idoneita' alla classe v storiasacro romano impero di carlo magno e quello di ottone di...
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IDONEITA' ALLA CLASSE V
STORIA
- La Rinascita del Sacro Romano Impero
- La Rinascita dell’Anno Mille
- La Nascita dei Comuni
- Le Crociate
- Movimenti Religiosi
- Alto e Basso Medioevo
- L'Età Napoleonica
- Le Rivoluzioni Industriali
- L'Imperialismo e il Nazionalismo
- Lo Sviluppo dello Stato italiano fino alla fine dell’Ottocento
LA RINASCITA DEL SACRO ROMANO IMPERO
La fine del Sacro Romano Impero carolingio (887: deposizione di Carlo il Grosso)
aveva determinato la formazione di signorie politiche e aveva provocato quella
frammentazione del territorio e del potere che viene sinteticamente descritta dai
termini “anarchia feudale” e “particolarismo feudale”. Il fenomeno dell’anarchia
feudale fu generato sia dalla fine del potere imperiale, sia dalla nuova ondata di
invasioni che si abbatté sull’Europa nei secoli IX e X: infatti per contrastare gli
attacchi di Normanni, Ungari e Saraceni, fu necessario organizzare la difesa a livello
locale: i proprietari terrieri e i feudatari più ricchi (e dotati di capacità politico-
militari) costruirono castelli e costituirono squadre di uomini armati, e in tal modo
assunsero un potere militare e politico nei confronti dei territori e degli abitanti che
gravitavano attorno ai castelli (fenomeno dell’incastellamento e della signoria
territoriale). Il Signore quindi era un proprietario di terre, generalmente di terre
feudali, che possedeva anche un castello e un gruppo di armati, e che esercitava un
potere politico-militare, oltre che economico, sulle proprie terre e sugli uomini
(rustici) che vi abitavano. Ma se la costituzione delle Signorie politiche serviva a
contrastare le aggressioni di Ungari, Normanni e Saraceni, produceva però una
grande conflittualità interna: ogni Signore cercava di estendere il proprio potere e i
propri territori entrando in conflitto con altri Signori. La situazione di disordine, di
divisione, di contrasti e di guerre generata dall’anarchia feudale fece però ben presto
emergere l’esigenza di un’autorità centrale capace di coordinare e pacificare la
miriade di forze feudali, grandi medie e piccole, costituitesi fra IX e X secolo.
Francia
In Francia nel 987 Ugo Capeto ottenne la corona di re di Francia e diede inizio a una
dinastia millenaria; tuttavia il suo potere era molto debole: egli esercitava un’autorità
effettiva solo nella regione di Parigi, Reims e Orleans; la consacrazione conferiva una
sorta di sacralità alla sua persona (gli erano anche attribuiti poteri taumaturgici), ma
di fatto egli doveva rispettare l’autonomia politica dei grandi feudatari di Francia.
Italia
In Italia la corona regia fu contesa nel X secolo fra i feudatari maggiori, senza che
nessuno di essi riuscisse ad appropriarsene definitivamente. Le contese finirono
quando Ottone I, re di Germania, scese in Italia e impose la sua autorità, ricevendo la
corona imperiale dal papa a Roma nel 962.
Germania – Sacro Romano Impero
In Germania Ottone I di Sassonia, incoronato re di Germania, aveva acquistato
prestigio e autorità grazie alla vittoria conseguita nel 955 nella battaglia di Lechfeld
contro gli Ungari. Ciò gli permise di intervenire nelle lotte tra i pretendenti al regno
d’Italia e di rifondare il Sacro Romano Impero (con l’incoronazione imperiale del
962, di cui abbiamo detto). Occorre tuttavia rilevare due importanti differenze tra il
Sacro Romano Impero di Carlo Magno e quello di Ottone di Sassonia: in primo luogo
l’impero di Ottone era assai meno esteso, comprendendo solo la Germania e l’Italia
settentrionale; in secondo luogo Ottone guidava un impero caratterizzato dal
feudalesimo (dall’immunità, dall’ereditarietà dei feudi maggiori) che condizionava e
limitava fortemente il potere dell’imperatore. Nel X secolo il feudo era diventato, sia
per effetto dell’ereditarietà ottenuta dai grandi feudatari, sia per effetto
dell’incastellamento, un bene che il feudatario poteva sfruttare economicamente, ma
sul quale esercitava anche un’autorità politica e giudiziaria, in piena autonomia dal
sovrano che aveva concesso il feudo. Il rapporto feudale o vassallatico aveva quindi
assunto questa forma: il sovrano (re, o imperatore, o conte, duca ecc.) concedeva un
feudo o beneficio (di solito un territorio) a un uomo di fiducia il quale gli prestava
“omaggio”: gli giurava cioè fedeltà e si impegnava ad aiutarlo in caso di bisogno
(principalmente in caso di guerra). Il feudatario era quindi obbligato soprattutto a
prestare servizio militare per il suo superiore per un certo numero di giorni all’anno.
Però il feudo concesso al feudatario era caratterizzato dall’ “immunità”: il sovrano
non poteva esercitare il potere nel territorio del feudo, ma doveva lasciare che il
feudatario lo governasse come meglio credeva. Quindi il feudatario, pur essendo
personalmente dipendente dal sovrano e obbligato al servizio d’armi, era pienamente
autonomo nel suo feudo (per esempio era il feudatario che riscuoteva i tributi nel
feudo, non il sovrano). E’ evidente che in questa situazione il potere del sovrano era
piuttosto limitato, perché egli di fatto controllava direttamente solo una piccola parte
del territorio del suo regno; poteva perfino accadere che un feudatario disponesse di
maggiori territori, uomini e ricchezze di quelle di cui disponeva il re, e in tal caso per
il re diventava molto difficile ottenere l’obbedienza e la sottomissione del feudatario.
La politica di Ottone I (962-973) e dei suoi discendenti della casa di Sassonia, Ottone
II (973-983), Ottone III (983- 1002) e Enrico II (1002-1004), fu pertanto orientata a
ridurre l’autonomia dei feudatari.
Per questo gli imperatori sassoni nominarono, ovunque fosse possibile, vescovi-conti,
che presentavano il vantaggio, rispetto ai feudatari laici, di non poter trasmettere la
contea agli eredi (un vescovo non poteva avere figli legittimi e quindi l’imperatore
rientrava in possesso della contea alla morte del vescovo-conte): la nomina dei
vescovi-conti da parte dell’imperatore (che concedeva sia la carica ecclesiastica sia
quella feudale) comportò una mondanizzazione degli ecclesiastici, perché il titolo di
vescovo divenne “desiderabile” non per il suo significato religioso, ma per i ricchi
benefici e il potere politico a cui era associato, e l’imperatore stesso, nominando i
vescovi-conti guardava più alle capacità politiche che alle qualità religiose e morali.
Ottone I stabilì anche il “Privilegium Otonis” con il quale si arrogò il diritto di
designare i candidati alla nomina pontificia. In tal modo l’elezione del papa era
controllata dall’imperatore e veniva sottratta alle grandi famiglie aristocratiche
romane. Infatti, dopo la fine dell’impero carolingio, il papato era finito sotto il
controllo delle grandi famiglie aristocratiche di Roma che avevano fatto eleggere
papi “indegni”, preoccupati solo di difendere gli interessi della propria famiglia.
L’imperatore non poteva accettare che il papa, che concedeva l’incoronazione
imperiale, fosse solo uno strumento della nobiltà romana; inoltre l’imperatore aveva
bisogno che il papa fosse condiscendente nei confronti della nomina dei vescovi-
conti da parte dell’imperatore. Comunque i papi nominati dagli Ottoni furono
generalmente persone di notevole statura culturale e spirituale, capaci di restituire
credibilità e prestigio al papato dopo la terribile decadenza del X secolo.
I Normanni in Inghilterra e in Italia
Nel X secolo i Normanni, dopo una lunga stagione di aggressioni e di saccheggi, si
erano insediati in Normandia ed erano diventati vassalli del Re di Francia (il
vassallaggio aveva consentito ai Normanni di legittimare la conquista della
Normandia e di integrarsi nel sistema politico feudale francese; il Re d’altra parte
aveva interesse a legare sé con il vassallaggio questi “invasori”, visto che non aveva
la forza di sconfiggerli). Nell’XI secolo partirono dalla Normandia due spedizioni di
conquista. Nel 1066 Guglielmo il Conquistatore sbarcò in Inghilterra, sconfisse ad
Hastings gli Anglosassoni che regnavano sull’isola e assunse la corona d’Inghilterra.
I Re d’Inghilterra normanni rimasero tuttavia ben radicati in Normandia,
conservandone il dominio, la lingua, le usanze: l’Inghilterra per lungo tempo fu quasi
una colonia della Normandia. Si determinò così la situazione paradossale, foriera di
gravi conflitti, per cui i Re d’Inghilterra erano anche vassalli del Re di Francia.
Un’altra spedizione portò i Normanni in Italia meridionale. Inserendosi nei conflitti
che opponevano duchi bizantini, duchi longobardi e arabi, offrendosi come mercenari
all’uno o all’altro dei contendenti, i normanni della famiglia degli Altavilla riuscirono
a costituire un proprio dominio in Puglia, da cui partirono alla conquista di tutta
l’Italia meridionale. La loro rapida espansione preoccupò anche il papa Leone IX che
li attaccò, ma fu sconfitto e fatto prigioniero. Successivamente gli Altavilla
raggiunsero un accordo con il papa, in base al quale essi si dichiaravano vassalli del
papa e proseguivano la conquista dell’Italia meridionale con il suo mandato e con
l’obiettivo di togliere la Sicilia agli Arabi (che l’avevano conquistata nel X secolo).
La sottomissione feudale dei Normanni al papa, che era stato sconfitto e fatto
prigioniero da loro stessi, si spiega con la convenienza che i Normanni avevano ad
essere legittimati da un’autorità superiore per esercitare il potere in Italia meridionale
con pieno diritto.
La conquista della Sicilia fu completata nel 1130 e Ruggero II d’Altavilla assunse il
titolo di Re di Sicilia. L’alleanza fra i Normanni e il Papato ebbe un peso rilevante
anche nella Lotta per le investiture (di cui parleremo oltre), in quanto fornì al papa
una forza militare capace di resistere a quella imperiale.
Infine va evidenziato che i Normanni, sia nel regno d’Inghilterra sia in quello di
Sicilia, pur istituendo rapporti feudali, riuscirono a esercitare un ferreo controllo sui
vassalli (per mezzo di funzionari regi: sceriffi e giustizieri) e a impedire
l’affermazione di tendenze autonomistiche della nobiltà e delle città. Proprio per
questo l’Italia meridionale non fu toccata dal movimento dei Comuni cittadini che
invece si affermò nell’Italia centro-settentrionale; e forse stanno anche qui le radici
del divario economico e sociale che ancor oggi separa l’Italia settentrionale.
LA RINASCITA DELL’ANNO MILLE
Mercanti e nuovi nuclei borghesi
L’incremento della produzione agricola e l’aumento della popolazione rianimarono
gli scambi commerciali. Collegandosi a quelle correnti commerciali già attive prima
del Mille in certe città marittime italiane (Venezia, Amalfi, Bari), questo
rinnovamento nell’ XI° secolo venne a coinvolgere tutto l’Occidente. Una nuova
classe sociale, la borghesia, emerse dalla società feudale e rurale: ne facevano parte in
primo luogo i mercanti, ancora girovaghi sulle strade, sui fiumi e sui mari, da un
castello a una città, da un mercato a un porto. In Inghilterra li si chiamava i
“piedpowder”, i “piedipolverosi”, per il loro continuo contatto con la strada. C’era
poi il ceto degli artigiani, insediati nel “burgus”: la loro produzione cominciò a dar
vita a scambi regolari con le campagne circostanti e, in più d’un caso, a un
commercio sempre più attivo su lunghe distanze. I clienti del grande commercio
erano, in primissimo luogo, i signori laici e ecclesiastici, e gli oggetti degli scambi
erano ancora soprattutto oggetti di lusso, prodotti orientali, costose spezie esotiche,
vini francesi, pregiate stoffe (damaschi, sete ecc.). Se l’attività mercantile registrò
notevoli successi, tuttavia la vita del mercante, sebbene aperta ai grandi guadagni, era
anche soggetta a grandi rischi dovendo egli viaggiare via terra su strade malsicure, e
dovendo affrontare sul mare la violenza della natura oltre che quella dei pirati. Egli si
spostava perciò in carovane con altri mercanti, associava i propri capitali con quelli di
qualche collega, stringeva delle leghe (“gilde”, “hanse”). Dove le principali vie si
intersecavano, i commercianti, giunti da direzioni diverse, si incontravano
periodicamente per scambiarsi le merci. Nacquero così le fiere; particolare
importanza assunse, per questo aspetto, la Champagne, all’incontro delle grandi
direttrici commerciali dal Mediterraneo al Mare del Nord e dall’Europa occidentale
all’Europa centro-orientale. I nobili (“signori”) di tutti gli Stati europei - eccetto
l’Italia centro-settentrionale - di solito risiedono stabilmente nei castelli del territorio
rurale, dove possono controllare e difendere le terre, dirigere la coltivazione,
provvedere ai disboscamenti e alle bonifiche. In città rimane il vescovo con il suo
seguito ma soprattutto vi abitano i mercanti, gli artigiani, i professionisti (notai,
giudici ecc.). Dalla campagna molti contadini, o anche servi, si trasferiscono in città,
o perché hanno un piccolo capitale da investire, o semplicemente in cerca di un
lavoro più redditizio. Così la popolazione del burgus si amplia, tende sempre di più a
identificarsi con la popolazione dell'intera città. Così, in quasi tutta Europa (ma non
nell’Italia centro-settentrionale) il borghese diventa l’uomo della città per definizione,
colui che si distingue radicalmente dall’uomo della campagna, ossia dal nobile e dal
contadino, e dalla campagna vive separato come in un altro mondo. Nell’Italia
centro-settentrionale, invece, la nobiltà italiana medio-piccola, invece di rimanere in
campagna, si orienta verso la città, vi si stabilisce, e assume, con i capitali di cui
dispone, il controllo dell’economia commerciale. Questa nobiltà cittadina non traffica
in prima persona, però presta i soldi per trafficare a gente del popolo; nello stesso
tempo non abbandona i suoi interessi rurali (cioè le proprietà agrarie coi relativi
proventi). In Italia insomma la piccola e media nobiltà rimane a metà strada tra
campagna e città, e non si verifica la separazione netta fra campagna dominata dalla
nobiltà e città dominata dalla borghesia. Dove si afferma, la borghesia assume
caratteri propri, inconfondibili, anche sul piano della mentalità e del comportamento:
i nobili, ad esempio, conoscevano soltanto i legami personali di tipo gerarchico
(legami tra superiore e inferiore); i borghesi, invece, puntano sui legami tra eguali,
che pongono tutti gli uomini sullo stesso piano. Il mondo signorile e feudale è il
mondo della guerra e della terra; i borghesi sono gli uomini della pace e del denaro
(la pace garantisce i viaggi e i buoni affari). Il nobile ha il dovere morale di
"sperperare" le proprie ricchezze, per dimostrarsi liberale (= generoso) e averne
onore; il borghese deve essere risparmiatore e perfino avaro, per accumulare denaro e
fare sempre più affari. Il nobile è tale per nascita e per eredità di sangue, e ci tiene ad
esibire il proprio “status”; il borghese è tale solo per la propria abilità e per il proprio
lavoro, e non ha nessun riguardo al proprio ”status”, anzi è pronto a nasconderlo e a
farsi passare per povero per guadagnare di più o per pagare meno tasse. Nella realtà,
poi, le differenze non sono sempre così marcate: l’ideale dei borghesi resta pur
sempre quello di diventare come i nobili, di possedere terre e di godere come loro di
entrate sicure, di risiedere in un castello con una corte di gentiluomini e di servi,
senza il bisogno di sobbarcarsi rischiosi viaggi d’affari. Spesso i borghesi sono anche
più ricchi dei nobili, ma la posizione del nobile è più sicura, più stabile, e soprattutto
socialmente più prestigiosa. Per questo i borghesi più ricchi vorrebbero “nobilitarsi”,
cambiar classe, ma ben pochi ci riescono nell’XI e XII secolo.
La rinascita religiosa, la riforma gregoriana e la lotta per le investiture
Nel periodo dell’anarchia feudale tutte le istituzioni ecclesiastiche, e non soltanto il
papato, avevano attraversato una fase di decadenza e di crisi.
Il crollo dell’impero carolingio aveva posto fine anche a quella protezione della fede
cristiana e della Chiesa che Carlo Magno e i suoi successori avevano considerato
compito inderogabile degli imperatori cristiani. I signori feudali avevano profittato in
vario modo della debolezza della Chiesa: in primo luogo impadronendosi di parti
considerevoli delle proprietà ecclesiastiche, in secondo luogo cercando di
sottomettere alla propria giurisdizione o di controllare i monasteri, in terzo luogo
istituendo chiese “private” (che diventavano, insieme ai castelli, strumento di
controllo e di sfruttamento economico del territorio). Gli ecclesiastici (gli abati dei
monasteri, i canonici, i vescovi) si trovavano così invischiati in lotte per il potere
politico ed economico, sia che fossero asserviti agli interessi signorili, sia che
cercassero di resistere alle prevaricazioni e alle strumentalizzazioni dei signori. La
nomina dei vescovi-conti da parte dell’imperatore accentuò questa mondanizzazione,
come abbiamo già visto. In generale possiamo osservare che i potenti
(dall’imperatore ai piccoli signori) cercavano di sottomettere la chiesa e di sfruttarla:
infatti la chiesa aveva una grande autorità sul popolo, aveva un’organizzazione
efficiente e diffusa, possedeva molte ricchezze, aveva il monopolio della cultura, e
tutte queste cose potevano essere utilizzate per consolidare o accrescere il potere. Ma
gli stessi uomini di chiesa spesso non disprezzavano il potere e le ricchezze e
conducevano una vita in tutto simile a quella dell’aristocrazia politica e militare. I
legami sempre più stretti tra la chiesa e il potere mondano facevano sì che nella
chiesa la vita evangelica (basata sui valori della mitezza, della povertà, dell’umiltà,
dell’amore, del perdono, dell’altruismo) fosse sempre meno visibile. Nel linguaggio
religioso dell’epoca gli ecclesiastici corrotti e mondanizzati furono qualificati come
“simoniaci” (la simonia era la compravendita di cose sacre, e quindi i simoniaci erano
quelli che cercavano e utilizzavano le cariche ecclesiastiche per arricchirsi) e come
“nicolaiti” (erano gli ecclesiastici che avevano mogli e concubine). La reazione a
questa crisi della Chiesa iniziò nel X secolo e diede vita a un movimento imponente
di rinascita religiosa e di riforma della Chiesa, che accompagnò la grande crescita
demografica, economica e sociale del Mille. All’origine della rinascita e della riforma
religiosa sta la fondazione, nel X secolo, del monastero benedettino di Cluny, e di
moltissimi altri monasteri (più di 1000 in tutta Europa) ad esso affiliati. Cluny, pur
appartenendo all’ordine di San Benedetto, aveva alcune caratteristiche che lo
differenziavano dal monachesimo benedettino. In primo luogo i monaci di Cluny e
dei monasteri affiliati (i “cluniacensi”) volevano evitare quelle attività pratiche che
potevano facilmente implicare preoccupazioni troppo “mondane” per i beni terreni.
Pertanto nei monasteri cluniacensi il lavoro dei campi veniva affidato ai coloni e ai
servi e i monaci si dedicavano completamente al servizio di Dio (alla preghiera, alla
meditazione, alla liturgia); la distinzione netta fra la vita religiosa e la vita mondana
veniva sottolineata anche con l’esaltazione della verginità e con segni esteriori di
fasto nelle chiese e negli abiti dei monaci. In secondo luogo il monastero di Cluny
non era sottoposto alla giurisdizione di un feudatario e nemmeno di un vescovo, e
riconosceva come autorità superiore soltanto quella del papa. Gli altri monasteri
cluniacensi dipendevano solo da Cluny e quindi anch’essi erano sottratti alla
giurisdizione feudale e vescovile. In tal modo tutti i monasteri cluniacensi
costituivano un movimento unitario, indipendente da tutte le forze politiche
responsabili della corruzione ecclesiastica. I monaci cluniacensi non si
preoccuparono soltanto di preservare se stessi dalla mondanizzazione e dalla
corruzione, ma operarono attivamente per contrastare la mondanizzazione e la
corruzione in tutta la Chiesa, e si fecero promotori di un movimento di rinnovamento
religioso che coinvolse tutta la società europea, e che si manifestò a tutti i livelli della
vita associata. Possiamo indicare sinteticamente alcune espressioni di questa rinascita
cristiana:
- La costruzione delle chiese romaniche: “Il mondo si sta rivestendo di un bianco
mantello di chiese. E’ come se si volesse liberare della sua vecchiezza”. Così scrive
Rodolfo il Glabro, un cronista dell’XI secolo. Ciò che colpisce lo storico, al di là
dell’eccezionale valore artistico di queste chiese, è l’enorme diffusione di queste
imponenti costruzioni in pietra: anche i più piccoli villaggi, costituiti quasi
esclusivamente da capanne di legno, edificarono chiese che sfidano i secoli.
- I pellegrinaggi: tipica manifestazione della religiosità medievale, erano diretti ai
santuari dove erano custodite e venerate le reliquie dei santi; le mete più importanti
dei pellegrinaggi erano Roma, sede del successore di San Pietro, Santiago di
Compostela (nel nord della Spagna) e Gerusalemme.
- I movimenti della Pace di Dio e delle Tregue di Dio; l’istituzione della Cavalleria
(con cui agli uomini d’armi veniva dato un codice di comportamento che doveva
mitigarne la ferocia e indirizzare la violenza verso scopi accettabili, come la difesa
dei deboli e degli inermi, la difesa della fede ecc.).
- L’associazionismo spontaneo. Le associazioni di cui abbiamo già parlato si
costituivano sulla base di interessi comuni (economici, sociali o solidaristici, politici
ecc.), ma avevano sempre anche finalità o motivazioni religiose.
- Le Crociate, di cui parleremo più avanti.
Il movimento nato da Cluny per la riforma della Chiesa e la lotta contro la corruzione
ecclesiastica coinvolse anche le masse popolari e si espresse in vere e proprie rivolte
popolari contro ecclesiastici (soprattutto vescovi-conti) ritenuti indegni perché
simoniaci e/o nicolaiti.
Nel corso dell’XI secolo anche i papi (molti di essi provenivano dall’ordine
cluniacense), per quanto nominati dall’imperatore, si fecero promotori della riforma e
dell’opposizione al clero simoniaco; ma ad un certo punto i riformatori dovettero
rendersi conto che non bastava combattere contro gli abusi, se non si eliminava la
prima causa della mondanizzazione del clero, che era la nomina degli ecclesiastici e
la concessione di poteri e benefici ( = proprietà e rendite) da parte delle autorità
laiche; pertanto il movimento per la riforma interna della Chiesa si trasformava in
movimento per la Libertas Ecclesiae, per l’indipendenza delle istituzioni
ecclesiastiche da qualsiasi potere laico. Per questo il Concilio Lateranense del 1059
vietò ai laici di conferire cariche ecclesiastiche e decretò che il papa doveva essere
eletto esclusivamente da un’assemblea di ecclesiastici (i cardinali, cioè i parroci delle
chiese di Roma e dintorni): in tal modo la nomina dei vescovi-conti da parte
dell’imperatore e l’intervento imperiale nell’elezione pontificia vennero impediti. Si
determinava così un dissidio profondo tra la Chiesa e l’Impero, dissidio che sfociò in
conflitto aperto qualche anno più tardi. L’imperatore Enrico IV della casa di
Franconia infatti continuò a nominare vescovi-conti ignorando le decisioni del
Concilio Lateranense. Nel 1073 divenne papa il monaco cluniacense Ildebrando di
Soana, che assunse il nome di Gregorio VII, e nel 1075 emanò il Dictatus Papae, un
documento in cui affermava la superiorità del Papa sull’imperatore e su qualsiasi
autorità laica ed ecclesiastica, ribadiva il divieto ai laici di conferire cariche
ecclesiastiche, e comminava la scomunica a chi non avesse rispettato tale divieto. Il
Dictatus Papae costituisce la prima teorizzazione della dottrina teocratica, cioè della
dottrina secondo cui il Papa deriva il suo potere direttamente da Dio, ed ogni altra
autorità deriva il suo potere dal Papa, a cui pertanto è subordinata. Enrico IV reagì
convocando un’assemblea di vescovi che dichiarò deposto il papa Gregorio VII, e
Gregorio allora scomunicò Enrico (sciogliendo i suoi vassalli dagli obblighi di
fedeltà). Di fronte alla ribellione di molti feudatari tedeschi, Enrico IV dovette
umiliarsi e chiedere il perdono del papa (nel 1077 a Canossa). Dopo aver ottenuto la
revoca della scomunica Enrico IV sconfisse i feudatari ribelli, quindi attaccò e
occupò Roma. Gregorio VII sfuggì alla cattura solo grazie all’intervento dei
Normanni, ma dovette abbandonare Roma e seguire i Normanni in Italia meridionale,
dove morì nel 1085. Il conflitto fra Impero e Papato continuò con i successori di
Gregorio VII e di Enrico IV e si concluse nel 1122 con il Concordato di Worms tra
l’imperatore Enrico V e il papa Callisto II. Questo Concordato costituiva un
compromesso tra i contendenti, anche se sostanzialmente era la Chiesa che usciva
vittoriosa dalla Lotta per le investiture (il successo del Papato e la sconfitta
dell’Impero erano la conseguenza del grande consenso che la causa della Libertas
Ecclesiae aveva trovato in Europa e del sostegno che molteplici forze – sovrani,
feudatari, masse popolari, intellettuali ecc. – avevano dato al papa). Ammessa infatti
la possibilità per un ecclesiastico di assumere cariche politiche, il Concordato di
Worms stabiliva che l’investitura ecclesiastica spettava esclusivamente al papa e
doveva precedere quella politica (quindi il papa sceglieva il vescovo e solo in un
secondo momento l’imperatore, se voleva, poteva concedergli una carica politica con
i relativi benefici). Tuttavia in Germania l’investitura politica precedeva quella
ecclesiastica e l’imperatore aveva il diritto di intervenire – in caso di contestazione –
nella nomina dei vescovi. Per la Chiesa si trattava di un successo perché era
riconosciuta l’indipendenza della Chiesa dal potere politico, era esclusa l’ingerenza
dell’imperatore nelle nomine ecclesiastiche, anche se non veniva eliminata la
commistione fra funzioni religiose e interessi politici ed economici (con il
conseguente pericolo della mondanizzazione del clero). L’imperatore, perdendo il
diritto di conferire investiture ecclesiastiche, perdeva in parte quel carattere sacro,
quella funzione di guida della società cristiana e di rappresentante di Dio in terra che
Carlo Magno si era attribuita e che giustificava le pretese universalistiche
dell’imperatore (sull’universalismo torneremo più avanti). Tuttavia la vittoria della
Chiesa era tutt’altro che definitiva: in primo luogo perché il conflitto con l’impero si
sarebbe riproposto ancora nel XII e nel XIII secolo, in secondo luogo perché il
problema dell’autonomia della Chiesa si sarebbe presentato anche in altri contesti
politici (per esempio a metà del XII secolo in Inghilterra, con il conflitto fra il re
Enrico II Plantageneto e l’arcivescovo di Canterbury Tommaso Becket). Inoltre il
nuovo ordinamento della Chiesa voluto dai papi riformatori dell’XI secolo, pur
essendo finalizzato alla Libertas Ecclesiae e alla purificazione della vita religiosa,
non era esente da ombre e problemi: la Chiesa assumeva una struttura gerarchica
piramidale di cui il papa era il vertice e l’autorità suprema; i cristiani laici, nettamente
separati dagli ecclesiastici, avevano un ruolo passivo e subordinato nella vita della
Chiesa. L’accentuazione del primato e dell’autorità del papa portò anche alla frattura
(nel 1054) fra la Chiesa cattolica romana e la Chiesa ortodossa bizantina. Infatti i
vescovi bizantini riconoscevano un primato d’onore al papa (in quanto successore di
Pietro), ma non accettavano di essere subordinati alla sua autorità.
LA NASCITA DEI COMUNI
L'associazionismo spontaneo
Tra XI e XII secolo assistiamo all'avvento di una realtà nuova, quella
dell'associazionismo spontaneo, che ebbe per protagonisti contadini e borghesi (e
anche i nobili urbanizzati). Costoro, abituati a vivere e a lavorare a fianco a fianco,
imparano ben presto a mettersi insieme (i rustici nei villaggi e i borghesi nelle città),
e a formare delle associazioni, delle comunità. Li muoveva il bisogno di tutelarsi fra
loro, di garantirsi con la reciproca amicizia e solidarietà per tutti i bisogni eccezionali
(l'incendio dell’abitazione, un furto, una prigionia da riscattare, ecc.), di difendere
elementari interessi connessi con il lavoro: un diritto di pascolo, di taglio della legna,
di passaggio libero per una strada o per un ponte, nel caso dei rustici; oppure una
condizione di pace, la libera circolazione degli uomini e delle merci, la tutela delle
regole e dei segreti di ogni mestiere, nel caso degli abitanti delle città. Un caso
particolare di associazione di borghesi è costituito dalle arti o corporazioni di
mestiere: si trattava di associazioni che raccoglievano tutti gli artigiani o i mercanti di
un certo settore (per esempio c’era la corporazione dei calzolai, quella degli orefici, la
corporazione della lana ecc.) e che imponevano le regole per l’assunzione e
l’apprendistato dei lavoratori, i salari, i prezzi e il livello qualitativo minimo delle
merci; inoltre le corporazioni svolgevano varie attività assistenziali nei confronti
degli associati, partecipavano alle manifestazioni civili e religiose; non era possibile
esercitare un mestiere senza aderire alla corporazione corrispondente e senza
accettarne le regole e gli statuti: in tal modo le corporazioni di mestiere controllavano
tutta la produzione artigianale mirando ad evitare un’eccessiva concorrenza (che
avrebbe fatto crollare i prezzi). Inizialmente le associazioni dei rustici di un villaggio
e dei borghesi di una città erano associazioni private, denominate Comuni, i cui
membri erano legati da un patto giurato e volontario. Ma gradualmente queste
associazioni entrarono in rapporto con i poteri politici, per chiedere particolari diritti,
privilegi o esenzioni (poteva capitare per esempio che chiedessero di essere esentate
da qualche imposta ritenuta ingiusta); in tal modo queste associazioni si
trasformarono in organismi politici che si ponevano in competizione con i poteri
tradizionali. Nelle campagne i comuni rustici, cioè le associazioni dei contadini,
ottennero una certa autonomia, il riconoscimento di alcuni diritti, ma non riuscirono a
sottrarsi all’autorità feudale (del conte, del marchese, del duca, o più generalmente
del “signore”). Nelle città, invece, il Comune (l’associazione dei cittadini) acquista
via via forza politica e a un certo punto riesce addirittura a esautorare l’autorità
feudale e ad assumere il governo della città: in tal caso il Comune da associazione
privata si trasforma in istituzione pubblica che esercita il suo potere su tutti i
cittadini. Gli organi politici fondamentali del Comune sono: l’Assemblea o “Arengo”,
cioè l'adunata dei cittadini più influenti che eleggono i magistrati della città e
prendono le decisioni più importanti; il “Consiglio maggiore” e il “Consiglio
minore”, organi più ristretti a cui sono demandate le questioni più delicate; i capi e
rappresentanti della città, chiamati “Consoli” in Italia e “Sindaci” in Francia, eletti
periodicamente dall’Assemblea. Nel sistema politico comunale il potere proveniva
“dal basso”, nel senso che era la collettività ad eleggere le autorità comunali, mentre
nel sistema politico feudale il potere proveniva “dall’alto”, nel senso che l’autorità
veniva conferita dal sovrano ai suoi feudatari, da questi ai vassalli, e così via.
Tuttavia non bisogna credere che il sistema comunale fosse “democratico” nel senso
attuale della parola: infatti non tutti gli abitanti della città godevano degli stessi diritti
politici, e solo un’élite di cittadini ricchi, potenti e influenti partecipava alla direzione
politica della città.
L’affermazione politica dei Comuni cittadini
La formazione dei Comuni cittadini avviene nell'XI e XII secolo: talvolta il Comune
si impadronisce del governo della città attraverso una rivolta che porta alla cacciata
del signore feudale; magari è il vescovo-conte che viene esautorato anche per motivi
religiosi; ma il più delle volte la collettività borghese ottiene pacificamente
l’autonomia e il governo della città attraverso un accordo con l’autorità feudale-
signorile. Il movimento comunale si diffuse in Francia, in Germania, in Spagna, nei
Paesi Bassi. Fu invece pressoché inesistente nei paesi dominati dai Normanni perché
questi esercitarono sempre il loro potere in modo centralistico e autoritario, come già
detto. Ogni città costituita in Comune riconosceva formalmente l’autorità del re o
dell’imperatore, ma era di fatto politicamente autonoma, poteva nominare i propri
magistrati (cioè i governanti della città), poteva amministrare la giustizia. Una
caratteristica peculiare dei Comuni transalpini fu quella di avere giurisdizione solo
sull’area urbana; il territorio rurale invece rimase sotto il controllo del potere feudale-
signorile. Possiamo pertanto rappresentarci le città transalpine come isolotti comunali
emergenti da un "mare feudale". Pertanto al di fuori dell’Italia il movimento
comunale non distrusse il sistema feudale, ma si inserì, come forza nuova, come terza
forza, nel tradizionale antagonismo fra monarchia e feudalità.
I Comuni italiani
Invece nell’Italia centro-settentrionale il movimento comunale non rimase chiuso
entro le mura delle città, ma investì anche le campagne e ridusse moltissimo il potere
feudale-signorile. La spiegazione di questa particolarità italiana sta nel fatto che il
movimento comunale italiano è promosso non tanto dalla borghesia, quanto dalla
nobiltà media e piccola che si è inurbata, una nobiltà che si è data agli affari ma che
possiede ancora vaste tenute nelle campagne. Pertanto il movimento comunale
italiano non vuole separare la città dalla campagna, ma vuole giungere a un legame
funzionale con la campagna, vuol fare della campagna il territorio della città. E infatti
il movimento comunale italiano porta alla creazione di vere città-stato, città che
dominano tutto il territorio rurale circostante. Il movimento comunale in Italia si
afferma "approfittando" dello scontro fra papato e impero nella lotta per le
investiture; infatti il papa appoggia il movimento comunale nelle città che sono rette
da vescovi-conti filoimperiali, e l’imperatore, per punire feudatari alleati del papa,
concede l’autonomia a città che ricadono sotto la loro giurisdizione. Esempi:
l’imperatore concede l’autonomia alle città della Toscana, che facevano parte del
feudo della contessa Matilde di Canossa, per indebolire la contessa, colpevole di
essersi schierata dalla parte del papa; il papa invece appoggia e sostiene il popolo di
Milano in rivolta contro il vescovo-conte filoimperiale, il vescovo viene cacciato e il
Comune di Milano acquisisce il governo della città. Ma anche in Italia nella maggior
parte dei casi il Comune ottiene il governo della città pacificamente. I ceti dirigenti
comunali italiani (costituiti, come abbiamo già detto, dalla piccola e media nobiltà,
più che dalla borghesia) chiedono fondamentalmente l’autonomia: riconoscono l’alta
sovranità dell’imperatore, ma non accettano di sottostare ai poteri feudali intermedi,
chiedono l’autogoverno che si riassume nelle seguenti “libertà": eleggere i propri
magistrati, amministrare la giustizia, riscuotere le tasse, provvedere alla difesa della
città, battere moneta. Nella sua prima fase (regime consolare, secolo XII°), favorito
dalla compattezza interna e dal declino dell’impero, il Comune cittadino italiano
realizzò la conquista del territorio circostante, distruggendo o assoggettando i poteri
feudali, estendendo la propria giurisdizione sugli abitanti delle campagne. Si
costituirono quindi nell’Italia centro-settentrionale (soprattutto in Lombardia, in
Emilia e in Toscana) circa 40 città-stato, indipendenti l’una dall’altra, che
soppiantarono gran parte dei feudatari laici ed ecclesiastici, e che misero in crisi tutto
il sistema politico feudale.
LE CROCIATE
Fino alla fine del X secolo l’Europa aveva subito l’aggressione dei popoli islamici
(Arabi o arabizzati), senza riuscire ad opporre valida resistenza. I Musulmani, dopo
aver assoggettato tutta l’Africa settentrionale e l’Asia occidentale (a spese dell'impero
bizantino), riescono a conquistare anche gran parte della penisola iberica e delle isole
mediterranee (Sicilia compresa). Nel X secolo i Musulmani controllano tutto il
Mediterraneo, e i pirati saraceni impediscono agli Europei di navigare, e quindi di
commerciare e comunicare con l’Oriente. Essi inoltre attaccano e saccheggiano
sistematicamente le coste europee. Ma dopo il Mille inizia la reazione dell'Europa e
le parti si invertono: Gli Europei attaccano i Musulmani, li scacciano dall’Europa e
dal Mediterraneo, li attaccano in Oriente. Questa "riscossa" si spiega con la crescita
demografica, con lo sviluppo economico e con l’entusiasmo religioso acceso dal
movimento di riforma della Chiesa.
La "Reconquista"
La "Reconquista" fu una lunghissima guerra che condusse alla liberazione della
penisola iberica dalla dominazione araba. A partire dal 1002 i piccoli regni cristiani
del Nord della Spagna ( regni di Leon, di Castiglia, di Navarra e d'Aragona )
cominciarono ad espandersi ricacciando i Musulmani verso sud. Dopo la decisiva
battaglia di Las Navas de Tolosa (1212), vinta dai cristiani, i Musulmani
conservarono solo il piccolo regno di Granada nell'estremità meridionale della
Spagna. La cacciata degli Arabi dalla penisola iberica fu poi condotta a termine nel
1492. La "Reconquista" fu sostenuta anche dalla cavalleria francese, che accorreva in
Spagna in cerca di gloria e di ricchezze, e fu favorita dal papa, che accordò
indulgenze a chi combatteva gli infedeli in terra iberica.
La lotta contro i Saraceni per il controllo del mare
Dopo il Mille le città marinare italiane, Genova e Pisa in particolare, intrapresero
spedizioni marinare contro le basi dei pirati Saraceni. Erano imprese il cui movente
essenziale consisteva nella liberazione del mare dalla minaccia dei corsari, in modo
che nulla disturbasse il commercio sempre più fiorente delle nostre città; tuttavia
elementi religiosi si mischiavano sempre più spesso alle necessità pratiche: ad
esempio poteva accadere che i marinai riportassero dal saccheggio di una città
islamica reliquie di santi, oppure che impiegassero in un'opera pia i proventi di
un'incursione. Le spedizioni di Genova e Pisa eliminarono i Saraceni dalla Calabria,
dalle Baleari, dalla Corsica e dalla Sardegna, e assicurarono alle città italiane il
predominio sul Mediterraneo centro-occidentale. La Sicilia fu invece conquistata dai
Normanni, che in tal modo crearono al centro del Mediterraneo uno stato potente,
scomodo concorrente dell'impero germanico e di quello bizantino.
Le Crociate
Le Crociate costituiscono l'aspetto più noto e spettacolare del movimento espansivo
dell'Occidente dopo il Mille. Dal punto di vista sociale esse furono una conseguenza
della crescita demografica con la relativa inquietudine e ricerca di nuovi sbocchi
economici e di nuove fonti di ricchezza. Dal punto di vista religioso rappresentano
una sintesi originale di “pellegrinaggio” e di impegno militare . Dal punto di vista
politico infine, le Crociate rafforzarono il potere e il prestigio del Papato che ne fu il
promotore. Le Crociate non furono propriamente una “Guerra santa”, perché il loro
scopo non era quello di diffondere la fede cristiana con le armi o di imporre la
conversione dei musulmani al cristianesimo, ma piuttosto quello di riconquistare la
regione (la “Terra Santa”,cioè la Palestina) dove era vissuto Gesù Cristo, regione che
era pertanto la meta principale dei pellegrinaggi dei cristiani. Infatti la prima crociata
fu proclamata dal papa Urbano II nel Concilio di Clermont-Ferrand (1095). In
quell'occasione il papa si rivolse ai laici, soprattutto ai cavalieri che da tempo
insanguinavano la terra di Francia con le loro lotte fratricide. Li esortò ad
abbandonare quei costumi, a pentirsi, e indicò loro un compito nuovo in un
pellegrinaggio penitenziale a Gerusalemme che avrebbe assunto anche il carattere di
guerra contro i Musulmani, e per il quale egli decretava l’indulgenza dei peccati e
forniva come distintivo una croce cucita sulle vesti (il Papa quindi voleva soprattutto
allontanare dall’Europa cavalieri troppo turbolenti). Molti dei cavalieri che decisero
di partire erano cadetti che non potevano raccogliere l'eredità paterna e che avevano
ormai poche speranze di ottenere un feudo nuovo in un'Europa sovraffollata. Ma
anche molti grandi feudatari accettarono di partecipare all'impresa: certamente erano
mossi da un sincero impulso religioso, ma anche dalle difficoltà politiche ed
economiche che incontravano in Europa, per la concorrenza con gli altri signori
feudali, con la monarchia, con i Comuni borghesi, con la piccola nobiltà. Le Crociate
furono quindi un "salasso" del vecchio ordine feudale, un salasso che favorì il
rinnovamento sociale e politico del continente. La prima crociata dei cavalieri fu però
preceduta da una disordinata crociata popolare (la cosiddetta "Crociata dei
Pezzenti"): nel 1096 una folla di avventurieri, contadini, donne, mendicanti,
infervorata dalla predicazione del "profeta" Pietro l'Eremita, si mise in marcia per
Gerusalemme, senza rifornimenti e senza organizzazione. Questi miserabili
saccheggiavano le terre che attraversavano ( accanendosi soprattutto contro le colonie
giudaiche) e pertanto, ancora prima di giungere in Oriente, furono decimati dalle
popolazioni della penisola balcanica. La crociata "ufficiale" invece fu guidata dal
duca francese Goffredo di Buglione; il 15 luglio 1099 l'esercito crociato espugnò
Gerusalemme, e nell'Asia Minore si costituirono il Regno di Gerusalemme e tanti
feudi affidati ai nobili crociati. Ma nel XII secolo i Turchi (una popolazione asiatica
di religione islamica) strapparono di nuovo Gerusalemme ai cristiani, e tutte le
Crociate successive non riuscirono più a recuperare i Luoghi Santi alla cristianità. Le
Crociate ebbero anche una grande importanza economica: i mercanti di Venezia,
Genova e Pisa poterono realizzare buoni affari vendendo armi, alimenti, navi ecc. ai
crociati, e soprattutto poterono aprire basi commerciali in Asia Minore; in tal modo si
apriva una corrente continua di traffici tra Europa e Oriente, che fu di notevole
importanza per il progresso culturale ed economico dell'Europa. Infine le crociate
diedero vita a una particolare e caratteristica istituzione medievale: gli ordini
monastico-cavallereschi: si trattava di ordini religiosi in cui i monaci conducevano la
normale vita religiosa, ma si assumevano anche il compito della difesa militare della
Terra Santa e dei pellegrini, realizzando pertanto una “strana” sintesi tra i valori del
cristianesimo e i valori della nobiltà militare. Gli ordini monastico-cavallereschi (il
più famoso dei quali fu quello dei Templari) acquisirono prestigio e potenza, ma con
il passar del tempo suscitarono anche invidie e sospetti.
Il problema delle “cause” delle Crociate
Sulle riviste e nelle trasmissioni televisive di divulgazione storica si legge (o si sente)
che le cause delle Crociate furono economiche. A questa motivazione si aggiunge
talora il fanatismo religioso e magari (come nel film “Le crociate” di Ridley Scott) si
rappresentano i Crociati come guerrieri fanatici e crudeli, contrapposti ai “buoni”
musulmani: a tal proposito si ricorda l’eccidio degli abitanti di Gerusalemme
perpetrato dai Crociati dopo la conquista. Riguardo alle cause economiche bisogna
osservare che la storiografia è stata talvolta influenzata dal pensiero filosofico e
sociologico di Karl Marx, il quale sosteneva che il fattore determinante della storia è
l’economia, e che tutti gli elementi che costituiscono una civiltà (come politica,
religione, arte, diritto ecc.) sono conseguenti all’ organizzazione economica. Tuttavia,
anche se va riconosciuto a Marx il merito di aver riconosciuto l’importanza del
fattore economico (che in precedenza era stato trascurato), non è possibile ricostruire
la storia passata sulla base di principi astratti, ma bisogna basarsi sui documenti, sulle
fonti, sui fatti accertati. E pertanto, sulla base dell’analisi delle fonti e dei fatti
accertati, si può affermare che le Crociate furono provocate da diversi fattori
convergenti; in primo luogo dobbiamo considerare dei fattori culturali: l’entusiasmo e
il fervore religioso suscitato dal grande movimento di rinnovamento religioso che
attraversò l’Europa nell’XI secolo, e insieme a questo lo spirito di avventura e
l’amore alla guerra che animavano la nobiltà medievale (a noi sembra inconcepibile
che la fede cristiana possa coniugarsi con l’esercizio della guerra, ma “il mestiere
delle armi” era l’attività normale dei nobili, essi erano nati e cresciuti in un ambiente
che esaltava i valori militari, e per loro era naturale esprimere la loro fede cristiana
nella loro condizione di cavalieri e di guerrieri); in secondo luogo consideriamo la
crescita demografica ed economica dell’Europa, che mise a disposizione delle
Crociate uomini e risorse: in particolare molti nobili cadetti, senza feudi, partirono
per le Crociate in cerca di fortuna; tuttavia parteciparono alle Crociate anche membri
della grande nobiltà feudale (conti, duchi, ecc.) i quali dovettero indebitarsi e vendere
proprietà in Europa per procurarsi i mezzi necessari a realizzare l’impresa (armi,
cavalli, scorte di viveri, navi ecc.); i vantaggi economici non ci furono tanto per i
Crociati, i quali, anche se realizzarono conquiste e bottino, dovettero comunque
affrontare spese enormi per conquistare e per conservare le conquiste fatte, i vantaggi
economici ci furono soprattutto per le Repubbliche marinare italiane, che vendettero
ai Crociati navi e rifornimenti, e che poi poterono stabilire basi commerciali nei
territori orientali conquistati dai Crociati. Riguardo poi alle crudeltà e al fanatismo
crociati, si deve considerare che le guerre sono sempre “sporche guerre”, con
spargimenti di sangue e stragi, anche di civili (e le guerre moderne e contemporanee
non sono affatto “migliori” di quelle medievali), ed inoltre era ritenuto “normale”
(anche da parte islamica) che una città assediata che aveva opposto resistenza agli
assedianti venisse punita con il saccheggio e con la strage degli abitanti.
I MOVIMENTI RELIGIOSI
Già nell’XI secolo il movimento di Cluny e la lotta del papato contro l’impero e l’alto
clero simoniaco furono affiancati da alcuni potenti movimenti popolari, in particolar
modo nell’Italia settentrionale ed in Toscana. Qui infatti era più forte la lotta delle
popolazioni che desideravano affrancarsi dalla servitù feudale imposta dai signori e
dai vescovi-conti, ormai divenuti anch’essi parte integrante della gerarchia feudale.
A causa del carattere fortemente popolare di questi movimenti, gli aderenti vennero
soprannominati dai nobili milanesi Patari, ossia straccioni; in realtà, del movimento
fecero parte anche molti mercanti e piccoli nobili.
I moti patarini vennero spesso guidati da ecclesiastici, uomini di fede e asceti, i quali
contrapponevano al clero corrotto e simoniaco, un ritorno alla povertà di Cristo; per
questo motivo il loro movimento prese il nome di Pauperes Christi, i poveri di
Cristo. Tuttavia questi movimenti non furono mai in contrapposizione alle istituzioni
o alla dottrina della Chiesa, al contrario lottarono sempre per l’esecuzione dei decreti
papali contro la simonia. Per questo motivo, soprattutto sotto il pontificato
di Gregorio VII il papato sostenne questi movimenti popolari, poichè vedeva in essi
dei potenti alleati contro l’alto clero e le pretese imperiali.
Tra il XII ed il XIII secolo, i moti religiosi popolari, ebbero una grande diffusione e
furono l’espressione della lotta condotta dai ceti popolari per la rivendicazione delle
libertà comunali, sia contro i feudatari, sia contro i ricchi mercanti, latifondisti e
usurai, che gestivano il potere nei Comuni.
Contro il nuovo potere rappresentato dal denaro, essi tornavano ad affermare la
povertà evangelica, l’uguaglianza tipica delle prime comunità cristiane ed il
disprezzo per le grandezze mondane. Su questo tipo di percorso, si manifestarono due
diversi indirizzi: il primo Ascetico, che era proprio degli uomini più pii che
desideravano ardentemente il miglioramento della comunità cristiana, sia per ciò che
riguardava il clero, sia per i laici, senza mettere in discussione gli ordinamenti
ecclesiastici e neppure la dottrina della Chiesa. Il secondo indirizzo, era
quello Ereticale, seguito da coloro che, convinti dell’impossibilità di migliorare la
Chiesa dal suo interno, troncavano i rapporti con la dottrina vigente, passando a
professarne altre condannate dalla Chiesa cattolica, spesso organizzando delle sette
ereticali.
La più famosa di queste correnti fu quella dei Catari, nome derivato dal greco
katarós, che tradotto significa puro. I Catari predicavano l’ostilità contro la Chiesa e
contro l’autorità dello Stato, entrambe considerate l’incarnazione del male,
l’avversione alla guerra e ad ogni spargimento di sangue, la povertà, la disobbedienza
alla legge e l’astensione dal matrimonio, poichè essi consideravano prossima la fine
del mondo ed il giudizio universale. Queste estreme proposizioni, erano note solo agli
ai sacerdoti del movimento, mentre i seguaci vi coglievano solo quanto atteneva alla
loro lotta contro il feudalesimo e per i diritti dei ceti più deboli della società.
In alcune zone della Francia meridionale, i catari si conformarono alle condizioni
locale; in questo modo poterono entrare a far parte della setta, anche alcuni membri
della piccola nobiltà e alcuni cavalieri, che il progresso dell’economia monetaria
aveva posto in difficoltà e che speravano di rifarsi con l’espropriazione dei beni della
Chiesa.
Fu proprio nella Francia meridionale che i catari, che qui vennero chiamati Albigesi,
dalla città di Alby, diedero vita ai moti più violenti, poi stroncati da una feroce
repressione.
Caratteri più pratici, mostrarono invece le dottrine di Pietro Valdés meglio
conosciuto come Valdo; questi era un ricco mercante di Lione che donò tutte le
proprie ricchezze ai poveri, intraprendendo una vita da predicatore errante.Egli
sosteneva che sia i laici che le donne avevano il diritto di predicare, che la lingua
ecclesiastica doveva essere quella parlata dal popolo, affermando infine che la Sacra
Scrittura, nella sua versione in linguaggio volgare in modo che fosse chiara a tutti,
doveva essere l’unica fonte di ispirazione religiosa, negando in tal modo il magistero
della Chiesa. Tutti i seguaci di Valdo erano dei postulanti, che si ritroveranno in
seguito nelle eresie dei secoli successivi, fino a giungere alla Riforma
Protestante del Cinquecento. A quell’epoca i valdesi, duramente perseguitati,
formarono alcune comunità nelle valli alpine piemontesi.
I moti eriticali trovarono un loro parallelo nelle idee di alcuni pensatori non sempre
collegati all’eresia militante. I più famosi tra loro furono il francese Pietro
Abelardo e il calabrese Gioacchino da Fiore. Quest’ultimo predicava l’imminente
avvento dell’età dello Spirito,nella quale lo Spirito Santo sarebbe dovuto scendere dal
cielo per ispirare i cuori dei mortali, che avrebbero costituito un’unica Chiesa, senza
gerarchie ne sacramenti. La venuta di questa nuova era doveva essere preceduta dalla
comparsa di un personaggio terribile, il cui compito sarebbe stato quello di purificare
la Chiesa mediante le sue persecuzioni. In seguito un Papa angelico doveva giungere
per annunciare la discesa dello Spirito Santo.
Profezie simili, ebbero largo corso nel Duecento, come è pure vero che le opere di
Gioacchino da Fiore furono molto lette nei conventi francescani, dove ispirarono
fortemente la corrente dei francescani spirituali.
L’indirizzo ascetico trovò espressione con la fondazione degli ordini mendicanti dei
francescani e dei domenicani. San Domenico di Guzmancontrappose all’eresia dei
catari il loro stesso mezzo di propaganda: i suoi seguaci, anzichè restare a fare vita
contemplativa nei monasteri, scendevano nei villaggi a contatto con la gente,
conducendo vita poverissima e contando sulle sole elemosine per la propria
sussistenza, riuscendo in tal modo a combattere l’eresia con l’esempio della povertà e
del sacrificio. Per corrispondere alle esigenze dettate dalla lotta contro gli eretici, i
domenicani si dedicarono assiduamente allo studio, acquisendo il controllo di gran
parte delle università; dal loro ordine uscirono studiosi di prim’ordine nel campo
delle discipline ecclesiastiche. Il più famoso fu San Tommaso D’Aquino (1225-
1274), che fu anche il massimo esponente della filosofia e della teologia cattolica.
Il fondatore dell’ordine dei frati francescani, San Francesco d’Assisi (1182-1226),
figlio di un ricco mercante, dopo una giovinezza dissoluta, rinunziò alle proprie
ricchezze per darsi ad una vita povera da predicatore errante. Collegato ai movimenti
dei pauperes Christi, emanava una ricchezza di ispirazione spirituale molto superiore
ad altri predicatori suoi contemporanei. Predicava la pace, l’amore fra gli uomini e
verso gli animali, tutte creature dello stesso Dio, il perdono delle offese, giungendo a
contrapporsi con il proprio corpo tra le fazioni in lotta. Egli mostrava la bellezza della
vita semplice, a contatto con i doni e le bellezze della natura, purchè l’uomo si
abbandonasse alla volontà divina. La sua predicazione ebbe una profonda influenza
sui suoi contemporanei. San Francesco non aveva fondato un ordine regolare, poichè
neppure lui aveva preso gli ordini sacri.
Dopo la sua morte, la trasformazione dei frati minori in ordine regolare, diede origine
a notevoli divergenze di opinioni tra i suoi seguaci, una parte dei quali sosteneva che,
come tutti gli altri ordini sacerdotali, anche i francescani avrebbero dovuto disporre
di propri conventi, e quindi anche dei beni necessari al loro mantenimento; che si
dovessero accettare le dignità ecclesiastiche e che quindi, i francescani si dovessero
applicare nello studio del diritto canonico, necessario per sostenere i diritti della
Chiesa e per amministrare i beni ecclesiastici.
Gli appartenenti a questa tendenza vennero soprannominati conventuali. Di opposta tendenza furono invece gli aderenti alla fazione degli spirituali, che affermavano invece la continuazione della predicazione errante, così come aveva fatto San
Francesco, accontentandosi delle sole elemosine, rinunciando al possesso di beni e rifiutando le alte cariche ecclesiastiche.
Le divergenze crebbero a tal punto, che alla fine gli spirituali vennero cacciati dall’ordine, condannati dalla Chiesa come eretici e perseguitati. Da questi fuoriusciti prese vita un movimento chiamato dei fratelli spirituali, guidato da Gerardo Segarelli, che venne poi arso vivo a Parma nel 1302. I suoi seguaci non si persero d’animo e sotto la guida di Frà Dolcino, ripresero le armi rifugiandosi tra le montagne del Piemonte. Solo dopo una lunga guerra, i signori feudali ed i Comuni piemontesi riuscirono a catturare lui ed i suoi adepti, che vennero condannati a morte come eretici. Privati dei loro capi, i superstiti si dispersero, ponendo fine al movimento
.
ALTO E BASSO MEDIOEVO
Introduzione
Se con storia del Medioevo si intende la storia dal 476, anno della deposizione
dell’ultimo imperatore d’occidente, al 1492, anno della scoperta dell’America, con
Italia medievale dobbiamo forse più precisamente intendere quel periodo della storia
d’Italia che va dall’invasione longobarda (568) fino alla stipulazione della Pace di
Lodi, nel (1454), la quale dette inizio ai quarant’anni di equilibrio politico e che fu il
periodo più importante del Rinascimento italiano. A sua volta il Medioevo
tradizionalmente si divide in alto Medioevo (fino all’anno 1000) e basso Medioevo. È
bene puntualizzare che tali datazioni sono semplicemente delle convenzioni per
riferirsi con maggiore chiarezza a un periodo tanto lungo quanto complesso. Infatti,
spesso, dietro alle nette datazioni ci sono molteplici sfumature tipiche della storia.
All’inizio dell’alto Medioevo l’Europa e l’Italia romane vengono germanizzate, con
la formazione dei regni romano-barbarici. Dopo la sedentarizzazione dei nomadi
germanici, è la volta di nuovi nomadi, gli Arabi che rompono l’unità del
Mediterraneo. Inoltre parte dell’Italia venne occupata anche dalle truppe dell’Impero
romano d’Oriente, comunemente detto Impero bizantino. Il tentativo di unire
l’Europa da parte di Carlo Magno (742-814) non avrà fortuna, ma il sistema con cui
organizzò la sua società, il feudalesimo, attecchirà un po’ dovunque, per breve tempo
anche in Italia, dove però le città di origine romana sapranno riprendersi sul fronte
economico prima delle altre. Così all’inizio del basso Medioevo, mentre in Europa si
diffondono le monarchie feudali, in Italia si sviluppa la civiltà comunale, che si
scontrerà politicamente e militarmente con il Sacro Romano Impero Germanico.
Successivamente, mentre in Europa si affermano gli stati nazionali, in Italia si
sviluppano delle potenze regionali che continuano a guerreggiare fra loro. Così, alla
fine del Medioevo e nel Rinascimento nonostante l’elevato livello culturale di
entrambi i periodi le piccole potenze italiane non saranno in grado di affrontare il
pericolo costante di una dominazione straniera.
ALTO MEDIOEVO
Il regno di Odoacre
Convenzionalmente, la data del 476 segna il passaggio dall’Antichità al Medioevo. In
quell’anno un pronunciamento delle truppe di Federati stanziati in Italia, composte da
Sciri, Eruli e Turcilingi, reclamando le terre che il patrizio Oreste aveva promesso per
i loro servigi, acclamò il generale di origine scira Odoacre rex gentium; questi depose
l’ultimo imperatore di Occidente, Romolo Augustolo, e, invece di elevare alla
porpora un fantoccio di cittadinanza romana, come avevano fatto i generali barbari
che lo avevano preceduto, inviò le insegne imperiali a Costantinopoli, dichiarando
conclusa la separazione politica delle due parti dell’impero, che ritrovava unità sotto
la guida dell’augusto d’oriente Zenone, cui Odoacre chiese di essere insignito patrizio
con giurisdizione sulla diocesi d’Italia. Sebbene Zenone non concesse mai
ufficialmente al generale sciro tale carica, consentì di fatto ad Odoacre di governare
l’Italia come proprio vicario, cosa che avvenne nella continuità delle istituzioni,
dell’amministrazione e del diritto romano; per allontanare da Oriente la presenza
ingombrante degli Ostrogoti, che nel 485 avevano saccheggiato la Tracia e
minacciavano ormai Costantinopoli, e ridimensionare il potere crescente di Odoacre,
l’imperatore promise a Teodorico il titolo di rex qualora avesse invaso in forze
l’Italia: dopo 4 anni di guerra Odoacre fu sconfitto nel 489.
Il Regno ostrogoto (494-535)
Teodorico proseguì in gran parte la politica del suo predecessore e avversario,
assegnando ai suoi Ostrogoti i compiti di sicurezza e di difesa e delegando ai Latini
(o Romanici) le funzioni amministrative. Tra i collaboratori latini del sovrano si
contarono anche i grandi intellettuali Cassiodoro e Boezio, anche se quest’ultimo
cadde in seguito in disgrazia, venne imprigionato e fu infine ucciso. La struttura
latifondista della società e dell’economia italiana fu sostanzialmente preservata; la
nuova ripartizione delle terre introdotta da Teodorico assegnò un terzo dei fondi ai
conquistatori e i due terzi agli antichi abitanti. Durante il regno del sovrano
germanico furono costruite nuove opere pubbliche, come il mausoleo di Teodorico a
Ravenna, e si cercò, almeno nei primi anni, di mantenere pacifici i rapporti tra la
maggioritaria Chiesa cattolica e gli aderenti al cristianesimo ariano, tra i quali si
contava la maggior parte degli Ostrogoti e lo stesso re. Alla morte di Teodorico (526)
il trono passò al giovane nipote Atalarico, sotto la reggenza della madre Amalasunta,
e in seguito al secondo marito della regina madre, Teodato (a sua volta nipote di
Teodorico). Amalasunta perseguì una politica apertamente favorevole al
cattolicesimo, che determinò una frattura tra il potere regio e la nobiltà gotica; la
divisione favorì i progetti di riconquista dell’Italia del nuovo imperatore d’Oriente,
Giustiniano, che nel 535 lanciò l’armata del generale Belisario contro gli Ostrogoti.
Dalla guerra gotica all’invasione longobarda (535-568)
La guerra iniziò con i migliori auspici per i Bizantini, condotti dal talentuoso generale
Belisario, che dopo aver conquistato la Sicilia risalirono la penisola, riconquistandola
in massima parte nell’arco di cinque anni. Quando i Bizantini nel 540 conquistarono
Ravenna, dove il re goto Vitige (succeduto a Teodato nel 536) fu fatto prigioniero e
portato a Costantinopoli, sembrava che mancasse ormai poco alla definitiva sconfitta
dei Goti. Il richiamo di Belisario a Costantinopoli, l’incapacità dei generali che lo
sostituirono, l’oppressione fiscale degli italici sotto il governo bizantino e l’ascesa al
trono del goto Totila contribuirono invece alla ripresa dei Goti, che sotto la guida del
loro nuovo re, ripresero il possesso di buona parte dell’Italia. Il successo di Totila fu
dovuto, oltre alle sue doti militari, anche al fatto che cercò e trovò l’appoggio dei
contadini impegnandosi in una riforma agraria di stampo egualitaristico, in base alla
quale i grandi latifondisti venivano espropriati dei loro terreni e i servi venivano
affrancati per entrare in massa nell’esercito di Totila. Il ritorno di Belisario in Italia
non fermò l’avanzata gota: il generale bizantino non aveva truppe sufficienti per
contrastare efficacemente Totila, che alla fine del 546 conquistò Roma,
risparmiandola dopo aver minacciato di distruggerla. Roma fu poi riconquistata da
Belisario che, rassegnatosi al fatto che con le insufficienti truppe di cui disponeva
non avrebbe mai ottenuto una vittoria definitiva su Totila, chiese il richiamo a
Costantinopoli (548). Dopo la partenza di Belisario, Totila conquistò di nuovo Roma,
ormai caduta in rovina a causa dei continui assedi, e grazie alla sua flotta invase la
Sicilia, la Sardegna e la Corsica (550). L’arrivo in Italia del generale eunuco Narsete
(552) cambiò l’esito del conflitto. Giunto in Italia con un cospicuo esercito
comprendente anche guerrieri mercenari di varie nazioni, Narsete cercò lo scontro
aperto con Totila, che affrontò e vinse a Tagina, dove il re goto perì. Narsete
successivamente conquistò Roma e si diresse in direzione dei Monti Lattari, dove
inflisse una seconda definitiva sconfitta ai Goti condotti dal loro nuovo re Teia.
La guerra non poteva però dirsi completamente finita non solo perché, pur essendo
rimasti senza re, alcune fortezze gote ancora resistevano ostinatamente, ma anche per
l’invasione di due eserciti franco-alamanni venuti a dar man forte ai Goti. I Franco-
Alamanni vennero tuttavia respinti da Narsete, che in due anni (553-555) conquistò
tutte le fortezze gote a sud del Po (quelle della Tuscia, di Cuma e di Conza). La
conquista delle fortezze al nord del Po si concluse solo nel 562, quando Verona e
Brescia si arresero e il limes venne portato sulle Alpi. Il conflitto si protrasse per circa
un ventennio, devastando l’intera Italia tanto da portarla a una grave crisi
demografica, economica, politica e sociale. Nonostante Giustiniano nella Prammatica
Sanzione del 554, con cui estendeva la legislazione imperiale in Italia organizzandola
in Prefettura del pretorio, avesse promesso fondi per ricostruire l’Italia semidistrutta,
i danni erano troppo gravi per porvi rimedio in breve tempo. Narsete e i suoi
sottoposti si occuparono personalmente di riparare le mura delle città semidistrutte e
un’epigrafe attesta la ricostruzione del ponte Salario a Roma, mentre fonti
propagandistiche dell’epoca parlano di un Italia ritornata all’antica felicità sotto il
governo di Narsete. Queste fonti, tuttavia, sono ritenute dalla storiografia odierna fin
troppo ottimistiche: infatti i tentativi da parte di Giustiniano di combattere le iniquità
degli esattori imperiali in Italia non ebbero effetto, perché esse proseguirono, mentre
Roma continuò ad essere una città in rovina, con parecchi edifici devastati dal lungo
conflitto, e il senato romano si avviava verso la definitiva dissoluzione, che avvenne
agli inizi del VII secolo. Le campagne erano devastate a tal punto che, come
dichiarato da Papa Pelagio I in un’epistola, “nessuno è in grado di recuperarle”,
mentre la Chiesa Romana riceveva ormai proventi solo dalle isole o al di fuori
dell’Italia. Gli anni seguenti furono funestati, oltre che da un aggravamento delle
condizioni di vita dei contadini a causa della forte pressione fiscale, anche da una
terribile pestilenza che spopolò ulteriormente la penisola (559-562). L’Italia
bizantina, indebolita e impoverita, non ebbe la forza di opporsi a una nuova invasione
germanica, quella dei Longobardi capeggiati da Alboino. Tra il 568 e il 569 i
Longobardi occuparono gran parte dell’Italia centro-settentrionale. Questa regione,
che da allora sarebbe stata detta Langobardia Maior (“Langobardia Maggiore”),
costituì il nucleo del Regno longobardo, con capitale Pavia, ma contingenti germanici
si spinsero anche nell’Italia meridionale, dove costituirono i ducati della Langobardia
Minor (“Langobardia Minore”): Spoleto e Benevento. L’intero Regno longobardo fu
infatti ripartito in numerosi ducati, ampiamente autonomi rispetto al potere centrale.
Con l’invasione longobarda l’Italia fu quindi suddivisa in due grandi zone
d’influenza.
I Longobardi occuparono le aree continentali della penisola, mentre i Bizantini
conservarono il controllo di gran parte delle zone costiere, incluse le isole. Fulcro
delle province bizantine in Italia furono l’Esarcato d’Italia (istituito nel 584 circa),
corrispondente grosso modo all’odierna Romagna (detta Romania nel latino
dell’epoca, proprio per sottolineare la sua appartenenza all’Impero Romano
d’Oriente) con Ravenna capitale, e la limitrofa Pentapoli bizantina, serie di città
fortificate lungo la costa adriatica. Il potere supremo era esercitato dal luogotenente
generale dell’imperatore bizantino, l’esarca, che aveva poteri quasi assoluti – sia
civili, sia militari – e doveva rispondere del suo operato soltanto all’imperatore.
Formalmente bizantina era anche Roma con il suo contado (il Ducato romano), ma in
realtà la città era governata in modo quasi del tutto autonomo dal papa, in un primo
embrione del futuro Stato della Chiesa.
Il Regno longobardo e l’esarcato d’Italia (568-774)
Il VI secolo
Dopo la morte di Alboino, vittima nel 572 di una congiura ordita dalla moglie
Rosmunda, la corona fu affidata a Clefi. Tra i Longobardi il re era infatti
generalmente eletto dalla assemblea del popolo in armi (Gairethinx), anche se non
sarebbero mancati tentativi di rendere ereditaria la trasmissione del potere. A essere
eletti re, comunque, erano in genere gli esponenti di alcuni gruppi famigliari, tanto
che nel corso della storia longobarda figurano diverse dinastie. Clefi estese
ulteriormente i confini del regno e tentò di continuare la politica del suo
predecessore, volta a spezzare gli istituti giuridico-amministrativi consolidatisi
durante il dominio ostrogoto e bizantino attraverso l’eliminazione dell’aristocrazia
latina, l’occupazione delle sue terre e l’acquisizione dei suoi patrimoni. A differenza
degli Ostrogoti, quindi, i Longobardi esautorarono del tutto l’elemento romanico,
accentrando nelle mani dei duchi ogni potere. Nel 574 anche Clefi venne assassinato
e per un decennio, detto Periodo dei Duchi, non fu nominato alcun successore e i
duchi regnarono autonomamente sui loro possedimenti (574-584). Durante il periodo
dei duchi le condizioni dei Romanici soggetti ai Longobardi peggiorarono: infatti le
fonti primarie (come Paolo Diacono) parlano di uccisioni e massacri. La
controffensiva bizantina ad opera del generale Baduario fallì (576) e i duchi ne
approfittarono espandendo ulteriormente i loro domini: è infatti al periodo dei duchi
che viene fatta risalire la fondazione dei ducati longobardi di Spoleto e di Benevento,
sebbene non vi siano prove certe a proposito. In seguito all’invasione longobarda la
parte d’Italia rimasta bizantina, per far fronte alla nuova invasione, venne
riorganizzata in esarcato, governata da un esarca con autorità sia civile che militare:
non si sa tuttora la data esatta in cui ciò avvenne, ma il primo riferimento nelle fonti
dell’epoca a un esarca è in una epistola papale dell’anno 584, quindi si ritiene che la
riforma degli esarcati sia stata attuata intorno a quell’anno per opera dell’Imperatore
Maurizio. Con tale riforma, l’Italia imperiale venne trasformata in un’unica terra di
frontiera, divisa in vari distretti militari difesi da eserciti regionali.
Nella seconda metà del VI secolo, l’Impero d’Occidente rischiò di rinascere. Sembra
infatti che Tiberio II Costantino intendesse dividere alla sua morte l’Impero d’Oriente
(ora estesosi, dopo le conquiste di Giustiniano, su buona parte dell’Occidente) in una
parte occidentale, con capitale Roma, e in una parte orientale, con capitale
Costantinopoli, ma ci ripensò e nominò unico imperatore Maurizio. Anche Maurizio
prese in considerazione la possibilità di una rinascita di un Impero d’Occidente:
infatti nel suo testamento lasciava l’Italia e le isole del Tirreno al figlio Tiberio,
mentre il governo della parte orientale sarebbe spettata al figlio maggiore Teodosio.
Tali piani tuttavia non si realizzarono mai, a causa della rivolta di Foca che uccise
Maurizio e i suoi figli. Maurizio, non potendo ricorrere alle armi per combattere i
Longobardi, decise di far ricorso alla diplomazia cercando l’alleanza con i Franchi.
Quando i duchi si resero conto che, separati, non avrebbero saputo reggere alla
pressione militare dei Bizantini e dei Franchi, decisero di eleggere un nuovo sovrano:
la corona venne quindi assegnata ad Autari, figlio di Clefi. Il nuovo re respinse
entrambe le minacce e rafforzò la stabilità del regno alleandosi con i Bavari.
L’accordo fu siglato con le nozze del re con la principessa bavara Teodolinda;
rimasta presto vedova (590), la regina si risposò con il duca di Torino Agilulfo, che
subito dopo (591) fu proclamato re dei Longobardi.
La coppia, fondatrice della dinastia Bavarese, regnò congiuntamente e rafforzò
ulteriormente il regno, garantendone i confini esterni e ampliandone l’area a danno
dei Bizantini. Il potere centrale venne rafforzato a danno di quello dei duchi, che
furono affiancati da funzionari di nomina regia (gli sculdasci) e fu avviata una
maggior integrazione con i Romanici, anche attraverso l’avvio della conversione dei
Longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo. Venne stimolata la produzione artistica,
grazie all’abate evangelizzatore irlandese san Colombano, fondatore a Bobbio nel
614 della futura Abbazia di San Colombano; questo dopo l’Espansione del
cristianesimo in Europa tra V e VIII secolo. Gli eserciti di Agilulfo e del duca di
Spoleto minacciarono più volte la città di Roma, difesa con vigore dal papa Gregorio
Magno, che cercò per tutto il decennio 590-600 di giungere a una pace tra
Longobardi e Bizantini, a suo dire per evitare altre stragi. L’esarca Romano era però
contrario alla pace e fece anche poco o nulla per difendere Roma dai Longobardi,
attirandosi l’odio del pontefice, che in più epistole si lamentò dell’operato
dell’esarca. I rapporti tra Gregorio e il successore di Romano, Callinico, furono
invece migliori e il nuovo esarca negoziò una pace armata con i Longobardi, che
venne firmata nel 599. La pace durò tuttavia poco perché Callinico nel 601 aggredì
Parma, provocando la reazione del re longobardo che aggredì la Venezia bizantina
conquistando le città dell’entroterra e riducendo la Venezia bizantina alle coste. Seguì
un lungo periodo di pace tra i due stati.
Il VII secolo
La debole reggenza assunta alla morte di Agilulfo (616) da Teodolinda in nome del
figlio Adaloaldo favorì l’opposizione della fazione più aggressiva dei duchi, ancora
ariani e contrari alla politica di pacificazione con i Bizantini e di integrazione con i
Romanici. Nel 626 un colpo di Stato esautorò Adalaoaldo e portò sul trono l’ariano
Arioaldo, che tuttavia dovette concentrare il suo impegno bellico a parare le minacce
esterne portate dagli Avari a est e dai Franchi a ovest. Il suo successore Rotari, re dal
636 al 652, ampliò ulteriormente i domini longobardi (con la conquista della Liguria
e di Oderzo), rafforzò l’autorità centrale anche sui duchi della Langobardia Minor e
promulgò la prima raccolta scritta del diritto longobardo, l’Editto di Rotari. La nuova
legislazione era d’ispirazione germanica, ma introduceva anche elementi desunti dal
diritto romano e sostituì la faida (vendetta privata) con il guidrigildo (risarcimento in
denaro stabilito dal re). Da segnalare nel 619 la rivolta dell’esarca bizantino Eleuterio
che si autoproclamò imperatore d’Occidente con il nome di Ismaelius. Tuttavia la
rinascita dell’Impero d’Occidente fu effimera, in quanto l’imperatore usurpatore
venne ucciso dai suoi soldati mentre si stava dirigendo verso Roma, dove intendeva
farsi incoronare dal Papa.
L’Italia longobarda e bizantina alla morte di Rotari (652)
La seconda metà del VII secolo fu caratterizzata dal prevalere dei sovrani della
dinastia Bavarese (Ariperto I, Pertarito, Godeperto, Cuniperto), che ripresero la
consueta politica di pacificazione con i Bizantini e di integrazione con i Romanici
sudditi del regno, tanto da arrivare infine alla completa conversione dei Longobardi
al cattolicesimo. La continuità dinastica fu tuttavia interrotta da tentativi di
usurpazione ispirati dalle residue frange ariane: nel 662 il duca di Benevento,
Grimoaldo, riuscì a esautorare Pertarito e a regnare per una decina d’anni con una
pienezza di poteri maggiore di ogni suo predecessore; i suoi sudditi ne apprezzarono
(come testimonia il grande storico longobardo Paolo Diacono) la saggezza
legislativa, l’opera mecenatistica e il valore guerriero. Egli riuscì inoltre a contrastare
con successo l’aggressione da parte dei Bizantini di Costante II del Ducato di
Benevento, mandando in fumo l’ultimo vero e proprio tentativo di riconquista
bizantina dell’Italia. Costante II fu il primo imperatore bizantino a risiedere in Italia
per alcuni anni; infatti dopo la fallita campagna contro i Longobardi, l’Imperatore
pose la propria residenza imperiale a Siracusa. Tuttavia la sua tirannia e avidità (in
Italia saccheggiò le chiese e alzò di molto le tasse) lo resero odiato dal popolo e alla
fine venne assassinato nel 668 a Siracusa mentre si faceva il bagno. I congiurati
nominarono Imperatore Mecezio, che tuttavia venne deposto dal legittimo imperatore
Costantino IV, figlio di Costante.
L’VIII secolo
L’VIII secolo si aprì con una grave crisi dinastica, che per più di dieci anni vide il
Regno longobardo dilaniato da colpi di Stato, guerre civili e regicidi; soltanto nel
712, con l’ascesa al trono di Liutprando, l’Italia longobarda ritrovò compattezza.
Quello di Liutprando è anzi considerato il periodo di maggior splendore del Regno
longobardo, caratterizzato da pacificazione interna, fermezza del potere centrale,
grande rilievo internazionale e creatività artistica (la cosiddetta “Rinascenza
liutprandea”). Approfittando della politica iconoclastica dell’Imperatore d’Oriente
Leone III, che suscitò varie rivolte anti-bizantine nell’Esarcato, nella pentapoli e nel
ducato romano, Liutprando si espanse a scapito dei Bizantini occupando molte città
dell’Esarcato e della Pentapoli e arrivando anche a occupare per un anno Ravenna
(forse nel 732) per esserne poi scacciato da una flotta venetica. Alla morte di
Liutprando (744) il trono, dopo il brevissimo regno di Ildebrando, passò al duca del
Friuli, Rachis. Definito “il re monaco”, Rachis fu un sovrano debole, incapace di
opporsi tanto alle spinte autonomiste dei duchi quanto alle pressioni esercitate dal
papa e dai suoi alleati Franchi; nel 749 fu deposto e sostituito dal fratello Astolfo, che
riprese la via dell’espansione territoriale a danno dei residui possedimenti bizantini.
Sotto la sua guida il Regno longobardo toccò la massima espansione territoriale,
arrivando a occupare l’intero Esarcato (compresa la capitale Ravenna) nel 751, ma
tanto potere preoccupò il pontefice, che vedeva minacciato direttamente il suo Ducato
romano.
Papa Stefano II invocò quindi l’aiuto del nuovo re dei Franchi, Pipino il Breve, che
sconfisse Astolfo in due occasioni (754 e 756) e lo costrinse a rinunciare alle sue
conquiste, che vennero cedute al Papa. Nacque così lo Stato della Chiesa. Alla morte
di Astolfo, nel 756, il trono passò a Desiderio, che ne proseguì la politica con
maggior accortezza: puntò soprattutto sulla coesione interna del regno e favorì la
massima integrazione con i Romanici e con la Chiesa cattolica, fino a costringere il
papa ad accettare una forma di tutela da parte del re longobardo.
La conquista carolingia (774-814)
Nel 771 papa Stefano III invocò l’intervento del nuovo re dei Franchi, Carlo Magno,
contro Desiderio. La guerra tra Franchi e Longobardi si concluse nel 774 con la
vittoria di Carlo, che assunse il titolo di Rex Francorum et Langobardorum (“Re dei
Franchi e dei Longobardi”) e unificò la parte dell’Italia che aveva conquistato
(sostanzialmente la (Langobardia Maior) al suo Regno dei Franchi. Il papa riacquistò
una piena autonomia, garantita da Carlo stesso, mentre a sud, nella Langobardia
Minor, sopravvisse in piena indipendenza il longobardo Ducato di Benevento, presto
elevato al rango di principato. Nel 781 Carlo affidò l’Italia, sotto la sua tutela, al
figlio Pipino. Mentre Carlo Magno espandeva i suoi domini e veniva incoronato
Imperatore d’Occidente dal Papa (Natale dell’800), vari domini dell’Impero bizantino
iniziarono ad acquisire sempre maggiore autonomia. La Sardegna e i ducati campani
nel corso del VII-IX secolo si svincolarono man mano da Bisanzio, eleggendo
governatori locali, mentre nell’802-804 prese il sopravvento a Venezia la fazione
filo-franca, che decise di tradire l’Impero bizantino passando nella zona d’influenza
franca. Quando nell’806 Carlo Magno affidò a suo figlio Pipino il governo dell’Italia
carolingia, tra cui Venezia, Bisanzio, non intendendo accettare la perdita di quel
lontano possedimento, inviò una flotta guidata da Niceta che riportò all’obbedienza la
Venezia e la Dalmazia (806). Tuttavia nell’809 i Franchi invasero il ducato di
Venezia ottenendo dai Venetici il pagamento di un tributo. Iniziarono quindi le
trattative di pace che si conclusero nell’812 con il trattato di Aquisgrana: secondo tale
trattato Carlo Magno ottenne da Bisanzio il riconoscimento del titolo di “Imperatore”
(ma non di “Imperatore dei Romani”) e in cambio Venezia ritornava bizantina, con la
deposizione del duca filofranco Obelerio sostituito dal filobizantino Partecipazio.
Tuttavia ciò non fermò il processo di emancipazione di Venezia da Bisanzio, che i
lagunari riuscirono a ottenere gradualmente senza svolte violente. Pipino morì
nell’810; pochi anni dopo morì anche il padre, Carlo Magno (814).
Il Regnum Italiae entro il Sacro Romano Impero (814-1002)
Il IX secolo
Dopo la morte di Pipino, il potere venne assunto dal suo figlio illegittimo Bernardo.
Nell’817, però, suo zio l’imperatore Ludovico il Pio assegnò l’Italia al proprio figlio,
Lotario I; Bernardo tentò la ribellione, ma venne imprigionato e a partire dall’822 il
dominio di Lotario sulla penisola divenne effettivo. Tra i suoi provvedimenti, uno
statuto sulle relazioni tra papa e imperatore riservò il potere supremo alla potenza
secolare; Lotario emise inoltre varie ordinanze per favorire un governo efficiente
dell’Italia. La morte di Ludovico, avvenuta nell’840, causò vari tumulti tra gli eredi;
Lotario si scontrò più volte con i fratelli, venendo infine sconfitto. Il titolo di re
d’Italia venne inizialmente detenuto dai sacri romani imperatori (Ludovico II, Carlo il
Calvo, Carlo il Grosso), ma con l’indebolimento della compagine imperiale i territori
del Regnum Italiae finirono in una sorta di anarchia feudale, dominata dai signori
locali nonostante alcuni deboli monarchi si avvicendassero sul trono, arrivando anche
talora a venire incoronati dal papa. Tra l’888 e il 924 il titolo, al quale tuttavia non
corrispondevano reali poteri, fu conteso fra numerosi feudatari locali, sia di origine
italiana sia provenienti da regioni limitrofe: Berengario del Friuli, Guido da Spoleto,
Lamberto II di Spoleto, Arnolfo di Carinzia, Ludovico il Cieco e Rodolfo II di
Borgogna.
Il X secolo
Un momento di maggior solidità del Regnum si ebbe con il governo di Ugo di
Provenza, che tra il 926 e il 946 regnò e cercò di risolvere le diatribe ereditarie sul
titolo associandolo subito a suo figlio Lotario II. Questi però scomparve già nel 950,
per cui gli successe il marchese d’Ivrea Berengario II, che a sua volta elesse come
successore il figlio Adalberto. Berengario, temendo lotte e trame per il potere, fece
perseguire la vedova di Lotario II, Adelaide, che si rivolse all’imperatore tedesco
Ottone I, chiedendogli aiuto a fronte di quella che riteneva l’usurpazione della corona
da parte di Berengario. Ottone colse il pretesto e scese in Italia, già nelle sue mire per
via delle vie di comunicazione che l’attraversavano, per la possibilità di avviare un
confronto con l’Imperatore bizantino, che possedeva ancora numerosi territori nella
penisola (costa adriatica, Italia meridionale) e per instaurare un rapporto diretto con il
papa. Dopo aver sconfitto Berengario, entrò nella capitale Pavia, sposò Adelaide e si
cinse della corona italiana nel 951, legandola a quella dell’Impero romano-
germanico. Da allora la corona d’Italia fu istituzionalmente connessa a quella
imperiale, per cui fu automaticamente ereditata dai successori di Ottone I (Ottone II e
Ottone III) fino al 1002.
Lo Stato della Chiesa e il monachesimo
Durante l’intero alto Medioevo la Chiesa cattolica fu l’unico potere che si dimostrò
capace di conservare, tramandare e sviluppare la cultura latina, sia attraverso il
monachesimo, sia mediante la creazione di un potere temporale concretizzatosi nel
centro Italia con lo Stato della Chiesa e capace di conservare la propria autonomia. Il
cristianesimo fu uno dei più potenti collanti che, a partire dai regni romano-barbarici,
permisero la convivenza e in seguito l’integrazione tra due mondi distanti tra loro:
quello romanico e quello germanico. Favorito dalla condivisione della religione
cristiana, dalla progressiva integrazione tra il diritto latino e il diritto germanico e
dall’intersezione culturale tra gli elementi germanici di più recente insediamento in
territorio italico e quelli di più antica formazione, di derivazione latina, nacque uno
spirito propriamente europeo. Ovviamente tale fusione fu instabile e ci vollero secoli
prima di trovare un equilibrio. Equilibrio che però, una volta raggiunto, portò ad apici
di cultura e spiritualità, quali non solo le innovazioni tecnologiche, ma anche la
fioritura delle università come luoghi di diffusione e di ricerca del sapere. Nei secoli
più travagliati, invece, l’eredità culturale classica era stata custodita prima con i
monasteri cluniacensi, poi con quelli cistercensi. I monasteri medievali infatti si
impegnarono a custodire il sapere di ogni tipo, dalla letteratura pagana (classici greci
e latini) ai testi arabi di filosofia, matematica e medicina. È anche grazie alla
lungimiranza dei monaci medievali che sono potuti fiorire i secoli dell’età moderna.
Le incursioni arabe e la dominazione bizantina nel meridione
Nel IX secolo gli Arabi iniziarono a sferrare varie incursioni nel Mediterraneo
occidentale, invadendo nell’827 la Sicilia bizantina su invito del traditore bizantino
Eufemio, che probabilmente con l’aiuto degli Arabi voleva ritagliarsi un dominio
personale sull’isola; le sue speranze vennero disilluse e gli Arabi si sbarazzarono ben
presto del traditore. Nonostante venissero sconfitti più volte, i Bizantini riuscirono a
resistere alla progressiva conquista islamica dell’isola per ben settantacinque anni:
infatti gli Arabi completarono la conquista della Sicilia solo nel 902, con la
capitolazione di Taormina. Mentre gli Arabi erano ancora impegnati nella conquista
della Sicilia, sferrarono alcune incursioni nel meridione, inserendosi nelle contese tra
gli stati minori. Infatti i signori degli staterelli del meridione decisero di fare largo
uso di mercenari arabi nelle lotte con gli stati confinanti, e gli Arabi decisero di
approfittarne saccheggiando le terre del signore che dovevano appoggiare e
impadronendosi delle terre contese dai belligeranti. Preoccupato per le incursioni
arabe, l’Imperatore d’Oriente Teofilo cercò l’alleanza con l’Imperatore d’Occidente
Ludovico il Pio e con Venezia, ma senza risultati.
Quando però Roma fu assaltata dagli islamici, l’Imperatore carolingio Lotario I
decise di intervenire inviando il re d’Italia suo figlio Ludovico II a combattere gli
Infedeli. Questi liberò Benevento dagli Arabi e fece in modo che i due contendenti al
principato di Benevento si spartissero il dominio: il principato si divise dunque in due
principati, quello di Benevento e quello di Salerno (849), ed entrambi i principi
vennero costretti a non far più uso di mercenari arabi. Tuttavia, sotto la dinastia
macedone (867-1056), Bisanzio riuscì a recuperare terreno in Puglia, Basilicata e
Calabria. Nell’876 Bisanzio riprese possesso di Bari e nell’885-886, edificarono in
suo onore addirittura una chiesa. L’Imperatore Leone VI in un manuale militare lodò
Niceforo come esempio di come si dovrebbe comportare un generale nel
riorganizzare un territorio recentemente conquistato. I suoi successori, seppur
vittoriosi, non furono altrettanto generosi e quando i Bizantini riuscirono nell’impresa
di conquistare Benevento (891), che divenne per pochi anni la sede dello stratego
bizantino, gli abitanti della città vessati dalla dominazione bizantina chiesero aiuto al
marchese di Spoleto che sconfisse gli imperiali scacciandoli dalla città (895). Tale
insuccesso fu sicuramente il frutto della politica errata di Bisanzio, che aveva alienato
la popolazione beneventana, ma non intaccò l’influenza bizantina nel meridione, che
ora, a causa del crollo dell’Impero carolingio, si estendeva indirettamente persino sui
principati longobardi, i cui principi usavano titoli di corte bizantini e riconoscevano,
almeno in linea di principio, la superiorità bizantina.
Nel X secolo i territori bizantini dovettero subire numerose incursioni da parte degli
Arabi e attacchi da parte dei principi longobardi e anche varie rivolte interne in
Puglia. Quando salì sul trono di Germania Ottone I, che fondò il Sacro Romano
Impero Germanico, questi si fece incoronare Imperatore dal Papa e attaccò i
possedimenti bizantini nel meridione. Ne seguì una lunga lotta, intervallata da
tentativi di pace in cui Ottone tramite i suoi messi chiedeva a Bisanzio il riconosci-
mento del titolo di Imperatore, il matrimonio tra suo figlio Ottone II e una principessa
porfirogenita bizantina e la cessione al Sacro Romano Impero dell’Italia meridionale.
Finché regnò a Costantinopoli Niceforo II Foca (nipote del generale Niceforo Foca),
gli ambasciatori fallirono nel tentativo e in qualche caso vennero anche arrestati per
insulti (come chiamare Niceforo “Imperatore dei Greci” invece di “Imperatore dei
Romani”). Il successore di Niceforo, Giovanni I Zimisce, si mostrò invece propenso a
giungere a un accordo di pace e acconsentì a dare in sposa a Ottone II la principessa
bizantina Teofano e a riconoscere all’Impero d’Occidente la sovranità su Capua e
Benevento; in cambio Ottone I rinunciava alle sue pretese sui territori bizantini del
Sud Italia. Sotto il regno di Basilio II (976-1025) i territori bizantini dell’Italia
meridionale subirono numerose incursioni arabe, che però vennero respinte. Con il
pretesto di difendere il meridione bizantino dagli Arabi, il Sacro Romano Imperatore
Ottone II invase l’Italia meridionale bizantina ma, giunto in Calabria, subì una
disfatta contro gli Arabi a cui riuscì a stento a fuggire, rischiando persino di essere
portato come ostaggio a Costantinopoli (983). Il fallimento della spedizione ottoniana
favorì i Bizantini contro gli Arabi perché quest’ultimi, danneggiati dall’attacco di
Ottone II, si ritirarono temporaneamente nelle loro basi in Sicilia.
Tuttavia continuarono sporadicamente ad attaccare le coste dell’Italia meridionale.
Bisanzio provò a risolvere il problema alleandosi con Venezia la cui flotta liberò Bari
dall’assedio arabo (1004). Oltre alle incursioni dei Saraceni, Bisanzio doveva temere
anche le rivolte delle popolazioni locali. Nel 1009 Melo organizzò una rivolta anti-
bizantina a Bari, episodio mitizzato dalla storiografia italiana come uno dei tentativi
di indipendenza italiana dall’oppressore straniero. La rivolta comunque fallì e Melo
fu costretto a fuggire a Capua dove assoldò al suo servizio guerrieri mercenari
Normanni che vennero utilizzati contro i Bizantini. Tuttavia i Normanni vennero
sconfitti nella Battaglia di Canne (1018) dalle forze bizantine comandate dal catapano
bizantino Basilio Boianne e Melo fuggì in Germania alla corte di Enrico II per
spingerlo ad aggredire i possedimenti bizantini nel meridione Enrico II intraprese la
sua spedizione nel 1021 forte di 60.000 uomini ma dopo aver tentato di assediare
inutilmente Troia per tre mesi fu spinto dal caldo e dalla dissenteria a ritornare in
patria. La sconfitta di Melo aveva portato al consolidamento della potenza bizantina
in Italia meridionale, che sotto la guida energica del catapano Basilio Boianne aveva
espanso i suoi confini pugliesi fino al fiume Fortore. Nel 1025 inoltre l’Imperatore
Basilio II, distruttore dell’Impero bulgaro, decise di condurre di persona una
spedizione in Sicilia contro gli Arabi: perì tuttavia in quell’anno e l’impresa fu
tentata, con iniziale successo ma con fallimento finale, nel 1037-1043 dall’abile
generale Giorgio Maniace. Proprio verso la fine della spedizione in Sicilia, tuttavia, i
Normanni iniziarono a espandersi a danni dei Bizantini e nell’arco di trent’anni
riuscirono a cacciare definitivamente i Bizantini dall’Italia (1071).
IL BASSO MEDIOEVO
La lotta per le investiture: Enrico IV e Gregorio VII (1073-1122)
La posizione ambigua dei vescovi-conti, vassalli dell’imperatore che avevano anche
cariche religiose, creati da Ottone I, portò il papato e l’impero a scontrarsi su chi li
avrebbe dovuti nominare. Il Papato reclamava per sé il diritto di nominarli, in quanto
vescovi mentre l’impero reclamava lo stesso diritto, in quanto vassalli. Alle origini
della disputa, chiamata lotta per le investiture, vi era anche il Privilegium Othonis del
962, una legislazione secondo la quale l’elezione del Pontefice sarebbe dovuta
avvenire soltanto col consenso dell’Imperatore. Nel 1059 il Concilio Lateranense
abolì questa legislazione. La lotta entrò nel vivo con l’imperatore Enrico IV e il papa
Gregorio VII. Quest’ultimo pubblicò nel 1075 il Dictatus Papae, documento nel quale
sosteneva che solo il Papa può nominare e deporre i vescovi. Enrico continuò nella
sua politica e anzi, alle minacce di scomunica, convocò un sinodo a Worms nel quale
dichiarava il Papa deposto. Gregorio rispose scomunicando l’imperatore e
dispensando quindi i suoi sudditi dal dovere di servirlo. Preoccupato da una rivolta di
baroni che avevano approfittato della sua scomunica, Enrico si recò a Canossa dove il
Pontefice si era rifugiato, presso Matilde di Canossa, e si umiliò pubblicamente
invocando il perdono del Pontefice che ottenne.
La lotta riprese nel 1080 quando Enrico venne di nuovo colpito da scomunica. Egli
nominò subito un antipapa (Clemente III) e scese in Italia occupando Roma, ma il
normanno Roberto il Guiscardo, alleato col Papa, lo costrinse alla ritirata.
L’intervento normanno si tradusse, però, in un saccheggio e Gregorio VII fu costretto
a seguire il Guiscardo a Salerno, dove morì nel 1085. Il contenzioso continuò tra i
successori del Papa e dell’Imperatore fino al 1122 quando, anche grazie al ruolo di
mediatrice assunto da Matilde di Canossa, che sarà incoronata Vicaria Imperiale
d’Italia per mano di Enrico V nel 1111 presso il Castello di Bianello (Quattro
Castella), le due parti firmarono il concordato di Worms. Le lotte tra papa e
imperatore erano però ben distanti dalla fine.
La Chiesa riformata
Nell’XI secolo l’ufficio del papa era in piena decadenza, conteso fra le sanguinarie
famiglie romane e i tentativi moderati dell’imperatore. Ma si rivelò altrettanto
difficile governare le città italiane. Pavia si ribellò ad Enrico II (1002-1024) che fu
l’ultimo esponente della casa dei sassoni. A lui succedette Corrado II di Franconia
(1027-1039) contro cui si ribellarono i valvassori della Lombardia, guidati dal
vescovo Ariberto d’Intimiano. Nel 1037 Corrado fu così costretto a concedere anche
ai feudatari minori quello che il Capitolare di Quierzy aveva concesso ai maggiori:
l’ereditarietà (Constitutio de feudis). In questo periodo si levò alta la protesta contro
la corruzione e l’abiezione del papato. Se da una parte ci furono movimenti religiosi
di stampo pauperistico ed eremita – come quello di San Romualdo – dall’altra ebbe
molta fortuna il nuovo monachesimo cluniacense, che si nutriva solo delle donazioni
dei feudatari, ma che proponeva uomini di grande autorità morale, di spessa cultura e
abili capacità politiche e amministrative. Più tardi nacquero l’ordine dei monaci
certosini e quello dei cistercensi, che puntavano l’attenzione alla vita solitaria e
contemplativa, e che si diffusero a macchia d’olio. Anche gli abitanti delle città si
opponevano alla corruzione del clero, biasimando in particolar modo la simonia, cioè
la compravendita delle cariche, e il nicolaismo, cioè la pratica del concubinaggio,
dando vita al movimento dei “patari”, movimento che fornì alla Chiesa anche il papa
Alessandro II (1061-1073).
Nel frattempo Papa Urbano II (1088-1099), di fronte anche alle richieste di aiuto
dell’Imperatore bizantino Alessio I Comneno (il cui Impero era minacciato dai
Turchi, che avevano conquistato tutta l’Anatolia bizantina), stimolò i cavalieri
occidentali affinché liberassero la Terra Santa dagli Infedeli islamici. I cavalieri
crociati, dopo aver conquistato e consegnato all’Imperatore di Bisanzio parte
dell’Anatolia, crearono vari regni crociati in Siria e in Palestina e infine
conquistarono Gerusalemme (1099).
I Normanni nell’Italia meridionale (1030-1189)
I Normanni, popolo di avventurieri provenienti dalla Normandia, arrivarono nell’XI
secolo nel sud Italia. Aiutando militarmente vari Signori longobardi, in lotta tra di
loro, riuscirono ad avere i primi possedimenti, prime tra tutte la Contea di Aversa, nel
1030, e la Contea di Puglia nel 1043. Approfittando di una ribellione nella Puglia
bizantina scoppiata nel 1038, i Normanni si impossessarono di Melfi (1040) e
sconfissero per ben tre volte l’esercito imperiale sopraggiunto per fermare la loro
avanzata (1041). Negli anni successivi i Normanni estesero le loro conquiste nella
Puglia e nella Lucania e nel 1047 ottennero dall’Imperatore tedesco Enrico III il
riconoscimento delle conquiste fatte fino in quel momento. L’Imperatore d’Oriente
inviò allora in Italia con il titolo di dux Argiro, con il compito di fermare i Normanni
più con la diploma-zia che con le armi. Non essendo riuscito a corrompere i capi
normanni spingendoli a rinunciare alle loro conquiste, Argiro allora cercò un’alleanza
con papa Leone IX, anch’egli allarmato dalla espansione normanna. Il loro tentativo
di arginare l’invasione normanna risultò però in una sconfitta a Civitate nel 1053 e
Argiro, avendo fallito, fu richiamato quasi immediatamente a Costantinopoli. Negli
anni seguenti i Normanni si adoperarono per migliorare i rapporti con il papato ed
espansero ulteriormente i loro territori nel Meridione. Nel 1059 papa Niccolò II nel
concilio di Melfi I riconobbe i territori normanni ed affidò a Roberto il Guiscardo il
titolo di duca di Puglia, Calabria e di Sicilia, nonostante l’isola fosse allora ancora
sotto il controllo degli Arabi. Nello stesso anno Roberto il Guiscardo completò la
conquista della Calabria bizantina con le espugnazioni di Reggio e di Squillace. Tra il
1061 e il 1091 Ruggero d’Altavilla, fratello di Roberto, iniziò la conquista della
Sicilia sconfiggendo a più riprese gli Arabi.
Nel 1060 i Bizantini fecero un disperato tentativo di riconquista riprendendo il
possesso di alcune città pugliesi ma il ritorno dalla Sicilia del duca normanno
vanificò il loro sforzo: il duca di Puglia decise infatti di abbandonare per il momento
la conquista della Sicilia per impossessarsi delle ultime città della Puglia ancora in
mano bizantina. Nel 1071, infine, gli ultimi baluardi bizantini, Brindisi e Bari,
caddero in mano normanna. Successivamente, tra la fine del XI e la metà del XII
secolo, i Normanni sottomisero tutti i principati e i ducati longobardi o formalmente
bizantini (ma di fatto indipendenti) del meridione, unificando tutto il Mezzogiorno
nelle loro mani. Nel 1113 Ruggero II riuscì a riunire nelle sue mani tutti i
possedimenti normanni creando uno stato fortemente accentrato simile per molti versi
ai moderni stati nazionali. Nel 1130 nacque il Regno di Sicilia, per volontà
dell’antipapa Anacleto II espressa al concilio di Melfi. I Normanni attaccarono più
volte la Grecia bizantina (a partire dal 1081) ma vennero più volte respinti e, sotto la
guida dell’Imperatore d’Oriente Manuele I Comneno, i Bizantini fecero un ultimo
tentativo per riconquistare l’Italia meridionale. Sbarcati in Puglia nel 1155, i
Bizantini occuparono rapidamente l’intera Puglia ma vennero poi sconfitti dalla
controffensiva normanna che nel 1158 li costrinse nuovamente ad abbandonare,
questa volta definitivamente, la Penisola.
La rinascita economica e la formazione dei Comuni (XI-XII sec.)
Intorno all’XI secolo si ha in Europa la fine delle invasioni: i magiari sono
definitivamente sconfitti, i saraceni smettono di saccheggiare le coste italiane e i
normanni si stabilizzano in Normandia e nel sud Italia. A ciò si unisce una generale
ripresa demografica e l’introduzione di nuove tecniche agricole come la rotazione
triennale delle colture e l’aratro pesante che permettono di avere raccolti più
abbondanti. La popolazione tende a trasferirsi dalle campagne alle città che
divengono i nuovi centri della società. Si sviluppano l’artigianato e il commercio e
conseguentemente la moneta assume una importanza maggiore. I mercati tendono ad
allargarsi e si forma dunque una nuova classe media di mercanti e banchieri che mal
si concilia con le istituzioni feudali. Così molte città del nord e del centro Italia
tendono a staccarsi dalle istituzioni feudali e a divenire indipendenti dal potere
imperiale. È questo il caso di città come Milano, Verona, Bologna, Firenze, Siena e
di molte altre che si costituiscono “Liberi Comuni”. Inizialmente il comune è retto da
un Consiglio generale (spesso chiamato Arengo) che elegge due consoli.
Successivamente in molti comuni fu istituito il podestà, una persona, possibilmente
straniera, che reggeva il comune e si presumeva essere al di sopra delle parti. Spesso i
cittadini si riunivano in corporazioni o arti in modo da tutelare e regolamentare gli
appartenenti a una stessa categoria professionale. Il protrarsi degli scontri tra impero
e Chiesa, la nascita di una borghesia mercantile, i cui interessi si opponevano
frequentemente a quelli delle aristocrazie rurali, la lotta delle classi dirigenti urbane
per acquisire quote di autonomia sempre più ampie, portò la società comunale del
tempo a dar vita a tutta una serie di correnti e schieramenti spesso contrapposti.
Particolare rilievo ebbero, a partire dal XII secolo e fino almeno agli ultimi decenni
del XIV secolo, le fazioni dei Guelfi e Ghibellini; i primi sostenuti dall’autorità
papale, i secondi da quella imperiale.
La nascita delle repubbliche marinare (1015-1114)
Un particolare sviluppo ebbero le cosiddette repubbliche marinare. Le più note sono
Amalfi, Venezia, Pisa e Genova, ma oltre ad esse ci furono anche Ancona, Gaeta, la
piccola Noli e la città dalmata di Ragusa. Venezia ed Amalfi e Gaeta godevano già di
una fiorente economia e di un’autonomia politica considerevole nell’alto Medioevo;
Ragusa iniziò ad affermarsi nei mari più tardi, soprattutto con l’esaurirsi delle razzie
corsare musulmane, dopo il X secolo. Nel secolo successivo anche Genova, Pisa e
Ancona poterono affermarsi, con il declino del potere regale (formalmente esse erano
sotto la corona del Regno d’Italia che apparteneva all’Imperatore germanico). Il
prosperare di nuovi porti in alcuni casi era frenato dal punto di vista della dinamica
socio-economica da un forte potere centrale, come a Salerno, Napoli, Bari e Messina.
Già all’inizio del IX secolo i porti campani avevano una moneta propria, derivata dal
tarì arabo (a testimoniare come il mondo musulmano fosse il mercato al quale essi
guardavano). Ma fu a Venezia che poterono svilupparsi traffici di grande portata:
grazie a una rete finanziaria, produttiva e commerciale i Veneziani crearono un vero e
proprio impero economico, che ha pochi uguali nella Storia europea. La navigazione
sull’Adriatico fu sicura fin dal IX secolo e permise alla Repubblica di Venezia e a
quelle di Ancona e Ragusa lo sfruttamento di rotte che andavano da Costantinopoli,
alla Siria e la Palestina, al Nordafrica e alla Sicilia. I veneziani, nonostante i reiterati
divieti papali, commerciavano con gli Arabi, comprese quelle merci proibite quali
armi, legname, ferro e schiavi (provenienti soprattutto dalle popolazioni slave di
Istria, Croazia e Dalmazia, tanto che da “slavo” – e dal mediolatino creolo
“sclavum*” – derivò poi la parola “schiavo”).
Contemporaneamente Genova e Pisa iniziavano a emergere con politiche autonome.
Durante il XII secolo vi fu un profondo mutamento, che portò la navigazione ad
essere il metodo di spostamento più comodo e usato: ne è prova il fatto che dalla
Terza e dalla Quarta crociata in poi le truppe si mossero solo via mare, non perché le
vie terrestri fossero diventate più insicure o lunghe (lo erano anche prima), ma perché
ormai la nave era il mezzo più diffuso. I numerosi conflitti che sorsero tra le città
marinare scaturivano spesso da questioni commerciali in oltremare. Per esempio Pisa
e Genova furono inizialmente alleate contro i saraceni, ma la rivalità su chi dovesse
avere l’egemonia in Corsica e in Sardegna compromise inevitabilmente i loro
rapporti. Nei porti più importanti le repubbliche marinare avevano propri quartieri,
con empori, fondachi, cantieri navali e arsenali; essi erano meta delle piste
carovaniere e punto di partenza delle navi ricche di preziosi carichi diretti in Europa.
Le città marinare italiane spesso diressero le crociate dirottando gli sforzi verso
l’apertura di rotte commerciali ad esse propizie: emblematico è il caso della conquista
di Costantinopoli del 1204, attuata dai veneziani sfruttando le forze della quarta
crociata, ma anche con la quinta crociata pisani e genovesi fecero puntare sui ricchi
porti egiziani di Alessandria e Damietta per fondarvi colonie commerciali. Genova
riuscì anche, grazie all’appoggio della dinastia bizantina dei Paleologi a estendere le
proprie rotte oltre il Bosforo, nel Mar Nero dove entravano in contatto con i mongola
dell’Orda d’oro e con i principati russi, verso i quali convergevano vie fluviali e
carovaniere dal Baltico e dall’Asia centrale. Laggiù inoltre potevano acquistare il
grano ucraino che riforniva l’Occidente. Alle fine del Duecento, con la battaglia della
Meloria (1284) e quella di Curzola (1298) i genovesi batterono rispettivamente i
pisani e i veneziani, assicurandosi, almeno apparentemente, un dominio
mediterraneo.
I primi secoli dei Giudicati Sardi (X – XII secolo)
Sotto le mire ora di Bisanzio, ora delle potenze occidentali, la Sardegna del X-XI
secolo è coinvolta in un originale fenomeno politico-geografico: allentatasi
progressivamente l’influenza bizantina nel bacino del Mediterraneo Occidentale,
l’isola tirrenica si ritrova a doversi gestire autonomamente, isolata dal continente a
causa del controllo marittimo ormai prerogativa degli stati musulmani. Già assegnata
ad un luogotenente in epoca bizantina, nel X secolo la Sardegna era sotto la reggenza
di un unico arconte o dux, per riaffiorare poi nei documenti del 1015-1016, (quando il
papato chiede l’ausilio delle repubbliche marinare di Pisa e Genova contro
l’invasione della Sardegna da parte di Mughaid), già divisa in quattro entità statuali
indipendenti: i Giudicati. I quattro Giudicati di Cagliari (o Pluminos), Arborea,
Torres (o Logudoro) e Gallura, furono retti da quattro judices, provenienti
probabilmente da rami della stessa famiglia originaria. Barisone I d’Arborea fu il
primo dei giudici sardi a tentare militarmente e diplomaticamente l’annessione di tutti
i territori dell’isola al suo regno, facendosi dichiarare Rex Sardiniae il 10 agosto 1164
nella Basilica di San Siro a Pavia da Federico Barbarossa. Proprio i quattro giudicati,
entreranno progressivamente dal XII secolo, attraverso donazioni, concessioni e
legami dinastici, nelle mire espansionistiche delle Repubbliche Marinare di Genova e
soprattutto Pisa, che ne farà perno della propria egemonia nel Mediterraneo
occidentale, godendo delle copiose rendite agricole (grano) e minerarie (argento,
piombo, ferro).
Federico Barbarossa e la lotta con i comuni (1152-1189)
Nel 1152 fu incoronato imperatore del Sacro Romano Impero Federico I
Hohenstaufen detto Barbarossa. Egli tentò di attuare una politica di restaurazione
dell’antico potere imperiale venendo inevitabilmente in conflitto con il papato e con i
comuni del nord Italia che si erano guadagnati vaste autonomie. In due diete, presso
Roncaglia nel 1154 e nel 1158 egli afferma gli antichi privilegi feudali sulle città che
si erano rese di fatto indipendenti e ordina che siano ricondotte di nuovo sotto il
potere imperiale. Per attuare questo programma manda dei messi imperiali in molti
Comuni del nord Italia. In molte cittadine questi messi vengono scacciati provocando
così la durissima reazione del Barbarossa che distrugge Crema (1159) e assedia
Milano, aiutato da varie città lombarde come Como, Cremona e Pavia che colgono
l’occasione di danneggiare la potente rivale. Dopo due anni d’assedio nel 1162
Milano fu costretta alla resa e rasa al suolo dalle forze imperiali. Il Barbarossa,
inoltre, tentò con due assedi (1167 e 1173) la presa di Ancona, però senza mai
riuscirvi. Intanto nel 1159, tentando di influire nella nomina del successore di papa
Adriano IV, si era inimicato il papato dando inizio a una nuova lotta. Federico
nominò un antipapa (Vittore IV) in opposizione a quello scelto dai cardinali romani.
Intanto si cominciano a formare leghe anti-impe-riali tra i Comuni, appoggiate anche
dal papato e da Venezia. Nel 1167 le due principali leghe anti-imperiali, capeggiate
da Verona e da Cremona si fondono per formare la Lega lombarda. Contro di questa
nel 1174 Federico Barbarossa scese di nuovo in Italia ma fu sconfitto rovinosamente
nella Battaglia di Legnano (29 maggio1176) che segnò la definitiva sconfitta
dell’imperatore che nella pace di Costanza (1183) si vide costretto a riconoscere
ampie autonomie ai Comuni.
Il Meridione dagli Svevi alla Guerra del Vespro (1189-1302)
Se la politica del Barbarossa aveva fallito miseramente nei comuni Italiani egli riuscì,
tramite un’accorta politica matrimoniale, ad insediare sul trono del Regno di Sicilia
suo figlio Enrico VI costituendo così un’unità territoriale che andava dal Sud Italia
alla Germania, chiudendo in una morsa il papato. All’improvvisa morte di Enrico nel
1197 il figlio di questi, Federico, fu preso in tutela dal pontefice Innocenzo III che
sperava di farne un fedele alleato del papato e che si adoperava per restaurarne il
potere. Salito al trono del regno di Sicilia e dell’Impero nel 1220 Federico II continuò
la politica accentratrice dei sovrani normanni firmando nel 1231 le Costituzioni di
Melfi che accentravano il potere nelle mani del sovrano e riducevano la potenza dei
feudatari. Scomunicato da Gregorio IX per il mancato adempimento della promessa
di una Crociata in Terra Santa, partì alla volta di Gerusalemme dove però riuscì a
ottenere grosse concessioni per i cristiani con l’uso della diplomazia. Sfruttando
l’evento, che appariva come uno scandalo, il pontefice riuscirà a costituire una lega
anti-imperiale alla quale presero parte anche i Comuni italiani. La lotta andrà avanti
tra alterne vicende fino alla morte dell’imperatore nel 1250. Il papa, approfittando
della situazione, cercò di insediare al trono del Regno di Sicilia Carlo d’Angiò,
fratello del re di Francia. Carlo trovò però l’opposizione di Manfredi, figlio di
Federico II che inizialmente ottenne una serie di successi, tanto che il partito
ghibellino si affermò in molti comuni italiani, primo tra tutti Firenze: le milizie guelfe
della città furono sconfitte a Montaperti (1260) dai Senesi, ghibellini, aiutati dalle
truppe dello stesso Manfredi. Egli fu tuttavia sconfitto pesantemente a Benevento da
Carlo d’Angiò provocando un improvviso crollo del partito ghibellino in tutta Italia.
La dominazione Angioina impose tasse potenti e mise in posti di comando numerosi
baroni francesi, alienandosi presto le simpatie del popolo, che nel 1282 diede inizio a
Palermo a una sanguinosa rivolta (Vespri siciliani).
I rivoltosi chiamarono in loro aiuto Pietro III d’Aragona, che aveva sposato la figlia
di Manfredi. Ebbe così inizio la cosiddetta Guerra del Vespro che si concluse soltanto
nel 1302 con la Pace di Caltabellotta, in seguito alla quale la Sicilia sarebbe passata a
un ramo cadetto della Casa d’Aragona. La parte continentale (Regno di Napoli) restò
invece sotto la dominazione Angioina.
Firenze e i comuni toscani (1182-1302)
I primi comuni a svilupparsi in Toscana furono Lucca, Siena e Pisa. Lucca si era
arricchita commerciando la lana con la Francia, Siena grazie alla sua posizione sulla
via Francigena che portava i pellegrini dal Nord Europa a Roma. Inoltre si erano
sviluppate le banche, come quella create dai Salimbeni. Tra queste si va affermando,
nei primi decenni del XIII secolo la città di Firenze, inizialmente centro economico
secondario. Governata prima dagli aristocratici ghibellini, passò nel 1250 nelle mani
dei guelfi. Nel 1260, come si è detto, i ghibellini fuoriusciti alleati con Siena e con
Manfredi sconfissero i fiorentini a Montaperti e restaurarono il dominio aristocratico
della città. Ma quando nel 1266 Manfredi fu sconfitto a Benevento la città passo
definitivamente ai Guelfi. Firenze iniziò allora una politica di prepotente
espansionismo, sconfisse nel 1269 Siena e nella battaglia di Campaldino (1289)
inflisse una clamorosa sconfitta ad Arezzo. Pistoia venne sottomessa e nel 1293
anche Pisa dovette adattarsi all’egemonia fiorentina. Alla fine del XIII secolo
ripresero le lotte interne tra i Guelfi Bianchi sostenuti dalla famiglia dei Cerchi e i
Guelfi Neri, sostenuti dai Donati. Il conflitto sfociò in una guerra civile che si
concluse nel 1302, con l’intervento del papa Bonifacio VIII con l’esilio dei Bianchi
(tra cui anche Dante Alighieri). A questo periodo risale anche la riforma di Giano
della Bella che aumentava il numero delle Arti e istituiva il Gonfaloniere di Giustizia,
rappresentante del popolo posto a salvaguardia degli interessi dei ceti più umili.
La rinascita culturale nei Comuni
Sul piano culturale, sullo sfondo della rivalità tra Guelfi e Ghibellini, si era andato
sempre più ridestando un sentimento nazionale di avversione alle ingerenze tedesche,
animato dal ricordo della antica grandezza di Roma, e sostenuto dal fatto che i
Comuni, la cui vita civile ruotava attorno all’edificio della Cattedrale, trovavano
nell’identità spirituale rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni
romane, un senso di comune appartenenza. Durante il XIII e il XIV secolo,
parallelamente a una generale ripresa economica, si ebbe una rinascita culturale
notevole che portò alla formazione della lingua italiana volgare. Tra coloro che
contribuirono a questa rinascita ricordiamo Iacopone da Todi che scrisse delle famose
Laude e soprattutto Francesco Petrarca che affiancò a varie opere scritte in latino
alcune importanti composizioni in volgare italiano tra cui il Canzoniere. Petrarca in
particolare fu promotore di una riscoperta del classicismo che sarà proseguita dagli
intellettuali rinascimentali. In quegli anni si sviluppò a Firenze una nuova corrente
culturale: il Dolce Stil Novo, che rappresentava per certi versi la continuazione e
l’evoluzione del vecchio Amor cortese dei romanzi cavallereschi.
I principali esponenti di tale corrente furono Guido Cavalcanti, Guido Guinizzelli, e
soprattutto Dante Alighieri che rivoluzionò in modo profondo la letteratura italiana e
che produsse opere come la Vita Nova e la Divina Commedia, universalmente
riconosciuta come uno dei capolavori letterari di ogni tempo e che viene ancora oggi
studiata approfonditamente nelle scuole italiane. Da ricordare è anche il contributo
del fiorentino Giovanni Boccaccio che scrisse il Decameron. In questa opera egli
racconta di alcuni giovani che per fuggire alla peste si rifugiano nelle campagne
vicino Firenze, e delle cento storie, molto spesso a carattere faceto, da raccontare per
passare il tempo. Anche il Decameron è da annoverarsi tra le più gradi opere delle
letteratura italiana e, al pari delle altre sopra indicate, contribuì alla nascita di un
volgare italiano, o più propriamente, di un dialetto fiorentino che sarebbe poi
diventato la base dell’attuale lingua italiana. Forte è anche la fioritura dell’arte, con
artisti come Giotto, Duccio di Buoninsegna, Simone Martini, Arnolfo di Cambio e
Jacopo della Quercia. Anche qui Firenze (affiancata comunque dalle altre città
toscane) si dimostra un centro culturale attivo oltre che un centro politico importante.
L’affermazione delle signorie nel nord Italia (1259-1328)
Le Signorie furono l’evoluzione istituzionale di molti comuni urbani dell’Italia
centro-settentrionale attorno alla metà del XIII secolo. Esse si svilupparono a partire
dal conferimento di cariche podestarili o popolari ai capi delle famiglie preminenti,
con poteri eccezionali e durata spesso vitalizia. In tal modo si rispondeva all’esigenza
di un governo stabile e forte che ponesse termine all’endemica instabilità istituzionale
ed ai violenti conflitti politici e sociali, soprattutto tra magnati e popolari. I signori
più forti e ricchi riuscirono quindi ad ottenere la facoltà di designare il proprio
successore, dando così inizio a dinastie signorili attraverso la legittimazione
dell’imperatore, che concedeva il titolo di Duca (spesso dietro forti compensi da parte
dei Signori). Rimanevano tuttavia funzionanti le istituzioni comunali, sebbene spesso
si limitassero a ratificare le decisioni del Signore. Le più importanti furono quelle dei
De Medici, Gonzaga e Sforza. Ma anche quelle dei Della Torre, Visconti,
Montefeltro, Estensi, Della Scala e Malatesta ebbero, in momenti diversi, notevole
importanza. Inizialmente, le Signorie si presentarono come “cripto-Signorie”, cioè
delle “Signorie nascoste”; infatti, queste non erano delle istituzioni legittime di cui il
popolo conosceva gli aspetti, ma erano appunto “nascoste”. Vengono così dette
poiché si aggiunsero alle istituzioni comunali senza mostrarsi apertamente e senza
mostrare cambiata l’istituzione vigente. Con questa Signoria ancora in ombra (ma già
forte) salirono al potere molti avventurieri, ma soprattutto famiglie di antica nobiltà
feudale. Queste, dopo aver governato per una o due generazioni, decisero di
legittimare il loro potere e di renderlo ereditario. Nel XIV secolo ottennero il titolo di
vicario imperiale e tra il XIV e il XV secolo i titoli di duca e marchese.
L’assegnazione di questi titoli è indice della stabilizzazione dei poteri signorili. In
quel tempo, nell’Italia settentrionale, gli imperatori tedeschi pretendevano la
sovranità feudale. Tuttavia, già dalla seconda metà del Trecento, questi non
riuscivano a governare le regioni settentrionali. Così si rese possibile l’affermazione
delle Signorie. Alla fine le Signorie si evolsero in Principati con dinastie ereditarie.
Ciò avvenne quando i Signori, riconoscendo l’imperatore e pagando una quantità di
denaro, vennero legittimati e riconosciuti come autorità da sudditi e principi. Questo
cambiamento fu reso possibile grazie all’incapacità dei sovrani tedeschi di mante-
nere l’ordine nell’Italia del nord e grazie alla poca difficoltà che i Signori
incontravano per essere riconosciuti come autorità legittima.
Il declino del Papato e dell’Impero (1302-1414)
L’importanza dell’impero nel mondo politico medioevale, e in particolare in quello
italiano, era notevolmente calata dopo la sconfitta di Federico Barbarossa nella
Battaglia di Legnano del 1176 e quella di Manfredi del 1266 a Benevento, che
avevano segnato la fine del potere politico dell’impero rispettivamente nel Nord e nel
Sud Italia. Enrico VII di Lussemburgo tentò dopo la sua ascesa al soglio imperiale
nel 1308 di restaurare l’antico potere imperiale in Italia trovando però la fiera
opposizione del libero comune di Firenze di papa Clemente V e di Roberto d’Angiò.
La sua discesa in Italia con la conseguente incoronazione come Imperatore del Sacro
Romano Impero (titolo vacante dalla morte di Federico II, durante il cosiddetto
grande interregno) rimarrà quindi un gesto puramente simbolico. Nel 1313 muore
mentre si trova ancora in territorio italiano deludendo così coloro che avevano
sperato in una unificazione del suolo italiano sotto la sua bandiera. Anche il Papato,
l’altra grande istituzione medioevale, attraversa un periodo di crisi. Entrambe queste
istituzioni si vedono costrette ad accettare la crescente influenza degli Stati nazionali,
supportati dalla sempre più potente classe borghese, e la crisi del sistema feudale.
Papa Bonifacio VIII asceso al soglio pontificio nel 1296, cercò di restaurare il potere
papale scontrandosi però con Filippo IV il Bello, re di Francia. Nel punto culminante
del conflitto Filippo scese in Italia e, con un gesto impensabile qualche secolo prima,
imprigionò il Papa ad Anagni (1303) dove sembra che abbia ricevuto addirittura uno
schiaffo (schiaffo di Anagni). Nel 1305, Clemente V spostò a sede papale ad
Avignone dove resterà per i successivi settanta anni.
I papi avignonesi restarono succubi dei re di Francia e non mancarono di destare
scandalo tra i loro contemporanei. Nel 1377 si aprì lo Scisma d’occidente in seguito
al ritorno a Roma di papa Gregorio XI: alla sua morte infatti i cardinali romani
elessero al soglio pontificio Urbano VI mentre i cardinali francesi Clemente VII. Lo
scisma si complicò ancor più dopo il Concilio di Pisa (1409) che, nel tentativo di
unificare di nuovo la cristianità, elesse un altro Papa. L’Europa si divise tra i seguaci
dei due (poi tre) “papi” fino alla definitiva fine dello scisma avvenuta col Concilio di
Costanza (1414). Lo scisma aveva mostrato la debolezza di una istituzione che era
stata un punto di riferimento fondamentale nei secoli passati. Così mentre dal punto
di vista culturale il papa perdeva un’egemonia quasi millenaria dal punto di vista
politico la Cattività avignonese e lo Scisma favorirono il distacco definitivo del
Ducato di Urbino, già iniziato sotto Guido da Montefeltro e la nascita per breve
tempo di una repubblica romana tra il 1347 e il 1354 guidata da Cola di Rienzo.
Questi dopo essersi impadronito del potere tentò di organizzare una repubblica simile
a quella romana ma alla fine della sua carriera sconfinò nel delirio e venne linciato
dai suoi stessi concittadini che lo avevano sostenuto.
Il regno di Napoli tra Angioini e Aragonesi (1309-1442)
Gli angioini, ottenuto il dominio su tutto il Mezzogiorno d’Italia, esclusa la Sicilia,
stanziarono a Napoli la sede del potere regio e conservarono nel nuovo regno
l’assetto amministrativo di origine sveva, con giustizierati e universitates. Le ultime
regalie del napoletano furono però perse, quali il diritto del sovrano di nominare degli
amministratori regi nelle diocesi con sedi vacanti. Con Roberto d’Angiò a Napoli
fiorirono le scienze umanistiche: egli istituì una scuola di teologi scolastici e
commissionò importanti traduzioni dal greco, da Aristotele a Galeno, per la
biblioteca di Napoli. Furono anche gli anni in cui fiorì la cultura greca di Calabria,
grazie alla quale il neoplatonismo e la cultura ellenistica entrarono nella tradizione
italiana, dal Petrarca a Pico della Mirandola. Morto Roberto, seguirono anni di
incertezze politiche. Scoppiò una guerra di successione fra Giovanna I di Napoli e
Carlo di Durazzo, finché il regno non finì per breve tempo nelle mani di Luigi II
d’Angiò. Ladislao I infine, figlio di Margherita di Durazzo, riconquistò Napoli e,
sfruttando le incertezze politiche, intraprese una guerra contro lo Stato Pontificio e i
comuni toscani, arrivando ad occupare buona parte dell’Italia centrale: il Regno di
Napoli acquisiva per breve tempo buona parte della penisola italiana. Nel 1414 però
Ladislao morì e il regno tornò presto nei confini originari. Prese il suo posto al trono
Giovanna II, l’ultima sovrana angioina nel napoletano; non avendo avuto eredi
diretti, Giovanna adottò un aragonese come figlio, Alfonso V d’Aragona,
diseredandolo poi del regno, in favore di Renato d’Angiò. Alla morte di costei
Alfonso rivendicò il diritto di successione e dichiarò guerra a Napoli. Col sostegno
del ducato di Milano in breve tempo tutto il Mezzogiorno fu conquistato da Alfonso
V d’Aragona, che divenne intanto Alfonso I di Napoli, col titolo di Rex Utriusquae
Siciliae. Costui, come poi suo figlio Ferrante, contribuì ampiamente
all’ammodernamento del territorio dominato sul modello economico aragonese,
tramite il sostegno giuridico della transumanza, i fori boari, il contrasto dei privilegi
feudali e l’adozione del napoletano come lingua di stato.
Il regno di Sardegna (1297-1448)
Il regno di Sardegna (fino al 1460 comprendente nominalmente anche la Corsica e
denominato in latino Regnum Sardiniae et Corsicae) fu istituito nel 1297 (secondo
altre fonti nel 1299) da papa Bonifacio VIII in ottemperanza al Trattato di Anagni del
24 giugno 1295. Venne creato per risolvere la crisi politica e diplomatica sorta tra la
Corona d’Aragona e il ducato d’Angiò a seguito della Guerra del Vespro per il
controllo della Sicilia. L’atto di infeudazione, datato 5 aprile 1297 affermava che il
regno apparteneva alla Chiesa e veniva dato in perpetuo ai re della Corona di
Aragona in cambio di un giuramento di vassallaggio e del pagamento di un censo
annuo. Fu conquistato territorialmente a partire dal 1324 con la guerra mossa dai
sovrani Aragonesi, in alleanza col Regno giudicale di Arborea, contro i Pisani,
all’epoca possessori di un terzo circa della Sardegna (la somma dei territori dei due
regni giudicali di Gallura e di Calari). La dominazione iberica sull’isola sarà in
seguito a lungo contrastata dalla resistenza dello stesso Giudicato di Arborea e la
conquista territoriale da parte degli Aragonesi poté considerarsi parzialmente
conclusa solo nel 1420, con l’acquisto dei rimanenti territori dall’ultimo Giudice per
100.000 fiorini d’oro, e nel 1448 con la conquista della città di Castelsardo (allora
Castel Doria).
Le lotte tra gli stati italiani (1412-1454)
Nella prima metà del XV secolo si ebbe un lungo periodo di guerre che interessò
l’intera penisola e fu segnato dai ripetuti tentativi degli Stati più forti di estendere la
propria egemonia. Nell’area centro-settentrionale i maggiori contendenti furono il
Ducato di Milano e le Repubbliche di Venezia e Firenze, impegnati in una politica di
espansione territoriale avviata già nel Trecento col progressivo assoggettamento del
contado da parte delle città. Il regno di Napoli fu scosso da una lunga crisi dinastica
iniziata nel 1435 con la morte dell’ultima regina angioina, Giovanna II, e conclusasi
solo nel 1442 con la vittoria di Alfonso V d’Aragona, che ebbe la meglio sul rivale
Renato d’Angiò. L’avvento della dinastia aragonese dei Trastamara segnò anche la
riunificazione de facto dei regni di Napoli e Sicilia e l’avvio di un periodo di stabilità
dinastica destinato a durare fino alla fine del secolo. Il dominio sui mari fu invece
l’obiettivo che contrappose gli interessi delle antiche repubbliche marinare:
estromessa Amalfi già nel XII secolo, lo scontro proseguì tra Pisa, Genova e Venezia.
Genovesi e Pisani combatterono ripetutamente per il controllo del Tirreno e nel 1406
Pisa fu conquistata da Firenze, perdendo definitivamente la propria autonomia
politica. Agli inizi del secolo la contesa era dunque ridotta a un duello fra Genovesi e
Veneziani. Per tutto il Quattro-cento perdurò uno stato di conflittualità tra le due
repubbliche ma non si ebbero battaglie decisive. La potenza di Genova andò
affievolendosi nel corso del secolo e Venezia si affermò come padrona dei mari,
raggiungendo il culmine della propria ascesa agli inizi del XVI secolo. Col
progressivo declino dell’Impero bizantino, l’altro grande rivale di Venezia – la caduta
di Costantinopoli data al 1453 – la Serenissima poté interessarsi ad una politica di
espansione territoriale sulla terraferma che prese avvio proprio agli inizi del XV
secolo. Le iniziative militari veneziane entrarono in conflitto con gli interessi del
Ducato di Milano, impegnato a sua volta in una politica espansionistica guidata della
famiglia Visconti. Nello scontro si inserì anche la repubblica di Firenze, minacciata
dall’aggressività viscontea e alleatasi con i Veneziani.
La Serenissima riportò una vittoria decisiva nella battaglia di Maclodio del 1427,
assumendo una posizione egemone che allarmò i Fiorentini, i quali preferirono
rompere l’alleanza e schierarsi dalla parte di Milano. La guerra si protrasse con
operazioni di minore portata fino al 1454, quando le due rivali siglarono a Lodi una
pace destinata a stabilizzare l’assetto politico della Penisola per quarant’anni:
Venezia e Milano fissavano sull’Adda il confine fra i rispettivi territori e
rinunciavano ad ulteriori tentativi di espansione, mantenendo in una condizione di
equilibrio la frammentata realtà politica italiana.
La Pace di Lodi e la politica dell’equilibrio (1454-1492)
La Pace di Lodi, firmata nella città lombarda il 9 aprile 1454, mise fine allo scontro
fra Venezia e Milano che durava dall’inizio del Quattrocento. La rilevanza storica del
trattato risiede nell’aver garantito all’Italia quarant’anni di pace stabile, contribuendo
di conseguenza a favorire la rifioritura artistica e letteraria del Rinascimento. Venezia
e Milano conclusero una pace definitiva il 9 aprile 1454 presso la residenza di
Francesco Sforza a Lodi; il trattato fu ratificato dai principali Stati regionali(prima fra
tutti Firenze, passata da tempo dalla parte di Milano). Il Nord Italia risultava in
pratica spartito fra i due Stati nemici, nonostante persistessero alcune potenze minori
(i Savoia, la Repubblica di Genova, i Gonzaga e gli Estensi). In particolare, stabilì la
successione di Francesco Sforza al Ducato di Milano, lo spostamento della frontiera
tra i suddetti stati sul fiume Adda, l’apposizione di segnali confinari lungo l’intera
demarcazione (alcune croci scolpite su roccia sono tuttora esistenti) e l’inizio di
un’alleanza che culminò nella adesione – in tempi diversi – alla Lega Italica. La
importanza della Pace di Lodi consiste nell’aver dato alla penisola un nuovo assetto
politico-istituzionale che – limitando le ambizioni particolari dei vari Stati – assicurò
per quarant’anni un sostanziale equilibrio territoriale e favorì di conseguenza lo
sviluppo del Rinascimento italiano. A farsi garante di tale equilibrio politico sarà poi
– nella seconda parte del Quattrocento – Lorenzo il Magnifico, attuando la sua
famosa politica dell’equilibrio.
Il Rinascimento italiano
Il Rinascimento italiano è la civiltà culturale ed artistica che, nata a Firenze e da lì
diffondendosi in tutta Europa dalla metà del XIV secolo a tutto il XVI secolo, voleva
riappropriarsi della cultura classica antica, che ad alcuni sembrava alterata dalla
religiosità medioevale, proponendosi di recuperarne l’originalità ed il senso della
naturalità dell’uomo. L’epicentro dell’Umanesimo-Rinascimento è Firenze, da dove
arriverà alla corte napoletana aragonese di Alfonso I di Napoli, a quella papale di Pio
II, il papa umanista, e di Leone X, e a quella milanese di Ludovico il Moro.
Politicamente l’Umanesimo in Italia si accompagna alla trasformazione dei Comuni
in Signorie. L’umanesimo infatti è l’espressione della borghesia che ha consolidato il
suo patrimonio e aspira al potere politico. Gli sviluppi dell’umanesimo rientrano nella
formazione delle monarchie nazionali in Europa.
L’ETA’ NAPOLEONICA
La gioventù di Napoleone.
Napoleone Bonaparte (in origine il cognome era "Buonaparte", ma fu cambiato per
renderlo più simile alla lingua francese) nacque il 15 agosto del 1769, ad Ajaccio in
Corsica. Tra i suoi avi, di origine toscana, c’erano tracce di nobiltà che gli permisero
dei vantaggi nel campo dell’istruzione. Dall’età di 10 anni frequentò una scuola
militare francese (prima ad Autun poi a Brienne e infine a Parigi) finanziata dalle
casse reali.
Dopo la presa della Bastiglia, l’invasione popolare nel palazzo delle Tuileries e
l’abbattimento della monarchia nel 1792, Napoleone ottenne il grado di capitano. In
seguito, con l’aiuto della flotta inglese, era scoppiata un’insurrezione
controrivoluzionaria a Tolone, dove nel 1793 furono scacciati o massacrati i
rappresentanti del governo rivoluzionario. L’esercito rivoluzionario aveva assediato
infruttuosamente la città fino a quando il giovane capitano Bonaparte, nominato
aiutante del comandante, pose in atto il suo piano d’azione. Dopo uno spietato
bombardamento, conquistò con un audace assalto il fortino che dominava la rada e da
lì venne aperto il fuoco contro la flotta inglese, che lasciò il porto. Tolone si arrese
quindi alle truppe rivoluzionarie e, grazie a questa vittoria, Napoleone divenne
generale di brigata e il suo nome iniziò a divenire noto. In questo periodo egli entrò
in amicizia con Agostino Robespierre, fratello di Maximilien. Era l’epoca della
dittatura rivoluzionaria di Robespierre, quando nella Convenzione dominavano i
montagnardi. I commissari della Convenzione, e in particolare proprio Agostino
Robespierre, sotto l’influenza di Napoleone, preparavano l’invasione del Piemonte
per minacciare i possessi italiani dell’Austria. Ma i piani di Bonaparte non poterono
realizzarsi subito a causa dell’improvviso tramonto del potere giacobino. Napoleone
sfuggì alla ghigliottina ma ormai si diffidava di lui. Tuttavia nel 1795, dopo che egli
aveva iniziato a frequentare i circoli favorevoli al nuovo potere, fu ammesso nella
sezione topografica del Comitato di salute pubblica, in qualità di generale
d’artiglieria.
Nel 1795 la Convenzione termidoriana aveva già elaborato la nuova Costituzione,
secondo la quale a capo del potere esecutivo vi dovevano essere 5 direttori, mentre il
potere legislativo era affidato a due assemblee: il Consiglio dei cinquecento e il
Consiglio degli anziani. La Convenzione si preparava a mettere in vigore questa
costituzione e a sciogliersi; però, visto che le tendenze reazionarie si rafforzavano,
nel timore che i realisti si infiltrassero in gran numero nei due consigli, il gruppo
dirigente dei termidoriani emanò uno speciale decreto al fine di conservare il potere: i
2/3 dei componenti di ogni consiglio dovevano essere eletti fra i membri della
Convenzione.
Nell’ottobre del 1795 i monarchici, sfruttando il diffuso malcontento della
popolazione causato dalle difficoltà economiche, progettarono un’insurrezione. Fu
allora che Barras, leader del Direttorio, assegnò a Bonaparte l’incarico di difendere la
Convenzione. Il 13 vendemmiaio (5 ottobre) più di 20 mila insorti marciarono sulla
Convenzione (palazzo delle Tuilleries), mentre Bonaparte non aveva neanche 6 mila
uomini; ma la folla riottosa fu accolta dalla mitraglia dell’artiglieria che la disperse.
L’insurrezione fu così schiacciata. I cannoni di Bonaparte avevano, almeno per ora,
impedito il ritorno al potere dei Borboni.
Gli uomini del Direttorio furono benevoli verso il giovane generale. Dopo questa
vittoria e grazie alle insistenze di Barras, Napoleone chiese e ottenne la nomina di
comandante dell’armata d’Italia. In seguito il giovane generale sposò la nobile creola
Giuseppina Beauharnais, ex amante di Barras.
L’ASCESA DI NAPOLEONE
La Campagna d’Italia
Dopo aver domato la sommossa controrivoluzionaria, Napoleone insisteva sulla
necessità di prevenire le azioni della coalizione antifrancese (di cui facevano parte
Austria, Inghilterra, Russia, Regno di Sardegna, Regno di Napoli e alcuni stati
tedeschi) con una guerra offensiva contro gli Austriaci e i loro alleati Italiani,
invadendo l’Italia settentrionale. Il Direttorio invece voleva aggredire i possedimenti
austriaci passando dalla Germania e preparava per questa campagna le sue migliori
truppe e i suoi più eminenti strateghi con a capo il generale Jean Victor Moreau.
Tuttavia il Direttorio cambiò idea e permise a Napoleone di attuare il suo piano, al
fine di obbligare Vienna a frazionare le proprie forze e a distrarre la sua attenzione
dal teatro di guerra principale, cioè la Germania.
Nel 1796, passando in rassegna le sue truppe, Napoleone constatò le carenze
materiali, la disorganizzazione e l’indisciplina dell'esercito; si decise quindi a vestire,
calzare e disciplinare le proprie truppe nel corso stesso della campagna. Spiegò ai
soldati che la guerra doveva alimentare se stessa, rimotivò i suoi soldati semi affamati
e semi scalzi additando loro le ricchezze che avrebbero saccheggiato in Italia.
Tra il 5 e il 9 aprile l’esercito francese passò la catena alpina. Aveva di fronte gli
eserciti austriaco e piemontese disposti a copertura delle strade per il Piemonte e per
Genova. Le prime battaglie si svolsero in Liguria: presso Cairo Montenotte gli
Austriaci furono sgominati, e due giorni dopo presso Millesimo lo furono le truppe
austriache e piemontesi unite. Bonaparte proseguì l’azione impedendo al nemico di
riprendersi e costrinse il Regno di Sardegna a stipulare una pace separata con Vittorio
Amedeo III (armistizio di Cherasco, 28 aprile 1796). La Francia otteneva la Savoia e
Nizza, nonché il libero transito delle truppe in Piemonte. Con alcune nuove vittorie
Napoleone respinse gli Austriaci verso il Po. Strada facendo sottomise Parma e le
impose dei tributi malgrado la sua neutralità. Quindi si avvicinò a Lodi e avrebbe
voluto attraversare l’Adda, ma un reparto di 10 mila austriaci difendeva questo varco
importante. Il 10 maggio si scatenò la famosa battaglia di Lodi. Venti cannoni
austriaci spazzavano a mitraglia tutto ciò che era sul ponte, ma i granatieri guidati da
Bonaparte respinsero gli Austriaci e se ne impossessarono ugualmente. Bonaparte
iniziò subito l’inseguimento e il 15 maggio entrò a Milano. I francesi occuparono
anche Bologna, Modena e la Toscana, benché fossero territori neutrali.
Bonaparte entrava nelle città e nei villaggi, si impadroniva di oggetti di valore e
opere d’arte e requisiva tutto ciò che era necessario al suo esercito. Subito dopo iniziò
l’assedio di Mantova. L'esercito austriaco, ottenuti alcuni rinforzi, uscì dalla città
e respinse vari reparti francesi; Bonaparte allora concentrò tutte le proprie forze e
l’urto decisivo avvenne tra il 15 e il 17 novembre presso Arcole. Il ponte d’Arcole fu
conquistato per ben tre volte dai Francesi e tre volte perso, ma alla fine Napoleone
sconfisse gli Austriaci. Due mesi dopo, nel gennaio 1797, gli austriaci erano pronti
alla rivincita, si ebbe così una nuova battaglia presso Rivoli Veronese, dove i francesi
sbaragliarono l’intero esercito nemico; due settimane dopo Mantova capitolò.
Bonaparte si diresse così a nord, verso Vienna, minacciando direttamente i
possedimenti degli Asburgo. L’imperatore d’Austria Francesco II chiese allora di
cominciare le trattative di pace.
Prima che Mantova capitolasse Bonaparte aveva organizzato una spedizione contro il
Papa Pio VI che continuava ad aiutare gli austriaci. Le truppe papali furono sconfitte,
le città si arresero e Napoleone s’impadronì di tutti i valori che vi trovava. Il papa
terrorizzato chiese la pace, sottoscritta a Tolentinonelle Marche il 19 febbraio 1797.
Egli dovette cedere le legazioni di Bologna, Ferrara e la Romagna, versare un tributo
in oro e consegnare quadri e altre opere d’arte.
Nello stesso tempo (1796-97) gli Austriaci avevano battuto sul Reno i migliori
generali francesi che continuavano a chiedere denaro mentre Bonaparte, con l’orda di
indisciplinati straccioni che aveva trasformato in un temibile e fedele esercito,
conquistava l’Italia e inviava opere d’arte e milioni in oro a Parigi (tenendone una
parte cospicua per sé). Così si arrivò all’armistizio di Leoben (maggio 1797),
perfezionato con la pace di Campoformio il 17 ottobre 1797. La Francia ottenne la
Lombardia, alcuni territori veneti e le isole Ionie tolte a Venezia. L’Austria riconobbe
il possesso francese del Belgio e della riva sinistra del Reno, ottenendo in cambio
Venezia e i suoi territori di Istria e Dalmazia. Nel frattempo Napoleone aveva creato
un nuovo stato vassallo, la "Repubblica Cisalpina", nella quale comprese una parte
delle terre conquistate (grosso modo la Lombardia e l’Emilia). Nel giugno dello
stesso anno dalle ceneri della repubblica di Genova era nata laRepubblica Ligure.
Bonaparte organizzò le repubbliche italiane in modo tale che sotto l’apparenza
dell’assemblea consultiva, rappresentativa degli strati agiati della popolazione, tutto il
potere fosse nelle mani del commissario mandato da Parigi. Ogni traccia di diritti
feudali fu distrutta e alle chiese e ai monasteri fu tolto il diritto di prelevare tributi.
Nel gennaio del 1798 le truppe francesi occuparono Roma e fecero prigioniero Pio
VI (1717-1799) che fu condotto in Francia. Nacque così la Repubblica romana che
comprendeva i restanti territori dello Stato pontificio. Nel gennaio del 1799 un
esercito francese, guidato dal generale Championnet, conquistò anche Napoli e diede
vita alla Repubblica partenopea. Il nuovo stato non durò a lungo. Pochi mesi dopo
(giugno 1799), dopo che un esercito austro-russo aveva cacciato i francesi dall'Italia
settentrionale, i contadini campani, guidati del cardinale Fabrizio Ruffo, abbatterono
il governo repubblicano accusato di ateismo. Il movimento venne definito
sanfedismo. I più noti patrioti, tra cui Mario Pagano (1748-1799), Vincenzo Russo
(1770-1799) ed Eleonora Fonseca Pimentel (1752-1799), furono condannati a morte.
La rivoluzione napoletana fu raccontata in un importante opera - Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana del 1799 - pubblicata nel 1801 a Milano dallo scrittore e
storico Vincenzo Cuoco. Egli giudicò quella del 1799 una «rivoluzione passiva»: il
popolo, scrisse, non l'avrebbe fatta, ma era pronto a riceverla dalle mani dei francesi.
Cuoco analizzò il fallimento indicandone le cause nell'astrattezza dei giacobini
napoletani, incapaci di capire i bisogni delle classi popolari e la specificità della
cultura napoletana.
La conquista dell’Egitto e la Campagna di Siria (1798-1799)
Dopo Campoformio con l’Austria le cose erano sistemate, solo l’Inghilterra
continuava ancora a battersi contro la Repubblica francese. Poiché l’invasione
dell’Inghilterra sembrava impossibile Napoleone propose di conquistare l’Egitto e di
creare in oriente delle basi per minacciare il dominio inglese in India. Già da un
pezzo la diplomazia francese mirava a questi ricchi paesi dell’impero turco così
debolmente protetti. Bonaparte aveva l’appoggio del ministro degli affari esteri
Talleyrand, il quale vedeva i vantaggi economici di questa campagna e voleva
ingraziarsi Napoleone nel quale aveva intravisto il futuro padrone del popolo
francese. Bonaparte e Talleyrand non dovettero faticare molto a convincere il
Direttorio, poiché anch’esso riteneva vantaggiosa questa conquista e vedeva di buon
occhio un allontanamento di un personaggio oramai troppo popolare ed ingombrante
come Napoleone.
Il 5 marzo 1798 Napoleone cominciò i preparativi. Tutta l’Europa sapeva che si
preparava qualche spedizione, ma non dove si sarebbe diretta. Napoleone diffuse la
falsa notizia che voleva oltrepassare Gibilterra e sbarcare in Irlanda. Questa voce
ingannò Nelson, il grande ammiraglio inglese, che aspettò Bonaparte presso
Gibilterra mentre la flotta francese puntava verso Malta, che si arrese e venne
dichiarata possedimento francese. Alcuni giorni dopo salpò per l’Egitto e il 30 giugno
sbarcò nelle vicinanze di Alessandria. Intanto Nelson, saputo della presa di Malta, si
recò a vele spiegate in Egitto e vi giunse 48 ore prima dei francesi. Non trovandovi
Bonaparte credette che si fosse diretto a Costantinopoli e vi si recò. Questa catena di
errori di Nelson salvò la spedizione francese. Intanto Bonaparte fece avanzare
l’esercito su Alessandria. Anche se l’Egitto era formalmente un possedimento del
sultano turco, di fatto vi dominava lo strato dirigente della ben armata cavalleria
feudale dei mamelucchi; questa aristocrazia militare-feudale pagava un tributo al
sultano di Costantinopoli, ma dipendeva pochissimo da lui. Il resto della popolazione
era composto dai commercianti arabi e dai cristiani copti, braccianti in stato di
indigenza. Napoleone sosteneva di esser venuto in Egitto per liberare gli arabi
dall’oppressione dei mamelucchi ma, presa Alessandria dopo alcune ore di fucileria,
cominciò subito a crearvi i presupposti di una durevole dominazione francese e alla
popolazione "liberata" impose la completa sottomissione. Alcuni giorni dopo
s’incamminò verso sud inoltrandosi nel deserto. I mamelucchi si ritiravano sfuggendo
all’inseguimento. Finalmente il 20 luglio 1798 essi accettarono lo scontro e
Bonaparte li sconfisse nella battaglia delle piramidi. Subito dopo questa vittoria
Bonaparte entrò al Cairo, dove la popolazione impaurita lo accolse in silenzio.
Insediatosi al Cairo Bonaparte organizzò l’amministrazione. Egli cercò di suscitare il
consenso dei musulmani presentandosi come l’autore dell’umiliazione del papa e dei
cavalieri di Malta. Ordinò che la religione musulmana fosse integralmente rispettata e
dispose l’inviolabilità delle moschee e del clero. Vennero abolite le imposte fondiarie
dovute ai mamelucchi sostituendole con delle tasse utili a mantenere l’esercito
francese. Bonaparte tendeva così a sopprimere i rapporti feudali appoggiandosi alla
borghesia commerciale araba e ai proprietari terrieri.
Il 1° agosto 1798, la flotta francese si trovava all’ancora nella baia di Abukir, a circa
25 chilometri da Alessandria. L’ammiraglio Brueys, che comandava la flotta da
guerra francese, era convinto che la rada fosse sicura. Aveva disposto i suoi tredici
vascelli in linea con il tribordo, la fiancata destra, verso il largo. I cannoni erano
carichi solo su quel lato, perché i francesi avevano escluso un attacco inglese sul lato
sinistro, tra la linea delle navi e la costa. Quando Nelson arrivò alla baia di Abukir
capì subito la situazione e, nonostante la giornata stesse giungendo al termine, decise
di aggirare la lunga fila di navi francesi passando davanti alla prua della prima per
attaccarle da entrambi i lati. I francesi cercarono di difendersi con coraggio, ma con
le navi inglesi sui due lati l’esito della battaglia era segnato. Il fuoco di cinque navi
inglesi si concentrò sull’Orient, la nave più grande fra quelle francesi, dotata di tre
ponti e di ben 118 cannoni, sulla quale si trovava l’ammiraglio Brueys, oltre al tesoro
trafugato a Malta.
L’ammiraglio fu colpito da una cannonata che gli amputò tutte e due le gambe. Si
fece stringere dai chirurghi dei lacci emostatici nei moncherini e continuò a
comandare sino alla morte. L’Orient prese fuoco e poco dopo saltò in aria con un
violento boato. Gli inglesi subirono solo qualche ammaccatura e riuscirono a
distruggere 6 vascelli e a catturarne altri 6, oltre ad alcune navi più piccole.
L’esercito di Napoleone era bloccato in Egitto. Egli dovette per di più affrontare una
rivolta degli arabi (250 francesi uccisi) con una spietata rappresaglia che causò 2 mila
morti tra gli egiziani, e una paurosa epidemia di peste bubbonica che uccise 3 mila
francesi.
Napoleone decise, allora, di iniziare l’invasione della Siria, lasciando in Egitto gli
scienziati che aveva condotto dalla Francia. Il 4 marzo 1798 attraversò l’istmo di
Suez, si avviò verso Giaffa e l’assediò, quando la città si arrese, contravvenendo ai
patti, ordinò di annegare o massacrare con la baionetta i 4500 soldati che si erano
arresi, per non doverseli portare dietro. Si avviò quindi verso la fortezza di Acri che
era rifornita dal mare dagli inglesi. Napoleone la assediò per due mesi senza successo
e così, il 19 maggio, si preparò a tornare in Egitto. Il 14 giugno 1799 l’esercito
francese rientrò al Cairo. Dopo aver sconfitto un esercito turco che era sbarcato
vicino ad Abukir, Napoleone venne a sapere che, mentre egli conquistava l’Egitto,
Austria, Inghilterra, Russia e Regno di Napoli avevano ricominciato la guerra contro
la Francia. Il generale russo Suvorov era giunto in Italia e, con l’aiuto degli austriaci,
aveva sconfitto i francesi, abolito la Repubblica Cisalpina e minacciava di invadere la
Francia. Dopo la caduta della Repubblica cisalpina cadde anche quella romana. La
Francia era in preda al banditismo e alla disorganizzazione e il Direttorio, odiato dai
più, era debole e smarrito. Napoleone trasmise allora il comando supremo
dell’esercito al generale Kleber e il 23 agosto 1799 partì per la Francia, lasciando a
Kleber un esercito ben provvisto, un apparato amministrativo e fiscale funzionante,
che egli stesso aveva creato e una popolazione ridotta alla miseria, muta, timorosa e
sottomessa nel vastissimo paese conquistato.
Se da un punto di vista militare la spedizione era stata una sostanziale sconfitta, da un
punto di vista culturale diede luogo alla «scoperta dell’Oriente». Furono realizzati
degli ampi e dettagliati resoconti ricchi di illustrazioni, come quello di Dominique
Vivant Denon, che esplorò il Basso e l'Alto Egitto e disegnò le rovine di Tebe, Luxor
e di altre antiche città. La scoperta della stele di Rosetta (Rachid), scritta in tre lingue,
avrebbe permesso al giovane studioso Jean-François Champollion di iniziare la
decifrazione dell’antico geroglifico nel 1822.
Il 18 brumaio 1799: Napoleone primo console
Tra il 1797 e il 1799 il Direttorio aveva gradualmente perduto ogni appoggio tra le
masse. L’inflazione esorbitava e la povertà dilagava e le conquiste borghesi erano
minacciate dalla destra monarchica e dalla sinistra giacobina. Non solo la borghesia
mercantile, ma anche la piccola e media borghesia e i contadini arricchiti sognavano
un dittatore che desse alla Francia la pace esterna e un forte "ordine" interno. Il
Direttorio aveva dimostrato di saper difendere la Francia dai Borboni ma era stato
incapace di creare un solido ordinamento borghese. Inoltre con la perdita delle
repubbliche italiane nel 1799 diventava sempre più difficile lottare contro la potente
coalizione anti-francese. L’oro mandato da Napoleone a Parigi dall’Italia era stato
speso per la guerra e divorato da governanti e funzionari dello stato.
Il 16 ottobre 1799 Bonaparte arrivò a Parigi. Molti francesi lo immaginavano come
un "salvatore", l’esercito lo sosteneva senza riserve, mentre l’ostilità e la sfiducia
della borghesia verso il Direttorio erano al culmine. In queste condizioni uno dei
membri del Direttorio, lo scaltro Sieyès e il presidente del Consiglio dei cinquecento
Luciano Bonaparte (fratello di Napoleone) avevano architettato un colpo di stato.
Sieyès era il difensore dell’ordine borghese creato dalla rivoluzione, e credeva di
poterlo rafforzare con una riscrittura della Costituzione e un cambio di potere. Per
questo aveva bisogno dell’appoggio dell’esercito; si «cercava una spada», come si
diceva allora, e poteva essere quella di Napoleone. Bisognava anzitutto disfarsi della
presenza ingombrante di Barras, ormai malvisto dai più. Barras e altri due direttori
diedero le dimissioni e si fecero da parte senza protestare. Il piano di Sieyès aveva il
favore del ministro degli esteri Talleyrand e del capo della polizia Fouché.
Il 9 novembre 1799 i consigli legislativi, la camera degli anziani e dei cinquecento,
con la scusa di fantomatici complotti anti-rivoluzionari, vennero riunite a Saint Cloud
(distante 16 km da Parigi). Dopo aver sciolto il Direttorio Napoleone pretendeva che
le assemblee si auto-sciogliessero e gli cedessero il potere. Egli cercò di abbozzare un
discorso in cui alternava minacce a vaghe spiegazioni sulla necessità del cambio di
potere al fine di salvare la libertà e la rivoluzione. Tra i deputati risuonarono le
sinistre grida che avevano posto fine al governo di Robespierre: “tiranno”,
“fuorilegge”! Sembra che nella concitazione Bonaparte sia stato anche aggredito
fisicamente. Appena si sparse la voce che Napoleone era stato ferito i soldati furono
chiamati ad intervenire e i deputati si diedero alla fuga. Più tardi vennero riuniti
quelli favorevoli al cambio di potere e le camere votarono senza discutere il decreto
che consegnava il potere a tre persone chiamate consoli, che erano Bonaparte, Sieyès
e Ducos. Bonaparte non era ancora il padrone incontrastato della Francia ma il suo
consolato era già una dittatura e i suoi due colleghi non avrebbero contato nulla.
La dittatura
Dopo il 18 brumaio vi furono 15 anni di monarchia assoluta e il generale Bonaparte
divenne l’autocrate del popolo francese, nei primi 5 come console e negli altri 10
come imperatore. In questa dittatura militare le istituzioni statali avevano lo scopo di
mettere in atto un’unica volontà suprema e dovevano essere le forme esteriori più
appropriate per eseguire più rapidamente possibile gli ordini dell’autocrate. Anche
nei paesi subordinati alla Francia, dove spesso Bonaparte metteva al potere i suoi
fratelli o i suoi marescialli, gli si doveva obbedire ciecamente.
Tuttavia il consolato è considerato come l’epoca in cui fiorirono il commercio,
l’industria, le scienze e le arti. Ciò è dovuto al fatto che proprio in quell’epoca
Napoleone diede una solida base alla struttura amministrativa, giuridica e sociale,
tanto che le fondamenta di questo apparato amministrativo centralizzato
sopravvivono ancora oggi. Bonaparte creò le condizioni che assicurarono il dominio
economico della borghesia favorendo il tranquillo guadagno nel commercio e
nell’industria.
Nel dicembre 1799 fu varata la nuova costituzione e Napoleone la mise subito in
vigore prima del plebiscito che la confermò. A capo della Repubblica c’erano tre
consoli, dei quali il primo aveva pieni poteri mentre gli altri due avevano solo il voto
consultivo. Il potere legislativo era frammentato in quattro organismi che servivano a
garantire l’apparenza della rappresentanza: il Consiglio di Stato (di nomina
governativa) che proponeva le leggi, Il Tribunato discuteva le proposte senza votarle,
il Corpo legislativo le votava senza discuterle. Al Primo Console spettava la nomina
dei ministri, dei funzionari e anche dei giudici. Napoleone conservò la divisione della
Francia in dipartimenti ma eliminò le autonomie locali; il ministro degli interni
nominava un prefetto (cioè un piccolo console locale) per ogni dipartimento.
La seconda campagna d’Italia e i codici (1800-1803)
A questo punto Napoleone intendeva riconquistare i territori italiani perduti nel
1799. L’esercito austriaco con a capo il generale Melas aspettava Bonaparte nei
pressi di Genova, pensando che l’esercito francese passasse di lì, ma Napoleone
arrivò di sorpresa dal passo del Gran San Bernardo alle spalle degli Austriaci e, con
un esercito di circa 40 mila soldati, puntò direttamente su Milano e se ne impadronì il
2 giugno del 1800. Subito dopo occupò Pavia, Cremona, Piacenza, Brescia e altre
città respingendo gli Austriaci. Melas, dopo aver tolto Genova ai Francesi, andò
incontro ai francesi e il 14 giugno 1800 avvenne l’urto delle principali forze dei due
avversari presso Marengo. Gli Austriaci erano superiori per numero e per i Francesi
la battaglia sembrava ormai persa quando, grazie al sopraggiungere di una nuova
divisione guidata dal generale Desaix, che morì nella battaglia, i nemici furono
completamente sbaragliati. Dopo la vittoria di Hohenlinden in Baviera (3 dicembre
1800) da parte del generale Moreau sulle truppe austriache, l’Italia del nord era di
nuovo nelle mani di Bonaparte.
L’8 febbraio 1801 fu siglata la pace di Luneville, con cui Napoleone ottenne il
ripristino del trattato di Campoformio, compresa la riedizione delle repubbliche
"Cisalpina" e "Ligure". Il regno d'Etruria sostituì il granducato di Toscana, mentre il
Piemonte, occupato dalle truppe francesi, fu successivamente annesso alla Francia. I
Savoia fuggirono in Sardegna protetti dall’Inghilterra.
Ora la sola Inghilterra, fra le grandi potenze, rimaneva in stato di guerra con la
Francia, Napoleone si propose dunque di fare la pace con gli inglesi al più presto
possibile. Dal canto suo anche l’Inghilterra - sostenuta dal ceto mercantile legato al
commercio europeo, vedendo che né il finanziamento delle coalizioni europee, né
l’aiuto dei controrivoluzionari vandeani erano stati efficaci, era stanca di combattere.
La pace fu così sottoscritta ad Amiens il 26 marzo 1802. L'Inghilterra accettò di
restituire l'isola di Malta ai Cavalieri e l'Egitto alla Turchia, ma mantenne l'ex colonia
spagnola di Trinidad e l'isola di Ceylon, precedentemente controllata dall'Olanda; la
Francia ottenne il riconoscimento della situazione continentale. In tutti i paesi sotto il
potere di Bonaparte (cioè il Belgio, l’Olanda, l’Italia, la riva sinistra del Reno e la
Germania occidentale) il commercio dei prodotti britannici era proibito. La lunga
guerra con l’Europa era così finita con una vittoria francese su tutti i fronti.
Napoleone riformatore
Dopo la pace di Amiens, in virtù di un plebiscito, Napoleone fu proclamato console a
vita. Come si può facilmente constatare le rivoluzioni promettono tantissimo ma
quasi sempre finiscono fatalmente per sfociare in dittatura. Anche quella di
Napoleone era una dittatura che però anelava ad un consenso generale. La strategia
con cui Bonaparte governò la Francia durante il consolato fu chiamata
dell’”amalgama”. Egli fuse pezzi dell’antico regime con la rivoluzione e mise in posti
di potere uomini formati ai tempi del re (ex ministri, figli di condannati a morte)
affiancati ai figli della rivoluzione. Era un atto di riconciliazione che doveva chiudere
le feroci divisioni del periodo rivoluzionario.
Pur in virtù di un potere dittatoriale Napoleone realizzò una serie di riforme che
conferivano allo stato francese una maggiore modernità. Amnistiò gli emigrati e nel
luglio 1801 si riconciliò ufficialmente con la Chiesa cattolica attraverso un
concordato: Napoleone permetteva il libero esercizio del culto all’interno del paese e
in cambio il papa si impegnava a non chiedere la restituzione delle terre confiscate
durante la rivoluzione. Napoleone nominava vescovi e arcivescovi e le encicliche, le
bolle e i decreti papali venivano ammessi in Francia solo dopo il permesso del
governo. Il clero sarebbe stato utile per insegnare l’obbedienza.
Attraverso una legge promulgata nel febbraio del 1800 le autonomie locali vennero
abolite e sostituite con un rigido centralismo. A ogni dipartimento (partizione del
territorio francese istituita nel 1790) fu posto a capo un prefetto, nominato dal
ministro dell’interno. I prefetti rappresentavano il potere centrale nelle periferie e
avevano il compito di far applicare in modo uniforme le leggi in tutta la Francia. Essi,
inoltre, si occupavano del rispetto dell’ordine, di far pagare le tasse e di adempiere
agli obblighi di leva. Controllavano anche i sindaci delle città, anch’essi nominati dal
governo.
Per favorire l’iniziativa economica privata in Francia, le imposte indirette (sui
consumi) sostituirono imposte dirette quelle indirette. Inoltre furono subito fissati
dazi doganali sui prodotti di importazione per favorire l’industria interna. Nei paesi
sottomessi invece, a causa delle esose esigenze belliche, il carico fiscale diretto
aumentò nettamente rispetto al periodo precedente, causando un crescente sentimento
di ostilità verso i francesi.
Il 12 agosto 1800 Napoleone costituì una commissione per l’elaborazione di un
Codice civile. Questo Codice - in seguito chiamato "Codice napoleonico"- era
l’espressione della vittoria della borghesia sul regime feudale e rendeva intangibile la
proprietà borghese (intesa cioè come un diritto individuale e non come un privilegio
di nascita) di fronte a qualsiasi attacco, degli aristocratici o dei proletari. Esso
garantiva l’uguaglianza giuridica dei cittadini, la laicità dello stato e la libertà
d’impresa. Il Codice disciplinava le forme di acquisizione, di utilizzo e di
trasmissione delle proprietà. La famiglia (marito, moglie e figli), considerata la
cellula della società, era caratterizzata da una serie di diritti e doveri. In sintonia con i
principi rivoluzionari furono introdotti il matrimonio civile e il divorzio. Il marito era
considerato il capofamiglia, la moglie e i figli gli dovevano obbedienza per legge.
Egli aveva la facoltà di chiedere l’arresto del figlio ribelle (minore di 16 anni) o di
mandare in casa di correzione la moglie adultera. Lo sconto di pena sul delitto
d’onore valeva solo per il marito. Abolito il diritto di primogenitura, fratelli e sorelle
ereditavano in modo uguale e anche ai figli illegittimi riconosciuti era riconosciuto un
parziale diritto di eredità.
Il sistema politico creato da Napoleone non sopravvisse al suo creatore, ma la sua
civiltà giuridica si sarebbe conservata più a lungo. Il Codice fu infatti adottato, per
scelta o per costrizione, da tutti i Paesi che gravitavano attorno al sistema francese,
oltre che da alcuni stati americani. É considerato, con l’esclusione delle
anacronistiche diseguaglianze che esso affermava, una pietra miliare del sistema
giuridico moderno per la notevole chiarezza con cui le norme erano state scritte e
perché pose fine alla eterogeneità normativa e alla pluralità degli organismi
giudicanti. I vincitori di Napoleone, nel Congresso di Vienna del 1815, decisero
infatti che esso sarebbe stato più confacente alla situazione dell’Europa post
rivoluzionaria.
Dopo esser stato approvato da Consiglio di stato, Tribunato e Corpo legislativo, nel
marzo 1804 il Codice, firmato da Napoleone, divenne legge. In seguito furono
comprese in esso anche le leggi con le quali la classe operaia veniva assoggettata ai
proprietari. L’opera riformatrice fu poi completata dal Codice di commercio che
regolava e garantiva giuridicamente gli affari commerciali e dal Codice penale
(1810), che prevedeva, oltre alla pena di morte, anche alcune pene corporali che la
rivoluzione aveva abolito. Esso ristabiliva, ad esempio, la gogna per i forzati e
addirittura il taglio della mano per i parricidi. Il sistema di polizia fu affidato all’ex
prete ed ex giacobino Joseph Fouché, che mise al servizio di Napoleone una fitta rete
di agenti dotati di ampie libertà e mezzi copiosi al fine di garantire la sicurezza e
colpire il dissenso. Gli individui ritenuti socialmente pericolosi potevano essere
arrestati per decisione amministrativa (senza processo). Una prima occasione di
applicazione di questa pratica avvenne quando Napoleone. la sera del 24 dicembre
1800, scampò per una soffio a un attentato avvenuto in rue Saint Nicaise. Un carretto
che sbarrava la strada alla carrozza di Napoleone esplose e uccise 22 persone
ferendone un centinaio. Napoleone e il suo seguito non subirono però alcun danno.
Subito 133 giacobini, pur estranei ai fatti, furono inviati nelle colonie penali della
Guyana o alle isole Seychelles, da cui non avrebbero fatto più ritorno. I veri colpevoli
erano dei realisti che vennero comunque giustiziati.
Alcune riforme erano chiaramente un passo indietro rispetto al periodo
rivoluzionario. La ribellione di Haiti al sistema francese indusse Napoleone, con una
legge del maggio 1802, a reintrodurre la schiavitù nelle colonie, abolita nel 1793. Il
principio dell’elettività dei giudici, stabilito dalla rivoluzione francese, fu abolito nel
1800. I giudici venivano nominati dal primo console e le progressioni di carriera
erano a discrezione del governo. L’affermazione dell’eguaglianza giuridica andò pari
passo con la negazione delle libertà politiche e di opinione. Nel periodo napoleonico
c’erano a Parigi solo 4 quotidiani rigidamente sorvegliati (nel 1790 erano 335).
In compenso in Francia fu abolita ogni forma di privilegio, i cittadini si distinguevano
essenzialmente per i loro meriti. I funzionari statali erano scelti in base alle capacità,
alle competenze e alla fedeltà verso il governo.
Al fine di formare dei funzionari preparati fu avviata una profonda riforma del
sistema dell’istruzione che, per la prima volta nella storia, fu finanziato direttamente
dallo stato. Fulcro di tale sistema erano i Licei, scuole superiori che prevedevano il
pagamento di una retta, caratterizzate dall’obbligo dell’internato (l’alunno doveva
risiedere nella scuola) e da una severa disciplina di carattere militare. La scuole
primarie erano invece affidate ai religiosi. La formazione di alto livello era affidata
alle università e alle prestigiose «Grands Écoles», come le scuole politecniche che si
concentravano soprattutto sull’insegnamento dell’ingegneria.
La rivoluzione francese si era finanziata con l’immissione di un’enorme massa di
carta moneta che aveva creato un vero e proprio caos finanziario e un enorme debito
pubblico. Per dare forza alle finanze del Paese fu fondata la Banca di Francia (1800),
con capitali provenienti in maggior parte da finanziatori privati. Essa aveva la facoltà
esclusiva di emettere banconote convertibili in oro.
Questa grandiosa attività legislativa non era ancora giunta a termine quando, nel
marzo 1803, ricominciò la guerra contro l’Inghilterra.
L’IMPERO E IL DOMINIO SULL’EUROPA
Napoleone imperatore
Il governo inglese di Pitt il giovane fu accusato di aver organizzato un'attentato alla
vita di Napoleone, ma il complotto fu scoperto. L’assenza di una precisa legge di
successione stimolava gli attentatori e così Napoleone pensò di trasformare il
consolato a vita in una monarchia ereditaria.
Nella notte del 15-16 marzo del 1804, un reparto di dragoni uscì dai confini della
Francia e penetrò nel territorio del piccolo Baden, uno stato neutrale che apparteneva
alla Confederazione germanica. La loro missione era quella di catturare il duca di
Enghien, uno dei più importanti personaggi della famiglia dei Borbone. Fouchè e altri
collaboratori di Napoleone ritenevano che esistesse un pericolo monarchico, che
fossero in corso dei complotti orditi dal duca. Così il giovane aristocratico venne
portato in Francia, processato per direttissima e fucilato il 21 marzo del
1804. Un’onda di indignazione attraversò le corti europee e l’immagine di
Napoleone subì un grave colpo. Il disprezzo per la vita umana faceva parte del
carattere di Napoleone ma le sue crudeltà non erano mai immotivate. L’assassinio
legalizzato del duca serviva per infondere paura agli esiliati monarchici e preparava
la strada per l’incoronazione imperiale di Napoleone.
Così il 18 aprile 1804 il Senato conferì al primo console il titolo di imperatore
ereditario dei francesi. Napoleone desiderava che il papa partecipasse alla sua
incoronazione, così il pontefice si recò a Parigi nella cattedrale di Notre-Dame per
incoronarlo. Quando nel solenne momento Pio VII sollevò la corona per porla sul
capo, Napoleone gliela strappò improvvisamente di mano e se la mise da solo sul
capo. Il soldato vittorioso sorto dalla rivoluzione francese non intendeva ricevere la
corona da altre mani fuorché dalle proprie. Intanto il capo del governo inglese
William Pitt, dopo il fallimento dell’attentato, aveva raddoppiato i suoi sforzi per
creare una nuova coalizione contro la Francia, la terza.
La guerra contro la terza coalizione (1803-1804)
Il 20 ottobre del 1805, nei pressi di Ulm, lungo l’alta valle del Danubio, Napoleone
colse la prima grande vittoria da imperatore. Era riuscito ad espugnare una fortezza e
a costringere alla resa 27 mila austriaci.
La campagna di Ulm, che precedette la strepitosa vittoria di Austerlitz era iniziata a
causa del fallimento della pace di Amiens. In Inghilterra erano sorte numerose
obiezioni riguardo alla natura del trattato. Si affermava, infatti, che fosse stato solo il
Regno Unito a fare tutte le concessioni. Erano così rimaste aperte molte questioni che
andavano dal sistema coloniale francese, divorato dall’Inghilterra, all’occupazione di
Malta, che l’Inghilterra non voleva evacuare, alle pretese territoriali francesi sul
continente sulle quali c’era disaccordo. Oltre a ciò, Bonaparte aveva sfrontatamente
interferito nelle già falsate elezioni nella Repubblica di Batavia, facendosi anche
eleggere Presidente della Repubblica Cisalpina.
L’anno successivo alla firma del trattato Napoleone disse che sei navi francesi erano
state affondate dagli inglesi, senza peraltro rivelarne il nome. Egli ordinò inoltre
l'arresto di tutti i cittadini britannici presenti in Francia. Così la guerra contro
l’Inghilterra doveva fatalmente ricominciare.
L’esercito francese si trasferì a Boulogne, in Normandia, dove si concentrò il grosso
della flotta francese. Per sbarcare in Inghilterra però i francesi avrebbero avuto
bisogno di controllare il canale della Manica per alcuni giorni, necessari a trasportare
un grosso esercito sull’isola. La superiorità inglese sul mare rendeva arduo il
conseguimento di questa condizione.
Per combattere Napoleone, gli inglesi si allearono col giovane zar di Russia
Alessandro I, fieramente determinato a combattere l’«orco» francese. Nella
coalizione entrò anche Ferdinando IV di Napoli. Napoleone, saputo che gli eserciti
nemici minacciavano la Francia dalla Germania, decise, in gran segreto, di spostare
con una rapidissima manovra la “grande armata” da Boulogne addirittura alle spalle
degli austriaci. L’esercito russo, comandato da Kutuzov, si era mosso in ritardo a
causa delle differenze di calendario. Così i francesi giunsero alle spalle degli austriaci
tagliandogli le comunicazioni con Vienna, che venne successivamente occupata.
Il giorno dopo la splendida vittoria di Ulm si preannunciava la più grande battaglia
navale dell’era napoleonica. Era circa mezzogiorno del 21 ottobre del 1805, quando
si spararono le prime cannonate della battaglia di Trafalgar, nelle vicinanze dello
stretto di Gibilterra. Da una parte era schierata la flotta franco-spagnola, con 33
vascelli, contro quella inglese comandata da Nelson, con 27 vascelli. Nonostante il
vantaggio numerico i franco-spagnoli non possedevano le capacità nautiche degli
inglesi e la battaglia si volse rapidamente a loro sfavore. La scarsità di vento favorì la
maggiore capacità di manovra degli inglesi, più abili nel tenere ferme le navi per
poter indirizzare con precisione i colpi di cannone. Gli inglesi non persero neanche
una nave, mentre solo quattro delle navi franco-spagnole riuscirono a rientrare al
porto di Cadice. I francesi morti erano circa tremila e trecento e gli spagnoli un
migliaio, contro i circa 450 inglesi.
La vittoria inglese fu funestata dalla morte dell’ammiraglio Horatio Nelson, il grande
nemico di Napoleone. Un cecchino francese aveva individuato la sua vistosa
uniforme e aveva centrato la sua spallina sinistra. Dopo aver penetrato la carne la
pallottola si era fermata nella spina dorsale. Nell’arco di due o tre ore sopraggiunse
la morte. La sconfitta francese rese del tutto impossibile l’invasione dell’Inghilterra
ma non influì sullo sviluppo della guerra terrestre.
Gli austriaci avevano rinunciato alla difesa della città per evitare che fosse
danneggiata, ma avevano lasciato un presidio militare a difesa del grande ponte di
legno sul Danubio. La conquista del ponte era essenziale perché i
francesi riprendessero l’inseguimento dei russi e delle forze austriache ancora attive.
Allora i marescialli Murat e Lannes ebbero a questo proposito un’idea geniale che
richiedeva parecchio coraggio. Il 12 novembre indossarono le loro uniformi da
cerimonia e, assieme ad alcuni ufficiali che parlavano tedesco, iniziarono a
camminare sul ponte urlando: “armistizio!”, “é la pace!”. Dopo aver persuaso il
generale austriaco al comando, iniziarono delle finte trattative nel corso delle quali il
battaglione francese occupò il ponte e disinnescò gli esplosivi. Anche il grande
ponte sul Danubio era ormai sotto il controllo francese.
L’inseguimento degli austro-russi proseguì per alcune settimane e spinse i francesi
lontano dalle loro basi di approvvigionamento, sull’altopiano del Pratzen. Napoleone
aveva fatto studiare minuziosamente il terreno ai suoi marescialli. Quindi aveva
fermato l’avanzata e finto di voler trattare coi nemici per far credere loro di temere
uno scontro. Questo convinse l’imperatore Alessandro I di avere la possibilità di
vincere e riportare l’ordine in Europa.
Così il 2 dicembre 1805 nei pressi del paesino di Austerlitz si ebbe una sanguinosa
battaglia, una delle più importanti della storia europea. Napoleone indovinò che i
Russi e gli Austriaci avrebbero cercato di tagliargli la strada di Vienna e del Danubio
per circondarlo e respingerlo a nord; per questo fece arretrare intenzionalmente il suo
fianco destro. Quando i russi avanzarono verso il loro obbiettivo egli li schiacciò col
grosso delle sue forze che occupavano le alture di Pratzen, premendoli al limite degli
stagni semi gelati. Interi reggimenti annegarono o furono distrutti dalla mitraglia
francese, altri si arresero e i due imperatori fuggirono. Francesco II chiese un
colloquio col vincitore e l’incontro avvenne nell’accampamento napoleonico non
lontano da Austerlitz. Bonaparte chiese anzitutto che quanto restava dell’esercito
russo uscisse dall’Austria e condusse le trattative di pace con la sola Austria. Con la
pace di Presburgo l’Austria cedeva Venezia, l’Istria e la Dalmazia al Regno d’Italia,
l’ex Repubblica Italiana. Il trattato stabilì anche la fine del Sacro Romano Impero e
Francesco II mantenne soltanto il titolo di imperatore d’Austria. Pochi mesi dopo i
francesi regolarono i conti anche col Regno di Napoli, che fu tolto ai Borbone. Il re
Ferdinando IV e la moglie Maria Carolina si rifugiarono in Sicilia protetti dagli
inglesi. Napoli fu assegnata a Giuseppe, un fratello di Napoleone. Il Regno di Batavia
fu trasformato in Regno d’Olanda e il trono fu conferito a Luigi, altro fratello di
Bonaparte.
La vittoria contro la quarta coalizione e il dominio sulla Germania (1806-1807)
Nel luglio del 1806 Napoleone aveva creato, unendo 16 stati tedeschi, la
Confederazione del Reno, pensata come stato satellite francese. Il Regno di Prussia,
che non faceva parte della Confederazione, aveva stretto un accordo con la Francia,
mediante cui aveva ottenuto lo staterello dell’Hannover. Quando Napoleone,
cambiando improvvisamente idea, offrì l’Hannover all’Inghilterra, si accese tra i
prussiani un violento fremito di nazionalismo anti-francese. Il re Federico Guglielmo
III entrò nella quarta coalizione e, confidando boriosamente nella grande tradizione
militare prussiana, mosse guerra senza aspettare l’arrivo dell’esercito russo, con i
francesi a 15 giorni di marcia dalla frontiera.
Il 14 ottobre si svolsero due battaglie decisive. Napoleone vinse la battaglia di Jena e
il maresciallo Davout aveva intercettato e travolto il grosso dell’armata prussiana ad
Auerstadt, a una giornata di marcia da Jena.
L’entrata in guerra dei prussiani contro i francesi fu certamente una decisione sciocca
e arrogante che avrebbe potuto avere un senso prima di Austerlitz. La Prussia aveva
una grande tradizione militare, ma un esercito lento negli spostamenti e molto
vecchio nelle tattiche, nelle tecniche, nelle modalità di addestramento, nel modo di
concepire la guerra. Anche i suoi ufficiali comandanti, nel migliore dei casi, avevano
superato i 65 anni. Il 27 ottobre Napoleone entrò a Berlino e impose un umiliante
armistizio alla Prussia. Il re e la corte fuggirono. L’intera Europa era sconvolta e
atterrita, gli stati tedeschi uno dopo l’altro si sottomisero a Napoleone.
L’imperatore decise ora di vibrare il colpo mortale al suo principale nemico,
l’Inghilterra, e il 21 novembre 1806 firmò il decreto di Berlino sul blocco
continentale, che venne subito spedito in tutti i paesi vassalli e semi vassalli dove fu
accolto con tacita e timorosa docilità. Esso avrebbe dovuto portare alla bancarotta,
alla fame e alla capitolazione dell’Inghilterra. Napoleone voleva privare gli Inglesi di
tutti i mercati sul continente. Il decreto divenne il fulcro dell’intera lotta economica e
politica durante l’epopea imperiale. Per mettere in atto il blocco economico tutta
l’Europa doveva cadere sotto il controllo di Napoleone. Sarebbe bastato che un solo
paese avesse continuato a commerciare con l’Inghilterra per far perdere ogni efficacia
al blocco, dato che da questo paese i prodotti inglesi si sarebbero diffusi in
tutt’Europa. Per impedire il contrabbando occorreva quindi occupare tutte le coste
d’Europa. Napoleone cominciò, dunque, la sistematica occupazione dei porti
tedeschi.
Intanto la Gran Bretagna promise nuovamente un aiuto finanziario ad Alessandro I se
avesse ripreso la lotta contro Napoleone; lo zar si dichiarò pronto all’intervento.
Napoleone grazie alle sue spie ne era informato e cominciò i preparativi per il
prossimo urto con la Russia, e nel contempo stabiliva le misure da prendere per
realizzare il blocco. Dopo il decreto sul blocco, Napoleone non sarebbe stato
tranquillo finché la Russia non si fosse piegata; ma la rottura dei rapporti
commerciali con l’Inghilterra sarebbe stato rovinoso per il mercato russo dei prodotti
agricoli, che venivano in gran parte esportati in Inghilterra. Nel novembre i francesi
entrarono in Polonia, accolti con grande entusiasmo poiché erano visti come i
restauratori dell’indipendenza. Alla fine di novembre i distaccamenti avanzati
dell’esercito russo entrarono a Varsavia.
L’8 febbraio, in pieno inverno e con un freddo glaciale, si combattè la battaglia di
Eylau: dopo lunghi e sanguinosi combattimenti, quando sembrava che i russi stessero
per vincere, la cavalleria francese salvò la situazione attaccando il grosso delle forze
russe. Bènnigsen, a capo dell’esercito russo, si ritirò, ma Napoleone sapeva di non
aver ottenuto un’autentica vittoria e che le perdite erano enormi da ambo le parti.
L’esercito francese dovette accamparsi tra la Polonia e la Prussia orientale, l’una e
l’altra completamente devastate. L’aria attorno ai campi di battaglia era appestata
dalla putrefazione dei cadaveri e le condizioni di vita dell’esercito erano
estremamente dure. Il massacro di Eylau aveva reso necessario un periodo di sosta e
di riflessione La guerra riprese alla fine della primavera. A Friedland, il 14 giugno
1807 con un clima molto migliore, Bènningsen prese una decisione scellerata: accettò
il combattimento con l’esercito tagliato a metà da un fiume e con un altro fiume
dietro le spalle. Lo spostamento delle riserve permise ai francesi di spingere una parte
cospicua dei nemici verso un’ampia ansa del fiume che ne impediva la fuga. Così
bloccati i soldati russi vennero falcidiati. La Russia non era più in grado di continuare
la sua campagna militare.
L’incontro tra Napoleone e Alessandro, il 25 giugno del 1807, su una zattera
ormeggiata in mezzo al fiume Niemen, nei dintorni di Tilsit, é un evento indelebile
della storia napoleonica. Cominciarono così le trattative per la pace. Alessando fu
omaggiato e riverito al contrario del re di Prussia che fu esplicitamente trascurato.L’8
luglio 1807 fu così firmata la pace di Tilsit. Alla Prussia furono lasciati la "vecchia
Prussia", la Pomerania, il Brandeburgo e la Slesia, mentre tutti i suoi possedimenti ad
ovest dell’Elba entrarono a far parte del nuovo Regno di Vestfalia (che comprendeva
anche l’Hannover), affidato ad un altro fratello di Napoleone, Gerolamo. Con gli altri
territori tolti alla Prussia fu costituito il Granducato di Varsavia, che Napoleone
consegnò al suo nuovo alleato, il re di Sassonia. Russia e Prussia si impegnavano
infine ad applicare il decreto di Napoleone sul blocco.
Dominio sul Continente europeo. Da Tilsit a Wagram (1807-1809)
Gli inglesi avevano risposto al Blocco continentale inasprendo i controlli sui mari.
Ogni nave scovata nei pressi dei porti europei che non aveva pagato una dogana
inglese veniva considerata nemica e catturata.
Il blocco continentale era troppo carente per indurre l’Inghilterra a chiedere la pace.
Mantenere il blocco era molto difficile, perché le ragioni del commercio sono più
forti di quelle della divisione. C’erano molti beni che l’Europa non era in grado di
produrre e che era abituata ad importare. Alcune regioni, invece, vivevano di
esportazione, e il blocco le stava strangolando. Gli stati europei erano abituati a
importare molti beni che non sapevano o non potevano produrre. Essi ritenevano il
blocco un sistema per aumentare le esportazioni dalla Francia a danno dei loro
interessi nazionali. Uno degli alleati storici dell’Inghilterra, il Portogallo, si rifiutava
di applicarlo. Così, il 30 novembre 1807 il maresciallo Junot con le sue truppe, dopo
aver attraversato la Spagna e le montagne di confine, entrò a Lisbona. I Braganza
erano appena fuggiti su navi inglesi in Brasile. L’occupazione del Portogallo però
non sarebbe durata a lungo.
La Spagna era un ambiguo alleato dei francesi e la sua situazione interna era tutt’altro
che tranquilla. I partigiani di Ferdinando, il figlio del re Carlo IV, erano insorti e
avevano costretto il re ad abdicare e il suo potente ministro Manuel Godoy alle
dimissioni. Allora Napoleone convocò i reali di Spagna a Bayonne nell’aprile 1808 e
chiese a entrambi l’abdicazione per farsi consegnare l’autorità di “custode della
corona”. Il 6 maggio 1808 Napoleone, con questa autorità ottenuta con la forza,
decise di nominare re di Spagna il proprio fratello Giuseppe, in precedenza re di
Napoli. Il Regno di Napoli andò a Gioacchino Murat che, avendo sposato una delle
sorelle di Napoleone, si trovava in una condizione di vantaggio rispetto agli altri
marescialli.
In Spagna il re, la regina e i principi furono mandati in esilio. Tutto ciò, unito allo
sdegno per l’arresto del papa Pio VII nel gennaio precedente che aveva offeso il
sentimento religioso degli spagnoli, fece improvvisamente divampare una
sanguinosissima guerra di bande contadine contro i conquistatori. Il nuovo re,
applicando il blocco, avrebbe dovuto sfruttare l’economia spagnola a esclusivo
vantaggio della borghesia francese. Secondo Napoleone la Spagna doveva fornire alle
manifatture francesi il cotone e la preziosa lana merinos e diventare un mercato
monopolizzato per lo smercio dei prodotti finiti francesi. Ciò avrebbe significato la
quasi completa rovina di tutti gli artigiani spagnoli, nonché dell’intera classe
contadina legata alla produzione dei pannilana. Anche l’intera nobiltà terriera
spagnola stava cadendo in rovina, poiché l’Inghilterra aveva tolto alla Spagna le
colonie d’oltremare. Queste furono le principali cause economiche che determinarono
il sorgere di un movimento di liberazione nazionale che dichiarò guerra ai francesi.
La guerra spagnola era diversa dalle altre guerre. Gli eserciti inviati in Spagna, pur
avendo sconfitto più volte l’esercito regolare spagnolo, non erano in grado di
affrontare una guerriglia fatta di imboscate e azioni improvvise che li stava
decimando. Il 21 luglio 1808 il generale Dupont, uno degli eroi di Austerlitz, si arrese
agli spagnoli con 18 mila uomini. Una piccola armata inglese comandata da
Wellington, un brillante generale che si era formato nelle colonie, era sbarcata in
Portogallo. Il 22 agosto, col patto di Sintra, il generale Junot dovette cedere
definitivamente Lisbona agli inglesi. Fu uno scacco gravissimo. Nell’autunno del
1808 Napoleone si convinse che in Spagna le operazioni militari dovevano essere
condotte dal meglio dell’esercito francese, e le doveva comandare lui in persona. Il 3
novembre del 1808, alla testa della grande armata, entrò in Spagna, senza peraltro
pacificare il paese.
La quinta coalizione e la campagna di Wagram
La crisi spagnola si rivelò presto gravissima e spinse gli austriaci a riprendere la
guerra. L’arciduca Carlo, comandante dell’esercito austriaco, aveva riorganizzato
l’esercito e, anche grazie al denaro inglese, si preparava ad un nuovo scontro.
I primi scontri dimostrarono che l’organizzazione degli austriaci era migliorata
rispetto al periodo di Austerlitz, ma non era ancora sufficiente per sconfiggere i
francesi. Nella battaglia di Wagram, nel luglio 1809 Napoleone colse la vittoria
decisiva. Non era stata un trionfo schiacciante come in passato, ma era bastata per
indurre l’imperatore a chiedere la pace. Venne così firmato il trattato di Schönbrunn,
col quale l’Austria cedette Trieste al Regno d’Italia.
Per esser sicuro della continuità del suo impero occorreva ora a Napoleone un erede,
che Giuseppina però non gli aveva dato. Si imponeva di conseguenza un nuovo
matrimonio. Poiché si auspicava un riavvicinamento a una delle due grandi potenze -
Russia o Austria - fu richiesta allo zar la granduchessa Anna (sorella di Alessandro),
ma nella corte russa l’odio della nobiltà verso Napoleone cresceva con l’inasprirsi del
blocco continentale. Lo zar rispose che l’imperatrice madre riteneva la sedicenne
Anna ancora troppo giovane per sposarsi. Fu allora chiesto all’imperatore d’Austria
Francesco II se era disposto a dare sua figlia Maria Luisa in sposa a Napoleone, ed
egli acconsentì. Nel 1811 Maria Luisa diede alla luce un figlio, Napoleone II, l’erede
tanto desiderato.
LA CRISI DEL SISTEMA NAPOLEONICO E LA SUA FINE
La Campagna di Russia (1811-1812)
I quasi tre anni che vanno dalla battaglia di Wagram all’inizio dell’invasione della
Russia, fra l’estate del 1809 e quella del 1812, erano stati anni sostanzialmente
pacifici per l’Europa. Continuava solo la guerra fra la Francia e l’Inghilterra. Ed era
una guerra che si combatteva per mare e per terra in Spagna, dove Wellington stava
battendo, uno dopo l’altro, i marescialli che Napoleone gli aveva mandato contro.
Intanto la situazione europea si stava degradando a danno di Napoleone; entrò in crisi
l’accordo fra Napoleone e lo zar Alessandro I. Il patto di Tilsit che aveva spartito
l’Europa in due zone di influenza, la parte occidentale alla Francia e quella orientale
alla Russia, non funzionò a lungo.
L’idea di fondo era sconfiggere l’Inghilterra che invece non solo non era stata
sconfitta, ma alzava sempre di più la testa, forte anche delle vittorie di Wellington in
Spagna e in Portogallo. In più la situazione economica, soprattutto negli anni fra il
1810 e il 1811, era molto pesante a causa dei cattivi raccolti e del peso del blocco
continentale.
«Nel settecento, soprattutto verso la fine del XVIII secolo, l’Europa si era abituata a
un commercio sostanzialmente di rapina con il resto del mondo. Adesso tutto ciò era
impossibile e questo pesava sul sistema economico continentale. La deriva della
Russia si fece sempre più marcata, fin quando Napoleone decise che era il momento
di rimettere le cose a posto.» (Valzania, S., p. 140). La sua idea era quella di armare
di un esercito imponente, attingendo a tutti i paesi sotto il dominio francese, e
invadere la Russia.
«Il 22 giugno 1812, Napoleone passò il Niemen con il suo esercito. Tra i cinque e i
seicentomila uomini, un’armata di una dimensione che non si era mai vista, un
numero di cannoni e di cavalli impressionante, un’organizzazione logistica
assolutamente straordinaria. Napoleone sapeva che in Russia non si trovava da
mangiare. Sapeva che il suo esercito non avrebbe incontrato la fertile valle del
Danubio, né quella del Reno, che i suoi uomini non avrebbero potuto vivere scavando
le patate nei campi con le baionette e rubando ai contadini quel poco che avevano
messo da parte per l’inverno, perciò predispose lunghissimi convogli di carri destinati
al trasporto di munizioni, cibo, farina, gallette, viveri. Il piano di Napoleone era di
affrontare il più rapidamente possibile l’esercito russo e di sconfiggerlo.»
L’ esercito russo possedeva una forza di almeno 300 mila uomini, comandati dal
mercenario lituano Barclay de Tolly. I russi non accettarono lo scontro in campo
aperto e si erano ritirati per centinaia di chilometri. Intanto i francesi avevano perso
circa 100 mila uomini a causa del tifo, della difterite, della dissenteria e delle
diserzioni.
Intanto i russi avevano provveduto a cambiare il comando. Era tornato alla testa della
loro armata il vecchio Kutuzov, con il quale Napoleone si era già incontrato sette
anni prima ad Austerlitz nel 1805. Era segno che i russi si preparavano a difendere
Mosca.
Il 7 settembre, nei pressi di Borodino, a circa 125 chilometri da Mosca, i francesi
attaccarono l’esercito russo per tutta la giornata, sino al tramonto. I russi non si
arrendevano come gli austriaci o i prussiani, combattevano fino all’ultimo uomo. Le
perdite per entrambi gli eserciti furono spaventose. Durante la notte Kutuzov,
malgrado il parere contrario di alcuni generali più giovani, decise di ritirarsi. La
strada per Mosca era lasciata aperta.
Il 14 settembre Napoleone era al Cremlino. Aveva conquistato una città simbolo ma
non aveva vinto la guerra. La città era semi deserta e i pochi abitanti rimasti ebbero la
soddisfazione di contemplare un esercito in pessime condizioni, con un ferito ogni tre
soldati e tantissimi malati. Nella notte successiva al suo arrivo una parte della città
era stata data alle fiamme, probabilmente dagli stessi russi. I francesi sarebbero
rimasti in città per più di un mese, fino al 18 ottobre, poiché Napoleone sperava
nell’arrivo degli emissari dello zar per una trattativa di pace. Prolungare la campagna
sino a San Pietroburgo era troppo rischioso a causa dell’inevitabile peggioramento
delle condizioni climatiche. Svernare a Mosca era impossibile per la totale mancanza
di approvvigionamenti. Sordo ai consigli di molti dei suoi collaboratori, che
presagivano le gravi conseguenze dovute all’improvviso arrivo dell’inverno russo,
Napoleone ordinò di abbandonare Mosca il 20 ottobre, troppo tardi. Così iniziò la
rovinosa e fatale odissea del suo esercito.
Prima di lasciare la città i francesi, come una gigantesca banda di ladroni, avevano
depredato tutto quello che c’era da portar via. La strada, calda e siccitosa all’andata,
era rapidamente diventata gelida. Per la maggior parte i cavalli erano privi dei ferri
chiodati adatti a camminare sulla strada ghiacciata e scivolavano spezzandosi le
gambe. La temperatura iniziò a crollare a partire dal 5 novembre e nei giorni
successivi scese sino a 26 gradi sotto zero. Migliaia di cavalli morirono
improvvisamente di freddo. Bisognava camminare con le proprie gambe in
condizioni del tutto insostenibili, senza alimenti e senza equipaggiamento adeguato e
coi russi alle calcagna che colpivano tutti quelli che restavano indietro. I feriti e i
malati venivano abbandonati.
Il 21 di novembre l’esercito napoleonico era formato da una testa ancora organizzata,
di 50-60 mila uomini, che precedeva un ammasso di sbandati, di persone disarmate
che non avevano un reparto, che non avevano l’uniforme, che seguivano l’esercito
nella speranza di tornare a casa. In questo giorno ancora d’autunno lo strano coacervo
di soldati e sbandati si trovò di fronte un fiume largo, la Beresina.
Il momento culminante di questa marcia crudele accadde il 29 novembre quando ciò
che restava dell’esercito francese cercò di passare il fiume. I francesi erano riusciti,
con orribili sacrifici, a costruire due ponti di fortuna sui quali, nonostante gli attacchi
di disturbo dei russi, i soldati francesi riuscirono a passare, mentre migliaia di
sbandati furono lasciati alla mercé dei nemici. La campagna di Russia era fallita.
Adesso bisognava difendere i domini francesi.
La campagna di Francia e la prima abdicazione
Giunto a Parigi il 18 dicembre Napoleone e si mise immediatamente al lavoro e riuscì
a ricostruire un esercito di 300 mila uomini, perlopiù di giovani inesperti e
pensionati. Scarseggiavano anche gli ufficiali che erano quasi tutti morti in Russia. In
più i francesi avevano perso 200 mila cavalli che non potevano essere rimpiazzati.
Senza i cavalli non si possono trasportare i cannoni, ci sono gravi problemi di
ricognizione e di inseguimento. Con queste limitazioni iniziò la campagna del 1813,
che sarebbe finita con la sconfitta di Lipsia.
Nella campagna militare che si scatenò nell’inverno del 1813, in qualche occasione
Napoleone affrontò l’esercito dei russi e dei prussiani e li sconfisse, senza però poter
procedere all’inseguimento necessario a completare l’annientamento del nemico.
E così il primo di giugno del 1813 Napoleone trattò un armistizio, confidando nella
mediazione austriaca. Metternich, il ministro degli esteri austriaco in un colloquio
che si tenne a Dresda e che durò ben 9 ore chiese a Napoleone di abbandonare le sue
conquiste in Europa, comprese quelle italiane. Napoleone rifiutò violentemente
queste richieste, che avrebbero significato una vittoria economica e politica della
Gran Bretagna. L’Austria aderì alla coalizione (sesta) e dichiarò guerra alla Francia.
Ora le forze della coalizione, che ammontavano complessivamente a circa 850 mila
uomini, superavano nettamente quelle di Napoleone.
La resa dei conti avvenne tre il 16 e il 19 ottobre quando, vicino a Lipsia, si ebbe la
cosiddetta battaglia delle nazioni. Napoleone si dovette arrendere alla soverchiante
superiorità dei suoi nemici. Nello stesso periodo i francesi avevano perso la Spagna,
cedendo alle forze inglesi di Wellington. Murat, il re di Napoli era passato
segretamente alla coalizione sperando di conservare il trono. Napoleone sentì per la
prima volta che il grande impero si stava sfasciando. Stava per iniziare la campagna
di Francia.
I commercianti, i finanzieri e la borsa si lamentavano delle continue guerre e
abbandonarono l'imperatore. Nei ceti intellettuali borghesi crebbe l’odio verso il
dispotico governo imperiale che aveva soppresso la stampa, distrutto l'eredità dei
lumi ed eliminato gli ordinamenti costituzionali.
Gli inglesi, lo zar e il re di Prussia ora volevano andare fino in fondo e togliere il
trono a Napoleone. I francesi erano stanchi della guerra, perciò Napoleone per un po’
finse di voler la pace. Ma egli sapeva che, eccetto l’Austria, nessuno desiderava che
egli continuasse a regnare, infatti, in gennaio giunse la notizia che i nemici avevano
varcato il Reno e invadevano la Francia attraverso l’Alsazia e la Franca Contea e che
Wellington dal sud della Spagna aveva fatto irruzione nella Francia meridionale.
La campagna di Francia del 1814, secondo molti, fu un autentico capolavoro di
Napoleone. Anche con una netta inferiorità di forze riuscì in più occasioni a sbarrare
la strada agli eserciti nemici. Tuttavia il 30 marzo 1814 i russi, i prussiani e gli
austriaci entrarono insieme nella capitale francese. Napoleone a Fontainbleau
incontrò i suoi marescialli che gli dissero che non avrebbero più combattuto, che era
inutile continuare a combattere, che non c’erano più speranze. Così Napoleone
accettò a malincuore di arrendersi e gli fu assegnata la sovranità della piccola isola
d’Elba. Egli aveva abdicato a favore del giovanissimo figlio, ma i suoi vincitori non
presero nemmeno in considerazione questa eventualità e sul trono francese fu
insediato Luigi XVIII, il fratello di Luigi XVI, il re decapitato nel 1793.
I cento giorni
Nei primi giorni della sua permanenza all’isola d’Elba Napoleone considerava finita
la sua vita politica e si proponeva di scrivere la storia del suo regno, ma già
nell’autunno 1814 cominciò a seguire attentamente ciò che gli veniva riferito sulla
Francia e sul congresso di Vienna. Luigi XVIII era prudente, ma suo fratello Carlo e
tutti i nobili emigrati si comportavano come se nessuna rivoluzione e nessun
Napoleone fossero mai esistiti. Però essi dovettero presto convincersi che era
impossibile distruggere le istituzioni fondate da Napoleone. Il re fu costretto a
concedere una costituzione, convinto che senza di essa i Borboni non avrebbero
potuto reggersi. La costituzione concedeva il diritto di voto a un ristrettissimo gruppo
di persone molto ricche e permetteva una limitatissima libertà di stampa.
Gli ultrarealisti volevano indietro le terre confiscate durante la rivoluzione,
provocando così agitazioni nelle campagne. Appena caduto l’impero la borghesia
aveva provato un certo senso di sollievo, sorgeva la speranza che le guerre finissero, i
commerci si rianimassero, i reclutamenti avessero fine. Ma alcuni mesi dopo la
caduta dell’impero e l’abolizione del blocco, i manifatturieri cominciarono a
lamentarsi. Le merci inglesi che invadevano l’Europa stavano spazzando via la
produzione francese.
Incapaci di restaurare l’antico regime e di intaccare la struttura eretta da Napoleone i
Borboni pativano una situazione politica molto instabile, specialmente le campagne
erano molto irrequiete. Napoleone non aveva ricevuto i soldi promessi da Luigi
XVIII e non voleva vivere in ristrettezze. Egli ben conosceva lo stato d’animo dei
contadini e quando seppe del crescente malcontento che serpeggiava tra gli ufficiali
che il re aveva messo a mezza paga e che una parte considerevole dell’esercito lo
considerava il solo legittimo sovrano, si decise e il 26 febbraio s’imbarcò per
raggiungere la costa francese vicino a Cannes il primo marzo 1815. Aveva con sé un
migliaio di uomini, qualche cannone e alcuni generali. Prese la strada per Grenoble
passando per le alpi, in modo da evitare i blocchi predisposti nelle arterie principali.
Le truppe passavano all’imperatore senza combattere: provincia su provincia, città su
città cadevano in suo potere senza ombra di resistenza. Il 10 marzo Napoleone entrò a
Lione, dove riconfermò che avrebbe dato alla Francia la libertà interna e la pace. A
Lione firmò l’atto che dichiarava abolite le due camere create da Luigi XVIII e
revocò i giudici nominati dallo stesso re, scelse magistrati nuovi e ricostituì
formalmente l’impero deponendo i Borboni e annullando la loro costituzione, quindi
mosse su Parigi con 15 mila uomini. Il maresciallo Ney era stato incaricato dal re di
fermarlo, ma quando lo incontrò, il 14 marzo ad Auxerre, commise un errore: si
lasciò vedere da Napoleone che lo riconobbe e lo chiamò con tutti i titoli che gli
aveva conferito in battaglia. Ney, anziché riportarlo in una «gabbia di ferro», come
aveva promesso, scoppiò in lacrime e si gettò ai suoi piedi. Il giorno dopo Bonaparte
entrò a Parigi.
Napoleone desiderava la pace che gli avrebbe permesso di regnare in un sistema
costituzionale e trasmettere il trono a suo figlio, ma sapeva che l’Europa avrebbe
fatto di tutto per impedirglielo. Il suo successo era in parte dovuto alla promessa fatta
ai contadini, facile da mantenere, di non restaurare il feudalesimo. Dopo 11 mesi di
monarchia costituzionale e di una certa libertà di stampa, la borghesia si aspettava
quel minimo di libertà che i Borboni le avevano concesso. Napoleone decise quindi
di realizzare una riforma liberale dello Stato che soddisfacesse la borghesia e
pacificasse i giacobini. Propose così al teorico liberale Constant di preparare una
costituzione; Constant non fece altro che riconfermare, con poche varianti, la carta
concessa da Luigi XVIII. Oltre alla camera elettiva dei deputati venne istituita una
"camera alta" i cui componenti erano nominati da Napoleone. Così la costituzione,
sottoposta a plebiscito, fu ratificata e il primo giugno avvenne l’apertura delle
camere.
Il 12 giugno Napoleone raggiunse l’esercito per l’ultima gigantesca battaglia della
sua vita contro l’Europa. Si era formata una nuova coalizione antifrancese (la
settima) decisa a farla finita con Napoleone, dichiarato fuorilegge quale "nemico
dell’umanità". Gli Austriaci erano ancora lontani, quindi la prima cosa da farsi era
respingere gli inglesi e i prussiani; Wellington si trovava con l’esercito inglese a
Bruxelles, Blücher coi suoi prussiani tra Charleroi e Liegi. Il 14 giugno Napoleone
iniziò la campagna invadendo il Belgio; il 16 ci fu una grande battaglia tra Bonaparte
e Blücher presso Ligny in cui Blücher fu sconfitto e respinto. Il giorno seguente
Napoleone consegnò 36 mila uomini del suo esercito al maresciallo Grouchy,
ordinandogli di continuare l’inseguimento dei prussiani, mentre lui col grosso delle
forze puntò direttamente su Bruxelles.
L’esercito di Wellington si trovava sull’altopiano di Mont St. Jean a sud di Waterloo
e attendeva i francesi in questa posizione fortissima deciso a mantenerla a qualunque
costo. Il 18 giugno Napoleone e Wellington si trovavano uno di fronte all’altro,
Napoleone aveva 72 mila uomini e attendeva i 36 mila di Grouchy, Wellington ne
aveva 70 mila e attendeva Blücher con 50 mila. I francesi attaccarono intorno alle
12,00, poiché la terra fangosa dopo una notte di pioggia rendeva difficile posizionare
i cannoni. Dopo alcune ore di battaglia Blücher, che con un inganno era riuscito a
sfuggire all'inseguimento del maresciallo francese, accorse in aiuto degli Inglesi.
Napoleone continuò l’attacco ma gli Inglesi tenevano duro e anche se cadevano a
centinaia non arretravano dalle loro posizioni principali. Napoleone lanciò infine
contro il nemico la vecchia guardia, senza sortire alcun risultato. L’arretramento della
guardia scatenò il panico tra i francesi. La gran parte dell’esercito francese si
disgregò, alcuni reparti si ritirarono lentamente continuando a combattere. Quando
giunse la notte la sconfitta francese apparve in tutta la sua gravità.
Il 28 giugno Napoleone, dopo aver progettato per alcuni giorni di fuggire in
America, accettò di trattare con gli inglesi. Egli decise di affidare la sua sorte
all’Inghilterra e il 15 luglio s’imbarcò sulla nave inglese Bellerofonte per
l’Inghilterra, da cui sarebbe partito per raggiungere la sede del suo esilio, l’isola di
Sant’Elena nell’Oceano Atlantico.
Napoleone a Sant'Elena 1815-1821
Il governo inglese decise di mandare Napoleone sull’isola di S.Elena, una piccola
isola vulcanica collocata tra l’Africa australe e il Brasile, poiché la sua distanza dalla
terraferma avrebbe reso impossibile qualsiasi fuga. Dopo due mesi e mezzo di
navigazione, il 15 ottobre 1815 l’imperatore prigioniero sbarcò dove avrebbe finito i
suoi giorni. Napoleone era cupo e malinconico, leggeva molto, faceva passeggiate a
cavallo, camminava e dettava le sue memorie al conte Emmanuel Las Cases. Già nel
1819 le sue condizioni di salute andarono peggiorando e nel marzo 1821 i terribili
dolori divennero più frequenti: si trattava del cancro, malattia ereditaria nella sua
famiglia. I dolori divennero sempre più atroci e alle 6 di sera del 5 maggio 1821
Bonaparte spirò. Il suo servo Marchand coprì il cadavere col vecchio mantello che
Napoleone aveva indossato durante la battaglia di Marengo.
Considerazioni finali
Sia la storiografia borghese che quella contemporanea definiscono Napoleone il
"compitore" della rivoluzione. Le cose però non stanno proprio così, Napoleone
trasse dalla rivoluzione tutto quanto essa aveva fatto per il "libero" sviluppo
dell’attività economica della borghesia francese, ma domò la tempesta rivoluzionaria.
Egli non fu il "compitore" quanto il liquidatore della rivoluzione. La rivoluzione
borghese di Francia poteva raggiungere il suo scopo storico fondamentale, cioè il
rovesciamento del regime feudale e l’edificazione di quello borghese, anche con la
costituzione di una repubblica democratica, il fatto che la rivoluzione si fosse
conclusa con la vittoria di Napoleone significava quindi che la grande borghesia
aveva sconfitto il proletariato, i sanculotti che tra il 1789 e il 1794 avevano avuto una
funzione rivoluzionaria così grande. Opprimere gli operai, fucilare i giacobini,
governare dispoticamente, distribuire regni ai suoi fratelli, cognati e marescialli, non
si concilia con l’essere il "compitore" della rivoluzione.
Sulla base creata dalla rivoluzione, coi materiali raccolti dalla rivoluzione egli
realizzò una struttura salda per il dominio della borghesia francese. Creò la macchina
statale e le leggi civili, penali e commerciali con le quali la Francia borghese vive
ancor oggi; tuttavia la sua legislazione costituì molto spesso un passo indietro in
confronto a ciò che era stato lasciato in eredità dalla rivoluzione.
Un importante lascito napoleonico fu la riforma del sistema di pesi e misure. Fu lui a
introdurre il sistema metrico decimale, il litro e il chilogrammo. Queste misure
standard vennero estese a tutta l’Europa controllata dai francesi, e non furono
abbandonate con la restaurazione. Solo la Gran Bretagna rifiutò queste novità.
La creazione di “repubbliche sorelle” e di altri stati incoraggiò una nuova idea di
nazione, conferì ad essa una valenza politica totalmente nuova. In tal modo
Napoleone incoraggiò, seppur in modo involontario, lo studio della storia, delle
tradizioni e delle glorie passate (vere o presunte) nei vari stati che egli aveva liberato
dall’Ancien Régime, facendo balenare la possibilità di una dignità e di un potere mai
posseduti.
Si può dire che nell’esperienza dell’esercito sopranazionale c’è per la prima volta un
embrione di idea moderna di Europa, di unità degli stati dell’Europa peninsulare, se
la vogliamo chiamare così.
Per concludere occorre ricordare che Napoleone è stato partecipe e autore di una serie
ininterrotta di guerre con centinaia di migliaia di morti. Però per almeno due
generazioni di francesi, e non solo di francesi, aver combattuto sotto le sue bandiere,
l’aver marciato per tutta l’Europa ai suoi ordini, è stata probabilmente l’esperienza
qualificante di una vita. La monarchia restaura ha cercato di offuscare la memoria del
periodo napoleonico ma, dopo la sua caduta, questa memoria é rinata e si è
sviluppata, diventando una vera e propria mitizzazione. La mitizzazione della sua
figura rappresentava la tipica illusione delle masse. Fu la prima di una serie non
breve di casi (Mussolini, Hitler, Stalin) in cui le masse credettero che un uomo
potesse, grazie alle sue supposte superiori capacità risolvere tutti i problemi. Verso la
metà del XIX secolo un nipote di Napoleone, Napoleone III, sfruttò la fama di cui lo
zio godeva soprattutto tra i contadini per impadronirsi del potere in Francia.
LE RIVOLUZIONI INDUSTRIALI
La 1° Rivoluzione Industriale iniziò in Inghilterra intorno alla metà del XVIII sec. e
si diffuse, nel secolo seguente, in altri Paesi Europei e negli Stati Uniti d'America.
Venne chiamata "rivoluzione" in quanto determinò un radicale cambiamento nei
modi e nelle condizioni di produzione dei beni manifatturieri e in tutti i settori della
vita economica e sociale. Fu grazie all'introduzione di innovazioni tecnologiche che
si sviluppò un nuovo sistema di produzione.
Nella primitiva industrializzazione (XVI - XVII sec.), le attività manifatturiere erano
sparse nelle campagne, nelle quali veniva sfruttata l'energia delle acque correnti per
azionare i macchinari. Inoltre, a causa di questa dislocazione, il prodotto veniva
preparato dalle donne nelle fattorie e ritirato da "proto-industriali" che si spostavano
da una fattoria all'altra sia per ritirare il prodotto finito sia per distribuire la materia
prima.
Il nuovo sistema industriale, invece, prevedeva l'impiego di operai che lavoravano
all'interno delle fabbriche e la sostituzione delle fonti di energia tradizionale (animali,
vento e acqua) con fonti combustibili (carbone) che permisero l'introduzione delle
macchine a vapore. Inoltre le macchine a vapore vennero applicate ai telai delle
industrie tessili ed ai mantici delle fonderie sostituendo parte del lavoro umano e
permettendo la realizzazione di prodotti a basso costo (economie di scala).
Dapprima i settori interessati dalla rivoluzione tecnologica furono quello tessile e
siderurgico, ma ben presto le nuove tecniche interessarono tutti gli altri settori
produttivi.
Nell'ambito del settore tessile l'applicazione delle macchine a vapore, assicurò
produzioni continue di filati e tessuti e promosse il settore chimico per la produzione
di sbiancanti e coloranti.
Abraham Darby 1°, nel 1709 nella valle del Severis, operò la prima fusione del ferro
con il carbon coke in sostituzione del tradizionale carbone di legna, mentre suo nipote
A. Darby 3°, nel 1779, costruì il primo ponte interamente in ferro, considerato in quel
tempo un prodigio di ingegneria e ritenuto oggi uno dei monumenti più significativi
della Rivoluzione Industriale.
Aspetti sociali
La 1°Rivoluzione Industriale ebbe notevoli ripercussioni sociali in quanto
accompagnò tutta una serie di profonde trasformazioni nell'economia e nella vita
sociale.
L'aumento demografico creò la nascita della città industriale, che si popolò di
artigiani e contadini che abbandonarono le campagne per lavorare nelle fabbriche
dando origine al fenomeno dell'inurbamento. Si costruirono alle periferie delle grandi
città abitazioni fatiscenti e insane, prive di servizi igienici. Il lavoro subì una radicale
trasformazione: nelle fabbriche all'operaio non era richiesta una particolare capacità
come invece era richiesta all'artigiano; inoltre la lavorazione a catena costringeva il
lavoratore ad atti ripetitivi e stressanti per 12 - 14 ore giornaliere, in capannoni umidi
per il vapore acqueo accumulato e scarsamente arieggiati.
La società si divise nettamente in 2 ceti:
- Capitalisti (alto-borghesi ricchi, proprietari delle fabbriche)
- Proletari (ricchi di prole, con bassi salari e privi di tutela nel rapporto di lavoro).
Si diffuse così il Lavoro infantile specialmente nelle fabbriche dove i piccoli per la
loro minuta costituzione potevano infilarsi in spazi angusti (es: pulizia di cunicoli,
pulizia di parti interne di macchinari oppure per tenere in funzione i telai anche
quando la lavoratrice adulta si assentava per il pranzo, perché era meno dispendioso
per il padrone pagare un bambino che spegnere e riaccendere la macchina).
LA SECONDA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
Introduzione
La prima rivoluzione industriale, dopo l’avvio negli anni 1760-80 in Inghilterra, si
era diffusa in alcune zone del continente europeo, come il Belgio, la Francia
settentrionale, la Svizzera e la Prussia.
Lo sfruttamento del carbone e la macchina a vapore erano stati gli elementi che
l’avevano caratterizzata, come anche il sistema di fabbrica e la nascita della classe
operaia. Il processo di industrializzazione subì una forte accelerazione dopo il 1850, e
tra il 1870 e il 1910-14 si verificò una seconda e profonda trasformazione nella
produzione industriale, con una maggiore capacità di modificare e facilitare la vita
quotidiana delle persone: questo straordinario cambiamento nel sistema economico fu
chiamato seconda rivoluzione industriale.
L’industrializzazione si diffuse in aree finora rimaste agricole, come l’Italia
settentrionale, il resto della Francia, la Germania unificata, l’Austria, i Paesi
scandinavi e la Russia occidentale. Stati Uniti e Giappone furono, fuori dall’Europa,
gli altri paesi interessati da questa innovazione produttiva. La nuova fase di
espansione economica ebbe i suoi simboli nell’elettricità e nel petrolio, che si
affiancarono e gradualmente si sostituirono al carbone e alla macchina a vapore, e in
una lega, l’acciaio, utilizzato per la costruzione di edifici e per la realizzazione di
infrastrutture. L’Inghilterra conservò il suo primato commerciale ma fu affiancata da
altri paesi, come la Germania e gli Stati Uniti, che progressivamente diventarono i
nuovi paesi guida dell’economia industriale mondiale, proprio nel momento del
passaggio dalla prima alla seconda rivoluzione.
Come l’industria tessile, cotoniera e laniera, aveva dominato la prima, l’industria
siderurgica (ghisa e acciaio), chimica, elettrica e meccanica furono le protagoniste di
questa seconda fase.
Gli avvenimenti politici non furono estranei allo sviluppo che l’industria ebbe in
questi paesi: la Guerra di secessione americana, con la vittoria degli stati
industrializzati del Nord e l’unificazione tedesca, a spese della Francia, furono
determinanti. La seconda rivoluzione industriale vide, infatti, il coinvolgimento dello
Stato nell’economia: esso divenne in alcuni casi finanziatore dell’industria e il più
forte acquirente dei prodotti industriali, in altri, come ad esempio in Italia,
“difensore” della merce nazionale; ricordiamo a tal proposito la politica protezionista
messa in atto dalla Sinistra storica, che rendeva più costosi gli articoli che arrivavano
dall’estero.
Le due rivoluzioni non furono dunque fenomeni distinti, ma fasi diverse di un unico
processo: l’industrializzazione del resto dell’Europa avvenne seguendo il modello
inglese, le aree più progredite fornivano macchinari e tecnologia, e le regioni meno
avanzate mercati e manodopera, come fu ben evidente quando i progressi nei
trasporti consentirono lo spostamento in massa di persone alla ricerca di una vita
migliore.
I nuovi mezzi di comunicazione
I trasporti di merci e passeggeri e le comunicazioni furono tra i settori maggiormente
investiti dallo sviluppo tecnologico: la rete ferroviaria ebbe uno sviluppo imponente,
la navigazione a vapore si intensificò tantissimo, collegando in modo sempre più
rapido l’Europa con l’America, grazie a piroscafi grandi e sicuri.
In Europa e negli Stati Uniti la costruzione della rete ferroviaria fu l’aspetto più
evidente dello sviluppo industriale.
Il treno, già simbolo di modernità, divenne ancora di più il mezzo per collegare i
luoghi e la ferrovia fu indispensabile nel collegare la costa orientale degli Stati Uniti
con quella occidentale (1869). L’inaugurazione nel 1888 della linea ferroviaria che
congiungeva Parigi a Costantinopoli con il mitico treno Orient-Express fu uno dei
momenti di gloria della storia dei trasporti terrestri, mentre la ferrovia Transiberiana
che collegava Mosca con Vladivostok fu costruita tra il 1891 e il 1905.
Fu questa l’epoca dei trafori delle Alpi: il Fréjus, il Gottardo e il Sempione furono
inaugurati in questi anni.
Per quanto riguarda i trasporti marittimi, le imbarcazioni a vela avevano ormai
raggiunto il loro punto più alto, mentre quelle a vapore poterono trarre dalla
tecnologia enormi vantaggi. Gli scafi in acciaio resero le navi più resistenti e i
trasporti via mare furono semplificati anche grazie alla costruzione di canali artificiali
navigabili quali:
- il canale di Suez, aperto il 17 novembre 1869, che permetteva la navigazione diretta
dal Mediterraneo all'Oceano Indiano, evitando in questo modo di circumnavigare
l'Africa, come era accaduto finora;
- il canale di Panama, inaugurato nel 1914, che attraversava l'istmo di Panama in
America Centrale, consentendo di collegare l’Oceano Atlantico con il Pacifico.
Questa fu l’epoca dell’invenzione del motore a combustione interna e degli
pneumatici, che trovarono applicazione pratica nelle prime automobili.
L’utilizzo della benzina, derivato del petrolio, portò ad una nuova versione del
motore a scoppio che, applicata alla carrozza, portò alla fabbricazione delle prime
automobili.
Nel 1883 l’ingegnere tedesco Göttlieb Daimler brevettò il primo motore a benzina e
nel 1886 l’industriale e tecnico tedesco Carl Friedrich Benz presentò la sua prima
automobile.
Nel 1926 la sua società si fuse con la società di Daimler, la Daimler-Motoren-
Gesellschaft, dando vita alla Daimler-Benz A.G., produttrice delle autovetture
Mercedes. Ma l’industria automobilistica ebbe uno sviluppo vertiginoso soprattutto
negli Stati Uniti dove l’industriale Henry Ford fondò nel 1903 una delle maggiori
case automobilistiche mondiali, la Ford Motor Company.
La sua idea vincente fu quella di costruire una macchina semplice e leggera,
affidabile sul piano della qualità e offerta a un prezzo accessibile alla maggior parte
degli americani. Nacque così il famoso modello "T", prodotto dal 1909 al 1926 in 15
milioni di esemplari. Un risultato del genere fu reso possibile grazie all'introduzione
del lavoro in grande serie e all’utilizzo della catena di montaggio, secondo i principi
del taylorismo1, elementi alla base di un nuovo sviluppo industriale. Taylor, infatti,
aveva inventato un metodo di produzione che permetteva di fabbricare più manufatti
in un arco di tempo ristretto. Il processo di produzione consisteva nel porre dinanzi
agli operai un nastro trasportatore su cui si trovavano gli oggetti da assemblare. Gli
operai svolgevano sempre lo stesso tipo di lavoro con gesti ripetitivi che permetteva
loro di diventare sempre più veloci e, di conseguenza, di produrre un numero
maggiore di manufatti.
Ma prima dell’automobile per tutti, ci fu la bicicletta: pedalare divenne il modo per
spostarsi di tante persone. La bicicletta ebbe ruote più resistenti, agevolata anche dai
nuovi tipi di pavimentazione, il macadam e l’asfalto.
Fecero la loro comparsa i primi prototipi di aeroplano: altra grande invenzione di
questa età “in movimento”. I fratelli statunitensi Wilbur e Orville Wright realizzarono
il primo aeroplano in grado di alzarsi dal suolo e volare, anche se inizialmente solo
per alcuni metri; nel 1909 il francese Louis Blériot sorvolò la Manica in aereo.
Ancora prima, precisamente nel 1877, a Milano si alzò in volo per 13 metri il primo
elicottero con motore a vapore, costruito dall’Ing. Enrico Forlanini.
Le invenzioni e la tecnica cambiano le abitudini di vita
Oltre ai trasporti, notevole sviluppo ebbero anche i mezzi di comunicazione: il
telefono, inventato nel 1871 dall’italiano Antonio Meucci ma brevettato da
Alexander G. Bell, e il telegrafo, frutto degli studi di Samuel Morse e perfezionato da
Guglielmo Marconi, accorciarono ancora le distanze, anzi forse furono queste le
invenzioni che inaugurarono definitivamente l’età contemporanea, con la loro
capacità di far comunicare le persone a distanza.
La scoperta del petrolio, l’invenzione delle macchine e, non ultimo, la produzione
dell’elettricità, utilizzata nelle industrie e nei trasporti, furono i simboli del
cambiamento della vita quotidiana delle persone
Nel 1879 iniziarono a viaggiare la prima locomotiva e il tram elettrico, le case
vennero collegate alla rete di distribuzione dell’energia elettrica e, quando negli Stati
Uniti Thomas Alva Edison inventò la lampadina, fu risolto il problema
dell’illuminazione dei luoghi e degli ambienti; in questo modo le città diventarono
più luminose e anche più sicure.
Nel 1870, a Londra, fu inaugurata la prima stazione della metropolitana sotterranea,
la stazione di Baker Street.
La macchina da cucire, la macchina da scrivere e il grammofono furono altri oggetti
che iniziarono a far parte delle case dell’epoca.
Nel 1895 apparvero le prime immagini in movimento: i francesi fratelli Lumière
inventarono la macchina da presa e di proiezione e L'uscita dalle officine Lumière
(titolo originale La Sortie de l'usine Lumière) fu il primo film ad essere visto dal
pubblico.
Negli Stati Uniti dal 1859 si estraeva il petrolio e nel 1870 John Rockfeller fondò la
Standard Oil Company, società per raffinare il petrolio.
Grandi progressi si registrarono anche in ambito medico: si capì il legame tra igiene
e infezioni, il modo in cui avviene il contagio e come si diffondono le malattie.
La ricerca medica beneficiò dei progressi della tecnologia e condusse
all’individuazione di microbi e bacilli, causa di tante malattie come la malaria, la
tubercolosi, il colera e la peste, e alla diffusione della vaccinazione come strumento
di prevenzione.
Il francese Louis Pasteur, padre della moderna microbiologia, realizzò il siero
antirabbico, per curare la rabbia trasmetta dal morso infetto del cane, e la
pastorizzazione (procedimento per la conservazione di alimenti mediante il
raggiungimento di una temperatura di 80°).
Migliorò l’igiene e con l’introduzione di procedimenti asettici (la sterilizzazione degli
strumenti chirurgici mediante disinfettanti) e di procedimenti anestetici4 (utilizzo di
sostanze, come per es. il cloroformio e l’etere, che eliminano il dolore durante
l’intervento chirurgico), calò la mortalità operatoria dall’80% al 3%.
Robert Koch nel 1905 ricevette il Premio Nobel per la medicina per aver scoperto il
bacillo responsabile della tubercolosi; nel 1912, invece, ricevette il Premio Alexis
Carrel per la chirurgia vascolare e per i trapianti d’organo.
I governi iniziarono a pensare a misure generali di profilassi e a prendere
provvedimenti in merito.
La vita nelle città migliorò: esse furono dotate di una rete fognaria costruita con
tubature metalliche, vennero realizzati nuovi acquedotti pubblici per la fornitura di
acqua corrente nelle case, furono demoliti gli edifici malsani e allargati i vicoli,
nacquero i moderni ospedali.
Dal 1875 l’aspirina contro la febbre fece la comparsa nelle case e sono di questo
periodo le prime anestesie; la scoperta dei raggi X da parte del tedesco W. C.
Röntgen nel 1895 fu l’inizio della radiodiagnostica moderna.
Grande crescita ma anche crisi
Questi furono anni di straordinaria produzione e l’Europa e gli Stati Uniti ne furono
senza dubbio gli attori principali. Eppure anche questa fase di notevole sviluppo
economico fu epoca di crisi che, per la prima volta nella storia, fu di
sovrapproduzione, nota anche come “grande depressione”. Se le crisi economiche
finora erano state legate alla penuria di beni, le cosiddette carestie, ora la crisi nacque
dal produrre troppo e dal non riuscire a vendere ciò che era stato realizzato: si
produceva più di quanto il mercato occidentale riuscisse ad acquistare, e quindi la
crescita industriale rallentò. Abbassare i prezzi, trovare nuovi mercati dove vendere i
prodotti e la pubblicità, furono tra i principali rimedi a questa crisi di tipo “nuovo”.
La pubblicità, come oggi la intendiamo, nacque proprio in questo periodo con
l’obiettivo di invogliare le persone ad acquistare beni.
La crisi fu anche agricola: in Europa, grazie al grande sviluppo della navigazione a
vapore e dunque a trasporti marittimi più veloci ed efficienti, arrivarono enormi
quantità di grano, il cosiddetto “grano americano”, più conveniente di quello europeo.
Le grandi e fertili pianure americane che i coloni coltivavano in modo intensivo con
macchinari molto avanzati, tecniche moderne e concimi chimici, producevano enormi
quantità di grano e dunque, nonostante le spese di trasporto, il suo prezzo era più
basso. La concorrenza americana fece crollare il prezzo dei cereali, spingendo molti
europei ad emigrare in massa.
Se gli anni della seconda rivoluzione furono sostanzialmente anni di grande crescita,
tuttavia nel suo interno possiamo individuare tre fasi diverse che si possono
riassumere così:
• sviluppo (1850-70)
• crisi (1873-96)
• ripresa (1896-1910).
I governi reagirono con il protezionismo, imposero cioè dazi sulle merci di
importazione, in modo che i prodotti esteri costassero di più e i consumatori fossero
spinti ad acquistare i prodotti nazionali.
Dalla libera concorrenza alle concentrazioni industriali
Il modello industriale inglese che si era affermato in Europa (1780-1850), era in
fondo molto semplice: ogni industria produceva i propri prodotti e il padrone,
l’industriale, era in libera concorrenza6 contro tutti gli altri.
Nella seconda fase (1880-1910) tutto questo cambiò: nacquero le grandi
concentrazioni industriali. Gli imprenditori capirono che, se volevano aumentare i
loro guadagni, dovevano allearsi.
Ridurre i costi di gestione dei singoli stabilimenti, trovare un accordo per ottenere un
prezzo inferiore nell’acquisto delle materie prime, furono solo alcuni degli
accorgimenti che gli industriali misero in atto per risparmiare sui costi di produzione
e aumentare di conseguenza il profitto.
In Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti i proprietari delle industrie cercarono di
ridurre il numero delle singole fabbriche, aumentando di conseguenza le dimensioni
degli impianti e il numero di operai impegnati, concentrazione dei siti produttivi.
In termini economici dunque si parla di:
• fusione, quando si concentrano imprese che producono lo stesso prodotto;
• trust, quando si concentrano imprese complementari, che hanno cioè bisogno una
dell’altra come un’azienda automobilistica e una di pneumatici;
• cartello, quando le singole imprese si mettono d’accordo sul prezzo di vendita,
conservando però la loro indipendenza.
La concentrazione può avvenire anche tra banche e imprese e questo avviene quando
in cambio di un prestito la banca ottiene, a garanzia, proprietà di parte dell’impresa.
Le Esposizioni Universali e la nascita della potenza economica degli Stati Uniti
Nel 1851, a Londra, in un edificio costruito per l’occasione, si tenne la prima delle
grandi mostre per far vedere al mondo i progressi della scienza e della
tecnica, la cosiddetta Esposizione universale. Lo stesso edificio, il Crystal Palace,
distrutto da un incendio nel 1936, tutto in vetro e acciaio, era esso stesso la
celebrazione della grandezza e dell’orgoglio inglese.
L’Esposizione londinese fu seguita da altre, tra le più famose quella di Parigi del
1889, data scelta per celebrare il centenario della Rivoluzione.
Per l’Esposizione parigina fu costruita la Tour Eiffel, una torre di acciaio alta 300
metri che prende il nome dal suo progettista, l’ingegnere Gustave Alexandre Eiffel,
oggi simbolo di Parigi e della Francia, ma che all’epoca fu molto criticata e rischiò di
essere demolita, se non si fosse rivelata una piattaforma ideale per le antenne di
trasmissione necessarie alla nuova scienza della radiotelegrafia.
Tra le esposizioni che seguirono alla prima, ricordiamo anche quella di Filadelfia del
1876, allestita per celebrare il centenario della Dichiarazione di indipendenza degli
Stati Uniti d'America, e quella di Chicago del 1893, dove gli Stati Uniti emersero
come la nazione regina del nuovo corso dell’economia mondiale.
La crescita economica di questo paese fu favorita dalla grande abbondanza di materie
prime e dalle grandi pianure fertili. Per sfruttare le materie prime e le risorse
minerarie, furono costruite migliaia di chilometri di linee ferroviarie per consentire
alle persone di muoversi e trasportare i materiali.
I vagoni-frigorifero per trasportare e conservare la carne, i barattoli di latta a chiusura
ermetica, la mietitrice a vapore, furono solo alcune delle invenzioni che fecero
decollare l’industria americana, strappando il primato di produzione di acciaio
all’Inghilterra.
Gli Stati Uniti divennero meta di persone che arrivarono in massa, soprattutto
dall’Europa, e le città americane di conseguenza si ingrandirono.
La popolazione aumenta e si sposta: urbanesimo ed emigrazione
Nascevano continuamente nuovi settori produttivi, e questo influenzò la società.
I grandi proprietari di industrie e banche formarono l’alta e ricca borghesia, nuova
classe dirigente che in Europa affiancò e sostituì l’antica nobiltà.
La borghesia, in tutti i Paesi investiti dalla rivoluzione industriale, tentò di ottenere il
monopolio della produzione in un determinato settore, avviando la concentrazione
delle industrie nelle mani di pochi grandi proprietari, produttori dei beni acquistati e
utilizzati dalla classe media, che costituì, ieri come oggi, il principale destinatario
della produzione in serie dell’industria.
I contadini e gli operai furono gli altri gruppi sociali di questa “nuova” società, i
primi sempre più attirati dalla fabbrica.
I progressi industriali migliorarono le condizioni di vita della popolazione. Il cibo più
abbondante, grazie ai concimi chimici e alla meccanizzazione dell’agricoltura e
meglio conservato, in seguito all’invenzione delle celle frigo, fece in modo che la
gente si nutrisse di più e in modo più vario.
La popolazione aumentò anche grazie ai progressi della medicina: morivano meno
persone perché erano curate meglio e il loro fisico era più resistente alle malattie
anche perché meglio nutrito. La durata media della vita si allungò e si abbassò il tasso
di mortalità.
La maggior parte delle persone, in Europa come negli Stati Uniti, viveva ancora in
campagna ma questa era meglio collegata con la città mediante reti stradali, fluviali e
ferroviarie. Sulla costruzione di queste reti influì molto l’aspetto morfologico dei
luoghi: ad esempio le ampie pianure e i fiumi navigabili della Francia favorirono il
diffondersi dei collegamenti, a differenza dell’Italia, dove lo sviluppo delle
comunicazioni fu ostacolato proprio dalla natura del territorio.
Lo sviluppo industriale aveva comunque favorito lo spostamento dalla campagna alla
città: se alla metà dell’Ottocento solo due città europee, Londra e Parigi, avevano una
popolazione superiore ai 500.000 abitanti, nel 1910 più di trenta città europee erano
agli stessi livelli.
L’aspetto delle città europee cambiò moltissimo: i lavoratori delle fabbriche
abitavano nei quartieri periferici che erano nati intorno alle fabbriche (gli slums); le
abitazioni operaie erano piccole, vi alloggiavano in tanti in condizioni igieniche
molto precarie, fattori che favorivano il diffondersi di malattie, come il vaiolo e il
colera. Erano anche quartieri pericolosi: incendi, epidemie, malavita ed alcolismo
erano problemi all’ordine del giorno. Si fece sempre più evidente la distinzione tra
centro e periferia; nel centro la cattedrale, la piazza e il mercato, luoghi simbolo dello
sviluppo urbano, furono affiancati da uffici, banche, vie eleganti, grandi magazzini e
stazioni ferroviarie. L’aspetto delle città statunitensi cambiò non solo per la nascita di
nuovi quartieri, ma anche per la costruzione di grattacieli, edifici in cemento armato
alti più di 15-20 piani. Città emblema di questo cambiamento furono Chicago e New
York.
Le persone si muovevano non solo dalla campagna verso la città, dove c’erano le
fabbriche, ma anche da una nazione all’altra e da un continente verso un altro: le
destinazioni furono dunque continentali, cioè europei che si spostavano verso altri
paesi europei, e intercontinentali, dall’Europa verso altri continenti.
L’emigrazione si intensificò moltissimo: tra il 1820 e il 1914 sessanta milioni di
persone lasciarono i loro paesi, di cui 21 milioni tra il 1870 e il 1900.
Verso la fine dell’Ottocento miseria, ricerca di un lavoro e speranza di una vita
migliore furono le cause principali dell’intenso flusso migratorio.
Fu un’emigrazione volontaria e non coatta, com’era successo agli africani ridotti in
schiavitù e costretti a lavorare nelle piantagioni americane, o come nel caso della
deportazione degli ebrei nel corso della Seconda guerra mondiale.
La durata della permanenza nei luoghi scelti poteva essere temporanea o definitiva.
Tra coloro che decisero di partire, ci furono soprattutto italiani, irlandesi, polacchi,
russi, belgi; andarono in Inghilterra, Germania, Austria, Francia Svizzera, ma anche
negli Stati Uniti, Canada, America latina, Australia e Nuova Zelanda.
Il progresso industriale favorì anche lo sviluppo dell’istruzione: le fabbriche, oltre ad
operai addetti alle operazioni più semplici, avevano bisogno di manodopera più
istruita per le operazioni più complesse. C’era bisogno anche di persone che
sapessero leggere e scrivere e gli Stati favorirono e resero obbligatoria l’istruzione
elementare.
Nacquero le prime scuole professionali e tecniche, per rispondere alle esigenze
formative provenienti dalla nuova realtà produttiva. Uno dei motivi che fecero della
Germania il Paese europeo più forte economicamente fu l’ottimo livello di
preparazione tecnica degli ingegneri tedeschi ottenuto a seguito della riforma del
sistema scolastico.
L’infanzia povera, che non frequentava la scuola e che tra i sei e dodici anni veniva
avviata al lavoro minorile, costituì un aspetto negativo del grande processo
industriale.
La questione sociale e i partiti operai
Agli inizi dell’Ottocento gli operai inglesi avevano iniziato a riunirsi in associazioni,
dette leghe, autorizzate ufficialmente con la legge del 1824. Nacquero anche le prime
Società di mutuo soccorso.
Le condizioni di vita molto dure sfociarono spesso in un diffuso malcontento e gli
operai iniziarono a protestare e a scioperare, per ottenere migliori condizioni
lavorative.
Ancora una volta la reazione dell’autorità fu dura e in alcuni casi ricorse
all’intervento dell’esercito nei confronti dei manifestanti.
In Inghilterra negli anni Venti dell’Ottocento nacquero le prime Trade Unions
(sindacati dei lavoratori) e negli anni Trenta le prime forme di legislazione sociale, le
prime leggi cioè a tutela dei lavoratori. La diffusione della rivoluzione industriale
nell’Europa continentale andò di pari passo con la diffusione di queste forme di tutela
del lavoro. Sempre negli anni Trenta nacque il movimento Cartista per ottenere il
suffragio universale maschile, dal quale gli operai erano esclusi, e assicurarsi dunque
dei rappresentanti in Parlamento.
Nella seconda metà dell’Ottocento l’aumento della produzione industriale fece
accrescere il numero degli operai impiegati nelle fabbriche; le crisi periodiche di
sovrapproduzione e la conseguente paura di perdere il lavoro fecero accettare
condizioni di lavoro molto dure e salari bassi.
L’unico bene che possedeva questo gruppo sociale era la prole, cioè i figli, e da qui
nacque il nome di proletariato che servì ad indicarlo.
Nel corso dell’Ottocento alcuni esponenti della borghesia iniziarono a parlare di
“questione sociale”, cioè una situazione di diffuso disagio sociale, e a
proporre alcune soluzioni.
I primi socialisti, Robert Owen, Charles Fourier e Claude-Henry de Saint-Simon,
volevano una società più giusta senza però cambiamenti radicali (da qui il nome di
“socialisti”); proprio per questo furono definiti “utopisti”, cioè sognatori, da Karl
Marx e Friedrich Engels, che sostennero che senza cambiamenti radicali, i borghesi
non avrebbero mai rinunciato ai loro privilegi. Marx ed Engels si definirono
“comunisti” e sostennero che per una società più giusta, era necessaria non la riforma
della società ma la rivoluzione con l’eliminazione della proprietà privata dei mezzi di
produzione e dei beni.
I sindacati non partecipavano però alla vita politica e a questo scopo nacquero i primi
Partiti dei lavoratori: nel 1875, in Germania, il Partito Socialdemocratico Tedesco,
nel 1892, in Italia, il Partito Socialista Italiano e nel 1906 in Inghilterra il Labour
Party. Questi furono i primi partiti di massa con un grande numero di iscritti ed
ebbero la caratteristica di essere “riformatori”: non volevano la rivoluzione, ma
intendevano ottenere i diritti con la lotta politica.
Queste idee politiche si diffusero ben presto così come la convinzione che tutti i
lavoratori fossero fratelli, pur di nazioni diverse: nel 1864 a Londra nacque la Prima
Internazionale, cioè l’Associazione fra i rappresentanti dei sindacati e movimenti
operai di diversi paesi.
Ne facevano parte i socialisti riformatori, i marxisti rivoluzionari e gli anarchici,
gruppo che sosteneva la lotta contro ogni forma di autorità. Le differenze fra i diversi
schieramenti portarono allo scioglimento della Prima Internazionale e nel 1889 a
Parigi nacque la Seconda Internazionale, con la partecipazione dei socialisti e dei
marxisti.
In questa sede prevalse l’orientamento dei partiti socialisti che sostennero
l’importanza della partecipazione delle classi meno abbienti alle elezioni e la
necessità di attuare riforme sociali.
Tra gli obiettivi della Seconda Internazionale ci furono la giornata lavorativa di otto
ore e la celebrazione di una Festa dei lavoratori, la cui data fu fissata nel 1° maggio.
Questo orientamento dell’Internazionale durò fino al 1914 quando in Europa scoppiò
la Prima guerra mondiale.
IN SINTESI
Il processo di industrializzazione nato in Inghilterra alla fine del Settecento subì una
forte accelerazione dopo il 1850, e tra il 1870 e il 1910 si verificò una seconda
rivoluzione industriale in Europa, Stati Uniti e Giappone.
L’elettricità, il petrolio, l’acciaio, il motore a scoppio e la chimica furono i simboli di
questa nuova fase di espansione economica.
L’Inghilterra conservò il suo primato commerciale ma fu affiancata da altri Stati,
come la Germania e gli Stati Uniti, che diventarono i nuovi paesi guida
dell’economia industriale mondiale. La tecnologia fece grandi progressi e in questo
periodo furono inventati tanti oggetti che rivoluzionarono la vita quotidiana delle
persone.
I trasporti di merci e passeggeri e le comunicazioni furono tra i settori maggiormente
potenziati: la rete ferroviaria ebbe uno sviluppo imponente e la navigazione a vapore
sostituì quella a vela; biciclette e automobili si diffusero sempre di più.
Il telefono e il telegrafo permisero la comunicazione a distanza. L’elettricità, prodotta
nelle centrali elettriche, fu impiegata nelle industrie, nei trasporti e nella vita
quotidiana delle persone. Le città diventarono più luminose e anche più sicure.
La macchina da cucire, la macchina da scrivere e il grammofono furono altri oggetti
che iniziarono a far parte delle case dell’epoca. La crescita vertiginosa della
produzione industriale provocò per la prima volta una crisi di sovrapproduzione. Le
industrie risposero alleandosi fra loro e costituendo le prime concentrazioni
industriali; esse instaurarono anche forti legami con le banche. I governi invece
risposero con il protezionismo. Fu anche l’epoca delle esposizioni universali, grandi
mostre allestite in edifici costruiti per l’occasione. L’emigrazione si intensificò
moltissimo: in questo periodo moltissimi europei lasciarono i loro paesi ed andarono
in altri stati, soprattutto negli Stati Uniti; le città americane si ingrandirono e
iniziarono ad assumere l’aspetto attuale.
Le cause principali dell’intenso flusso migratorio furono miseria, ricerca di un lavoro
e speranza di una vita migliore.
La seconda rivoluzione industriale ebbe delle conseguenze anche sociali: i grandi
proprietari di industrie e le banche formarono l’alta e ricca borghesia, produttori dei
beni acquistati e utilizzati dalla media borghesia. I contadini e gli operai furono gli
altri gruppi di questa “nuova” società.
La durata media della vita si allungò e si abbassò il tasso di mortalità. La maggior
parte delle persone viveva ancora in campagna, ma questa era meglio collegata
con la città mediante reti stradali, fluviali e ferroviarie. L’aspetto delle città cambiò
moltissimo: i lavoratori delle fabbriche abitavano nei quartieri
operai periferici e si fece sempre più evidente la distinzione tra centro e periferia; nel
centro la cattedrale, la piazza e il mercato, luoghi simbolo dello sviluppo urbano,
furono affiancati da uffici, banche, vie eleganti, grandi magazzini e stazioni
ferroviarie.
Il progresso industriale favorì anche lo sviluppo dell’istruzione: le fabbriche, oltre ad
operai addetti alle operazioni più semplici, avevano bisogno di manodopera più
istruita per le operazioni complesse. Nacquero le prime scuole professionali e
tecniche, per rispondere alle esigenze formative provenienti dalla nuova realtà
produttiva.
In questo periodo sorsero anche i primi sindacati, in difesa dei diritti dei lavoratori, e il partito socialista, che ebbe un grande numero di iscritti.
L’IMPERIALISMO E IL NAZIONALISMO
Premessa
Il colonialismo che durante la Seconda rivoluzione industriale riesplose e nel 1850-
1860 la situazione era la seguente:
• Le colonie inglesi del Nord America erano diventate indipendenti e avevano
costituito gli Stati Uniti;
• Le colonie spagnole e portoghesi dell'America centro-meridionale avevano
ottenuto anch'esse l'indipendenza;
• Le poche colonie rimaste all'Europa in Asia, in Africa o nelle isole dell'America
centrale sembravano poco interessanti dal punto di vista economico con la sola
eccezione dell'India, saldamente dominata dalla Gran Bretagna.
Durante la Seconda rivoluzione industriale si era assistito a nuove scoperte anche in
campo sanitario e igenico (per esempio nuovi vaccini) quindi si era ridotta la
mortalità, di conseguenza la popolazione dell’Europa stava aumentando.
Nel corso del secolo, quindi, la popolazione europea era aumentata e, dal 1860,
grandi masse di tutte le nazioni, non trovando lavoro in patria cominciarono a
prendere la via dell'emigrazione e a inserirsi non solo nelle due Americhe, ma anche
in Asia e in Africa. Finanzieri e banchieri, a loro volta, guardandosi attorno per
cercare nuovi investimenti, collocarono grandi quantità di denaro nelle miniere e
nelle piantagioni di altri continenti; di conseguenza, vollero difendere i loro capitali e
sorvegliare da vicino i paesi in cui li avevano impegnati.
A tutto ciò era congiunta una radicata convinzione di una superiorità biologica della
propria razza rispetto alle popolazioni di quei paesi che non riuscivano a dare lo
slancio alle loro economie, in particolare i popoli africani.
Paesi che recentemente avevano conseguito un solido sviluppo economico, al quale si
era aggiunto anche l'elemento di un capitalismo che non era più "industriale" ma
"finanziario" (cioè sorretto da prestiti da parte di istituti di credito), ritenevano
l'espansione verso territori d'oltremare una buona causa per:
a) impossessarsi dei beni a basso costo;
b) opportunità di investimento dei capitali in territori nei quali era possibile
avviare attività ad alto profitto.
Inoltre gli esperti di economia, quindi banchieri e finanzieri, erano preoccupati per
la crisi di sovrapproduzione che si era verificata tra il 1873 e il 1895 e nota poi
come "Grande depressione" causata che dal fatto che le industrie producevano
molto più di quanto il mercato potesse assorbire sotto forma di consumi. L'indice più
vistoso della crisi fu la caduta dei prezzi e la conseguente inflazione. Era evidente
quindi per tutti che la produzione delle industrie era eccessiva rispetto alla capacità di
acquisto dei soli Europei. Quindi serviva che i continenti scoperti nei secoli
diventassero anch'essi dei mercati in cui vendere le merci.
Oltre a motivazioni economiche, gli europei erano spinti verso altri continenti anche
dalla convinzione di avere una responsabilità di esportare la civiltà bianca. Il
progresso raggiunto dall'Europa in tutti i campi, tecnologico, sociale, medico doveva
esservi esportando anche nei territori molto più arretrati.
Il progresso raggiunto dall'Europa in tutti i campi, tecnologico, sociale, medico
doveva esservi esportando anche nei territori molto più arretrati. Anche i diritti umani
erano un campo cui per esempio i britannici puntavano molto ad esportare.
Riassumendo, le motivazioni possono essere divise in:
• Motivazioni economiche:
• emigrazione dall'Europa verso gli altri continenti
• investimenti nelle miniere e nelle piantagioni da parte dei finanzieri
• crisi di sovrapproduzione nel 1873 in Europa
• Motivazioni religiose e culturali:
• la credenza degli Europei di avere una missione: cioè quella di portare
la civiltà bianca ritenuta la migliore anche negli altri continenti;
• Conoscere luoghi inesplorati;
• Evangelizzazione dei vari popoli al cristianesimo con l'invio di
missionari che evangelizzavano le popolazioni native.
Imperialismo
Queste motivazioni causarono la creazione di una nuova forma di colonialismo che
assunse il nome di politica imperiale da cui deriva il nome di imperialismo.
L’Europa padroneggiava i mezzi di comunicazione intercontinentali, ma le sue navi
avevano bisogno di scali sicuri per approvvigionarsi di carbone durante le lunghe
traversate. Contemporaneamente gli imprenditori volevano allargare i propri mercati
e avere serbatoi di materie prime che non potevano procurarsi in Europa, come per
esempio il petrolio e il caucciù. Le classi dirigenti dell'Ottocento tradussero tutte
queste necessità in Imperialismo, cioè in una nuova forma di colonialismo che, per la
prima volta, mirò sia al totale sfruttamento economico dei paesi colonizzati sia al loro
controllo territoriale.
Esso si concretizzò attraverso:
• La conquista militare di vaste zone per prenderne il controllo ed
assicurare la pace tra le popolazioni locali
• Il controllo politico delle nuove colonie attraverso funzionari europei
• Lo sfruttamento economico con lo scopo di commercializzare le materie
prime e di rivenderne i prodotti finiti in Europa.
Nelle colonie le leggi diventarono di tipo europeo, seppur con qualche modifica
poiché gli indigeni africani o aisatici non godevano certamente dello stesso
trattamento riservato ai coloni europei.
Le colonie venivano sfruttate con le monocolture.
Nell'Ottocento l'Africa a differenza dell'Asia era un continente quasi interamente
libero. Quindi quando le nazioni imperialiste vollero conquistare delle colonie si
"gettarono" tutte insieme alla conquista dell'Africa.
Per permettere la conquista dell'intero continente sono stati determinanti alcuni
elementi:
• Le malattie che sono state curate e hanno ridotto la mortalità degli occidentali dal
25-50% al 5%,
• In questi anni si riscontra un aumento del vantaggio tecnologico dell'Occidente
nei confronti del continente africano,
• Esplorazioni: dal 1850 gli stati europei finanziano esplorazioni geografiche ed
istituti geografici per acquisire informazioni sulle parti più interne dell'Africa che
erano totalmente sconosciute.
• Giustificazione intellettuale: il mondo intellettuale fornì il pretesto di fornire
civilizzazione e conoscenze alle popolazioni africane, che in quanto meno
evolute, non erano in grado di accedere autonomamente alla civiltà.
Imperialismo inglese
L'imperialismo divenne una forma universale di azione politico-economica delle
potenze industrializzate o che erano sulla via dello sviluppo capitalistico ed ebbe
allora la sua manifestazione principale nelle conquiste coloniali o
nell'assoggettamento economico di alcuni paesi ridotti a condizioni di semi-colonie.
Sterminate regioni furono inserite nell'area della civiltà moderna, ma nella forma
della subordinazione coloniale e quindi in condizioni drammatiche di inferiorità. I
presupposti ideologici delle tendenze imperialistiche, inizialmente enunciati in
Inghilterra in un'opera di Charles Dilke (la più Grande Bretagna, 1868) trovarono
larga risonanza nella cultura europea. Il tema principale era l'affermazione della
superiorità di determinate razze e nazioni nei confronti degli altri popoli della terra.
Poiché questi ultimi erano incapaci di utilizzare le ricchezze dei loro paesi, le nazioni
"superiori"rivendicavano il loro diritto di impadronirsene. Scrittori e uomini politici,
tra cui il ministro delle Colonie Joseph Chamberlain e il narratore Rudyard Kipling,
applicarono queste tesi al popolo inglese ed elaborarono il tema della missione di
civiltà che l'Inghilterra doveva svolgere nel mondo. A loro si aggiunsero uomini
d'affari come Cecil Rhodes (eroe dell'imperialismo inglese arricchitosi con lo
sfruttamento dei giacimenti diamantiferi dell'Africa del Sud) i quali colpirono
l'opinione pubblica, più che con la propaganda delle idee, con la pratica
dimostrazione delle possibilità di profitto offerte dalle imprese coloniali. Di
fondamentale importanza per la politica imperialista inglese fu la spartizione
dell'Africa in cui l'Inghilterra stabilì il proprio protettorato nelle regioni d'Egitto,
Sudan e diversi territori dell'Africa del Sud. Acquistò inoltre le colonie della Somalia
e della Nigeria; il governatore della Colonia del Capo, il sopracitato Cecil Rhodes
fece inoltre numerosi tentativi per impadronirsi anche dei territori boeri fino a
provocare lo scoppi di una guerra (1899-1902). La resistenza dei boeri, che suscitò
una larga simpatia nell'opinione pubblica europea fu stroncata alla fine dalla
superiorità militare e dai metodi brutali adottati dagli inglesi. Con la pace di Pretoria
(1902) le due Repubbliche boere dei Transvaal e dell'Orange furono annesse agli altri
possedimenti inglesi del Sud Africa e formarono con essi l'Unione Sud Africana,
sotto la sovranità britannica, ma che godeva di un proprio governo. Non alla
conquista dell'Africa si arrestò certamente l'impero inglese. Alle colonie più antiche
(Canada, Australia e Nuova Zelanda), a cui fu riservato un trattamento di particolare
favore, concedendo una larga autonomia politica ed economica per gli affari interni e
il riconoscimento a tutti gli abitanti di cittadini dell'impero britannico con diritti pari
agli inglesi, venne annessa l'India, che entrò a far parte dell'Impero Britannico nel
187 quando la Regina Vittoria fu proclamata Imperatrice delle Indie. Dapprima si
trattò soltanto di un duro sfruttamento (ad esempio la fiorente manifattura indiana che
produceva tessuti di cotone venne completamente rovinata dalla concorrenza
inglese), successivamente dopo alcune ribellioni, l'Inghilterra modificò il proprio
modo di governare l'India impegnandosi anche a modernizzare la sua economia e a
creare una classe media di funzionari indiani istruiti e ben addestrati che
collaborassero nell'amministrazione del paese. Il volto più brutale e aggressivo
dell'imperialismo fu quello che l'Inghilterra mostrò nei confronti della Cina, costretta
dopo una vera e propria guerra ad accettare l'infame commercio dell'oppio. Tale
droga veniva importata in Cina, in grandi quantità proprio da mercanti inglesi che la
scambiavano con prodotti cinesi. Essa produsse in pochi anni conseguenze
catastrofiche sulla popolazione. Ma alle proteste e alle resistenze del governo cinese
l'Inghilterra rispose con una guerra che durò dal 1839 al 1842 e fu chiamata appunto
Guerra dell'Oppio. La sconfitta della Cina portò al conseguente insediamento inglese
ad Hong Kong ed a una lunga serie di trattati commerciali ingiusti, vantaggiosi solo
per gli occidentali e imposti con la forza. Il grande antico e civilissimo impero cinese
divenne un semplice mercato per la vendita dei prodotti occidentali.
Imperialismo francese
La Francia non fu certo da meno nella corsa imperialista al dominio coloniale,
stimolata in maniera decisiva dalla ideologia politico-economica dei propri funzionari
più importanti. Tra questi Ferry che nel 1885 nella sede del parlamento francese
pronunziò una vera e propria "Teoria del Colonialismo"; si parlava di una forma
moderna di colonizzazione: non più le esportazioni di coloni, ma di capitali e di
merci che non trovassero opportuno collocamento nella madrepatria. Ferry affermava
che durante una crisi economica la fondazione di una colonia costituisse la creazione
di uno sbocco grazie al quale si potesse superare il periodo di crisi. All'affermazione
della funzione economica delle colonie si accompagnava nella concezione di Ferry il
"diritto"delle "razze superiori"a dominare "quelle inferiori". Ferry ribadiva con forza
il suo concetto secondo cui compete alle razze superiori un diritto cui fa riscontro un
dovere che loro incombe: quello di civilizzare le razze inferiori. Gli appelli
all'orgoglio nazionale, alla potenza economica e militare e all'ideologia della
"missione civilizzatrice"dell'uomo bianco e delle razze superiori trovarono un
uditorio sempre meglio disposto ad accoglierli. Alla spartizione dell'Africa partecipò
in maniera decisa anche la Francia. Riprese la sua espansione in Africa (dove aveva
già i possedimenti coloniali dell'Algeria, del Senegal, della Costa d'Avorio e dell'isola
di Reunion) con la conquista della Tunisia nel 1881. Negli anni immediatamente
successivi estese il suo dominio anche nella parte centrale e interna del continente
costituendo un impero africano che comprendeva, oltre agli antichi territori anche il
Congo francese, il Dahomey e il Sudan occidentale. Il dominio francese si estese in
Asia nel 1884 con la conquista del Tonchino, la parte settentrionale dell'attuale
Vietnam, realizzata attraverso una campagna contro la Cina.
L’imperialismo italiano
La storia dell'espansione coloniale italiana è senza ombra di dubbio molto più breve e
meno brillante di quelle delle altre potenze coloniali. Spinta anch'essa da forti
movimenti nazionalisti e aspirazioni ad una estensione del territorio nazionale prese
parte anche l'Italia alla corsa imperialista di fine '800. Interessata al dominio sul
territorio africano acquistò la baia di Assab, sul Mar Rosso, e di Massaua, che con il
suo territorio formò la colonia di Eritrea, pose sotto il suo dominio una parte della
Somalia (1844-1890). Dopo la sconfitta inglese di Kartum anche le guarnigioni
italiane attraversarono momenti di aspra difficoltà. L'eccidio di 500 soldati a Dogali
da parte delle truppe etiopiche, eccitò il risentimento nazionalistico e propositi di
rivincita e di conquista. Ma il corpo di spedizione inviato nel 1896 per la conquista
dell'Etiopia fu sconfitto e distrutto quasi completamente dall'esercito di Menelik ad
Adua. Fu il più grave insuccesso che gli europei ebbero nella spartizione del territorio
africano. Il dominio italiano vide la propria espansione anche nel territorio della
Libia, occupata insieme alle isole del Dodecaneso ed a Rodi, tra il 1911 e il 1912
avendo approfittato della crisi balcanica che aveva messo in difficoltà l'impero
ottomano.
Nazionalismo
Il nazionalismo è il fondamento teorico dell’imperialismo, e deriva dal risvolto
negativo dell’idea romantica del principio di nazionalità. In altre parole, l’idea di
nazione – con cui si designava il territorio di un popolo storicamente unito da lingua,
cultura, tradizioni – cedette il passo a un’ideologia che rivendicava ed esaltava la
potenza militare, economica e culturale delle singole collettività nazionali. Il
passaggio successivo fu quello di ritenere di avere il diritto, in virtù della propria
superiorità, di portare l’“opera civilizzatrice” nei Paesi più arretrati, anche con le
armi, se necessario. L’espansione coloniale fu accompagnata da teorie razziali e
religiose che sostenevano la superiorità della civiltà europea rispetto alle culture dei
popoli colonizzati.
il nazionalismo è un fenomeno che ha assunto forme assai differenziate nel tempo e
nello spazio, in stretta relazione con lo sviluppo e la storia delle nazioni. Sebbene
diversi studiosi ne abbiano rintracciato le più remote origini nell’età del
Rinascimento, nel Medioevo o addirittura nel mondo antico, vi è un generale
consenso nel considerare il nazionalismo come un fenomeno proprio dell’età
contemporanea. Esso ha iniziato ad assumere una significativa consistenza in Europa
e nelle Americhe tra il XVIII e il XIX secolo, nell’epoca delle Rivoluzioni americana
e francese e della rivoluzione industriale e nel contesto di una crisi crescente della
cultura illuministica e dei suoi orientamenti universalistici e cosmopolitici. Da allora
e sino ai nostri giorni il nazionalismo – per riprendere una nota ed efficace tipologia –
si è più volte manifestato nelle due forme essenziali del nazionalismo
risorgimentale e del nazionalismo integrale, vale a dire come ideologia di liberazione
e di emancipazione nazionale e come ideologia dell’egoismo e della potenza
nazionale, e naturalmente in molteplici forme intermedie.
La svolta più importante nella storia del nazionalismo si è compiuta intorno agli anni
Settanta del 19° secolo. Fu allora, infatti, che il nazionalismo divenne una vigorosa
ideologia di massa e, nel contempo, l’ideologia dominante della politica di potenza
dei grandi Stati nazionali europei. In questa fattispecie, il nazionalismo è stato uno
dei grandi motori della storia europea e mondiale fino al 1945, nell’età
dell’imperialismo e delle due guerre mondiali. Dopo di allora, nonostante il
cosiddetto nazionalismo della decolonizzazionee i molteplici revivals nazionalistici
che hanno segnato la storia degli ultimi due decenni del Novecento, esso non ha mai
più giocato un ruolo rilevante come in precedenza.
LO STATO ITALIANO FINO ALLA FINE DELL’OTTOCENTO
Il congresso di Vienna (1815) e il nuovo assetto dell'Italia.
Il congresso di Vienna, con l'atto del 9-VI-1815, diede all'Italia una nuova
sistemazione politica. La penisola fu divisa in dieci stati: il Lombardo-veneto, sotto
l'Austria; il regno di Sardegna (Piemonte, Sardegna, Nizza, Savoia e Liguria), sotto
Vittorio Emanuele I (1802-21); il ducato di Modena e Reggio, dato a Francesco IV di
Austria-Este; il ducato di Massa e Carrara, affidato a Maria Beatrice d'Este; il ducato
di Parma e Piacenza, assegnato alla moglie di Napoleone Maria Luisa d'Austria; il
ducato di Lucca a Maria Luisa di Borbone; il granducato di Toscana (con lo Stato dei
presidi e il principato di Piombino) a Ferdinando III di Lorena; la repubblica di San
Marino; lo Stato della chiesa, sotto Pio VII; il regno di Napoli e di Sicilia, sotto
Ferdinando IV di Borbone. Il Trentino, il sud-Tirolo e la Venezia Giulia entrarono a
far parte dell'impero asburgico.
L'Austria venne a rappresentare il garante della Restaurazione in Italia. Solo in
Piemonte Vittorio Emanuele I e una parte dei ceti dirigenti avevano vivo il senso
d'indipendenza rispetto all'Austria e mantenevano l'aspirazione all'annessione della
Lombardia. La Santa Alleanza tra Russia, Austria e Prussia (1815) legittimò
l'intervento austriaco contro eventuali tentativi di cambiamento, mentre la
restaurazione dell'antico ordine di cose fu condotta in Italia, forse più che in qualsiasi
altro paese d'Europa, all'insegna della chiusura e della reazione. Nella quasi totalità
degli stati venne liquidata buona parte dell'eredità napoleonica e furono restaurati
istituti e legislazioni precedenti. Non era comunque possibile cancellare del tutto gli
sviluppi economici, sociali e giuridici del passato regime. Lo stato con il governo più
aperto fu la Toscana, che mantenne una certa autonomia nei confronti dell'Austria.
Alcuni ministri illuminati, come Fossombroni in Toscana, il cardinale Consalvi nello
Stato pontificio, Neipperg a Parma e Luigi de'Medici a Napoli, impostarono il loro
governo secondo i criteri di centralizzazione amministrativa del governo francese. In
Lombardia e a Venezia l'Austria abolì tutte le istituzioni napoleoniche e subordinò le
regioni all'amministrazione fortemente centralizzata di Vienna. Una trasformazione
istituzionale si ebbe nel regno di Napoli: con il decreto dell'8-XII-1816 Ferdinando
pose fine all'autonomia della Sicilia, riunita a Napoli, soppresse la costituzione
siciliana e assunse il titolo di Ferdinando I, re delle Due Sicilie.
I patrioti liberali e le società segrete
Il frazionamento del paese, la politica vincolistica degli stati restaurati, l'alleanza tra i
troni e l'altare e l'appesantirsi della egemonia austriaca fecero emergere presso i
gruppi di patrioti il problema dell'indipendenza nazionale, che cominciò ad assumere
un contenuto antiasburgico. Il programma di indipendenza e di unificazione fu sin
dall'inizio trainato dai nuclei di borghesia commerciale e manifatturiera rafforzatisi
nel periodo napoleonico, ma ancora esclusi dal potere politico. Il romanticismo, che a
partire dalla Restaurazione costituì la temperie culturale comune a tutti i paesi
europei, si intrecciò in Italia con il problema dell'unità nazionale e rivalutò in tal
senso alcuni periodi della storia d'Italia. La capacità dei patrioti di divenire un polo di
aggregazione fu però limitata non solo dalla scarsità dele loro forze e dalla loro
presenza limitata ad alcune regioni del paese, ma anche dalla compattezza e dalla
solidità del blocco sociale che sosteneva le monarchie, protette dalla tutela politico-
militare dell'Austria. Pochi di numero e strettamente sorvegliati, i patrioti liberali
italiani si organizzarono in società segrete, la cui origine comune fu probabilmente la
massoneria; principale fra queste società fu la Carboneria; vanno pure ricordati gli
adelfi, i federati, i guelfi. Le idee patriottiche furono divulgate anche dalle pagine di
riviste come «Il Conciliatore», pubblicato per un anno (1818-19) a Milano, o la
fiorentina «Antologia »(1821-33) di Vieusseux; la letteratura espresse l'aspirazione al
risorgimento nazionale, con Manzoni, Leopardi, Berchet, d'Azeglio, Niccolini,
Grossi, Guerrazzi ecc. Contro le società segrete liberali sorsero formazioni
reazionarie, delle quali, tuttavia, non si hanno notizie sicure: fra esse i clericali
sanfedisti e, nel regno di Napoli, i calderari, protetti dal principe di Canosa.
I moti nazionali (1820-1846)
Il moto patriottico italiano era in questo periodo strettamente legato con i movimenti
liberali esteri. Gli eventi europei ebbero quindi forti ripercussioni in Italia. Nel 1820
la rivoluzione spagnola suscitò l'insurrezione dei carbonari napoletani, che il 7 luglio
costrinsero Ferdinando I a concedere la costituzione spagnola del 1812. Il moto fallì
per l'intervento dell'esercito austriaco, che disperse quello napoletano guidato da G.
Pepe presso Rieti (7-III-1821). La reazione fu gravissima; sotto il nuovo re,
Francesco I (1825-30), venne poi duramente repressa un'insurrezione nel Cilento
(1828). Anche in Piemonte il moto insurrezionale partì dall'esercito. Il 10-III-1821 un
gruppo di ufficiali carbonari proclamò nella cittadella di Alessandria la costituzione
di Spagna; lo stesso avvenne a Torino il 12 marzo. Vittorio Emanuele I abdicò in
favore del fratello Carlo Felice (1821-31), assente. Il reggente Carlo Alberto accordò
la costituzione di Spagna, salvo ratifica del re, ma, sconfessato da Carlo Felice,
abbandonò il governo e le truppe austriache sconfissero i costituzionalisti a Novara (8
aprile). La reazione in Piemonte fu più temperata che a Napoli; si ebbero comunque
due esecuzioni capitali e vari profughi, tra cui S. Santarosa. I moti del 1821 furono, in
sostanza, pronunciamenti militari senza partecipazione popolare né delle classi
medie. La rivoluzione parigina del luglio 1830 ebbe in I. effetti importanti, perché i
liberali italiani sperarono in un appoggio francese contro l'Austria. I moti scoppiarono
in I. centrale, a Bologna e nel ducato di Modena (capo, quivi, C. Menotti). Nel
febbraio 1831 insorsero i ducati, le Legazioni, le Marche e l'Umbria; le tre ultime
regioni si costituirono in Province unite italiane. Ma l'intervento austriaco, al quale
non si oppose, contraddicendo dichiarazioni precedenti, il governo francese, fece
cadere in marzo i governi insurrezionali; a Modena Menotti fu impiccato. Il
susseguirsi delle agitazioni in Romagna portò a una nuova occupazione austriaca e,
per contrappeso, a quella francese di Ancona (1832), durate entrambe fino al 1838. I
moti del 1831 segnarono il fallimento definitivo della Carboneria. Sorse allora una
nuova organizzazione politica segreta, la Giovine Italia, fondata nel 1831 a Marsiglia
da Giuseppe Mazzini, che, a differenza della Carboneria, era organizzata secondo un
programma e una direzione precisi.
Essa si proponeva l'unità d'I. sotto un governo popolare repubblicano. Nel regno di
Sardegna i mazziniani, che si erano moltiplicati nell'esercito, subirono nel 1833 una
severissima repressione con 12 esecuzioni capitali; un tentativo di insurrezione in
Savoia fallì (febbraio 1834). In Lombardia vi fu un grande processo (1833-35) contro
i mazziniani, concluso però senza esecuzioni capitali. Il nuovo imperatore Ferdinando
I (1835-48) elargì un'amnistia e cinse a Milano (1838) la corona ferrea, senza tuttavia
riuscire ad avvicinarsi durevolmente alla popolazione. Tentativi di insurrezione
promossi da mazziniani si ebbero a Bologna (1843) e a Rimini (1845).
Lo sbarco dei fratelli Bandiera in Calabria fallì; gli insorti, fatti prigionieri, vennero
fucilati (1844).
Le riforme e il 1848
Negli anni quaranta, dopo il fallimento dei moti ispirati al mazzinianianesimo, si
affermò, soprattutto per opera di alcuni intellettuali, l'idea di una strada alternativa
per l'unificazione italiana, con una trasformazione graduale condotta dagli stessi
sovrani. Interpreti di questa tendenza moderata e riformista furono V. Gioberti, che
nel Primato morale e civile degli italiani (1843) auspicò una confederazione di stati
con a capo il papa, C. Balbo con le Speranze d'Italia (1843) e d' Azeglio con
l'opuscolo Degli ultimi casi di Romagna (1846). I moderati, in gran parte piemontesi,
rivolsero le loro aspettative a Carlo Alberto, il quale dopo il 1840 dette qualche
segnale favorevole alla causa nazionale. Ma le maggiori speranze furono suscitate dal
nuovo papa Pio IX (1848-78), che concesse subito una larga amnistia (16-VII-1846)
e adottò misure riformistiche. Leopoldo II e Carlo Alberto seguirono il pontefice
sulla via delle riforme. Al principio del 1848, dopo l'insurrezione della Sicilia,
Ferdinando II promulgò la costituzione (10 febbraio), seguito dal Piemonte (8
febbraio-4 marzo), dalla Toscana (11-17 febbraio) e dal pontefice (14 marzo). Queste
costituzioni italiane erano modellate su quella francese del 1830. La notizia
dell'insurrezione di Vienna (13-14 marzo) suscitò a Milano il moto delle Cinque
giornate (18-22 marzo); anche Venezia insorse. Carlo Alberto il 23 marzo decise la
guerra all'Austria ( Indipendenza, guerre di). L'esercito piemontese, tuttavia, battuto a
Custoza (23-25 luglio), dovette capitolare (5 agosto). L'armistizio firmato dal
generale Salasco (9 agosto) permise all'Austria di rioccupare Milano e di assediare
Venezia. Sconfitto Carlo Alberto, il controllo del movimento di indipendenza
nazionale passò ai democratici. A Roma il ministro Pellegrino Rossi venne ucciso da
un democratico (15 novembre); il pontefice fuggì (24 novembre) e fu eletta
un'assemblea costituente che proclamò la repubblica (11-II-1849). In Toscana
nell'ottobre 1848 si formò un governo democratico e il granduca abbandonò lo stato
(febbraio 1849). Carlo Alberto, spinto dal parlamento e dall'opinione pubblica, decise
di riprendere la guerra, ma a Novara (23 marzo) l'esercito piemontese fu
completamente disfatto dal generale Radetzky. Carlo Alberto abdicò a favore del
figlio Vittorio Emanuele II, che stipulò con l'Austria l'armistizio di Vignale. La nuova
sconfitta dei piemontesi portò alla caduta dei governi democratici. In Toscana il
granduca rientrò con le truppe austriache, che intervennero anche nello Stato
pontificio, mentre una spedizione francese investiva Roma. Qui il governo era stato
assunto da un triumvirato con a capo Mazzini; la difesa militare fu condotta da
Giuseppe Garibaldi, ma il 4 luglio i francesi si impadronirono della città. Poco prima
(aprile-maggio) anche la Sicilia aveva cessato la sua resistenza a re Ferdinando.
Ultima a cadere, dopo le «dieci giornate» di Brescia (23 marzo-1o aprile), fu
Venezia, che sotto la direzione di D. Manin resistette fino al 23 agosto. Frattanto il
Piemonte aveva concluso con l'Austria la pace di Milano (6 agosto), rattificata dal
parlamento, dopo alcune resistenze, il 9-I1850.
L’Unità d’Italia
La causa dell'unità italiana sembrava perduta, ma in realtà essa era diventata oggetto
di una coscienza nazionale ed era stata fatta propria dal maggiore stato della penisola,
mentre le condizioni europee stavano mutando, con la dissoluzione della Santa
alleanza e con la nascita del secondo impero napoleonico. Le premesse per una rapida
conclusione del Risorgimento italiano. erano così poste. Pio IX rientrò il 12-IV-1850
a Roma, occupata dai francesi, mentre la Romagna era occupata dagli austriaci. A
Napoli Ferdinando II abolì di fatto la costituzione. Nel Lombardo-Veneto la tensione
patriottica fu tenuta viva dai mazziniani. I membri di un gruppo scoperto a Mantova
furono condannati alla pena capitale (i «martiri di Belfiore»,1852-53), mentre a
Milano fallì un tentativo rivoluzionario (6-II-1853) e stessa sorte ebbe la spedizione a
Sapri di Carlo Pisacane (1857). Unico governo italiano, il Piemonte mantenne lo
statuto e introdusse riforme politiche ed economiche. Capi del governo furono
d'Azeglio, poi Cavour, presidente del consiglio dal 1852 al 1859. Per valorizzare la
posizione internazionale del Piemonte il re e Cavour vollero l'intervento nella guerra
di Crimea (1855). Cavour potè così partecipare al congresso di Parigi (1856), dove
pose la questione italiana. I patrioti si rivolsero quindi sempre più verso il Piemonte;
la «Società nazionale» fondata da Manin (1857) divenne il loro riferimento. Fattore
politico decisivo per l'unità italiana fu l'accordo tra Napoleone III e Cavour nel
convegno di Plombières (1858) con cui si strinse l'alleanza franco-sarda per la
seconda guerra di indipendenza, iniziata il 26-IV-1859. Dopo le sconfitte di Magenta,
Solferino e San Martino, l'imperatore Francesco Giuseppe concluse con Napoleone
III i preliminari di Villafranca (11 luglio), cedendogli la Lombardia, ceduta ancora al
Piemonte. Nel frattempo nell'I. centrale erano caduti i sovrani di Toscana, di Modena
e Parma e la dominazione pontificia in Romagna. I governi provvisori chiesero
l'annessione al Piemonte e l'anno seguente si tennero i plebisciti nei quali fu votata
quasi all'unanimità l'unione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II
(11-12 marzo 1860). Il Piemonte cedette alla Francia Savoia e Nizza, sempre
attraverso un plebiscito (15 e 22 marzo). I passi decisivi verso l'unità furono la
spedizione dei Mille, al comando di Garibaldi, e l'occupazione delle Marche e
dell'Umbria. Garibaldi, partì da Quarto (GE) il 6-V-1860, sbarcò l'11 a Marsala e il
20 luglio aveva liberato l'isola; passato lo stretto, il 7 settembre entrò a Napoli. Il
governo di Torino decise allora l'intervento dell'esercito regio nel Mezzogiorno
attraverso le Marche e l'Umbria.
Il generale Cialdini battè i pontifici a Castelfidardo (18 settembre), e furono occupate
Perugia e Ancona. Subito dopo Vittorio Emanuele entrò nel Napoletano, ove
Garibaldi nella battaglia del Volturno (1o ottobre) aveva respinto un attacco
borbonico. I plebisciti sancirono l'annessione di Napoli e Sicilia (21 ottobre), Marche
e Umbria (4 e 5 novembre. Il 18 febbraio si riunì a Torino il nuovo parlamento, con i
rappresentanti delle province annesse, che votò la proclamazione del Regno d'Italia e
il nuovo titolo del re Vittorio Emanuele (17 marzo). Il 27 marzo, su proposta di
Cavour, il parlamento acclamò Roma capitale d'Italia, ma le trattative intavolate dallo
stesso Cavour per un accordo con Roma non ebbero esito favorevole; poco dopo (6
giugno) lo statista morì.
I suoi successori (Ricasoli, Rattazzi, Minghetti, Lanza) dovettero affrontare i
problemi dell'ordinamento del nuovo stato e del completamento dell'unità nazionale.
Il regno fu organizzato con un'amministrazione accentrata e uniforme. Fu represso
con difficoltà nel Mezzogiorno il fenomeno (in sostanza una vasta rivolta sociale
alimentata dall'ideologia legittimista e clericale) del brigantaggio. Il riconoscimento
del Regno d'I. da parte delle potenze europee permise di riaprire il credito estero e di
migliorare il bilancio statale. Per la liberazione di Venezia e di Roma ( Questione
romana), il governo si trovò stretto fra le difficoltà internazionali e le impazienze del
partito d'azione. Nel 1862 furono arrestati al confine del Trentino nuclei di volontari;
seguì un'audace iniziativa di Garibaldi, arrestato dalle truppe regie all'Aspromonte
(29 agosto). Nel 1864 fu stabilito il trasferimento della capitale da Torino a Firenze,
effettuato nel giugno del 1865. La liberazione del Veneto avvenne in seguito alla
guerra italo-prussiana contro l'Austria ( Indipendenza, guerre di), nonostante le
sconfitte dell'esercito italiano a Custoza (24-VI-1866) e della flotta a Lissa (20
luglio). L'Austria, completamente sconfitta dalla Prussia a Sadowa (3 luglio), cedette
il Veneto, che fu consegnato all'I. tramite Napoleone III, senza però il Trentino e la
Venezia Giulia. Perdurava intanto il conflitto con il pontefice. Garibaldi nel 1867
organizzò una spedizione di volontari su Roma, ma fu sconfitto da un esercito franco-
pontificio a Mentana (3 novembre). Scoppiata la guerra francoprussiana (luglio
1870), e caduto il governo imperiale, il 20-IX-1870 le truppe italiane poterono entrare
in Roma, non più protetta dai francesi, per la breccia di Porta Pia. Il 2 ottobre un
plebiscito sanzionò l'unione di Roma all'Italia. La situazione del pontefice venne
regolata dall'Italia con la legge delle guarentigie (1871). Nel luglio 1871 la capitale fu
trasferita a Roma.
Agostino Depretis
Compiuta l'unità nazionale, la Destra storica guidò il paese fino al 1876, quando,
dopo la caduta del ministero Minghetti, il nuovo governo fu formato da Agostino
Depretis, che inaugurò l'età della Sinistra storica e del cosiddetto trasformismo,
attuando importanti riforme.
Il pareggio del bilancio, ottenuto nel 1876, chiuse una fase della storia politica
italiana. A quindici anni dall’avvento al potere della Destra, la distanza tra i gruppi
dirigenti e la società si era allargata irrimediabilmente, soprattutto perché la Destra
non era riuscita a rappresentare gli interessi del nuovo ceto industriale. La sua politica
economica, basata su un modello di sviluppo agromanifatturiero e sul
liberoscambismo, non andava incontro all’esigenza di migliorare l’apparato
produttivo, né a quella di mobilitare nuovi capitali verso gli investimenti industriali.
La strategia della Destra era per di più destinata a infrangersi di fronte al mutamento
del ciclo economico internazionale. Agostino Depretis, che aveva guidato
l’opposizione della Sinistra, assunse la presidenza del consiglio nel marzo 1876. Si
apriva in quell’epoca una fase nuova dell’economia mondiale, dominata da una
gravissima crisi economica durante la quale i principi del liberismo vennero messi in
discussione e sostituiti da una nuova strategia incentrata sul rigido protezionismo
delle economie nazionali. I governi della Sinistra gestirono questa fase di trapasso
imponendo prima dazi protettivi nei confronti dell’industria, più esposta ai danni
della concorrenza internazionale, e, successivamente, introducendo barriere doganali
contro l’importazione dei cereali e di altri prodotti agricoli.
In politica interna l’azione di Depretis si mosse verso un allargamento delle basi di
massa dello stato unitario. In questa direzione, l’iniziativa destinata a segnare più
profondamente il sistema politico fu l’ampliamento del suffragio, che quadruplicò il
numero dei cittadini aventi diritto al voto. La scelta era anche il frutto del nuovo
protagonismo politico delle classi subalterne operaie e contadine, che, attraverso le
lotte sociali, maturavano una nuova coscienza politica e sperimentavano nuove
strutture organizzative.
In politica estera Depretis attuò un progressivo sganciamento dalla stretta alleanza
con la Francia e tentò di avviare una politica coloniale: queste spinte portarono il
governo a sottoscrivere un trattato di alleanza, oltre che con la Germania, anche con
l’avversario storico dell’Italia, l’Austria imperiale. L’occupazione dei territori intorno
alla baia di Assab sul mar Rosso provocò un conflitto armato tra l’Italia e il sovrano
abissino, che inflisse alle nostre truppe una pesante sconfitta nel 1887 a Dogali e che
indusse Depretis a consegnare le dimissioni.
Francesco Crispi
Nel 1887, alla morte di Depretis, assunse la carica di primo ministro Francesco Crispi
(1887-1991/1893-1896), che promosse una serie di riforme amministrative e sociali
di impronta borghese e un rafforzamento degli apparati dello Stato. Fu varato anche
un nuovo Codice civile che aboliva la pena di morte. Con la Sinistra l’Italia inaugurò
una politica coloniale aggressiva.
La politica coloniale
Nel 1881 l’Italia non aveva potuto impedire alla Francia di occupare la Tunisia, dove
sperava di estendere un protettorato di tipo coloniale. Per reazione a questa sconfitta,
l’Italia abbandonò la tradizionale alleanza con la Francia e la Gran Bretagna
firmando, nel 1882, la Triplice Alleanza con la Germania e l’Austria-Ungheria. La
decisione di intraprendere una politica di conquiste coloniali fu favorita non solo
dagli accordi scaturiti dalla Triplice Alleanza ma anche dalla crescente influenza
eserciatat sul governo da gruppi di armatori e industriali siderurgici da una parte e da
coloro , come Sonnino, che ritenevano le colonie uno sbocco per l’emigrazione.
Cominciò Depretis, indirizzando le aspirazioni coloniali italiane verso il mar Rosso,
dove era già insediata una piccola base militare ad Assab. Occupata , nel 1885, la
striscia costiera tra Massaua e Assab, il tentativo di penetrare nella confinante Etiopia
(Abissinia) fallì nel 1887, con la sconfitta di Dogali.
Riprendendo la politica coloniale Crispi firmò nel 1889 con il negus(imperatore)
etiope Menelik il Trattato di Uccialli che, redatto in due versioni differenti (in italiano
e in amarico, lingua corrente in Etiopia), secondo la versione italiana garantiva
all’Italia il protettorato sull’Etiopia, mentre secondo quella etiope sanciva un
semplice patto di collaborazione tra i due Paesi. Il conflitto esplose quando i
possedimenti italiani sulle coste del Mar Rosso vennero costituiti in colonia con il
nome di Eritrea, e sfociò in uno scontro armato: gli italiani, sconfitti ad Adua (1896)
dagli etiopi, dovettero bloccare la penetrazione e Crispi si dimise.
La crisi agraria
Dopo il pareggio di bilancio (1876) la spesa pubblica aumentò per costruire nuove
infrastrutture, in particolare per l’ampliamento della rete ferroviaria. Anche se queste
scelte provocarono un certo dinamismo economico, la debolezza di base
dell’economia italiana si rivelò subito di fronte alla crisi agraria , che colpì negli anni
Ottanta, in tutta Europa, le economie agricole più arretrate, compresa l’Italia.
L’avvento della navigazione a vapore, aveva infatti permesso la circolazione in
Europa dei prodotti nordamericani, che avevano prezzi competitivi, e provocato
quindi un’improvvisa caduta dei prezzi dei prodotti agricoli, in particolare dei cereali.
Ciò provocò un calo della produzione agricola ed ebbe immediate ripercussioni sul
tenore di vita dei contadini, Un’inchiesta agraria – l’inchiesta Jacini dal nome del suo
relatore – mise in luce l’arretratezza dell’agricoltura italiana e concluse i lavori
chiedendo interventi di tipo protezionistico.
Il protezionismo
La fragilità economica coinvolgeva anche il mondo industriale. Per sanare questa
situazione furono varate le tariffe doganali del 1887 che proteggevano dalla
concorrenza straniera sia alcuni settori industriali (siderurgico, laniero, cotoniero e
zuccheriero) che i produttori di cereali, quasi tutti latifondisti. Questi provvedimenti
portarono ad una crisi diplomatica e commerciale con la Francia.
L’emigrazione
La crisi agraria diede origine ad un crescente flusso migratorio, che si diresse
soprattutto verso l’America settentrionale e che si intensificherà nei primi anni del
Novecento, passando dal 7% nel 1894, al 10% nel 1900, al 20% nel 1905. Nella
prima fase la maggior parte degli emigrati proveniva dalle zone agricole dell’Italia
settentrionale, soprattutto dal Veneto, e aveva carattere temporaneo, successivamente
divenne un abbandono definitivo e coinvolse anche le regioni meridionali. Questa
corrente migratoria funzionava senza dubbio da strumento di controllo e valvola di
sfogo delle tensioni connesse alle trasformazioni demografiche e ai rapporti sociali,
ma forniva anche un valido sostegno all’economia interna attraverso le rimesse degli
emigrati, cioè il denaro che gli emigrati inviavano dall’estero alle famiglie rimaste in
patria. A fine secolo, infatti, le rimesse arrivarono a coprire più della metà della
bilancia dei pagamentio, consentendo di far fronte all’importazione di materie prime
e di beni capitali necessarie alle accresciute esigenze della produzione industriale.
Lo scandalo della Banca Romana
Nel 1888 imprudenti investimenti, legati alla speculazione edilizia, portarono
sull’orlo del collasso alcuni istituti bancari che furono salvati in extremis
dall’intervento del governo. Dopo il fallimento di alcuni istituti di credito, da cui
trapelava un’eccedenza di circolazione monetaria, un’inchiesta appurò gravi
irregolarità commesse dalla Banca Romana – uno dei sei istituti dotati del privilegio
di emettere biglietti a corso legale, sui quali era fondato il sistema bancario italiano.
Fra queste irregolarità anche una emissione clandestina di banconote pe il valore di
nove miliardi di lire. La denuncia, nel 1892 ,dei risultati dell’inchiesta da parte del
radicale Napoleone Colajanni portò all’arresto di Tanlongo, il direttore della Banca
Romana. Nel 1893 crollò il Credito Mobiliare e poi la Banca Generale. La vicenda si
concluse con l’assoluzione di Tallongo, per non travolgere , le figure di spicco del
mondo politico coinvolte (fra cui Giolitti, che si dimise nel 1893 e Crispi, che fu però
chiamato a sostituirlo). Nel frattempo Giolitti riordinò il sistema bancario istituendo
la Banca d’Italia (1893) alla quale fu assegnata una funzione preminente
nell’emissione monetaria e, a partire dal 1894, il servizio di Tesoreria dello Stato in
tutto il Regno. A partire dal 1900, essa assunse il compito di guida e di controllo del
sistema creditizio, sul modello delle banche centrali degli altri Paesi europei,
divenendo un importante elemento di stabilità nell’economia nazionale. Questi
avvenimenti, che pure spinsero il sistema bancario a riorganizzarsi, circondarono di
forte discredito la classe politica, e quindi le stesse istituzioni dello Stato.
Leghe e "Fasci"
Lo sviluppo economico di fine Ottocento rese più difficili le condizioni di vita delle
classi subalterne, e soprattutto dei contadini. In alcune zone della pianura padana la
crisi spinse una parte delle aziende a diminuire i costi, trasformando l’organizzazione
del lavoro in senso capitalistico: si formò di conseguenza un proletariato di braccianti
giornalieri, organizzato in leghe di resistenza, cooperative di lavoro e di produzione,
che innescò aspri conflitti di classe.
Nel Mezzogiorno si svilupparono altre forme di resistenza, come l’occupazione delle
terre e gli assalti ai municipi. In Sicilia, nel 1892-93, la protesta si organizzò nei
“Fasci dei lavoratori” (il termine “fascio” indicava allora una lega, una unione) che si
diffusero rapidamente, fino a costituire un vero movimento di massa. In questa
protesta contadini, commerciante, piccoli proprietari, alla lotta contro l’eccessivo
fiscalismo dello Stato italiano si aggiungeva la rivendicazione di terre da coltivare e
la richiesta di revisione dei patti agrari (i contratti fra contadini e grandi possidenti).
Nel 1893 i “Fasci” furono duramente repressi da Crispi.
L’associazionismo di stampo cattolico
Nel 1874 venne fondata a Venezia l’ Opera dei Congressi, cioè l’unione di
associazioni cattoliche attive in campo sociale e religioso, fondate da cattolici
intransigenti postisi al servizio del Papa. L’economista Giuseppe Toniolo, principale
esponente di questo movimento, riconoscendo la legittimità delle rivendicazioni
operaie, avviò la creazione di società operaie di mutuo soccorso e di banche
cooperative di ispirazione cattolica. Legittimata da papa Leone XIII con l’enciclica
Rerum Novarum, quest’azione pose le basi per il reingresso dei cattolici nella vita
politica italiana.
Il primo partito di massa
L’acutizzarsi del disagio sociale era all’origine anche dell’espansione in Italia del
socialismo, radicato soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, con una forte
componente rurale e anarchica. Andrea Costa, il primo socialista eletto al Parlamento,
dirigente delle lotte bracciantili padane, riuscì però, insieme con l’avvocato milanese
Filippo Turati, a dare al movimento un’impronta meno anarchica e a far prevalere il
socialismo marxista. Turati soprattutto, con la rivista“Critica Sociale”, operava da
anni per orientare le forze operaie e socialiste verso la creazione di un’unica
organizzazione. La rivista voleva creare una coscienza socialista nel movimento
operaio, unificando le varie componenti del socialismo italiano attraverso un’opera di
chiarificazione teorica, e prendendo le distanze dagli anarchici. Uno degli obiettivi
principali era anche quello di coinvolgere nel movimento gli intellettuali democratici,
anche perché le lotte per le libertà politiche, civili e sindacali erano individuate come
momento indispensabile per la democratizzazione dello Stato e per il graduale
passaggio al socialismo.
Dall’incontro dei gruppi socialisti dell’Italia centro-settentrionale e delle
organizzazioni operaie di stampo riformista si formò, nel 1892, il Partito socialista
italiano, fortemente influenzato dal marxismo internazionale, con forti istanze
rivoluzionarie e operaiste. Ripudiata la linea anarchica, definitosi partito di classe, il
partito socialista affiancò alla lotta elettorale per il potere politico quella per il
miglioramento delle condizioni dei lavoratori, affidata alle organizzazioni sindacali:
società di mutuo soccorso, leghe di resistenza, federazioni di mestiere (associazioni
di categoria a livello prima locale e poi nazionale) e Camere del lavoro (che
riunivano le diverse categorie di lavoratori di un unico centro. La prima Camera del
lavoro venne fondata a Milano nel 1891, l’anno dopo ne furono istituite altre dodici,
tutte nelle città settentrionale (a parte Firenze e Roma). Il Partito socialista,
riferimento per queste associazioni, che comunque operavano in autonomia, fu il
primo, e per molti anni l’unico, partito organizzato sulla scena politica italiana.
Anna Maria Mozzoni e Anna Kulishoff: il movimento di emancipazione delle
donne
Dopo l’unificazione si sviluppò anche in Italia, soprattutto nell’élite mazziniana di
simpatie repubblicane, un movimento favorevole all’emancipazione delle donne.
Fino ai primi del Novecento la rivista “La Donna”, diretta da Gualberta Beccari,
raccolse articoli e proposte di questo gruppo di donne, fra le quali spicca , per la
lucidità politica e i contatti con i movimenti emancipazionisti internazionali, Anna
Maria Mozzoni (1837-1920). E’ del 1864 il suo La donna e i suoi rapporti sociali, nel
quale denunciava l’assenza di un Risorgimento femminile in seguito a quello
nazionale e del 1870, la traduzione de La Soggezione della donna, di J.S.Mill, che
costituiva una base teorica per la richiesta dei diritti femminili.
Anna Maria Mozzoni individuò subito nell’istruzione e nel lavoro le grandi vie di
emancipazione delle donne, promuovendo numerose iniziative sul tema ma
soprattutto cominciando una battaglia, destinata a durare a lungo, perché nel nuovo
Codice civile fossero introdotti la ricerca della paternità in caso di figli naturali, la
possibilità di riconoscere la tutela materna accanto a quella del padre, diritti civili per
le non maritate.
Anna Maria Mozzoni tentò a lungo di far rientrare nei programmi dell’opposizione
parlamentare la richiesta del suffragio femminile, lottò per l’apertura delle Università
alle donne e di cosneguenza per l’apertura delle carriere professionali più importanti
(medicina, legge, insegnamento superiore).
Parità di salario nelle fabbriche
L’attenzione di Anna Maria Mozzoni ai rapporti sociali e alle nascenti industrie la
portò ad individuare nelle operaie una possibile avanguardia politica del movimento
emancipazionista, per cui si impegnò a fondo, appoggiata dal Partito socialista e da
una parte dei cattolici, a richiedere uguale salario per eguale lavoro fra uomini e
donne.
Sfavorevole alla parità salariale, alla quale contrapponeva la richiesta di leggi di
tutela per le donne, che le proteggessero dai lavori più duri e pesanti e ne
rispettassero la funzione materna era Anna Michailovna Kuliscioff (1857-1925),
un’esule russa esponente socialista del movimento emancipazionista, direttrice, con
Turati, della rivista “Critica sociale”
Grazie ad Anna Maria Mozzoni e ad Anna Kulishoff la questione femminile fu
presente nel dibattito politico e culturale italiano: nel 1908 si radunò a Roma il
Congresso delle donne italiane, mentre nel 1907 era stata istituita una commissione
ministeriale allo scopo di esprimere un parere autorevole sulla concessione della
rappresentanza alle donne, quale primo passo verso un pieno riconoscimento della
parità dei diritti amministrativi e politici. Dopo cinque anni di lavoro la commissione
espresse parere negativo.
L’Italia di fine secolo
Nel 1896 un nuovo ciclo espansivo a livello mondiale si ripercuote positivamente
sull’economia italiana. Comincia la fase di sviluppo che porterà nel primo decennio
del 1900 al vero e proprio decollo industriale italiano. Cominciano per ora a crescere
solo alcuni settori del Centro-Nord (l’industria meccanica, la protetta industria
cotoniera, quella dell’elettricità); continuano invece le gravissime difficoltà
dell’agricoltura, specialmente al Sud. Il fatto che fra il 1891 e il 1898 il valore della
produzione complessiva agricola resti immutato in presenza di un incremento
demografico di oltre tre milioni di unità significa un regresso vero e proprio. In tutta
Italia resta molto pesante la situazione delle classi popolari: fra dazi sul grano e altre
imposte dirette e indirette, si continua a pagare il pane quasi il doppio del suo prezzo,
aumentano le vendite giudiziarie di beni di piccoli contribuenti, dilagano le malattie
da fame e da nocività ambientale come rachitismo, tubercolosi, pellagra, malaria. La
sofferenza sociale culmina al Sud, è più contenuta per la minoranza di operi delle
nuove grandi fabbriche del Nord, e si esprime in esplosioni di collera in tutto il Paese.
Migliorano invece le condizioni di vita dei ceti medi urbani fra i quali avanza un
processo di modernizzazione che coinvolge le culture e le mentalità.
Il progetto restauratore del ministro di Rudinì
La ripresa economica della seconda metà degli anni Novanta vede ancora al potere la
vecchia oligarchia fondata sull’alleanza fra agrari del Nord e del Sud, industria
pesante protetta, poteri statali. Il successore di Crispi è Antonio di Rudinì, che
progetta sul piano interno una restaurazione in senso conservatore anche attraverso
una forma di decentramento che punta a perpetuare a livello lacale il potere dei
vecchi notabili, e, sul piano internazionale, una svolta filofrancese. Di fronte all’esito
delle elezioni del 1897 che premiano la Sinistra e i socialisti, si accentua il carattere
antipopolare della politica governativa con arresti e persecuzioni di polizia contro
singoli militanti e associazioni anarchiche, socialiste e cattoliche, mentre si
moltiplicano le propensioni ad un rafforzamento dell’esecutivo, espresse nell’articolo
Torniamo allo Statuto, di Sidney Sonnino, considerato oggi come la risposta della
classe dirigente risorgimentale alla propria crisi di egemonia.
Agitazioni popolari e repressione a Milano
A far precipitare la crisi sono il cattivo raccolto del 1897 e la guerra ispano-
americana che provoca, per il blocco delle importazioni di cereali dagli Stati Uniti, un
rialzo del prezzo del pane. E’ carestia. Dai primi di gennaio del 1898 si innesca, a
partire dalla Sicilia, una grande ondata di moti che rivendicano pane e lavoro:
migliaia di persone assaltano forni e treni carichi di grano, assediano municipi, si
scontrano con carabinieri e polizia. Affrontate in puri termini di ordine pubblico, con
frequenti sparatorie, molti morti e molti arresti, le agitazioni si prolungano per mesi, e
al Centro-Nord coinvolgono nuclei di moderna classe operaia, che affiancano alla
protesta per la fame parole d’ordine contro il governo e il colonialismo, a favore del
socialismo e della Repubblica.
Il 6 maggio la lotta esplode a Milano, la capitale della grande industria e delle lotte
operaie, e, a questo punto, i giornali legati alla borghesia imprenditoriale come “La
Stampa” e il “Corriere della Sera”, che avevano seguito con relativo equilibrio gli
eventi al Sud, cominciano a parlare di complotti anarchici e di stranieri infiltrati, di
saccheggi e scatenamento dell’odio di classe, e appoggiano la decisione di Antonio
Di Rudinì di instaurare lo stato d’assedio in molte province. Tra psicosi e propaganda
si favoleggia di sigle “B” e “F” (bombe e fuoco) apposte alle case da saccheggiare: in
realtà la B indica una bocca di presa dell’acqua potabile e la F i lavori di fognatura.
Mandato a reggere la piazza di Milano il generale Fiorenzo Bava Beccaris fa
cannoneggiare barricate simboliche, manigfestazioni sostanzialmente pacifiche ,
persino le mura di un concento. Si spara su civili inermi, si procede allo scioglimento
dei sindacati, alla chiusura dei giornali di opposizione, alla serrata delle Università;
molti dirigenti socialisti (Turati, Costa, Kulishoff ), che pure hanno cercato di
contenere la protesta, vengono arrestati e saranno poi condannati a vari anni di
prigione. Il bilancio delle giornate di Milano sarà di circa 300 morti fra i civili
(compresi bambini piccoli, vecchi, curiosi).
Le elezioni del 1900 e il rafforzamento dell’opposizione
Di fronte alla convergenza nella lotta fra strati di classe operaia del Nord e contadini
del Sud, la paura della borghesia e del ceto politico liberale produce un progetto di
svolta istituzionale che avrebbe dovuto mettere fine al regime parlamentare.Luigi
Pellouux, successore di Di Rudinì presenta una serie di disegni di legge diretti a
stroncare le opposizioni attraverso il controllo della stampa, forti limitazioni del
diritto di riunione e associazione, divieto di sciopero nei servizi pubblici. Di fronte a
questo disegno i socialisti attuano per mesi l’ostruzionismo, Giolitti e Zanardelli
rompono con il governo, settori importanti dell’imprenditoria cominciano a
preoccuparsi degli esiti di un autoritarismo sfrenato. Dopo le elezioni del 1900, che
rafforzano l’opposizione al disegno reazionario, il re conferisce l’incarico di formare
il governo a Giuseppe Zanardelli. Ministro dell’interno e vero ispiratore della politica
governativa è Giovanni Giolitti, che siglerà con il suo nome l’intero periodo fino alla
prima guerra mondiale.