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IL 25 LUGLIO: LA CRISI DEL FASCISMO 1 Il 25 luglio non fu come un fulmine a ciel sereno. Il corpo del fascismo, come strumento politico, era ammalato in molte parti e da più anni. La crisi era complessa. La disavventura militare, se fu l’ultima e decisiva causa del crollo, non fu la sola e non fu la prima. Quando Mussolini nel suo Diario di un anno scrive che le « questioni morali, i disagi economici, le lotte di partito non mettono mai in gioco l’esistenza di un regime », ma lo può sol- tanto la sconfitta militare, nella sua plateale superficialità mostra di non aver compreso la dinamica dello sfaldamento del suo re- gime; a parte la sciocca insinuazione, suggerita al dittatore folle dal suo egocentrismo, che la sconfitta militare fosse lo strumento manovrato dal re e dai generali per avere ragione della sua persona. Scomponiamo invece la crisi nei suoi elementi e vediamo come proprio le questioni morali, i disagi economici e le lotte di fa- zione, che Mussolini mostrò di sottovalutare, siano stati fattori altrettanto decisivi della crisi. E poiché in regime di dittatura le decisioni del « capo » pe- sano in misura determinante, cominciamo dalla crisi delle sue funzioni di comando, dalla crisi personale del capo. E ’ discutibile se Mussolini abbia mai svolto una politica na- zionale nel senso dell’interesse reale del paese. La sua fu piuttosto una politica nazionalistica al servizio ideologico del suo regime, fino a che non andò fuori strada, al di là di ogni realtà possibile. La frattura con questa realtà e con le fortune stesse del suo regime si rivelò insanabile nella formulazione da lui data degli scopi italiani della seconda guerra mondiale, e cioè « la conquista delle vie degli oceani ». Tali le fantomatiche parole del duce, il cui progressivo isolamento andò acquistando proporzioni ma- croscopiche fino ad un livello di folle irresponsabilità, che i vecchi compagni di strada si rifiutarono presto di condividere. Alla fine non si trattò più che di una politica di salvamento 1 Conferenza tenuta il 2 1 - 1 - 6 3 a Padova, per l’Istituto di Storia della Resistenza delle Tre Venezie.

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IL 25 LU G LIO : LA CRISI D EL FASCISM O 1

Il 25 luglio non fu come un fulmine a ciel sereno. Il corpo del fascismo, come strumento politico, era ammalato in molte parti e da più anni. La crisi era complessa. La disavventura militare, se fu l’ultima e decisiva causa del crollo, non fu la sola e non fu la prima. Quando Mussolini nel suo Diario di un anno scrive che le « questioni morali, i disagi economici, le lotte di partito non mettono mai in gioco l’esistenza di un regime », ma lo può sol­tanto la sconfitta militare, nella sua plateale superficialità mostra di non aver compreso la dinamica dello sfaldamento del suo re­gime; a parte la sciocca insinuazione, suggerita al dittatore folle dal suo egocentrismo, che la sconfitta militare fosse lo strumento manovrato dal re e dai generali per avere ragione della sua persona.

Scomponiamo invece la crisi nei suoi elementi e vediamo come proprio le questioni morali, i disagi economici e le lotte di fa­zione, che Mussolini mostrò di sottovalutare, siano stati fattori altrettanto decisivi della crisi.

E poiché in regime di dittatura le decisioni del « capo » pe­sano in misura determinante, cominciamo dalla crisi delle sue funzioni di comando, dalla crisi personale del capo.

E ’ discutibile se Mussolini abbia mai svolto una politica na­zionale nel senso dell’interesse reale del paese. La sua fu piuttosto una politica nazionalistica al servizio ideologico del suo regime, fino a che non andò fuori strada, al di là di ogni realtà possibile.

La frattura con questa realtà e con le fortune stesse del suo regime si rivelò insanabile nella formulazione da lui data degli scopi italiani della seconda guerra mondiale, e cioè « la conquista delle vie degli oceani ». Tali le fantomatiche parole del duce, il cui progressivo isolamento andò acquistando proporzioni ma­croscopiche fino ad un livello di folle irresponsabilità, che i vecchi compagni di strada si rifiutarono presto di condividere.

Alla fine non si trattò più che di una politica di salvamento

1 Conferenza tenuta il 2 1 - 1 - 6 3 a Padova, per l’Istituto di Storia della Resistenza delle Tre Venezie.

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personale, tentata da più parti e da tutti. Fallito l’estremo tenta­tivo di restaurare un fascismo senza più Mussolini — progetto che gli Alleati occidentali e la Corona stessa avevano inizialmente accarezzato — il regime affondò, trascinando nel gorgo coloro che non erano riusciti a saltare in tempo.

Ecco in breve le tappe di questa progressiva crisi personale. Nell’anno della non belligeranza, subito dopo l’attacco tedesco alla Polonia, le oscillazioni sempre più frequenti della politica estera italiana verso la pace o verso la guerra, dipendono dagli umori personali del dittatore. Per un capo di governo che agli inizi del 1939 e del patto d’acciaio aveva dichiarato con sicurezza a Ribbentrop che l’alleanza italo-tedesca andava intesa come uno strumento di conquista e non di difesa, era un gran passo indietro a metà agosto, dinanzi alle condizioni di irrimediabile imprepa­razione del paese, entrare nell’ordine di idee — come scrive Ciano— di riacquistare mano libera dalla Germania. Senonchè, pochi giorni dopo, temendo l’ira di Hitler e diffidando dei consigli di Ciano, Mussolini fa un nuovo passo avanti. « E ’ troppo tardi— egli dice — per piantare in asso i tedeschi. Se ciò avvenisse, la stampa di tutto il mondo direbbe che l’ Italia è vile, che non è pronta, che si è tirata indietro di fronte allo spettro della guerra ». Ma dopo neppure una settimana torna a carezzare il piano chi­merico di rinnovare la sua gloria di Monaco, ponendosi media­tore fra le parti e proponendo la cessione di Danzica al Reich. Ma ecco che due giorni dopo, il 25 agosto, Ciano lo ritrova « bel­licista a oltranza ». E ’ un attimo solo, perchè già il 26 esprime a Hitler il rimpianto di non poter intervenire. E così di seguito, avvicendando i giorni di sgomento a quelli di irremovibile spirito aggressivo.

La sua crescente germanofilia non maturava però insieme con il convincimento che la preparazione dell’Italia rendesse presto possibile l ’intervento. A l contrario, egli era persuaso di avere di­nanzi a se una duratura inefficienza militare se, nelle istruzioni a Graziani, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, del 13 dicem­bre 1939, gli ingiungeva: « per l’approntamento, di dare la pre­cedenza alle armi per la fanteria, mettendo in seconda linea le artiglierie, il cui realizzo — secondo l’ultimo programma di co­struzioni — è assai lontano ». Piuttosto egli si andava convin­cendo che la sola carta che gli era possibile giocare era quella della

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vittoria tedesca, in cui ciecamente credeva, e scoraggiava coloro che tentavano di dissuaderlo.

Ma quella carta rientrava ormai nell’esclusivo gioco di una politica personale, e non costituiva alcuna assennata alternativa di politica estera italiana (non fosse che per il pericolo che già stava correndo l’Alto Adige), e neppure di una politica del regime, che tenesse ad una propria autonomia nazionale. Persino la rilut- tanza di Franco a lasciarsi coinvolgere pareva insegnare.

A conflitto iniziato la carenza di comando fa passi da gigante. Il giogo che Mussolini si è posto volontariamente sul collo è duro da portare e suscita in lui opposti sentimenti di ammirazione e di odio per il più grande Hitler, in un avvicendamento che ha dell’isterico e dell’irrimediabilmente puerile. Decide la campagna di Grecia improvvisamente, per rivalsa all’occupazione della Ro- mania da parte dei tedeschi. Ma all’ immediato rovescio militare, dovuto alla criminosa impreparazione, i suoi nervi vanno in pezzi. Il 4 dicembre esclama: « Qui non c’è più niente da fare... Biso- gna chiedere la tregua tramite Hitler ». Ciano lo trattiene e Ca­valiere lo rincuora. Nel marzo 1941 si reca in Albania e impone baldanzoso un’assurda avanzata per smuovere il fronte, che fini­sce in un macello. Tre mesi dopo a Montecitorio, nel discorso per il primo annuale di guerra, avrà l’impudenza, ricordando quella visita, di proclamare: « Se la mia visita costituiva un premio per le truppe di Albania, esse lo avevano ampiamente meritato ».

Il 6 luglio ’41 egli dice a Ciano di prevedere che i tedeschi gli avrebbero presto richiesto di portare il loro confine a Salorno e forse anche a Verona. « Sento ciò nel mio istinto da animale — commenta amaramente — ed ormai mi pongo seriamente il quesito se, per il nostro futuro, non è più auspicabile una vittoria inglese che una vittoria tedesca ».

Ciò nonpertanto, arso dalla febbre dell’emulazione, insiste presso Hitler per poter inviare uomini a morire in Russia, non sollecitato affatto in questo dal Führer, che preferisce che gli ita­liani si rinforzino in Africa. Mussolini si dice persuaso, scrive Ciano, che il disagio del popolo italiano sia determinato dal fatto di non partecipare in più larga misura alla campagna di Russia!

Amore e odio. L ’avversione per i tedeschi è tanto più sorda e profonda quanto più dolci escono dalla sua bocca le parole a blandirli. In privato giunge a dire: « Sono canaglie in mala fede

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e vi dico che così non potrà durare a lungo». E ’ il io giugno 19 4 1. Ma poi conclude: « Per il momento non c’è niente da fare. Biso- gna urlare coi lupi. Ed è così che oggi alla Camera farò una svio- linata alla Germania ».

L ’insuccesso delle truppe tedesche, in Russia, in Africa, ovun­que, rallegra Mussolini. E ’ ciò che confessa a Ciano, il 20 dicem­bre 19 4 1. E ’ una specie di magra consolazione personale, quasi di rivalsa; ma subito aggiunge: « Purché non si vada troppooltre ». Egli ha ormai anteposto Hitler all’ Italia e la sua propria sicurezza a quella di tutti, a quella stessa del suo regime. E in questa corsa pazza egli non ha più orecchi per sentire, non ha più scelte. Che significato ha il cambio della guardia del suo ministero, nel febbraio ’43, se non quello di allontanare Ciano, che gli taglia la strada verso Hitler, e far tacere altre voci filo- occidentali, come quelle di Grandi e di Bottai? E intensifica la polemica con i fautori di pace, che egli ode mormorare sempre più attorno a se: « Chi crede o finge di credere alle suggestionidel nemico è un criminale, un traditore, un bastardo! ».

Sentendo prossima la fine della criminosa avventura, quella del dittatore è una pazzia lucida. Egli vorrebbe attirare nel Me­diterraneo le forze tedesche, concentrarle in casa propria; per cui nel marzo ’43 scrive a Hitler per esortarlo a trattare con laRussia, ora che è stata indebolita — egli pensa — al punto danon rappresentare più alcuna minaccia. « Per questo io vi dico che il capitolo Russia può essere chiuso... Il giorno in cui questo si verificasse — commenta baldanzosamente — noi potremmo esporre le bandiere, perchè avremmo definitivamente la vittoria in pugno ».

A due mesi dalla fine aggiungeva altre proposte che sapevano di allucinazione: come è quella che si poteva ancora piombare alle spalle degli anglo-americani sbarcati in Africa, attraversando la Spagna, il Marocco spagnolo e occupando le Baleari. Era la primavera del 1943!

A fianco di Hitler era dunque bello sognare a occhi aperti. Non è forse un vaneggiamento puro il dissertare degli sviluppi impreveduti ma sempre possibili della guerra, come « una insur­rezione di negri negli Stati Uniti o una rivolta degli indiani »? Proprio Mussolini doveva dir questo, che un anno e mezzo prima si era dichiarato soddisfatto dell’ingresso dell’America in guerra,

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che egli aveva accolto leggermente con quella stupefacente rodo- montata: « Ecco che si arriva alla guerra dei continenti: quella che io avevo previsto sin dal settembre 1939 »? o uscire in una banalità come la seguente, a proposito dell’atteso sbarco anglo- americano sul suolo italiano: « Se il tentativo fallirà — come è mia convinzione — il nemico non avrà più altra carta da gio- care ». Siamo al discorso del bagnasciuga. Ancora un passo e nella difesa di sè il 25 luglio dinanzi al Gran Consiglio, Mussolini get' terà la colpa di quanto è accaduto sugli altri, esclusivamente sugli altri, sino a scrivere nel suo diario — come si è visto — che la sconfitta militare fu l’espediente a cui ricorsero la Corona e i capi dell’esercito per liberarsi di lui.

Alla crisi del capo è connessa la crisi del sistema. Mussolini accusa i vecchi compagni di averlo tradito, ma costoro vedono nel puro arbitrio del capo, che marcia isolato al di sopra delle nuvole e non ascolta nessuno, il vero affondatore del regime e il traditore di tutti loro. Corrono richieste di restaurazione debor­dine fascista e cioè dei suoi organi rappresentativi, delle due Ca­mere, del Gran Consiglio del Fascismo, che Mussolini da troppo tempo ha esautorato, delle corporazioni. Bottai vorrebbe che que­gli organi tornassero alla loro primitiva funzione, che fosse il Consiglio dei Ministri a trattare tutti i problemi della guerra, se proseguirla e dove e con quali mezzi, che fosse il Gran Consiglio, distolto dalla routine politico-amministrativa, a prendere le supre­me decisioni, d’accordo con la dottrina e lo spirito fascista. E così dovevano riattivarsi i sindacati e le corporazioni, come da tempo andava predicando Critica fascista, la rivista di Bottai, che con notevole fastidio del dittatore invocava un rinnovamento della fede, del sistema e del costume corporativo, pericolosamente rin­secchito nell’ Italia della guerra, mentre esso doveva costituire il carattere distintivo del fascismo; e sono le giovani leve, le più ostinate nel lamentare il fallimento della dottrina corporativa e il corrompimento dei capi.

Se Bottai con il ripristino delle strutture fondamentali del re­gime intendeva ancora salvare la persona di Mussolini, una volta ridimensionata, senza la quale egli giudicava la situazione non più tenibile da mani fasciste, Grandi intendeva praticamente togliere di mezzo Mussolini, restituendo al re la suprema dire­zione militare della guerra, e rendendo così possibile quel cam-

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biamento di fronte che la direzione fascista non avrebbe mai com sentito. Egli fu il grande protagonista della levata dei gerarchi nel Gran Consiglio del 25 luglio, esponendo non senza coraggio la sua tesi filo-occidentale: « Il popolo italiano fu tradito da Mus­solini il giorno in cui l’ Italia ha cominciato a germanizzare. E ’ quest’uomo che ci conduce sulla scia di Hitler; egli abbandonò la via di una leale e sincera collaborazione con l’Inghilterra, e ci ha ingolfati in una guerra che è contro l’onore, gli interessi e i sentimenti del popolo italiano ».

Mussolini si difese quel giorno ancora, con l’arma che meglio sapeva maneggiare, quella del ricatto. Egli finse di aver solidale la Corona: « Il re e il popolo sono con me. Che capiterà domani a tutti coloro che si sono opposti a me questa notte? ». Fu il momento più drammatico della seduta: corse un fremito di ter­rore nella sala e forse il volto di Mussolini si illuminò nella spe­ranza. « I visi dei miei amici sembravano grigi e senza speranze », commenta Grandi.

Nonostante tutto, l ’ordine del giorno Grandi passò con 19 sì contro 7 no. Tra i voti favorevoli, quelli di De Bono, Devecchi, Acerbo, Federzoni, Ciano, Bottai, Alfieri. Esso richiedeva « l’ im­mediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Cor­porazioni, i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statutarie costituzionali » e concludeva domandando che il re fosse invitato ad « assumere con l’effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’art. 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre isti­tuzioni a lui attribuiscono... ».

« Voi avete provocato la crisi del regime... » furono le parole conclusive di Mussolini che, colpito dalla sfiducia, si apprestava a rimettere il suo mandato (se così lo si poteva chiamare) nelle mani del sovrano.

Facendo affidamento sulla conservazione del fascismo senza più Mussolini, Grandi pensava con una buona dose di sicurezza alla pro­pria candidatura di successore. E non aveva tutti i torti, giacche gli alleati occidentali glielo avevano certo fatto sperare. Nei circoli anglo-americani si erano fatti in quei mesi i nomi del conte di Torino, di Grandi, di Badoglio, di Federzoni, del maresciallo Ca- vallero e persino di Graziani, sicuro moderatore di eventuali moti

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sovversivi, per la costituzione di un nuovo governo. Churchill aveva detto che l’ Italia, una volta riconosciutasi incapace di resi­stere agli attacchi aerei e alle manovre di sbarco degli alleati « avrebbe dovuto scegliere tra un governo sotto qualcuno, come Grandi, per negoziare la pace separata, o l’occupazione tedesca ». Ed ancora nell’ottobre ’43 Churchill avrebbe insistito per inclu­dere Grandi nel nuovo governo Badoglio, se Roosevelt non lo avesse sconsigliato per evidenti ragioni di opportunità.

Del resto il voltafaccia che in Francia Darlan aveva fatto dal governo di Vichy verso gli americani (pur conservando una par­venza di continuità legale da Vichy) con la piena accondiscen­denza alleata, era un precedente che poteva costituire una ben valida aspettativa per molti dei gerarchi voltagabbana. E non aveva proprio alcun significato il fatto che il re avesse conferito nel marzo a Grandi, non più membro del Gabinetto, ma pur tut­tavia presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni, l’ordine supremo dell’Annunziata?

Anche dalla Corona dunque doveva spirare un’aura di inco- raggiamento verso la restaurazione di un fascismo rammodernato, senza più Mussolini, se ancora il 27 luglio, due giorni dopo il colpo di Stato, Marcello Soleri trovò il re non già risoluto e voli­tivo, come egli lo supponeva, ma « perplesso e esitante e preoc­cupato che si volessero troppo rapidamente demolire gli istituti e allontanare gli uomini del fascismo ». Egli rimaneva aggrap­pato -— scrive Soleri — ad una tesi di gradualità, parendogli che, a soddisfare le esigenze della opinione pubblica, potesse bastare in quei giorni la soppressione del Tribunale Speciale e di qualche altro consimile strumento di dittatura.

fi a tenere il re su questa posizione doveva contribuire non poco l’influente ministro Acquarone che, in armonia con le sim­patie non ingannatrici manifestate in precedenza, secondo il pen­siero di Soleri, si dava da fare per salvaguardare dalla rimozione la vecchia classe politica fascista.

Nonostante tutto ciò Grandi aveva sbagliato il suo gioco, per mancanza di tempestività nella manovra. E ’ vero che le simpatie da lui suscitate a Corte e presso lo stesso Churchill erano desti­nate a durare più a lungo, come si è visto, ma è anche vero che gli alleati, nell’inazione dei capi fascisti (Grandi, Bottai, Ciano, Federzoni) sui quali avevano contato, e perduta la speranza che

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per quella via l’Italia potesse uscire in breve dal conflitto, volsero sempre più l’animo ad un rovesciamento totale del fascismo e non di Mussolini soltanto. In un volantino aereo lanciato dagli occi­dentali su Roma nel luglio ’43, Mussolini non era più indicato come il solo responsabile delle sciagure d’Italia (come Churchill aveva detto) ma lo erano anche i gerarchi, contro i quali il popolo italiano era ormai sollecitato a sollevarsi. E Max Salvadori annota come verso la metà del ’43 sia a Londra che a Washington si parlasse allora « meno di Grandi e più di Sforza, meno di cam­biamenti all’interno del regime e più di rivoluzione contro il regime ».

Un terzo aspetto, e non meno importante, della crisi fascista, riflette il cedimento dell’opinione pubblica. Dice bene il Salva­torelli che la crisi morale del regime, da cui esso più non riuscirà a sollevarsi, risale all’autunno 1939, ed era nella pubblica consta­tazione della totale impreparazione militare e nella stessa mal celata felicità che per quella via si fosse costretti alla neutralità ed allo sganciamento dalla guerra nazista. Mai il prestigio del re­gime era caduto più in basso dalla vicenda Matteotti, ed il re perdette la sua grande occasione nel non anticipare a quella data, con ben diverse conseguenze per il paese, il troppo tardo 25 luglio.

Allora tacque la monarchia ma, quel che è più incredibile, tacque la classe economica, anche quando di lì a poco la marcia verso la guerra apparve incontrovertibile. Perchè questa supina accon­discendenza al disastro da parte del mondo imprenditoriale e della finanza?

Vittorio Foa spiega — e credo a ragione — come il regime corporativo; che funzionava da anni da elemento di compromesso per una tranquilla conservazione sociale a livello arretrato, fosse l’elemento addormentatore della consapevolezza economica quanto politica degli industriali. La tranquillità sociale fu pagata con l’as­senteismo, con l’acquiescenza e con l’insipienza. Ma se la guerra totale fu accettata nel 1940 e talora voluta dai grossi imprendi­tori, nel giro di due anni, dopo che l’ingresso dell’America nel conflitto, la battuta di arresto di Stalingrado, lo sbarco degli occi­dentali in Tunisia e la perdita dell’Africa erano venuti a togliere ogni dubbio sulla sconfitta, essi cominciarono a saltare dalla barca che affondava, ad acquistare sembianza democratica ed antifasci­

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sta, ed a orientare le menti ai nuovi profittevoli mercati che la fine dell’Asse avrebbe loro aperto.

Del resto la demagogia stessa di Mussolini e di taluni sprov' veduti della sua cerchia che, per rinsaldare il regime, ostentavano irritanti ritorni all’ ideologia socialistica delle origini, incoraggiava — se ancora ve ne era bisogno — la classe economica alla de' fezione.

Non per nulla Grandi inorridisce nel settembre 1941 del « bolscevismo bianco » di Mussolini che, irritato contro i borghesi abbienti (che egli chiama « pessimi italiani »), pensa di dar vita a un progetto che « sintonizzi » le relazioni tra la borghesia in- dustriale e la classe operaia, e nel marzo del 1942 propone al Consiglio dei Ministri « un regolamento per la norninatività dei titoli », che egli stesso aveva un tempo provveduto ad abolire.

Questa nuova avversione per i borghesi, che egli sente tram sfughi ed infidi, lo induce a sfoghi rabbiosi che allargano sempre di più la frattura. Così egli minaccia di modificare tutta la situa' zione della proprietà in Italia ed esorta i suoi all’adozione della maniera dura e non più contro un’ala soltanto della società, men' tre corrono voci sulla ripresa della repressione squadristica. Per parte loro i giovani corporativisti, di fronte all’ insufficienza dell’e- conomia corporativa ed al prevalere dello spirito individualistico e di approfittamento dei gruppi capitalistici, abbracciavano le solm zioni più radicali, quali la nazionalizzazione di tutte le industrie ad un certo livello. A completare il quadro della diffidenza boi-' ghese si aggiungevano i provvedimenti finanziari imposti dalle circostanze, l’emissione di banconote oltre che di prestiti a distanza ravvicinata, il ritocco delle imposte dirette, l’aumento dell'im- posta sulle cedole, l’addizionale all’ imposta sull’entrata, l’aumento sino al 10 % del valore dell’ imposta successoria, il contributo del 30 % sugli affitti sbloccati. E più che i nuovi sacrifici doveva pesare sul contribuente la convinzione della loro totale inutilità.

Dove però la crisi economica ebbe le maggiori conseguenze politiche, fu nel settore dei consumi popolari. I salari non segui' vano proporzionalmente il rapido aumento dei prezzi; i beni tes' serati per qualità e quantità non raggiungevano il minimo vitale, per cui andavano integrati con acquisti dal mercato libero o «nero» a prezzi proibitivi per i salari medi. Specialmente i lavoratori delle città, che non avevano facili rapporti con le campagne,

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soffrirono letteralmente la fame. Anche qui si aggiungevano i disagi dei trasferimenti e i pericoli e il logoramento psichico dei bombardamenti.

I grandi scioperi del marzo 1943, che paralizzarono per alcuni giorni tutta l’ industra del nord, scaturivano da questa insosteni­bile situazione di fondoi Che le parole d’ordine politico, si alter­nassero con le richieste di miglioramenti salariali, era cosa ovvia in un ambiente già tradizionalmente sensibile alle questioni poli­tiche e influenzato da militanti politici dell’estrema sinistra. Que­sto secondo fattore, per quanto presente, non va però soprava- lutato, almeno per i moti del marzo ’43. L ’azione del partito co­munista era ancora necessariamente limitata, e scarso il numero dei suoi adepti. Il carattere spontaneo e l’assenza ancora di una organizzazione partitica in quella prima estesa protesta popolare, anche se già politicamente consapevole, ci appaiono provati dalla discordanza delle parole d’ordine allora circolanti, quasi emanate da una molteplicità di iniziative particolari.

II peso di quella vicenda sullo sviluppo degli avvenimenti politici nazionali fu certamente notevole. Se ne dovè parlare con sgomento a Corte come al ministero degli interni, se il gen. Pun­toni, aiutante del re, attribuisce il licenziamento del capo della polizia, Senise, all’accusa di debolezza, mossagli in alto loco, nel reprimere gli scioperi, e se il comandante dei Carabinieri, gen. H a­zon, venne a parlarne al re e a dirgli come i gravi fatti della Lombardia e del Piemonte fossero a sfondo politico, mentre Mus­solini si ostinava nel ritenerli a carattere esclusivamente econo­mico. La popolazione era ormai irrimediabilmente ostile ed avversa al fascismo: questa era la convinzione espressa da Hazon e che non doveva lasciare insensibile il re, che nella sua lunga carriera aveva già fatto più di una concessione alla piazza per salvare la dinastia.

Certo, insieme alle notizie catastrofiche che giungevano dai fronti, quella vicenda popolare aiutò a imprimere un moto più celere al meccanismo del salvataggio di persone e istituti. E gli uni e le altre guardarono allora alla Corona, come a quella che avrebbe potuto risolvere il caso disperato.

Ma il re non pareva deciso ad assumere il ruolo che gli altri si attendevano da lui. Al Capo di S. M. gen. Ambrosio, che già nel marzo proponeva di sostituire Badoglio a Mussolini, il re di­

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chiarava di essere si disposto ad un gesto decisivo, ma che occor- reva attendere il momento giusto per non compromettere ogni cosa. E questo argomento egli ripetè con scoraggiante monotonia a quei pochi esponenti militari e politici che riuscirono a giungere in quei mesi sino a lui.

I generali, che avevano chiara la consapevolezza della disfatta, non seppero allora assumere, nella carenza istituzionale, alcuna iniziativa indipendente ed i politici non avevano alcun potere ed alcuna forza per farlo.

Ambrosio, che tra i generali era il più risoluto, tanto da solle- citare Mussolini a dire a Hitler che non era più possibile all’ Italia di continuare la guerra, di fronte al re si limitò a registrare i sue- cessivi fallimenti della sua sfortunata attività di persuasore.

Ai primi di giugno, il gen. Puntoni, scrive che il sovrano, per quanto conscio della gravità della situazione, pare ancora deciso ad appoggiare l’azione di Mussolini. Tant’è che il 18 giugno, dopo una visita del duce, il re dice di lui: « Eppure quell’uomo ha una gran testa », e mostra una copia delle di lui direttive, informate al solito principio generico della resistenza ad oltranza per evitare all’Italia di cadere nel nulla. Il 5 luglio, dopo una visita di Am- brosio il re appare a Puntoni ancora convinto che la situazione sia prematura per un cambiamento, e il 14 luglio, in occasione di un progettato viaggio di Mussolini sul fronte siciliano, esprime il timore che il duce muoia, anche se riconosce che ciò gli facilite- rebbe di molto il compito. Infine il 20 luglio pare deciso ad agire: « Ormai il regime non va più — esclama — . Proprio ieri anche i ministri Acerbo e De Marsico mi hanno manifestato il loro pen­siero che è più che sensato. Bisogna cambiare a tutti i costi ». Ma subito aggiunge: « La cosa non è però facile per due ragioni, primo, la nostra disastrosa situazione militare, secondo per la pre­senza in Italia dei tedeschi ». Mancavano cinque giorni al colpo di stato. La lungimiranza non assiste il re: ciò che non si affretta a compiere in primavera con pochi nazisti in Italia, lo farà costretto dalle circostanze in autunno con 18 divisioni tedesche in casa.

A i politici che parlarono a lui in quei mesi, quali Bonomi e Soleri, sollecitandone l’intervento, egli obbiettava di attendere il verificarsi di un « fatto nuovo », che gli consentisse di agire senza scatenare la guerra civile. Il suo pensiero permaneva misterioso; ma nel suo « bigottismo costituzionale », come lo definiva Soleri,

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egli contava evidentemente su una decisione degli organi costituì zionali del fascismo che legittimasse la sua iniziativa. E che — almeno in parte — fosse questo l’atteso « fatto nuovo » lo dimo- stra l’espressione di soddisfatta sicurezza che il re rivolge final- mente al Puntoni il pomeriggio del 25 luglio, mentre attendeva Mussolini per l’ultimo decisivo colloquio: « Aspettavo da giorni l’occasione buona » dice quasi a giustificare la sua decisione. Ma subito aggiunge qualcosa che va oltre la portata e i limiti della presa di posizione del Gran Consiglio: « Ormai non avevo più dubbi sull’avversione della massa per il duce e per il fascismo; per di più ho buoni motivi per ritenere la guerra irrimediabilmente perduta ».

La caduta del regime va dunque attribuita all’iniziativa del re, spinto o assistito dai suoi generali, o alla decisione del Gran Com siglio a cui sarebbe seguita, per costituzionale conseguenza, l’a­zione del re?

Sia il Puntoni che il Monelli parlano di una indipendente de­terminazione del re. Il Puntoni ricorda che subito dopo l’arresto di Mussolini il re gli mostrò un promemoria, redatto dodici giorni prima, in cui era l’esatto quadro della situazione e lo svolgimento dell’azione come teste era avvenuta. Il Monelli per parte sua af­ferma che Acquarone nella seconda metà di luglio aveva fatto sapere al gen. Ambrosio che ormai il re aveva deciso di licenziare Mussolini e aveva stabilito la data di lunedì 26 luglio; e la stessa decisione del re è stata successivamente confermata dal figlio Um­berto in occasione di una intervista giornalistica («Epoca», 1953). Parrebbe che questa tardiva e pure repentina inversione di rotta del sovrano fosse da collegare con la conoscenza dell’ imminente decisione del Gran Consiglio; senonchè non risulta che tra la Co­rona e gli oppositori fascisti fosse corso un accordo, proprio perchè tra questi ultimi non pare fosse in atto una vera e propria con­giura: essi andarono alla drammatica riunione senza saper bene quello che in realtà sarebbe avvenuto.

A risolvere il problema manca al quadro un ultimo elemento: l’azione dell’opposizione interna dell’antifascismo.

Questa si era organizzata in un comitato delle opposizioni sin dall’estate del 1942, ma solo dopo gli scioperi del marzo 1943 essa mosse più rapidamente i suoi passi verso una soluzione della crisi italiana. I pareri erano divisi, v ’erano gli intransigenti (ed

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erano in minor numero) che contavano sulle sole forze popolari per il rovesciamento della situazione e non intendevano fare alcu­na concessione ai responsabili dell’ Italia presente; e v ’erano coloro -—■ ed erano i più — i quali con maggior realismo, ed anche con spregiudicato possibilismo, riponevano le loro speranze nell’ inizia- tiva della Corona, o comunque non si rifiutavano di collaborare con essa al rovesciamento del fascismo.

Tra i primi erano gli uomini del Partito d’azione ed una parte dei socialisti; tra i secondi gli esponenti liberali e monar­chici dei circoli romani ed i comunisti, che avevano in mano, o si avviavano ad avere, i fili principali dell’organizzazione operaia del Nord.

Gli scioperi del marzo avevano dato loro un immenso presti­gio, sicché verso la fine di maggio la direzione del Partito comu­nista inviò a Roma in missione il professore universitario torinese Ludovico Geymonat e, in un secondo tempo, anche il prof. Con­cetto Marchesi dell’Università di Padova. Scopo della missione era quello di prendere contatto e concertare con gli alti generali dell’esercito un’azione comune per rovesciare il fascismo. Masse popolari ed esercito erano le due grandi forze del paese; esse dovevano integrarsi nell’azione comune. Senza integrazione si avrebbe avuto un pericoloso pronunciamento militare o un’in­surrezione di popolo, sanguinosa e di esito incerto.

La delegazione comunista si incontrò con taluni degli espo­nenti liberali e monarchici della capitale (i sen. Casati e Bergamini e il giornalista Lupinacci) che avrebbero dovuto aprire loro la strada ai generali.

A l primo incontro, come per rassicurare le personalità romane della propria identità, il Geymonat propose loro con patetica fie­rezza: « Indicatemi pure il giorno che volete, e noi vi faremo sospendere ancora una volta il lavoro in tutte le fabbriche di T o­rino, Genova, Milano ». In giugno Concetto Marchesi dichiarò ai medesimi personaggi che il suo partito, riconoscendo non esservi possibilità autonoma di azione per alcuna delle forze dell’opposi­zione, offriva di collaborare in comunione di intenti con l’esercito e con la monarchia e si augurava che, anche nel caso che l’accordo operativo con i militari fosse destinato a fallire, fosse mantenuta in avvenire la coalizione degli sforzi fino alla fine del conflitto. Per tutto ciò il Marchesi riconfermava la rinuncia comunista a

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ogni pregiudiziale opposizione alla monarchia, ma poneva fin d’al- lora, a nome del suo partito, la richiesta fondamentale che fosse in seguito favorita la partecipazione dei comunisti al governo de' mocratico del Paese, anche con un solo ministero.

Chi vi parla svolse nel 1948 a Roma una inchiesta, intervi' stando quanti potè degli attori superstiti delle vicende della tarda primavera del 1943. E così ottenne dal prof. Carlo Antoni la se' guente dichiarazione epistolare che, per l’interesse che può suscitare in questa sede, mi permetterete di leggere integralmente: « Nel maggio 1943 il prof. Concetto Marchesi, allora mio collega deh l’Università di Padova, mi dichiarò che, ove il re avesse fatto il colpo di Stato, i comunisti sarebbero stati con lui. Gli chiesi se questa era una sua opinione personale o se si trattava della linea di condotta del Partito comunista. Mi rispose che esprimeva una veduta del Partito e che era incaricato di trattare in quest’ordine d’idee con gli altri partiti. Gli offrii allora di recare questa offerta di collaborazione alla Principessa Maria José, affinchè la trasmettesse al re. Marchesi specificò le condizioni della collaborazione: il Par' tito comunista chiedeva di entrare nel governo con un solo mini- stero; garantiva la più leale collaborazione fino a pace conclusa; si riservava, dopo tale data, la piena libertà d’azione. Recatomi subito a Roma, fui ricevuto in udienza dalla Principessa il 26 maggio. Essa accettò volentieri di trasmettere al re l’offerta, e a tale scopo le dettai i termini dell’offerta stessa ».

Tornati i delegati comunisti a Milano senza avere potuto con' ferire con i capi militari per la riluttanza o l’impossibilità dei se' natori a stabilire i contatti richiesti, la direzione del Partito co' munista decise di impegnare gli altri partiti all’azione insurre' zionale, da render nota con un manifesto. Sul testo del manifesto si tennero, tra gli ultimi giorni di giugno e i primi di luglio, lunghe sedute del Fronte, alle quali intervenne pure il sen. Ca' sati da Roma. I colloqui si chiusero il 4 luglio con la redazione di un manifesto, curato dai comunisti; manifesto che non fu però accolto per l’opposizione degli azionisti e dei sindacalisti, che lo giudicarono eccessivamente arrendevole intorno alla questione isti' tuzionale e alla collaborazione con la monarchia.

Ma sotto un altro aspetto il convegno non poteva dirsi fallito, perchè vedeva saldati i due gruppi nazionali dell’antifascismo e dissolte le reciproche diffidenze sulla base di un comune denomi'

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natore di azione. Il Fronte nazionale si dichiarava inoltre unani- mamente disposto a procedere da solo all’azione insurrezionale qualora gli accordi operativi con i militari e la corona non si fos- sero conclusi.

Questa decisione Geymonat recò a Roma il 20 luglio ed ebbe dai senatori Bergamini e Casati l’assicurazione che, se entro la domenica 25 la Corona non avesse preso l’iniziativa, essi si sareb­bero riservata libertà d’azione, aderendo alla politica del Fronte antifascista.

Quale influenza ebbero dunque sulla decisione del Re l’azio­ne degli antifascisti del nuovo Fronte nazionale? In un mio primo scritto, sulla base delle dichiarazioni resemi dai vecchi se­natori liberali, di non aver mai conferito con il re prima del 25 luglio e quella resami da Enzo Storoni, avvocato della Real Casa, di essere sempre stato ignaro della missione a Roma dei comu­nisti, avevo creduto di concludere negativamente sull’utilità di questi tentativi, bloccati prima di giungere al Quirinale.

Ma dopo aver letto il diario del Puntoni che accenna alla ri­velazione del progetto di licenziamento di Mussolini, già redatto in precedenza dal re; e riletto quanto abbiamo citato da Monelli in merito alla dichiarazione di Acquarone al gen. Ambrosio circa il 20 o 2 1 luglio sulla decisione del re di attuare quel licenzia­mento il 26 luglio e l’ intervista al figlio Umberto, mi pare di dover modificare i termini della prima ipotesi.

Non è forse lecito pensare che quella tardiva decisione del sovrano sia da mettere in relazione con la promessa dei senatori monarchici, fatta proprio in quei giorni ai comunisti, di unire la loro azione a quella del Fronte, se entro la domenica la Corona non avesse preso l’iniziativa?

E ’ difficile pensare a troppo rigidi compartimenti stagni nel clima politico romano di quelle settimane e alla conservazione di troppi segreti nel volgere di quelle ore febbrili. Del resto si sa dei colloqui svoltisi prima del 25 luglio fra il Casati e l’Acquarone, della missione dell’Antoni presso la principessa di Piemonte, che ne avrebbe riferito al re, e c’è da supporre con ogni probabilità che dell’estremo accordo dei senatori con il Fronte antifascista l ’Acquarone, che non teneva le orecchie chiuse, fosse venuto a conoscenza e, attraverso lui, il re. Più di ogni altra cosa si sa quanto il re temesse le iniziative dei rossi (e mostrerà di temerle ancora

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in seguito nei 45 giorni), specialmente quando esse venivano ad acquistare importanza nazionale sino a far breccia tra i suoi fedeli senatori. Il fascismo e Mussolini potevano anche essere sopportati a lungo, ma non al punto da compromettere le sorti della Corona, ed ora essa stava per essere sopravanzata dai repubblicani e dai rossi alla testa di un moto popolare, sostenuto forse anche dal- l’esercito.

Fu dunque l’azione degli antifascisti e non il verificarsi del fatto nuovo a determinare la decisione del re?

Certo il « fatto nuovo » avvenne. Ma è anche vero che esso si fondava su una realtà più complessa, che il figlio Umberto spie­gherà dichiarando che all’azione del re erano state allora necessa­rie alcune condizioni indispensabili: quella costituzionale, riferi­bile alla crisi parlamentare o del Gran Consiglio, l’insofferenza della massa dei cittadini per il fascismo, e il manifestarsi di forze avverse potenti sulle quali il re avesse potuto contare per agire: espressione quest’ultima che non era sinora risultata chiara, ma che può qui interpretarsi con la preoccupazione regale per i peri­colosi progetti dei comunisti e dei repubblicani, se lasciati a loro stessi. Del resto il re, rallegrandosi con il Puntoni della buona occa­sione sopravvenuta, dice altresì di non aver avuto più dubbi, al­l’atto della decisione, sull’avversione della massa per il duce e sul­l’esito della guerra. E pare infatti evidente che sia il re, quanto gli alti gerarchi del Gran Consiglio, dovessero attribuire, sulla metà del ’43, molta importanza, oltre che alle rovinose vicende belliche, a quelle minacciose del fronte interno. E ’ dunque giusto valutare, più di quanto altri ed io stesso non abbiamo fatto in precedenza, la diretta sollecitazione del fronte antifascista sulla crisi del 25 luglio.

Specialmente tengo a mettere qui in evidenza quanto la gior­nata del 25 luglio, formalmente provocata da una congiura di palazzo, fosse collegata, mediante una catena non interrotta di avvenimenti che abbiamo cercato di ricostruire, con gli scioperi operai del marzo, i primi dell’Europa occupata e i veri prodromi della futura resistenza italiana. E sono lieto di avere occasione di ricordarli, quasi sotto l’aspetto di una storica commemorazione, proprio ora che sta per ricorrere il ventennio di quella prima af­fermazione collettiva di fierezza democratica in Italia.

Giorgio V accarino