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I «musei-mondo» dell’arte contemporanea. Tracce locali di percorsi globali. Il museo, l’istituzione della memoria, storicamente luogo di costruzione dell’identità, anzi nato, in Occidente, per generare identità nazionale, riconoscibilità della propria cultura, o addirittura della propria potenza nel sovrastare la cultura altrui, si forma sostanzialmente intorno ad una triplice alleanza tra le attività di possesso, conservazione ed esposizione. Il museo si presenta tradizionalmente come museo di collezione, in cui, come osserva Mieke Bal, «la preservazione è la precondizione dell’esposizione, così come la proprietà è la precondizione della conservazione» secondo un sistema di sussistenza analogo e intimamente connesso alla nazione. 1 Nei musei di collezione l’oggetto esposto assume un’aura sacrale, sia come «prodotto interno» che come bene conquistato e preservato, attraverso una scrupolosa attività di «storage». Pertanto, come osserva Bodei, «I musei costituiscono una specie di grande recinto templare (templum ha la radice di temno in greco, tagliare, separare) o di cornice che separa, come in un quadro, la zona di valore estetico da quella di valore non estetico», ma il cui potere simbolico, immateriale, di resa, di tenuta nazionalistica, investe entrambe. 2 Ciò che viene esposto all’ammirazione del pubblico è tutto ciò che è stato prodotto e conquistato, in termini di arte, cultura, tecnica, scienza, dalla nazione. Il funzionamento del museo di collezione si basa su un meccanismo capitalistico finalizzato al profitto, soprattutto simbolico, relativo alla crescita, alla potenza e alla superiorità nazionale. In questo senso, la funzione espositiva viene intesa come ingranaggio ultimo di un meccanismo colonialista e capitalista teso alla riproduzione culturale della nazione, attraverso la fruizione, da parte del pubblico, degli oggetti (d’arte e non) conquistati, accumulati, conservati ed esposti. Ma il sogno conservatore del museo-nazione, così come quello della nazione stessa, è destinato a scomparire sotto i colpi delle correnti centrifughe attivate dalla globalizzazione avanzata. Il museo come enclosure nazionalista avvitata su se stessa viene sopraffatta dai vari flussi in movimento tra le nazioni, o dalle «sfere pubbliche diasporiche», secondo la definizione di Arjun Appadurai, perdendo di credibilità come punto di riferimento culturale esclusivo. 3 Nell’era globale, il museo smette necessariamente di essere una riserva, un luogo di confinamento, una eterotopia, come direbbe Foucault, in cui il visitatore viene isolato dal mondo e dai suoi movimenti, finendo per ritrovarsi imprigionato in una categoria obsoleta dello spazio-tempo, in una cronotopia naïve o 1 M. Bal, Double Exposures, The Subject of Cultural Analysis, New York-London, Routledge, 1996, p. 65 (trad. mia). 2 R. Bodei, «Riflessioni su alcune premesse dell’arte interattiva», in S. Vassallo e A. Di Brino (a cura di), Arte tra azione e contemplazione, Ets, Pisa, 2004, p. 164. 3 A. Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization ( 1996); trad. Modernità in polvere, Meltemi, Milano, 2001, p.17. E’ nota la tesi di Appadurai secondo cui la postmodernità è caratterizzata da una diffusa e disarticolata deterritorializzazione di persone, immagini, tecnologie, capitali, ideologie, che egli definisce, rispettivamente, come «ethnoscapes», «mediascapes», «technoscapes», «financescapes», e «ideoscapes», che mette a repentaglio qualsiasi forma di unità culturale presumibilmente omogenea e chiusa da confini spazialmente definiti, come lo stato-nazione.

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I «musei-mondo» dell’arte contemporanea. Tracce locali di percorsi globali.

Il museo, l’istituzione della memoria, storicamente luogo di costruzione dell’identità, anzi nato, in

Occidente, per generare identità nazionale, riconoscibilità della propria cultura, o addirittura della

propria potenza nel sovrastare la cultura altrui, si forma sostanzialmente intorno ad una triplice

alleanza tra le attività di possesso, conservazione ed esposizione. Il museo si presenta

tradizionalmente come museo di collezione, in cui, come osserva Mieke Bal, «la preservazione è la

precondizione dell’esposizione, così come la proprietà è la precondizione della conservazione»

secondo un sistema di sussistenza analogo e intimamente connesso alla nazione.1 Nei musei di

collezione l’oggetto esposto assume un’aura sacrale, sia come «prodotto interno» che come bene

conquistato e preservato, attraverso una scrupolosa attività di «storage». Pertanto, come osserva

Bodei, «I musei costituiscono una specie di grande recinto templare (templum ha la radice di temno

in greco, tagliare, separare) o di cornice che separa, come in un quadro, la zona di valore estetico da

quella di valore non estetico», ma il cui potere simbolico, immateriale, di resa, di tenuta

nazionalistica, investe entrambe.2 Ciò che viene esposto all’ammirazione del pubblico è tutto ciò

che è stato prodotto e conquistato, in termini di arte, cultura, tecnica, scienza, dalla nazione.

Il funzionamento del museo di collezione si basa su un meccanismo capitalistico finalizzato al

profitto, soprattutto simbolico, relativo alla crescita, alla potenza e alla superiorità nazionale. In

questo senso, la funzione espositiva viene intesa come ingranaggio ultimo di un meccanismo

colonialista e capitalista teso alla riproduzione culturale della nazione, attraverso la fruizione, da

parte del pubblico, degli oggetti (d’arte e non) conquistati, accumulati, conservati ed esposti. Ma il

sogno conservatore del museo-nazione, così come quello della nazione stessa, è destinato a

scomparire sotto i colpi delle correnti centrifughe attivate dalla globalizzazione avanzata.

Il museo come enclosure nazionalista avvitata su se stessa viene sopraffatta dai vari flussi in

movimento tra le nazioni, o dalle «sfere pubbliche diasporiche», secondo la definizione di Arjun

Appadurai, perdendo di credibilità come punto di riferimento culturale esclusivo.3 Nell’era globale,

il museo smette necessariamente di essere una riserva, un luogo di confinamento, una eterotopia,

come direbbe Foucault, in cui il visitatore viene isolato dal mondo e dai suoi movimenti, finendo

per ritrovarsi imprigionato in una categoria obsoleta dello spazio-tempo, in una cronotopia naïve o                                                                                                                          1 M. Bal, Double Exposures, The Subject of Cultural Analysis, New York-London, Routledge, 1996, p. 65 (trad. mia). 2 R. Bodei, «Riflessioni su alcune premesse dell’arte interattiva», in S. Vassallo e A. Di Brino (a cura di), Arte tra azione e contemplazione, Ets, Pisa, 2004, p. 164. 3 A. Appadurai, Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization ( 1996); trad. Modernità in polvere, Meltemi, Milano, 2001, p.17. E’ nota la tesi di Appadurai secondo cui la postmodernità è caratterizzata da una diffusa e disarticolata deterritorializzazione di persone, immagini, tecnologie, capitali, ideologie, che egli definisce, rispettivamente, come «ethnoscapes», «mediascapes», «technoscapes», «financescapes», e «ideoscapes», che mette a repentaglio qualsiasi forma di unità culturale presumibilmente omogenea e chiusa da confini spazialmente definiti, come lo stato-nazione.

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anacronistica, nel peggiore dei casi, nostalgica. Rispetto alle richieste dei tempi attuali, il museo,

nella sua forma e significato tradizionali, non può ch considerarsi come una tomba, un mausoleo,

un mo(nu)mento del passato, vestigia di se stesso, un resto della nazione, quel che rimane o, si

potrebbe dire, il limite di tutta una cultura.

Sembra che il museo, come istituzione della identità, della tradizione e della memoria nazionale,

condivida la stessa inesorabile fase, in atto oramai da decenni, di declino fisico e ideologico della

nazione, come conseguenza dei vari processi di migrazione innescati dall’economia globale. Infatti,

l’istituzione museale prende atto della propria precarietà e si trasforma; un processo innescato

soprattutto dall’arte contemporanea, con la sua accentuata mobilità, ibridità e assenza di una

centralità definita, come prodotto e, insieme, produttrice delle moderna deterritotializzazione alla

quale Appadurai fa riferimento.

Il museo, nel contesto europeo, subisce un’azione erosiva da parte dell’arte fin dai tempi

dell’avanguardia del primo Novecento, e proseguita dai movimenti artistici degli anni Sessanta e

Settanta, quando l’arte andava controcorrente, destava dibattiti, polemiche, reazioni anche violente,

sia tra gli addetti del settore che nell’opinione pubblica, proprio perché annunciava qualcosa di

diverso rispetto al senso comune, agli stili consolidati e ai contesti ufficiali.4 L’implicazione nelle

questioni politiche, nella dimensione sociale, la ribellione verso i luoghi e tutte le manifestazioni

istituzionali, con la conseguente messa in discussione della loro legittimità e funzione, fece sì che

anche i musei d’arte si aprissero verso le ricerche artistiche in atto. Ma è soprattutto la

configurazione dell’arte come esperienza relazionale, maturata negli ultimi decenni, con un’enfasi

sulla responsabilità etica, sulle possibilità interattive, sulla fuoriuscita dai luoghi canonici, quali

appunto i musei, per distribuirsi sul territorio, allacciare un confronto creativo con lo spazio,

definire nuove soggettività (sia artistiche che di pubblico), ad aver cambiato radicalmente la natura

del luogo dell’arte – oltre che dell’oggetto artistico stesso.5

Un’arte che vive fuori dai tradizionali luoghi dell’Arte, capace di creare essa stessa dei nuovi spazi

relazionali, attivando stati di incontro, modalità di convivialità, produzione di partecipazione

sociale, in cui l’interazione del pubblico è parte sostanziale dell’opera d’arte, il fare arte, l’agire

estetico acquista una dimensione e un valore sociale. Si tratta di un tipo di arte che implica, come

sostiene Stuart Hall, una trasformazione del museo in «post-museo», ovvero una relativizzazione

                                                                                                                         4 Mi riferisco, in special modo, al movimento Dada, con la sua enfasi sull’identificazione tra arte e vita, la creazione collettiva, il coinvolgimento del fruitore, il caso, la dissacrazione, la parodia, il cortocircuito del paradosso, la creatività critica; e ai movimenti dal Situazionismo al Fluxus, che hanno ripreso, ripensato e sviluppato questi temi. 5 Come, per esempio, l’Arte Pubblica e L’Arte Ambientale. Sull’arte come esperienza relazionale, si veda Nicolas Bourriaud, Erthétiue relation elle (1998); trad.; Estetica relazionale, Postmedia, Milano, 2010.

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del museo, percepito non più come il luogo esclusivo dell’arte, ma uno tra i tanti luoghi di

circolazione delle pratiche estetiche, sebbene continui a mantenere un ruolo di potere e prestigio

nelle produzione e riproduzione del capitale culturale.6 Tuttavia, ciò che è in grado di dare un

contributo decisivo alla trasformazione del museo già in atto è l’arte migrante postcoloniale, ovvero

un’arte prodotta da soggetti migranti, prevalentemente provenienti dalle ex-colonie dell’impero

Occidentale, e produttrice essa stessa di un senso «migrante», «postcoloniale», anti-nazionalista,

non esclusivo, possessivo, binario, rigidamente definito del mondo, così come si può evincere

dall’estetica di Mona Hatoum, Zineb Sedira e Lara Baladi. Una geografia dispersiva, fluttuante,

sradicata definisce l’identità e informa necessariamente l’opera di queste artiste. I luoghi che esse

creano non fanno altro che evocare la natura eterogenea, differenziale, vertiginosamente

contraddittoria dell’essere «nel tra», tra più storie, tra più lingue, tra più culture, tra più memorie.

Esse sono accomunate da un’estetica che disegna una territorialità, una geografia personale fatta

dalle tracce, dai residui, dai resti dei propri attraversamenti, seguendo un percorso di vita che esula

dalle frontiere della nazionalità, configurando le loro identità come irriducibili ad ogni

identificazione che voglia circostanziarne i limiti.

Nell’arte di Hatoum, figlia di esuli palestinesi in Libano e immigrata a Londra, il tentativo di

stabilire i confini del sé, la sua biografia – e la sua biologia – entro precise definizioni identitarie si

scontra inesorabilmente con i limiti del riconoscibile. Questo è ciò che accade nell’istallazione

Recollection (1994). Il titolo si riferisce alla capacità di ricordare o al ricordo, ma esso contiene al

suo interno anche il verbo «collect», collezionare, raccogliere, tenere insieme, suggerendo come la

facoltà di ricordare incorpora anche un ricomporre, un ri-membrare il passato nel presente

costruendo qualcosa di nuovo. L’intera semantica del ricordare è implicata sapientemente in

quest’opera. Ciò che in essa viene ri-membrato sono le tracce del sé e il sé come traccia attraverso

una acuta e raffinata risignificazione della relazione tra il corpo e lo spazio e una valorizzazione

della vulnerabilità soggettiva.

L’ambiente è interamente occupato dall’immagine costrittiva di una forma che ritorna spesso nelle

installazioni di Hatoum, quella della griglia metallica, stavolta resa sferica e quasi impercettibile,

«residuale», dato il suo materiale di composizione. Si tratta dei capelli e dei peli dell’arista,

conservati come reliquie personali durante un arco di tempo lungo sei anni prima di essere utilizzati

                                                                                                                         6 S. Hall, «Museums of Modern Art and the End of History», in S. Hall, S. Maharaj, (a cura di) Annotations 6: Modernity and Difference, InIVA, London, 2001. Per quanto riguarda il ruolo di potere, come luogo di consumo culturale, che il museo assume all’interno del sistema dell’arte contemporanea, decretandone spesso una regressione conservatrice e una deresponsabilizzazione rispetto alle tematiche sociali e politiche, si vedano: P. Ciorra, S. Suma (a cura di) I musei dell’iperconsumo, atti del convegno internazionale, Accademia nazionale di San Luca e Triennale di Milano, 2002; A. Polveroni, This is contemporary! Come cambiano i musei d’arte contemporanea, FrancoAngeli, Milano, 2007.

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come materiale artistico. Tante piccole matasse di capelli raggomitolati a forma di sfera sono

cosparse, come cumuli di polvere, su un pavimento in legno, confondendosi col suo colore scuro,

oppure adornano i davanzali delle ampie vetrate della sala e pressoché invisibili controluce. Altri

fili di capelli penzolano dal soffitto e sfiorano la spettatrice, sorpresa dall’alto dal tocco leggero e

insieme ripugnante di ciò che era probabilmente intenta a scansare sul basso. Man mano che ci si

addentra in questa sala, apparentemente vuota e disadorna, dal basso verso l’alto, dal piano

orizzontale a quello verticale, emerge la consapevolezza di essere catturati nella rete di una

presenza. Una presenza assente che vieni ricordata, ri-composta proprio attraverso quei residui

corporei di cui solitamente ci si sbarazza con disgusto e repulsione perché associati all’incuria, al

disordine o alla sporcizia.

Contravvenendo alla pratica, soprattutto femminile, di eliminare i peli dal corpo per renderlo

presentabile – secondo un’estetica maschilista oltre che igienista – Mona Hatoum «raccoglie» e

conserva i peli e i capelli rilasciati dal suo corpo per presentare se stessa, affidandosi

provocatoriamente sulla loro immagine immonda, impropria, fuori luogo. L’artista ricorda se stessa

(«recollect»), si racconta raccogliendo («collect») delle fragili tracce del suo corpo, e utilizzandole

come materiale autobiografico perché l’idea di improprio, legata, come sostiene Georges Bataille, al

disordine, all’escrementizio, alla perdita, meglio si adatta al ricordo delle sue perdite:

l’espropriazione, l’esilio, il dispossessamento e al fatto che è su di esse che si colloca la possibilità

della comunità.7 La comunità – e per estensione, la nazione – oggi più che mai si fonda sullo scarto,

sull’espulsione di chi non può essere assorbito al suo interno perché ritenuto improprio, ovvero

inappropriabile (sia sul piano etnico che economico). Al contrario, in Recollection, Hatoum accorda

giustizia alla disgiunzione, alla perdita, all’essere «out-of-joint», alla rottura dell’ordine comune,

del comunitario, della comunità, del luogo comune. Il ricordo è qui il ritorno di un informe che

spezza il conforme, il sopraggiungere di una irregolarità che sconvolge qualsiasi geometria purista.

L’impuro e all’abietto diventano materiale di ri-composizione del sé. In questo senso, è

significativo il contrasto che Recollection crea con l’ambiente che la ospita.

Commissionata dalla Kanaal Art Foundation di Kortrijk, in Belgio, Recollection è stata allestita

nella sala principale di un edificio antico e isolato, seppur nel cuore della città, sede del Beguinage,

una sorta di congregazione semi-religiosa, fondata nel Tredicesimo secolo da donne votate alla

castità e dedite alla preghiera, alla scrittura e alla tessitura. Le beghine (termine che in francese è

sinonimo di «bigotta») si ispiravano ad un ideale di vita comunitaria e spirituale, vivevano libere

dalla proprietà privata e dalla regole istituzionali.

                                                                                                                         7 Georges Bataille, La notion de dépense, Editions de Minuti, Paris, 1967.

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L’istallazione di Hatoum in qualche modo evoca le attività delle «anarchiche bigotte» che un tempo

abitavano quel luogo: in fondo alla sala, su un vecchio tavolino, un telaio mostra una griglia di

capelli intrecciati perpendicolarmente e visualizza in un disegno concreto la rete più ampia,

impercettibile e irregolare, creata dall’intreccio immaginario delle striature verticali dei capelli

pendenti dal soffitto che si intersecano idealmente con le sfere del piano orizzontale. La delicatezza

e la leggerezza del disegno creato dai capelli riconduce alla femminilità casta, spirituale, integra

delle beghine e tuttavia essa contrasta con le sensazioni di disgusto e repellenza evocate da quel

materiale «di scarto». In questo modo le antiche attività femminili di scrittura e tessitura sono

evocate per essere messe a confronto con la propria ri-scrittura; la spettatore viene catturato nella

«trama», cioè nella narrazione e nella tessitura, di una differente femminilità, nella sua struttura

mobile e aperta, nel suo volume avvolgente ma privo di rigidità, nella sua materialità impura,

incompleta, che turba, scompone, disorienta, scatena l’im-possibile.

La memoria, il ricordo della perdita, ma anche la possibilità di riconvertire quella perdita in una sua

potente rielaborazione vengono rievocate in una più recente istallazione di Hatoum, Interior

Landscape (2010). Si tratta della riproduzione di un interno, una camera da letto. Qui, posto in

un’alcova, il letto senza materasso, con la sua struttura in ferro, dalla vernice raschiata, evoca un

letto da prigione. Il simbolo della comodità e del riposo diviene un oggetto inquietante. In netto

contrasto con il filo spinato da cui è costituita le rete del letto, vi è un morbido cuscino, sul quale

l’artista ha disegnato la mappa della Palestina, con alcuni fili dei suoi capelli. Delle fragili tracce del

sé recano i segni di un sogno persistente. Un’altra mappa della Palestina è riprodotta sulla parete,

ricavata dal rimodellamento di una stampella rosa in fil di ferro, una silhouette sospesa e immobile,

e ricompare in una borsa di carta traforata, simile ad un cesto o ad alla rete metallica utilizzata per

segnare i confini. Tutti gli oggetti contribuiscono a trasformare la camera da letto da un luogo di

pace e relax a spazio discordante, carico di tensione e incertezza. Uno spazio domestico che tradisce

ogni confortante aspettativa di familiarità, uno spazio inospitale che, come osserva Edward Said a

proposito dell’estetica di Mona Hatoum, «non offre né riposo né ristoro».8

La memoria della Palestina, di uno spazio proprio dilaniato, paesaggio (Landscape) ostinatamente

negato, sottratto alla possibilità di riconoscimento, se non come cartografia dell’immobilità

disegnata dal filo spinato, oppure attraverso fragili frammenti corporei, ad indicare la condizione

precaria di un intero popolo, confluisce nella ricreazione di uno spazio interno (Interior) diviso,

disturbato da quel ricordo, ma allo stesso tempo disturbante, sovversivo. Il legame inestricabile, già

evocato in Recollection, tra la memoria collettiva e la memoria personale, storia comune e storia                                                                                                                          8 E. Said, «The Art of Displacement: Mona Hatoum’s Logic of Irreconcilables», in E. Said and S. Wagstaff (a cura di) Mona Hatoum: The Entire World as a Foreign Land, Tate Gallery Publishing, Londra, 2000, p.17.

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individuale, tra geografia e biografia si ripresenta qui in maniera diretta, richiamando più

esplicitamente l’impossibilità di stabilire, a partire da questo legame, un confine netto tra interno ed

esterno, dentro e fuori, il sé e l’altro, il familiare e l’estraneo, il proprio e l’improprio, riferito sia

allo spazio dell’anima, del corpo, della casa, della comunità, ma prima di tutto allo spazio

espositivo in cui ha luogo l’installazione. E’ nello spazio museale che si inscrive la porosità di

questo confine, divenuto esso stesso un fuori-luogo critico, per lo spettatore che osserva, spaesante

e relazionale.

Un profondo senso di spiazzamento emerge anche dall’opera Floating Coffins (2009) dell’artista

franco-algerina Zineb Sedira. Una video-installazione composta da quattordici schermi e dieci

altoparlanti, attraverso i quali l’artista presenta le immagini che ha raccolto durante la sua ricerca

lungo le coste della Mauritania, una volta luogo nevralgico del commercio marittimo globale, oggi

divenuto uno dei principali punti di partenza per quanti in cerca di migliori opportunità di vita. Il

luogo preso in esame dall’artista è Nouadhibou, antico porto per la pesca e sito di esportazione di

ferro verso l’Europa e gli Stati Uniti, oggi la rotta attraverso cui i migranti passano illegalmente

dall’Africa all’Europa. Una rotta pericolosa, preceduta dal transito nel deserto, fino al viaggio in

mare, su imbarcazioni insicure. Evocando le disperate migrazioni clandestine e la spietata

arbitrarietà del capitale globale al quale esse sono direttamente collegate, Sedira ritrae il cimitero

delle barche che giacciono sulle spiagge e nel mare di Nouadhibou, escluse oramai dai traffici

internazionali. Il paesaggio marittimo della Mauritania, come alcune spiagge siciliane, è

disseminato da barche che hanno perduto la loro funzionalità, divenute delle carcasse di metallo

arrugginite, abbandonate lì, come «bare fluttuanti» (floating coffins).

Zineb Sedira

Floating coffins, 2009

Installation

14 LCD screens with electric cables and 8 round speakers 8 minutes each Various sizes screens, Overall size variable depending on space

Installation view, New Art Exchange, Nottingham, UK

© Zineb Sedira

Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

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Un’immagine contrastante di mobilità e immobilità, attraverso cui la memoria dei movimenti, dei

flussi passati, viene attivata dai loro resti, o dai loro arresti, da ciò che resta di essi nel presente, e

immobile nel tempo. Tuttavia, quello che emerge in modo prepotente, da ogni singolo schermo

dell’installazione, è un profondo senso della relazionalità. Immagini di luoghi molto specifici della

costa mauritana sono raggruppate in una composizione di vedute frammentate, riconfigurandosi

costantemente, evocando incessantemente altri luoghi, altri tempi e altre storie di migrazione.9

Emerge ineludibile, qui, il rimando alla storia personale di Zineb Sedira, francese di nascita ma di

origini algerine, figlia di migranti giunti nel paese al di là del Mediterraneo che, soltanto da un

anno, era divenuto ufficialmente ex-colonizzatore. Ineludibile il rimando ad una percezione

identitaria culturalmente indeterminata, così come appare nell’inganno visivo di Self-Portrait, or

the Virgin Mary (2000), in cui l’artista si ritrae completamente avvolta nell’haïk di sua madre, nel

                                                                                                                         9 Le coste di Nouadhibou, i viaggi in mare dei migranti che partono da lì verso l’Europa, il cimitero delle barche disseminate sulla spiaggia, rimandano alle storie di migrazione, spesso finite in tragedia, nel Mediterraneo, evocando delle storie affini, ma lontane nel tempo, come quelle che hanno caratterizzato la traversata atlantica verso le piantagioni oltreoceano degli schiavi africani, nel periodo imperialista Occidentale. Storie di cui Paul Gilroy rende conto nel suo famoso testo The Black Atlantic, riconoscendo come, in quel tempo come ai giorni nostri, nella presenza dei migranti una componente integrante e costitutiva della modernità. Si veda P. Gilroy, The Black Atlantic: Modernity and Double Consciousness, Verso, London, New York, 1993.

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bianco totale di una visione immacolata, come la Vergine Maria della cultura cristiana, e tuttavia

contaminata dal “bianco d’Algeria” della cultura islamica.10

Zineb Sedira

Self Portraits or the Virgin Mary I, 2000

Triptych C-Prints, mounted on aluminum 170cmx100cm each © Zineb Sedira

Courtesy the artist and kamel mennour, Paris

Di fronte a queste visioni spiazzanti, la volontà colonialista di inquadrare e padroneggiare le culture,

le identità, i movimenti della storia è destinata a rimanere frustrata. Se lo stato-nazione, come

sostiene Judith Butler in Vite Precarie, cerca disperatamente di ricomporre la propria sovranità

declinante attraverso l’esaltazione della forza, della solidità, dell’integrità, tradotte materialmente

nell’erezione di muri, l’estetica «perturbante» di Hatoum e Sedira scalzando l’idea stessa di

sovranità, accorda valore e riconoscimento alla precarietà, ai limiti della traducibilità,

dell’appropriazione, al diritto all’opacità, al sé come presenza impura, vulnerabile, eccessiva,

                                                                                                                         10 Un bianco, cioè, che non è sinonimo di purezza ma, come ricorda la scrittrice algerina Assia Djebar, nel suo testo Bianco D’Algeria, dedicato alla memoria dei suoi amici algerini morti per mano degli integralisti, durante la guerra civile del 1992, indica il lutto, il dolore, il silenzio delle donne. A. Djebar, Le blanc d’Algérie (1996); trad. Bianco D’Algeria, Il Saggiatore, 1998.

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disturbante, inassimilabile, impossibile da inquadrare e rendere propria.11 L’estetica offre, qui, un

modello di risposta alla consapevolezza della propria vulnerabilità diametralmente opposto a quello

fornito dalla retorica nazionalista (e maschilista) della sovranità occidentale. Un modello che,

ribellandosi a qualsiasi pretesa totalitaria, scorge nella parzialità delle storie personali la possibilità

stessa del racconto: «senza mistero, senza curiosità, e senza la forma imposta da una risposta

parziale non possono esserci storie. Solo confessioni, comunicati, e frammenti di fantasia

autobiografica».12

Al contrario, l’ossessione dei confini che oramai da decenni affligge la sovranità occidentale in

declino fa sì che alle persone in movimento fuori da quei confini sia negata qualsiasi possibilità di

racconto, finendo per essere confinate alla loro corporeità, in una coincidenza tra confine nazionale

e corpo dei migranti, «la biografia è messa al confine, è il residuo della persona, un resto che non

interessa», come osserva Federica Sossi.13 Un’ossessione da parte del potere che ha a che fare non

solo con una necessità di autoconservazione, ma con un preciso sistema di archiviazione in sintonia

con il proprio compito di individuazione e arresto dei flussi migratori non autorizzati, riportando gli

individui alle tracce del proprio passaggio unicamente per indirizzarlo e bloccarlo. Ogni spazio di

individualità per le vite «sconfinate» rimane muto, «disarchiviato», in questa storia: l’archivio,

inteso come spazio dell’archiviabilità e dell’enunciabilità, spazio di resistenza alla Storia, della

possibilità di narrazione a partire da ciò che resta, viene snaturato rispetto alla traccia della vita

individuale, da parte di un potere incapace di riconoscere in quella povertà di esperienza il segno di

una positività. «Cancellare o lasciare cancellare la traccia di sé, dirsi o lasciarsi dire con il nome di

un altro, abbandonare o lasciare abbandonare il proprio passato, sono oggi le strategie di resistenza

e di esistenza di fronte a un potere che non archivia più le tracce dei sé ma che vuole solo

rintracciare».14

Ad un potere che si rifiuta di rendere conto delle storie non archiviabili all’interno del suo racconto

lineare risponde la poetica «deviante» di Hatoum e Sedira, con la loro enfasi su visioni fluttuanti,

ibride, indecifrabili, talvolta disturbanti. Elaborando versioni del sé e della comunità migrante che

resistono alla cattura biografica del potere, queste artiste evocano una narrativa di storie intrecciate,

una trama fitta nella quale è possibile riconoscere un’istanza di cambiamento, la possibilità di una

riconfigurazione storica, culturale e sociale. Si apre un passaggio da un senso del mondo declinato

nella lingua maschilista della sovranità, del dominio, del potere imperialista, e che avvalora l’etica

                                                                                                                         11 Judith Butler, Precarious Life; trad., Vite Precarie, Meltemi, Roma, 2004. 12 Jhon Berger, Keeping a Rendezvous (1991); trad. Presentarsi all’appuntamento. Narrare le immagini, Libri Scheiwiller, Milano, 2010, p. 71. 13 F. Sossi, Migrare. Spazi di confinamento e strategie di esistenza, Milano, Il Saggiatore, 2006, p. 34. 14 Ivi, p. 137.

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chiusa della prepotenza, verso un altro paesaggio fondato su un linguaggio evocativo,

antiautoritario, impadroneggiabile, che implica l’etica aperta della relazionalità e sostenibilità.

La poetica di Hatoum e Sedira, come un velo avvolgente, intessuto di fili interculturali, dispiega

estraneità, alterità, come una storia giunta da lontano, racconta di approdi imprevisti, presenze non

autorizzate. Una poetica che coincide con l’esperienza stessa di migrazione. Le opera create dalle

artiste, infatti, non sono semplicemente la riproduzione di una realtà, non sono rappresentative ma

produttive di nuove realtà. Esse ci riguardano da vicino, ci toccano, toccano I nostri sensi, ci

“affettano”, generando senso, movimento di sensazioni, immagini, pensieri. Esse ci fanno migrare,

trasportandoci in una realtà nella quale poter riconoscersi come “stranieri a se stessi”, nelle parole di

Julia Kristeva, in una condizione probabilmente divenuta tipica del mondo contemporaneo.

Attraverso visioni che virano costantemente verso un altrove, si è trasportati lontano da ogni senso

di proprietà, in una deriva che coincide con la fruizione artistica e continua oltre di essa. Una volta

fuori dallo spazio espositivo, di ritorno dal museo, si può davvero far ritorno a se stessi?

La precarietà del proprio dispiegata da questa estetica dell’inappropriabile investe direttamente la

nazione e la sua narrazione del mondo secondo divisioni pretestuose, se non opportuniste, tra

cittadini e migranti, Nord e Sud, Ovest ed Est, ma investe anche il luogo e il tempo propri della

soggettività, e il luogo e il tempo propri dell’arte stessa. Può il museo essere il luogo proprio

dell’arte? Può il contemporaneo essere il temp(i)o esclusivo dell’arte? Emancipato dalla sua classica

funzione di conservazione, archiviazione, collezione, ammirazione, come anche da quella attuale,

riguardante soprattutto i musei d’arte contemporanea, di certificazione artistica e marketing turistico

globale, così come avviene per alcuni «brand museali» quali il Guggenheim, il museo può

concepirsi come spazio aperto dell’erranza, della memoria vivente, della narrazione, della

conversazione, della migrazione, richiamando la necessità, come sostiene Iain Chambers, di

«riconfigurare la museologia su una mappa che eccede le richieste imposte da uno sguardo

nazionale, quasi esclusivamente occidentale».15

Il museo deve farsi racconto dei movimenti del presente, fino a diventare esso stesso movimento.

Un esempio di museo come spazio del movimento è fornito da un esperimento artistico ideato da                                                                                                                          15 Intervista di Assandro Rivera Magos, 02/08/2009, www.babelmed.com. Per quanto riguarda, invece, la funzione sacralizzante e insieme economica del «museo di collezione» contemporaneo, Andrea Barzola e Paolo Rosa scrivono: «Attraverso le aberrazioni del sistema contemporaneo, molte opere hanno la finalità di essere collezionate da un museo per acquistare valore di mercato attraverso un procedimento di sacralizzazione e certificazione museale. Paradossalmente si contestualizzano nel valore economico e nella singolarità dell’edificio … Non è un caso, infatti, che oggi l’idea di museo d’arte contemporanea corrisponda ad un edificio stravagante, azzardato, sovente disagevole da allestire, teso a mostrarsi come opera in sé, disegnata da un ordine superiore degli architetti, i cosiddetti ‘archistar’. Questo ‘taglio’ estetico si erge come corpo estraneo nella città, ribadendo l’ordine formale di cui è portavoce. Confondendo questa operazione di tipo identitario con una di marketing turistico». A. Barzola, P. Rosa, L’arte fuori di sé. Un manifesto per l’età post-tecnologica, Feltrinelli Editore, Milano, 2011, p. 129.

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Lara Baladi, artista libanese-egiziana, anch’ella, come Hatoum e Sedira, caratterizzata da una

biografia migrante e da una identità multiculturale.

L’artista, nel 2006, concepisce e organizza una insolita escursione nel deserto egiziano: un gruppo

di trenta persone, fra artisti, giornalisti, scrittori, attivisti di varia natura, provenienti da diverse parti

del mondo, trascorre sette giorni nel deserto, spostandosi verso una nuova zona ogni due giorni. Le

persone coinvolte in questo progetto chiamato Fenenim El-Rahhal, cioè «Carovana degli artisti-

nomadi», sono invitate a vivere l’esperienza dell’attraversamento nel deserto come esperienza di

nomadismo creativo. Come scrive Simon N’jami, curatrice dell’evento, esse «partecipano ad una

esperienza focalizzata sul processo piuttosto che sul compimento artistico, con lo scopo di

comprendere e ricostruire ciò che rende simili gli esseri umani, così come, senza riserve e paure, ciò

che li rende differenti».16 Durante le soste in tenda, equipaggiati con tutti i supporti tecnici

necessari, i partecipanti hanno visualizzato le opere degli artisti coinvolti, si sono confrontati e

hanno dibattuto su temi ispirati al nomadismo, al fare artistico, al deserto dell’Oriente, non come

«terra nullius», ma nel suo significato storico di spazio cruciale di attraversamenti, incroci culturali,

scambi commerciali, come punto di incontro tra il Nord-Africa e L’Africa sub-sahariana, e tra

l’Africa e l’Europa, come spunto per ripensare le nozioni di «identità» e «territorialità»,

sottolineando l’importanza che l’arte può assumere in tela relazione. L’artista contemporaneo/a

incarna, infatti, lo spirito nomade dei beduini: in continuo movimento per il mondo a fare o esporre

le sue creazioni e consapevole del fatto che nessun luogo, finanche il deserto, può essere escluso dal

caos del mondo. In tal senso, è significativa la genealogia di questa esperienza artistica. Baladi,

infatti, si ispira ad una sua opera del 2000, il collage Oum El Dounia, «madre della terra», ispirato

al mito della creazione e alla storia di Alice nel paese delle Meraviglie, rivisitata in chiave

orientalista.17 Creazione e «nonsense», principio di ordinamento della realtà, di individuazione e

stabilizzazione dei confini tra il cielo e la terra, tra le cose della terra, tra le dimensioni dello spazio

e del tempo, e principio di indifferenziazione, mescolanza delle differenze e delle opposizioni.

Attraverso la dislocazione orientalista della storia di Alice, Baladi, si appropria del potere

                                                                                                                         16 Dichiarazione riportata nel sito-web dell’evento: www.nomadicartist.com; (trad. mia). 17 In Oum El Dounia, i personaggi del testo di Carroll si intrecciano a immagini orientali divenute ormai stereotipi della cultura egiziana; il titolo dell’opera, madre della terra, è, ad esempio, l’appellativo per eccellenza dell’Egitto. Il bosco di Alice è sostituito dal deserto, similmente popolato da personaggi stravaganti e mutanti; in mezzo al deserto campeggia la Sfinge, la Croce del Nilo, fotografata dalle riproduzioni approssimative su papiro, souvenir per turisti, tutt’intorno orbitano gli ibridi incontrati da Alice, qui doppiamente ibridi: la Regina di Cuori è un beduino e non gioca a cricket con fenicotteri e ghiri, ma passeggia tenendo al guinzaglio un tacchino; una sirena, dalla coda che ricorda i veli delle odalische, è distesa sulle dune; il Bruco sul fungo che fuma il narghilé è qui un uomo-conchiglia con il fez, che fuma la shisha; il coniglio, che nella favola simboleggia la fertilità e il tempo, è qui un giocattolo di peluche. Inoltre, la maggior parte dei personaggi sono colti nel sonno, come la stessa Alice sotto le palme, in una generale ambivalenza tra sogno e realtà, così come tra Oriente e Occidente.

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destabilizzante creato dai paradossi di Carroll, estendendo la loro presa oltre i confini geografici,

storici e culturali del testo originario. Il collage, la tecnica prescelta da Baladi per tutte la sue opere,

diviene qui filosofia e cultura, illustrando come l’attività del «raccogliere», «collezionare», «mettere

insieme», a differenza del collezionismo passivo e capitalista del museo contemporaneo, equivale

ad un’azione dinamica di composizione, interprenetazione infinita, trasformazione, un perpetuo

divenire altro. I collage di Baladi, così come il suo esperimento artistico nel deserto, rendono

visibile il fatto che il senso del mondo, della vita, dell’identità, non è, come sostiene Deleuze,

effetto di profondità, di confine, di accumulo, ma «effetto di superficie», ovvero effetto di

posizionamento, di direzionalità. Il senso «smette di essere Principio, Serbatoio, Riserva, Origine»,

non alterità assoluta, ma alterità relativa e relazionale; continuità del dentro e del fuori, del sopra e

del sotto, del dritto e del rovescio; continuo passaggio da una superficie all’altra, alla maniera di

Alice, di oltrepassamento dello specchio, non di incanto nel suo riflesso.18 Il capitombolo di Alice

nel paese delle Meraviglie consiste in un’ascesa alla superficie, in una sconfessione della profondità

(«la profondità si dispiega in larghezza, il profondo smette di essere un complimento») e nel

riconoscimento che tutto accade alla frontiera delle cose e del senso comune. 19

Così’, anche l’atto del ricordare diventa nomade. La memoria non è mai uguale a se stessa, ma

fluida e apre possibilità inaspettate, cristallizzate nel tempo passato e nel sé. Il ricordo diviene

un’attività creativa, che chiama in causa l’immaginazione, e attività relazionale, che chiama in

causa il rapporto con gli altri. La memoria non è mai un’attività individuale e isolata, nella misura

in cui il tempo del sé non appartiene solo all’io. L’atto del ricordare può essere così, come mostrano

le opere di Hatoum, Sedira e Baladi, un atto di ricomposizione, reinvenzione del sé e degli altri.

Parlare di memoria nomade vuol dire parlare di memoria in termini di trasposizione, di movimenti

che creano legami, interconnessioni generative, mescolamenti, producendo molteplici possibilità di

espansione e crescita tra differenti unità o entità. La memoria nomade coordina incontri tra soggetti

e comunità.

Emerge, qui, un senso non universale e passivo, ma dinamico e contemporaneo della memoria,

ovvero globale. Esiste la memoria propria di specifici luoghi e tempi che deve essere riconosciuta e

rispettata, e non per questo circoscritta e cristallizzata nella propria specificità, bensì considerata

nella possibilità di connessione con altri luoghi e altri tempi. Si tratta di considerare la memoria

nella sua trans-storicità, come una necessità alla quale ci richiamano i processi e le esperienze di

migrazione. Ad esempio, Homi Bhabha, analizzando il lavoro della poetessa e scrittrice Adrienne

Rich, parla di una «memoria trans-storica» che   attiva una identificazione etica e affettiva con la                                                                                                                          18 G. Deleuze, Logique du sens (1969); trad. Logica del senso, Feltrinelli Editore, Milano, 2007, p. 70. 19 Ivi, p. 16.

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globalità.20 Consapevole dell’effetto traumatico di eventi storici come la guerra, l’Olocausto, la

schiavitù, o di esperienze personali come la migrazione, l’esilio, Rich attiva una contro-memoria di

luoghi e tempi che tiene conto della singolarità di ciascun evento storico. Attraverso lo strumento

poetico della memoria, Rich contribuisce a creare un profondo senso del rispetto,

dell’identificazione e della responsabilità e, da qui, un senso allargato, condiviso di umanità. Per

Bhabha, il valore del lavoro di Rich non consiste tanto nella capacità di mettere in luce una

comunanza storica e culturale tra luoghi e tempi differenti, quanto la necessità, alla luce di questa

comunanza, di rivisitare e ripensare ciò che si riteneva essere la «propria storia», dandone conto in

termini critici. In tal modo, la coscienza storica può divenire un grande fattore di connessione tra i

soggetti che la condividono, configurandosi come una forma di intervento nella contemporaneità,

mettendoci di fronte alla nostra condizione di abitanti di spazi transnazionali. Bhabha definisce la

contemporaneità «a translational space», uno spazio ibrido, di transito e, insieme, di resistenza, una

temporalità interstiziale, in cui il ritorno verso una coscienza identitaria essenzialista convive con la

spinta verso un costante processo di frammentazione e trasformazione, in uno stato di continua

compenetrazione tra lo specifico e il comune, tra il locale e il globale.

L’analisi di Bahbha dell’uso della memoria in Rich come strumento critico per il raggiungimento di

una coscienza storica comune, nella difficile negoziazione tra locale e globale, può essere estesa

all’arte della memoria di Hatoum, Sedira e Baladi, e al modo in cui essa investe e oltrepassa il

«museo», inteso sia, nella sua accezione classica, come luogo di conservazione della memoria

(nazionale), sia nella sua configurazione moderna, come luogo dell’iperconsumo culturale,

articolandolo come spazio del racconto della storia, o come spazio «translational» della coscienza

storica, di memoria narrante, di condivisione e connessione illimitata, sconfinante i limiti fisici

dell’edificio in cui ha luogo il racconto. Le opere di queste artiste migranti contribuiscono a

conferire un valore evocativo, dialogico allo spazio espositivo che le accoglie, e a sollecitare dei

richiami con la realtà territoriale e di questa con la realtà globale. Il museo diviene lo spazio in cui è

possibile intercettare nella località le tracce della globalità, e da qui, poter riconoscere e negoziare

gli intrecci tra storie vicine e lontane, tra passato e presente, tra il qui e l’altrove, tra memoria

personale e memoria comune. Si apre, allora, la possibilità di declinare all’ambito della museologia

l’invito gramsciano a «pensare mondialmente» o «mondializzare il pensiero», non in senso

coloniale, bensì in un senso postcoloniale, ovvero dilatare la propria visione del mondo oltre i

confini del «proprio» (inteso come patrimonio sia materiale che immateriale), fino ad accogliere

l’eventualità di una sua radicale messa in discussione. Si tratta, di trasformare il paradigma

                                                                                                                         20 H. Bhabha, «Unpacking my Library… Again», in I. Chambers, L. Curti (a cura di), The Post-colonial Question: Common Skies, Divided Horizons, New York-London, Routledge, 1996, p. 201.

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tradizionale del «museo-nazione» in quello postcoloniale di «museo-mondo», o un «divenire-

migrante» del museo, poiché è esattamente in questo particolare «divenire-minoritario» che il

museo può farsi «mondo».