i ragazzi della croce int1

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PRESENTAZIONELassù sulle cimeL’apostolo Paolo distingue gli uomini in naturali e spirituali.I primi sono creature fisiche e psichiche mentre i secondi,oltre la natura fisica e psichica possiedono il Pneuma(Spirito), cioè hanno ricevuto in dono una vita soprannaturaleche «coabita» con la psiche (= anima umana). Questisono detti i Figli di Dio, scaturiti dalla redenzione di Cristo.L’uomo spirituale, ci spiega san Paolo, è toccato dal cieloed ha il cielo in eredità, perché fruisce della vita divina.Dunque la vita eterna è solo nella persona che l’ha ricevutadall’alto. Insegna l’evangelista Giovanni, riportandole parole del Battista: «Colui che viene dall’alto è al di sopradi tutti ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra eparla della terra...» (Gv 3,31).Ci si rende facilmente conto di come, quando la terra ètoccata dal cielo, la creatura terrena diventa cielo...In questo libro vi racconterò l’avventura di sette giovanipalesemente toccati dal cielo e vissuti sulla terra appenaquindici, diciassette, diciotto, diciannove e trentadue anni.Alle care Mammedei Ragazzi in Cielocon il pensiero rivoltoai santi giovani che vivono in paradisodopo aver «lavato le vestinel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14)4Sono storie struggenti e assolutamente vere, dove l’esperienza«pneumatica» ebbe sovente per scenario un monte ecome momenti fatali quei «tempi forti dello Spirito» che sonole esperienze spirituali.Antoine, Gianfranco, Christian e Gigi per esempio, ebberoin comune il monte Thabor (m 3200) che sorge in cimaalla Valle Stretta, in alta Val di Susa, già territorio francese.Lassù c’è un’antica capanna di minatori che sorge sullafalda del monte, trasformata fin dal 1956 in un modestissimoe spoglio rifugio alpino aperto ai giovani della periferiasud di Torino. Si chiama «La Maison des Chamois»: laCasa dei Camosci.Dopo la morte di un animatore di nome Gianfranco, avvenutaper un banale incidente a cinquanta metri dalla casanel lontano 1980, si costruì lì nei pressi un’alta Croce sormontatada una stele in bronzo che riporta incise le paroledell’Apocalisse: «Questi sono puri come vergini e seguonol’Agnello dovunque vada. Sono scelti tra gli uomini per essereprimizia offerta a Dio ed all’Agnello» (Ap 14,4).Su quella Croce si incidono continuamente nomi di ragazziche passarono per quelle esperienze ma per i qualipoi, per un misterioso disegno della Provvidenza, la vita èstata avara di anni perché malattia o incidenti vari ne hannoconcluso presto l’esistenza terrena.Oggi i nomi incisi sono circa duecento: è per questo chesi chiama «Croce dei ragazzi in cielo» (Croix des garçons enciel), meta del continuo pellegrinaggio di amici, genitori,parenti...Il grande papa Giovanni Paolo II conobbe la storia dei«garçons en ciel» e dei ragazzi che salgono in ritiro su quelmonte. In occasione del suo viaggio pastorale alla Chiesa5che è in Susa, il 14 luglio 1991, il Santo Padre, accogliendo lapreghiera del vescovo monsignor Vittorio Bernardetto, vollebenedire la stele, la nuova Croce alta otto metri e tutti igarçons lassù ricordati, indirizzando un commovente messaggioalla gioventù «che su quei monti, durante l’estate,vive i tempi forti dello Spirito...».C’è di più: nel luglio del 2003, due anni prima della suadipartita da questo mondo, in occasione dell’annuale convegnoestivo ai piedi della Croce, il grande Pontefice inviòai giovani un breve affettuoso messaggio, accompagnatoda un prezioso calice perché si celebrasse con esso la santamessa dei «ragazzi in cielo». Il tramite fu il carissimo donRenato (il vescovo mons. Renato Boccardo che fu per anniaccanto a Giovanni Paolo II in umile servizio).Il messaggio diceva così: «Giovani carissimi; su questomonte e a questa santa Croce dei “ragazzi in cielo” salitesempre numerosi per conoscere e amare Dio. Poi ridiscendetepieni di forza e di entusiasmo per dire Dio, fortemen

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© 2006 Effatà EditriceVia Tre Denti, 1 ~ 10060 Cantalupa (Torino)

Tel. 0121.35.34.52 ~ Fax 0121.35.38.39 ~ E-mail: [email protected] ~ www.effata.it

ISBN 88-7402-283-2

Frontespizio di Enrico CutriGrafica: Fabrizio MeloniStampa: Stargrafica – Grugliasco (Torino)Prima edizione: luglio 2006

Ristampa Anno

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I libri di don Paolo Gariglio

1. Ho 15 anni, Fumero, Torino 1960.

2. Brevetto da pilota, Edizioni Paoline, Bari 1962.

3. Conoscere il ragazzo, Ofca, Rimini 1964.

4. Il ragazzo sviluppo e crisi, Ofca, Rimini 1964.

5. Il ragazzo che ruba, Ofca, Rimini 1965.

6. Processo a Gesù Cristo, Editoria 3b, Torino 1971.

7. Oltre la stella Vega, Editoria 3b, Torino 1972.

8. La stagione di Dio, Elledici, Leumann (To) 1975.

9. Link Trainer, Giuseppini, Pinerolo 1979.

10. La stagione dell’arcobaleno, Edizioni Paoline, Milano 1983.

11. L’eresia dei Testimoni di Geova, Edizioni Nichelino Comunità, Nichelino (To) 1985.

12. Con la voce e con la vita, Edizioni Paoline, Milano 1986.

13. Chiamati a volare in alto, Cipe/Fies, Roma 1991.

14. Historiae d’Amore, Cipe/Fies, Roma 1992.

15. Gioventù di fine secolo, AVE, Roma 1996.

16. Scuola di volo, Edizioni Paoline, Milano 1996.

17. Quando la terra… Tre storie di ragazzi in cielo!, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 1998.

18. Amare l’amore, Elledici, Leumann (To) 1999.

19. Conoscere Andrea. Problematiche dell’adolescenza e della pubertà narrate dai ragazzi, Effatà

Editrice, Cantalupa (To) 2001.

20. Ciao don! L’eternità di un sorriso, Effatà Editrice, Cantalupa (To) 2004.

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PRESENTAZIONE

Lassù sulle cime

L’apostolo Paolo distingue gli uomini in naturali e spiri-tuali.

I primi sono creature fisiche e psichiche mentre i secon-di, oltre la natura fisica e psichica possiedono il Pneuma (Spirito), cioè hanno ricevuto in dono una vita sopranna-turale che «coabita» con la psiche (= anima umana). Questi sono detti i Figli di Dio, scaturiti dalla redenzione di Cri-sto.

L’uomo spirituale, ci spiega san Paolo, è toccato dal cielo ed ha il cielo in eredità, perché fruisce della vita divina.

Dunque la vita eterna è solo nella persona che l’ha rice-vuta dall’alto. Insegna l’evangelista Giovanni, riportando le parole del Battista: «Colui che viene dall’alto è al di so-pra di tutti ma chi viene dalla terra, appartiene alla terra e parla della terra...» (Gv 3,31).

Ci si rende facilmente conto di come, quando la terra è toccata dal cielo, la creatura terrena diventa cielo...

In questo libro vi racconterò l’avventura di sette giova-ni palesemente toccati dal cielo e vissuti sulla terra appena quindici, diciassette, diciotto, diciannove e trentadue anni.

Alle care Mammedei Ragazzi in Cielocon il pensiero rivoltoai santi giovani che vivono in paradisodopo aver «lavato le vestinel sangue dell’Agnello» (Ap 7,14)

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Sono storie struggenti e assolutamente vere, dove l’espe-rienza «pneumatica» ebbe sovente per scenario un monte e come momenti fatali quei «tempi forti dello Spirito» che so-no le esperienze spirituali.

Antoine, Gianfranco, Christian e Gigi per esempio, eb-bero in comune il monte Thabor (m 3200) che sorge in ci-ma alla Valle Stretta, in alta Val di Susa, già territorio fran-cese.

Lassù c’è un’antica capanna di minatori che sorge sulla falda del monte, trasformata fin dal 1956 in un modestissi-mo e spoglio rifugio alpino aperto ai giovani della perife-ria sud di Torino. Si chiama «La Maison des Chamois»: la Casa dei Camosci.

Dopo la morte di un animatore di nome Gianfranco, av-venuta per un banale incidente a cinquanta metri dalla ca-sa nel lontano 1980, si costruì lì nei pressi un’alta Croce sor-montata da una stele in bronzo che riporta incise le parole dell’Apocalisse: «Questi sono puri come vergini e seguono l’Agnello dovunque vada. Sono scelti tra gli uomini per es-sere primizia offerta a Dio ed all’Agnello» (Ap 14,4).

Su quella Croce si incidono continuamente nomi di ra-gazzi che passarono per quelle esperienze ma per i quali poi, per un misterioso disegno della Provvidenza, la vita è stata avara di anni perché malattia o incidenti vari ne han-no concluso presto l’esistenza terrena.

Oggi i nomi incisi sono circa duecento: è per questo che si chiama «Croce dei ragazzi in cielo» (Croix des garçons en ciel), meta del continuo pellegrinaggio di amici, genitori, parenti...

Il grande papa Giovanni Paolo II conobbe la storia dei «garçons en ciel» e dei ragazzi che salgono in ritiro su quel monte. In occasione del suo viaggio pastorale alla Chiesa

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che è in Susa, il 14 luglio 1991, il Santo Padre, accogliendo la preghiera del vescovo monsignor Vittorio Bernardetto, vol-le benedire la stele, la nuova Croce alta otto metri e tutti i garçons lassù ricordati, indirizzando un commovente mes-saggio alla gioventù «che su quei monti, durante l’estate, vive i tempi forti dello Spirito...».

C’è di più: nel luglio del 2003, due anni prima della sua dipartita da questo mondo, in occasione dell’annuale con-vegno estivo ai piedi della Croce, il grande Pontefice inviò ai giovani un breve affettuoso messaggio, accompagnato da un prezioso calice perché si celebrasse con esso la santa messa dei «ragazzi in cielo». Il tramite fu il carissimo don Renato (il vescovo mons. Renato Boccardo che fu per anni accanto a Giovanni Paolo II in umile servizio).

Il messaggio diceva così: «Giovani carissimi; su questo monte e a questa santa Croce dei “ragazzi in cielo” salite sempre numerosi per conoscere e amare Dio. Poi ridiscen-dete pieni di forza e di entusiasmo per dire Dio, fortemente e coraggiosamente a tutte le persone che incontrate!».

Va ancora detto che tutti i sette giovani (cinque maschi e due femmine) in vita furono esemplari animatori di gio-ventù delle parrocchie o dei loro compagni di liceo.

La grazia del Signore permetta a queste pagine di essere messaggere di speranza soprattutto per i tanti genitori sof-ferenti per la morte prematura dei figli.

Ai ragazzi e alle ragazze del nostro tempo: possano es-sere un cordiale stimolo a vivere l’adolescenza da giovani forti e testimoni coraggiosi.

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Gianfranco

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GIANFRANCO

Sono nato così

Io sono nato il 25 aprile 1963 a Moncalieri. Era di giovedì alle ore 17: ero di colore rosa e piangevo molto. Sono stato battezzato il primo maggio 1963 alle ore 5 nel-la cappella dell’Ospedale di Santa Croce di Moncalieri ed ero un bambino tranquillo e sono sempre stato abbastan-za grasso.

Incomincia così la storia di Gianfranco; le parole sono sue e si trovano nel quaderno di terza elementare. La pagina, che porta la data 23 ottobre 1971, quando aveva otto anni e mezzo, prosegue:

Ho cominciato a fare i primi passi quando avevo tredici mesi. Allora ho avuto la pertosse e a tre anni mi sono bru-ciato con l’acqua bollente.

Mamma Domenica completa ricordando come per ben due volte il fanciullo rischiò di perdere la vita: a tre anni per la scottatura con l’acqua bollente, e poi nel 1967:

Avevo già quattro anni e andavo all’asilo quando presi la malattia del gatto... perché io avevo un gatto che era am-malato.

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La mamma corregge spiegandoci come quella terza ma-lattia fu un’allergia che gli procurò uno sfogo cutaneo.

Emerge subito un bimbo davvero caro e semplice, co-me semplici sono le sue origini. I genitori provengono dal mondo dei braccianti: gente che mangia con un piatto di minestra e una cucchiaiata di legumi, suda e «tira la car-retta» tutto il giorno. Papà Giovanni Ligustri si era affran-cato dal bracciantato contadino per il mestiere di muratore che imparò fin da ragazzo mutuando l’arte dagli zii e ser-vendo poi come garzone presso un vicino di casa. Divenne capomastro finché giunse a lavorare in proprio.

Leggiamo in data 29 novembre di quell’anno della ter-za elementare:

Il mio papà è nato il 25 luglio 1931 a Villafranca Piemon-te e la mamma Domenica Tealdi il 9 dicembre 1933 nello stesso paese. I miei genitori vestivano modestamente perché erano po-veri. Il papà portava i capelli a spazzola, corti, mentre la mamma li aveva molto lunghi e raccolti in due trecce che la facevano molto bella. I miei genitori si sono sposati il 13 giugno 1956. Hanno visto la guerra mondiale quando era-no bambini come me. Il mio papà ha visto incendiare dai tedeschi il paese dove abitava e ha anche visto uccidere quattro persone...

Gianfranco si svela subito di buona intelligenza; sereno osservatore degli avvenimenti e soprattutto ragazzo sensi-bile e disponibile al prossimo.

Il papà è una scorza d’uomo onesto, amante di un buon bicchiere di vino, secondo lo stile dei braccianti della sua terra. La mamma è alquanto dolce, molto religiosa, rotta alla vita e alla fatica, si corruccia soltanto quando Giovan-ni se ne torna a casa con il bicchiere in più. Forma con sem-

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plicità la coscienza di Gianfranco e Marina, la primogeni-ta, nata dopo un anno di matrimonio.

Anche per tale dolcezza la casetta di via Leopardi 34 è sempre linda, un po’ civettuola, sormontata da un leoncel-lo accucciato. Gianfranco fanciullo si gloriava molto della sua casa: «Questa casa l’ha fatta il mio papà», diceva spes-so agli amici di gioco e di scuola.

Dopo la terza elementare il ragazzo conclude il catechi-smo ed è presentato per la Prima Comunione.

Don Antonio Pettiti, il vicecurato responsabile della cate-chesi infantile, ricorda con commozione: «Era un ragazzot-to molto simpatico, grassottello, dagli occhi sempre accesi anche se abbastanza timido. Studiava con voglia e ascolta-va con molta attenzione le lezioni dei suoi catechisti».

C’è una fotografia che lo mostra raggiante, e lo era vera-mente; ma non per la festa in famiglia o per il dono dell’abi-to nuovo ben adatto per la crescita: era contento perché fi-nalmente aveva fatto la Prima Comunione e d’ora in avanti poteva ripeterla tutte le domeniche, moltiplicando così l’in-contro con il suo amico Gesù. Si sentiva ormai protagoni-sta: era rimasto scosso dalla storia di Tarcisio, il fanciullo trucidato nel 260 con l’Eucarestia stretta nella mano.

Le scuole elementari e medie si svolsero a poche decine di metri da casa sua, gli edifici sono lungo il viale dedicato ai fratelli Kennedy. Era innamorato di quel viale, dei prati attorno e della strada dove trascorreva ore spensierate tan-to da ricordarli con calore da studentino quindicenne.

Sono molto legato ai luoghi in cui vivo perché sono i luo-ghi dove sono sempre vissuto. La mia casetta, fatta del lavoro e dei sacrifici di mio padre, è molto bella.

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Poi sono affezionato al prato dietro casa, dove da bambino giocavo agli indiani con gli amici che invitavo in una ca-panna che pareva grande... e tanti ne ospitava...!Ai margini di questo piccolo prato, quand’ero bambino, esisteva un campo coltivato a granoturco che mi ricorda la pazza fuga con il contadino alle calcagna mentre guidava un mostruoso trattore. Avevamo rubato qualche pannoc-chia di granoturco che abbandonammo filandocela con il trattore a ruota. Un altro posto a cui sono fortemente lega-to è il viale della scuola. Sorge a 50 metri da casa, dove fi-nisce la mia via. Mi ricorda tanti bei momenti, tante vola-te in bici e anche qualche batticuore per una possibile in-terrogazione. Tra i luoghi cui sono affezionato il più caro di tutti è an-cora l’Oratorio, mi sono sempre più legato a quel luogo ed oggi lo sono più che mai perché è 1’ambiente dove vado a trascorrere il mio tempo libero. Ho molti cari amici con i quali mi scateno nel gioco a pallone e discuto dei proble-mi della vita.

In una confidenza a Guido, un ragazzo recalcitrante alle proposte parrocchiali, egli dirà:

È la casa dove si impara a crescere. Io ho imparato molto e soprattutto ho provato gioia, quest’anno, d’insegnare Ge-sù. Lo sai che sono catechista dei ragazzi che si prepara-no alla Cresima? È molto bello insegnare il Catechismo... Credo che sarò ancor più felice quest’estate, quando finita la preparazione, farò anche io équipe per gli adolescenti. E tu Guido che aspetti?

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Ragazzo del suo tempo

Nichelino è un grosso agglomerato della periferia torine-se, popolato da oltre 50 mila persone. Kennedy invece è il nome del quartiere dove abitava Gianfranco Ligustri ed è anche la parte più giovane di questo comune della cintu-ra della metropoli piemontese; conta 1500 famiglie ed è un insieme caratteristico di villette, case popolari, molti prati e un firmamento di fanciulli.

La crescita demografica del quartiere proprio non si è piallata a zero..., dalle viuzze sale incessante il vociare acu-to quasi metallico dei fanciulli in gioco. Se un campo non è ancora occupato dal cemento, subisce immediatamente quell’allegra occupazione proletaria che lo trasforma, sedu-ta stante, in «punto verde» da gioco!

Al pallone Gianfranco gioca volentieri anche se il suo hobby preferito è da ricercarsi nel marziale karatè. Infatti fin dalla prima media è socio del Club Ten Sai, la palestra del geometra Ferrero e del figlio dottor Giuseppe, via Piave 9. Ha fatto un gran tirocinio alla Ten Sai e non senza suc-cesso: una buona dozzina di medaglie sono il presupposto di un campione di prim’ordine.

A quattordici anni emerge a Vicenza, conquistando il secondo posto nazionale ai campionati categoria «speran-za»; dopo una serie di passaggi entusiasmanti si classifica terzo agli internazionali di Carrara, primo ai provinciali di Asti, terzo al trofeo Takashasi di Chieri. La rivista «Karatè» edita dalla Federazione Sportiva Italiana Karatè, nel nume-ro del martedì 22 marzo 1977, sotto il titolo Le speranze di-ventano realtà scrive:

Gianfranco Ligustri, con Crepaldi, Gonella, Sorrentino, Garavello e Vitale è sempre in testa... Vincono un po’ l’uno

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e un po’ l’altro, ma i nomi regionali sono sempre quelli e Ligustri li sovrasta.La tecnica che hanno raggiunto e la serietà con cui si pre-parano fanno di essi, più che una speranza per il Karatè piemontese, una promessa per l’agonismo nazionale.

Di lui dice Maria Grazia Ferrero, direttrice della palestra e campionessa nazionale:

Era un atleta esemplare che ha sempre dato il meglio di se stesso nella pratica di questo sport riuscendo a compren-dere, cosa rara fra i piccoli, anche la componente spiritua-le che ne è la base.

Gianfranco è un ragazzo del nostro tempo, con le sue esuberanze e i suoi difetti. Porta con sé traccia di quelle ambizioni inconsce e sollecitazioni coscienti caratteristiche dell’età e della civiltà in cui vive. La sua vita, come quella dei suoi coetanei credenti, è una lotta di liberazione di sé dalla istintiva tendenza a ripiegarsi sulle cose e trovare in esse lo sbocco di una prorompente giovinezza.

Il suo modo di accostarsi alle cose lo cogliamo nell’av-ventura della moto. C’è stato un periodo verso i sedici anni in cui il disegno del ruspante cavallo meccanico lo si trova qua e là nel diario di scuola e in qualche quaderno di brut-ta copia. Una moto con cavaliere indomito e ruota anterio-re protesa verso il cielo. È Marina, la sorella, a captare il de-siderio e favorirne la passione; d’accordo il babbo, ignara la mamma.

Così la moto da cross, una robusta Aspes 125 da compe-tizione, se ne arriva una sera qualunque del mese di mag-gio e poco manca che non succeda il finimondo in quel ve-spro primaverile del 1979. Domenica, la mamma, si fa furi-bonda perché della moto non ne vuole sapere. Proprio non vuole vederlo, il suo ragazzo, su quella macchina da sca-

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vezzacollo. Non sopporta i caroselli sul prato e capisce che i passaggi a volo radente per i sentieri dei campi, saltando le rocce, a nulla servono se non a dissipare tempo, buttar danaro e poi anche a rompersi l’osso del collo. «Ché se si farà male... guai a voi!», conclude a notte alta con un grop-po in gola.

Per la verità, in quei pochi mesi che fu sua, la moto non la usò molto: la cavalcò soprattutto per alcune settimane dopo il campo-lavoro in Friuli. Poi si aprì l’anno scolastico con tutti i suoi impegni.

Nei brevi giri per il prato o lungo qualche viuzza del quartiere, era normale trovarlo con in sella qualche ragaz-zotto... da pescare per il «campo»! Prima della Pasqua 1980 quella moto della discordia Gianfranco la consegna a Pie-ro, l’amico meccanico al quale dirà: «Devo studiare; non posso perder tempo..., tienila fino a questa estate: dopo i campi salterò in sella per farci il giro d’Italia! Se Marina s’informerà, tu le dirai che il motore è in panne: manca un pezzo del carburatore». E non era nemmeno una bugia la sua, perché il «pezzo» del carburatore se lo era portato via e dove lo avesse nascosto nessuno lo sapeva tant’è vero che, a morte avvenuta, il meccanico dovette provvedere all’ac-quisto di un marchingegno nuovo di zecca. Soltanto più tardi, in una scatola dimenticata, l’oggetto mancante salte-rà fuori ben avvolto in uno straccio e oleato.

Ora la moto è ferma: i genitori l’han donata alla comuni-tà parrocchiale, ma nessuno la vuole usare; resterà a ricor-do come una delle piccole e preziose cose caratteristiche di una vita che ha lasciato ai suoi giovani amici un patrimo-nio di ricordi favolosi e stimolanti.

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Musica e poesia

Ragazzo del suo tempo anche nei gusti. Riservava uno squisito spazio all’ordine della sua persona, alla pulizia, al decoro nel vestirsi. Era sempre elegante, bello, pur vesten-do cose da nulla.

Ai ragazzi trasandati del gruppo diceva, ricalcando una battuta del «don»: «Essere belli è grazia di Dio ben distri-buita». A quell’età ci vuol poco: acqua e sapone e una faccia che ride ti fa la persona più simpatica del mondo.

Gli piaceva la musica. Stava imparando a suonare la chi-tarra e vi si dedicava con passione anche perché sapeva molto bene quale fortuna sarebbe stata al «campo estivo» una chitarra in mano ad un ragazzo che ci sa fare... I gusti musicali erano del suo tempo. Li troviamo in un quaderno di appunti:

A me la musica piace: me la trovo nel cuore e la esprimo sovente anche soltanto zufolando, perché cantare non rie-sco. È un valore la musica, la si accoglie come mezzo privi-legiato per captare ed esprimere messaggi, stati d’animo, ansie e gioie della vita.Già gli indigeni l’adoperavano per pregare: era preghiera il loro evocare con i tamburi gli spiriti dei trapassati... Og-gi l’elettronica [la materia del suo studio] fa sì che si otten-gano effetti sonori veramente melodiosi... Quando posso mi sdraio sul letto ed ascolto volentieri un disco a basso volume.Mi fa bene, specie dopo le ore di scuola distende i nervi.Ultimamente ho acquistato una chitarra... devo mettermi d’impegno, anche se le corde fanno male ai polpastrelli... Un complesso che ascolto con una certa simpatia è quello americano dei Crosby, Stills Nash e Young. Ha introdotto la musica country-rock o musica dell’ovest.

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Gusto molto anche la musica dei cantanti italiani: Benna-to, Cocciante, De Gregori, Finardi e Guccini, perché i te-sti delle canzoni riguardano quasi sempre i problemi del-la società.Molto pungente ed apprezzabile quella degli americani Pink Floyd e i Rockets.Invece, mio malgrado, non mi riesce godere la musica classica, anche se capisco che è molto bella.Quest’anno è arrivata in Italia la musica Punk che provie-ne da un movimento inglese.La ritengo senza senso con poche prospettive di succes-so e anche stupida come i giovani che aderiscono al movi-mento... Un altro genere di musica che non apprezzo affat-to è quella dei festivals televisivi: la considero musica leg-gera, perché è veramente leggera in quanto priva di signi-ficato... a parte quello commerciale...

Preciso è il giudizio sul jazz:

Dopo il periodo lasciato in disparte, il Jazz sembra rivive-re anche da noi. È vivo, orecchiabile, rispecchia tutto un simpatico genere americano di colore.A mio parere è molto valido perché sa essere contempora-neamente allegro ed impegnato. Mi piace!

Questi giudizi ci offrono anche un buon profilo psicolo-gico: siamo di fronte ad un soggetto che è d’istinto un gio-vane allegro ed impegnato. Emblematico il suo gusto lette-rario. Nei suoi temi e più ancora nei suoi appunti, trovi ci-tata la romantica storia di Tempi memorabili del Cassola, do-ve il giovane protagonista gli fa rivivere il suo momento di crescita. Il piccolo libro lo colpisce assai. Leggendo alcune pagine di una sua recensione s’intuisce quale grado d’im-medesimazione raggiunga nel pensare Fausto.

È un bel romanzo questo di Carlo Cassola perché le sen-sazioni, gli stati d’animo e i problemi di fondo del Fausto sono quelli di ciascuno di noi.

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Il quindicenne del Cassola è in piena crisi e non ha quella chiave straordinaria per sbloccarla che è una visione pro-fonda della vita e un ideale d’amore superiore alle espe-rienze limitate ai volti che s’incontrano nella contrada.Ho amato Fausto, rammaricandomi del suo ermetismo: una comunità di amici l’avrebbe fatto crescere e anche aiutato ad espandersi e ad amare più profondamente...

Si trovano anche tante e tante citazioni d’autore e sotto-lineature che inquadrano e commentano l’idea della mor-te come idea di sopravvivenza: il pensiero della morte in una visione estremamente serena ricorre sovente in Gian-franco. È un materiale piuttosto fuori dell’ordinario. Tutta-via è chiaro che questa sua mentalità risponde ad una logi-ca: Gianfranco è profondamente credente.

È portato a riflettere sui grandi problemi dell’esistenza e prova gusto a studiare come si pone l’uomo davanti al mi-stero dell’esistenza. Veramente significativi i commenti ad autori come il Foscolo, l’Ungaretti, il Quasimodo. Sembra-no contraddire all’ilarità del carattere, invece ne esprimo-no l’ottimismo e la profondità che è fondata su una fortis-sima sicurezza interiore e una chiara speranza. Al cospetto dell’incredulo Foscolo che canta la quiete della sera, Gian-franco afferma:

Il buio che accompagna la sera, Ugo Foscolo lo chiama pa-ce: la pace che si trova nella morte...; ma per goderla, que-sta pace, occorrerà pur che vi sia una vita nell’aldilà!

Contrappone La sera a Sereno dell’Ungaretti, che trascri-ve per disteso su tutta una pagina del suo quaderno:

Dopo tanta nebbia a una a una si svelano

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le stelle.Respiro il fresco che mi lascia il colore del cielo.Mi riconosco immagine passeggera.Presa in un giro immortale.

Commenta Gianfranco:

Ungaretti, come il Foscolo nella Sera, parla della morte ma ne parla come di una cosa serena, sicura, come di una li-berazione. Ungaretti, però, ha una speranza.Con la morte esce dalla nebbia e dalla confusione per es-sere coinvolto in un giro senza fine!

Dedica tutta la pagina seguente ad una strofa di Salva-tore Quasimodo Ed è subito sera:

Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera.

Melanconia? No! Un semplice e forte presagio di vita.

Cresce la vita

Se è vero che lo spirito modella i lineamenti del corpo, al-lora Gianfranco, che era un gran bel ragazzo, doveva ave-re un’anima straordinariamente luminosa. Dolce, affabile, sempre allegro, portava per il Signore, per il prossimo e so-prattutto per lo «stato di grazia» una tensione e una cura eccezionali.

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Sostenuto da un innato stile di semplicità, solo pochissi-mi suoi amici sapevano che era campione regionale di ka-ratè: il medagliere dei successi atletici che papà esponeva periodicamente, altrettanto puntualmente veniva rimosso e rinchiuso nell’armadio di camera sua. Così come gli ar-ticoli della rivista specializzata che a tratti lo menziona-va. Era portato a rovesciare con discrezione e semplicità la mentalità del successo umano come valore esaltante, per accogliere invece, quale tesoro, le cose piccole, i valori mo-rali.

Intransigente quando si trattava di discernere le sue ten-denze cattive, fino al punto di scrivere proprio sul diario di scuola (dove i ragazzi si sbizzarriscono solitamente in sciocchezze sotto forma di slogan del momento) un pro-gramma di vita semplice e severo, desunto da un libro di meditazione. A caratteri cubitali, nella pagina del giorno 2 febbraio 1980:

E non dire mai, a proposito degli altri: si arrangino; a pro-posito dei tuoi genitori: non capiscono; a proposito dei tuoi difetti: è il mio carattere; a proposito delle preghiere: non ho tempo; a proposito delle tue cadute: è impossibile; a proposito dei piaceri cattivi: si vive una sola volta; a pro-posito delle tue letture: non sono più un bambino.

Lo spirito di orazione gli risultava naturale: la preghiera sgorgava dal cuore quando il suo sguardo ammirava con stupore l’opera di Dio. Osservava tutto con trasparenza in-nata: gli alberi, le pietre, le lucertole, le meteore, le costella-zioni, i fiori, le pesche mature che ogni fine estate si recava a raccogliere a Villafranca Piemonte.

Lo studio della natura, della fisica, dell’elettronica lo ine-briava... tutto era sacro per lui, anche se non sempre il suc-cesso scolastico gli era pienamente favorevole. Tutto lo in-teressava, lo attraeva.

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Una sera in montagna, osservando il firmamento con i suoi amici, esclamò:

Oh sì, è proprio un bel presepio quello che ci ha fatto il Si-gnore... È attraverso tutte queste cose che il Padre ci vuol bene!

La preghiera contemplativa osservando la natura può essere espressione di animo romantico e potrebbe prende-re il posto di quell’orazione discorsiva e vocale che porta, più di ogni altra forma, i segni della religiosità.

Quando poteva, pur abitando distante, si recava con i suoi amici alla chiesa antica per la recita delle Lodi prima di scuola. Specie nell’ultimo anno difficilmente trascurava una sia pur fugace visita quotidiana al sacramento dell’al-tare. Vi si recava con discrezione passando facilmente inos-servato.

A casa mamma Domenica si era incuriosita per quel filo di luce guizzante dall’uscio della stanza a notte alta. Non aveva resistito a dare uno sguardo furtivo, non fosse altro che per fugare il sospetto di un’insonnia per malore; si af-faccia alla porta, lo trova assorto in lettura, in ginocchio ac-canto al letto... Il ragazzo non se ne accorge tant’è raccolto e lei, commossa, non ci proverà mai più.

Non era raro, al mattino, recuperare tra le lenzuola la mini-corona del rosario. Gianfranco usava quegli anelli co-stellati di dieci piccole rose mariane.

Un’altra caratteristica era l’altruismo unito ad uno spic-cato spirito di povertà. Confessandosi, s’interrogava soven-te sulla «povertà» perché aveva scoperto una cosa: la po-vertà – non la miseria – è una grande virtù, è la «ricchez-za più bella». Se può essere comprensibile per un ragazzo l’aver accettato con gioia la moto da cross, è sicuramente a suo discarico l’uso che ne fece: gli serviva per attrarre a sé

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più amici che poteva. La moto, come le altre sue cose, era-no nelle sue mani come un’esca del pescatore calata per ag-ganciare i pesciolini del suo vivaio.

Ad assoluzione completa per la «gran pecca» di una mo-to rinchiusa dal meccanico per la volatilizzazione di un pezzo del motore, c’è una riflessione scritta a matita sul fo-glio di un questionario interlocutorio proposto dal predi-catore in occasione di una giornata di ritiro svoltasi a Villa Lascaris di Pianezza il 6 giugno 1980:

Gesù, volto sofferente impresso sulla Sindone, oggi mi rendo conto che nella mia vita ho sempre voluto fare di te-sta mia, il karatè e poi la ginnastica... e la moto da cross, mentre molti ragazzi, uomini e donne non hanno l’occor-rente per vivere o il tempo e la casa per riposare. Ho peccato... Come dice il Papa, ora spalanco senza indu-gio la porta della mia vita, del mio cuore e ti invoco e ti ac-cetto come salvatore. Governami tu ora dal mio cuore do-ve abiti. Rendimi la persona che tu vuoi che io sia, Amen.

Mani bucate

Le sue mani erano bucate.Sguarnisce il guardaroba distribuendo calzettoni, pan-

taloni, sacco a pelo, zainetto per conquistare all’idea del «campo alpino» gli adolescenti più poveri del quartiere.

L’amore ai più poveri gli era innato, anche perché la fa-miglia era d’estrazione umile. Fin da bambino, se sapeva che nei paraggi c’era qualche accattone, faceva la spola tra lui e la mamma per rifornirlo di cibo, indumenti e qualche moneta. Una volta ad un diniego paterno pianse molto e poi si rifugiò dalla zia che abita la casa di fronte, alla ricer-ca di qualcosa da donare.

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Questa sensibilità verso gli altri lo portò con facilità sul terreno dell’apostolato. Non ancora sedicenne, si lanciò a capofitto nell’esperienza del catechismo ai fanciulli che si preparavano alla Cresima. Le sue lezioni erano trascritte, riga dopo riga, e studiate con impegno anche perché do-veva vincere la timidezza di chi fa il catechista in mezzo a colleghi più grandi e sperimentati.

Tra gli appunti rimbalzano norme pedagogiche scritte di suo pugno. Dopo una lezione particolarmente difficile, riflettendo sulla difficoltà incontrata scrive:

Devo instaurare un rapporto di amicizia con i ragazzi.Devo conoscere personalmente tutti i ragazzi.Devo presentare meglio quello che vorrei fare quest’an-no.Devo sfogliare insieme il catechismo e far così compren-dere loro che tra le mani non abbiamo un libro di studio ma una preghiera.

Tra i suoi fogli sono venuti in superficie appunti interes-santi delle sue lezioni. Quando insegnava l’amore al pros-simo, la lezione (preparata per iscritto) si faceva magistra-le:

Gesù [trascriviamo dai suoi fogli] ci ha narrato la parabo-la del buon Samaritano (Lc 10,29-37), per insegnarci con semplicità chi è il nostro prossimo e come dobbiamo com-portarci nei suoi confronti.Ci ha insegnato a chiamare gli altri «prossimo» cioè per-sone vicine, che ci vivono accanto; questo per dirci che gli altri sono sempre nostri fratelli; fratelli dei quali non pos-siamo né dobbiamo fare a meno.Ecco perché Gesù ci dà un modello di comportamento nel Samaritano: perché lui si comportò bene in quanto rico-nobbe nello sconosciuto bastonato dai ladri proprio il suo fratello.

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Gesù ci invita dunque a comportarci come il Samaritano, cioè ci invita ad amare sempre e tutti, e ancora di più ci in-vita a servire tutti: amici, parenti, familiari, ma anche tut-te quelle persone che non conosciamo.Questo servizio, ci dice Gesù, rispondendo alle doman-de degli Apostoli, quando stette con loro per l’ultima vol-ta, è molto importante perché amare è il comandamento principale...

Non ci troviamo di fronte a sole parole; Gianfranco met-teva in pratica quel che diceva! Quando portò a casa il suo primo stipendio di raccoglitore di pesche dopo il mese di settembre trascorso a Scarnafigi (Cuneo) da parenti mater-ni, e i genitori gli chiesero le intenzioni d’impiego di quelle 105.000 lire, il ragazzo (che aveva quattordici anni) espresse il desiderio di offrire tutto il capitale alla sua comunità par-rocchiale, allora oberata per le varie opere caritative. I geni-tori, dediti al risparmio e protesi ad insegnargli altrettan-to, rimasero frastornati dall’ipotesi e gli aprirono un libret-to di risparmio: quel medesimo che offriranno in dono, do-po la sua morte, con la somma accumulata di lire 1.205.000. Serviranno da base per la ristrutturazione del rifugio alpi-no della Valle Stretta che sarà dedicato proprio a lui.

Amava decisamente vivere lo stato di grazia: all’Euca-restia accedeva più volte la settimana. Sempre la domeni-ca, sempre nel giorno del «cenacolo», spesso alla messa fe-riale delle 18:30. Anche quando era ammalato – ci ricorda il suo confessore, l’unico che può assicurarci queste notizie – desiderava sovente la sua visita, possibilmente con Gesù Eucarestia. Qualche volta telefonava al sacerdote: «Quan-do vieni, don?». Il sacerdote andava e s’intratteneva con lui, occhi negli occhi, per una ennesima assoluzione e per nu-trirlo una volta ancora del Pane eucaristico. In quei mo-menti il volto si faceva felicissimo.

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Il tutto accadeva mentre mamma Domenica in cucina preparava il caffè, fino a che il figlio dalla camera non le di-ceva: «Vieni mamma!». Aveva accettato e capito fino in fon-do la pedagogia dell’Eucarestia e proprio da essa traeva so-stegno per una vita della quale umiltà, castità e carità costi-tuivano il trittico prezioso.

Il sacramento del perdono era punto di riferimento pres-soché settimanale...

I temporali della natura

Con l’accelerazione della pubertà dovuto a quei fattori che partono dalla nutrizione, dall’eliotropismo e approdano al-la grande trasformazione culturale di cui la società si è fat-ta carico, a diciassette anni un ragazzo è, psicosomatica-mente, davvero già un uomo fatto. Ha, cioè, il suo mon-do, le sue prospettive e sovente gran parte delle sue scel-te compiute, ivi incluse quelle affettive, vocazionali, pro-fessionali...

Gli anni tra i quattordici e i sedici sono talmente impor-tanti, per un ragazzo, da potersi definire fondamentali. Un educatore non li può lasciare passare invano, visto e consi-derato che la vita futura dipenderà proprio da ciò che sarà sbocciato nell’anima in quel breve lasso di tempo. La con-dizione di adulto è dunque legata a quel momento e agli in-contri che in esso si verificano... Forse anche la crescita spi-rituale ne è in qualche modo dipendente.

Un incontro misterioso caratterizza le conversioni del-la gente di tutti i tempi: Luca incontra i cristiani profughi che da Gerusalemme risalgono ad Antiochia; in quei dise-redati ha visto il Cristo e lui stesso ne diventa evangelista.

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Oggi l’uomo incontra il Signore quando il rendez-vous della singola persona avviene con un vero credente, un autenti-co testimone di Cristo.

Tutto il mistero della salvezza si gioca così! I quattordici-sedici anni sono appunto il momento felice per un impat-to con il Signore, anche perché il giovane uomo di quell’età si sente solo e disarmato, in balia delle sue tendenze pas-sionali e con addosso una gran voglia di «voler bene». La coscienza gli funziona splendidamente. La voglia di ama-re lo conduce a qualcuno; si tratta di identificarne l’obietti-vo: identificare saggiamente il «Qualcuno». Se il soggetto, in quel momento, trova l’amore vero, l’amore agàpe, l’amo-re dono, l’amore grazia, allora ne resterà conquistato e la sua traiettoria di vita sarà di una chiara angolazione spi-rituale.

L’esperienza di amicizia e di dono dei campi alpini vis-suta da Gianfranco nel quattordicesimo anno della sua pic-cola storia è stata gratificante. Da quel momento la sua esi-genza e la sua esperienza affettiva si svincolano gradata-mente – non senza strappi dolorosi – dalle pastoie della materialità della pubertà verso una pienezza spirituale di adulto. Strappi dolorosi avvengono pochi mesi dopo l’espe-rienza montana del ’77, l’esperienza del campo «dell’arco-baleno».

Allora Gianfranco ha un momento di eclisse: lo docu-menta una cartolina del suo padre spirituale. Poche righe piovute in tempo per smuoverlo da uno di quegli improv-visi torpori, di quelle anemie del carattere e dello spirito che costellano e caratterizzano la psicologia dell’età evolu-tiva:

Caro Gianfranco, ancora un saluto prima di chiudere la casa alpina, dove hai vissuto una forte esperienza di bon-tà e dove il tuo papà sta lavorando per farla bella.

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Nonostante il Karatè spero di rivederti ai cenacoli del gio-vedì ore 17,30. Ciao, coraggio! Sta’ buono e... rifatti vivo!!!

7 ottobre 1977. Effettivamente in quei giorni il ragazzo vive la sua crisi più importante: il suo momento di amalga-ma, tormentato da una pubertà che lo fa scendere all’ascol-to incondizionato delle energie di un corpo prorompen-te, ed una adolescenza romantica, spiritualissima, che sale dritta verso il sole con le sue tappe di amicizia e di amore cristallino. Vive il suo temporale.

Un temporale che dura almeno un anno e finisce per ri-velarsi una potatura della sua natura in ordine ad una vi-ta nuova e rigogliosa. Lo si deduce da alcuni significativi episodi. Quella festicciola nella casa di Guido G., per esem-pio...

Margherita, la ragazza che incontreremo tra poco, ci di-ce che Gianfranco a quella festa ci andò con entusiasmo, perché a lui stava a cuore l’amicizia di tutti quei ragazzi e quelle ragazze..., ma in particolare stava a cuore un amico un po’ claudicante che tutti chiamavano Lilli e l’insepara-bile Guido. Quella festa, però, prese una piega non del tut-to positiva: le luci si ovattarono, mentre il mangiacasset-te risuonava di musiche per il ballo e due o tre coppiette si appartavano in un angolo d’ombra. Gianfranco non appar-ve corrucciato di fronte a quello stile: se ne rimase in pie-na luce ad animare la baraonda. Non svelò disagio, ma più tardi farà capire a Margherita che lui la festa non l’avrebbe voluta proprio così...

La sua intenzione si rivelò nei fatti, in quanto Guido e Lilli uscirono da quella festicciola per imparare la strada della parrocchia.

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Era la mezzanotte

All’età di quindici anni, la «bufera» della crescita può pie-gare i ragazzi ad impercettibili alienazioni mentali, ad abi-tudini che inclinano ad una mentalità e ad una pratica del-la sessualità e dell’amore che è decisamente nociva.

Agli esercizi spirituali di Chateau Beaulard nel quindi-cesimo anno di Gianfranco si fece un test abbastanza usua-le in quella circostanza. Si chiese ai ragazzi di esprimersi in modo anonimo su una precisa domanda: «Ragazzo, qual è il cruccio che vorresti risolvere?». Risposero – ed anche queste risposte sono usuali – stigmatizzando il loro mo-mento di crescita, la mancanza di confidenza con qualcu-no, l’assenza di rapporti interpersonali con persone buone e soprattutto espressero le loro cadute e la voglia di una vi-ta bella, pulita. Leggiamo qualche test raccolto nell’archivio della casa di esercizi:

Mi sento pesante, con la pelle sudicia perché vivo un at-teggiamento convenzionale con la famiglia, e un altro con me stesso e con certe amicizie.(15 anni e 6 mesi) Molte volte sento il desiderio di essere migliore, ma che fa-re? Gli amici, le maniere d’oggi, le spinte del mio istinto mi portano sempre molto in là... nel mio cuore sento che tutto questo è male ma non so frenarmi perché mi piace godere.(15 anni e 2 mesi)Durante uno sciopero scolastico ho fatto il duro e mi ci è uscito anche il discorso in palestra. Però, sono un bel porco! Sembra che mi piaccia la giustizia e che sia lì lì per raddrizzare le gambe ai cani, ma poi al-l’occasione concreta mi comporto da suino matricolato... (16 anni)

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Non so essere me stesso e questa è la mia angoscia: le fan-tasie erotiche sono il mio pane ed io sovente do loro libe-ro corso... (14 anni e 6 mesi)

Per i temporali di questi ragazzi del cui gruppo face-va parte solidale il nostro adolescente, non ho ancora men-zionato la parola «peccato». Non si può, tuttavia, non ri-conoscere la negatività di un comportamento di autoeroti-smo. Esso è indice di individualità, egocentrismo e quindi di immaturità e debolezza, non di forza. La sessualità, in-fatti, che caratterizza tutta la persona è relazione, recipro-cità e porta alla comunicazione e alla comunione. La per-sona umana esprime anche le sue potenzialità spirituali at-traverso il corpo: è spirito incarnato, perciò non può espri-mersi solo in modo istintivo.

I quindici anni sono tempo di trasformazione: sono i fa-mosi giorni mobili entro i quali le creature cambiano co-me la luna e si sentono sovente disarmate, irresponsabili tanto da cadere sotto il peso di un corpo in espansione, di uno spirito genuino ma estremamente fragile e bisognoso di tutto. Leggiamo ancora una risposta:

Qualche volta mia madre mi guarda con tenerezza negli occhi. Mi basta. Qualche volta mio padre mi sorride. Cosa importa se è un sorriso che vuole solo un sorriso? Per un attimo ha avuto fiducia in me; ha avuto fiducia che io gli restituissi il sorriso. Sono attimi.Per me che spesso non posso avere altro, valgono un’eter-nità.

È nella luce di quei giorni che appaiono magnifici gli episodi di cui il confessore di Gianfranco, senza ledere af-fatto il sigillo della confessione, ci ha fatto prezioso dono. Sono il ricordo di due confessioni particolarmente pateti-

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che che vivono preziose nell’animo del sacerdote che ebbe il dono di raccoglierle. Il ragazzo non aveva ancora compiu-to quindici anni: viveva appunto l’anno della grande bufe-ra adolescenziale e stava facendo le sue scelte di fondo. I ra-gazzi credenti a quell’età si arrovellano e combattono ten-sioni volte a consolidare lo stato di grazia da contrapporre alle facili autoconcessioni: un’altalena caratteristica perché a quindici anni un ragazzo è già capace di bene e di male: sa già essere un autentico adoratore di Dio, ma anche un peccatore. Ha tre anni di più di quanto pensa la mamma... Non sono molti i ragazzi che si crucciano fino al punto di non voler vivere un solo giorno con il Cristo eclissato nel cuore (questo era il proposito formulato agli esercizi spiri-tuali nelle vacanze di Natale 1978; allora se ne era salito al-la casa, febbricitante, ma ne era valsa la pena).

Torniamo alla confessione:

Saranno state le 24. Si era in pieno inverno, probabilmente a fine gennaio – ci confida il padre spirituale – quando il campanello alla casa canonica suonò a lungo. Dalla finestra del primo piano vedo Gianfranco; scendo, apro non senza un presentimento angoscioso che sia acca-duto qualcosa in famiglia. «Don, questa sera non mi sento affatto buono: ridammi Gesù...». Si confessò così, sull’uscio della casa fugando dall’anima l’ombra di qualcosa che non gli stava bene... Poi filò via per la strada ghiacciata lasciando intravvedere tra i panta-loni e le scarpe il bianco delle caviglie senza calze. La tem-peratura era polare e lui rientrava mezzo nudo e in punta di piedi, tra le brine dell’orto; il tutto per non allarmare i genitori sprofondati nel sonno.

C’è poi quell’altra misteriosa confessione descritta al-trove: quella del lunedì 16 giugno 1980, ore 7:30, partendo

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per il campo «come l’andar in paradiso». La sua spirituali-tà privilegiava l’esperienza della penitenza, della direzione spirituale con il suo «don» e gli faceva dedicare molto tem-po all’impegno dei propositi. Uno per tutti, a conclusione di quel ritiro di Villa Lascaris nel giugno 1980, a meno di dieci giorni dal campo e quindici dalla morte: «Non pro-metto di vivere da santo, ma prometto di non vivere 24 ore in K.O.».

Papà Ligustri l’ha sognato forse sei volte fino al presen-te: all’ultima tornata di fantasia gli è apparso di corsa come i ragazzotti quando piombano come meteore e si fermano, scivolando sulla suola delle scarpe. Una volata con gli ami-ci per guadagnare il primo posto nella coda del confessio-nale. Dopo il sogno il genitore penserà di regalare alla nuo-va chiesa di zona Kennedy dedicata a S. Vincenzo de’ Pao-li, un confessionale nuovo di zecca a ricordo di questo suo figlio che nel confessionale si era formato alla trasparenza del cuore.

Una frase di Pio X è passata alla storia: «Ci sono mol-ti santi tra i ragazzi»; Gianfranco è probabilmente uno di questi, anche se non sarà mai nel catalogo canonico, pro-prio come la gran massa dei giusti che vivono presso Dio senza il bisogno del plauso umano. Non si può restare in-differenti al fascino di questa bontà giovane. Non per nul-la la sua morte ha attirato a sé e a Gesù un numero notevo-le di ragazzi assetati di pulito. Fu proprio questo modo di vivere, ilare e austero, delicato e altruista che lo rese simpa-tico e affascinante e costituisce un tassello importante per capire la sua spiritualità.

Narra Antonio Pileggi, giovanissimo amico e animato-re dell’ultimo campo:

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Una sera a Casalpina, una delle ultime della sua vita, era in corso una serata di canti e sketches. C’era molta anima-zione, ma a me quella sera l’allegria non andava giù per-ché avevo qualcosa che mi prendeva dentro. Ciò nonostante ridevo e recitavo l’allegria. Gianfranco mi colse al volo: scoprì cioè il mio momento di crisi, la mia fatica... e dirottò su di sé l’attenzione trasformandosi immediata-mente in clown e sollevandomi dal gravoso impegno. Tanto sbraitò che ci rimise la voce quella sera. Più tardi andando anche noi dell’équipe a dormire mi rin-cuorò con una manata sulla spalla e una frase di quelle che ti sollevano dal suolo: «Forza Tony, sarà meglio doma-ni: adesso sorridi!». Lo guardai: i suoi occhi erano quelli di uno che vuol bene e mi sentii subito un altro.

Narra ancora Tony:

Gianfranco voleva bene alla gente in modo intelligente. Io non contavo molto nel gruppo: anzi non contavo nulla. Ci stavo volentieri perché c’era lui. Mi aiutava senza che me ne accorgessi e anche gli altri non se ne rendevano conto. Mi chiedeva, per esempio, sovente consigli pratici per suo-nare la chitarra. E pensare che io la strimpellavo appena, questo mi aiuta-va a sentirmi qualcuno.

Tempo d’amore

Per ammirare un diamante è necessario collocarlo sotto un particolare raggio di luce in modo che sprigioni tutto il suo splendore. Il «particolare raggio di luce» è l’amore: un ado-

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lescente va capito e sorretto esclusivamente sulla traspa-renza dell’amore. Strumento ideale è la confidenza, non il grimaldello morale di forzate ingerenze nei problemi per-sonali e neppure l’illusione che basti ottenere dal ragazzo un inquadramento disciplinare per formarlo alla vita.

La gioventù spenta delle nostre città, oggi, è soprattutto carente d’amore e di rapporti interpersonali: è sullo spet-tro della confidenza e dell’amore o del fallimento dell’amo-re che possiamo capirla e soccorrerla e riportarla alla gioia e liberarla dalla droga e dalle altre alienazioni. È l’amore la materia di studio: il raggio di luce necessario.

Quel triennio adolescenziale a Gianfranco insegnò pro-prio la lezione dell’amore. Sbocciando ai diciassette anni, il cuore se lo sentiva ancora integro, pulito e ben preparato e la sua gioia la esprimeva disponendosi alle grandi prospet-tive del cuore.

Quali erano queste esperienze o prospettive? Trovere-mo un appassionante mistero da dipanare.

Iniziando l’anno 1980, sul frontespizio delle sue due agende (il diario personale e quello scolastico) disegnò una grande freccia svettante verso l’alto contrassegnata in basso dall’alfa, in alto dall’omega. Scrisse anche: «Questo è l’anno dal ko all’ok». Una profezia? Sarà effettivamente l’anno che lascerà la materia corporea per l’amore eterno! Sono battute: poche parole che, però, esprimono in pieno uno stato d’animo; esprimono un progetto di vita, cioè il desiderio di un viaggio dall’alfa all’omega.

Formatosi tramite meditazioni, corsi di esercizi spiritua-li, lezioni su «Scienza e fede» fondate su una visione am-pia, «evoluzionistica» della vita, anche se di carattere non particolarmente portato alla speculazione, era preso dal fa-scino del pensiero di P. Teilhard de Chardin. Il suo propo-

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sito costante era attraversare la materia del suo corpo, del-le sue passioni (che sapeva non andavano affatto represse ma orientate e superate) verso una sublimazione di questa grande forza ascensionale che spinge tutto verso l’alto, ver-so il bene; in ultima analisi verso la parusia. Quella freccia dell’agenda ne indicava proprio il cammino.

Ma veniamo al mistero: sul frontespizio del diario sco-lastico a metà freccia è disegnato un cuore. Ritengo voles-se indicare la natura della forza ascensionale: l’amore. Tut-to ciò che sale dal mondo è amore: amore che si sublima sempre più e va verso la fonte, Dio: è suscitato da Dio e più ascende più si fa puro. Come l’acqua delle alte fonti alpine, che è ben migliore di quella dei torrenti di fondo valle.

Un po’ sotto il cuore si trova disegnato un fiore e preci-samente una margherita. Di quel fiore in questo suo ultimo anno si trova traccia un po’ dappertutto nel diario scolasti-co, nel diario personale, nell’orario del campo e in qualche foglietto peregrino. I suoi amici ci spiegano che si riferisce a Margherita C., adolescente di quindici anni. È così, effet-tivamente.

In quell’anno il cuore di Gianfranco si stava assestando, orientando. Assetato d’amore e di tutte le cose belle, vive-va una continua esperienza di gioia che si svelava sovente nell’eccesso d’allegria del suo carattere. Margherita C. allo-ra aveva appena quattordici anni, ma ne dimostrava due di più. Era proprio una bella figliola.

Gianfranco la guardò negli occhi una domenica pome-riggio in occasione di quella festicciola in casa di Guido. La ragazzina era accompagnata da un’amica più grande, Gianfranco si mosse incontro con il cabaret dei pasticci-ni. Margherita era riverita da tutti, non solo per la sua bel-lezza, ma perché da pochi mesi aveva perso la mamma.

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La sua tristezza profonda e la notizia che in casa si era do-vuta trasformare in donnina tuttofare per i pasti e il rior-dino dei vestiti dei due fratelli e del papà muratore, tocca-va il cuore.

Gianfranco la guardò a lungo quella domenica, e poi an-cora le rivolse qualche parola garbata. La piccola provò la prima, grande, indimenticabile gioia. Qualcosa di più ac-cadde qualche tempo dopo. Sono andato a cercare Marghe-rita e l’ho pregata di fissarmi qualche ricordo per voi che leggete. Si è espressa così:

Ho conosciuto Gianfranco alla fine della mia terza media: egli aveva due anni in più. Tra i ragazzi del suo gruppo quello che mi ha colpita mag-giormente è stato lui, per il suo sorriso; non era mai al cen-tro dell’attenzione, ma sapeva rendersi simpatico più di tutti gli altri. Sì, io me ne ero innamorata perché sembrava possedesse un «qualcosa» di diverso, in fondo non sapevo cosa fosse quel «qualcosa», l’ho capito soltanto più tardi. All’inizio ci vedevamo soltanto quando uscivamo col gruppo. Qualche volta scherzavamo un po’, ma non abbiamo mai avuto modo di conoscerci bene: lui era un ragazzo timi-do ed io anche. Finalmente una sera con l’aiuto di una mia amica abbia-mo potuto parlarci: io gli ho fatto capire i miei sentimenti e anche lui mi ha detto che mi apprezzava molto e questo mi ha fatto tanto piacere.Da quella volta ho incominciato a conoscerlo meglio e a capire da dove proveniva la gioia che manifestava in ogni momento. Intanto i mesi passavano e si avvicinava la partenza per quel campo nel quale lui sarebbe stato protagonista.

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Da come me ne parlava continuamente capii che stava aspettando l’avvenimento con ansia. La sua preoccupazione più grande era che potesse parte-cipare a questa esperienza il numero più grande possibi-le di ragazzi. Proprio nel corso di quel campo ricevetti una preziosa e cara lettera. In essa, però, mi parlava ancora una volta del campo... dei ragazzi e dei programmi.

Non so se questi piccoli fatti bastino per dire che Mar-gherita era la ragazza di Gianfranco...

Quale progetto di vita?

Ho il fondato dubbio che Margherita, a lungo andare, ne avrebbe catalizzato l’ardore. Vanitosetto e superallegro qual era, quando viveva con gli amici dell’équipe – i quali tutti o quasi avevano in cuore un manifesto sogno di fan-ciulla – tendeva a magnificare questa sua speciale affezio-ne verso Margherita.

Certamente le fattezze trasparenti di Margherita gli sembravano l’incarnazione dell’amore pulito verso il quale istintivamente tende ogni cuore di ragazzo. Ciò non equi-vale necessariamente a una scelta di fondo. È il pensiero del suo padre spirituale, che con lui d’amore parlava ad ogni colloquio.

Questo dubbio, se cioè il suo orientamento fosse verso un progetto d’amore umano o verso un ideale di perfezio-ne, lo potremo scoprire da una vicenda che sto per descri-vere e contemporaneamente stempero, usando una frase di Giovanni Papini: «Il cristiano che in vita non pensa almeno una volta a farsi prete è un animale da soma!».

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Ad impegnare la vita secondo un ideale di perfezione – che tuttavia non confidava agli amici per quel pudore che Cristo rileva dicendo: «Non tutti possono comprende-re» (Mt 19,12) – Gianfranco ci pensava da molto tempo. Su un foglio di quaderno datato 18 novembre 1978, un sabato che concludeva una settimana sulla vocazione organizzata nella sua parrocchia per celebrare l’ordinazione diaconale di Daniele D’Aria, scriveva:

Un ragazzo che parte e cerca di diventare sacerdote non è solo, ma porta avanti un progetto e non deve avere pau-ra. Anch’io non dovrò aver paura di farmi prete e non do-vrò preoccuparmi di cosa dirò e farò. Gli apostoli non ca-pivano molte cose fino a che non ebbero ricevuto lo Spiri-to Santo. Lo Spirito dà capacità all’uomo.

Di questi grandiosi pensieri Gianfranco era seriamente riservato e sapeva lasciarli maturare nella quiete feconda del suo spirito. Il rammarico acuto del suo padre spiritua-le è che questo pensiero vocazionale lo conosceva appena dalla domenica delle Palme del 1980, cioè dal mattino del 30 marzo di quell’anno. Sulla pagina del 30 marzo del dia-rio scolastico c’è una frase di Roby Ferro, il suo compagno di studi e il più intimo degli amici. Una frase che ci fa so-spettare come un ben diverso progetto d’amore – che quel giorno svelerà al padre spirituale – fosse in lui latente. Gli scrive Roby:

Oggi, domenica delle Palme, il mio augurio è che quel pic-colo ramo d’olivo che tu prenderai possa guidarti in qual-siasi posto tu ti abbia a trovare, verso la verità che è Cri-sto.

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Quel mattino domenicale Gianfranco accosta il diretto-re spirituale e si apre, annunciandogli appunto il pensiero di fondo:

«Mi pare che la mia strada non sia né fare l’atleta, né il tec-nico elettronico. Don, vorrei fare quel che fai tu... il pre-te... ».«Rimasi pensieroso», confida il sacerdote, «e poi invitai il ragazzo a tenere calma e segreta l’idea e semplicemente a pregare di più. A fine campo si sarebbe ripreso l’argomento».

Una manciata di settimane e il sacerdote si trova al 25 di giugno 1980. Fortuitamente, verso le 13, il cosiddetto «don» pranza alla Maison des Chamois.

Ottanta minuti dopo c’è quell’ultimo fatidico colloquio: «Don, il campo finisce, ti posso parlare del mio problema? Ti sei consigliato con don Sergio? Parteciperei volentieri al-la diaspora del seminario...».

Un discorso fatto lungo pochi metri di sentiero e poi, fer-mo vicino ad un cartello a quota 2150 che reca scritta que-sta frase: «Qui il Signore parla», l’adolescente ha un sob-balzo perché il sacerdote risponde con una facezia: «Gian, i tuoi compagni parlano spesso e volentieri di questa tua fantomatica Margherita... Vorrai mica far parte di quella sorta di preti di S. Agostino con due teste su un cuscino?».

La risata artificiale del ragazzo, uno sbuffo e poi gli oc-chi di tutti e due si puntano sulla scritta: «Qui il Signore parla».

Sono esattamente le 14:20, Gianfranco ha ancora otto o dieci minuti di vita, considerando che per le deduzioni più logiche la morte sarebbe avvenuta intorno alle 14:30.

Il colloquio riprende con una domanda:

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«Gianfranco, quando salirai il Tabor?».«Sabato, don».«Preparati bene... Quest’oggi trascorrilo in preghiera e co-sì ti sarà più agevole disporti alla tua prima predica di questa sera».«Per la predica di questa sera provo una grande emozione, oggi me ne resto in deserto a prepararmi». «Pregherò per te: sabato sul Tabor il Signore ti dirà sul da farsi, contaci!».

Scendendo dalla Maison, il sacerdote era un po’ corruc-ciato per quell’affermazione categorica: «Sabato il Signore ti dirà», e si domandava: «Perché ho parlato così? Non va bene questo linguaggio con i ragazzi!».

Mentre il «don» scendeva, Gianfranco era già salito al Signore e aveva ormai scoperto la sua vocazione... con tre giorni di anticipo, perché era solo mercoledì.

Sabato 28 giugno 1980 cinquemila persone in maggio-ranza giovani accompagneranno le spoglie di Gianfranco alla tomba del cimitero di Nichelino: fu proprio un gran Tabor fuori campo! Questa vicenda d’amore ci fa pensare concretamente alla vocazione sacerdotale.

È solo una scelta d’amore. Una scelta tra due amori for-midabili e non antagonisti anche se insistono sui piatti di una medesima bilancia. Di qua il meraviglioso servizio della vita coniugale: lei, i figli, la famiglia cristiana, l’impe-gno nel sociale. Dall’altra, Lui, il Cristo e tutti gli altri che attendono l’impegno di servizio di un ragazzo innamora-to di purezza e proiettato nell’avventura fantastica del tra-piantare nei cuori di carne la vita di Dio! Ma Gianfranco, ignaro, aveva per sé una terza chiamata: quella di salire su-bito al Regno e preparare posti agli amici della sua comu-nità. Un progetto che era già rilevabile nei segni profetici.

Solo che a noi terreni in quei momenti mancava la chia-ve di lettura.

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Un laconico comunicato

Sono le 7:10 quando il poderoso elicottero della Gendar-merie, di stanza a Briançon, prende terra su un prato anti-stante il rifugio del Club Alpino, a pochi passi dalle antiche grange della Valle Stretta.

Lo circondano il «don» con Claudio Lucco, il capo del campo, un maresciallo della polizia francese e un secondo gendarme. Dopo poco arriverà il dottor Massaro; l’ufficiale sanitario di Bardonecchia in quel momento è ancora lassù alla Maison dove don Carlo, i ragazzi e la mamma di Gian-franco vivono la più straziante delle esperienze del dolore. Il medico ha appena praticato un calmante alla donna.

Il pilota del velivolo capitano Cerutti, un vero signore dell’aria, francese di origine italiana, uscito dalla carlinga indirizza al sacerdote una semplice eloquentissima frase: «Mon père, ici votre garçon», mentre con una mano apre il portellone e il secondo aviatore fa scorrere fuori fusoliera la barella con sopra imbragato, negli abiti ancora scompo-sti e inzuppati, il corpo esanime di Gianfranco.

Reduce da sedici ore sott’acqua, quel ragazzo è sempre bello, maestoso nella rigidità della morte, gli occhi semia-perti e la bocca nell’atteggiamento di un grande «Oh» di meraviglia. Tra i denti un filo d’erba. Sulle guance e nei ca-pelli scarmigliati qualche granello di sabbia. La camicetta cachi con sulla spalla destra lo stemma di Modane, quello acquistato due anni prima in occasione del campo «ex».

Non c’è anima viva. Il gerente del rifugio e la signora guardano sgomenti da

una finestra. Si ode solo il cinguettare delle rondini di montagna; il

cuculo si fa sentire a tratti dal vicino bosco.

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L’aria è fresca, i piloti si ritirano nello chalet per ingerire una bevanda calda. Volano dalle 5. Il maresciallo Edouard Brun, secondo la prassi, toglie al cadavere l’orologio e la ca-tenina d’oro e poi se ne va anche lui in attesa che il medico scenda dalla Maison e venga a verbalizzare la storia amara.

Claudio si discosta: non regge lo sguardo, si siede sulla predella della Land Rover. Il «don» è in ginocchio, lo guar-da ammutolito, ne accarezza i capelli, poi tutto il corpo fino ai piedi con ancora le scarpe ben legate. E pensa a quei pie-di agili come un daino che pur l’hanno tradito. Pensa an-cora: «Per le strade di questo mondo questi piedi gelidi non serviranno proprio più...».

Ha gli occhi gonfi di qualche lacrima e di tanta fatica per una notte tremenda, vissuta con don Carlo, con l’équi-pe, con i ragazzi del campo e con decine di volontari e sol-dati italiani e gendarmi francesi in febbrile, spasmodica, ma inutile ricerca di un Gianfranco soltanto ferito.

L’allarme era scattato solo alle 19, anche se il decesso del giovane risale alle 14:30. Alle 15 Gianfranco doveva stabili-re il ponte radio con Chateau, l’altra casa alpina sul versan-te italiano. Non appare alla Maison: qualcuno afferma di averlo visto scendere con il sacerdote che rientrava in città «poi avrà incontrato don Carlo e saltato sulla Land diretta per gli acquisti a Bardonecchia». Oppure – dicono altri – «si sarà appartato; oggi è in libertà: ha l’affanno della sua pri-ma predica...». È al rientro solitario di don Carlo verso le 19 che si alimenta un tragico sospetto, comunicato via radio a Chateau e di là alla parrocchia di Nichelino ove il parroco è da due ore rientrato proprio dalla montagna. Le ricerche scattano massicce.

Alle 0:30, in piena battuta, don Lino e suor Agnesina porteranno lassù anche mamma Domenica. Sembra la Ma-dre sul Calvario.

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Leggiamo il comunicato ufficiale, conciso, redatto giove-dì 26 da don Carlo Fassino. È stato scritto a caldo per impe-dire che i contorni dei singoli particolari e i tempi esatti si dilatino nel vapore delle emozioni e del tempo.

Gianfranco ha mangiato pranzo normalmente verso le 13. Attorno alle 14 ha parlato con il parroco che, venuto a vi-sitare il «campo», è ripartito subito per Torino. Poco dopo le ore 14 don Carlo Fassino scendeva dalla casa con la jeep per raggiungere Chateau Beaulard e Bardonecchia, per far spesa e lasciava di guardia alla Maison il sacerdote don Silvino Dalcolmo e l’équipe dei catechisti di cui Gianfran-co faceva parte. Verso le 14:30 il catechista Claudio Luc-co e il ragazzo Galli Ettore vedevano Gianfranco diriger-si verso una zona sovrastante la casa con cespugli e albe-ri, in scoscendimento sul torrente Valle Stretta. Indossava scarpe da ginnastica, jeans, camicia «militare». Non avendo incarichi specifici da svolgere fino alle tre po-meridiane, nessuno notava l’assenza di Gianfranco.Alle ore 15 si effettuava come ogni giorno un collegamen-to radio con la «casa paterna» di Chateau Beaulard e Gian-franco era incaricato di tale servizio. Non arrivando lui, il collegamento venne fatto dal secon-do incaricato e subito dopo l’équipe dei catechisti fece una breve ricerca del ragazzo attorno all’edificio e nella zona verso cui si era diretto.Non trovandolo, ciascuno si tranquillizzò pensando che il ragazzo si fosse allontanato per preparare la lezione di catechesi che doveva fare, quella sera stessa, oppure fosse andato in fondo alla valle con il parroco e poi si fosse con-giunto con don Carlo Fassino, sceso per la spesa. Si erano intanto fatti i gruppi di attività per i giovani ospi-ti: si erano sparpagliati intorno alla casa a far legna. Alle ore 18:15, don Carlo Fassino tornava al rifugio con le provviste e lungo la strada caricava i mucchi di legna rac-colti dai ragazzi.

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Giunto alla casa, circa le 18:30, il sacerdote veniva infor-mato dell’assenza di Gianfranco. I due sacerdoti e l’équipe di catechisti organizzavano im-mediatamente una prima ricerca attorno all’edificio e lun-go la cascata del torrente, forniti di radio portatili che fa-cevano capo alla Maison des Chamois e questa a Beaulard ove c’è il telefono. Verso le 19:30, vista l’inutilità della ricerca, si avvertiva via radio e telefono il parroco di SS. Trinità, giunto, intanto, a Nichelino. Questi ripartiva immediatamente, raggiungeva Bardonec-chia e avvertiva il Soccorso Alpino e la Guardia di frontie-ra di quella località. Dopo una notte di inutile ricerca, al mattino verso le 6 ve-niva trovato dal Soccorso Alpino di Bardonecchia il cor-po esanime del ragazzo affondato nelle acque del torrente Valle Stretta e recuperato con l’ausilio dell’elicottero della Gendarmeria francese.

Al lettore potrebbe sembrare la formalità che sancisce una delle tante tragedie della montagna, così provvida nel donare la morte ai suoi figli più appassionati... Questa mor-te, tuttavia, non porta con sé la torcia abbassata di Tànatos, bensì solleva in alto la fiaccola che cambiò il nome delle ne-cropoli (città dei morti) in cemeterii (città dei vivi dormien-ti) in attesa di quella pienezza di vita promessa dal Cristo.

Verso il Tabor

Questa morte, di cui il documento descrive puntigliosa-mente la dinamica, mette in risalto – così come il seme di-sciolto nell’humus della terra – una prorompente forza vi-tale. Da essa salta fuori un Gianfranco nuovo, vividissimo.

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Anche la predica di cui tanto si crucciava non andrà delu-sa. Una straordinaria, imprevista ed improvvisa figura di giovane sboccerà dopo la morte. Svelerà una vitalità che anche il bel corpo di carne finiva per nascondere.

«Sabato, il Signore ti dirà». I ragazzi della Maison, concluso repentinamente il loro

campo, scenderanno in parrocchia il giorno seguente, gio-vedì 26 giugno. Il sabato sarà proprio giorno di Tabor: ai trenta ragazzi si unirà un popolo che «La Stampa» di Tori-no del 30 giugno valuta in cinquemila persone:

Un’enorme folla – circa cinquemila persone – sabato po-meriggio ha partecipato al funerale del giovane di Niche-lino, Gianfranco Ligustri, morto tragicamente nel pome-riggio di mercoledì della scorsa settimana a Valle Stret-ta, sopra Bardonecchia. Non tutti sono potuti entrare nel-la chiesa della SS. Trinità dove si è svolto il rito funebre. La salma, trasportata da Bardonecchia, era stata composta ai piedi dell’altare, da giovedì sera e sino al momento dei funerali è stata meta incessante di migliaia di persone, in maggioranza giovani. Nella mattinata di venerdì, anche l’Arcivescovo di Torino, Card. Anastasio Ballestrero ha pregato e pianto con i ge-nitori, accanto alla bara.

Una salita di trasfigurazione veramente formidabile. Una marea di gente, preparatasi nella preghiera più rac-colta.

Le spoglie di Gianfranco, alle 18 di giovedì 26, giungono a Nichelino per essere poste ai piedi dell’altare nella chiesa grande. La gente vi arriva a fiumi e con essa il cardinale.

Dal vetro della bara il volto adolescente conserva inalte-rata l’immagine della serenità, i segni dello stupore, il ciuf-fo sbarazzino dei capelli che lo fanno ragazzo del suo tem-po.

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C’è una chitarra ai piedi della bara, c’è lo zaino pieno, con dentro ancora tutte le cose, il suo Vangelo, gli appunti.

A notte alta la chiesa è ancora colma. La mezzanotte è passata e la gente non accenna ad uscire mentre i confes-sionali brulicano di creature che, toccate dal mistero, cer-cano Dio. La porta non si può chiudere. Come respinge-re quelli che vengono nel cuore della notte, come il Nico-demo? Né si chiuderà quell’uscio la sera seguente; quaran-totto ore a porte aperte, spalancate: una seconda settimana santa con molta gente alla ricerca della grazia.

Nessuno al mondo può quantificare le conversioni sboc-ciate nel buio e moltiplicatesi in questi anni. No, Gianfran-co non è morto: è vivo ed inizia proprio ora, dal regno del-la gioia, il suo apostolato di amore.

Molto toccanti sono le espressioni scritte di getto sulle pagine dell’agenda di Gianfranco. Quelle pagine rimaste immacolate perché lui non era più e il suo curriculum vitae era davvero finito.

È il 25 di giugno e la notte è alta mentre le ricerche sono in pieno corso, ma Salvatore Reginella sente che il suo com-pagno non tornerà più vivo:

Caro Gianfranco, sono io Salvatore che sto scrivendo que-ste parole mentre siamo tutti nello sconforto. In questo momento, sono le 24 del 25 giugno 1980, sto pregando il Signore perché le ricerche abbiano buon esito, vorremmo che fossi ancora vivo. Ti conosco da poco tempo ma sento di volerti bene più che ad un fratello perché sei il fratello maggiore di tutta la comunità. Il mio cuore prega per te, cerca di vivere.

Dopo che l’elicottero ha deposto sul prato il corpo del giovane senza vita e i ragazzi sono intenti a riordinare i ba-gagli per la partenza anzitempo, le pagine dell’agenda si

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bagnano di lacrime e tanti vogliono fissarvi sopra ancora un ricordo. A tratti l’inchiostro della penna si dilata nel fo-glio, mescolandosi all’umore del pianto.

Vincenzo D’Amico, in data 26 giugno, san Rodolfo mar-tire:

Queste mie parole stamattina non ti trovano vivo. È gran-de il dolore. Ieri sera non potevamo fare niente per te, og-gi possiamo parlarti con la preghiera perché Dio ti accolga nel Regno. Queste poche righe sono bagnate dalle lacrime che sto piangendo. Non ho avuto la possibilità di abbrac-ciarti e baciarti. Ti do un addio con la speranza di riveder-ti in paradiso.

Beppe:

È difficile pensare che tu non ci sia più. Eri qui ieri matti-na. Sorridente, pieno di cose da fare. Un sorriso, prima di partire per sempre, è l’ultimo ricordo rimastomi impres-so... Ti conosco abbastanza bene, ma mai come quest’an-no ho scoperto la tua bontà, la tua umiltà, il tuo affetto a Gesù Cristo...

Piero:

Ricordo la prima serata alla scenetta di Pierino, quanto fa-cevi ridere... facevi finta di essere morto...

Marcellino:

Avevo trovato un amico sincero, l’unico tra tanti! I piat-ti di pasta, a pranzo, te li ho dati io e li divoravi sorriden-do. Questa mattina ti ho visto in barella sull’elicottero, eri con la tua solita faccia da bonaccione. Eri troppo buono e forse per questo il Signore ti ha voluto, ma non so cosa da-rei per rivederti sorridere... Ora non potrò mai più suona-re con te, mai più... Ciao. Ciao.

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Enrico:

Ti facevo sempre arrabbiare e tu mi schiacciavi il naso, e ridevamo. Poi quel giorno che non dimenticherò mai, per-ché avevo un mal di testa terribile e tu mi portavi a spalle.

In quelle ore parlano di lui anche i giornali. «La Stam-pa» del 27 giugno:

Frequentava il terzo anno dell’Istituto Pininfarina di piaz-za Bengasi a Torino. Un ragazzo modello pieno di entusia-smo e di buona volontà. Campione di karatè, gli piaceva il motocross. Era sempre allegro. Proprio mercoledì ave-va preparato un pensiero sul quale meditare la sera, tut-ti insieme.

«La Voce del Popolo» del 6 luglio, sotto il titolo a quattro colonne Gianfranco ha predicato con la vita: era un ragazzo lim-pido come l’acqua, scrive:

È notte alta, ma la chiesa grande della SS. Trinità di Ni-chelino è ancora aperta e brulicante di gioventù che pre-ga. È accaduto nelle notti di giovedì 26 e venerdì 27 giu-gno: le porte del tempio non sono state chiuse, gremitis-simo lungo tutte le giornate. Almeno tremila le persone (in maggioranza giovani!) che sabato, al canto degli spi-rituals, hanno accompagnato Gianfranco Ligustri al cam-posanto della città. Gianfranco, un ragazzo con una chio-ma castana che gl’inquadrava un volto bellissimo, estro-verso, sempre allegro, era diciassettenne. Al Pininfarina aveva concluso il terzo anno di telecomunicazioni e dal-la terza media partecipava ai «campi», ai «meeting» spiri-tuali e al cammino cristiano della comunità giovanile del-la Trinità. Tuttavia aveva qualcosa di più: lo dicono tut-ti quelli che lo conoscevano a fondo, lo dice una frase che doveva entrare nella sua predica: la prima predica della sua vita, preparata come animatore (cosiddetto «ragazzo dell’ONU»), da pronunciarsi quella sera, mercoledì 25 giu-

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gno, ai 32 adolescenti del «campo» arroccato alla «Maison des Chamois» in Valle Stretta.La frase diceva così: «Sono al mio primo servizio e servire è un problema di cuore, di amore, di Dio... ».Questa morte ha scosso in profondità; per due giorni e due notti nella chiesa che ospitava le spoglie si è creato il clima della «Settimana Santa». Un grande silenzio, molte preghiere. I confessionali stipa-ti. I giovani della comunità hanno vegliato. Gli altri della città sono venuti per conoscere il volto di quel giovane se-reno, «pulito come l’acqua». Nei loro occhi lucidi un senso di stupore, la sensazione di trovarsi di fronte a un qualco-sa di tragicamente grande. «In quei giorni ho pensato tanto – confida un ragazzo – non mi era mai capitato di trovarmi faccia a faccia con il mistero della vita».La mamma, il papà e la sorella Marina quando, a Bardo-necchia, rinunciavano di portarselo a casa per esporlo in quella sua chiesa di Nichelino sempre piena di giovani amici, ai piedi dell’altare, del familiare tabernacolo, del suo confessionale, in lacrime piangevano così: «Sì, porta-telo in chiesa: Gianfranco non era più nostro da tempo, era dei ragazzi, di Gesù, della sua Chiesa». Ancora piangendo pregavano la comunità di continuare sempre più quelle esperienze di Dio che sotto il nome di «campi» hanno fatto felice il loro ragazzo.

Nel corso di tutta una vita capita al massimo di incon-trare uno o due casi come questo. Per lo più non se ne in-contrano affatto.

Gianfranco è passato sulla terra come una specie di me-raviglia. E sulla terra, sulla pietra sepolcrale, i suoi amici hanno fatto incidere:

17 anni; un cuore e una fede trasparenti come l’acqua.

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La predica nello zaino

Nella tasca esterna dello zaino, un foglio dattiloscritto con tante correzioni, piegato in quattro e pizzicato tra due pa-gine del Vangelo di Luca, proprio al 22° capitolo. In quel-le pagine lucane si legge del Cristo che va sul monte degli Ulivi e poi viene arrestato e di Pietro che lo tradisce e pian-ge. Due capoversi di quel Vangelo, l’interconfessionale, so-no sottolineati a matita a pagina 193:

Portarono Gesù dal sommo sacerdote e Pietro lo seguiva da lontano (Lc 22,54).

Dopo circa un’ora, un altro affermò con insistenza: «Sono sicuro, anche quest’uomo era con Gesù: infatti viene dal-la Galilea». Ma Pietro protestò: «Io non sono chi tu dici». In quel momento il gallo cantò. Pietro si ricordò di quel-lo che gli aveva detto il Signore: «Oggi prima che il gal-lo canti avrai dichiarato tre volte che non mi conosci». Poi uscì fuori e pianse amaramente.

Quel foglio riporta la riflessione preparata già in parroc-chia e pronta per i ragazzi, per quella sera del 25 giugno, a conclusione del falò, prima del sonno. La solitudine, le ore di deserto che Gianfranco aveva chiesto, erano destinate a raccogliere lo spirito e a pregare perché la catechesi fosse efficace. Quella sera avrebbe predicato per la prima volta ai ragazzi del campo, e tutti l’attendevano...

Segni e disegni della Provvidenza

Chi ha l’occhio educato riesce a cogliere nella propria vita un progetto che va realizzandosi di giorno in giorno. Tan-ti avvenimenti, incontri, rapporti vissuti appaiono come le

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pietruzze di un mosaico che man mano si delinea sempre più chiaramente. Ciò si verifica tanto più se la persona cer-ca di vivere attenta al Signore che ha inscritto in ciascuno un progetto che, per sua grazia, attua in collaborazione con la persona stessa. Tutto questo evolversi di eventi acquista maggiore luce alla conclusione del cammino terreno, quan-do, giunti alle soglie della «pienezza della vita», tutto appa-re nel suo senso più vero.

Noi, che in genere restiamo «dilettanti» nel saper coglie-re la presenza di Dio nell’universo, nella storia e nella no-stra vita, quando siamo in qualche modo costretti a ricono-scerla, gridiamo al «miracolo», perché ci sfugge il «mira-colo della vita» in cui siamo immersi: in Dio, infatti, vivia-mo, ci muoviamo e siamo e solo la sua presenza ci mantie-ne in vita! Nell’esistenza di Gianfranco si sono evidenziati avvenimenti e circostanze, sia prima che dopo la sua mor-te, che sfuggono ad una interpretazione solamente razio-nale. Per questo tentiamo di leggerli in una prospettiva più ampia, ritenendo non fuori luogo il riferimento ai disegni di quella Provvidenza che tutto conduce secondo un fine che ci sovrasta.

Don Carlo Fassino, il sacerdote che guidava l’esperienza alpina durante la quale Gianfranco trovò la morte, analiz-zando l’insieme dei fatti concludeva accorato: «Qui non ci si spiega nulla senza supporre una regia...». Fin dalla par-tenza del campo, in quel lunedì mattina del 16 giugno 1980, s’intravvede la mano di un Regista.

Gianfranco arrivò presto in parrocchia a cercare il soli-to «don». Probabilmente sentiva d’incontrarlo, pur sapen-do che il sacerdote era impegnato in montagna in un nu-meroso campo «ex» e che nella mattinata avrebbe dovuto trovarsi con i giovani al santuario della Salette, sopra Gap, nella Francia meridionale. Salutò i suoi genitori un’ora pri-

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ma dell’orario previsto per correre via. «Sembrava pazzo dalla gioia», narra la mamma, «tanto che quasi si dimenti-cava di accomiatarsi da suo padre...».

All’oratorio attende il «don»; pochi minuti e l’auto del sa-cerdote arriva. «Mi confessi? Voglio essere leggero, faccio équipe per la prima volta!».

«Ok, Gianfranco, mi trovi per vero miracolo! Due ore fa ho deciso di rientrare in parrocchia: tornerò dai ragazzi dopo il loro ritorno dalla Salette».

«No, “don”, non c’entra affatto il miracolo, sei tu che ti sei inquietato con l’équipe e te ne sei venuto via. Raggiun-gili subito!».

Il sacerdote si stringe nelle spalle e lo confessa... Poco do-po il prete dirà a Mario Costantino: «Accompagnami alla Salette, i ragazzi mi aspettano... ieri sera mi sono adombra-to per una disubbidienza da poco».

Gianfranco quel mattino si confessa per la sua ennesima purificazione perché vuol far bene quel primo campo che lo vede animatore. Ci dirà quel suo confessore che «ha vo-luto confessarsi come agli esercizi...».

Il mese precedente, a metà maggio, quando la professo-ressa di lettere del III anno dell’Istituto tecnico industriale «Pininfarina» invita gli studenti a descrivere l’avvenimen-to e il personaggio che ha inciso più profondamente nella loro vita di ragazzi, Gianfranco, nel componimento di cui ci rimane solo una brutta copia, dichiara Cristo il suo gran-de personaggio e amico. Esalta l’avvenimento fondamenta-le che l’ha portato ad una maturazione di fede: il campo al-pino della comunità parrocchiale con i suoi corollari di ce-nacoli, esercizi spirituali, amicizie forti con i cosiddetti «ra-gazzi dell’ONU». Il personaggio Gesù è il punto di riferi-mento «in quei momenti in cui ti senti solo e tutto sembra caderti addosso». Descrive con gioia e trasporto ogni espe-

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rienza, per chiudere con parole poste in chiave grammati-cale futura e remota al tempo stesso, tanto da sembrare la conclusione di una biografia di ottuagenario.

Tornato da quelle esperienze mi trovai molto cambiato..., cominciai a pormi quegli ideali che sarebbero poi stati quelli della mia vita futura.

Giovane animatore

Un altro tema fatto in classe è molto simile nelle idee, risa-le al 26 marzo 1980. La professoressa Fiaccone aveva pre-parato una terna di proposte: L’impressione dei primi tre can-ti dell’inferno dantesco; La società d’oggi e i giovani; Dopo aver espresso cosa significa per te la religione, commenta la frase di Pa-scal: «La religione più che un dovere è un bisogno». Gianfranco sceglie la terza ipotesi di lavoro e sulla frase di Pascal par-te spedito:

Fino a qualche tempo fa, per me la religione non aveva un grande significato; era l’accettazione passiva di un ideale che veniva a me imposto già nell’infanzia dai genitori. La preghiera e l’andare a messa tutte le domeniche mi comportava un certo sacrificio; queste regole, così come il sacramento della penitenza, del battesimo, della cresima, venivano da me accettate, ma senza comprenderne il ve-ro significato. Mi avvicinai più concretamente alla religione in maniera quasi casuale tre anni fa. Attirato dall’idea del campeggio in alta montagna, mi iscrissi per caso ad un turno di vacanze estive, i cosiddet-ti campi, organizzati dal nuovo parroco. I campi sono stati concepiti come mezzo per indirizzare i ragazzi adolescenti alla vita guidata da ideali profondi co-me l’amore, la preghiera, i valori del Vangelo.

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Questo cammino, che continua dopo l’esperienza estiva, comprende anche le varie attività all’interno della parroc-chia. Il campo è guidato da un’équipe di ragazzi chiamati ra-gazzi dell’ONU che l’adolescente, essendo poco più giova-ne, prenderà come modello di vita e ai quali potrà anche confidare i propri problemi. Fu allora appunto che compresi l’importanza della paro-la del Vangelo, capii il profondo significato dell’amore cri-stiano, compresi l’importanza di avere qualcosa di sicuro, quando ci si pongono quelle domande sull’esistenza che chiunque si pone, prima di incontrare Cristo. Questa mia spiritualità è stata confermata più profonda-mente nell’inverno successivo agli esercizi spirituali e con la stimolante esperienza del campo di lavoro di quest’esta-te a Gemona in Friuli. Lassù, nel Friuli, noi ragazzi lavoravamo gratuitamente, ma eravamo appagati dalla felicità di donarci e far serena quella gente con ancora sul volto il terrore del terremoto. Mi ritengo quindi cristiano, in quanto credo in tutti que-sti ideali e cerco di metterli in pratica anche se non sem-pre con successo.

Un altro fatto appare emblematico: poche settimane do-po, il ragazzo lavorava con gli amici della parrocchia nel-l’elaborazione del progetto che doveva reggere la «15 gior-ni in montagna». Un organigramma fatto per prevedere gli avvenimenti della giornata, con tutti i particolari dell’ora-rio quotidiano... Tale programma veniva solitamente scrit-to su una lunga striscia di carta lucida e poi eliografato e distribuito a tutti gli animatori. A Gianfranco toccò l’inca-rico della trascrizione a china sulla carta lucida.

Di buono spirito, a margine di ogni giornata si sbizzar-rì in disegni vari: caricature, sigle, piccole margherite, musi alla Jacovitti. Ogni giorno si conclude con una vignetta. C’è

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tuttavia un disegno che fa pensare, ed è collocato al merco-ledì 25 giugno, sant’Eligio vescovo, giorno della sciagura. La vignetta rappresenta un ragazzo dell’ONU mentre pre-cipita da una rupe nell’acqua del fondo con un fragoroso «splaff» e uno stirato «addio»... «a Dio!».

La vita oltre la vita

Certamente l’avvenimento più forte che ha preceduto la sua morte di quattro settimane appena, è l’ultimo tema svolto in classe. La professoressa di lettere, donna avara di tene-rezze verso la religione, lascia agli studenti la libertà per l’ultimo componimento.

Un tema da eseguirsi subito, gli avvenimenti forti non mancano: c’è il boicottaggio americano ai giochi Olimpi-ci di Mosca, c’è la crisi dell’Iran e del petrolio; oppure un problema fondamentale come il significato dell’esistenza umana... Gianfranco sceglie l’obiettivo più universale che risulterà essere poi un vero testamento: La vita oltre la vita. Un testamento spirituale che, riletto a fine giugno, proiet-terà una luce assolutamente singolare sulla vita di questo splendido ragazzo:

Sul significato della vita e della morte si è parlato e scritto tanto nel corso della storia. Le teorie scientifiche sono state varie, durante i tempi, mentre la concezione cristiana, quella cioè che troviamo nel Vangelo e nella Chiesa, è sempre stata una ed una so-la. Questo perché si basa sulla fede, e non sull’immaginazio-ne filosofica. Personalmente condivido la concezione cristiana della morte, non perché mi ritenga cristiano, ma perché sento fermamente che è così.

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Molte sono le persone che non credono alla vita dopo la morte; questo, secondo me, è dovuto ad una società trop-po materialistica che esalta, cioè, i beni terreni e materiali, che, in genere, attirano molto facilmente l’uomo. Io credo nella vita dell’anima dopo la fine dell’esistenza terrena e considero la morte come un passaggio, una rina-scita del nostro io, liberato dalla materia e quindi non più attratto dai beni terreni e dai peccati del corpo. La vita terrena deve essere vissuta in funzione della vita dell’anima dopo la morte, il che non significa solo andare a messa tutte le domeniche, ma significa vivere bene per gli altri e non per la nostra felicità; fraternamente, sapen-do perdonare, amare, vivere serenamente, cercando di lot-tare in tutti i modi contro il peccato. Se non fosse così, il travagliato cammino dell’esistenza terrena perderebbe tutto il suo significato più profondo e ci si potrebbe domandare spesso a cosa può servire il vi-vere, l’amare, il soffrire. Le nostre sensazioni, gli amori, gli affanni, gli umori, le angosce, sono cose troppo importanti. Non possono, quindi, cessare improvvisamente con la morte materiale dell’uomo e, quindi, con la liberazione da quelle che sono le attrattive del corpo.

L’ultimo sigillo

Ancora un fatto. La mattina di mercoledì 25 giugno il di-rettore spirituale del ragazzo si trova a Bardonecchia per ritirare la propria auto guastatasi lassù nei giorni prece-denti. La vettura non è pronta: lo sarà a mezzogiorno, trop-po tardi per rientrare a Torino. Una buona occasione per recarsi in visita al campo di don Carlo, rivedere Gianfran-co, Tony, Vincenzo, il capo campo Claudio e tutti gli altri ragazzi in villeggiatura.

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Alle 13 il prete è a tavola con l’allegra compagnia com-posta da otto giovani animatori e trenta ragazzi che asso-migliano più all’argento vivo che a campeggisti in monta-gna. Una nidiata che avrebbe dato del filo da torcere anche a precettori d’altri tempi. Un pranzo con i fiocchi: per quei ragazzi è il primo pasto consumato alla Maison des Cha-mois, perché il gruppo se n’era arrivato appena il giorno prima dopo quattro giorni passati a Chateau e altri tre vis-suti in tenda nel vallone di Briançon.

Il buon cibo viene divorato a quattro ganasce anche in considerazione del fatto che la cucina da campo, per invi-diabile che sia, dopo quei giorni all’addiaccio perde al con-fronto con la tavola casalinga.

La giornata è tersa, molto fresca anche per una spruzza-tina di neve caduta nella notte.

Alle 14:15, dopo i canti dell’amicizia, il sacerdote ospite si congeda e se ne va verso il piano avviando i primi passi in compagnia di Gianfranco. È l’ultima occasione per uno scambio fugace di idee sul problema vocazionale, quello che preme sul cuore del giovane. D’altra parte la sua è l’età delle scelte. Il colloquio, essenziale, finirà con un’innocente profezia: «Preparati bene e sabato sul Tabor (un monte lo-cale a quota 3180 m) il Signore ti dirà...!».

Poi una benedizione a fior di capelli... È proprio l’ultimo sigillo della fede: Gianfranco sfrec-

cia via raggiante come una palla da biliardo, entra ed esce di casa, sfiora i ragazzi del servizio intenti al riordino del-le stoviglie e poi va verso il pino dai tre fusti dove il Signo-re l’aspetta nel fondo del burrone. Corre ignaro per appar-tarsi con gli appunti della sua prima predica: quel giorno non aveva incarichi speciali proprio perché a sera avreb-be dovuto predicare per la prima volta e la cosa lo rende-va trepidante.

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A proposito di coincidenze benedette, c’è quella dell’ar-cobaleno. Si tratta di un puro e semplice fenomeno meteo-rologico che però segnerà la fantasia e i ricordi dei ragaz-zi. Si tratta di una rara coincidenza meteorologica avvenu-ta sul monte Tabor della Valle Stretta, a quota 3180. Un ar-cobaleno circolare, 360 gradi come l’anello di Saturno, at-torno ad una nuvoletta sospesa sulla vetta del monte. Sotto si sta celebrando la messa e si legge nel Vangelo l’avventu-ra del Tabor di Palestina:

«Signore è bello per noi stare qui; se vuoi facciamo tre ten-de, una per te, una per Mosè e una per Elia». Pietro stava ancora parlando quando li avvolse una nube luminosa dalla quale uscì una voce che diceva: “Questi è il mio Figlio pre-diletto...”» (Mc 9,2-10).

Piangevano tutte le settanta ragazze di quel campo ado-lescenti. Anche Gianfranco Ligustri e Marcello Barone a trenta chilometri di distanza, in collegamento radio con gli escursionisti, avutane notizia, vissero commossi la coin-cidenza, ricordando una esperienza quasi analoga di due anni prima! Questi segni vanno collocati nell’alveo delle coincidenze provvidenziali ed accolti con lo spirito sereno dei cristiani che sanno leggere in tutti gli avvenimenti di questo mondo l’impronta di Dio.

Canzone per un amico

A poco più di un anno dalla morte, gli «ex di Valle Stret-ta» si danno appuntamento alla Maison des Chamois, la Casa dei Camosci rifatta a nuovo da un campo di lavoro e poi dedicata a Gianfranco con una bella lapide di mar-mo chiaro. Al raduno partecipano numerosi sarcerdoti, tra

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cui i parroci dei paesi limitrofi: monsignor Bellando di Bar-donecchia, l’abbé Yves di Modane, père Romagne, curato di Névache. Don Gianni Sacchetti, don Carlo Chiomento, don Daniele D’Aria e Guido Tallone sono i privilegiati, essendo essi i primi ragazzi la cui vocazione sacerdotale ebbe l’av-vio proprio in quel luogo brullo a 2200 metri slm, giusto ai tempi della loro esperienza adolescenziale.

A quella quota per presiedervi l’Eucarestia sale l’anzia-no cardinale Anastasio Ballestrero, arcivescovo di Torino e presidente della Conferenza Episcopale Italiana. Sono pu-re presenti tre primi cittadini: il sindaco comunista di Ni-chelino, Elio Marchiaro, il sindaco di Bardonecchia, dottor Gibello e il maire di Névache, signor Bastianelli, dal cui co-mune la casa dipende. Con i cinquecento e più giovani e le autorità, ci sono i capi della polizia di frontiera italiana e francese, una rappresentanza della Gendarmerie in per-fetta uniforme e i signori Edouard Brun e Giuseppe Bas-si, rispettivamente comandante del Groupe de Secours de Haute Montagne di Briançon e capo del Soccorso Alpino di Bardonecchia.

Naturalmente, tra la folla che gremisce il picco, ci sono la mamma, il papà e la sorella di Gianfranco. Un convegno così singolare per ricordare un giovane diciassettenne. Il ritrovo da quell’anno si ripeterà ogni terzo sabato di luglio, con una concelebrazione sovente presieduta da un succes-sore degli apostoli: vescovi italiani e francesi, di Susa, il cardinale di Torino, i vescovi di Chambery e di Gap...

Quella morte, come la notizia di quella fresca spiritua-lità adolescente, ha suscitato fin dall’inizio un vasto senso di nostalgia e un gran movimento di gente. E la nostalgia è il desiderio umano delle cose belle. Oggi la gente è sfidu-ciata: lo spettacolo di una gioventù che scompare nel nulla

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della droga è opprimente, per cui anche soltanto la fama di un ragazzotto pulito, ottimista, felice e con la grazia di Dio che sprizza da tutti i pori la attrae e l’affascina.

La messa ha luogo proprio sul cocuzzolo che sovrasta il rifugio ai piedi della grande croce di legno alta quasi ot-to metri. Su quella sommità, a lato della Croce, il padre di Gianfranco, muratore, in compagnia dei giovani e degli adulti che nel campo di lavoro hanno ristrutturato il rifu-gio alpino, ha edificato uno splendido altare in pietra viva sul quale il cardinale con tutti quei preti ha celebrato la pri-ma messa in memoriam.

Quel giorno di metà luglio, la preghiera e il canto ac-compagnato dalle chitarre costruiscono un’armonia impe-riosa sotto la volta di un cielo perfettamente terso. Nella ra-diosità del tardo mattino, le parole dell’omelia dell’arcive-scovo toccano molti cuori giovani raccolti attorno all’altare. Gli occhi scintillano per la commozione.

Nella gloria di Dio che questa natura ci esprime sentiamo che Dio ci chiama per nome e chiama tutti. Chiama per nome voi giovani; voi che con tanto entusiasmo, e oggi co-sì numerosi, vi preparate a vivere il futuro. È bello trovarsi insieme a celebrare questa Eucarestia in mezzo ai monti dove, forse, proprio qui voi avete scoper-to che siete nati per amare. È necessario che qualcuno lo dica a voi giovani: non si nasce per un bieco caso, ma per-ché il misterioso disegno di Dio ci progetta in funzione dell’amore. Anche voi, adulti, che la vita, con le sue vicissitudini e tri-bolazioni ha già provato, siete chiamati per nome. Dio, Pa-dre buono, vi conosce, vi ama, non vi usa forza, ma conti-nua a rivolgere ad ognuno di noi un appello, violento e de-licato, perché sappiamo camminare sulla maturità e pie-nezza che Cristo ci ha tracciato.

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Dio chiamò per nome noi preti, un giorno – forse già tan-ti anni fa – mandati ad annunciare il Vangelo. È stato un giorno bello quello, e bisogna che noi ne siamo entusiasti. Con Lui collaboriamo perché la sua grazia e il suo amore crescano nel mondo attraverso la Chiesa. Dio chiama per nome anche quanti sono già presso di Lui e ci attendono. Proprio qui, su questi monti, Dio ha trovato pronto e ha chiamato a vivere nella sua gloria Gianfranco. Ci ha preceduto, ci attende, ma è già nella gloria di Dio con tutti i santi che prima di noi hanno camminato e fati-cato su questa terra. In questa stupenda cattedrale costrui-ta dalla mano di Dio non possiamo non lasciarci afferra-re dal suo Mistero, abbandonarci al suo Amore e lasciare che il suo Volere diventi il nostro volere. Lasciamo che l’incalzare del suo amore maceri i nostri progetti, i nostri capricci, le nostre piccolezze e anche le nostre meschinità. La gloria di Dio ci abbaglia, lo stupo-re ci ammutolisce, lasciamo che dal nostro cuore il grazie sgorghi spontaneo; la contemplazione diventa così quella capacità di leggere nella natura i segni di quella stupenda manifestazione d’amore che è la gloria di Dio.

L’epopea del giorno di luce si chiude sulle note di un canto possente. Fu composto «a caldo», nelle due notti del-la veglia funebre: fu scritto in chiesa da Gigi Zappulla e dagli amici raccolti attorno alla bara ed ora si diffonde nel-le comunità giovanili con una musicassetta dal titolo: Can-zone per un amico. La piccola storia d’amore di un animato-re diciassettenne, cantata sulle corde delle chitarre perché meglio possa rivivere nel cuore dei ragazzi di questo tem-po difficile...

Incredibile: il capitolo che segue sarà dedicato proprio al cantautore di Gianfranco, Gigi Zappulla.

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Canzone per un amico

DO MI-Un cammino di fede,DO MI-un sogno di speranza.FA SOL 7 DO LA-Portare il suo messaggio ai ragazzi come teFA SOL 7 DO LA-che seguono la scia delle sue parole.FA SOL DOPace amore e libertà. LA – RE – SOL7

Mille progetti, tante conclusioni, frutto di unafantasia di uno come noi, portato al serviziodel Signore, degli altri, della sua comunità.

Trenta ragazzi, forse inesperti, affidati adun gruppo di ragazzi come lui, all’inizio diun cammino di fede, speranza, carità ed umiltà.

FA – DO – SOL – SOL7 (bis)

Circondato da montagne sotto un limpido cielo,lo scroscio del torrente che dall’alto del burrone osservavi non sapendo che proprio di là il Signore ti chiamava accanto a sé.

Forse fra tuttieri il più puro,limpido come l’acqua che scorre fra quei montidove avresti dovuto predicare con le parole ed invece hai predicato con la vita.

LA – RE – SOL7

DO – LA – RE – SOL 7 – DO

Gigi Zappulla

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Gigi

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GIGI

Quattro rose bianche

Nel libro che narra la bella storia di Gianfranco, La stagio-ne dell’Arcobaleno1, l’editore aveva programmato nell’ultima pagina la Canzone per un amico: quella canzone dedicata al-l’animatore morto e pensata da Gigi Zappulla, l’amico inti-mo. Era già in stampa quando, come una bomba, arriva a Milano la notizia della morte di Gigi. È il 21 dicembre 1982. Alle Edizioni Paoline si cerca di raccapezzarsi un po’ e poi si decide giusto in tempo di inserire una nota commoven-tissima, fatta di mezza pagina appena, proprio di seguito alla Canzone per un amico.

Una nota che inizia così:

Questo volume doveva concludersi qui, ma Gigi... ha co-stretto a cambiare qualcosa. Mentre le bozze sono in mac-china, ecco che ci giunge la notizia della sua morte...

In quella comunità i giovani sono tornati a cantare la Canzone per un amico. Questa volta però l’hanno canta-

1 P. GARIGLIO, La stagione dell’Arcobaleno, Edizioni Paoline, Milano 1982.

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ta proprio per il suo autore. Infatti fu Gigi a scriverla per Gianfranco.

Gigi Zappulla, figlio di Corrado e Rita, è nato a Noto, Si-racusa, il 1° giugno 1964, alle ore 18:45. Ha una sorellina, Angela, di quattro anni inferiore di età. Emigrato nell’area torinese quando il babbo troverà lavoro in Fiat, vive un’in-fanzia felice, sogna la musica e si prepara per il Conserva-torio «Giuseppe Verdi» di Torino.

Nella primavera dell’anno di III media, però, gli muo-re il padre. Un dolore inconsolabile e un vuoto incolmabi-le. Anche i sogni andranno adesso ridimensionati, tenendo conto della nuova situazione, tanto che il nostro musico do-vrà scegliere una scuola professionale e riservare alla mu-sica solo il tempo serale frequentando il Conservatorio.

Nel ‘79 incontra Gianfranco e fa il suo ingresso nella co-munità giovanile parrocchiale della SS. Trinità, Nichelino. Lo segna fortemente il corso di esercizi spirituali di quel-l’inverno e con l’estate successiva è in Valle Stretta, in cam-peggio, proprio alla famosa Casa dei Camosci: la Maison des Chamois. Siamo ancora lassù il 25 giugno 1980, il gior-no della tragedia di Gianfranco.

Piange soltanto quando vede l’elicottero che depone sul prato del fondovalle il corpo esanime dell’amico. Nelle due notti di veglia, nella chiesa parrocchiale, è muto, mentre gli amici pregano. In un angolo buio, seduto per terra, vici-no alla bara, accarezza le corde della chitarra. Sabato 28 la Canzone per un amico è già riprodotta in tanti fogli e cantata da cento, mille e più giovani.

Veniamo ai momenti essenziali della sua storia.

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La chitarra ha le corde rotte

In quei giorni accadde uno strano sogno...!Nella storia di Gianfranco, coincidenze e sogni curiosi

non mancano, ne parleremo più avanti. Ma, lo sapete bene, i sogni appartengono ad un campo interpretativo estrema-mente labile, e gli stessi psicologi, quando ne parlano, «ca-dono» o «scadono» distruggendo sovente quello che prima avevano affermato con molta sicurezza. Tuttavia l’ultimo sogno, con l’ultimo fatto, è tanto carico di coincidenze che, insomma, va narrato.

Dunque, il papà di Gianfranco sogna Gigi: «Quel ragaz-zo della chitarra, quello che ha scritto, suona e canta la can-zone di mio figlio». Lo sogna nei primi giorni dell’estate e se lo vede in casa per ritirare la chitarra del figlio. «Che? Non basta la tua?», domanda.

«No, è Gianfranco che mi manda, perché la mia ha le corde rotte».

Lì per lì quell’immagine non dice molto. Ma si sa che Gi-gi è il cantautore di Gianfranco: è stato lui ad animare il gruppo che nelle due notti di veglia al ragazzo morto e de-posto ai piedi dell’altare, in chiesa grande, compose la Can-zone. Sarà ancora lui, nell’estate-autunno ’82, a lavorare al master musicale di un disco dove la comunità giovanile ha raccolto i propri spirituals.

Non poteva essere altrimenti: il rapporto tra Gigi Zap-pulla e Gianfranco Ligustri era di grande amicizia, giusto allora che il suo giovanissimo amico gli offrisse un mazzo di note fresche! Gianfranco l’aveva introdotto nella comu-nità e Gigi ne sentiva tutta la gratitudine. E lo diceva: «La mia vita è sbocciata ai campi e agli esercizi spirituali e mi cresce nella comunità» (dal diario).

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Senonché, nei giorni attorno al sogno gli capita quella seria indisposizione. Medici, ospedale, asportazione di un rene e poi il verdetto senza appello: carcinoma! La cartel-la clinica lasciatagli lì incautamente tra le mani lo informa sull’esatta natura del guaio: Gigi dunque sa! Non si dispe-ra, ma si avvia con semplicità lungo il calvario delle terapie senza privare mai nessuno del sorriso di sempre. Anzi, co-me Gianfranco, è pronto al servizio: è ormai diciottenne.

In luglio fila diritto diritto dall’ospedale alla Maison des Chamois, in alta Valle Stretta. Durante il turno di quella seconda metà del mese suona, guida le preghiere, si occu-pa dei collegamenti radio, consiglia i ragazzi e lava i piat-ti. Nonostante il male. A sera è stanco morto, «ma non fa niente». Intanto la malattia avanza.

In casa si troveranno alcune lettere-questionario dei ra-gazzi del campo. Si tratta di test che vengono proposti da-gli animatori agli adolescenti due giorni prima della con-clusione dell’esperienza. Il titolo del primo test è: «Tiro al piccione» e la domanda chiede:

In questi giorni di vacanze hai conosciuto quassù alcu-ni ragazzi che per certi aspetti sono differenti da tanti al-tri: sono i cosiddetti ragazzi dell’ONU. Sono come te, ma hanno già risolto qualche problema della loro crescita. Ri-tieni utile porre a uno di loro qualche tuo «cruccio»? Chi riceverà il tuo messaggio, ti risponderà immediatamente e personalmente, secondo la sua piccola esperienza di vi-ta, ma soprattutto cercherà di esserti, d’ora in poi, l’amico più sincero!

Lo scopo del questionario è di legare ragazzi e anima-tori in un’amicizia forte ed esemplare e di favorire anche il travaso di buoni consigli. Questo per un principio pedago-gico molto semplice: un buon consiglio, un buon esempio

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espresso da un educatore tradizionale e compassato (geni-tore, professore, prete o suora) non è efficace quanto quello di un educatore «alla pari». L’adolescente dal coetaneo si at-tende di tutto, tranne un invito alla bontà. Ma quando que-sto arriva, lascia il segno! Al campo di luglio molti ragazzi si orientano verso Gigi, che conserverà gelosamente in un cassetto della scrivania tutti quegli appelli urgenti, così de-licati e importanti.

Leggiamone qualcuno:

Il mio problema è la timidezza; io penso che tutti i ragaz-zi dell’équipe mi possono aiutare, ma scelgo te che sei più sicuro, Gigi. P. G.

In questi giorni di vacanze ho conosciuto i ragazzi del-l’ONU e quello che ritengo mio «confessore preferito» per le grandi confidenze è Gigi Zappulla.

Il mio problema per cui vorrei un consiglio sul cosa fare è la cotta per una ragazza e non so se è già il tempo per par-lare francamente. Dico anche molte bugie per farmi nota-re. R. C.

Caro Gigi, mi rivolgo a te perché ti voglio come amico ca-ro, sincero e riservato, perché mi rigiro in un gran pastic-cio che di certo tu avrai avuto ed è il problema della ma-sturbazione. Come l’hai risolto? Sono pochi mesi che ce l’ho e voglio crescere pulito come te. Dunque io voglio smettere subito ma non so come fare e tu sei l’unico a cui posso dire queste cose. Ti prego di rispondermi per iscrit-to. R. S.

Arriviamo al lunedì 20 dicembre 1982. Alle 17 di quel giorno Gigi chiede a quella cara e delicata ragazza della comunità parrocchiale che è Silvia di comprargli una rosa bianca. Tra Gigi e Silvia, nell’ultimo anno, è cresciuto qual-che cosa di più di una semplice amicizia e quel loro affetto

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è esemplare per il profumo di pulito che si porta dietro. Da quattro settimane il ragazzo si trova a letto stressato

dalla sofferenza, bombola d’ossigeno al posto del comodi-no, ipodermo e flebo in continuazione. È una malattia che lo sta letteralmente demolendo e la comunità tutta lo se-gue muta, dolorante, impotente, immersa nel continuo pre-gare. Silvia gira tutti i negozi della periferia fino al cen-tro della metropoli piemontese. Proprio mentre le saraci-nesche chiudono, trova il fioraio con ancora un bouquet di quattro rose bianche.

Alle 24 Gigi fa chiamare ancora una volta il sacerdote che lo ha accompagnato in questi anni. Il padre si ferma al capezzale fino alla fine: è ormai martedì 21; a lato del let-to c’è, naturalmente, la buona e forte mamma Rita, ed an-che la madre di Mauro, un adolescente del campo di luglio, il campo del Gigi leader! Gigi ansima: alle 2:05 si lamen-ta per la cadenza lenta, interminabile di quelle ore: «È una notte che non passa più...».

Alle 2:30 il respiro gli si fa spasmodico: l’ossigeno non gli basta; intanto il «don» lo incoraggia sottovoce: «Forza, Gigi: stai ansimando come quando si salgono gli ultimi passi prima della vetta del Tabor. Stanotte sei tu il capocor-da: ancora un po’ e sarai arrivato, ancora pochi passi!».

Gigi capisce perfettamente: annuisce con il capo ancora una volta, bacia il crocefisso e si addormenta nel Signore. Sono passate da poco le 2:40 di martedì 21 dicembre 1982.

È disteso sopra il letto, alto e solenne sui cuscini, un po’ girato sulla destra: una mano poggia sul ginocchio di sua madre e l’altra è stretta in quella del parroco. Gigi è vissu-to qui diciotto anni, sei mesi e venti giorni.

Ha lasciato la mamma, Angela sua sorella, la comunità dei giovani, Silvia e tutti gli amici e alcuni cugini cordialis-

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simi: ora vive in Cristo, col suo papà e con l’amico del cuo-re, Gianfranco.

È morto così il cantautore del gruppo: ha cantato il Cri-sto con la chitarra e con la malattia, con il coraggio e sen-za un lamento. Nella bara, con la rosa bianca, l’inseparabi-le coroncina digitale del rosario, compagna di viaggio nel peregrinare per le montagne, a scuola, sul letto della ma-lattia. Gigi voleva un gran bene alla Madonna.

La sera della morte, così come nei giorni di Gianfranco, la chiesa grande non potrà ospitare tutti. Sono proprio tan-ti i giovani presenti. Il giorno seguente la via è nuovamen-te zeppa di gioventù in viaggio verso il camposanto con un Gigi trionfante, alto sulle spalle dei suoi amici.

Ragazzo di razza

Sul comodino una cartolina della sua guida spirituale: è una policromia del Cristo Pantocrator e dietro una sequela di pensieri molto seri. Una riga ha l’inchiostro dilatato per-ché è caduta una lacrima.

Gigi mio caro, i giorni e le notti tue sono come la sera del Giovedì santo e con la seguente tenebrosa esperienza del Getsemani. Lo so Gigi, tu stai salendo il Calvario. Anche tu lo sai. Prega lo Spirito Santo perché ti conforti e ti dia le spiega-zioni di cui tu hai bisogno: i tuoi «Perché?», «Perché tanto male?» ricordano i perché di Gesù al Padre: «Passi da me questo calice... se possibile..., ma sia fatta la tua volontà». Ricorda una cosa: dopo il Getsemani, dopo l’orto degli Ulivi, è finalmente arrivata la gioia di Pasqua! Prega an-cora un po’! Il libro di Gianfranco è in stampa e finisce con

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il tuo canto: questo significa il tuo legame con Gianfranco e la tua vocazione a dare testimonianza a tutta la comu-nità dei giovani. Ed ora gira la cartolina: guardalo bene quel volto, un gior-no lo vedremo profondamente: sarà la nostra gioia. In queste ore pensalo molto. Ciao. Prega, non piangere. Roma, 16 novembre 1982, prima di celebrare messa con te nel cuore e nel calice.

Ricordi

Giovano a tutti alcuni flash degli ultimi cinque mesi. Sabato 10 luglio 1982: al campo c’è messa per Gianfran-

co, si celebra il secondo anniversario. L’anno prima era ve-nuto il cardinale Ballestrero da Torino, quest’anno ci so-no moltissimi giovani. Gigi è malato da alcune settimane e quel giorno, proprio lassù, è scosso da una crisi di rigetto: posa la chitarra e non vuol suonare.

Vive la messa ritto in piedi, assorto e cupo, guarda ora la croce, ora il Tabor sullo sfondo: capisce che gli sta acca-dendo qualcosa di inesorabile e grande. Vive probabilmen-te la sua esperienza del Getsemani: capisce che la malattia lo porterà in cima all’alto monte.

Mercoledì 20 ottobre: prima di mettersi definitivamen-te a letto, si fa portare da Stefano, un ragazzo quindicenne, malato come lui: Stefano Revello spirerà cristianamente il 13 novembre. Anche questi se ne volerà via come una far-falla lascia il fiore.

Domenica 21 novembre, festa di Cristo Re: l’appartamen-to di Gigi è gremito all’inverosimile; i ragazzi sono dapper-

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tutto e Gigi siede in poltrona come un re, di fronte un im-provvisato altare: c’è messa. Dopo il Vangelo, il sacramen-to degli infermi. Un momento terribile e maestoso. Solo per un momento ha una lacrima: quando abbraccia il papà e la mamma di Stefano, deceduto otto giorni prima.

I momenti di passione, di paura li sperimenta; tuttavia non sono le ore dell’ultima notte, ma della settimana che la precede. Alla mamma e al sacerdote a tratti confiderà timi-damente: «Ho paura». Alla mamma dirà: «Mi sa che passe-rai un triste Natale».

Ma l’Eucaristia e la preghiera del rosario lo sostengono: vince così! È accaduto anche qui quel che dice Gesù del se-me che muore:

«È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’Uomo. In ve-rità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserva per l’eternità» (Gv 12,23-25).

Nella sua ultima agenda riposta sopra la scrivania della stanza abbiamo trovato un’ottantina di pensieri, frasi, poe-sie, considerazioni che chiudono altrettante difficili giorna-te. Sembrano così adatte per chiudere bene questo raccon-to! Sono parole dolcissime che calano dalle pagine come il miele dai favi. Una dolcezza intensa, una speranza che si raffina come l’oro.

3 gennaio 1982: La felicità è un fiore di cielo, non sboc-cia se prima non lo irrora il pianto della terra: per questo è difficile la crescita!

7 gennaio 1982: Tutto è vita, anche la morte, infatti Cri-sto è morto per darci la vita: ecco per-ché la morte non ci deve spaventare.

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5 marzo 1982: L’amicizia è darsi la mano e camminare lungo la strada che porta verso Dio.

Capisci, Silvia?12 marzo 1982: (È già malato). Solo ricordare un amico

mi fa sentire più sereno e sopporto tut-to più facilmente.

15 marzo 1982: Ogni nuovo giorno sembra un fiore che sboccia nelle mie mani.

31 marzo 1982: Ho una strada sola anche se i sentieri sono molti. Devo mettermi in cammino come gli altri. Cercare, costruire con gli altri... SEMPRE CON GLI ALTRI se ve-ramente vuoi essere te stesso.

13 aprile 1982: Oh, che io possa dare agli altri ciò che sono lieti di ricevere.

18 aprile 1982: La gioia è il più bel grazie che si può da-re a Dio... E quando esco dalla gioia de-vo fare attenzione: sono già uscito dalla preghiera e dalla riflessione.

17 maggio 1982: (In ospedale). La mia gioia è attendere che tu passi e mi raccolga.

6 giugno 1982: (Pur malato si sta preparando per fa-re équipe al campo ragazzi). L’amicizia è un tesoro prezioso che Dio ci ha da-to; è un legame d’amore che unisce e ci rende più forti e sereni; è un sentimen-to umano che illumina di gioia la vita.

12 giugno 1982: Mio Dio, ti offro questo immenso desi-derio di vivere e di amare.

13 giugno 1982: Signore, se un giorno troverai chiusa la porta del mio cuore, non andar via: but-tala giù.

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25 giugno 1982: (Secondo anniversario di Gianfranco: giorno della sua crisi). A sera scrive: Gianfranco ha predicato con la vita!

Ora Gigi è con Gianfranco e con Stefano, in paradiso. Tutti e tre pregano per i loro amici e li aspettano. A tutti e tre si possono dedicare le parole dell’Apocalisse:

... sono passati attraverso la grande tribolazione ed hanno lavato le loro vesti rendendole candide con il sangue del-l’Agnello (Ap 7,14).

Il ricordino di commiato reca queste toccanti parole:

GIGI ZAPPULLAanni 18, mesi 6, giorni 12.

È in cielo dall’alba del 21 dicembre 1982. Con la bontà e il sorriso ha affascinato tutti: mamma, sorellina, amici, la sua comunità giovanile. E con la chitarra e con l’amicizia ha cantato la fede, il Cristo e la gioia. La sua è stata una storia di luce. Ora è tornato con il suo papà Corrado. Ci attende in Paradiso e ci aiuta!

La Comunità Parrocchiale di SS. Trinità in Nichelino gli è infinitamente grata.

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Antoine

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ANTOINE

Incredibile appuntamento

Chiamarla «avventura del cielo» è dire poco. Erano le 7 del 6 agosto 1996, festa della Trasfigurazione

del Signore. Da un bel po’ stavo passeggiando davanti al ri-fugio La Maison des Chamois in Valle Stretta, a 2100 metri di altitudine dove l’aria fresca riempiva i polmoni e l’ani-ma. Ripensavo ai miei quaranta anni da prete, vissuti so-vente proprio quassù, in questo lembo aspro di terra ormai francese; ai ventimila ragazzi che si sono succeduti in una catena di esperienze spirituali, veri tempi forti dello spiri-to; ai ragazzi già tornati in cielo perché la vita fu loro avara di anni; sessanta nomi sono incisi sulla «Croce dei ragazzi in cielo» (Croix des garçons en ciel) che sorge proprio dietro al rifugio a commovente memoria.

Pensavo pure come tutta la mia vita fosse stata giocata sui ragazzi; iniziata pubblicando un piccolo libro dal titolo emblematico: Ho 15 anni1, e poi incontri, confessioni, eser-cizi spirituali, ascensioni, salti mortali a volte sfiancanti e tutto e solo e sempre per un po’ di grazia di Dio.

Stavo pensando al santo padre Giovanni Paolo II, quan-do nel 1991, benedicendo la stele della Croce, indirizzò un dolce messaggio ai ragazzi che salgono il monte della Valle Stretta... Fu a quel punto che accadde l’inverosimile.

1 P. GARIGLIO, Ho 15 anni, Ediz. Fumero, Torino 1960.

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Spuntarono dall’erta mulattiera quattro figure: quattro uomini sereni, sembravano alpinisti francesi, il primo con il Tau sul maglione. Un reciproco sorriso, varcano la stac-cionata, quindi la stretta di mano e il cordiale: «Bonjour, mon père».

Dominique Marie, un monaco del Quebec in Canada, accompagnato da un giovane. Poi c’è Christophe, fratello del sacerdote e Yves, un amico di New York: sono incam-minati per il Tabor dove hanno un «rendez-vous», mi dico-no con un sorriso pregno di nostalgia. «Oggi è la festa del Tabor, la festa della Trasfigurazione...». Intanto dalla cucina fuoriesce il profumo del caffè, i ragazzi dormono ancora e l’ingresso nel refettorio è di prammatica.

Nel refettorio dominano tre quadri che rappresentano il papa Giovanni Paolo II mentre benedice la stele della Croce eretta nel 1991 a ricordo del cinquecentenario di sant’Igna-zio di Loyola e in memoria dei ragazzi deceduti nel fiore degli anni. Alzando gli occhi, attraverso la finestra della casa la Croce si staglia solenne e silenziosa nel cielo terso.

«Croix des garçons en ciel?»: chiedono spiegazioni; osser-vano sorpresi mentre spiego che quei nomi incisi sono dei ragazzi che la malattia o gli incidenti hanno portato presto alla casa del Padre. Sono i ragazzi che negli anni passati transitarono su questi monti alla ricerca di esperienze forti dello spirito e salirono lassù, sul monte Tabor. Non per nul-la la stele riporta le parole dell’Apocalisse: «Sono coloro che hanno lavato le loro vesti con il sangue dell’Agnello ed ora abitano presso il trono di Dio...» (Ap 7,14-15).

All’improvviso gli occhi dei quattro amici si riempio-no di lacrime...; poi il sacerdote francese mi narra l’incre-dibile storia che farà piangere anche me: «Un anno fa, mio nipote Antoine, quindicenne figlio di Cristophe, amico di Yves, salì per la prima volta il Tabor di Valle Stretta con un gruppo di amici dell’Eau Vive, l’associazione fondata dal P. Monteynard di Briançon...».

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Fu un’ascensione fatale per l’adolescente: centocinquan-ta ragazzi con un drappello di sacerdoti giovani che s’iner-picarono fino ai 3200 metri, in silenzio e preghiera, mentre i preti, cammin facendo, passavano accanto a ciascuno per il sacramento del perdono. La santa messa in vetta, le lacri-me di consolazione. Antoine è toccato nella profondità del-l’anima: Gesù diventa il suo primo amico! Ritornato a Lio-ne, non parlerà d’altro.

Quest’anno 1996, tre settimane delle vacanze di Antoi-ne sono dallo zio prete in Canada, quindi qualche giorno a New York, alla casa di Yves, l’amico del cuore che gli con-fida la spina dell’anima: la fede in Dio. Antoine lo invita a salire con lui il fatidico monte Tabor. L’appuntamento è per la festa della Trasfigurazione, giusto per quel 6 agosto!

È la mattina del 17 luglio 1996, il ragazzo si introduce nel varco doganale dell’Aeroporto Internazionale «J. F. Kenne-dy» di New York. Con l’ultimo saluto e l’abbraccio all’ami-co Yves, l’adolescente estrae l’icona di «Maria Regina del Cielo», che lo zio sacerdote gli aveva donato come viati-co e gliela porge per un bacio con queste precise parole: «Il faut entre fier de sa foi, je prierai pour toi en haut du mont Thabor...». Un’ora dopo il 747 della TWA esplode al largo di Long Island, uccidendo i 230 passeggeri...

Torniamo al 6 agosto 1996, quarant’anni esatti dalla mia prima ascensione al Tabor con il primo gruppetto di ado-lescenti. Sono le 18, padre Dominique, Cristophe, Yves e l’amico newyorkese scendono dal monte e passano dal ri-fugio. Non mi trovano. Dicono loro che sono in fondo valle con i ragazzi che fanno legna per il falò della sera. Mi rag-giungono nella pineta di sotto.

Yves mi abbraccia, piange e con voce rotta mi dice: «I belie-ve in God, yes, I believe that God there is! (Credo in Dio, sì, cre-do che Dio c’è!)». Il Signore Gesù Cristo l’avevano incontrato con Antoine, «sull’alto monte»..., secondo l’appuntamento!

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Antoine, anni quindici

Da piccolo Antoine era uno scolaro studioso e diligente, ma allegro e pieno di senso dell’umorismo. Molto affettuo-so e tenero.

A nove anni scrive a suo nonno molto malato: «Caro nonno, vi verrò a trovare molto presto, vado a scuola e in classe mi diverto molto ma non mi dimentico di pregare per voi».

Tutte le sere recita questa preghiera che gli ha insegna-to la mamma:

Eccomi Signore, io mi fermo e penso a Te. Tu sei vicino a me, non mi lasci mai quando cammino, Si-gnore Tu sei vicino a me, non mi lasci mai, nemmeno que-sta notte. Ti prego, accompagnami, o Signore.

A undici anni ci tiene assolutamente a essere il padri-no di Hugues (Ugo), il fratellino appena nato. In quell’an-no vuole far parte degli «Scouts d’Europa» dove s’impegna subito con grande entusiasmo e puntualità.

Le sue convinzioni sono sempre state presenti, profon-de, solide, vissute con molta riservatezza. Aveva una gran-de ammirazione, complicità e orgoglio per sua sorella Ca-roline e molta tenerezza e attenzione per il suo piccolo fra-tellino Hugues.

Il suo tempo libero era dedicato al disegno, ai pattini a rotelle, al computer, allo sci, al tennis. Il suo temperamento era quello di un ragazzo molto sensibile, affettuoso ma di-screto e riservato. Amava essere libero, indipendente, piut-tosto solitario. Aveva il senso dell’umorismo e gli piaceva-no i giochi di parole; non sempre motivato dalla scuola, preferiva i suoi amici, il reparto Scouts, la televisione o il computer e la musica.

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Privilegiava la qualità dei suoi amici alla quantità. A quattordici anni, con gli amici di Chartreux vive la vacan-za fatidica nel gruppo dell’Eau Vive: due settimane di leti-zia e di amore che dalla natura incontaminata della Val de la Clarè lo fa salire con dolcezza alla contemplazione del creato e del suo Creatore.

È del luglio 1995 la traversata da Briançon (sede di Eau Vive) a Névache; da qui alla Valle Stretta con la breve notte in tenda al Plan de la Fonderie, quindi la famosa ascensio-ne notturna al Tabor (Thabor) passando per il rifugio dei ragazzi italiani. Discendendo al rifugio Maison des Cha-mois dove ci sono molti ragazzi con il sacerdote che salu-ta con rispetto, descrive poi le meraviglie dell’ascensione notturna, chiede una jeep disponibile per portare in fon-do valle una sua coetanea leggermente lussata alla cavi-glia: «Perché la discesa è irta e spacca le gambe anche a noi maschi».

S’incuriosisce della grande «Croce dei ragazzi in cielo» e si fa narrare la storia e i nomi dei ragazzi segnati sulla Croce e il motivo delle morti così premature... Soprattutto la storia di Gianfranco lo intenerisce e gli spuntano alcu-ne lacrime. Intanto arriva anche la ragazza del suo gruppo infortunata alla caviglia per la quale Antoine e il gruppet-to di adolescenti avevano fatto predisporre la Land Rover della casa. Sarà trasbordata giù, alle tende di pére Montey-nard. Se ne partirà insieme con gli altri a piedi con un cor-dialissimo «Au revoir!».

Dopo un canto e una preghiera ad occhi sbarrati attor-no alla Croix des garçon en ciel, Antoine scende salutando con un «Arrivederci sul Tabor, il prossimo anno: arriveder-ci lassù...».

A casa, dopo l’esperienza del monte, la vita religiosa di Antoine assume una dimensione più completa, anche se il

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suo pregare, tolta la santa messa domenicale, resta ancora nella dimensione profondamente personale, direi solitaria e probabilmente anche notturna: sentiva il fascino di quel-la preghiera notturna di Gesù sul monte, confida un amico. Il pregare al buio salendo il Tabor l’aveva segnato per sem-pre. I genitori riescono ad osservarlo raccolto, quasi rannic-chiato nel chiuso della sua cameretta quando Hugues dor-me già o è a casa dei nonni.

Dicevo, dopo quell’esperienza la sua spiritualità solita-ria si fa più generosa. Anche la sua presenza negli Scou-ts d’Europa della sua parrocchia diventa molto più attiva, tant’è che il ragazzetto taciturno è chiamato a fare il capo squadriglia. Sarà una leadership che svolge tuttora, anche dopo il rendez-vous con il Signore, perché gli Scouts d’Eu-ropa di un reparto torinese lo sceglieranno come modello e il Reparto Nichelino I° verrà dedicato ad Antoine Lacail-le d’Esse.

Il babbo di Antoine, Christophe, è un funzionario pub-blico della municipalità di Lione. La madre Beatrice fa la buona mamma di casa. Quella di Antoine è una famiglia antica e rispettata, abita nel quartiere elegante della città al n° 19 di Rue Montgolfier, a Lione. La nonna paterna, madre di un monaco missionario, padre Dominique Marie, è un simbolo di bontà, serenità e autorevolezza in quella casa.

A quindici anni Antoine è davvero un ragazzo maturo per la sua età! Cosciente che vivere la sua fede richiede de-gli sforzi e che bisogna vivere la fede con convinzione, che dire delle cose col senso dell’umorismo è una forza e che le qualità dell’amicizia e dell’amore sono qualità di base. In-fatti egli detesta la superficialità e i pregiudizi.

Ama parecchio i viaggi dopo essere stato in Austria, USA, Svizzera, Italia e Roma. Vorrebbe imparare l’italiano e andare a studiare negli Stati Uniti. In quell’anno 1995 at-

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traverserà l’Atlantico per andare a trovare lo zio paterno monaco nel Quebec. Morirà nel viaggio di ritorno.

Testimonianze dei suoi amici: buonumore, allegria, gioia di vivere. Riservatezza e discrezione ma, allo stesso tempo, senso dell’umorismo e fedeltà nell’amicizia.

Grazie per la tua indulgenza, mi hai insegnato a non giu-dicare le persone senza conoscerle.

Grazie per avermi fatto sognare come tu hai fatto; per me sarai sempre il più grande avventuriero. Tu avevi il dono di portarci dentro ai tuoi sogni, sempre più lontano, sempre più forte. Adesso siamo noi che sogniamo te.

Il tuo sorriso devastante, la tua ambizione, i tuoi sogni, le tue convinzioni...

Antoine! Tu ci hai lasciato ciò che avevi di più bello: il tuo sorriso luminoso: che bel regalo! La tua fede. Non dimen-tico il messaggio che la accompagna: «Sorridete alla vita e la vita vi sorriderà!». Questa frase ti riassume. Non può lasciare indifferenti. Tu sei sempre un sorriso.... una luce. Ora sei nella Luce!

Se la nostra famiglia può continuare a vivere è perché noi sappiamo che l’Amore che abbiamo per Antoine è più for-te della morte. Egli ci vorrebbe felici, dinamici e contenti. Aveva tutto per riuscire, noi dobbiamo farlo per lui, per i nostri bambini e tutti i suoi amici. In attesa di rivederlo.

Ad Antoine, con tanto Amore.(mamma e papà)

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Antonella

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ANTONELLA

Questo capitolo, che racconta la storia di Antonella Di Miscio, ho voluto affidarlo interamente alle parole di Carla Porrati, che ha raccolto in un libro la testimonianza dei familiari, di quanti l’hanno conosciuta e i suoi scritti più significativi, e da cui so-no tratti i brani che seguono1. Ho solo avuto modo di incrociare Antonella negli ultimi mesi della sua esistenza quando, in segui-to ad un trasloco della famiglia, divenne mia parrocchiana. No-nostante i nostri contatti siano stati limitati nel tempo e sia sta-to soprattutto don Joe Galea ad incontrarla in occasione della di-stribuzione della comunione agli ammalati, il ricordo che conser-vo di Antonella è vivo e grande è la traccia da lei lasciata nella comunità parrocchiale.

Il dono di una vita

Antonella è una ragazza che ha conosciuto grandi soffe-renze fisiche ed insieme la grande gioia dell’amore di Dio, amore che lei ha percepito in ogni istante della sua esisten-za, che ha contraccambiato con trasporto e ha irradiato sul-le persone che la circondavano.

1 C. PORRATI, Non c’è persona più ricca di me, Effatà Editrice, Canta-lupa (TO) 2000. Della stessa autrice anche Voglio essere seme. La testimo-nianza di Antonella Di Miscio, Effatà Editrice, Cantalupa (TO) 2002.

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Antonella Di Miscio (26 novembre 1966-10 maggio 1999) era ammalata di distrofia muscolare di «tipo Duchenne» con complicanze a livello gastrico, tiroideo, respiratorio. Dall’età di quattordici anni non poté più camminare, nem-meno con le stampelle ascellari, e da allora non abbando-nò più la carrozzella. A poco a poco perse anche l’uso del-le braccia; le rimanevano i «movimenti fini», poteva cioè te-nere una penna in mano e scrivere, ma non riusciva né a mangiare da sola, né, ad esempio, ad allontanarsi dagli oc-chi la ciocca di capelli che le fosse caduta.

A queste condizioni di dipendenza si aggiungevano for-ti dolori fisici in ogni parte del corpo.

Difficile vivere così! Impossibile sorridere, tanto più in un mondo che esalta come «valori» fattori che dipendo-no solo dalla sorte, come la bellezza, la salute, l’efficienza, la spensieratezza, il movimento... E invece Antonella vive, sorride ed è di esempio e di sprone alle persone che godo-no di tutta quell’efficienza fisica che lei non conosce e che tuttavia sono sfiduciate e depresse.

Ecco cosa scrisse nel luglio 1981:

Cos’è la vita? È una gomma che cancella i dispiaceri fino a consumarsi? No!! È una biro che scrive senza sosta attenta a non im-pacciarsi, o forse è una fogliolina che verdeggia un’estate e poi scolora? Mi hanno detto che la vita è una candela che offre luce ma giunta al termine della cera si spegne e tutto oscura... Sarà forse un fiore delicato colmo di colore ma troppo pre-sto vittima del suo pallore?Signore, sa dirmi cos’è la vita?E tu ragazzo, lo sai cos’è la vita?Forse Lei, gran Senatore...!«La vita è... è un cielo grigio che piange lacrime amare, è un sassoli-no senza cuore».

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No! La vita non è tutto questo, non può, non deve essere que-sto. La vita è il sole che sorride sul mondo, è una speran-za continua su di un destino a volte poco giocondo, è un istante dolce, un gesto di pace.La vita...la vita è la forza, la volontàla vita è fantasiala vita è il Dio dell’Amore e della libertà!

Antonella è stata coraggio, serenità, comunicazione, e fin qui si può forse imitare. Ma Antonella è stata soprattut-to una testimonianza luminosa di fede, una fede che vo-leva trasmettere agli altri. Lei aveva raggiunto una felicità e una pace che la appagavano in questa terra e insieme la rendevano ansiosa di gustarle all’infinito e per l’eternità.

Desiderava ardentemente che tutti trovassero quella «perla preziosa» che sola dà scopo ad ogni vita. Pregava la Madonna di aiutarla ad avere cura dei suoi «figli spirituali».

Col passar del tempo, infatti, la pietà religiosa di Anto-nella era diventata nota, benché lei, pur non nascondendola, non la sbandierasse affatto. Pertanto, sempre più frequen-temente le persone si rivolgevano a lei per una preghie-ra, per una intercessione: Antonella accoglieva tutti, erano «fiori della sua aiuola» e lei, nei rosari quotidiani, nelle no-vene, li menzionava ad uno ad uno e di ognuno presentava alla Madonna i problemi e le necessità da cui erano turbati.Pregava con intensità, in particolare per le conversioni.

Io, voglio essere seme che mette radici nella nuda terra,con frutti d’albero

baciati dal sole e larghe braccia innalzate al Cielo... (21 aprile 1990)

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Antonella e Gesù

È la sua fede che vogliamo testimoniare attraverso queste pagine: la sua non è una telenovela evangelizzante, con la protagonista che, dopo un travagliato pellegrinaggio, dà un calcio alla carrozzella e... chissà... trova anche il princi-pe azzurro! Niente di miracolistico che possa suscitare fa-cili emozioni: Antonella non guarisce, e se ne va a trenta-due anni... vestita da sposa, questo sì.

La mamma, per trovarle l’abito – era di lunedì e tutti i negozi erano chiusi –, puntò tutto sul suo disperato dolo-re di madre che perde l’unica figlia e sulla sicurezza di fon-do che la Madonna l’avrebbe aiutata a realizzare il suo de-siderio. La Madonna infatti l’aiutò e le aprì delle porte che dovevano invece essere di norma chiuse... e saltarono fuori l’abito, l’acconciatura e i fiori...

Che strana idea quella di vestire la figlia da sposa... la si può accettare solo da una madre e un padre sconvolti! Ep-pure, su una vecchia agenda del ‘93, troviamo a capo di pa-gina questa intestazione:

Antonella Di Miscio ama GesùGesù ama Antonella Di Miscioe insieme vivono felici e contenti.

Veramente l’epilogo di una favola che vede i protagoni-sti finalmente uniti dopo tante prove!

Antonella, negli ultimi giorni, era oppressa da una for-te difficoltà respiratoria che non accennava a risolversi; fi-nalmente, dopo tante insistenze, i genitori riuscirono a con-vincerla a presentarsi all’Ospedale S. Luigi di Torino, dove abitualmente si recava per i periodici accertamenti cardio-logici e spirometrici. La situazione apparve subito seria; si rendeva necessario trasportarla in sala di rianimazione.

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A Torino, in quel giorno, non c’erano sale di rianimazio-ne libere. Al S. Luigi c’era un respiratore nuovo, ma per va-rie difficoltà – che ai genitori e ad Antonella stessa, sempre perfettamente lucida, in quel momento di attesa angoscio-sa parevano ampiamente superabili – non venne utilizzato. Per questo motivo Antonella fu trasferita all’Ospedale Ci-vico di Casale Monferrato (Al), dove fu subito accolta, rico-verata in sala di rianimazione e seguita con grande interes-se e partecipazione umana.

Non dobbiamo mai scordare una realtà essenziale: An-tonella ha affidato al Signore la sua vita e lo ha amato al di là della sua situazione personale e al di sopra di ogni altro affetto umano. In questo amore che la appagava noi vedia-mo un dono di Dio, come sono dono del suo amore le tante persone, religiosi e laici, che credono nella stessa verità.

La malattia

Ma facciamo un passo indietro. Antonella soffre per la sua infermità, che diviene sempre più devastante, la costringe a dipendere per ogni minima necessità dagli altri, le arreca tanti dolori fisici, le impedisce spesso di riposare, la fa re-spirare con difficoltà, mentre «il cuore è scatenato in danze aritmiche e perse in un vuoto lontano».

Da quando ha preso possesso del suo corpo, la malat-tia, che ad una delle tante diagnosi sembrava «bloccata», si è andata aggravando al punto da renderla invalida al cen-to per cento. L’alloggio di Tagliaferro, pur confortevole (i genitori vi si erano trasferiti quando lei riusciva ancora a camminare, sia pure con qualche difficoltà), non è adatto ad una sedia a rotelle; lo spazio diviene insufficiente per la carrozzella ed Antonella è costretta a rivolgersi ai genito-ri per ogni necessità: andare in bagno, muoversi da una ca-

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mera all’altra... Inoltre ci sono le famigerate barriere archi-tettoniche, comuni alla stragrande maggioranza degli edi-fici.

Per ogni spostamento, Antonella deve quindi servir-si delle gambe e delle spalle dei genitori. Scruta ansiosa-mente sui loro volti eventuali segni di stanchezza e a vol-te, quando si sente un peso morto sulla schiena del padre, commenta che Gesù dovette portarsi sul Calvario il suo strumento di tortura e il padre si deve portare lei: «Sono io la tua croce!».

Con un minimo di onestà riflettiamo su come deve sen-tirsi questa ragazza intelligente, che non può muoversi, in un continuo confronto con immagini di sfrontata efficien-za fisica che TV e giornali ossessivamente propinano. È ve-ro che scrive:

Se non ho potuto camminare, Tu mi hai presa in braccio e mi hai fatta volare. Nella sofferenza mi hai distesa sul-la croce del tuo diletto Figlio ed Egli dalle spine ha fatto spuntare piccoli boccioli di rosa.

Ma ciò non toglie che Antonella si senta dolorosamente impedita: non ama affatto la sua malattia, non ne è rasse-gnata e non la vuole, e sa che neanche Dio l’ha voluta per lei, perché

il mio Dio tremò di fronte alla morte. Non amò mai il do-lore, non fu mai amico della malattia. Per questo curò gli infermi.

Il suo Dio è resurrezione!

La sua spiritualità

Un senso di spaesamento ci coglie quando ci accostiamo alla sfera spirituale di Antonella: entriamo in una dimen-

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sione cui non siamo avvezzi, noi che ci interroghiamo, in-daghiamo, vogliamo «capire» per dare a Dio il regalo del nostro assenso. Noi, che spesso ci smarriamo o operiamo con fatica in campi ampiamente accessibili ad altre men-ti, improvvisamente, di fronte al mistero di Dio, che altro non ci chiede se non di «fidarci», riteniamo che la razio-nalità dell’uomo non abbia confini e che possa conoscere «tutto». Poiché non vogliamo essere considerati bambini creduli, cui si possono raccontare delle favole, finiamo per vagare irrequieti, senza trovare alcun appoggio saldo. In realtà riteniamo che il nostro Io sia da anteporre alla veri-tà che Dio, per mezzo dello Spirito Santo, ci ha fatto cono-scere con la sua creazione e con la sua Parola, Gesù, il Ver-bo fatto carne.

Non così Antonella: ragazza lucidissima e razionale, co-nosce per dolorosa esperienza la natura finita della creatu-ra e quindi la debolezza della ragione umana e si abban-dona a Dio con vero slancio d’amore. La sua ragione non si ribella a questo impeto: Antonella crede e la sua men-te comprende la verità. Scrive infatti: «Nulla di più grande in questa vita che conoscere e amare Colui che ci ha ama-ti per primo!».

Leggiamo insieme una riflessione che risale al giugno del ‘93, una data prossima ad un suo viaggio in Brasile che, si immaginava, l’avrebbe assorta in progetti gioiosi:

Sono inquieta e senza vitalità, niente mi giova, nul-la mi smuove, neppure pensare al Brasile mi dà un po’ di verve, finché prendo coscienza di un cosa: TUTTO È CADUCO IN QUESTA VITA, NULLA È STABILE, NULLA È DURATURO, NULLA È AFFIDABILE. An-che nei rari istanti di pienezza, nel mondo manca sem-pre qualcosa: Gesù! Sì, è Gesù il mio solo punto fer-mo, la mia sola ancora di salvezza... ma fintanto che vi-

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viamo su questa terra la nostra anima vaga sofferen-te e inquieta in cerca della sua terra promessa: l’ETER-NITÀ. Nulla ci basta, nulla ci soddisfa, poiché nulla sarà mai capace di soddisfare il nostro bisogno di INFINITO. Se qualcuno mi dicesse per certo che tra due settimane io morirò... ebbene a questo pensiero sono presa da una serenità ed eccitazione inconsuete che rasentano la pura gioia. Che cosa farei? Anzitutto provvederei ad una attenta con-fessione; poi nutrirei la mia anima per non patire la fame durante il viaggio; infine riposerei sotto le stelle per loda-re il Signore e ringraziarLo di tutto ciò che mi ha donato: sarei una creatura fra le creature. Niente letto, telefono, ra-dio, televisione... solo io e il mio Dio. Questo è l’unico ve-ro viaggio verso cui tutti tendiamo, i più senza purtrop-po rendersene conto. Tuffarsi in Dio e nel suo incorruttibi-le Tutto: questa è la Vita e questo io desidero, per non ave-re più sete, per non dover più gemere arrampicandomi sui vetri, nel tentativo di contenere il bisogno viscerale d’infi-nito della mia anima, nell’angusto antro fumoso del mio corpo. Adesso lo so: possedessi la terra intera, mi starebbe stretta, come un oceano in un bicchier d’acqua.

E poi: Il giaciglio del mio corpo una cassa azzurro chiaro con manici d’argento e una croce bianca sul coperchio. Una veste bianca come quella del mio Gesù con una croce ros-sa ricamata sul petto ed un rosario bianco tra le mani. Canti festosi di Resurrezione e Messa del Rinnovamen-to, le luci accese e il sole splendente a suggellare la mia gioia. Solo fiori bianchi con qualche tocco di rosa, violet-to, arancio... Nessun abito nero indosso a chi mi vuole be-ne... ma solo colori chiari, di luce... E nel cuore dei presenti la consapevolezza che solo adesso veramente vivo!!! E sul-l’epitaffio la stessa frase: «Sii felice come io lo sono, poiché adesso pienamente vivo! Sempre con te, in Dio!».

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Profetiche le sue parole: il giorno del suo funerale era ra-dioso di primavera e la chiesa era ripiena di fiori bianchi, azzurri... Quando il feretro entrò in chiesa fu accolto da una cascata di note gioiose che esaltavano l’ingresso, o me-glio, il ritorno a Gerusalemme, la città della promessa.

I genitori non indossavano gli abiti del lutto che lei non avrebbe voluto... ma le lacrime, quelle nessuno poteva trat-tenerle, né i genitori né gli amici. Mamma e papà non si so-no abbandonati alla disperazione, perché la fede di Anto-nella ha plasmato anche il loro animo, ma il dolore del di-stacco è sentimento troppo umano perché non lo sentisse-ro in tutta la sua asprezza. Sabina così ha salutato la figlia durante il funerale:

Voglio ringraziare il Signore per averci dato Antonella proprio con la sua malattia, perché attraverso la sua ma-lattia abbiamo capito quanto è grande l’amore di Dio.Grazie Antonella per tutto quello che hai fatto per noi, perdonaci per tutte le volte che non ti abbiamo capita.

La loro vita è cambiata da allora, ma essi «sentono» che la loro figliola non li ha abbandonati, che veglia su di loro e, abbracciata al Padre, li protegge: sentono che il suo amo-re per loro adesso è altissimo, puro e gioioso.

In uno scritto, Antonella conferma la sua unione con il Padre:

Mi emoziono sempre, quando penso di appartenere a Dio, e più aumenta la consapevolezza del suo amore, più cre-sce la mia gratitudine. È Lui che nella miseria umana ci rende la dignità di dei, figli di Dio; è Lui che in ogni istan-te ci risponde: ti amo! Non saprò mai dire quanto ti amo, Signore! Voglio pene-trare nel tuo cuore trafitto ed amare: prendi tutto, Signo-re, ma donami di amare!

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Paola

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PAOLA

Un dolce sorriso scolpito sulla Croce...

Di lei scrivono mamma Romana, papà Andrea Arduino e i fratelli Marco e Chiara:

La morte improvvisa di un figlio è una delle esperienze più dolorose e laceranti che possa colpire una famiglia. Il vuoto che si crea, nonostante il dono della fede, diventa giorno per giorno sempre più profondo e la sua mancan-za «fisica» è impressionante.Noi familiari di Paola, abbiamo un bisogno spasmodico di sentire la nostra figlia viva in mezzo a noi e apprezziamo che su quella S. Croce del Tabor ci sia il suo nome e molti giovani e molti genitori si raccolgono a pensarli questi ra-gazzi e a chiedere al Signore non solo la loro pace ma an-che la forza e il coraggio ai loro genitori. Grazie Amici che soffrite e sperate con noi!

Mamma Romana poi ha preparato il profilo biografico della sua Paola. Alta, slanciata, semplice, estroversa, ha fat-to tutto in quindici anni prima di andarsene il 20 dicembre 1999, travolta e uccisa da un’auto mentre andava in chiesa alla novena del santo Natale. Sentiamo come l’ha dipinta la sua buona e santa mammina:

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Paola ha poco più di quindici anni e, come tutte le ragaz-ze della sua età, ha tanti sogni e progetti per il futuro. Semplice ma curata nel vestire, spigliata e molto estrover-sa. Ha una carnagione chiara e vellutata, bei capelli casta-ni con sfumature ramate e occhi scuri, penetranti e mol-to espressivi.Il suo visino pallido fa trasparire la dolcezza che porta dentro e che manifesta anche nella sua voce limpida e ras-sicurante. Paola ha una sua caratteristica che la distingue in mezzo agli altri: il suo radioso e luminoso sorriso che dona a tutte le persone che incontra.

La sua famiglia

Paola vive a Montà d’Alba con la sua famiglia: mamma Ro-mana (che ama chiamare Romy); papà Andrea, forte e co-raggioso; il fratellone Marco, da cui si sente protetta; e la sorellina Chiara, la più piccola della famiglia, verso la qua-le Paola manifesta un atteggiamento di dolce mammina.

Fin da piccola Paola dimostra un carattere allegro e spensierato e sprizza intorno a lei tanta voglia di vivere. La casa è come «illuminata» dalla sua presenza e rallegrata dalla ventata di giovinezza che Paola porta con sé.

La sua scuola

Paola, dopo aver frequentato le elementari e le medie nel suo paese, a Montà, è ora allieva della II A del Liceo scien-tifico «L. Cocito» di Alba, nell’indirizzo linguistico. Il suo sogno è quello di studiare le lingue, verso le quali si sente

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particolarmente portata, e di diventare hostess o interprete per poter viaggiare in tutto il mondo.

Impegna al massimo le sue capacità e i risultati sono più che buoni. In classe si sente a suo a gio e ha un ottimo rap-porto di amicizia con insegnanti e compagni. È desiderata da tutti per la sua gentilezza, la sua generosità e per il fare piacevole e gioioso.

Le sue amicizie

Paola in questi ultimi anni ha allargato il cerchio delle sue amicizie. Oltre ai compagni di scuola, a Montà ha molti amici e amiche: fa parte di un bel gruppo gravitante attor-no alla parrocchia. È numeroso e vivace; generalmente si ritrova al sabato sera e alla domenica pomeriggio per orga-nizzare volentieri feste, pizze e giochi per passare insieme qualche ora in allegria.

Paola è benvoluta da tutti, ha sempre una battuta scher-zosa, pronta a calmare i più scatenati... Offre a tutti una «vera» amicizia e, pur essendo spensierata, è molto saggia e prudente.

I suoi impegni

La sua cantoria. Pur essendo giovanissima, da circa tre an-ni dirige la cantoria dei giovani tutte le domeniche alla messa delle 9:30. È un impegno che porta avanti con tanto entusiasmo, perché ama il bello, la musica e il canto. Le sue piccole «allieve» le sono tanto affezionate e seguono con at-tenzione i suoi consigli. Ora il piccolo coro è molto miglio-rato e Paola continua con perseveranza il suo impegno.

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I gruppi del lunedì. Paola, con altri compagni, parteci-pa soprattutto ai gruppi del lunedì sera, in parrocchia: si ritrovano per discutere dei problemi dei giovani, sentono musica, assistono a proiezioni cinematografiche, redigono il giornalino parrocchiale...

Il doposcuola. Da qualche mese, Paola dedica un pome-riggio la settimana ad assistere bambini in difficoltà che frequentano il doposcuola. Porta avanti questo impegno con molta pazienza, cercando di dare il meglio della sua preparazione scolastica. I bambini le sono molto legati, la considerano la loro seconda «maestra», si confidano con lei, le raccontano i loro segreti, come se lei fosse l’amica più ca-ra.

L’ultimo giorno: 20 dicembre 1999

Per Paola è una giornata intensa, come è stata tutta la sua vita fino ad oggi. Durante la mattinata di lunedì 20 dicem-bre svolge due compiti in classe, al pomeriggio è al dopo-scuola e alla sera con il gruppo «giovanissimi» è impegna-ta nella novena natalizia; il tutto si concluderà con una «ce-na» in pizzeria...

Paola esce di casa alle 20, con il suo gioioso saluto: «Mam-ma, torno presto!» (queste saranno le sue ultime parole).

Una serie di tragiche fatalità: mezz’ora dopo Paola è in-vestita mortalmente a duecento metri da casa. Poi il prodi-garsi del dottor Alessandro Vindigni del 118 di Alba e dei suoi collaboratori, una corsa disperata all’ospedale e l’inu-tile tentativo di strapparla alla morte da parte dei medici del pronto soccorso.

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Paola, senza riprendere conoscenza, lascia i suoi cari nelle prime ore del 21 dicembre: per lei e per i suoi fami-gliari incomincia da quel momento una vita nuova. Mon-tà sembra fermarsi e si stringe intorno a loro, increduli e smarriti.

Perché è successo? Perché proprio a lei?A tanti perché non ci sono risposte. Umanamente è im-

possibile capire, ci si sente soli e impotenti.Ma Paola non è «morta» per sempre... continua a vi-

vere in mezzo a tutte le persone che le vogliono bene, in una nuova dimensione, pronta come sempre a portare il suo aiuto e il suo sorriso a chi percorre il faticoso cammi-no senza di lei.

Scrive il suo parroco, don Pino Donato:

Come uno «stop» improvviso e violento, la morte di Pao-la ci ha colti in un momento in cui tutto parlava di vita e di gioia: il Natale imminente. Uno «stop» che ha fermato il cammino sempre più veloce e ansioso che sovente bru-cia le energie e il tempo.Tutti, ma in particolare i giovani, ci siamo fermati sgomen-ti e riflettere su questa terribile disgrazia. Paola ha termi-nato improvvisamente il suo cammino terreno, come già Giulia e Erika.Dopo l’emozione profonda e scioccante, la vita ha ripreso il suo ritmo trascinando ciascuno per la sua strada. Con il pericolo di dimenticare le riflessioni e le suggestioni che la morte (terrena) di Giulia, Erika e Paola ci ispirano.Non possiamo, non dobbiamo permettere che il ritmo del-le nostre occupazioni travolga i messaggi che, attraverso gli avvenimenti – specialmente se dolorosi – ci vengono inviati. Quel Dio che è Padre e ci ha chiamati alla vita, che ci ha dato suo Figlio (il Crocifisso, che ci dona tut-to per amore), ci parla sempre e ci è vicino, anche quan-do non abbiamo tempo di ascoltarlo. Ci parla anche quan-

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do siamo sconvolti e «arrabbiati». Ci ha parlato anche nel-la morte di Giulia, di Erika e di Paola, come in ogni fatto della vita.Ogni vita è un messaggio di amore, ma certe vite lo so-no in modo particolare. Dove va la nostra vita? Che senso ha la vita di Paola, di Giulia, di Erika? Penso che ogni esi-stenza, anche se ha lasciato questa terra, come una realtà vivente non passa.Ora ricordiamo Paola come un messaggio vivo da medi-tare, ascoltare, accogliere, per trovare, non importa se con grande fatica e con un lungo cammino, il senso della vita. Paola stava crescendo, stava formandosi, stava scoprendo la vita, preparava le scelte profonde che danno il senso al-le cose e la gioia di vivere.Ricordo Paola per il sorriso e lo sguardo pulito, per la di-sponibilità a dare quanto poteva in mezzo agli altri e per gli altri. La ricordo per il senso di responsabilità dimo-strato in particolare nel preparare il coro dei ragazzi; per quel fare che annunciava una spiccata personalità unita alla dolcezza; per la partecipazione ai gruppi parrocchiali. Stava crescendo anche nell’esperienza dello spirito.Cara Paola, a noi la tua vita appare come quella di un al-bero carico di fiori bruscamente divelto. Per noi è diffici-le andare oltre. Ma sappiamo che nel progetto del Padre quelle che a noi paiono disgrazie incomprensibili e inac-cettabili, sono componenti insostituibili di quel mistero di salvezza che in Cristo trovano l’origine e il traguardo del-la vita.Cara Paola, ti ricordiamo con riconoscenza e con la spe-ranza sicura che tu hai raggiunto la pienezza della vita, anche se per noi il tuo cammino è stato troppo breve. Ot-tieni dal Signore Gesù per i tuoi famigliari la forza della fede e della speranza, per tutti e in particolare per i gio-vani di raccogliere il testimone che tu ci hai lasciato, per guardare avanti e cercare il senso della vita nel cammino verso il traguardo della pienezza che tu hai raggiunto.

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Nel suo diario Paola aveva appena scritto: «Bisogna es-sere felici perché la vita è adesso ed è fantastica», e nell’ul-timo tema in classe un’analisi lucida e piena di carità per il prossimo:

Occorre insegnare ai ragazzi la responsabilità e il rispet-to per sé stessi e per gli altri, la necessità di accettare e affrontare la sofferenza e gli impegni come strumenti di crescita, parti integranti della vita. Cosa che oggigiorno non si fa più se non con parole sterili e vuote.La verità è che dei giovani tossicodipendenti e non, ano-ressici e non, non interessa nulla a nessuno.Ritengo che, per paura di impegnarsi troppo, molti adulti tolgano loro anche il senso del limite, basta che non rom-pano. Sta dunque ai giovani cercare di combattere contro la società che sembra destinare a tutti un futuro piatto, pieno di incertezze.Come fa il gabbiano Jonathan Livingston quando capisce che il volo può diventare motivo di gioia e pienezza, sen-so di libertà e soddisfazione, mentre per il resto del grup-po la sua unica utilità è di cercare il cibo.Così i giovani non devono arrendersi e abbandonare i pro-pri sogni e desideri adeguandosi allo stile di vita degli al-tri, ma cercare di emergere dalla società appiattita e rasse-gnata per ottenere quello che veramente vogliono.

Buon paradiso, Paola carissima. Ora dacci una mano af-finché possiamo ricongiungerci!

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Mario Filippo

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MARIO FILIPPO

Si apre il sipario

Sapete che nelle gare sportive corrono in molti ma uno so-lo ottiene il premio. Dunque, correte anche voi in modo da ottenerlo!Sapete pure che tutti gli atleti, durante i loro allenamen-ti, si sottopongono ad una rigida disciplina. Essi l’accetta-no per avere in premio una corona d’alloro che poi appas-sisce; noi invece lo facciamo per avere una corona che du-rerà per sempre...Ecco perché mi comporto come uno che corre per rag-giungere il traguardo... Mi sottopongo a dura disciplina e cerco di dominarmi per non essere squalificato (san Pao-lo, 1 Cor 9,24-27).

La vicenda che mi accingo a raccontarvi è la storia dell’im-proba fatica di un adolescente chiamato ad una corsa mol-to difficile e breve, nella quale lo sprint finale che precede il traguardo ha dovuto percorrerlo in mezzo al fuoco divo-rante di un dolore fisico e morale che agli spettatori è par-so impossibile da superare.

Il nostro atleta sarà vittorioso, sorprendendo tutti, ad ini-ziare dai suoi compagni di liceo. Nella sua vittoria a molti è parso evidente l’intervento della potenza di Dio!

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Questo mio «scrivere parlato» cercherà di presentarvi questo campione che non può non trovarsi sull’alto podio del paradiso con i suoi tanti e cari amici che l’hanno pre-ceduto.

Vi presento naturalmente i personaggi e gli interpreti più coinvolti. Il protagonista si chiama (non «si chiamava»: la morte dei cristiani è il dies natalis all’eternità) Mario Fi-lippo Bagliani.

Il papà, Claudio, dottore in farmacia, è anche lui in pa-radiso da quando il nostro atleta Mario Filippo aveva due mesi di vita. La mamma, Luisella Quaglio, esercita la pro-fessione di medico pediatra. La zia materna Elena è in pa-radiso, stroncata giovanissima da morte improvvisa. Non-ni paterni: Filippo e Miranda, farmacisti anch’essi; in pa-radiso. Nonni materni: l’amatissimo Silvio Quaglio, indu-striale dell’alimentazione, in paradiso. C’è poi l’amata e anche temuta nonna Marie, sposa di Silvio, grazie a Dio ancora tra noi.

Nonna Marie, che Mario Filippo definirà «la quercia», è una donna colta, fortissima e nello stesso tempo fragile e lacrimosa come l’Addolorata. È lei che ha affiancato mam-ma Luisella nell’educazione del nipote visto che il papà morì quando aveva ventinove anni appena e, anno dopo anno, nel lasso di poco superiore ad un lustro, anche gli al-tri nonni se ne andranno in cielo. Un bambinetto con una mamma esile come un’anima e una nonna con la funzione tribolata di «palo della giostra» disegneranno la più stri-minzita delle famiglie di questo mondo.

C’è poi lo zio paterno, fratello di Claudio, il dottor Car-lo Bagliani. È un clinico che conta: chirurgo nell’ospedale Giovanni Bosco di Torino, coordinatore del Ministero de-gli esteri italiano per l’impegno sanitario nel terzo mondo,

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con particolare incombenza verso la Cina continentale e la Mongolia. Sarà lui, lo zio forte e soave che accompagnerà il ragazzo lungo l’aspro ultimo giro della corsa. È, purtrop-po, anche il medico che venti anni prima aveva scoperto nel fratello Claudio, padre del neonato Filippo, il terribile melanoma che l’ucciderà in due mesi, per compiere nuova-mente lo stesso delitto sul nipote Mario Filippo.

Carlo Bagliani è il caro zio al quale il ragazzo morente scriverà:

Ti ringrazio caro zio Carlo per ciò che hai fatto per me. Ho ammirato la tua calma e flemma in ogni momento. Sta’ ac-canto alla mia mammina tu che mi hai seguito fedelmen-te nella mia agonia e mi sei stato di grande sostegno!

La telefonata della signora Vanna Dentis, la cara amica di nonna Marie, mi giunse un mattino di fine marzo 2002. Incominciava così la gentile signora: «Sto parlando con don Paolo... Reverendo, io sono una sua radioascoltatrice: seguo con piacere le sue trasmissioni...».

Va detto che a tutt’oggi, con una mia predicazione omi-letica relativa ad una santa messa quotidiana rivolta agli ammalati, sono presente in un’emittente radiofonica pie-montese dove partecipo ad una rubrica del giovedì diretta dal dottor Piero Mozzone dal titolo: Ciao Don! Conversazio-ne con i ragazzi condotta in studio da don Paolo Gariglio1. «Ven-go a lei», continua la squisita interlocutrice, «per segnalar-le il caso di un ragazzo molto malato... che vorrebbe incon-trarla!».

1 Radio RNC, FM 107,4 provincia di Torino; FM 107,2 province di Cuneo e Alessandria.

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La signora mi assicura che la telefonata è avvenuta su ri-chiesta del giovane, il quale spera sulla mia accoglienza e già mi attende... abita a Pinerolo.

Come avrei potuto non essere disponibile, all’istante...? Il primo incontro sarà però ritardato all’inizio di aprile a causa di un tribolato andirivieni del malato, culminato con il ricovero all’Ospedale di Lanzo, presso l’Hospice oncolo-gico terminale, dove le terapie sono solo più rivolte al con-tenimento del dolore.

Mi bastò guardarlo negli occhi dall’uscio della camera dell’Hospice nel giorno del primo incontro, perché una cor-rente genuina di intesa ci coinvolgesse subito. Le facce par-lano, a volte sono eloquenti come lavagne scritte con il ges-so dell’infanzia. Questo è il caso di Mario Filippo ed io vor-rei aiutarvi a vederlo, quel bel viso adolescente. A lasciarvi catturare dall’eloquenza della sua fronte, dei suoi occhi in-telligenti e dolci come due chicchi di caffè, che a ben guar-darli ti fanno immaginare l’anima, secondo l’asserto di Ge-sù quando guardava gli occhi dei piccoli: sono la finestra dell’anima. La sua forte e coraggiosa personalità era nobili-tata dal contrasto del pallore del viso che lo rendeva diafa-no come le lenzuola, con un sorriso sempre presente ad ac-cogliere chi lo visitava.

Il primo colloquio incomincerà in quella stanza con un saluto a fior di labbra che avvierà un’avventura di soli tre mesi, sufficienti per rendermi testimone di una delle più forti storie di anime giovanili capaci di salire nella strato-sfera delle virtù. Quel primo incontro si concluderà con un caloroso: «Ciao don... Torni?». «A domani, ciao!». Rientran-do in auto il signor Carlo, che si era offerto come autista, as-serirà che io avrei detto, parlandomi addosso: «Questo ra-gazzo non appartiene alla terra...».

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Una sera di tanti anni fa il famoso predicatore mediatico Fulton Sheen, uno dei vescovi di New York, tentò di spie-gare la santità in questa maniera:

Iddio di ogni creatura esistente, pianta, fiore, animale, ha il suo disegno, ma dell’uomo ne ha due. Quello originale, del progetto che Lui ha pensato da sempre e quell’altro, di come quell’uomo si realizzerà. La santità consiste in questo: capire qual è il disegno ori-ginale di Dio, cioè ciò che Iddio ha pensato per te e poi lottare per realizzarlo personalmente, fino a far coincide-re le due immagini. La santità sta in questa cibernetica di coincidenza.

Mario Filippo ha vissuto serenamente nell’agio di una famiglia borghese, anche se con un rammarico pungente, quello di non aver conosciuto suo padre, morto quando lui era appena uscito dal grembo di mamma. La madre e la nonna gli provvidero sempre tutto: studio, sport, vacan-ze, viaggi, esperienze culturali, fino a diciotto anni. Aveva tanti amici e amiche, soprattutto del giro scolastico e spor-tivo.

A diciotto anni il disegno di Dio gli si presenta incredi-bilmente diverso dalle sue aspettative. Un disegno a for-ma di croce, la croce di una malattia; della stessa terribi-le malattia che già aveva ghermito il suo papà. La scena che gli si affaccerà a diciotto anni è tragica; si ribella, si di-spera, piange tra le piante del parco della villa e, con sua madre, nella cappella dell’Hospice di Lanzo fino a quando scoprirà, certamente grazie al soccorso della grazia del Si-gnore, che quell’aspra china discende dal cielo come la sca-la di Giacobbe, venuta giù proprio per farlo salire verso il «più alto».

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Come si fa, come farà Mario Filippo, a quella sua età a capire la frase di Paolo che si compiace di essere chiama-to, lui, con le sue pene, ad aggiungere qualcosa alla passio-ne del Signore, per la salvezza degli altri? Eppure dovrà ca-pirla, perché quella sarà il disegno che Dio ha steso su di lui...! Ecco perché la grazia di Dio gli subentrerà con la sua chiaroveggenza e forza, senza nulla togliergli della libertà; il miracolo della fede finirà per trasformare in «avventura da vivere» quella sua durissima croce, al punto di farlo ca-pace di confortare i suoi amici che lo seguiranno appresso, silenziosi e impotenti.

La coincidenza dei due disegni in questo ragazzo si rea-lizzerà di giorno in giorno fino ad unificarsi in uno nel dì della sua festa più grande quando, bello e solenne come un principe, sarà venerato nella bara da un fiume di gente at-tonita.

Riuscirò io, povero prete chiamato improvvisamente al suo capezzale, a raccontarvi questa storia di cielo? «Uti-nam! Il cielo lo voglia», dicevano i latini. Io ci proverò!

Un giramondo assai curioso

«Sono vissuto poco ma ho vissuto molto!», soleva dirmi con una vena mista di nostalgia e orgoglio nei giorni in cui nu-triva il desiderio di vedere ancora una volta il suo mare.

La mamma, la nonna e lo zio, pur in quell’austerità che la Marie forgiava, fin dalla prima infanzia non lesinavano al figliolo la soddisfazione dei desideri e delle esperienze culturali che potevano essergli utili. È davanti agli occhi di tutti una favolosa tabella di marcia.

Viaggi: anni due e mezzo, vacanze in Sardegna; an-ni tre e mezzo è a Philadelphia, negli USA; a quattro an-

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ni in Kenya, a trovare un’amica della mamma di professio-ne geologa. Pakistan a otto anni con i medici della Coope-razione Internazionale. Sarà poi in Grecia, a Malta, in Fran-cia, trovando però sempre il modo di visitare, nelle vacan-ze più brevi, quasi tutta l’Italia. Australia a undici anni, con tappa a Bali nelle vacanze di Natale. A tredici anni in Flori-da con l’insegnante di inglese. Negli USA ritornerà a quin-dici anni; con la mamma ed amici visiterà il Maine e parte del Canada. Infine a diciassette e a diciotto anni a Londra per perfezionare il suo già discreto inglese.

E poi il suo mare, tutte le volte che gli era possibile. Sport: pallavolo, karatè e basket; poca passione per il football; sta-va iniziando pallanuoto. Non ha collezionato primati.

Letture: non era un gran lettore ma leggeva di tutto, a incominciare dal Nuovo Testamento e buona parte del Vec-chio, specie Genesi e Profezie: la storia religiosa e delle re-ligioni lo appassionava quasi quanto la geografia, la filo-sofia, la storia economica del mondo, gli atlanti geografici. Era ghiotto di tutte le notizie che gli provenivano da Am-nesty International; abbonato alla rivista «Focus» e aman-te discreto della musica pop e leggera. Ascoltava volentieri i cantautori. TV pochina, tolti i programmi alla Piero e Al-berto Angela. Si portava sovente dietro un libro di scienze e geografia che estraeva nel corso della trasmissione quan-do incominciava ad annoiarsi. Le vacanze preferite erano al mare di Sanremo, nel residence dei nonni.

Le bricconate non mancarono nel suo carnet adolescen-ziale: la più consistente è stata il «furto» dell’auto di mam-ma con viaggio senza patente fino a Torino, di sera e sot-to la pioggia, anno 2000, anni diciassette circa... La cosa era grave e gli rimase di peso. In margine a quel disastro, sotto lo stimolo del suo animo sensibile, scriverà a lungo a mam-

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ma e nonna, non per discolparsi bensì per chiedere perdo-no, perdono e perdono!

I gusti. Quelli dei ragazzi della sua età. Gli piacevano i pantaloni lunghi e larghi che andava a comprarsi di perso-na «per non lasciarsi femminilizzare da loro due...». Capel-li: fino a sedici anni non erano un problema, ma a diciot-to la moda ci andava tutta: corti in basso e un po’ alla gia-maicana; alle rimostranze di famiglia ribatteva: «Lasciate-mi sfiziare un pochino, donne, visto che sono l’unico uo-mo di casa».

Era tuttavia parsimonioso, non ricercava cose firmate e le scarpe le usava finché andavano; comprava lui stesso gli abiti e non sprecava un centesimo, fino a meritarsi dai suoi compagni la nomea di tirchio, ebreo, genovese! Era invece di animo generoso con visioni ardite: in terza media, in un tema dal titolo Come mi vedo tra trent’anni, alle parole em-blematiche «Non ci credo molto di essere ancora vivo, al-lora», aggiungeva: «Credo però che non farò il medico. Se mai diventerò davvero grande (!) vorrei essere un missio-nario con mia madre al fianco; così tutti e due potremmo fare proprio un buon lavoro!!!».

Sì, era generoso e leale; il suo amico Luca Costabello, cinque anni di liceo insieme, mi scrive:

Il nemico maggiore di Mario Filippo era l’ipocrisia. Ma-rio era sincero. Sempre! La sua sincerità era sbalorditiva e spesso riusciva a farci stare a bocca aperta. In tutti i di-scorsi che facevamo tra compagni, aspettavamo imman-cabilmente la sua «frase finale» che corrispondeva in tut-to e per tutto al suo pensiero. Mario era un ragazzo vero. Una delle cose che più mi manca di lui sono proprio i di-scorsi che facevamo (magari a mezza voce, beatamente, durante le lezioni!).

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Di che si parlava? Sovente di ragazze (vicine tutti i gior-ni); si scherzava sul taglio di capelli di un professore o ci si raccontava di dove e come eravamo stati il sabato sera. Ma si parlava pure del mondo, del suo destino, dei poveri che impoveriscono sempre di più e del «che cosa si potrà fare per cambiare qualcosa».Ho ancora forte nella mente il suo tono di voce seria o sar-castica con le sue risate. Sapeva scherzare con la quotidia-nità e la rendeva speciale, divertente.Una volta nel bel mezzo di una lezione di chimica si al-zò in piedi e si tolse la maglietta rimanendo in canottie-ra davanti alla professoressa sbalordita che gli chiese co-sa stesse facendo e Mario Filippo rispose seraficamente: «Ho caldo!».

Tutte queste schiette e simpatiche disinibizioni lo ren-devano davvero originale. Però la scuola che frequentava non l’aveva scelta lui. «Un po’ sono stato costretto dal pre-side che aveva avviato il liceo sperimentale di informatica», mi disse un giorno. Avrebbe preferito il liceo scientifico di sperimentazione linguistica.

Se la cavava bene in tutte le materie. Va detto che nelle elementari, nelle medie e anche al liceo era sempre tra i pri-mi della classe. La sua maestra Maria Teresa Lamberti Si-bona lo ricorda così:

Fin da bambino, dalla scuola, Mario Filippo si aspettava molto ma era pronto a dare tutto. Lo rivedo spesso con la sua mano soventissimo alzata per domandare, riferi-re esperienze, aggiungere un caiù nella sua valigia mne-monica che gli sarebbe poi servita per nuove conoscen-ze. Risento la sua voce chiara e sincera, entusiasta e sem-pre garbata.Lo vedo pure seduto vicino a chiunque avesse bisogno di una mano; teso e ostinato nei momenti difficili, esultan-

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te nei giochi e fiducioso nelle proprie risorse. L’ho visto crescere disponibile e aperto, determinato e critico, aiuta-to da una famiglia sempre presente e collaborativa. Pren-do spesso tra le mani un suo vecchio quaderno e rileggo la lettera che ha voluto scrivere per salutare e ringraziare tutti quelli che lo avevano accompagnato e sostenuto: so-no splendide righe intrise di speranza ed impazienza...

Progetti per il futuro... Se tralasciamo il tema della ter-za media («Se divento grande farei volentieri il missiona-rio»...) emerge che progetti ne aveva pochi. Portava con sé quel «se divento adulto» e la voglia forte di aiutare il pros-simo. La mamma mi ha confermato che avvertiva quel-la strana sensazione che non sarebbe diventato «grande». Tuttavia nel suo animo affiorava continuamente il forte de-siderio di fare qualcosa in aiuto all’umanità; nel suo futuro non immaginava impegni di lavoro redditizi, quanto piut-tosto quelli gratificanti, interessanti e altruistici... Sarà il suo testamento a dare consistenza a questa ipotesi.

Aveva amici cari, tuttavia le amicizie non erano nume-rose oltre quelle dei suoi compagni di classe, di sport, dei cugini; quelle femminili erano appena in sboccio. Una se-ra ero accanto al suo lettino quando mi disse: «Vedi don, di donne non ho avuto il tempo di capirci granché» e poi mi parlò di un piacevole scambio epistolare con Joanna, una bella e affettuosa ragazza polacca conosciuta a Londra du-rante la prima vacanza studio che lo riempiva di nostalgia adolescente.

La religiosità era sobria ma vera; non sopportava le de-vozioncine, che classificava «sovrastrutture per niente sim-patiche». La sua corrispondeva ad una visione cristiana vi-rile, ontologica, una fede pura tanto che la messa festiva non la disertava.

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Eloquente un episodio degli ultimi giorni. Il parroco della sua parrocchia pinerolese lo andava a trovare soven-te in villa nelle ultime settimane di malattia. Un giorno il buon sacerdote gli disse: «Ascoltami, Mario Filippo, don Paolo abita a Torino, io invece sono qui accanto. Se vuoi ti porto la santa comunione anche tutti i giorni, cosa che don Paolo non potrebbe mai fare...». «Ma padre», rispose Filip-po, «la comunione è una cosa seria; come ce la farei a pre-pararmi per ricevere Gesù nell’Eucarestia tutti i giorni...?». Don Rafael rimase profondamente impressionato da quel-la risposta: viviamo infatti in un tempo in cui la comunio-ne eucaristica per molta gioventù praticante è facilmente scambiata per una «sacra panetteria», senza la preoccupa-zione di «mangiare degnamente il corpo e bere il sangue del Signore» come ammonisce san Paolo scrivendo ai Co-rinzi (1 Cor 11,27).

Luisella, Claudio e Marie, la quercia

Quali magiche storie sa raccontare la scienza quando si inoltra a scandagliare con umiltà il segreto fondo del corpo umano! Secondo uno studio americano i figli portano nel proprio sangue un piccolo numero di cellule materne rice-vute durante la vita fetale2. Parallelamente, le donne che hanno partorito conservano per sempre nel sangue le trac-ce dei loro figli: sessantuno cellule fetali dei loro figlioli, per ogni milione di cellule; una specie di timbro indelebile del-la loro maternità. Questo fenomeno gli studiosi americani,

2 Cfr. M. CORRADI, Tra madri e figli, in «Avvenire», 112 (2003).

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e prima ancora gli immunologi, l’han chiamato «microchi-merismo», rifacendosi alle leggende elleniche che narrano di creature dal sangue mischiato che le rende metà dèi e metà uomini, come i cavalli alati, le sirene ecc.

È commovente la notizia che nelle madri possa resta-re per sempre qualcosa dei figli e viceversa...; questo mi fa pensare, perché no, alla simbiosi della comunione eucari-stica, dove il cristiano che ha fatto la comunione può dire a buona ragione «non sono più io che vivo, è il Signore che vive in me» (san Paolo) perché il Cristo viene realmente ospitato e assimilato dalla persona umana. Nei nove mesi di cantiere alacre in cui nel grembo si «fabbrica» un uomo, non solo le madri costruiscono una nuova creatura ma si realizza un silenzioso e mirabile scambio: il figlio resta per sempre nella madre e la madre permane nel figlio.

Di certo per Luisella, la piccola grande madre di Mario Filippo, non c’era bisogno di trovare quelle sessantuno cel-lule di sangue fetale sul milione per dimostrare la simbio-si. Mentre il figlio se ne andava, limpido e sereno, la dolce mamma lo supplicava: «Filippo, quando sarai dal Signore gli dirai di non farmi attendere molto per rivederti».

Ma anche lei per rivederlo dovrà attendere... ed oggi ac-contentarsi dei ricordi, della preghiera e dei segni che la maternità di Filippo le ha lasciato nel suo profondo. D’al-tra parte Luisella, per quanto sia medico, non ha bisogno di pensare alle sessantuno cellule perché la memoria scrit-ta nella sua carne si evidenzia nei tratti della fisionomia.

Lo stesso volto, intelligente, mite e sereno, capace di con-tenere i sentimenti, anche i più dolorosi: vedere Filippo e vedere Luisella diventa impressionante per la somiglian-za. Il figliolo che le moriva tra le braccia aveva il coraggio di rassicurarla togliendole l’impazienza per il tempo del-l’attesa:

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Lasciami con il Signore, con papà, con i nonni, con i san-ti del Cielo e non ti affannare. Io so che il Signore mi per-metterà di starti accanto..., dentro di te... mentre io con-tinuerò a sentirti..., ma lasciami così fin che sarà giusto, e non mi cercare continuamente perché tanto io ti resto, mentre tu avrai molto da fare con i tuoi malati, con la non-na e poi dovrai aiutare i più poveri... mamma, ricordati!

Filippo sembrava conscio della memoria scritta nella carne mentre la stimolava alla paziente attesa, che tocca al-le mamme orfane del figlio. In fondo Filippo confidava, sì, nella grazia di Dio ma, forse, intuiva anche quella miste-riosa presenza viscerale che la scienza ci assicura rimanga lungo tutto il vivere biologico materno e la fede addirittura ci dice che si completerà nella comunione dei santi!

Sì, Luisella è il volto di quel figlio che si porta dentro, nella fatica e nella rassegnazione di ogni giorno. Tutte que-ste cose, tutte queste sofferenze, unite alle sessantuno cel-lule sono incise nel volto mesto e nella luce bella degli oc-chi di questa madre... Ora lei vive le sue giornate laborio-samente, curando fanciulli e anche affiancando i ragazzi di una comunità terapeutica di ex tossicodipendenti3, in at-tesa di quella deflagrazione dell’amore che Dio ha prepa-rato per tutte le mamme del mondo che hanno perso il fi-glio. Scoccherà certamente la scintilla dell’agognato incon-tro del paradiso!

Per intanto le mamme che hanno perso il figlio goda-no di quelle sessantuno cellule: è pur sempre un’oncia di maternità che rimane inalterata per i giorni della vita ter-rena. Madri, orfane dei vostri figli, un po’ di consolazione

3 Comunità terapeutica Nikodemo, Cascina Pallavicino, Nichelino (Torino).

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umana la potete trovare nel sapere d’aver ancora, nel vo-stro stesso sangue, una parte minuscola, ma pulsante e vi-va del perduto bambino...!

Guardiamo ora da vicino questa piccola e grande mam-ma di Filippo e scopriremo una vita semplice e forte, so-prattutto nel dolore dell’accompagnamento del figlio.

Nata nel gennaio 1956, Luisella ha sentito fin dalla scuo-la media la vocazione per la medicina intesa come missio-ne a beneficio della gente. Anche in questo gioco dei de-sideri e dei sentimenti, madre e figlio si compenetrarono. Un anno prima di concludere gli studi universitari in Far-macia, le muore tra le braccia la sorella Elena di 23 anni. Consegue la laurea nell’ottobre 1981 e festeggerà l’evento in contemporanea al fidanzamento ufficiale con Claudio Ba-gliani, che aveva conosciuto cinque anni avanti.

Anche Claudio è dottore, laureatosi in Farmacia due an-ni prima di lei. Nell’estate dell’anno seguente si associano esame di stato e matrimonio. Nasce così una splendida, in-vidiabile coppia di giovani sposi. Coppia innamoratissima, mi dice l’amico professore Marco De Bernard di Pinerolo, mentre mi narra:

Claudio era estroverso; di famiglia austera con i genitori gestori della farmacia di Perosa Argentina. Un po’ sessan-tottino con ideali sociali alla grande coronati dalla fluente chioma in uso in quel tempo e un’attività vulcanica conso-na con la fervida valle del fiume Chisone, da sempre bru-licante di fermenti popolari.Luisella, posata e dolce, riflessiva e autorevole se lo pla-sma palmo a palmo fino a fargli cadere la chioma, mode-rargli i sogni e trasformarlo in un giovanotto posato, leti-zia dei genitori di ambedue le famiglie...

La nascita di Mario Filippo avviene il 20 aprile 1983, a poco meno di un anno dalle nozze. La gioia perfetta di quel

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raggio di sole entra nel loro matrimonio idillico e riverbera fuori ogni misura sulle famiglie Bagliani e Quaglio. I non-ni impazziscono e il fanciullino, figlio di due dottori con-tinuamente assorti dalla loro missione, sarà abitualmente conteso, carpito, goduto ora dall’uno ora dall’altro.

Il 21 giugno di quell’anno il battesimo nella parrocchia di Perosa, ma l’8 maggio piomba su quella casa la più gran-de e tragica e inimmaginabile notizia: Claudio è affetto da melanoma (la malattia che schianterà pure Mario Filippo!); la sua vita terrena gli sarà annientata in soli due mesi a ventinove anni d’età.

Luisella, ventisettenne, si ritrova sola con Mario Filippo; affranta, sbalordita, incredula con tra le braccia un bebè di sessanta giorni: una povera madre sola, con davanti la vi-ta sua e del figlioletto. Sullo sfondo i nonni paterni che du-reranno poco, il nonno materno Silvio Quaglio che se lo godrà fino ai dodici anni e nonna Marie, la superstite, che si rivelerà fatta apposta per restare a fianco della figlia e del nipotino, orfano di padre. Marie da quel momento sa-rà l’approdo sicuro nelle fatiche quotidiane della madre e del fanciullo.

A Luisella oggi il microchimerismo non basterà di cer-to per consolarsi con carezze immaginarie a quel figlio vir-tuale che porta ancora in grembo... e che le sue braccia han-no potuto stringere per troppo poco tempo. La fede dovrà per forza di cose diventare un punto forte per aiutarla a so-pravvivere alla morte del marito e non disperare per quel-la del figlio. In questo mondo, immagini dello «Stabat Ma-ter» più cocenti di Luisella, non ne ho viste molte.

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La salita del monte

Che strana coincidenza. A metà ottobre del 2001, in un’ome-lia radiofonica in occasione di una santa messa, mi conge-davo momentaneamente dagli ascoltatori per un ricove-ro in ospedale dovuto a un banale intervento chirurgico. Quel congedo piuttosto umoristico lo capta la signora Van-na Dentis, quella che poi farà da tramite e mi condurrà a Mario Filippo dopo avergli parlato di me...

A fine ottobre dello stesso anno, quindi in contempora-nea, Mario Filippo Bagliani si trovò con un gonfiore ascel-lare che esigeva una serie di esami, preludio della tragica malattia. Subito sembrò un’infezione dovuta ad una ma-lattia detta «da graffio di gatto»; via con la cura antibioti-ca, sennonché verso dicembre i linfonodi ascellari invece di decongestionarsi si accrebbero a dismisura. Anzi, nel-l’ascella sinistra, in seguito ad un piccolo trauma, si pro-dusse un ematoma che gli scese lungo tutto il busto corpo-reo per riassorbirsi dopo alcuni giorni. Il braccio sinistro era sempre più pesante e dolente. Intanto, dalla Cina era in arrivo lo zio Carlo, che, consultato, se lo portò al suo ospe-dale di Torino per procedere speditamente ai controlli del caso: ecografie, TAC ecc.

Sarà operato d’urgenza il 24 dicembre, Natale! Una deci-na di giorni dopo, la drammatica risposta dell’esame isto-logico: è affetto da melanoma! Come Claudio, il suo papà. Lì per lì a Mario Filippo non viene detto nulla e neppure alla nonna.

Dimesso l’ultimo dell’anno, a casa è preso da una febbre da cavallo che si risolverà come un incidente di percorso: il 14 gennaio ripartono gli accertamenti (scintigrafia, TAC, total body, ecografia epatica) presso l’Ospedale Mauriziano di Torino e il Centro Tumori di Candiolo.

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Luisella, la mamma, da parecchi giorni sa tutto e si tro-va come Maria, la Madre del Signore, che si cresce il figlio in silenzio, sapendo che quel figlio non sarà mai suo e mo-rirà ucciso dal male... Anche Mario Filippo sospetta l’ine-luttabile, per cui esige che mamma e zio gli spieghino chia-ramente ogni cosa. Così avverrà!

Quel 14 gennaio, conscio di tutto, rientra dal Centro Tu-mori di Candiolo molto triste. Sale in camera e si butta sul letto affranto, vi resta per due ore, poi ridiscende con gli occhi vitrei per consegnare all’attonita nonna i cinquecen-to euro che gli aveva donato per il Natale affinché «si com-prasse il dono preferito».

«Nonna, non mi servono più questi euro... Riprendili, dalli ai poveri, ho il cancro».

Poi si perde tra le piante brinate del parco della villa e piange convulsamente, così forte che lo sentono dalle case vicine: «Piangeva come un animale ferito!», ricorda affran-ta una signora del vicinato.

Quella sera di metà gennaio segnò l’inizio del distacco del ragazzo dalle cose che gli appartenevano. Dopo quel doloroso itinerario inizierà il suo lento sbocciare fuori dal-le dimensioni corporee anche se, con la nonna sempre in casa, vivrà ancora qualche giorno sereno così da godersi una bella nevicata che aveva gonfiato fiabescamente il par-co. Con l’occasione installerà le gomme da neve alla mac-china della mamma e riordinerà i regali ricevuti. Leggerà molto e riguarderà fotografie e filmati dei molti luoghi vi-sitati; anzi, frequenterà per due o tre giorni (gli ultimi!) la sua classe del liceo, per concludere il quadrimestre con una votazione medio alta.

A metà gennaio il calvario riprenderà al Centro Tumori di Milano e le speranze di salvarsi dal morbo finiranno de-

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finitivamente a metà marzo, quando la seconda chemiote-rapia si dimostrerà vana.

La rassegnazione non gli viene subito: all’inizio l’ado-lescente ha pensieri disperati, anche se a tratti si aggrap-pa alle devozioni miracolistiche della nonna e del suo caro compagno di scuola Carlo. Poi ripiomberà in stati comatosi di disillusione, mentre lo zio e la mamma lo affiancano im-potenti. Zio Carlo, per la sua formazione spirituale orien-tale, a tratti, timidamente, estrae dal suo corredo argomen-ti di filosofica rassegnazione alternati a lampi di speranza per l’ultima terapia in collaudo in America, ma il ragazzo a questo balletto lancinante non ci sta più.

Un dì che andai a trovarlo in casa, e c’era anche lo zio, in-travidi tra le riviste di geografia e di Amnesty Internatio-nal un risvolto di pagine che mi pare spiegasse «i momen-ti di bardo» tratto dal Libro tibetano dei morti dov’è descrit-ta la Dharmatà, cioè l’esperienza della luminosità del dive-nire eterno... Capii, e Filippo me lo confermò poi, che lo zio aveva cercato di aiutarlo come poteva, con un po’ di prege-vole filosofia d’oriente. Capii che nei brevi istanti dei nostri rendez-vous si faceva molto urgente completare il discorso cristiano.

Un vestito troppo stretto

Tornando da Pisa, dove mi ero recato per l’ordinazione sa-cerdotale di Francesco Fabrizio, un caro giovane conosciu-to predicando gli esercizi spirituali ai seminaristi, mi recai direttamente a Lanzo, senza nemmeno rientrare in parroc-chia: l’avevo promesso a Filippo. Era domenica pomerig-gio, 21 aprile, il giorno dopo il suo diciannovesimo com-pleanno.

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«Ciao don! Ti aspettavo...». «Ciao Filippo, lo sai che arrivo direttamente da Pisa. Co-

m’è andata?», gli chiedo abbracciandolo. «Bene don... ma in questi giorni mi sono convinto di una

cosa... questo corpo mi è divenuto insopportabile. È trop-po, troppo stretto e mi sta soffocando... mi sento compres-so dentro, come in una morsa che mi stritola... come in un vestito che non è il tuo... Ho fretta di liberarmene, aiutami... Sai, dopo l’esito della TAC l’ho detto alla mamma, la qua-le mi ha sgridato perché non siamo noi che ci togliamo la vita... Ma non è questo che volevo dirle... Volevo solo espri-mere il desiderio che quel che deve avvenire avvenga il più in fretta possibile...».

«Certo, Filippo, tocca a Lui, al Signore, toglierci l’abito... Tu renditi disponibile a lasciarlo e Lui farà il resto e al mo-mento più giusto... Ma per ora, con questo tuo corpo conti-nui a realizzare la gioia di qualcuno: mamma, nonna, i tuoi amici e anche la mia, comprendi. Offrendo questa tua sof-ferenza puoi anche aiutare e salvare altra gente, alcuni tuoi compagni lontani dalla fede, come tu stesso mi hai descrit-to... Gesù ha fatto così con la sofferenza della croce e gradi-sce la nostra collaborazione perché... il dolore offerto riscat-ta chi è nel peccato...».

«Ma sapessi come è duro con questo diavolo che mi la-cera un brandello alla volta. Io ne sento i denti che si affon-dano nella carne, nel petto, nel braccio. Mangio, anche tan-to, ma non nutro me..., sento soltanto i denti del diavolo che mi divorano e questo mi fa ribrezzo... come quando mi me-dicano, mi giro contorto a destra perché non voglio vede-re... Se vedessi, don...».

Vedrò a metà giugno, un mattino a Riva di Pinerolo, quando Roberta, una delle dolcissime infermiere che co-

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noscevo già prima di incontrare Filippo, lo stava medican-do aiutata da mamma Luisella. Quel giorno arrivai in villa alle 11:45... nel giardino c’era ancora la macchina dell’ASL. La mamma venne ad aprirmi e mi disse: «Ha il coraggio di vedere? Lo stiamo medicando...».

Mi avvicinai con il desiderio di condividere la sua soffe-renza, ma la visione era davvero straziante. Filippo mi sa-lutò con gli occhini febbricitanti e un pallido sorriso. Era ri-verso sulla destra, la testa accasciata e penzoloni dal letto con il braccio destro, per non vedere lo scempio: una protu-beranza di carne tra la mammella e l’ascella sinistra, gran-de come un cavolo di media grandezza e, come il cavolo, la carne tumefatta era sfogliata da lasciare intuire l’enorme dolore che vi produceva. Una visione da strazio che si con-fondeva col profilo forte e dolorante della mamma e della cara infermiera, intente entrambe a ripulire l’orrida tume-fazione.

Dopo la medicazione rimasi solo con lui, non più accan-to al letto ma presso il divano del salotto. Qui mi parve di vedere il patriarca Giobbe; Filippo gli era simile in tutto.

«Don, Dio c’è e... io sento che non appartengo più a que-sto corpo dove il diavolo divora... Presto sarò con Lui, lo vedrò; sì, non ne vedo il momento... Prega che accada pre-sto!».

«Sì, Filippo, prego intensamente come tu vuoi... Tu non sai, ma sei simile ad un grande maestro del dolore, di no-me Giobbe... Era malato come te, aveva piaghe e ulcerazioni che lo mangiavano vivo come le tue, mentre tre personaggi lo tormentavano per fargli credere che Dio l’aveva abban-donato. Si ribellò e rispose: “Come vorrei che queste mie parole si fissassero sulla roccia: io so che il mio Redentore è vivo e che ultimo si ergerà sulla polvere, dopo che que-

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sta mia pelle sarà distrutta. Senza la mia carne vedrò Dio; i miei occhi non più di carne lo contempleranno”4. Filippo mio, stai dicendo le stesse parole di quel patriarca della sof-ferenza: il cuore ti sta dettando gli stessi sentimenti...».

Il ragazzo: «Sì, don... Se assomiglio a Giobbe sono con-tento...».

Contento. Questo è un santo, pensai!

La fonte più alta

Il sabato 27 aprile è stato speciale.Il giorno prima, appena usciti i quattro compagni del-

l’ultimo anno dello scientifico, avevamo parlato della scar-sa conoscenza della filosofia da parte degli studenti, visto che anche al liceo classico ci si accontenta di una rapida carrellata di «storia della filosofia» che però elude le do-mande di senso che la vita impone. Gli avevo citato un con-cetto di un filosofo francese del nostro tempo che se n’è an-dato da tre decenni, Jacques Maritain5:

Nella Chiesa del Cielo c’è l’immensa moltitudine di coloro che vedono Dio e non hanno dimenticato la terra, ma pre-gano incessantemente per i loro fratelli in cammino quag-giù... E li aiutano con le loro ispirazioni6.

L’idea di una relazione tra noi vivi e quelli dell’altro mon-do l’aveva incuriosito moltissimo, tanto che la frase gliela

4 Gb 19,23-27.5 Jacques Maritain (1882-1973), filosofo e teologo.6 J. MARITAIN, La Chiesa del XX secolo, Morcelliana, Brescia 1971, pp.

61-67 e ID., Le cose del Cielo, Massimo, Milano 1996, p. 7.

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lessi per disteso il giorno dopo, che avevamo programma-to per la confessione sacramentale, alla quale si preparava da giorni, ma che sarebbe stata rimandata ancora una volta per approfondirne sempre di più le motivazioni.

«Parlami, spiegami chiaramente. Sono vissuto da gira-mondo e studiando... ma non ho mai avuto occasione di sentire queste notizie così importanti che mi devono por-tare la risposta alla domanda che mi tormenta: dove sto andando. Mi è proprio necessaria una risposta: devo capi-re, don... che mi sta capitando... perché sono malato, perché devo morire... e poi. C’è lo zio Carlo che s’intende di filoso-fie orientali, ma Gesù, lo comprendo, è un’altra cosa!».

Nacque in quella maniera il discorso straordinario e ir-ripetibile che si compì in una manciata di minuti provvi-denziali, fino all’arrivo della mamma con l’infermiera.

«Vedi, Filippo», iniziò pressappoco così il nostro discor-rere nella cameretta dell’Ospedale di Lanzo, «la vita pre-sente rischia di perdere il suo senso se lo sguardo non si volge alla futura..., quella che è oltre questa vita. Ciò che ti dico vale non solo per te che sei malato, ma per tutti; per me prete, per i tuoi compagni che ieri ti circondavano per consolarti con parole convenzionali e impacciate che tu stesso completavi loro mentre si inceppavano in bocca...».

«Sì, anche Luca, anche Carlo credono di aiutarmi stando muti e trattenendo il pianto... Ma tu aiutami a scoprire per-ché mi trovo così, don. E poi... sai, quando i miei compagni ritorneranno vorrò essere io a spiegare questi “perché”...; anche loro ne hanno molto bisogno...! Con la mia malat-tia pensano che la vita mi si stia finendo per sempre e non sanno più cosa dirmi. Siamo sempre vissuti alla giornata... li devo aiutare!».

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«Allora, ragazzo, facciamo subito un piccolo esempio “laico”, senza Bibbia tra le mani, ma solo sul piano del ra-gionamento come forse ti fa lo zio Carlo... ma noi andremo più lontano... Io credo di riuscire a farti comprendere che la vita è eterna in se stessa... Questa scoperta ti sarà molto im-portante. Poi, se vorrai, ci si potrà affidare ad un sapere le cui sorgenti sono più alte...».

«Le sorgenti delle nostre montagne... voglio scoprirla questa sorgente alta: sai, ho avuto un insegnante che asse-riva che tutto è materia e basta... Questo mi turbò moltis-simo».

«Secondo me quell’insegnante, se era così perentorio, abusava dei suoi allievi...; vedi, ci sono uomini che finisco-no per essere contro la ragione tutte le volte che la ragione dà loro torto... Beh, Filippo, non andiamo subito alle fon-ti alte ma partiamo da un’osservazione elementare: l’elet-tricità...! Sì, l’elettricità». Il ragazzo mi guarda con gli occhi sgranati. «Dell’elettricità... sappiamo quante bellissime e utilissime cose si possono fare. Ma di essa, come di ogni al-tra energia, noi possiamo “vedere” solo cosa faccia, ma non cosa sia...! È essa una “cosa”? O invece è “di qualche cosa”? È essa un campo di forza presente solo dove c’è materia? Oppure è o viaggia anche in quegli spazi attraverso i qua-li ci giungono le onde radio? Che materia c’è in quegli spa-zi siderali? Ecco, qui siamo tutti ingarbugliatissimi... e pie-ni di stupore come quando riflettiamo sulla realtà dell’in-finito... Anche gli scienziati si fermano pensierosi di fronte ad una realtà così evanescente! Siamo costretti ad ammet-tere che le deduzioni dei filosofi greci e poi della Scolastica hanno ragione nel ritenere che nel mondo ci sono due tipi di “materia”: una che costituisce i corpi in evoluzione e l’al-tra, a monte (che potremmo chiamare soprannaturale), che

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li sottende e sostiene... Questa seconda deve essere causa di tutto e quindi a-temporale perciò “incorruttibile”... Nel senso che, proprio perché sostiene o causa il ciclo della vita e della morte, dev’esserne immune, cioè fuori dalla caduci-tà del tempo e delle cose...».

«Deve arrivare da fuori della realtà che conosciamo?...», mi domanda il ragazzo.

«Sì, certo! E si vede già così che dev’esserci un altro mon-do... Filippo... Considera come il pensiero umano è inchio-dato da una ipotesi necessaria di... eternità: eternità del-l’energia..., dello spazio infinito..., eternità della vita che è motore di tutte le energie... Platone ed Aristotele hanno de-dotto molto di più... arrivando alla “scoperta” dell’anima umana fatta di questa “cosa” immortale... Meriterebbe dav-vero studiarla questa grande filosofia greca! Ma noi cristia-ni abbiamo imparato anche di più rispetto a loro... e l’abbia-mo imparato facendo dialogare la scienza e la sapienza... cioè le cognizioni razionali con le notizie della rivelazione biblica, che è appunto la sorgente più alta...».

«Spiegati meglio, don...».«Non vorrei stancarti, tuttavia se te la senti, continuia-

mo». Filippo annuiva, voleva continuare. «Vedi, la scienza da sola si è rivelata incapace di fronte alla comprensione dell’uomo. Filippo mio, le scienze hanno conseguito grandi risultati che però sono frammentari, problematici, sovente contraddittori. Le scienze, per la loro stessa natura, trascu-rano facilmente l’uomo come soggetto per studiarne i feno-meni biologici. Ma la natura profonda dell’uomo è sempre meno conosciuta dalla scienza...; non basta conoscere la di-namica dei genomi... per scoprire la persona umana. Nel rispetto della scienza va proposto il dialogo con la sapien-za della fede, se vogliamo trovare risposte definitive. Biso-

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gna aiutare l’uomo, anche se scienziato, a capire che ha bi-sogno di Qualcuno che gli dica di chi è figlio... È da que-sta notizia che l’uomo inizia ad intravedere da dove viene e quale sarà il suo destino».

«Sì, don, capisco...».«Se facciamo dialogare scienza e sapienza, si scopre che

l’uomo è stato pensato fin dall’eternità ed è destinato a ri-tornare alla sua sorgente... Anche di fronte alla malattia e alla morte corporale non verrà meno la gioia in chi sa do-ve va...».

«Sento che è così! Ecco da dove deve venirmi la speran-za...», mi risponde con gli occhi luminosi nella bella fac-cia sofferente, incorniciata dal grande cuscino con la fran-gia crociata del timbro dell’Ordine Mauriziano. «Continua, don!».

«Sei stanco morto, Filippo!».«Sì... ma ancora un po’... Voglio comprenderle bene que-

ste cose perché mi aiutano a vincere la paura...».«Vedi, la Bibbia e in particolare il Nuovo Testamento so-

no soprattutto annuncio di una realtà futura che supera ogni immaginazione: il Regno di Dio...», continuo. Il ragaz-zo fa una smorfia... «Lo so, lo so ciò che pensi... “Chi me lo prova?”, ti domandi. Ricordati che il massimo annunciato-re è quel Gesù storicamente previsto secoli prima dai pro-feti e che storicamente verrà e morirà crocefisso e supere-rà la morte e riapparirà a tutti nuovamente vivo, provandoci così di possedere la vita in se stesso. Questa è storia; Gesù è sta-to visto vivo dopo la morte corporale. È un enorme mira-colo; i miracoli avvengono anche oggi nel suo nome e i mi-racoli sono la sospensione razionalmente inspiegabile del-le leggi naturali...».

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«Don, non parlarmi di miracoli, questo mi mette ango-scia: ieri sera ho spento la tv d’accordo con la mamma... si parlava di miracoli...», mi riprende7.

«Hai fatto bene a spegnerla, la tv, perché i miracoli di cui parla il Vangelo non sono le suggestioni di Rete 4», gli ri-spondo. «I miracoli del Vangelo, o prove della potenza di Dio, non hanno nulla a che spartire con le fantasie televisi-ve... Torniamo a noi, Filippo; ascolta ancora un brano... dal-la Prima lettera di Paolo ai Colossesi: “Quelle cose che oc-chio non vide né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, Iddio le ha preparate per coloro che lo amano”8».

«Io lo amo il Signore: don, confessami subito!».«Lascia, ti sei preparato così bene, ma c’è tempo anco-

ra. È meglio che concludiamo la lettura: “Dopo il disfaci-mento del nostro corpo, Iddio lo vedremo così com’egli è, faccia a faccia, là dove non c’è più la stasi del tempo e del-la noia...”».

«Oh, don, non vedo il momento che questo succeda. Spie-galo alla mamma, ne ha tanto bisogno, dille che io non vo-glio morire, voglio vivere... Ma non più così in questo mio corpo disfatto; hai visto la bestia che mi divora la spalla..., quando mi medicano... io non guardo per evitare di sveni-re. È una vista terribile. Povera mamma mia che mi deve pulire... guardare... medicare... lavare».

Le due lacrime che irrigano le gote gliele astergo con l’indice destro. Sono le prime e saranno le ultime che gli vedrò! Nella stanza entra l’infermiera per un servizio e il discorso si chiude con la gioia nel cuore di tutti e due. Ci

7 Si trattava della serie tv Miracoli, in onda su Rete 4 nella prima-vera del 2002.

8 1 Col 2,9.

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lasciamo così, rimandando a lunedì la confessione. Filip-po è certamente spossato ma contento, mentre l’infermiera mi dirà cortesemente ma perentoriamente di stare attento a non stancarlo più in quel modo...

Mi infilo nell’auto ferma nel piazzale dell’Ospedale di Lanzo per fissare su un foglio i particolari del fatidico col-loquio. Ho in cuore la sensazione chiara che quella mez-z’oretta, con l’aiuto della grazia, gli è stata importante. Mi accompagna come autista Marco Del Gesso, un animato-re della parrocchia; viaggiando verso casa recitiamo il ro-sario.

Divagando oltre le stelle

La sera della domenica 16 giugno 2002 era luminosa, cal-da e ventilata. Tersa come a volte accade nell’arco delle Al-pi Cozie occidentali, dove il vento alpino spazza l’atmosfe-ra e la rende fiabescamente cristallina da far brillare le stel-le come perle e zaffiri. Mamma Luisella sorregge il braccio malato del suo ragazzo e lo aiuta ad adagiarsi in giardino sul materasso della sdraio, collocato tra il pino argentato e gli abetini racchiusi dall’ala antica della villa e il salone delle feste.

Nel brusio d’aria fresca e sana, Filippo sembra rifiori-re per un momento. La nonna si è rannicchiata più lonta-no sul seggiolone di resina, mentre mamma Luisella gli è al fianco e a tratti gli sfiora con la mano la fronte umida di sudore. Si snoda un parlare che assomiglia al mormorio del ruscello accanto: discorrono a monosillabi loro due, mam-ma e Filippo; Marie sente a distanza e annuisce, piange cercando di non farsi udire per evitare l’ennesima sgridata dall’uno o dall’altra...

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Poco prima ne aveva già ricevuta una ben sonora quan-do, accennando a padre Pio da Pietrelcina, canonizzato in quel giorno a Roma da papa Giovanni Paolo II, la Marie aveva sollevato la sua solita giaculatoria: «Padre Pio, per-ché non mi senti. Prendi me e guarisci Mario Filippo!». «Nonna, piantala, piantala, piantala!».

L’adolescente si sta aprendo con la mamma in un mo-nologo pressappoco così: «Sai mamminetta che le stelle di questa domenica sera mi ispirano tantissimo... e mi lascia-no una misteriosa gioia nel cuore... Pensa mamma, tra un po’ le conoscerò tutte, senza studiare più e le vedrò da vi-cino, nella loro precisa fattezza. Potrò spaziare più del pen-siero perché sarò accanto al Pensiero che le ha fatte. Sarò con papà, i nonni Filippo e Silvio, nonna Miranda, e la ziet-ta Elena che non ho conosciuto e che aveva poco più della mia stessa età».

Senza sospettarlo, Mario Filippo descriveva la comunio-ne dei santi.

«Che bello ’sto cielo stasera, piccola mamminetta mia. Tra un po’ per me sarà più bello ancora... ma non ti lascerò sola... ti starò sempre accanto; ma tu e nonna mi lascerete poi un po’ in pace con i miei amici di lassù... Non mi chia-merete continuamente».

Mamma Luisella è rigida con il cuore e gli occhi pieni ri-volti al cielo; è ovvio che pianga... di nascosto, mentre non-na è lontana sul seggiolone a scaricare l’emozione che le gonfia il petto nel suo consueto e dirotto lamento.

A questo punto la mamma incomincia ad interloquire sulla stessa lunghezza d’onda: «Figlio mio, credo che sarà proprio così... e quando ti sarà dato di parlare con il Signo-re chiedi una grazia per la tua mamma... Pregalo che non la faccia attendere tanto sulla terra perché non può vivere senza di te!».

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«Mamma, che dici... Tu sei ancora giovane...!».«Vedi Filippo, quando tu sarai con il Signore, con papà,

con i nonni, con tutti quelli del cielo io quaggiù mi sentirò troppo, troppo sola. E come potrò vivere ancora? Sai... nel-la vita io ho avuto solo due uomini... tuo padre e te... e per così poco tempo... Papà per poco più di sei anni e tu per di-ciotto solamente..., perché il diciannovesimo l’hai appena compiuto...».

C’è da pensare che quella domenica sera anche le stelle del cielo si siano fermate ad ascoltarli e a piangere.

Gioia nel dolore

Il dono che l’avrebbe «armato» per il grande balzo verso il cielo glielo spiegai nei famosi colloqui e glielo prospet-tai per il venerdì 21 giugno, giorno della festa di san Luigi, anche lui adolescente dell’età di Filippo. Non immaginavo che quel giorno combaciasse con l’onomastico di Luisella, il compleanno di nonna Marie... e soprattutto l’anniversa-rio del suo battesimo; Mario Filippo, infatti, era stato bat-tezzato il 21 giugno del 1983!

Arrivai in villa con Sandro Reina, un ragazzo animato-re parrocchiale della sua stessa età. Sandro è un ragazzo di poche parole, pieno di passione per la gente, tanto che pen-sai che la conoscenza di Filippo e l’esperienza della santa messa celebrata presso l’adolescente malato l’avrebbe aiu-tato ad infervorarsi ancor più nel servizio. Eppoi, suonava bene la chitarra; quel giorno venne a Pinerolo proprio per suonare la chitarra a quella messa.

Erano le 10:30 quando arrivammo; la nonna aveva già predisposto tutto nella saletta dell’ala rustica, residenza

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abituale dei nonni. Mamma e figlio abitavano invece nel-l’altra manica della casa. La santa messa iniziò con tutti noi attorno al tavolinetto intarsiato, per l’occasione trasforma-to in altare: mamma Luisella, nonna Marie, Sandro, io pre-te e alla mia destra Mario Filippo che occupava tutto il di-vanetto ovattato da due cuscini di velluto chiaro. Con la santa messa avevo pensato di amministrargli l’unzione de-gli infermi, quel sacramento che l’apostolo Giacomo ci de-scrive come fatto apposta per aiutare l’anima e il corpo nel tempo difficile della malattia. Invitai Filippo stesso a leg-gere la pagina di Giacomo che parla della virtù dell’unzio-ne con il sacro olio.

Mario Filippo incominciò a leggere:

Carissimi, chi tra voi è nel dolore preghi; chi è nella gioia salmeggi. Chi è malato chiami a sé i presbiteri della Chie-sa e preghino su di lui, dopo averlo unto con l’olio, nel no-me del Signore. La preghiera fatta con fede salverà il ma-lato. Il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati gli sa-ranno perdonati. Confessate i vostri peccati gli uni agli al-tri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti (Gc 5,14-15).

A lettura finita il ragazzo mi guardò negli occhi come per dirmi: e ora che aspetti? Non mi imponi le mani? Non mi ungi con il sacro olio che guarisce e salva? Mi fu così naturale aprire il vasetto dell’Oleum Infirmorum e spalmar-glielo su quell’ampia fronte simile ad una piccola lavagna: «Per questa santa unzione e per la sua piissima misericor-dia il Signore ti aiuti con la grazia dello Spirito Santo e, li-berandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi...».

L’amministrazione del sacramento degli infermi si com-pletò con un sorriso contento di ciascuno: Filippo, mam-ma, nonna, eccezione fatta per Sandro, non avvezzo ad

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una esperienza così forte; tanto che l’ammalato, udendo un giorno la sua voce al telefono, gli ricorderà l’avvenimen-to: «Sei il ragazzo che venne alla mia messa per suonare la chitarra e poi fece scena muta». La messa si concluse con la santa comunione di tutti e con un Filippo rapito dalla grazia che lo faceva vibrare come quando il cuore è colmo di letizia. Un abbraccio, un bacio e con un enorme sorriso ci congedò, inseguendoci col telefonino strada facendo per dirci: «Grazie, mi sento più forte, sono proprio contento!». Anche Sandro... aveva gli occhi pieni.

Sono stati molti i momenti toccanti e perciò indimentica-bili in quelle ultime settimane di Mario Filippo. Alcuni re-steranno incogniti, mentre per altri la riservatezza impone di serbarli nel cuore, ma un episodio che ha la valenza pa-storale di incoraggiare soprattutto i miei confratelli sacer-doti alla dolcezza del ministero ve lo desidero raccontare, così come lo narrarono a me nonna Marie e mamma Lui-sella. Si tratta di una cosetta piccola ma preziosa come una perla, che illustra l’intenso rapporto che si sviluppa tra le anime gravide di Dio e la guida spirituale che le accompa-gna nel viaggio della malattia e perciò della grazia. Va det-to che in questo caso, proprio per un dono soprannaturale particolare, si formò e poi si accrebbe a dismisura una forte sintonia dell’anima tra Filippo e questo vecchio prete.

Di giorno in giorno, con inaudita progressione, il rap-porto si trasformava in una vera comunione; lui in parten-za per il paradiso ed io, prete carico d’anni e desideroso d’Assoluto, intento mio malgrado ad accompagnarlo per i sentieri dell’iride. Questa situazione mi schiantava l’anima, e mi faceva piangere nella solitudine della preghiera. «Mio Dio», ripetevo in me stesso, «fino a quando? Prendi me! Ri-cordati del figlio unico di Naim, di quella madre vedova

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che ti ha commosso ed hai graziato restituendole il figlio-lo...». Così, pregando e poi discorrendo con Filippo, quella piccola manciata di settimane che si aprì in aprile per con-cludersi a metà luglio, passò in un baleno...

La cosetta da dirvi, narratami dalla nonna e dalla mam-ma del ragazzo, si riduce a tre sole parole... Don Rafael, ze-lante curato della parrocchia rivese dei Bagliani-Quaglio, negli ultimi tre mesi, ed esattamente quando l’adolescente rientrava dagli ospedali, si recava volentieri alla villa per fargli visita. Don Rafael era di casa anche perché nel me-se di maggio degli anni precedenti veniva puntuale a be-nedire le famiglie della borgata recitando il rosario e cele-brando la santa messa nella cappella gentilizia, in occasio-ne della quale Filippo si dedicava con piacere a collaborare con la nonna nell’addobbo con tanti fiori del parco.

Un giorno don Rafael, parlando col ragazzo dell’ultima mia visita, pensò di commentarla così: «Ma quel don Paolo che ti segue con tanta premura deve volerti proprio bene!». Mario Filippo con un sorriso pieno di eloquenza lo corres-se...: «Ci vogliamo bene, don Rafael! Ci vogliamo bene».

Queste tre parole che esprimono affetto profondo sono né più e né meno che l’espressione di quella filialità spiri-tuale che troppo poco si considera quando si discorre e si scrive sulla presunta solitudine del prete. Il sacerdote ama la sua gente come un padre e la sua gente, nonostante le bizze che autenticano i rapporti veri, ama il proprio «pa-dre dell’anima» con un amore diverso dai trasporti umani spesso intrisi delle mutevoli passioni.

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Congedo da un mondo meraviglioso

Quel venerdì 12 luglio 2002 – san Giovanni Gualberti – mi trovavo ai campi della gioventù con i quindici-sedicenni, denominati «ex» perché l’anno precedente avevano già vis-suto l’esperienza di un campo scuola con me. Ero partito da Chateau Beaulard di Oulx alle sei in punto con un bel gruppo di loro per una traversata abbastanza impegnativa e destinata a concludersi a sera dopo aver valicato il Col-le del Deserto, di poco inferiore ai tremila metri di quota, che segna il confine italo francese per poi ridiscendere nel-la valle di Chalet des Acles fino a tuffarsi nella pineta fitta che s’innalza tra Plampinet e Nèvache, nella rinomata val Claret, nome del fiume omonimo.

Alle ore 11 mi trovavo giusto ai piedi del serpentone sas-soso che risale il Colle del Deserto con l’intento di accom-pagnare i ragazzi fino in cima e poi lasciarli discendere con i loro animatori lungo il versante francese, quando Fa-bio Giustiniani, dalla stazione radio della Maison des Cha-mois di Valle Stretta, mi chiama sul radiotelefono con un messaggio che mi risuonerà drammatico: «Don, ha appe-na telefonato la dottoressa Bagliani, la mamma di Mario Filippo... Mi dice che il ragazzo sta molto male e ti deve in-contrare, subito, perché vuole “addormentarsi”...». Mi sento schiantare dentro. Vuole addormentarsi!

Addormentarsi significa lasciarsi sedare dai medici sen-za più interrompere il sonno, fino alla fine...

Questo problema agitava la mia anima da molti giorni. Filippo era in fin di vita. La sua malattia, che aveva già ucci-so il papà in due mesi, quasi mai può toccare i sei: ma Filip-po li aveva già sforati e i dolori erano diventati di un’atroci-tà inaudita. I sedativi temporanei non bastavano più. Ogni

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volta che si risvegliava era colto da incubi; descriveva il suo sonno interrotto come il torpore di un pascià che sente nel dormiveglia i rumori lontani, senza più sofferenza, per poi approdare ad un repellente terribile risveglio di dolore.

Sedarsi non è togliersi la vita: la sedazione non è eutana-sia, ma un sollievo medico di fronte ad un male insoppor-tabile che, permanendo, può invece distruggere il ben del-l’intelletto o portare alla disperazione. Con Filippo, una se-dazione definitiva era stata valutata ma sempre procrasti-nata perché il ragazzo voleva essere ancora vigile a se stes-so e poi voleva «stare ancora un po’» con la sua mamma, come diceva lui, nonostante il dolore diventato indomabi-le.

Questa chiamata repentina mi provava che si era ai con-fini ultimi del sopportabile e mi metteva nella situazione di un drammatico arbitraggio. Ebbi un vero e proprio tuf-fo al cuore che, unito all’ansimare della salita, parve bloc-carmi il muscolo cardiaco. Mi sedetti su un sasso, chiusi gli occhi per qualche istante e poi risposi con la morte nell’ani-ma: «Comunicate alla mamma che parto subito alla volta di Pinerolo... Si dica a Filippo che mi occorrono tre ore per discendere dai monti fino a Chateau Beaulard e poi rag-giungerlo con l’auto». Subito dopo, salutati ragazzi e ani-matori con un’ultima raccomandazione alla prudenza, pas-sate le consegne del mio servizio a Marco Del Gesso, men-tre già correvo per i sentieri, col radiotelefono feci chiedere se desiderava che arrivassi con Gesù Eucaristia per la san-ta comunione.

La risposta non si fece attendere: «Filippo la desidera... molto, solo ti chiede di far presto!». Fare presto era un so-gno: giungerò alla villa di Riva di Pinerolo con la Cinque-cento delle mie Suore, guidata dall’animatore Massimo Mi-letto, solo poco prima delle ore 14.

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Filando veloce verso il piano sapevo che andavo ad «ad-dormentare» un ragazzo; addormentarlo fino al risveglio nell’eternità. Sentivo che mi accingevo a chiudere la sto-ria di un’anima per presentarla al Signore affinché venisse senza indugio a prendersela per sempre. Arrivo a destina-zione precisamente alle 13:50; il cancello di villa Motta Ra-sini è già aperto ed io percorro speditamente la ghiaia del viale che frulla sotto i pneumatici.

Luisella, pallida come uno straccio, si affaccia dalla sca-letta che porta al primo piano del lato rustico e mi accoglie con un abbraccio: «È tutto pronto, don... C’è lo zio, ci sono i medici, la flebo... e lui... rassegnato e desideroso di inter-rompere l’atroce sofferenza. Attende solo te... e continua a dirmi che non vuole più vedere il demonio...! Dice che ha visto il diavolo! La notte e stamattina sono state popolate da incubi e fitte lancinanti di dolore!». Una lacrima di Ma-ter dolorosa rotola lungo la gota. Povera madre, povera cara Luisella! Salgo, entro, attraverso la saletta dove si trovano infermieri, medici e nonna Marie che saluto con gli occhi, e mi infilo con la mamma nella stanza antica dove l’adole-scente giace tra le braccia dello zio medico; a lato c’è il ca-valletto con la flebo già appesa... Giunto al capezzale, zio Carlo si scosta e Filippo mi accoglie con uno sguardo pie-no di ansia; subito mi stringe stretto con il braccio destro, quello non martoriato dal melanoma: «Ti ho atteso tanto. Avevo paura che non ti avessero chiamato...».

Ma lo humour non gli manca nemmeno in quel frangen-te perché mi saluta con un titolo fantasmagorico di Nostra-damus: «Salve pastor et nauta!, pastore e viaggiatore, navi-gatore» in riferimento al mio antico brevetto da pilota d’ae-reo... Gli rispondo: «Salve adulescens... Sono sceso da sotto il cielo... Per far che? Per portarti in cielo».

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Annuisce dapprima e poi: «Sì, sì, pastor... lo voglio...». In-comincia così un tremendo e fatale colloquio a cavallo di questa vita terrena che non è più e l’eternità incipiente.

«Stanotte, don, mi è accaduto qualcosa di brutto: orren-do...! Ho avuto paura... Aiutami perché non voglio che si ri-peta un’esperienza così! Ho lottato contro la tentazione del diavolo che mi popolava di immagini oscene e orribili che mi dicevano: “Dì no, urla che non vuoi morire, così guari-rai! Grida forte no, che non vuoi andare dove il Signore ti chiama e ti salverai”... E poi, quanti brutti pensieri! Salvami don, fammi dormire con l’anima pura fino a che Gesù arri-verà e così io andrò finalmente da mio padre».

Che schianto! Povero figlio...! Non so come ha agito la grazia di Dio nel custodirmi sereno e intenso, con gli oc-chi asciutti dentro i suoi e forse con un confortevole sorri-so sulle labbra dalle quali probabilmente scaturivano le pa-role più adatte...

Tutto questo in un abbraccio che durerà tanti e tanti mi-nuti.

Il colloquio si diffonde con la descrizione di vere tenta-zioni bibliche: «Quella voce mi diceva: “Se mi respingi sta-rai per sempre senza braccia... Se mi dici sì, sarai salvo, ri-vedrai il tuo mare...”. È una figura orrenda quella che ho visto stanotte: brutta come il peccato, capisci., un pecca-to che non voglio fare... Devo addormentarmi, così non la vedrò più quella figura mortale. Assolvimi ancora, don... e poi aiutami a dormire... con mio padre!». La delicatezza dello Spirito Santo sicuramente ci stava plasmando; io che cerco di acquietarlo, consolarlo, sostenerlo e accompagnar-lo e lui che accoglie quelle parole come balsamo colato dal cielo. Recitiamo insieme qualche preghiera alla Madonna, che è conforto nelle afflizioni, affinché si contrapponga al-la brutta figura.

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«Filippo», gli dico, «Mario Filippo, guarda...» e gli pre-sento una teca d’oro. Il ragazzo sgrana gli occhi, mi sorride e poi dice «Gesù!», come lo dicono gli infanti.

«Sì, Gesù! È Gesù che viene a sostenerti in quest’ultima prova. Questa volta viene in modo speciale».

Mi interroga con gli occhi, finalmente calmo, disteso, con il fiato quasi tranquillo.

«Questo Gesù si chiama... “viatico”! Cioè viene per ac-compagnarti per l’ultimo tratto del tuo viaggio... Un buon viaggio...».

«Lo voglio... Gesù... vieni!».La teca si apre quasi da sola e il «Gesù viatico», con an-

cora un’ultima assoluzione, scende in quella bocca riar-sa... con un minimo sorso d’acqua per introdurglielo nel-l’intimo straziato dalle infiammazioni e dalla sofferenza. Assorto come se già agissero i sedativi che invece atten-devano nell’ampolla della flebo, il suo spirito si fonde e si trasforma nel Signore dell’Eucarestia; pare addormentarsi senza più dolore alcuno. È assopito. Muore. Sorride...

Dopo alcuni minuti torna a sgranare gli occhi per chie-dere: «Don, ora posso andare?».

«Se vuoi ti puoi addormentare attendendo Colui che viene a portarti in paradiso... Vuoi salutare ancora una vol-ta?».

«Oh, sì! La mia mammetta...». Incominciano da lei i salu-ti più struggenti che si possano immaginare. Ultimi.

Chiama la mamma, lo zio, la nonna, il cugino Roberto che sono muti nella saletta accanto. Io sono costretto a star-gli appresso, ai piedi del letto, perché mi chiama con gli oc-chi di continuo e mi ferma.

«Mamminetta mia, vai tranquilla... Per me sei stata la Madonna in terra... Preparami ancora una festa... Il mio fu-nerale dev’essere una bella festa!... la festa più grande!».

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«E tu nonna Marie, che sei la quercia, non piangere più, guardami la mamma perché questa cosa la potrebbe schiantare...».

«Grazie zio Carlo, grazie, pensa alla mamma». «Ciao Roberto, salutami Edoardo... ti penserò». «Ed ora lasciatemi solo con il don». I familiari se ne esco-

no nuovamente e riprende un indicibile colloquio di anime sul mondo che lo attende; con poche parole dette e gran-dissimi sentimenti. E mi parla ancora una volta del mare, del suo mare che gli tratteggia l’idea dell’infinito e che ba-ciò quando vi fu portato per l’ultima volta pochi giorni pri-ma. Sono le ore 15:20... (le 15:11 per l’orologio «scarico» che è sul comodino), quando Filippo mi dice tranquillo e diste-so, deciso e sorridente: «Don, è ora, chiama lo zio». Il dot-tor Carlo Bagliani, che è sull’uscio che osserva, capisce ed entra; mi scosto e lui bacia il ragazzo sulla fronte: si sorri-dono gli occhi negli occhi. Poi, dopo ancora uno scambio di sguardi, il medico inserisce in vena l’ago e aziona l’in-terruttore della flebo e il liquido incomincia a discendere. Carlo Bagliani si ritira ancora una volta ma alla porta mi pare ci siano tutti con lo sguardo impietrito, mentre l’ado-lescente torna a tirarmi a sé in un’ultima stretta struggen-te. Poi la presa si allenta: segno che il sedativo incomincia la sua azione.

Anche Filippo se ne accorge mentre gli occhi si fanno pe-santi... e mi mormora un sereno «Ok...» e poi «Thank you!», al che mi sfugge un corrispondente «Very much!» che gli fa scattare un ultimo abbozzo di sorriso. Gli occhi si socchiu-dono con il passare dei minuti. La mia destra stringe de-licatamente e accarezza con il pollice la sua martoriata e inerte mano sinistra; mi convinco che il ragazzo è entrato nel mondo dell’ultimo sonno e mi metto a pregare sotto vo-ce e con le labbra vicine al padiglione auricolare di sinistra

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senza sperare che le parole gli scendano nella sineidesis (co-scienza), quando ha un sussulto che gli fa esprimere anco-ra una frase compiuta che mi sarà di altissimo consiglio... Questa è la frase: «Non pregare più, don... parlami...». «Par-lami del Signore... non ripetermi parole preconfezionate», mi pare volesse dire l’adolescente...

Non ricordo cosa gli avrò detto nei lunghi minuti che se-guiranno. Capisco ora che non ero più io a parlare – per-ché parlavo – ma era il Signore stesso che si diceva all’ado-lescente, che già aveva il cuore nell’eternità.

Davvero non so che dolcezze mi uscivano dalla bocca o dal cuore: so solo che era un Altro che parlava in me. Alle ore 16:30 in punto ha un fremito, risolleva le palpebre ap-pesantite e accenna nuovamente ad esprimersi. Io gli sus-surro all’orecchio: «Sì, sì, Filippo, ho capito...»; è una pieto-sa bugia detta solo perché non avesse più ad affaticarsi, ma lui se ne accorge e in uno sforzo supremo riesce a formula-re l’ultima frase della sua vita che sarà un pensiero altrui-sta, sul quale rifletteremo tra un po’.

Filippo sta pensando che «sono venuto da sotto il cielo», interrompendo la traversata con i ragazzi... e che i ragazzi sono per i monti senza il pastore, per cui mi congeda, co-mandandomi di raggiungerli. Infatti, la frase che gli uscirà a monosillabi vibranti è: «Pace e bene... don!... va’...», che si-gnifica: «Va’ in pace con coloro che ti attendono... va’ a fare ciò che devi ai tuoi ragazzi... io sono a posto!».

Alle ore 17:15 lo lascio all’affetto struggente di sua ma-dre e della povera nonna ripromettendomi di rivederlo do-menica, due giorni dopo, quando sarei stato di ritorno dal «campo» per le messe festive in parrocchia. Secondo lo zio, non potrà superare di molto una settimana, ma un impre-visto edema polmonare lo schianterà a trentasei ore dal-l’inizio della sedazione.

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Disincarnarsi a diciannove anni

Ci sono tre parole che hanno delimitato come paletti mi-liari i momenti del pio transito di Mario Filippo. Le tre pa-role scaturite dalle sue labbra nell’ultima ora sono un salu-to seguito da due verbi: «Ciao!», «Parlami!» e «Va’!». Il sa-luto: «Ciao don!».

Mi rendo conto mentre scrivo di quanto sia stato impor-tante l’aver seguito l’ispirazione o l’istinto pastorale che mi spinse ad accompagnare e non a guidare questo straordi-nario ragazzo. Lui aveva bisogno di un accompagnamento affettuoso, che condividesse il più possibile la sua realtà di «passaggio» da questo all’altro mondo...

Guidare può significare l’imposizione di una nostra vi-sione, mentre accompagnare significa limitarsi ad affianca-re l’amico che ormai sa dove sta andando: a lui serviva so-lo una spalla di appoggio, di sostegno amorevole, di consi-glio che incoraggi. Certo, chi accompagna un moribondo, tanto più se è giovane come Mario Filippo, deve aver ben chiaro con se stesso il rapporto con la vita e con la morte. Quello dell’accompagnare non dev’essere tanto un sapere, accumulato interiorizzando pile di libri, quanto piuttosto un «sentire» ciò che avviene nell’intimo del fratello soffe-rente, tenendo sempre conto della sacralità del suo «io» che ci vieta di entrare come ci pare nella sua coscienza perché è solo lui che la apre e la chiude quando lo ritiene.

Un giorno lo psicologo svizzero W. Foerster, agli inse-gnanti di un liceo ginevrino, paradossalmente disse: «Ami-ci, per insegnare il latino a John dovete soprattutto cono-scere John e... volergli bene...!».

L’affermazione calza ottimamente per questa nostra sto-ria di vita, di morte e d’amore. Quell’abituale suo «Ciao

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don» a cui faceva eco il mio «Ciao Filippo, com’è?», la dice-va lunga. Quando ci si trova sovrastati dal pensiero della morte che arriva (a diciotto, diciannove anni!), c’è un abis-so tra il significato dei ragionamenti e delle parole e la cor-dialità fatta di espressioni contenute, come il ciao! Lì, gio-cano in profondità sguardi affettuosi o anche semplici si-lenzi. Perché il silenzio sa sostituire e superare le parole.

È proprio una trappola da evitare quella di voler fare da guida, finendo così di imporre cose che sono tue e non di chi anela al tuo sostegno e di quello solo ha bisogno. Que-sto lo dico a chi si troverà in frangenti del genere, ad ini-ziare dai sacerdoti che molto sovente sono al capezzale del-l’uomo che muore. Ma anche a tutti quanti, perché prima o poi la vita questa incombenza finisce per riservarcela.

Filippo aveva bisogno di accompagnatori pregni di af-fetto e di grazia di Dio e li ha avuti. Ringrazio il signore perché questa linea pastorale mi ha guidato in tutti i nu-merosi accompagnamenti di malati estremi, specialmente se giovanissimi.

Mamma Luisella, davanti alla morte in arrivo per il suo unico figlio, a tempo debito ha saputo non negargli nulla della realtà. C’è stato un previo «accordo» dominato dal-la consapevolezza di tutti e due, madre e figlio che sta av-venturandosi nel passaggio, di aiutarsi e di lasciarsi aiuta-re a schiudersi verso il mistero. Tutto questo si è svolto soa-vemente ed è servito ad evitargli il panico, a raccogliergli i necessari elementi di speranza e a tenergli la mente indi-rizzata alla meta!

«Parlami!», il primo verbo... Quel «Non pregare più..., parlami!», ormai rantolato come penultimo messaggio, do-po aver ricevuto santamente e appena un momento prima il viatico, voleva dirmi: «Don, parlami del Signore, della

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pietà, dell’amore di Dio che deve accogliermi..., perché le parole ritmate e meccaniche di queste tue preghiere mi di-sturbano come un rumore...». Ho capito a mie spese la pro-fondità di quell’interruzione delle «Ave Maria» che sus-surravo all’orecchio. Erano, sì, preghiere, ma per lui, con la morte già in azione, apparivano indebite: erano un «distur-bo» che lo distraeva dalla sua fissità interiore.

Chi sta per lasciare il corpo fisico – disincarnarsi, per l’appunto! – non vuole più formule al suo orecchio: ha solo bisogno di affettuosità; ha bisogno di un anticipo di quella carezza di Dio che lo avvolga e lo sollevi dall’angoscia del-l’attesa. Il linguaggio negli ultimi momenti deve avvicinar-si il più possibile a quello universale, chiamato anche com-passione: con passione. Chi sta per lasciare il corpo fisico non vuole né filosofia né dogma. L’unica cosa di cui il suo cuore ha sete è l’amore9.

È proprio vera questa affermazione! Filippo in quei mo-menti era ad un passo dall’amore e la sua mente, come di-cevano i latini, era già in speculum aeternitatis; la sua psiche, il suo cuore ardevano ormai dal desiderio di specchiarsi in quell’Eterno che tardava a venire. I ragionamenti delle set-timane passate ebbero il loro peso, è vero, ma essi facevano parte di ieri. L’«oggi» era il giorno dell’incontro e molte pa-role non potevano più giovare.

«Va’!», l’ultimo verbo!Con l’animo colmo di consolazione, ricevuta la comu-

nione del buon viaggio, congedatosi da tutti e soprattut-to dalla sua madonnina in terra, sua madre, Mario Filip-

9 A.-D. MEUROIS-GIVAUDAN, Cronaca di una disincarnazione. Come aiutare chi ci lascia, Amrita, Torino 1993.

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po vuole concludere in solitudine, con accanto il suo pa-dre spirituale. Tutti si appartano ed io ancora una volta re-sto solo con lui.

In quella stanza fatidica scoccano dieci, venti, trenta mi-nuti silenti, intercalati da brevi espressioni indecriptabili, dove di sicuro fluiva la sensazione dell’amore che lo sta-va per rapire, quand’ecco che il ragazzo ha un sussulto nel quale cerca di esprimere ancora un concetto... Fa fatica per-ché la sedazione è già in corsa... ma poi ci riesce. È un «con-gedo», che scaturisce da un pensiero che gli rigurgita da un ultimo fiotto d’affetto verso il prossimo di questa ter-ra...! Lui sa che: «Sono sceso dal cielo dei tremila metri per portarti in cielo» e in quell’istante si ricorda che lassù, sui monti da dove sono disceso, da molte ore ci sono i ragazzi del campo estivo intenti nella traversata alpina. Sta ricor-dando che il pastore è lì, presso di lui, e quei ragazzi sono soli, lassù!... Pensa a quei ragazzi e pensandoli me li indica con l’invito a raggiungerli subito: «Pace e bene, don... Va’!... Adesso va’...». «Va’ in pace con loro», mi vuole dire! «Va’ con i ragazzi, che io non ho più bisogno di te; sono a posto»... Sarà questo, in assoluto, il suo ultimo messaggio, poi la se-dazione lo trasporterà definitivamente in un sonno irreale per traghettarlo con calma a quell’eternità che ormai gli si è dischiusa davanti.

Come non vedere in quest’ultimo gesto la maestà d’ani-mo di questo grande adolescente? La sua non è forse la «vir-tù eroica» che sancisce l’arrivo alla santità? Mario Filippo sta morendo; sta veramente lasciando gli amici, la mam-ma, l’ambiente che ama, ma nello stesso tempo c’è qualcosa che continua; c’è la continuità di questo rapporto di amore che coinvolge tutti gli amici di questo mondo, mentre già gli affetti dell’aldilà, con in cima il suo amato papà Clau-

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dio, si fanno preponderanti. Questa sensazione, che gli tie-ne rivolta la mente al mistero, non gli impedisce di pensa-re al don, per ricordargli l’urgenza di raggiungere i ragaz-zi sulla montagna!

Si è congedato da tutti e non ha più bisogno di supporto quaggiù, perché la sua psiche è ormai nella luce di Dio.

Sta affrontando il distacco dal corpo senza lasciarsi più sopraffare dalle allucinazioni. È lì, fisso e forte come un condottiero vittorioso per stabilire il rapporto nuovo che lo attende, dopo la vittoria. Perché lui è certo di una co-sa: il processo di deterioramento delle realtà terrene alla fi-ne si concluderà nella Luce. «State certi», aveva scritto po-chi giorni prima ai suoi compagni di liceo, «non vagherò nel buio!».

La festa più grande

Quel 16 luglio 2002, giusto trenta giorni dopo quella dome-nica sera quando Mario Filippo e Luisella sua madre, sotto la volta stellata, conversavano in giardino – come Agostino e Monica nell’orto di Ostia Marittima – sul senso dell’aldi-là..., quel 16 di luglio era un martedì.

Mi trovavo ancora con gli stessi cinquantatré ragazzi e animatori del secondo campo «ex». Ancora una volta, come il venerdì 12, il programma dei ragazzi attendati a Nèvache prevedeva una traversata per i monti: dal villaggio france-se di Nèvache alla Maison des Chamois sita nell’alta Val-le Stretta, dove sorge la maestosa «Croce dei ragazzi in cie-lo».

Giornata gonfia di pioggia, perciò si pensò di evitare la traversata a piedi e trasferire la giovane comunità con pul-

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mini e jeep. Giornata gonfia di dolore, perché per le ore 11, presso la chiesa di S. Lazzaro di Pinerolo, era previsto il fu-nerale di Mario Filippo.

Alle 8, i ragazzi sono intenti a riassettare le tende e fa-re i bagagli, mentre io con la Land Rover lascio l’accampa-mento con destinazione Riva di Pinerolo. Avrei toccato an-cora con il pollice destro la fronte esanime di Mario Filip-po per un’ultima benedizione e poi a S. Lazzaro per l’Euca-restia davanti alla bara del ragazzo.

Alle ore 10 in punto arrivo a Riva di Pinerolo nella vil-la dei Quaglio-Bagliani. Mamma Luisella l’ha voluto asse-condare il figlio: la salma è deposta nella sala delle feste. Il corpo è così ben vestito e collocato che riveste la maestà di un principe; anche i segni violenti della malattia hanno la-sciato la preda restituendo al volto la dolcezza originaria.

Quel corpo piagato, quel viso diafano era simile ad un’icona: l’icona di un angelo o di un santo del paradiso. Non ci fu ostentazione da parte delle due donne nel voler-lo così il loro figliolo, ma soltanto l’adempimento preciso di un desiderio estremo: «Mamma, il giorno del mio funera-le fa’ che sia il giorno della mia festa più grande... Più bello della festa della matura...».

Quando anche a me disse la stessa cosa, io gli lessi dal «breviario» un famoso brano di sant’Ambrogio, vescovo di Milano (IV sec.), dedicato alla morte del fratello Satiro:

Dobbiamo riconoscere che la morte può essere un guada-gno e la vita un castigo; ecco perché san Paolo dice «per me vivere è Cristo e il morire un guadagno!» (Fil 1,21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è Spirito di vita, se non dopo la morte corporale?Andiamo dunque con gioia esuli dal corpo per non anda-re esuli dal Signore. L’anima nostra dovrà pur uscire dalle strettezze di questo corpo di morte per muovere verso la

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gioia dell’assemblea eterna. Arrivarvi è proprio dei Santi e noi siamo razza di Santi per il battesimo che abbiamo ri-cevuto e che ci ha fatto figli di Dio. Sarà festa, dunque an-diamo10!

Il parroco di S. Lazzaro, don Angelo Polastro, volle che fossi io a celebrare la messa di esequie. La chiesa, molto grande, era gremita di gente nonostante le vacanze esti-ve. Abbondavano gli studenti, numerosi i medici del Cen-tro Tumori e molti colleghi della madre Luisella e dello zio dottor Carlo Bagliani. C’erano anche molti ragazzi dei cam-pi della gioventù e della mia comunità parrocchiale, che da tre mesi vivevano in pieno la vicenda di Mario Filippo.

C’era Gregorio Tuninetti, il ragazzino «prodigio», appe-na sedicenne e da ben due anni professore di flauto! Quel ragazzo del cui talento innato parlavano i giornali e che aveva incuriosito Mario Filippo, quando venne al suo ca-pezzale per suonare la Badinerie tratta dalla Seconda Suite in si minore di Johann Sebastian Bach. Gregorio, nella chie-sa di S. Lazzaro, ripeterà il motivo che aveva suonato appe-na due settimane prima nella villa di Riva durante uno dei tanti rendez-vous in famiglia.

L’atmosfera è struggente: si prega con trasporto o si tace e si medita commossi. Anche le intenzioni di preghiera, al-cune dei compagni di liceo appena maturati, escono con le voci rotte dal pianto.

Nell’omelia cercherò di rimarcare, ad un pubblico così qualificato, la testimonianza che il ragazzo ha saputo da-re nel suo tremendo tempo di malattia, superando le atro-ci sofferenze senza disperare mai, bensì riscoprendo e ap-

10 S. AMBROGIO, Lib 2, 40, 46, 132.

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profondendo quella fede che con il passare delle settima-ne si trasformerà in un’ala magica in grado di sollevarlo co-sì in alto.

Delicati e forti gli interventi degli amici a fine messa; ne riproduco uno per tutti:

È difficile salutare un Amico, soprattutto quando si ha il ricordo di tante esperienze vissute insieme; chissà co-sa stai facendo, magari adesso sei qui vicino a noi, maga-ri adesso ci stai ascoltando, forse stai sorridendo e pensi a tutti i momenti passati insieme! Sono tanti, troppi per dirli tutti in poche righe: ma sono proprio quei momen-ti che ci accompagneranno e riempiranno il vuoto che hai lasciato. Seduto in un banco con noi, sei tu che hai affron-tato l’esame più difficile e l’hai superato nella pienezza dei voti.Ti salutiamo alzando gli occhi al cielo: pensando alla cro-ce scorgiamo che anche Lui ha pianto tanto per Te. Grazie Mario, ci hai insegnato tante cose.Buon viaggio, CIAO!

L’esemplarità di Filippo tra i suoi amici si è radicata in profondità. Qualche giorno dopo la sepoltura mi scriverà la sua compagna di classe Anna Flavia Fassino:

...e dire che all’inizio lo giudicavo isolato, solo perché non si buttava subito a familiarizzare con tutte le ragazze... poi mi sono resa conto che dosava allegria e serietà come nes-sun altro. Questo mi ha insegnato molto e molto di più mi ha insegnato il suo comportamento nei momenti duri del-la malattia. Mi ha insegnato a non piangersi addosso né essere vittima di se stessi... lui che nei momenti più brutti ha pensato ancora a noi...

La scuola, il Liceo «Marie Curie» di Pinerolo, gli dedi-cherà l’annuario dell’anno 2003 ed avrà cura di custodirne la memoria con borsa di studio, tornei a lui dedicati e di-

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verse iniziative fatte per mantenerlo vivo nel mondo stu-dentesco. Già un mese dopo la morte, i compagni e il pre-side dottor Gaetano Leo porranno questa eloquente targa bronzea nell’aula di informatica, firmata dalla mamma e dalla nonna.

MARIO FILIPPO BAGLIANI20/4/1983 – 14/7/2002Ha trascorso serenamente l’infanzia e la prima giovinez-za negli edifici di questo Centro Studi con voi Insegnanti ed i suoi Compagni.Iddio però ha avuto altri disegni per lui. Ha dovuto in-terrompere gli studi, percorrere un penoso calvario, a po-chi mesi dall’agognata maturità, e con rimpianto lasciar-vi tutti.Mario vi porta nel cuore e con un grande abbraccio vi stringe a sé e prega per voi. Vi ricorderete qualche volta di lui?

Un’antologia di lettere struggenti è giunta alla famiglia, non solo come condoglianze ma soprattutto come ringra-ziamento per la suprema testimonianza lasciata dal nobi-le ragazzo.

Di suo pugno

La malattia volgeva al termine. Anche gli ultimi tentativi dei medici si erano rivelati inutili e il ragazzo sapeva chia-ramente che l’epilogo era ineluttabile e molto vicino.

Si era davvero preparato bene, Mario Filippo, al gran-de evento... Anzi, confortava i suoi amici con semplicità. Fin da giovedì 11 gennaio 2002, all’inizio della salita al cal-vario; quella sera alla mamma disse tout court: «Sai mam-ma, mi sa tanto che io debba andare... Ti piacerebbe anda-

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re dove vado io... Sai, per questo bisogna prepararsi... esse-re pronti». La mamma si era impietrita e rimase muta tut-ta la sera, e alla nonna che piagnucolava: «O Signore, pren-di me!», lui esplose: «No nonna, sono io che devo andare perché è Lui che chiama me! E tu non vuoi farla la volon-tà di Dio?».

Mi scrive Luca Costabello, suo compagno di banco del Liceo «Marie Curie»:

Sapevo che era un ragazzo forte. Spesso mi diceva che era lui «l’uomo di casa» e che quindi non poteva permettersi di essere debole.Durante la malattia ha veramente dimostrato questa sua forza e questo suo coraggio straordinario.Nonostante il dolore e la sofferenza ha sempre avuto una lucidità sorprendente e questo suo costante atteggiamen-to mi ha colpito profondamente dentro. Quando mi confi-dò che non ce l’avrebbe fatta, io dapprima stentai a creder-gli. Lo guardai. Ero immobile e non riuscivo a muovere un muscolo, bloccato dallo sconforto e da un’opprimente impotenza, ma Mario aveva un’altra espressione. Nei suoi occhi non c’era paura o smarrimento.Nonostante il dolore, non solo quello fisico, in quell’istan-te era sereno, tranquillo, in pace con se stesso!Non sapevo cosa fare per confortarlo, sapevo che qualsia-si cosa avessi detto sarebbe sembrata retorica, inutile. Ma-rio capì e fu lui a parlare per primo.Mi diede un consiglio! «Luca, non buttare via il futuro tu che ne hai uno!». Non trovai una sola parola per rispon-dere.Durante le ultime settimane ciò che veramente sperava era di addormentarsi sereno. Aveva l’anima piena di ri-cordi e di speranza nel futuro dell’aldilà e aspettava il mo-mento per abbracciare suo padre. La forza di Mario ha da-to molto a tutti noi giovani amici che gli siamo stati vici-

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ni. Ha certamente dato moltissimo alla sua mamma e al-la nonna. Era incredibile come fosse lui stesso a consolar-le. Aveva vinto lo sconforto e il dolore con la straordinaria speranza della fede e questa non lo ha mai abbandonato.In questo cammino, caro Padre, noi tutti suoi amici ci sia-mo resi conto che lei è stato di grande aiuto e questo ci re-sterà d’insegnamento.Spesso Mario ci parlava del suo don Paolo: l’amico che ri-spondeva alle sue domande e lo entusiasmava.

Il testamento di Mario Filippo

Queste righe scritte di suo pugno esprimono in modo su-premo la sua forza d’animo pari all’eroismo:

Pinerolo, 8 aprile 2002.Miei cari,spero leggiate presto queste parole perché ciò significhe-rebbe che le mie agonie sono finite.La nonna Miranda scrisse il suo testamento morale nel 1989 ma morì nel 2000; fui colpito da questa anticipazio-ne di morte, ma contemporaneamente lo trovai stupendo e mi diede ispirazione per ciò che scriverò.Questo testamento lo dedico soprattutto a mia madre, donna della quale posso dire di conoscere tutto, pregi, di-fetti e preconcetti.Devo ringraziare mia madre (i cui pregi svettano sopra i suoi difetti) perché è stata l’unica, soprattutto in questo mio terribile periodo, l’unica che mi capiva fino in fondo e mi accettava. Soffriva per me, assieme a me, mi voleva bene con tutto, tutto il cuore per come ero, non per quello che sarei stato o per quello che gli rappresentavo; in que-sto era l’unica.

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Cara mamminetta, so quanto sarà duro sopportare tutto ciò, diciannove anni passati a sotterrare una lancia che ti trafisse il cuore [la morte del marito Claudio, padre di Ma-rio Filippo, N.d.R.] per poi essere colpita alle spalle! Mam-ma, prova a pensare a questa morte come una liberazione, come una Grazia di Dio Misericordioso per liberarmi dal-le pene morali e fisiche e portarmi a Salvezza. Mamma, fai morire con me una parte di te, così mi sarai sempre vicina. Ma con l’altra parte lotta per salvarti dall’oblio. Lotta co-me hai sempre fatto nella vita, non aver paura di piange-re o di sentirti bene e cerca di fare tutto il bene che puoi e che io mi ero ripromesso di procurare agli afflitti se si fos-se trattato di un banale «linfonodo»:... Passiamo alla Nonna. Sei forte e sai ottenere ciò che vuoi.Non piangere su te stessa ma aiuta e sorreggi mamminet-ta che, così piccola, può essere spazzata via da questa tre-menda tempesta. Hai la mia completa fiducia. Non anne-gare in un mare di lacrime, tu sei un leone, non una pe-cora...A proposito di cose e di patrimonio, aiutate i bisognosi, come avrei fatto io certamente.Dello zio Carlo ho ammirato la sua calma e flemma in ogni momento... tanto che mi faceva pensare che avesse raggiunto l’illuminazione...Ti ringrazio per ciò che hai fatto per me in vita; mi hai se-guito nella mia agonia fedelmente e sei stato di grande so-stegno.

Qui ringrazia i parenti e gli amici più cari che l’hanno assistito e i medici, i colleghi di sua madre...

Non senza una vena di humour; ad uno dice: «Matteo, attenzione a non diventare strano perché tu sei un bravo guaglione».

Conclude:

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Spero conserviate un buon ricordo di me. Il mio funera-le sarà la mia fonte di liberazione dalle pene. Statemi cer-ti che non vagherò nel buio ma nella Luce e con le persone che amo: nonna Miranda, nonno Filippo, il grande nonno Silvio, i grandi del Cielo e finalmente potrò abbracciare il mio papà per la prima volta e per questo saranno valse le pene che ho passato.Signore, Misericordia fammi sta Grazia. Voglio bene a tut-ti!!!Mario Filippo Bagliani

Tre giorni prima che perdesse coscienza con la sedazio-ne per risvegliarsi nel dies natalis dell’eternità, su quella sua agenda, con calligrafia difficile scriverà il suo ultimo mes-saggio che il professor Gaetano Leo, preside del Liceo scien-tifico statale «Marie Curie» di Pinerolo, pubblicherà come apertura dell’annuario dell’anno scolastico 2002-2003:

Carissimi tutti,non sapete quanto sia difficile per me buttare giù queste due righe, stanco e assonnato come mi sento ultimamen-te.Credo di aver sofferto abbastanza in questa vita e non au-gurerei all’essere più crudele esistente sulla terra di sop-portare ciò che è toccato a me.È già da un po’ che mi sento stufo e straziato, proprio per questo non pensate alla mia morte come ad una fine, ma come ad un grande inizio. L’inizio di una Nuova Vita do-ve la mia anima si separa finalmente da questo corpo or-mai martoriato e devastato dalla malattia.Comunque dell’esistenza trascorsa qui non dimenticherò mai il colore mutevole delle stagioni, quello sgargiante dei fiori, il bianco della neve, i profumi, le montagne, il mio amato mare.Credo che il mio futuro sarà migliore, anche perché so che incontrerò finalmente i miei cari che mi hanno preceduto in questo viaggio e potrò abbracciare mio padre.

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Non posso fare a meno di ringraziare tutte le meraviglio-se persone che mi hanno sempre voluto bene e seguito an-che nei momenti più difficili e tristi, cercate d’essere amo-revoli ed uniti tra voi e solidali col prossimo che soffre, anche quando non sarò più tra voi.Desidero infine dare ancora un grosso abbraccio alla mia mamma, la persona che ho amato di più in questo mondo e dirle che le sarò sempre accanto.Arrivederci a tutti.

Mario Filippo9 luglio 2002

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Christian

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CHRISTIAN

Chi Christian Patteri l’ha conosciuto personalmente è una persona che ha avuto la grande fortuna di scoprire un te-soro, con qualcosa di più...

Il ragazzo è vissuto diciannove anni, cinque mesi e cen-toventitré giorni. Fratello gemello di Alessandro, figli di Katia Lombardo, mamma dolce, ilare e giovane, e Franco Patteri, un papà pieno di vita, lavoratore puntuale, sporti-vo, sempre allegro e appassionato di motori e di auto che sono l’oggetto del suo lavoro. Ma Christian fin da fanciul-lo in allegria e gioia sprizzante batteva proprio tutti. Era una fonte di simpatia e lo fu fino all’ultimo giorno della sua malattia.

Una fanciullezza sbocciata in famiglia, cresciuta in par-rocchia e nella scuola salesiana. In parrocchia a otto an-ni si inserì come lupetto e continuò l’avventura scoutistica: esploratore e poi rover del Reparto Thabor della FSE, Fede-razione Scouts d’Europa. Il suo costante cipiglio nella risata lo accompagnava quotidianamente ma soprattutto nel ser-vizio, anche quand’era pesante, senza rallentargli la pun-tualità o la costanza dei suoi doveri.

Vi aiuterò a conoscerlo nel limite angusto di queste po-che pagine; lo farò incominciando dal fondo, cioè dall’ulti-

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mo giorno della sua esperienza terrena che i latini chiama-vano «in die obitus, nel giorno della sepoltura»! Purtroppo Christian è vissuto poco e se n’è andato troppo in fretta da questo mondo il 25 gennaio 2006, il giorno esatto della fon-dazione di quel Reparto Scout che costituiva il suo primo amore e per il quale si accingeva ad organizzare la celebra-zione del decennale.

Per l’evento, dal letto della sua malattia aveva anche pre-parato una vignetta da stampigliare sulle magliette, dove aveva disegnato una nutrita squadriglia di esploratori ar-mata di accette, picchi, e badili, intenta a curare l’albero del Reparto, massacrandolo di colpi maldestri. Sotto la scritta: «In dieci anni non siamo riusciti ad abbatterlo, vivrà per al-tri cento!».

Quel giorno della morte nell’Hospice di Lanzo Torinese era un mercoledì e il funerale avrà luogo nella sua parroc-chia sabato 28 gennaio. La chiesa grande della SS. Trinità a Nichelino, con settecento posti a sedere, era gremita all’in-verosimile con tantissimi giovani in piedi. Oltre a loro, a piangere c’erano educatori, genitori, fanciulli e sacerdoti.

Io avevo il cuore talmente gonfio di pena, che sette gior-ni dopo dovetti correre ai ripari in ospedale! Vecchio come sono, ragazzi in paradiso ne ho accompagnati proprio trop-pi e l’evento mi stava piegando...

Per me quel dolore incominciò una sera di ottobre, un anno e tre mesi prima. Ero nella chiesa antica proprio men-tre nel mio banco di preghiera recitavo il «Nunc dimittis» di Compieta («Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace...») e sentivo la nostalgia del cielo pensando giusto ai ragazzi della Croce, quando sale l’ombra di un giovane che si avvicina.

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Prima di darmi il tempo di alzare gli occhi dal brevia-rio, quel ragazzo mi si butta addosso stringendomi così for-te da togliermi la luce. Era Christian Patteri che, tenendomi stretto, mi ripeteva con la voce spezzata dal pianto: «Don, don, prega per me... Don, ho il cancro; ho il cancro!».

Quella sera di metà ottobre del 2004 il mio cuore si tra-fisse e nell’istante medesimo rividi la tremenda via crucis che, nuovamente ed implacabilmente, si parava davanti ad uno dei miei ragazzi... Nuovamente sarei stato chiamato a rifare l’inesorabile accompagnamento del Cireneo lungo il cammino del Golgota della malattia, con il tremendo man-dato di schiudere quegli occhi giovani, che di questo mon-do avevano visto ben poco, alla luce repentina dell’eternità che già li stava folgorando!

Mi sentii la morte dentro e capii che il «Nunc dimittis» mi imponeva, ancora una volta, un cammino fino alla por-ta del cielo con un ragazzo a braccetto. Pregai istintivamen-te: «Signore, come potrò reggere ancora la salita di un altro calvario di un adolescente? Signore, come farà questo tuo Christian cosi pieno di sogni? Signore, fatti sentire, vieni qui, pensaci tu... guariscimelo o prendi me!». Ma il film che mi si snodò in quel momento mi fece subito vedere, come in un lampo, il «die obitus» che sarà datato sabato 28 gen-naio 2006!

Il giorno in cui, davanti alla bara di Christian e alla fol-la strabocchevole, letto il Vangelo della vedova di Nain (Lc 7,11-17), pronuncerò questa dolorosa omelia che riassume-va qualcosa della breve esistenza del caro esploratore... Vi trascrivo i punti salienti:

Oggi ci troviamo faccia a faccia con il mistero del male.Il MALE nel mondo... non è padroneggiabile nemmeno intellettualmente. Il male fisico: quelle imperfezioni che

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l’uomo subisce contro voglia e chiamiamo malattia... Il male morale: ciò che l’uomo fa con malizia perché solle-citato da una forza maligna che lo precede: lo chiamiamo peccato.È il male fisico, non quello morale, il male che ci ha gher-mito, uccidendolo, il Christian che era con noi fino a tre giorni fa. C’è qui un fatto tremendamente misterioso: il male si scatena soprattutto dove c’è il BENE. Il quadro di questo evento lo vediamo osservando la croce. Quel legno della croce è il simbolo del massimo del male... ma, quel corpicino trafitto e appeso ci rappresenta pure il massimo del bene e dell’innocenza...!Caro Alessandro... com’è comprensibile e logico il tuo ur-lo lancinante tra le mie braccia, alla vista del corpo esani-me del tuo fratello gemello, tre giorni fa, il 25 gennaio al-le ore 13:58!«Questo è ingiusto, ingiusto!», gridavi! Sì, la morte, il ma-le è ingiusto, ingiusto, ingiusto. La morte di Christian è in-giusta! La morte di Gesù è ingiusta!Sai che anche la Sacra Scrittura dice così? «Quest’uomo che va in corruzione dovrà rivestirsi di una vita che non muore più. E quando quest’uomo [...] si sarà rivestito di una vita che non si corrompe, allora si compirà quel che dice la Bibbia; la morte è distrutta. La vittoria è completa. O morte, dov’è la tua forza che uccide, dov’è il tuo pungi-glione» che ha ucciso Christian? (1 Cor 15,54-55).Vedete, per vincere la morte e darci la vita eterna è sta-ta necessaria la croce: la vittoria sul Maligno si è consu-mata su quel legno, sul Calvario! Vittoria che ciascuno di noi deve ratificare con la lotta e combattere con il dolore. È un po’ la storia del chicco di frumento che cade, marci-sce, muore.Cari Alex, mammina Katia, caro il mio papà Franco, ca-ri nonni e parenti e amici scout, c’è un evento nel tragico evento che ci sconvolge: questo nostro ragazzo la morte l’ha vinta e l’ha dominata... L’ha superata!

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Franco: cosa ti ha detto la sera di Natale, prima della mes-sa in ospedale? «Papà, ricordalo poi al don che voglio il mio nome tra i “ragazzi in cielo”... sulla Croce!». E que-sto che ti diceva, cosa voleva dire? Che lui era già più in là della linea di confine. Molto più in là, anche se nei mo-menti di apparente calma progettava vita alla grande... e non per sé: per i suoi esploratori... che non voleva lascia-re... e che non ha lasciato.Katia: che cosa ti ha chiesto lunedì scorso alle ore 9:45 quando, misteriosamente, tuo figlio emergeva dalla seda-zione sorprendendo tutti, compresa la dottoressa Mosso, l’oncologa? «Mamma», ti ha detto, «dov’è papà? Vi siete ri-cordati del mio nome alla “Croce dei ragazzi in cielo”?». E poi: «Dammi il telefono: voglio parlare con il don. Voglio sapere dove mi trovo... Deve dirmi dove sono... ».Quelle parole non salivano dalla morte, anche se essa già era in azione e Christian già si era inoltrato nel suo pas-saggio. Quelle parole riflettevano la sua ansia, l’ansia del suo cuore di specchiarsi nell’eterno. Eterno che tardava a venire: dunque quelle parole indicavano l’alba che inco-minciava ad accendersi...!Se Caino, il cancro, gli ha carpito il corpo, il bellissimo vi-so, i suoi occhi scintillanti, il suo ridere solare... (e questo è il salario del demone del male), Abele, cioè il Cristo Ge-sù, gli ha donato quella vita nuova che nella scuola di spe-ranza dei suoi Scouts ha imparato a gustare. In quelle lun-ghe tornate adolescenziali fatte di rifornimenti continui di grazia... Quante confessioni nella sua crescita..., quan-te sante comunioni! Quante conversazioni sulla vita e il suo mistero.C’è di più: l’ultima rampa di scale per il paradiso l’ha ini-ziata proprio la sera dell’Immacolata, l’8 dicembre scorso, in parrocchia, dopo la cena insieme... Ricordate, Stefano e Raffaele, che cosa facemmo con Christian nella mia «stan-za pensatoio»? Progettammo i temi degli esercizi spiritua-li destinati alle guide, agli esploratori e agli adolescenti... Pensammo le tesi da proporre: «Noi siamo creature finite,

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relative, effimere: la nostra consistenza ce la dà Gesù Cri-sto, ottenendoci, con la croce, la vita nuova dell’eternità». E poi, dall’Ospedale, dov’era entrato cinque giorni dopo, mi cercava di continuo al telefono per sapere come il mes-saggio raggiungeva i suoi amici... agli Esercizi Spirituali, ai quali lui non poté partecipare. Quei suoi ragazzi che so-gnava giorno e notte...E da Lanzo, dov’era salito dopo il calvario dell’Ospeda-le Oncologico di Candiolo, quando contattò don Joe per mandarlo da una cara signora anziana e malata che da tantissimi anni sembrava aver chiuso con la Chiesa: «Don Joe, ti prego», gli disse Christian, «va’ dalla signora tal dei tali. L’ho convinta io, per telefono... Mi ha detto che volen-tieri ti riceverà. Non temere, che poi Gesù farà il resto...!»

È stata davvero una omelia infarcita delle lacrime di mil-le cuori spalancati nella contemplazione del mistero. Don Joe mi confermerà, riguardo alla malata per la quale Chri-stian si fece angelo di salvezza, che il Signore il resto lo fe-ce alla grande, provocando una bella e compunta confes-sione e poi una santa comunione...

Queste sono notizie di grosso calibro: sono del cielo...; sono la BA (buona azione) che gli Scouts sono tenuti a com-piere tutti i giorni..., e non sarà l’ultima BA della sua vita. La sera tardi del 30 dicembre, dal suo lettino di Lanzo, mi chiede al telefono: «Come vanno gli esercizi spirituali del-le guide e che cosa stanno facendo...?». Gli dico che va tutto ok e che i ragazzi stanno assistendo al film Patch Adams che narra di un medico (simile alla sua dottoressa Mosso) che assiste i malati terminali (come lui) distraendoli con diver-sivi spettacolari e rasserenanti, curandoli con l’ottimismo.

Mi rimprovera: «Che sbaglio hai fatto, don! Quel medi-co non ha la fede, quindi non insegna la speranza perché poi, vedendoli morire uno ad uno, si dispera!». Gli rispon-do che il medico interpreta il volo di una farfalla come fos-

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se una risposta del cielo... Christian aggiunge: «Sì, ma non tutti lo capiranno: bisogna stare più attenti con i ragazzi, perché noi li dobbiamo educare alla speranza... Non pos-siamo rischiare».

Amici: questa è santità: questa è virtù eroica. Questo è il passaporto del paradiso.

Si chiarisce pure perché la Provvidenza ha voluto che il corpo gli morisse il giorno esatto che introduce il suo Re-parto nel decimo anniversario della fondazione. Il Reparto, che per lui è stata la scuola di bontà, nacque il 25 gennaio 1997. Lui spirerà il 25 gennaio 2006!

La croce della malattia l’ha completamente purifica-to; quando si è spento, non era più di questa terra. Il suo bel corpo che qualcuno ha ammirato nella divisa di Scout d’Europa resterà una pallida immagine fino al giorno in cui lo raggiungeremo in paradiso. Ma... per raggiungerlo, bisogna vivere in grazia di Dio, come Lui. Ripeto, il suo as-se erano la confessione e la comunione frequente!

Ecco perché ora vive in pieno: vive in Dio! «Le anime dei giusti vivono in Dio...» (cfr. Sap 3,1).

Non siamo stati esauditi! Abbiamo pregato invano...

Da quella sera fatidica dell’ottobre 2004, con un crescen-do straordinario è iniziata una crociata di preghiera inten-sa per la guarigione di Christian. Certo, la nostra preghie-ra era ritmata da quella frase del Padre Nostro che Gesù ci insegnò ad accettare, come fece lui nel Getsemani: «Non la nostra ma la Sua volontà...». Noi chiedevamo insistente-mente la guarigione; chiedevamo che la guarigione fosse la sua volontà!

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In quel pregare ci rivolgevamo ai «ragazzi in cielo» co-me naturali intercessori presso Gesù ed in modo particola-re a quel nostro ragazzo spirato nel 2002 che è sicuramente in paradiso, Mario Filippo Bagliani. Soprattutto nella san-ta messa, durante l’offertorio, dopo la comunione, dal mio profondo cercavo Mario Filippo e gli dicevo: «Dillo tu a Maria, dillo a Gesù che ci guarisca Christian».

Non è stato così. Saranno state suppliche vane, le nostre? Ascoltate cos’è accaduto.

Christian conosceva la storia di Mario Filippo, anche se l’angoscia della malattia simile a quella dell’adolescente in-vocato non gli permetteva di leggere il libro uscito proprio in coincidenza della sua. Aveva ammirato la copertina, il volto di Filippo, il sorriso e soprattutto il titolo: Ciao don! L’eternità di un sorriso. Aveva il presentimento che quella storia fosse profezia, per lui...!

Christian, come Mario Filippo e come tutti i giovani del mondo, era pieno di vita da vivere, di progetti concreti da realizzare e di sogni... In lui si ripeterà ogni cosa! Pensate: quando la situazione apparve disperata e senza sbocco, per permettergli qualche settimana di esistenza degna e sere-na per quanto poteva essere possibile, si aprì arcanamente una occasione d’accoglienza proprio all’Hospice di Lanzo Torinese, dove si era preparato all’eternità Mario Filippo.

Come se non bastasse, il posto disponibile sarà la stes-sa stanzetta e il medesimo letto di Mario Filippo... e l’onco-logo sarà la dottoressa Felicita Mosso, che aveva accompa-gnato con grande delicatezza e sapienza l’adolescente di Pi-nerolo. Su quel letto si ripeterà la stessa storia suprema di Filippo. Perfino le parole di Christian ricalcavano le sue!

Scioccante un episodio, in quel primo mattino di degen-za a Lanzo. Entrò in stanza la dottoressa Mosso per la pri-ma visita all’adolescente giunto da pochi minuti. Inavverti-

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tamente, il medico confuse i nomi, salutando Christian con un gran: «Ciao... Mario Filippo»!

Il ragazzo sgranò gli occhi: «Ma lei, dottoressa, per caso, ha conosciuto Mario Filippo?», domandò Christian stupito. Felicita Mosso si corresse, gli chiese scusa e lo richiamò col suo nome. Christian riprese: «Dunque... Mario Filippo lei l’ha conosciuto... era in quest’ospedale?».

«Sì, Christian, era qui!». «Scommetto, in questa stanza?». «Sì, questa!».«Dunque in questo letto...?».«Proprio questo lettino».«Ho capito: sono a posto...! Però... posso dirmi fortuna-

to, o no?».È in quel momento che mi accadde di fare l’ingresso

nella stanza dove già ero entrato tante volte per incontra-re Mario Filippo... cosicché mi trovai al centro del sorpren-dente equivoco... Con il mio arrivo esplose una fragorosa risata liberatoria, tutti e tre insieme: Christian, la dottores-sa e poi anch’io che ancora non avevo ben capito perché si rideva...

A prescindere dalle notizie toccanti esternate nell’ome-lia della messa di sepoltura, mi pare che l’episodio possa servire a farci scoprire la profondità e anche la santità di questo ragazzo, e questo mi dà la forza di dettagliarvi al-cuni avvenimenti degli ultimi quaranta giorni della sua vi-ta terrena.

La sera dell’8 dicembre 2005, Christian era a cena in par-rocchia con i sacerdoti e i suoi due amici rover, Stefano e Raffaele. Era una cena di lavoro per mettere a punto il pro-gramma degli esercizi spirituali degli squadrigliari Scouts e che continuerà dopo il pasto fino a notte alta.

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Due giorni dopo è il sabato 10 dicembre e Christian, ma-lato, vuole salire a Chateau a tutti i costi per partecipare agli esercizi dei rover e degli animatori parrocchiali. Lo sconsigliamo in molti modi ma non demorde...

Nella notte del sabato è colto da una grave crisi respira-toria proprio in quella casa di esercizi che è stata la sua ca-sa di spiritualità e sarà la stazione di partenza per il viag-gio verso il paradiso. Portato rapidamente in famiglia, i medici lo giudicano gravissimo e provvedono ad un solle-cito ricovero al Centro Tumori di Candiolo.

Mercoledì 14 dicembre i genitori sono avvertiti dai sani-tari che la situazione, precipitata, appare disperata: «Non raggiungerà il Natale», dicono, «si sta spegnendo. Se vole-te lo mandiamo in qualche centro adatto al caso...». Quel mattino incontro Katia alla porta dell’ospedale mentre esce per avvertire il papà che è in Svizzera ed io sto entrando per incontrare Christian. Mi abbraccia disperatamente e poi scoppia in un pianto lancinante. Come si fa a conforta-re una madre con il ragazzo che le si sta spegnendo? Non ci sono parole umane, c’è solo l’affetto struggente che può tentare di lenire un cuore così sanguinante.

Giovedì sera, 15 dicembre, con il ragazzo ho un lungo, affettuoso e sereno colloquio: è consapevole della situazio-ne tanto che mi dice: «Quando mi succederà... per la non-na sarà la fine. Tu però abbi cura della mamma, potreb-be non farcela... o diventare matta. Chi provvederà ai non-ni e ad Alessandro?». Sdrammatizzo e lo rincuoro e parlo un po’ della Provvidenza...: si confessa e si comunica sere-namente.

Il sabato successivo la vice primaria di Candiolo, dotto-ressa Crotu, s’interessa per trovargli una collocazione pres-so una struttura per malati terminali: si presenta il famoso

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posto all’Hospice delle cure palliative di Lanzo Torinese; è per martedì 20 dicembre.

Christian è felice anche perché in Hospice, attorno al suo lettino, ci sono in continuità mamma e babbo che da tempo vivevano lontani per quegli screzi familiari che ca-ratterizzano questo nostro tempo da lupi. E poi la camera è piacevole e il panorama dalla finestra è un incanto; sono i monti del Canavese.

Mercoledì 21, di buon mattino, sono da lui ed entro in stanza appunto quando Christian ha appena scoperto di trovarsi nella camera e nel letto di Mario Filippo!

Il giorno dopo passano molti Scouts e venerdì 23 mi ac-cordo con Christian e i familiari per celebrare da lui la san-ta messa del Natale, con tutto il gruppo Scouts.

Domenica 25, alle ore 16:30, nella hall del suo reparto clinico addobbato a festa, su un bellissimo altare prepara-to dai diaconi Arsen e Antonello si svolge la liturgia nata-lizia. Ci sono gli esploratori e le guide con i genitori e i pa-renti del ragazzo e suor Jola. Concelebra con me don Al-berto Zanini, salesiano dell’Istituto Agnelli, insegnante di Christian ed Alessandro fino alla matura dell’anno prece-dente.

Proprio come per Mario Filippo, dopo la lettura della let-tera di Giacomo amministro l’Unzione degli infermi. Chri-stian è sereno, sorridente anche se compreso dall’estrema serietà dell’avvenimento. Risponde al dialogo liturgico con una fissità interiore che rivela come quella sua vita si stia già specchiando nell’eternità.

All’offertorio i doni: cappello, fazzoletto, cinturone e tante altri simboli dello scoutismo cattolico.

La comunione, accompagnata dai canti degli esploratori, trasforma l’ambiente in un prodigioso jamboree dove la sa-

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pienza della legge scout e la grazia del Signore diventano palpabili e penetranti nell’animo di tutti, compreso il per-sonale medico e gli altri malati presenti.

Si conclude con papà Franco in lacrime che presenta la famosa richiesta del nome del ragazzo inciso sulla «Cro-ce dei ragazzi in cielo»! Piangiamo insieme. Poi io parto per Chateau Beaulard dove al mattino inizierò gli eserci-zi spirituali preparati per gli adolescenti e gli squadriglieri Scouts con Christian in quella sera dell’8 dicembre 2005.

Venerdi 30 successivo, con una telefonata serale del ra-gazzo riceverò il sopra narrato «ammonimento» per il film Patch Adams.

In gennaio la situazione precipita. Seppur impegnato in diversi corsi di esercizi spirituali presso la casa alpina sui monti di Oulx, sovente scendo a Lanzo, magari a notte fon-da, per confortarlo. A volte è lui che mi telefona: «Don, vie-nimi vicino». Negli ultimi giorni è scosso da comprensibi-lissime paure che meritano un costante e affettuoso accom-pagnamento, oltre a quello dei suoi genitori. Quello del sa-cerdote sa rassicurarlo e parlargli del cielo e dei suoi fratel-li Scouts e soprattutto del mondo sicuro del paradiso verso cui è incamminato.

Schiantante la telefonata della notte del 6 gennaio 2006. Alle ore 2:30 mi chiama la sua mamma la quale, pur dicen-domi che è gravissimo, riesce a passarmelo. L’adolescen-te ansima, ma ce la fa a dirmi: «Vieni... muoio». Arrivo da lui con l’auto guidata dal diacono Antonello verso le 4:30; il ragazzo è sconvolto e spossato. Come Filippo mi confida: «Ho avuto terribili tentazioni che mi spingevano a bestem-miare. Don, non voglio che mi succeda: dillo al Signore e a Filippo che facciano presto e mi tolgano da questo terro-re».

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È un tremendo classico che precede le morti dei santi, quello delle tentazioni virulente. Ho l’Eucarestia, ma lui preferisce la comunione spirituale perché, nonostante la consolazione che gli porto con l’assoluzione, è troppo agi-tato e scrupoloso per ricevere in quel frangente il Corpo di Cristo.

Nei dieci giorni seguenti gli Scouts, i sacerdoti della par-rocchia e della scuola salesiana con tutti i suoi cari gli fan-no visita giornaliera. In uno di questi colloqui, con mia sorpresa, Christian mi chiama a sé per rincuorarmi... «Sta’ tranquillo, don, a quel libro non penso più; ho capito che è tutta una “vaccata”... che però mi ha fatto soffrire; avevo tanta paura per la mia fede...».

Il ragazzo si riferiva al libro di Dan Brown che un pro-fessore salesiano del quinto anno aveva presentato agli stu-denti per aiutarli a scoprire «le falsità de Il codice Da Vinci»; aveva chiesto loro di recensirlo alla luce delle loro cono-scenze storiche e poi discuterlo insieme.

Per la sua malattia Christian non poté partecipare al «li-bro forum» che si svolse in classe. Lesse il libro per suo conto, con il risultato di uno sconvolgimento e conseguen-te prostrazione morale. Per fortuna ne parlammo nel me-se di novembre così che tentai, come potei, durante i collo-qui a piè del letto, di dimostrargli come il romanzo altro non fosse che un violento pamphlet anticattolico, per nul-la scientifico perché raccoglieva ogni tipo di falsità storiche su Cristo e sulla Chiesa mettendole nella penna di un reti-cente studioso americano, espressione della lobby «antipa-pista» radicata in USA.

Riuscii a sollevarlo quando gli presentai un famoso libro del II secolo, Contro i Cristiani di Celso, dove tali storie l’au-tore pagano le aveva calunniosamente pubblicate milleot-tocentocinquanta anni prima e spiegai come furono confu-

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tate dal filosofo cristiano Origene, al quale si deve il meri-to se possediamo per intero quel testo anticristiano di cui Il codice Da Vinci è una brutta fotocopia.

Mi ricordo di avergli provato come la povertà cultura-le dell’autore americano in merito alla materia trattata nel bestseller fosse direttamente proporzionale alla sua arro-ganza impunita. Certo, le menzogne andrebbero punite, ma quando si tratta di colpire la Chiesa la legge e i giudici non agiscono in sua difesa.

Torniamo alla cronologia di quei giorni fatali. Lunedì 23 gennaio 2006, nella tarda mattinata, Christian

è colto da convulsioni squassanti: dall’Hospice l’oncologa Felicita Mosso mi telefona per rendermi edotto del rischio di morte. Per gli impegni pastorali del giorno, lo raggiun-go solo a sera tardi e lo trovo penosamente spossato e sen-za coscienza; è in coma farmacologico. Comprendo subito che siamo alla fine; più o meno gli sta succedendo quel che accadde a Mario Filippo, e penso che la sua coscienza non sarebbe riaffiorata se non nella casa del Padre.

Invece non sarà così: il mattino seguente, come già ac-cennato, sorprendendo tutti, riemerge dalla sua «catales-si»; si sveglia, chiede della mamma che è lì appresso e del papà che in quel momento è assente. Con immenso stupo-re, il ragazzo, svelando il pensiero fisso sull’aldilà, chiede dove si trova... come a dire: «Sono ancora qui o sono nel-l’altro mondo? Ditemelo, per favore». Poi raccomanda alla mamma di preoccuparsi del suo nome sulla Croce. Infine dice: «Mamma, ti prego, telefona a don Paolo, ho bisogno di parlargli».

Mi trovo in parrocchia, a sessanta chilometri da Lanzo, quando alle 10:45 suona il telefono. È Katia che mi dice, tra le lacrime e la gioia: «Don, ti passo Christian: è Christian

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che ti vuole parlare; si è svegliato e vuole dirti qualcosa, te lo passo».

Sono enormemente sorpreso e anch’io balbetto come a dire: «Christian, eccomi, sono il don, ciao, parlami, ti ascol-to con gioia...».

Al ricevitore mi giunge appena un filo di voce, dappri-ma fievole e poi un po’ più roca. Gli dico la mia contentez-za, lo conforto come posso e poi gli assicuro che parto im-mediatamente per l’Hospice. Capisco solo un «Vieni pre-sto...»; io parto e in un’ora sono da lui, che trovo nuovamen-te in coma: definitivamente sedato in attesa del Signore che venga a prenderselo.

Il Signore verrà esattamente ventiquattr’ore dopo, mer-coledì 25 gennaio.

La notizia del triste evento – per quanto attesa – giun-gerà alla comunità parrocchiale come la notte di una eclis-se solare: il Reparto Scout piomberà nel pianto, e la gente adulta si fermerà attonita. Christian era tanto conosciuto e amato che la sua agonia era sulla bocca di tutti.

«Di nuovo ci è morto un ragazzo? Di nuovo un santo in paradiso? Nuovamente il Signore è sceso a raccogliere fio-ri del nostro giardino!».

Si ripeteranno, come per Gianfranco e Gigi, tre giorni di preghiera con veglie nella chiesa antica. Fino al sabato 28 gennaio, quando la chiesa grande tornerà a stiparsi di gio-vani e adulti per l’«arrivederci in cielo».

Gli Scouts decideranno di dedicare il Reparto al suo no-me; verrà battezzato «Nichelino 1, Christian Patteri».

È scelta giusta perché Christian e suo fratello Alessan-dro furono i primissimi fanciulli a inaugurare il Reparto appena fondato il 25 gennaio 1995, facendo nascere la pri-ma branca lupetti. Lui sarebbe diventato esploratore, capo e poi un rover dalle grandi speranze.

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Stefano Costantino, il suo compagno fin dai lupetti, così lo ricorderà scrivendo di lui su una rivista dei giovani1:

Ricordi di ChristianQuesta sera ho rivisto una foto del nostro ultimo campo. È proprio così che mi piace ricordarti, con il verde dei prati e la bellezza delle montagne alle tue spalle, con l’espressio-ne serena ed entusiasta di chi ha capito il significato più profondo della vita.E pensandoci bene è cosi che ti immagino anche adesso, con gli scarponi ai piedi e la voglia di partire per una nuo-va avventura.L’avevo scattata io, quella foto. Otto mesi fa. Tu eri voluto venire al campo nonostante tutto, e nonostante tutto avevi trascorso quei giorni travolgendoci tutti con la tua energia e voglia di fare. Allo stesso modo hai proseguito nei mesi seguenti, aiutandomi a programmare le attività attraver-so il computer quando la malattia non ti consentiva più di allontanarti dall’ospedale.Mi ha sempre stupito pensare a come una persona che avrebbe avuto all’apparenza ottime ragioni per lasciar perdere tutto e pensare ai propri problemi, continuasse invece a preoccuparsi dei ragazzi che gli erano stati affi-dati, ancora prima che a se stesso. Ti ammiravo per que-sto, e mi chiedevo quanti di noi sarebbero capaci di fa-re altrettanto. Quante volte problemi ben più piccoli dei tuoi ci spingono a chiuderci in noi stessi e a dimenticar-ci di quanto le persone che ci circondano abbiano biso-gno di noi. Pure io non credo di essere un ottimo esem-pio da questo punto di vista... chissà quante volte mi sa-rà capitato di rispondere «adesso non ho tempo» perché i miei piccoli problemi mi sembrano la cosa più importan-te del mondo.Tu invece pochi giorni prima della sedazione ci mostra-vi con orgoglio il disegno che avevi fatto per il decennale

1 «Tango chiama Charlie», maggio 2006, anno XXV.

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del gruppo, pieno oltretutto di quell’ironia che non tutti si aspetterebbero di trovare in un malato terminale.Ma probabilmente è stato proprio questo il segreto che ti ha permesso di affrontare la più impegnativa delle tue av-venture senza disperarti... e senza permettere che fossimo noi a farlo.Quando la mattina del 26 gennaio ho ricevuto la notizia della tua morte, ho provato malinconia per i bei momen-ti trascorsi insieme, per i campi, per i litigi e per le gior-nate passate a divertirci come matti insieme a quei pazzi scatenati degli Esploratori; ho provato tristezza al pensie-ro di non poter più rivedere un grande amico... ma non di-sperazione.Mi sarebbe quasi sembrato ingiusto nei tuoi confronti es-sere io a disperarmi, dopo aver visto con quanta serenità e fede tu avevi affrontato il tuo ultimo viaggio. Alcuni po-trebbero pensare che Christian si comportasse così perché non aveva piena coscienza della propria condizione.Altri che sia riuscito a mantenersi sereno davanti a una prova così grande grazie a chissà quali doti sovraumane.Io credo semplicemente che fosse sorretto da una fede grande e sincera come quella di un bambino, e che avesse fatto sue le raccomandazioni lasciate da Baden Powell nel-la sua ultima lettera agli scouts: «Il vero modo di essere fe-lici è quello di procurare la felicità agli altri. Cercate di la-sciare questo mondo un po’ migliore di quanto non l’avete trovato, e quando suonerà la vostra ora di morire, potrete morire felici nella coscienza di non aver sprecato il vostro tempo, ma di aver fatto del vostro meglio».No, Christian, tu il tuo tempo non l’hai sprecato di sicuro.

Buona strada, Christianveglia su di noi, e quando le

difficoltà della vita ci sembranoessere troppo grandi da scalare,chiedi a Dio di donarci la stessaforza e lo stesso entusiasmo che

avevi quel giorno sui montidella Valle Stretta.

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DAL PARADISO I RAGAZZI CI PARLANO

Nella misura in cui il Signore mi ha chiamato ad accom-pagnare in cielo tanti ragazzi e ragazze, ha pure sostenuto il mio sacerdozio con conforti straordinari, che si sono tra-sformati in fortezza per adempiere alla mia missione.

Non posso eclissare le notizie che mi accingo a manife-starvi.

I «ragazzi della Croce» sono vivi! Sì!, in più occasioni, per grazia di Dio, si sono manifestati in modo palese e so-prannaturale.

Il fatto più toccante che ha avuto la forza di scuotere ra-dicalmente la mia vita di vecchio prete che tende a chiu-dersi nel suo vissuto è l’avvenimento (dico avvenimento) del 4 giugno 2005. Quel giorno avevo un rendez-vous a Moda-ne (Francia) con pére Laurent e con l’amministratore del-la parrocchia Denis Jhannin per intenderci su alcuni ap-puntamenti liturgici durante i campi estivi, quando la no-stra comunità giovanile abita per due mesi nella Maison Paroisselle di quella parrocchia savoiarda.

I francesi sono in serie difficoltà per le sante messe festi-ve causa la grave carenza di sacerdoti, per cui è logico che durante i nostri passaggi noi preti offriamo alcune celebra-zioni alla popolazione cattolica, che ci accoglie sempre con simpatia.

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Pére Laurent Roudille, che abita a La Chambre, nei pres-si di Chambéry, è parroco di diverse comunità. Quel sabato avrebbe celebrato l’Eucarestia feriale alla chiesa di Moda-ne alle ore 19:00. Avevo deciso di intercettarlo prima del-la santa messa, per cui mi avviai da Torino in tarda matti-nata, passai per la casa di Chateau Beaulard per il Battesi-mo della secondogenita di due capi Scouts, Lorenzo e Cin-zia, e nel primo pomeriggio, transitando per la «Croce dei ragazzi in cielo» per un breve saluto spirituale, partii per il tunnel del Frejus; Modane è poco dopo l’uscita della galle-ria lunga circa 13 chilometri.

Il traforo, alla velocità consentita di settanta chilometri orari, lo si attraversa in quattordici minuti ed io mi trovai alle ore 18:05 in prossimità dell’imbocco quando, improv-visamente, fermai la Land Rover. Ero solo, o meglio ero ac-compagnato soltanto dai due cani della parrocchia: la vec-chia Birba e il cucciolone Kyra. Fermo la macchina sul ci-glio della strada e dico a me stesso: «Che strano, non ho voglia di affrontare la galleria»... Poi mi rispondo da solo: «Ma sei partito da casa proprio per raggiungere Modane, dove hai un appuntamento!». Giusto: riparto, anche se le tempie mi pulsavano e mi sentivo come frastornato.

Percorro la metà dei cinquecento metri che mi separano dal casello d’ingresso quando torno a rallentare l’andatura: in quel momento sono sorpreso da una specie di boato in-teriore, come le voci che esplodono sugli spalti degli stadi. Le voci che urlano le cavalco anch’io ripetendo a tutto fiato, come fosse una eco: «Torna a casaaa!».

Immediatamente mi rispondo a squarcia gola: «Torno a casa!». In quel momento ho un guizzo di pensiero che mi porta alla Croce della valle; quasi intravedo i protagonisti di quelle grida...! I cani si spaventano. Senza indugio, faccio una proibitiva inversione di marcia e mi dirigo a tutta ve-

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locità verso sud, lasciando alle spalle il tunnel, in direzione del casello dell’autostrada Oulx-Torino.

Sono le ore 18:05 di sabato 4 giugno 2005.Sarei entrato alle 18:07, poiché ai caselli non c’erano altre

auto in entrata. Mi sarei trovato nel centro del tunnel alle 18:14. Lì, alle ore 18:14, esplodeva un Tir, incendiandone un secondo e le macchine in transito, facendo morire per asfis-sia dovuta ai gas della combustione tutte le persone che erano nel centro della galleria.

Mi resi conto del miracolo solo il giorno seguente anche se lungo i sessanta chilometri di autostrada mi ero incurio-sito (ma non insospettito) per le macchine del soccorso e della polizia che filavano a sirene spiegate nell’autostrada in direzione nord... Quando, al mattino della domenica, ap-presi dai media della tragedia, rimasi senza parole e pieno di gratitudine verso la Provvidenza di Dio che opera quan-do non te l’aspetti con la magnanimità del Signore.

Solo dopo capii che avevo ancora da accompagnare Chri-stian. Anzi, ripensando all’urlo che mi saliva come locuzio-ne interiore, mi ricordavo di aver captato, tra le tante tonali-tà, la vibrazione metallica della voce di Mario Filippo!

Amici lettori: quel che vi scrivo è accaduto così come ve l’ho narrato. Spiegatevelo come vi pare! Vi sarà diffici-le cancellare la sensazione che sia accaduto qualcosa di mi-sterioso, dove quella Croce e quei cuori giovani, ancora una volta hanno accarezzato i superstiti di questo nostro mon-do, come angeli custodi che accompagnano il buon cammi-no dei loro amici...

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«Pace e bene, don!»

Dalla carne disfatta, per la potenza dello Spirito Santo, lo spirito di Mario Filippo Bagliani è volato al cielo nella not-te che già volgeva all’alba del 14 luglio 2002. Come qualche volta accade nel mistero dell’amore di Dio per un dono spe-ciale della grazia, l’approdo in paradiso di Filippo sembra abbia avuto un riverbero anche sulla terra e proprio nello stesso momento in cui avveniva...

Sono stato molto restio nel decidermi a narrarvi questo episodio. Spero che lo cogliate così com’è, avvolto nell’alo-ne di casualità o di mistero, attribuendogli magari il signi-ficato che il cuore vi suggerirà di dargli, senza enfasi alcu-na.

Eccolo: sono le ore 4 e 20 minuti della domenica 14 luglio 2002, festa nazionale della Francia (dove mi trovo), quan-do mi sveglio di soprassalto e osservo le lancette dell’orolo-gio. La notte è fonda e fuori piove a dirotto; dal salone del Marie arriva ancora qualche sommessa nota musicale del-la festa ormai spenta. Mi sono svegliato proprio nell’istan-te in cui sognavo il «Pace e bene, don!» dettomi due giorni prima dal ragazzo agonizzante quando mi congedava dal suo capezzale.

Mi siedo sul letto e penso subito a Mario Filippo e mi dico: «È morto!». Sono nella camera di una pensione alpi-na che si trova a circa un chilometro dalle tende del cam-peggio dei ragazzi. Avevo affittato quel locale perché in quei giorni pioveva di continuo e le tende fradice rendeva-no problematica una sana convivenza. Attorno a me c’era-no tre adolescenti addormentati: due maschi ed una fem-mina, tutti malconci, raffreddati e anche febbricitanti, biso-gnevoli di riposare in luogo protetto dalle intemperie. Sul lettino, alla mia immediata sinistra c’è Davide sprofonda-

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to nel sonno e nel letto a castello discosto sulla destra ci so-no Cristian e Giulia che avevo prelevati la sera prima dal-l’accampamento.

Seduto sulle coperte, mi metto a pregare con la testa tra le mani, pensando all’anima di Mario Filippo che imma-gino ormai in paradiso. Non accendo la luce per evitare di svegliare i dormienti quand’ecco che odo uno strano col-po, come di una mano o di un pugno che batte la parete di cartongesso. Accendo la torcia elettrica per un rapido gi-ro d’orizzonte e scorgo vuoto il lettino di Giulia Schiavoni nella parte bassa del castello sotto a Cristian.

Evidentemente è in bagno, deduco, e il colpo dev’essere suo; mi precipito alla porta della toeletta chiamando: «Giu-lia», senza però ricevere risposta. Allora cerco di aprire, ma è chiusa dal di dentro; non esito ad esercitare la mia forza sull’uscio e il rumore sveglia di soprassalto i ragazzi, men-tre la porta si apre fragorosamente restituendomi l’adole-scente svenuta, tra la porta e la vasca ricolma. Era stata col-ta da malore lì dove si era recata in preda alla febbre men-tre io, spossato dalla stanchezza, non mi ero accorto del suo movimento. Se non mi fossi svegliato con quel «Pace e be-ne, don!», poteva succedere una disgrazia!

Con l’aiuto di Cristian e Davide la mettiamo nella cuc-cetta; si rianima subito, piange smarrita e poi sorride, si scusa...! L’assisto e la corroboro con alcune gocce di Mico-ren fino a che ritorna nel sonno normale e arrivo così al-le ore 6:45 quando odo in strada, con il fruscio della piog-gia battente, il rombo ansimante della vecchia Land Rover, quella di stanza alla Maison des Chamois, ad un’ora da noi che siamo a Nèvache.

Il motore tace davanti alla pensione, sento i passi inzup-pati che si avvicinano e poi il tocco alla porta dell’apparta-mento; apro con sulle mie labbra la stessa notizia che Luigi

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e Sandro mi stavano comunicando: «Mario Filippo è mor-to!».

«Ma tu, don, come lo sai? La mamma ha telefonato al ri-fugio verso le cinque e ci ha detto che il ragazzo era spira-to mezz’ora prima...».

Spiego l’accaduto... Luigi rientra alla Maison des Cha-mois passando dall’accampamento. Sandro si ferma nella stanza ad assistere i ragazzi. Io prendo la via di Torino do-ve sono atteso per la messa delle dieci e poi mi porterò a Pi-nerolo per rivedere il corpo inerte dell’adolescente, disteso nei lineamenti con un dolce filo di sorriso sulle labbra...

Cose dell’altro mondo?

È una «strana storia» quella dei sogni che riguardano Gian-franco Ligustri e Gigi Zappulla. Lasciatemela chiamare co-si, strana storia, quella che vi narrerò: vi parlerò di sogni in questo capitolo e parlare di sogni e coincidenze, per i cri-stiani i quali nulla hanno da spartire con la superstizione, è difficile oltre che rischioso.

In fondo il sogno è del mondo dei creduloni, e porta con sé il solo piacere di ricordare immagini che ci incuriosisco-no, ma di oggettivo non ha nulla, anche se il mondo della grazia di Dio alcune volte si è servito dei sogni e il profeta Gioele li preannunzia per i tempi che seguiranno l’avvento del Verbo incarnato. San Pietro lo ricorda ai suoi conterra-nei proprio la mattina della Pentecoste quando dice:

Oggi si realizza quello che Dio aveva annunziato per mez-zo del profeta Gioele: «I vostri figli e le vostre figlie saran-no profeti, i vostri giovani avranno sogni» (At 2,17).

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Dunque avete capito che mi dibatto nel dubbio se regi-strare o no alcuni fatti onirici che riguardano momenti di questi nostri ragazzi in cielo.

Risolvo l’enigma presentandovi qualcosa di ciò che è passato al vaglio del maggior numero di testimonianze se-rie e di particolari coincidenze, pur riaffermando che non intendo attribuire un giudizio di valore ai fatti.

D’altra parte sono certo che sono ben altre le realtà fon-danti la vostra religiosità e la vostra vita di fede... Accoglie-te quel che vi narro come piccoli corollari provvidenziali.

Ciao papà: sono quasi arrivato!

Sognarlo era il legittimo e grande desiderio di mamma Do-menica, che si portava appresso fin dalla prima settimana della morte di Gianfranco. Desiderava spasmodicamente un sogno per rivivere il volto del figlio e lo invocava nelle preghiere. Soprattutto dopo il 4 luglio 1980, a quindici gior-ni dalla tragedia, quando la cara amica Rosalia si era pre-cipitata in casa sua, portandole una notizia: «L’ho sogna-to, Gianfranco; l’ho sognato e mi ha mandata a dirti: “Co-raggio!”».

Rosalia l’aveva proprio sognato e le era apparso quasi plastico: «Come quand’era con noi!». Era allegro, al centro del capannello degli amici della parrocchia con i suoi «col-leghi» dell’animazione dei ragazzi. Era ai piedi della scalet-ta che sale al bar dell’oratorio.

Quando mi ha scorto – narra Rosalia – mi ha salutato con una gioia straordinaria dicendomi tutta la sua contentez-za e mandandomi subito a casa della sua mamma perché le dicessi: «Smettila di piangere! Dove sono mi trovo be-nissimo, non manco di nulla».

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Mamma Domenica diventerà letteralmente impaziente la settimana appresso, perché il sogno era toccato a Gio-vanni Ligustri, suo marito. Al fondo della prima decade di quel mese estivo, il papà di Gianfranco, nell’immaginazio-ne, in una notte afosa fu davvero visitato dal figlio. A so-gno terminato si svegliò triste, perché la «visione» gli era svanita nel niente e non gli rimase che raccontarla a mam-ma Domenica, svegliata di soprassalto.

Ho «visto» nostro figlio alla testa di una colonna di ani-mali condotti alla cavezza da ragazzi vestiti come i sacer-doti quando vanno a celebrare la messa – dirà Giovan-ni alla sua sposa esterrefatta. Gianfranco conduceva alla cavezza una specie di cammello, oppure un dromedario. Sopra c’era un personaggio luminoso che non saprei dirti chi fosse..., ma anche gli altri ragazzi della carovana por-tavano al passo animali così con sopra persone importan-ti, come fossero i magi del presepio...Passandomi davanti – io ero sulla soglia del cancello del-la nostra casa – mi salutò con affetto e con la mano destra mi gridò: «Ciao papà, non ti preoccupare per me, sto mol-to bene e sono quasi arrivato! Risali la carovana, va’ in fon-do ad aiutare il nonno perché ne ha tanto bisogno».

Papà Ligustri si precipita subito verso il fondo, scalando animali e conducenti con difficoltà perché la via Leopar-di è molto stretta... Inoltrandosi verso la coda della colon-na si rende conto che la maestosità degli animali decresce; è sempre il sogno che parla. Incontra in ultimo semplici ca-valli con il cavaliere sulla groppa e poi asini da soma con sopra masserizie svariate.

Infine incontro, ultimo, mio padre! È proprio lui che ti-ra avanti da solo, con grande fatica proprio come fosse un giumento, un carro massiccio dalle ruote piene e stracari-co di masserizie e mi invoca: «Giovanni, Giovanni, aiuta-

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mi perché non ce la faccio più. Aiutami, spingi con me!». Me ne resto sconvolto per quella fatica ma prima anco-ra di poterlo aiutare mi sveglio all’improvviso, madido di sudore...

Quando Giovanni mi narrerà il sogno io resterò sopra pensiero. Mi ricordo di avergli detto istintivamente: «Sai quanto Gianfranco amava suo nonno [era deceduto da po-co più di un anno...]. Anche se è solo un sogno, ritienila co-me una richiesta di preghiera di suffragio».

La mia sorpresa si drammatizza a causa di un discor-so fattomi dal vicario episcopale don Giorgio Gonella pro-prio il giorno del funerale. In quell’occasione, il sacerdote mi disse testualmente:

Riflettendo sul tuo Gianfranco, vedo chiaramente il dito di Dio che si serve di tutto e di tutti per muovere le cose al bene e alla santità.Devi sapere che fui compagno di scuola di Giovanni, il babbo di Gianfranco; quando questi era fanciullo frequen-tava le classi elementari a Villafranca Piemonte ed erava-mo nella stessa classe, nello stesso banco! Era un discolo Giovannino, anche più dei ragazzi di quel nostro tempo. D’altra parte vivevamo in tempo di guerra e... anche i fanciulli erano senza pace.Ma il discorso vale molto di più per il nonno il quale af-fiancava i partigiani, fu perfino decorato. Nelle nostre val-li, senza togliere merito alla resistenza, i partigiani era-no rinomati anche per le scorribande e razzie nelle case e nelle cascine dalle quali qualche volta se ne partivano con carri pieni di masserizie... e con i giumenti e i vitelli che prelevavano nelle stalle per rifocillare le salmerie del-le bande arroccate sui monti. La guerra era così!

Quel carro pesante, carico di mobili, trainato a mano, quella preghiera di Gianfranco «va ad aiutare il nonno» li ho

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istintivamente raccolti come un invito della Provvidenza che mantiene vivo il Corpo mistico, di noi qui, nella storia e dei nostri cari in cielo purganti e gaudenti della visione di Dio. Consigliai a Giovanni di pregare per il genitore.

Nei giorni seguenti papà Giovanni fece celebrare qual-che santa messa in suffragio del vegliardo; il sogno si posò nel cuore suo e di mamma Domenica accrescendovi il pa-trimonio dei ricordi.

Non manco di nulla

La fantasia più confortevole toccherà alla madre dell’adole-scente la notte tra il venerdì 10 e sabato 11 ottobre di quel-l’anno 1980. Quella sera la donna si era coricata intorno al-le 22:00 ma il sonno tardava a venire. Si era messa in testa che lo doveva sognare quella notte. Aveva sentito rintocca-re la mezzanotte prima di assopirsi.

Verso l’una era già sveglia e l’immaginazione che l’af-fascinava le era venuta e se ne era ripartita veloce come il vento. La figura di Gianfranco in quel sogno di metà notte le appare tutta protesa nel gioco con i soliti amici che bru-licano il cortile dell’oratorio. La gran faccia rossa che ride fracassona e si schernisce all’incontro con sua madre.

La mamma lo redarguisce e lo implora: «Gianfranco, a casa ti aspettiamo da tre mesi, torna a casa subito!». Dopo una breve corsa nel prato il ragazzo si distende su un sacco a pelo steso sopra l’erba fresca del ciglio, poi si toglie scar-pe e calze fino a far apparire alla luce del sole due piedi nu-di e tumefatti... Sembrano i piedi sbrecciati di un lebbroso! La madre scoppia in un’esclamazione sgomenta e si preci-pita sull’adolescente che la trattiene con un sorriso «auto-bloccante»: «No, mamma, fermati! Non toccarli i miei piedi

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e non darti pena: sono guariti ormai: sai, ora sono arrivato e salgo all’ultimo piano. Ho i piedi così perché ho cammi-nato tanto per i monti a cercare i ragazzi smarriti».

A questo punto nel sogno subentra il classico «don» che se lo prende sottobraccio e, allegri tutti e due, s’incammi-nano lungo la scala esterna dell’oratorio mentre la buona donna protesta, perché il figlio è da curare e se lo vuole portare a casa! «Sta’ serena, mamma, lassù c’è di tutto e i piedi staranno bene... Io sono molto contento di andare...». Lo accompagna fin sulla porta alla sommità della scala ma il don non entra. Gianfranco la saluta ancora una volta, di-cendole: «Mamma, qui non manco di nulla» e poi sparisce dentro.

La madre è sgomenta vedendo il figlio scomparire, ma è subito colta da una sorpresa; l’oratorio le appare rifatto di zecca: nuovo, bello e alto come un grattacielo che si per-de nello spazio. Tutto è svanito e Domenica è già sveglia e affannata in quel letto segnato da affannose veglie. A lato Giovanni dorme ignaro. È lei, questa volta, a svegliarlo per narrargli l’avvenimento.

La stessa sera, a settecento chilometri a sud, in una stan-za del pensionato Domus Sacerdotalis Vaticana di via Tra-spontina – una casa per sacerdoti di passaggio per Roma – accade una coincidenza di non facile interpretazione. Sono le 22:30: i sacerdoti si ritirano nelle camere. C’è anche il sa-cerdote di Gianfranco, impegnato nella città eterna con gli esperti che attendono alla stesura del primo Catechismo dei Ragazzi voluto dalla CEI.

A dire il vero, quella sera il sacerdote si sente dentro uno stato d’animo particolarmente emotivo. Per quasi due ore aveva ascoltato e seguito con il cuore commosso il discorso di due anzianissimi preti lituani, martiri del nostro tempo. Correva in quei giorni il Sinodo mondiale dei vescovi e il

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capo del Cremlino, Leonid Breznev, aveva permesso a due preti cattolici lituani di partecipare in rappresentanza del-la loro cristianità.

Sarà stato forse per smaltire la commozione o per pre-gare passeggiando sul lungo terrazzo che percorre l’ulti-mo isolato di destra della via Conciliazione, proprio sopra l’edificio della Radio Vaticana, che quel «don» quella sera si trasforma in chierico peripatetico, camminando su e giù fin verso la mezzanotte, quando un acquazzone lo spinge «sotto coperta».

Passeggiava con la corona del rosario e ogni tanto guar-dava le due finestre ancora accese del palazzo apostolico, ultimo piano d’angolo, e pensava: «Pietro lavora ancora!».

A mezzanotte ridiscende al quarto piano ed entra nella stanza 412. Ma non è ancora determinato a lasciarsi cogliere da Morfeo: con la penna tra le dita verga una lettera indiriz-zata ai giovani delle équipe di animatori che nell’estate tra-scorsa avevano condotto i ragazzi lungo i sentieri dei monti...

Un particolare curioso, legato al sogno dei piedi soffe-renti che la mamma Domenica sta immaginando proprio in quel frangente (sono le 24:30 dell’11 ottobre) si trova nel contenuto della lettera che il sacerdote in quel momento sta scrivendo. Leggiamola fino al punto focale. Scrive il don:

Carissimo ragazzo/a della équipe,con la messa di domenica 26 ottobre, in suffragio di Gian-franco e Lello e in ringraziamento per il dono delle loro brevi vite in mezzo a noi, inizia l’anno pastorale della co-munità dei Giovani.Mi pare che non sia fuori luogo che ti esprima il sentimen-to di gratitudine che mi sta nel cuore...Di quanti piatti lavati, quante pene, fatiche, quante corse per i dirupi ti sono debitore, a nome di Gesù!Pensa: i passi calcati in montagna da chi cammina per il Signore sono celebrati dalla stessa Bibbia che chiama ad-

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dirittura beati quei piedi: come sono belli, sui monti, i pie-di del messaggero di lieti annunzi, che annunciano la pa-ce. Beati quei piedi... (Isaia 52,7).Questa frase mi fa pensare al Gianfranco, al terribile mo-mento quando l’elicottero me lo consegnò esanime. A quando gli tolsero le calzature e anche i suoi piedi appar-vero nudi... A quella fotografia ultima dove il ragazzo è ri-tratto seduto sulla sponda del letto con i nudi piedi pen-zoloni.

È a quel punto che il sacerdote s’interrompe e ripen-sa per un fugace momento al sogno del papà del ragazzo: quel sogno nel quale si staglia il quadro in cui Gianfranco saluta il genitore e gli dice: «Sono quasi arrivato...».

Quasi arrivato...

Un «quasi» che da mesi si è depositato nella mente del sa-cerdote e gli catalizza la preghiera quotidiana. Un «qua-si arrivato» che in quell’ora notturna ispira al don un mo-mento di intensa orazione rivolta così:

Oh Signore, di quante consolazioni e fortunate coinciden-ze la tua Provvidenza ha fatto oggetto me e tutta la mia comunità di giovani... Come sarebbe bello, Signore, se vo-lessi donarmi ancora un segno della tua Misericordia che mi dica... «Sì, Gianfranco è arrivato...!».

Pregò così, inconsciamente e molto intensamente quel sacerdote in quel preciso momento notturno mentre, a set-tecento chilometri, la mamma Domenica sognava il suo ra-gazzo dai piedi sfasciati per il tanto camminare... che en-trava in paradiso passando dalla scaletta dell’oratorio! E diceva a sua madre: «Mamma, va’ tranquilla, sono arriva-to, qui non manco di nulla!».

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Ho messo un piede in fallo

«Ma come mai è caduto nel burrone Gianfranco, mio fi-glio?», si domandava mamma Domenica sconsolata... Da quell’assillo, la madre del ragazzo è finalmente rasserena-ta!

Per quella morte la madre del ragazzo è finalmente ras-segnata. Tutta quanta la famiglia si è convinta che quella morte è «venuta da lontano». D’altra parte è giusto vedere la Provvidenza nelle vicende che hanno concomitanza con la vita e con la morte, per dolorose che siano. Tuttavia la buona mamma fino alla notte dell’Epifania 1981 è rimasta scossa da un dubbio: la meccanica dell’incidente.

Come ha fatto? Com’è stato possibile cadere da quel diru-po dietro casa? Lui, atleta, cintura nera del Ten Sai... foto-grafato sui tetti a perpendicolo nelle faticose giornate del campo di lavoro in Friuli.

Le labili immagini della notte tra il 5 e il 6 gennaio 1981 la placheranno... Sognerà di trovarsi sveglia seduta sul let-to accanto al marito addormentato. Con uno sguardo al-l’orologio leggerà le ore 2:10 del 6 gennaio: sognerà di sve-gliare il marito preoccupata perché il figlio non è ancora rientrato dalla parrocchia. Penserà nel sogno: «Se è anco-ra all’oratorio, guai a lui e ai preti che lo trattengono così fuori ora...». In quell’attimo il rumore del motore di un’au-to che sosta e riparte. La porta di casa si apre e Gianfranco fa capolino trafelato e ridente, nell’atteggiamento solito di quando deve ripararsi dalla giusta rampogna. Ha il braccio destro al collo – narra la mamma –, il polso è ingessato.

Si verifica ancora una volta il tandem: l’adolescente e il sacerdote. «Scusami mamma, ho fatto tardi perché il don mi ha portato all’Ospedale S. Croce a Moncalieri. Come ve-di mi sono rotto... È stata una cosa semplicissima: ero con-

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tento, di fretta e su una pietra mi è scivolato un piede e giù, giù fino in fondo... Avevo quelle scarpe da ginnastica Adi-das ed era scivoloso».

La signora Domenica si sveglia: scuote il marito e narra il contenuto dell’immaginazione e insieme guardano l’oro-logio, sono le ore 2:10 precise.

Fino a qui non ci sarebbero coincidenze speciali, se quel braccio destro al collo non corrispondesse alla realtà della frattura al polso destro, perché se l’era procurata nella ca-duta e tuttavia era rimasta ignota alla donna.

La notte del 25 giugno 1980 su quella montagna era av-venuta una spruzzatina di neve e le pietre erano partico-larmente viscide... Gianfranco cadendo non presentava fe-rite esteriori se non il polso rotto, probabilmente urtando l’asperità di una roccia. Nella rigidità cadaverica, rivestito di nuovo con il corpo lavato, la frattura al polso destro era poco visibile. D’altra parte neppure le fotografie del cada-vere fatte dalla polizia francese permettono d’identificarvi la ferita, conosciuta dai pochi che rivestirono il ragazzo e dal medico di Bardonecchia. La cosa non fu narrata subito ai genitori per una semplice dimenticanza.

Quel giorno Robertino Filippi confida:

Venerdì mattina 27 giugno appresi dai giornali della mor-te di Gianfranco: ma a me accadde qualcosa di importan-te la notte che precedette il mercoledì 25.Sognai, martedì 24, un caro amico (carissimo) che tuttavia non riuscivo ad identificare. Un amico che dalla Maison corse fuori e si portò veloce sopra un sasso piatto e lun-go in un luogo che rivedo in un modo indelebile nella mia fantasia. Scivolò e precipitò nel torrente sottostante.

Il sogno è eccezionalmente vivido nella mente del ragaz-zo, tanto che quel mattino del sogno il suo stato psichico sarà talmente stressato da impedirgli di andare alla bouti-

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que di mamma. Roberto si confida con i genitori e soprat-tutto con l’amico Giorgio Ravetta in quella stessa mattina-ta, quando nessuna notizia aveva ancora raggiunto Niche-lino.

Venuto in Valle Stretta, in meno di quindici minuti Ro-berto trova il luogo: e anzi descrive una dinamica che ri-sulta convincente. Perché mai Roberto sognò Gianfranco? C’era qualche nesso, qualche passato rapporto di amicizia? C’era, sì! Gianfranco l’anno prima era l’allenatore di karatè di Robertino alla palestra Ten Sai di Nichelino: da quel mo-mento divennero molto amici.

Si potrebbe valutare anche l’ora del decesso servendo-si di una strana coincidenza. Si avevano due soli dati: ore 14:30 la conclusione del colloquio con il don al cartello «Qui il Signore parla». Ore 15:00 il tempo del collegamento radio con Chateau; doveva eseguirlo Gianfranco, sempre pun-tuale ai suoi doveri, specie se si trattava della radio.

Trenta minuti all’interno dei quali si deve necessaria-mente restringere l’evento della morte, la quale – dico-no i medici – fu istantanea. Nel tonfo verso il basso, roto-lando, si interruppe il bulbo spinale provocando il deces-so all’istante. D’altra parte, nonostante sedici ore trascorse sott’acqua, nello stomaco e nei polmoni del cadavere non entrò una sola goccia dell’acqua del torrente.

Vi sono due curiosi episodi inerenti all’ora. Il padre del campione nazionale di karatè Maria Grazia

Ferrero è titolare e proprietario della palestra locale. Qual-che istante precedente alle ore 14:30, in quel mercoledì 25 scende nell’atrio del locale dovendo prelevare l’auto. Tro-va a terra uno dei tre quadri appesi alla parete: è il qua-dro che solennizza un diploma del Gianfranco campione... Si stupisce fortemente sia perché il vetro non è saltato e sia per il «come» l’oggetto si sia staccato dal chiodo, ben fisso.

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Ne discuterà a sera con amici, proprio mentre lassù si av-viano le ricerche.

I posti del paradiso

Di tutti i sogni, ha suscitato maggior commozione quel-lo che investe i due sacerdoti della parrocchia, anche se la protagonista delle immaginazioni continua ad essere mamma Domenica.

Il 21 dicembre 1982 Gigi Zappulla, il cantautore di Gian-franco, se ne va anche lui al Signore. Muore quella notte, come si è detto, tra le braccia della mamma e del suo con-fessore che sono al suo capezzale. Erano passate da poco le ore 2:30.

Alle ore 23:00 del giorno 20 il sacerdote, lasciando la parrocchia per raggiungere l’abitazione di Gigi, si congedò dal confratello don Carlo Fassino con un profetico: «Torne-rò dopo il consummatum est». «Non fare il tragico», gli dis-se don Carlo e poi la porta della canonica si richiuse dietro le spalle del prete.

I funerali del ragazzo si svolgeranno l’antivigilia di Na-tale.

Circa due settimane dopo, il sabato sera precedente la festività dell’Epifania (che in quegli anni era stata sposta-ta dal suo giorno liturgico in seguito ad una inusitata abo-lizione di feste religiose richiesta dai sindacati ed accolta dal governo, alcune delle quali ristabilite per la protesta del popolo lombardo...) i due sacerdoti durante la cena discor-sero sulla vita eterna e sui loro due meravigliosi ragazzi or-mai insieme in cielo.

Diceva don Carlo al confratello: «Sai, che siano in para-diso non ho dubbi, ma penso che Gigi abbia superato Gian-

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franco. Una malattia così dolorosa superata con tale digni-tà... quasi senza tralasciare i suoi impegni della parrocchia deve forse struggere il cuore di Gesù». L’altro sacerdote an-nuisce. «In fondo Gianfranco era sì un santo ragazzo ma la morte l’ha raggiunto senza preavviso», si andavano dicen-do i due.

Il giorno dopo, domenica mattina, si celebrò la liturgia dell’Epifania. Alla messa, dalla tendina del confessionale si affaccia la madre di Gianfranco, imbronciata.

«Domenica, che c’è di nuovo stamattina?», le chiede il sacerdote osservandone la cera.

«C’è che ho fatto un nuovo sogno ma mi vergogno di raccontartelo... Ho sognato», dirà dopo essere stata incorag-giata, «che mi trovavo nel cortile dell’oratorio: sempre lì mi viene a far visita mio figlio! Era l’imbrunire ma il cortile era zeppo di ragazzi contenti: tutti avevano un libro in ma-no... ed uno me ne offrì un esemplare. Era il libro di Gian-franco che tu dovresti aver scritto... A proposito, quando uscirà?».

«Prima di Pasqua: è già in mano all’editore...». «Ho sognato appunto che mi viene offerto il libro... ma

io non resisto e sto per buttarlo via piangendo e gridando: “Non è il libro che voglio, è mio figlio che desidero!”».

In quello stesso istante la voce severa di Gianfranco che la rimprovera con queste parole: «Mamma, cosa fai? Non fare così; te l’ho detto che sto bene qui!...».

«“Oh, Gianfranco”, dico io, “adesso dove sei? Ti sento ma non ti vedo...!”. E intanto lo cercavo con affanno tra i ragaz-zi del cortile che lasciavano lunghe ombre per terra perché il sole era ormai dietro ai monti...».

Riprende la voce di Gianfranco: «Mamma, non cercarmi qui; non sono nel cortile, alza gli occhi e guarda bene... non mi vedi? Sono il secondo della prima fila!».

Il secondo della prima fila...!

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LA SOFFERENZA DEL PRETE

Sì, le morti giovani, le morti dei «ragazzi della croce» han-no segnato dolorosamente la mia esistenza ed anche dila-niato il mio cuore in questi miei lunghi anni di vita.

Qualcuno dirà: «È la tua missione, ti sarai ben fatto il callo con tutti gli occhi che avrai chiuso nel tuo ministero di prete... E i medici, mica li guariscono tutti i pazienti, e quando un malato muore devono sempre piangere...?».

Io non so se i medici piangano o no per le morti dei lo-ro pazienti; certamente qualche volta accadrà pure a loro di piangere. So però che una qualche differenza tra un medi-co e un prete deve pur esserci.

Il medico, quando la sua professione la svolge con la mente e con tutto il cuore perché la ritiene una missione, i pazienti li ama e quando gli muoiono di sicuro ne soffre. Forse una sfumatura che fa la differenza c’è: i pazienti del medico, per quanto amati, sono pur sempre «clienti».

Per un sacerdote non è esattamente così.Per un prete la persona, il parrocchiano, il Christian o

chi per lui è un suo familiare, un suo figlio, perché il prete ha una famiglia sola: la comunità, l’Ecclesia.

E quando ti muore un Gianfranco, un Gigi, una Paola, una Antonietta, un Antoine, un Mario Filippo, un Chri-stian ecc., ti muore un figlio. Per me i ragazzi della Croix des garçons en ciel sono duecento figli miei!

Colgo l’occasione per presentarveli uno ad uno ripor-tando i nomi incisi sulla Croce, iniziando da Gianfranco e finendo con Christian... No, perché mentre scrivo, dopo Christian ci sono state già altre chiamate e incisi altri no-mi, purtroppo.

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Ligustri GianfrancoZappulla GigiParadiso DonataPolizzi AchilleVaccotto ElioAstole RobertoDe Conto EnricoD’Amore GiorgioSalati LelloDe Vecchi RobertoManzo LorellaGiufra Suor EnricaGola GianniRevello StefanoZen ClaraPautasso SilvanoAfanetti PippoRena PiergiorgioBarberio RoccoGiacobbe ManuelaBologna EnricoMusso MariaRena EzioDeida FabrizioBuzzi GiovanniLach FrancoMartone DanieleFerrero MarcoGilardo GiancarloColledan Davide

Barberio GianlucaCarbone StefaniaColucci LucaCagluso MorrisGrella ElisaDi Miscio Maria

AntonellaTrenta GianlucaAmbrosino PasqualeMorieri MaurizioTolomei NelloCarbone FrancescoBartone AntonioMarian EnricoBobino GualtieroZannoni PietroBeltramone GiovannaCavallotto SandroMaterazzo EnzaRacca PaoloBechis MaurizioZeoli RobertoFiarè FrancescoDe Casare RobertoSenatore CostantinoCaione AnnamariaFerrero Pier GiacomoDe Guida AlessandroBarbero NormaArmeni Mario

Ragazzi in cielo fino ad ora scritti sulla Croce

Canistraro GigiAugello MarinaDivià MarioCarozzi CarloSalerno AndreaPatruno FabioMolfese LinoRosa GianfrancoPatringa Maria GraziaBueti PaoloDe Boisredon CybelèLa Caille d’Esse

AntoineZafarana MarcoFiorindo MarcoFerrasin PietroDi Caro VincenzoGenovese FrancescoAvataneo MargheritaLigustri GiovanniArnone MarioGori PieroPirotta GiuseppeVerdoliva FrancescaCatricalà MarcoMaglienti TamaraMorabito Gian NicolaRusso AngeloNicastro DamianoDe Luca Valerio

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Curri AuroraGrillo RobertoSoffiati RobyLavagnino DavideGurnari AlessioMariani UlisseTaronna ClaudioBiasi PinoDamiani GiuseppeSantandrea MirkoFollesa AndreaPrato FabrizioCucchiarale FrancescoTebaldi LorianoDi Giangiego RiccardoDrago GianfrancoCosta FabioIenco MassimilianoPisano DomenicoSoriano FilippoPacchiaritti GiacomoArduino PaolaRivetto MorenoBagliani Mario FilippoCea RoccoSappio JolandaDamasio GiovannaNicastro GiuseppeCiancia DanieleBrindicci DeniseLamanna VincenzoBoccucci RobertoSchierano LucianoMaiorana Marco

Melidoro MicheleScavuzza PaolaGrimaldi Maria

RosariaMenillo ImmacolataGioiello MarcellaRe ToninoLardon MicheleGraziani LucaZeoli EmanuelaSammartano MarcoBonanno MariaLa Cascia SimonaLa Cascia DanieleCantalupo GiuseppeBauducco GiuseppeTosatto MariaFerrara MichelangeloGuasco ClaudioTagliatela EttoreNguye KarinTroccolo RoccoMeglio ChristianDe Leo DavideDel Gaizo MarcoDella Malva RobertoScarpelli FrancescoAime MassimoCampione MarinaBelli EttoreProstamo AntonioPanigari DanieleMacaluso AntonioTerrazzino Carlo

Carli RobertaNicosia FrancoCastagnesi FerruccioIannone SergioValerio GiovanniniGatti FedericoSiviero PatriziaLombardi NinoBenso FrancoBuzzacarin FabioGalleano FabioMurdocco AlessandroQuaglio ElenaBoretto PaoloBorgatta RenataVaira DanieleGhiglione GianfrancoUrso AdrianoSunzeri FilippoCapello ClaudioOstoni AntoniaTorraco GioacchinoComoglio AdrianoSasso GabrieleCamerano WalterCaccamo RobertoCarbone GiuseppePatteri ChristianDal Molin LucaPagani Benito

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INDICE

Presentazione ................................................................ pag. 3

Gianfranco ..................................................................» 7Gigi .............................................................................» 61Antoine .......................................................................» 73Antonella ....................................................................» 81Paola ............................................................................» 91Mario Filippo ..............................................................» 99Christian .....................................................................» 153

Dal Paradiso i ragazzi ci parlano ...................................» 171La sofferenza del prete ...................................................» 189

Ragazzi in cielo fino ad ora scritti sulla Croce ..................» 190