talvolta è detta interfaccia neurale diretta o interfaccia uomo-macchina. Le BCI sono spesso finalizzate ad assistere, aumentare o integrare le funzioni cognitive o senso-motorie umane La ricerca sulle BCI è iniziata negli anni ’70 del ‘900 nella università di California Los Angeles (UCLA) con un finanziamento della National Science Foundation, seguito da un contratto con DARPA. Le relazioni pubblicate dopo queste ricerche segnano anche la comparsa dell’espressione Brain-Computer Interface nella letteratura scientifica. Il campo di studi della BCI ha già dato risultati straordinari, per lo più nell’ambito delle applicazioni neuro protesiche che mirano a ripristinare le funzioni uditiva, visiva e motoria, comunicativa e persino talvolta cognitiva. Grazie alla notevole plasticità della corteccia cerebrale, i segnali delle protesi impiantate possono, dopo un adattamento, essere manipolate dal cervello come canali afferenti/efferenti naturali. Seguendo anni di sperimentazione animale, i primi dispositivi neuro protesici impiantati negli umani appaiono a metà degli anno ’90. BCI versus neuroprotesi Quello delle neuroprotesi è un campo delle neuroscienze. Il dispositivo neuroprotesico più usato è l’impianto cocleare che, a partire dal 2006, è stato impiantato in circa 100.000 persone in tutto il mondo. Ci sono anche dispositivi che sono mirati a ripristinare la visione, incluso gli impianti retinali. La differenza tra la BCI e le neuro protesi consiste per lo più nel modo in cui i termini sono usati: le neuroprotesi tipicamente connettono il SN a un dispositivo, mentre la BCI usualmente connette il cervello o il SN con un sistema informatico. La neuroprotesi può essere connessa a qualsiasi parte del SN (per es. i nervi periferici), mentre il termine BCI usualmente designa una più ristretta classe di sistemi che si interfacciano con il SNC. I due termini sono talvolta usati in modo intercambiabile, e per buone ragioni. Neuroprotesi e BCI sono orientate al raggiungimento dei medesimi risultati di ripristino e compensazione. Entrambe si avvalgono delle stesse metodiche sperimentali e delle stesse tecniche chirurgiche. Per superare il neuro feedback e la BMI (Brain-Machine Interface), dovremmo essere capaci di creare e gestire il codice neurale. Questo è un problema quantitativo-qualitativo da analizzare e controllare in modo più appropriato: il codice di frequenza, il tempo del codice di frequenza (per questo dovremmo raggiungere una più sottile discriminazione del tempo, il codice di popolazione (schemi, mappe delle attivazione neurale). “Nicolelis iniziò a studiare come le scimmie (connesse alla protesi) sviluppano una coscienza cinestesica, movimenti e una sensazione tattile che sono completamente separate dagli input sensori del loro organismo biologico. Esperimenti fisiologici suggeriscono che queste scimmie si sentono più connesse al robot che al loro corpo.” (Gary Stinx, Il download della mente, in “Le Scienze”, n.485, January 2009, p. 48-53) Noi possiamo ricevere feedback solo visivi o comunque esterni di un apparato eterogeneo. Né la propriocezione, né l’autopercezione possono essere usate per completare e chiudere il circuito tra feedforward and feedback. Ciononostante possiamo imparare a gestire movimenti che includono questo apparato nel nostro progetto e nella nostra computazione dell’azione.

18. PROTESI SENSORIALI Queste protesi sono usualmente collocate nella sede anatomica dell’organo mancante o non-funzionante. Lo stimolo è raccolto dal dispositivo che provvede anche ad un’appropriata trasduzione e all’invio dei dati Al cervello tramite una connessione diretta, invasiva. Anche se la qualità/quantità della percezione al momento è più povera di quella naturale, grazie all’adattamento e ai processi di apprendimento, il soggetto può trarre grande vantaggio da questo.

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Una protesi visiva di nuova generazione “Brain port” è un dispositivo non invasivo composto da diversi elementi, che permette a un soggetto cieco di ricevere un’immagine del mondo in bianco e nero. La risoluzione spaziale sulla lingua applicata al dispositivo protesico visivo BrainPort® A. Arnoldussen, B. Besta, A. Ferber, E. Fisher, R. Hogle, S. Lederer and M. Rosing Scopo: per chi è cieco il BrainPort® Vision Device fornisce la ricezione di informazioni visive usando la lingua come sostituto dell’occhio. Chi lo usa struttura un riferimento spaziale con appena poche ore di esercizio, mappando informazioni tattili relative all’ambiente sulla lingua. Riguardo all’acutezza visiva, è stato fissato un modo sperimentale per determinare la discriminazione spaziale sulla lingua tramite stimolazione elettro-cutanea. Metodi: hanno partecipato sedici soggetti vedenti (10 uomini e 6 donne), con un’età compresa tra 18 e 39 anni (media 24.5 anni). I soggetti erano reclutati (recruited) Dal Madison, area WI. Tutti i soggetti fornirono consenso informato in base a un protocollo di studio approvato dall’IRB del New England. Uno stimolatore elettro-cutaneo lineare fu appositamente fabbricato con 10 elettrodi (tactors) di 169 micrometri di diametro, intervallati da spazi di 254 micrometri. Metà delle esercitazioni prevedeva solo uno stimolatore (“tactor”), mentre l’altra metà ne conteneva due a una distanza fissa, 254, 580, 762, 1016 e 1261 micrometri da un centro all’altro. I soggetti erano istruiti a premere un tasto se avvertivano una stimolazione e un altro tasto se ne avvertivano due. Essi erano sollecitati ad usare la punta della loro lingua e muoversi e/o esplorare la stimolazione con ogni parte della lingua in ordine alla massima risposta. Non c’era limite nel tempo di risposta, per permettere al soggetto di esplorare lo stimolo con qualsiasi parte della lingua che potesse dar loro la miglior informazione. Risultati: i punti di informazione erano tradotti in un punteggio (d-prime) che teneva conto della spaziatura e del soggetto. La discriminazione soglia era definita a priori con un punteggio più alto di 1. Come gruppo, la prestazione ha ecceduto il punteggio >1 quando gli stimolatori erano spaziati di 762 micrometri. Una ANOVA a senso unico rivelò un significativo effetto principale in relazione alla spaziatura (F(4,60)=4.466, p<.005). appena la spaziatura aumentava, la prestazione migliorava. Il 12% dei soggetti testati fece segnare un punteggio individualmente superiore alla soglia nella più stretta spaziatura di 254 micrometri. Mentre la media del gruppo si è attestata su 762 micrometri, ci sono soggetti che hanno abilità discriminatorie migliori della media. Questo potrebbe suggerire che il limite attuale di un soggetto può essere migliore di una spaziatura di 254 micrometri. Conclusioni: questi risultati suggeriscono che senza un apprendistato estensivo, la generalità delle percezioni spaiali sulla lingua è 762 micrometri o meglio. Questo ci permette di ottimizzare la misura e la spaziatura degli stimolatori accoppiati con l’apparato ottico quando si progetta il sistema protesico visivo per essere comparabile all’acutezza visiva.

Una videocamera è collocate in normali occhiali indossati dal soggetto. Essa registra immagini, inviandole in tempo reale in un dispositivo appoggiato sulla lingua, la cui superficie è stimolata in correlazione alle immagini ricevute. In particolare il dispositivo “legge” e trasmette alla lingua il contorno degli oggetti inquadrati. Il soggetto ha bisogno di un periodo di addestramento per imparare a reindirizzare lo stimolo (ora provenendo in modo anomalo dalla lingua anziché dalla retina) verso la corteccia visiva. Così tali informazioni possono essere processate come visuali. La prima persona ad aver testato questa protesi è stato il caporale inglese Ludberg. Questa tecnologia presenta il vantaggio di essere non invasiva, ma purtroppo non è compatibile con altre attività del soggetto, come bere, mangiare, parlare. Queste ricerche sicuramente incrementeranno le conoscenze sulla sinestesia e sulla plasticità del SN.

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Brain Port non ha bisogno di impianti di connessioni neuro-chip. L’organo mancante o non funzionante (ma è necessario che la mancanza o la disfunzionalità siano acquisite, dato che il soggetto deve avere memoria della modalità percettiva originaria) è “bypassata” per mezzo di un altro canale sensoriale (terminazioni tattili invece che il nervo ottico). Un altro genere di protesi, “Brain Gate”, permette di attivare muscoli paralizzati. La scelta della lingua è dovuta alla sua elevata acuità tattile, tra le più alte del corpo.

19. PERCEZIONE STRUMENTALE E SENSAZIONE DOLOROSA Alterazioni della somato-sensorialità, dovute a cause differenti (anestesia, etc.) sono fattori che cambiano la percezione delle parti del corpo coinvolte in tali alterazioni. Lorimer Moseley (dell’Università di Oxford) ha recentemente scoperto che accade anche il reciproco: se cambiamo la percezione di una parte del corpo (per esempio ingrandendo o riducendo la sua dimensione apparente per mezzo di occhiali appropriati), il dolore di queste parti viene rispettivamente (e coerentemente) esaltato o attenuato. In altre parole, il dispositivo ottico diviene parte del corpo e della funzionalità neurale della percezione (si veda in proposito Giovanni Sabato, La visione del dolore, in “Le Scienze”, n.485, Gennaio 2009, p. 34)

20. BIOLOGIA E MEMETICA Gli esseri viventi e gli umani hanno la capacità di scambiarsi intenzionalmente o meno informazioni. C’è un parallelo tra il modo “umano” e quello biologico di scambiarsi informazioni e di comunicare, due processi correlati tra loro, ma che non sono esattamente la stessa cosa. I viventi in genere usano un modo biologico, dato dall’istinto e che usa modalità fisiche o chimiche come la trofallassi. Gli umani hanno una risorsa ulteriore e diversa: i “Memi” (il nome Meme è creato sul calco di Gene, unità di contenuto biologico, genetico), unità di contenuto cognitivo che vengono trasmesse per via simbolica, considerato dagli autori una sorta di contagio per la sua analogia con l’analogo processo epidemiologico. La trasmissione memetica avviene secondo modalità che sono fuori dall’istinto, e sono piuttosto di natura tecnica e apprenditiva. Cultura & natura Gli umani includono usualmente corpi estranei nel loro corpo in un modo che è culturale e cognitivo. Non si può parlare, a questo proposito, di tendenze naturali o istintuali. Anche se siamo inevitabilmente inscritti nella dimensione corporea con implicazioni fisiche e biologiche per la nostra stessa esistenza e per le interazioni con il mondo, questo non significa che viviamo in una condizione sic et simpliciter naturale. La mediazione della mente, della cognizione e della cultura è sempre e comunque attiva, passaggio obbligato per qualunque nostra esperienza. Cognizione, emozione, senso estetico, eredità culturale decidono se un corpo esterno è estraneo e il genere/grado di tale estraneità. Ma usualmente la similarità con le nostre caratteristiche organiche e/o comportamentali (non il grado di artificialità) decide quanto un oggetto esterno è estraneo: il freddo e duro (anche se naturale) metallo è più estraneo di un soffice e caldo (anche se sintetico) materiale polimerico. La cultura (intesa come insieme di fattori simbolici e materiali prodotti dall’uomo) e la natura (intesa come insieme di elementi fisici, ma qui ci si riferisce soprattutto a quelli biologici) hanno caratteristiche comuni. Entrambi mostrano processi e proprietà simili. Una rete di connessioni rende le entità viventi e pensanti (culturali), incluso il loro ambiente, un unico sistema. Fritjof Capra chiama questa rete “la rete della vita” (“the web of life”). Le reti connettive e la natura informazionale di tali connessioni sono considerate come primarie, ovvero prevalenti sull’identità dei singoli elementi.

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Ogni corpo è sempre parte di un sistema fisico/informazionale, esso non collocato in un ambiente, è parte dell’ambiente. La reciproca appartenenza tra corpo ed ambiente non può essere spiegata da processi meccanici o deterministici tipici della meccanica classica, newtoniana, riduttiva. Le relazioni di co-determinazione, i processi di autorganizzazione, reazioni ipercicliche, proprietà emergenti, etc. devono essere comprese in accordo con un diverso paradigma concettuale che implica le teorie del tutto. Molti studiosi sono convinti sostenitori di tale paradigma, per es.:

- Fritjof Capra (cfr. The Web of Life, Anchor Books, 1997) - Ilya Prigogine, di Bruxelles - Humberto Maturana, Cile - Francisco Varela, di Parigi, - Lynn Margulis, della Università del Massachusetts - Benoît Mandelbrot, di Yale - Stuart Kauffman, di Santa Fe

Dalla esatta perfezione dell’orologio delle prime fasi della scienza moderna, il modello del corpo si accorda via via con la prospettiva delle trasformazioni a lungo termine (siamo nel XIX secolo) con la evoluzione darwiniana e l’entropia. L’identità di ogni singolo corpo sembra dissolversi, perdersi nel flusso del tempo e nei suoi elementi componenziali. In questo secolo le teorie dell’atomo e della cellula fanno grandi passi avanti. Il successivo punto di svolta caratterizza il secolo XX ed è centrato sul summenzionato paradigma del tutto. Esso supera sia le rigide immutevoli entità della vecchia ontologia (dove i cambiamenti sono considerati solo deplorevoli accidenti) e l’informe turbolento brulichio del caos stocastico (del moto browniano e così via) il cui destino è di conquistare il mondo intero e di condurlo alla morte entropica, alla fusione universale e alla scomparsa di ogni corpo individuale e di ogni unità distinta. Adesso tali corpi ed entità hanno la loro identità, anche se come nodo in una rete, connesso con gli altri, dotato di una sua persistenza, sebbene fluida e coinvolta in un ambiente complementare e similmente fluido.

21. MEMETICA I corpi “estranei” non sono solo quelli concreti: possiamo considerare anche quelli informazionali, concettuali o semiotici come qualcosa di estraneo, esterno, con una sua propria esistenza, una sua propria vita, che prescinde da quella del soggetto che ne è il portatore occasionale e provvisorio… L’intrigante ipotesi di R. Dawkins (si veda The Selfish Gene, 1976) riguardo al “Meme” lo considera come una entità distinta e autonoma, costituita da contenti astratti, a prescindere dalle menti individuali. Invece il meme è una unità di trasmissione culturale umana analogo sotto certi aspetti al gene (capace di garantire continuità per molti salti generazionali, di essere depositario dell’informazione genetica e di sopravvivere al suo proprietario) e sotto certi altri aspetti ad un germe, capace di “infettare” la mente. Secondo Dawkins e altri il meme ha proprietà biologico-simili. Così l’uomo e il genere umano non sono primariamente produttori o possessori di cultura, ma sono piuttosto infettati dai memi. Questi sono elementi esterni che possono invadere la mente e il cervello e, indirettamente, il corpo e la stessa esistenza. Il nostro corpo è sotto l’influenza incrociata di geni e memi. L’aspetto del corpo, il nostro modo di usarlo (se così si può dire), l’ambiente al quale è esposto e del quale fa parte, il cibo che viene consumato, la scelta del partner con cui far coppia, e tutto il resto è sotto l’influenza combinata gene/meme. Così come il gene è parte del corpo, altrettanto lo è il meme. “Il rifugio di tutti i memi dipende dal raggiungere la mente umana, ma una mente umana è essa stessa un artefatto creato quando i memi ristrutturano un cervello umano in ordine a renderlo una habitat migliore per i memi. Le strade per l’ingresso e la partenza sono modificate per soddisfare condizioni locali, e sono rafforza teda diversi dispositivi artificiali che migliorano la fedeltà e la

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prolissità della replicazione: la mente dei nativi cinesi differisce drammaticamente da quella dei nativi francesi, e le menti dei letterati differiscono da quelle degli illetterati. Ciò che i memi forniscono come controparte all’organismo in cui essi risiedono è un incalcolabile quantità di vantaggi – con alcuni cavalli di Troia lanciati dentro per buona misura.” (Daniel Dennett, Consciousness Explained, 1991) I memi sono strettamente connessi al corpo e al mondo concreto: essi sono astratti solo nel loro aspetto mentale, ma noi dobbiamo considerare che essi concernono il nostro corpo ne da esso sono influenzati, e hanno correlati materiali interni (il cervello) ed esterni (gli artefatti di ogni genere). Siamo andati dall’idealismo, in accordo al quale il mondo è un prodotto dell’attività astratta della mente, alla memetica, che, insieme alla teoria della cognizione incarnata e radicata, postula che l’uomo è un prodotto del mondo: veramente un bel salto!... L’influenza culturale sull’evoluzione I dispositivi artificiali, gli oggetti tecnologici e la cultura materiale divengono parte non solo del singolo corpo nell’arco della sua esistenza (ciò dovuto all’influenza sulle sue abilità senso-motorie, sull’adattamento, apprendimento, ragionamento, memoria e altri processi) ma anche dell’evoluzione della specie cui apparteniamo (si veda in proposito David Kingsley, in le Scienze, Febbraio 2009 e Peter Ward, ibid.). Questi Autori calcolano che il ritmo dell’evoluzione umana è stato incrementato a partire dall’origine della civilizzazione. Con la nascita delle città e dell’agricoltura la velocità dell’evoluzione è stata accresciuta di circa cento volte!... La stanzialità e la città sono condizioni in cui l’interazione umana è sicuramente facilitata e gli scambi comunicazionali sono più intensi e diversificati rispetto alla vita in singoli gruppi in continuo spostamento. L’evoluzione biologica (non solo quella umana) è guidata dall’evoluzione memetica (leggi culturale, tecnologica, etc.), complementare e indissolubilmente intrecciata in un rapporto di reciproche influenze. L’interazione con l’ambiente, comprendente gli altri umani, gli altri esseri viventi, l’accesso al cibo e alle varie risorse, il successo riproduttivo, le possibilità di sopravvivenza, il significato e le conseguenze di caratteristiche, difetti, malattie e così via… tutto è mediato dal fattore memetico, tecnologico, e dalla ormai irreversibile mancanza di quello istintuale. La retroazione della cultura sulla biologia si rileva anche, sia pure con la riserva di ulteriori conferme che si attendono), nei geni saltatori e nei geni retro-trasposoni che, rispettivamente, cambiano posto nella sequenza del genoma o producono copie di se stessi che vanno a trovare posto altrove. Il tutto ha ovviamente ripercussioni sul genotipo e viene verosimilmente stimolata da fattori di natura culturale.

22. I NEURONI SPECCHIO I neuroni specchio, nella regione di Broca, sono importanti nell’interazione umana e animale. L’interazione in cui sono imprescindibili gli aspetti concreti, corporei e che è intesa in senso di presenza e di azioni altrettanto concrete. Tale aspetto materiale intrecciato con quello cognitivo, emozionale, relazionale. Comprendere, aspettarsi e anticipare le azioni e i comportamenti altrui ci permette di interagire in modo significativo ed efficace con gli altri. I corpi (anche nel senso di corpi umani) estranei divengono parte di noi. Nella parte finale del suo famoso libro “Se questo è un uomo”, ragionando sul proprio dolore dovuto alla morte di un amico, un compagno di sventura prigioniero in Auschwitz, Primo Levi scrive: “Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non-umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo.” (Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino, 1989, p. 270)

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23. PROSSEMICA Nell’interazione le distanze, la reciproca posizione, le trasformazioni di tali posizioni e distanze, la struttura spaziale del contesto sono fattori che costituiscono parte integrante dei processi comunicazionali. Il grado e il genere di estraneità del corpo dell’altro è regolato dai e regola i fattori prossemica. Ma questo rapporto non è comunque in termini strettamente deterministici. Per esempio: la più piccola distanza (chiamata “intima” nella terminologia prossemica) equivale (ammettiamo, ma non è così categorico nemmeno questo) al più forte coinvolgimento emozionale, ma questo può implementare, in modo ambivalente, empatia o, se la precedente condizione o intenzione del soggetto sono differenti, essa può esasperare o addirittura provocare intolleranza, persino inimicizia. Guardando un film lo spettatore cance3lla la distanza tra sé e lo schermo. L’esperienza cognitiva ed emozionale è simile alla collocazione dello spettatore nella posizione della videocamera. Ciò è provato dalle risposte fisiologiche, cognitive ed emozionali all’inquadratura in primo piano del volto dell’attore. Questa risposta è simile a quella osservata nella interazione alla distanza definita intima nella prossemica. Il cinema è un dispositivo audio-visivo complesso che “ingloba” lo spettatore nella scena. Lo spettatore vive la scena e gli avvenimenti del film “dimenticando” l’apparato artificiale, la mediazione tecnologica tramite la quale tali scene sono offerte. È verosimile che i neuroni specchio siano implicati similmente a come lo sono nella realtà.

24. LA MENTE CALCOLA E RICORDA USANDO E VIRTUALIZZANDO DISPOSITIVI CONCRETI

Dall’abaco più piccolo e rudimentale, ai “farraginosi” calcolatori meccanici come la macchina di Babbage, ai calcolatori elettronici più sofisticati, passando attraverso schemi grafici (come quelli delle mnemotecniche), abbiamo tutta una varietà di oggetti concreti il cui funzionamento consiste nell’ingresso di informazioni che vengono restituite dopo un processamento che le trasforma. Tutti questi congegni sono stati inventati per costituire un’estensione della mente, una sua espansione al fine di estendere le sue prestazioni computazionali, sollevarla da compiti di stoccaggio e rievocazione di informazioni. La mente si “appoggia” a tali aiuti esterni non per una sua carenza o perché non abbastanza “matura” e adulta. Non c’è una parabola evolutiva che va dall’uso concreto alla virtualizzazione di tali meccanismi di calcolo. Non c’è motivo di fare a meno dell’estensione o delle estensioni esterne. La concretezza come segno di immaturità e l’astrazione come indice di adultità, come erano nel modello piagettiano, non hanno più motivo di esistere. La mente è sempre concreta e astratta, contestualmente rispetto alle esigenze del momento. L’ambiente strutturato (presenza , posizione e/o caratteristiche degli artefatti e oggetti naturali che lo compongono) è parte della funzione mnemonica, attivando opportune configurazioni neurali, corrispondenti a quelle che tradizionalmente erano chiamate rappresentazioni. Il mondo è parte della nostra memoria, concretamente!... È condizione di memoria, direttamente!... Per svolgere questo ruolo il mondo non è detto debba sempre essere presente fisicamente, al momento. Noi possiamo “usare” anche un mondo virtuale (o virtualizzato), come si fa quando pensiamo a qualcosa senza attingere alle fonti afferenziali, percettive, come si fa nelle mnemotecniche, in cui un’esperienza auto-simulata di esplorazione di un’architettura o l’osservazione di un corpo (che funzionano da “imagenes agentes”) sono il punto di partenza per ricordare e orientarsi in un lungo e difficile discorso con numerosi contenuti, nozioni, nomi… Possiamo notare che il nostro corpo, insieme al dispositivo esterno, costituisce un nuovo e differente sistema, che emerge dalla connessione di uno con l’altro. La connessione è molto stretta con forti implicazioni, non è una semplice aggiunta. Possiamo definire anche questo come un “accoppiamento strutturale” o qualcosa che gli assomiglia molto… Il nuovo sistema che così emerge non è autocentrato (rispetto al soggetto), talvolta nemmeno centrato sul SN. I processi di apprendimento trasformano l’interazione occasionale in una inclusione del mondo esterno nel nostro corpo. Persino i processi cerebrali come il ricordare non sono basati solo su risorse interne. Il

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cervello “ha fiducia” nei riferimenti offerti da opportuni oggetti esterni. Le informazioni riguardanti il mondo sono processate insieme con e nello stesso modo di quelle riguardanti il nostro corpo. È molto difficile distinguere il dispositivo esterno incluso nel sistema mente-cervello in un modo che non è semplicemente rappresentazione: noi percepiamo il mondo in continuità e omogeneamente al nostro corpo. L’apprendimento e i vari processi di elaborazione è la confluenza di informazioni interne ed esterne in un unico sistema computazionale. Con l’apprendimento acquisiamo familiarità con le nuove situazioni, correlando opportunamente afferenze ed efferenze (cfr. P.M. Churchland, 1992). Il SN ha una plasticità (almeno potenziale) che persiste (sebbene cambi nel tempo) per tutta la durata della vita. Tale plasticità permette di riconfigurare l’architettura neurale connettiva1 a livello sia locale che globale. Le sinapsi “aggiustano” il loro “peso” divenendo capaci di modificare appropriatamente il segnale che le attraversa. Inoltre nuove sinapsi sorgono, alcune “vecchie” sono eliminate, e così via… La precoce e massiccia selezione che avviene all’inizio della vita coinvolge interi gruppi di neuroni, non solo sinapsi più o meno isolate (si veda Gerald Edelman e la teoria del darwinismo neurale). Questo permette il sorgere di un profilo struttural-funzionale. Durante la vita, i processi di apprendimento e adattamento continuano a configurare il nostro cervello. L'idea centrale della prospettiva di Vygotskij è che lo sviluppo della psiche è guidato e influenzato dal contesto sociale, quindi dalla cultura del particolare luogo e momento storico in cui l'individuo si trova a vivere. La psiche non è altro che il riflesso delle condizioni materiali, le quali possono essere modificate e trasformate in prospettiva di un fine concreto. Vygotskij accetta l'ipotesi che la struttura base dei processi psichici sia la sequenza stimolo-reazione, ma in merito a processi psichici superiori (il livello delle funzioni intellettive) inserisce un nuovo elemento: lo stimolo mezzo. Lo stimolo-mezzo è uno stimolo "creato" dall'uomo, quindi anche se è un oggetto naturale, per il fatto di essere così usato e inteso, ha una valenza memetica; è utilizzato per instaurare un nuovo rapporto stimolo-risposta e promuovere lo svolgimento del comportamento in una direzione diversa. In particolare egli studia l'importanza dell'uso di strumenti e simboli nello sviluppo umano come stimoli-mezzo. L'esempio più celebre con cui Vygotskij illustra il concetto di stimolo-mezzo è quello del fazzoletto: se una persona deve ricordarsi di svolgere una mansione, può fare un nodo su un fazzoletto; il nodo è uno stimolo-mezzo, che media il rapporto tra il dovere di compiere una mansione e l'azione-risposta. Il comportamento umano non è quindi per Vygotskij la semplice interazione fra stimoli e risposte, ma è mediato da stimoli-mezzo, i quali possono essere strumenti esterni (il nodo del fazzoletto), ma anche strumenti acquisiti dall'ambiente sociale e interiorizzati. In virtù di tale caratteristica i processi psichici superiori (pensiero, linguaggio, memoria) non hanno un'origine naturale, ma sociale e li si può comprendere solo prendendo in considerazione la storia sociale.

25. IL SÉ BIOLOGICO Distinguere sé dal mondo è un atto di separazione, ma allo stesso tempo è condizione di rapportarsi con ciò da cui ci si è separato. La materia vivente, basandosi sulla specificità chimica, è in grado di identificare e separare il sé dal non-sé. Questa è una condizione e una proprietà che ha consentito e consente ai viventi di mantenere, ripristinare, espandere il proprio dominio, in altre parole di affermarsi nell’ambiente come qualcosa di riconoscibile (riconoscibile sia da altre entità –altrettanto viventi– sia da se stesso). Ciò è implementato dalla capacità di autorganizzazione e di funzionare in

1 Notiamo che il cervello è una rete di sinapsi connesse una con l’altra da neuroni. Dobbiamo superare l’idea

tradizionale del SN come costituito da neuroni connessi da sinapsi. Gli elementi computanti sono le sinapsi, non i neuroni!...

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modo negentropico, di mantenere cioè una certa distanza (distanza che deve essere sempre oltre una soglia critica, così da consentire la vita) dall’equilibrio termodinamico. Il carattere informazionale del sistema vivente ha, in questo auto-organizzarsi e mantenersi a distanza dall’equilibrio termodinamico (facendo pagare il conto all’ambiente…), un ruolo fondamentale. Nell’uomo possiamo chiamare il sé biologico l’“io del corpo” Il corpo ha una insopprimibile e ineludibile soggettività innanzitutto biologica. Chi parla del sé biologico intende in modo appropriato la capacità di un sistema di distinguere il sé dall’ambiente e di controllare e dirigere i propri processi in modo asimmetrico e orientato. Il corpo dell’uomo ha un sé ulteriore, correlato al fatto di essere correlato a una mente, che sviluppa un sé astratto, concettuale. Con buona pace degli idealisti di stampo ottocentesco, che facevano del sé una faccenda giocata tutta a livello di pensiero, anzi proprio in virtù del fatto che il pensiero si staccava dal corpo, gli si contrapponeva e veniva lasciato a far parte di un mondo esterno e materiale, il sé va ri-radicato nel corpo, va riconosciuta, insieme alla specificità dei due aspetti (che, ovvio, non coincidono), la loro continuità e la loro dialettica sempre aperta, come ciascuno sia tributario dell’altro

26. IL DISTACCO DEL “SÉ MENTALE” DA QUELLO CORPOREO E MONDANO Questo distacco, lacerante e traumatico in ogni caso, ha comunque, al di là di questo imprescindibile aspetto (l’interezza e la globalità sono per l’uomo condizione per un’esistenza piena ed equilibrata), una doppia valenza. Innanzitutto vi si può far ricorso come via di fuga da esperienze traumatiche, di grave violazione della propria integrità corporea, come accade nella violenza sessuale e nella tortura. In questi casi si preferisce sentirsi distaccati da un corpo violato in balìa dell’altri capriccio o crudeltà. La mancanza di controllo e di potere di preservazione del proprio corpo, della libertà di disporne, ci fa preferire escluderlo da ciò che è nostro, o meglio da ciò che siamo. Il senso del sé, l’autocoscienza si ritirano nella dimensione mentale, inaccessibile all’altro, come un naufrago si aggrappa ad un relitto e ci si arrampica, per sottrarsi al mare che minaccia di sommergerlo o di consegnarlo alle fauci di un predatore che sbuca dalle profondità tenebrose. Quindi l’abbandono del sé corporeo è in questi casi ricerca della salvezza, preservazione di un residuo di identità per non sentirsi persi del tutto, una sorta di autotomia come quella della lucertola o di altri animali che dispongono di un meccanismo fisiologico di auto amputazione: meglio senza un pezzo di sé (vittima sacrificale, in nome della salvezza del resto, in cui la vita permane) che essere divorati per intero e cessare di esistere. Frasi che vengono dette o pensate in tali casi possono suonare più o meno così: “Il mio corpo non mi appartiene più, è cosa estranea per me!” “Io e il mio corpo siamo due cose differenti e separate! Non si implicano una con l’altra!” “Ciò che succede al mio corpo non succede a me!” “il mio corpo soffre, prova dolore, io no!” Ma c’è anche una valenza opposta, di rifiuto volontario, non sotto la pressione del potere e della violenza altrui. L’anoressia e tutte le pratiche autodistruttive, in cui il corpo viene rifiutato e ci si pone come obiettivo la sua distruzione, annichilimento o quantomeno neutralizzazione, espulsione dall’ambito del sé pieno e vitale. Lungi dall’essere un’ambizione edonistica, l’anoressia è tragicamente e semplicemente il rifiuto del sé corporeo, l’aspirazione a “smaterializzarsi”, la ricerca a oltranza di una leggerezza che mira all’azzeramento del corpo: finché ne rimane un residuo, questo è sempre un eccesso intollerabile, una ridondanza insopportabile. L’anoressia non è un disturbo dell’alimentazione: la forzata auto privazione del cibo è solo uno dei modi per negare al corpo, a questo estraneo ingombrante, la fonte di sostentamento, di sopravvivenza, che, inoltre, il massimo dell’abominio, tende addirittura a renderlo più cospicuo, più

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consistente e vitale. La vita, l’esistenza si cerca di farle ritirare nella sola (e pura!...) dimensione astratta, chiamiamola pure spirituale. Non a caso l’anoressia è stata spesso legata a esperienze mistiche, religiose. Una condizione esangue, immateriale, lieve fino al parossismo, un’iperbole che proietti il corpo nel nulla della consunzione totale, della nullificazione, della disgregazione che lo renda inesistente, lo disgreghi fino a ridurlo a una manciata di atomi disperdibili in una diaspora liberatoria, catartica. Ma il corpo resiste, nonostante tutto vuol sopravvivere, mantenere uno spessore, una consistenza, una materialità, una funzionalità biologica, non ci sta a esalare in un soffio in modo silenzioso e indolore. Ecco allora gli accanimenti, il ricorso a pratiche autodistruttive anche dolorose, punitive, aggressive, fino all’autotortura. Il dolore sembra in qualche modo riscattare la colpa di esistere fisicamente, colpendo proprio quella parte responsabile di tale colpa. Il provare dolore non è un deterrente, al contrario rassicura, dà la rassicurazione che in qualche modo si sta espiando. L’aspetto orribile che il corpo acquista in conseguenza a tutto ciò (magrezza, segni di decadimento, di degenerazione, cicatrici, assenza di cura…) non è un segno di allarme, ma solo che siamo sulla strada che deve essere portata a conclusione, non ci si può accontentare di un risultato a metà… La frenesia motoria, il ricorso a pratiche faticose, il continuo sperpero di energie, a prescindere dalla loro finalizzazione, fanno parte del grande progetto di autoannientamento. Anche in questo caso, la sgradevolezza della fatica, l’impegno e la forza di volontà che richiede non spaventano l’anoressico, anzi sono il suggello, la garanzia che sta procedendo nella giusta direzione. Ogni piccola sottrazione, ogni infinitesimo di consunzione, ogni minima dispersione tutto va a far cumulo (in negativo, di detrazione!...) e avvicina al gran traguardo… una sorta di perverso Nirvana è quello che aspetta l’anoressico, salvo il fatto che prima di realizzare la propria “smaterializzazione” sopravviene la morte. Non tutte le anoressie, si obietterà, portano a morte. Vero, ma è solo perché non vengono portate alle loro estreme conseguenze, vengono smorzate da qualche compromesso, ma la linea ideale di tendenza rimane la solita. Tanathos vs. Eros, Tanathos intesa come rifiuto della propria materialità, della propria continuità con il mondo, del continuo scambio con esso, di materia, di energia, di informazione, e Eros inteso come vita piena, come capacità di provare piacere, incluso le sue implicazione estetiche, percettive, corporee, come ricerca di questo piacere e della forza vitale, inclusa quella biologica, viscerale, carnale. Frasi che possono essere ingenerale essere attribuite all’anoressico possono essere: “Io non voglio più questo corpo! È un estraneo, un impostore, un invasore, un abusivo!” “Devo distruggere questo corpo, cancellarlo, abbandonarlo, abbandonare il mondo che lo circonda, di cui fa parte!...” “Non farò nulla che assicuri a questo corpo energia, salute o sopravvivenza!...” L’anoressia è tutt’altro che un edonistico desiderio di divenire grassi e belli... L’anoressia non è un semplice disagio alimentare, è votarsi alla rinuncia al corpo, investe la totalità dell’esistenza! La cosa paradossale è che anziché estendersi e includere il mondo, ponendosi in continuità con esso, la frontiera del sé va in direzione opposta, si retrae, implode e taglia fuori ciò che originariamente faceva parte di questo sé. C’è detrazione quantitativa (il dominio del sé si riduce a poca cosa) e qualitativa (perde la connotazione di concretezza, di corporeità, di continuità materiale con il mondo)

27. I QUADRI TEORICI DI RIFERIMENTO Pensiero, corpo e mondo sono i tre aspetti che ci costituiscono, formano un circuito dinamico di co-determinazione che lascia spazio a emergenze, autorganizzazione e tute le proprietà che conosciamo delle funzioni organiche, della conoscenza e della cultura, della relazionalità fisica e simbolica. L’Esternalismo, le teorie della intelligenza radicata e incarnata, o EEC (EMBODIED EMBEDDED COGNITION) e del comportamento interattivo immediate, o IIB (IMMEDIATE INTERACTIVE BEHAVIOR), senza trascurare le implicazioni di fenomenologia e del

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connessionismo, della teoria delle reti etc. è destinata a dare sviluppi considerevoli in un futuro non troppo lontano. L’importanza e la complessità di queste relazioni tra cognizione, corpo e mondo investono tanto la scienza e l’epistemologia quanto la nostra esistenza. Sono proprio questi riferimenti teorici che consentono di rimuovere l’ostinato dualismo che si trova anche tra riflessività e comunicazione, individualità e socialità. Questo dualismo tra riflessività (isolamento) e comunicazione (immersione) con la preesistenza della prima sulla seconda, come se la comunicazione e la socialità scaturissero da una somma di individualità giustapposte e senza considerare l’altra metà della questione, cioè le retroazione della dimensione sociale su quella individuale: la prima “fa” la seconda quanto la seconda “fa” la prima. Il nostro cervello è (parte de) il nostro corpo, ma non solo. Il cervello è in realtà una parte molto speciale del corpo, è la parte grazie alla quale noi percepiamo, conosciamo, comprendiamo e gestiamo coscientemente la nostra esistenza, compreso la dimensione corporea. Noi viviamo il nostro corpo, siamo il nostro corpo, e viverlo attraverso la nostra mente-cervello (dalla nostra funzionalità nervosa al contesto culturale in cui siamo immersi) è l’unico modo di viverlo. Non c’è dualità tra il cervello e il (resto del) corpo, tra un sistema controllore e un sistema controllato. In definitiva sono aspetti diversi della stessa cosa, possiamo considerarli come inscindibili. Il corpo è un corpo pensante e pensato: il pensiero non sarebbe come è se non fosse incarnato in un corpo. Pensiamo anche con il corpo, il corpo è organo del pensiero, è produttore e autore di cultura. È il corpo ad essere implicato in un rapporto con il mondo, a garantire la nostra continuità con esso, il nostro scambio che è insieme fisico e informazionale/semiotico. La retropropagazione dell’errore (si veda il connessionismo) ha una sorgente corporea ed è la condizione essenziale per rendere il cervello capace di interagire appropriatamente ed efficacemente con il mondo. La micro- e macro-architettura acquista le specificità per ottimizzare le future interazioni, così come possono essere previste. Questo è possibile grazie all’inclusione degli oggetti esterni nella funzionalità cerebrale. Così noi abbiamo bisogno di superare la teoria puramente proiettiva dell’“homunculus”. Anche se esiste un importante ambito di connessioni (cervello-corpo e corpo-cervello) questo non è l’unico né il principale modo di correlare il “centro” e la “periferia”. La rete di connessioni va vista in modo più sistemico, comprendente anche i rapporti con il mondo, da una parte e con la mente e la cultura, dall’altra.

28. COMPORTAMENTO IMMEDIATO INTERATTIVO, IMMEDIATE INTERACTIVE BEHAVIOR (IIB)

Con questo termine si intendono tutte le attività degli agenti che in modo abituale e dinamico usano la loro natura incarnata e radicata per ottenere un incremento delle capacità cognitive. Tale teoria caratterizza anche un dominio emergente delle scienze cognitive e della ricerca scientifica che studia come gli agenti cognitivi sfruttino e alterino il compito e l’ambiente in tempo reale. Esempi di comportamento immediato interattivo includono l’aggiustamento delle monete quando si aggiunge il loro valore, risolvere un problema con carta e penna, gestire attrezzi e ingredienti mentre si prepara una ricetta, programmare un VCR, guidare un aeroplano. Ogniqualvolta un agente cognitivo interagisce attivamente con il mondo, il processo che ne risulta va a trasformare verosimilmente tanto il sistema cognitivo che l’ambiente. Pertanto, l’IIB è adattivo in due modi complementari e distinti: da una parte, il sistema cognitivo si adatta la struttura del suo compito all’ambiente per trascendere le sue limitazioni intrinseche (per es. di attenzione e di memoria). D’altra parte, il sistema cognitivo esibisce una tendenza pervasiva ad adattare e strutturare il suo ambiente in funzione degli obiettivi. La plasticità bi-direzionale dell’accoppiamento mente-materia è sia risorsa che limite per la ricerca. Le sfide concettuali e teoretiche di una scienza della cognizione radicata includono il quesito: un nuovo ruolo per la cognizione? Quando i processi cognitivi sono visti come capaci di estendere nel

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mondo i tradizionali confini tra cognizione, percezione e azione sono sfumati. Laddove lo scopo della cognizione è tradizionalmente limitato ai processi mentali, esso può essere esteso a comprendere un insieme di attività interne e ambientali. In alternativa, il ruolo della cognizione potrebbe essere reinterpretato come un mediatore altamente specializzato dell’interazione tra sottosistemi interni ed esterni. Questa più sottile visione della cognizione fa scivolare l’enfasi dallo scopo della cognizione al controllo dei sistemi cognitivi integrati. Cosa costituisce l’“ambiente”? identificando il contesto rilevante di un agente radicato nell’ambiente non è banale. Una rappresentazione adeguata dell’ambiente dovrà adottare una prospettiva funzionale. Il compito funzionale dell’ambiente differisce dall’ambiente fisico e include aspetti della storia dell’agente, le sue conoscenze, i suoi obiettivi, la sua capacità di azione. Piuttosto che una fonte di problemi, l’ambiente diviene una risorsa di opportunità per la percezione e per l’azione.