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I Meccatronici Racconti di Marco Milani °°° Edizione a cura di Words On-Line agosto 2002 www.wordson-line.it [email protected]

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I Meccatronici

Racconti di Marco Milani

°°°

Edizione a cura di Words On-Line

agosto 2002

www.wordson-line.it

[email protected]

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LA ‘MIA’ STRADA

Clacson. PEET. PEET. POOT. Clacson di vari tipi, striduli, acuti e potenti, penetranti, ma tutti indistintamente fastidiosi. Clacson da tutte le parti. PEET. POOT. PEET. I suoni rimbalzano sugli edifici di Corso Giovecca come palline in gomma dura, tanto da far pensare che ad ogni finestra ci sia un ultras con la trombetta a gas, deciso a farti diventare la testa tale e quale ad un pallone da calcio. Più che il centro storico di Ferrara alle cinque del pomeriggio mi sembra d’essere... d’essere... da un’altra parte, non so dove, ma da un’altra parte di sicuro, niente a che vedere con la tranquilla cittadina di provincia che ho sempre conosciuto. PEET. POOT. PEET. Bene, la mia emicrania cronica ha deciso che è il momento di farsi sentire. La fitta alla tempia mi annebbia la vista, ma è un attimo lo so, ormai sono abituato alle scansioni ( tipo ago piantato ) di dolore. Però dall’altra parte della strada c’è una farmacia, sono solamente due passi. Dieci strisce bianche sulla strada e magari un’aspirina o due... Semaforo verde pedone???, era ora. DRIN. DRIN. Oh accidenti, non bastavano i clacson, ci voleva anche il vecchietto in bicicletta, di quelli convinti che la strada sia loro e i segnali di stop e dare la precedenza oggetti di mobilio. Lo odio questo incrocio. Da adesso lo odio. PEET. POOT. PEET. Meglio che mi sbrigo ad attraversare prima che riscatti il rosso, ci sono già le auto che scalpitano come cavalli indomiti, o asini agitati, dipende dall’autista. DRIN. DRIN. Senti il vecchietto come si diverte, vuole passare in mezzo alla comitiva di giapponesi mentre continuano a fotografare il Castello degli Estensi anche camminando sulle strisce pedonali. Non si smentiscono mai. SKREEK. Questa sembra una frenata, rumore alquanto fastidioso per giunta. TUMP. Strano rumore, un tonfo direi. E’ un peccato che stia cominciando a vedere tutto nero, potevo girarmi a guardare cos’è success...... Luce. Bianca, abbacinante. Cos’é? Dormivo? Stavo sognando di essere in giro per Ferrara. Sì, stavo sognando. C’era troppo casino per essere vero e poi non prendo mai le aspirine, mi bruciano lo stomaco in modo sconsiderato, senza nessun ritegno. Ma... dove sono? Sembra un... ascensore. Bianco, lindo, neutro. Lineare. Non rotondo. La cosa ha un gusto troppo particolare per non sapere di irreale. Adesso. E prima? Forse anche. OK. E’ deciso, chiaro e lampante ho cambiato sogno. Nessun problema, che ora è? Guardo l’orologio da polso, sono le 6 e 20. E’ un segno, confermato. Con una sola lancetta che gira all’impazzata so che ore sono e tenendo presente che io non porto l’orologio... Relax. Godiamoci il sonno con visioni incorporate, non mi sembra male. Di quelli un po’ strani, ma troppo singolare per non restarne imbrigliato nelle trame. Speriamo bene.

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Mi ricordo di sogni immersi in sogni trasformarsi da pseudo-risveglio in incubi. Brr, i brividi solo a pensarci. Ma manca l’atmosfera da horror, questa è una di quelle dormite a multistorie, come negli di Topolino un po’ di anni fà, passando da una situazione ad un’altra senza soluzione di continuità e con possibilità di risveglio quando si vuole. I migliori in assoluto. Allora dove sono? Se devo ballare, balliamo. Ascensore quadrato bianco, lindo, asettico. La porta? Lì davanti, i pulsanti? Lì, a sinistra. Uno. Però, molta varietà di scelta. Quasi quasi... Lo premo. La porta si apre. Logicamente. Lentamente entra luce, azzurro di immagini sfocate, una strada. Una strada? OK, non porti domande, vai e non porti domande. Adesso sono inutili. Un passo, anzi, un saltino. Non vorrei incespicare... TUMP. Asfalto!!! Per essere fatto di pensieri non è affatto tenero. I sassolini pungono le mani e un ginocchio mi pulsa mandando un dolorino acuto e fetente. Mi rialzo perché non vale la pena soffermarsi a litigare con un pezzo d’asfalto e mi ritrovo a guardare in avanti, rimbalzando quasi all’indietro per lo stupore. Disarmante. Con un senso di paura mi volto a cercare alle mie spalle la familiarità rassicurante dell’ascensore, non l’avessi mai fatto. Con una riga netta, la strada è conclusa e l’ascensore sta calando placidamente nel vuoto assoluto, senza sostegni, senza rumori. Prima che le vertigini mi assalgano mi rigiro, cercando ansiosamente di mettere a fuoco la situazione e mi siedo, mi sembra la cosa migliore da fare. Sedersi e cercare di capire... Ciò che vedo e’ un assurdo e poco descrivibile insieme tra il non senso di un quadro di Escher ed uno snodo stradale periferico metropolitano. Davanti, sopra, sotto, ai lati.Strade. A vista d’occhio, strade. Rette, incroci, bivi. Larghe, strette. Lunghissime, di tutte non si vede la fine, alcune restano tranciate, non molto dissimili da nastrini natalizi presi a sforbiciate. Infiniti ponti solcanti strade, interruzioni ed altri ponti ancora. Tutto questo senza la traccia di un benché minimo sostegno. Piattine grigie stagliate in una totalità di ‘azzurro cielo d’estate con obbligatori occhiali da sole’. C’è li ho giusti in mano. Neri, montatura alla Blues Brothers. Me li metto. Com’è facile abituarsi alle cose. Tutto è immobile, come su una stampa nuova di zecca. No, sembra forse... Là, su quella strada. Un puntino in movimento? Un riflesso? E’ anche là in basso. Stessa cosa. E lassù. E laggiù. Mi sembra la caccia ai particolari nelle parole crociate. Completamente INUTILE. Ti prende per i primi 5 o 6 oggetti, poi la monotonia prende il sopravvento e in meno di un attimo c’è il totale disinteresse e hai già voltato pagina. Direi che è ora di muoversi. Mi alzo da terra e mi spazzolo a smanate il ghiaino che mi si è attaccato ai pantaloni. Faccio il primo passo con ancora le mani dietro, ad altezza tasche, quando il suono di una sirena, da una posizione definibile ad una di 30 centimetri dietro le mie orecchie, in stereo, mi blocca ad occhi spalancati e mi fa incassare il collo verso il busto come ad una tartaruga. TLEN, TLEN. TLEN, TLEN. Campane del tipo passaggio a livello. Le ho alle spalle. Mi volto. TLEN, TLEN. TLEN, TLEN. Stessa campana. Davanti. Mi giro. TUT TUT. TUT TUT. ... Un treno da destra in lontananza. Guardo. Niente... e il bello è che ho davanti solamente la mia strada di prima, che si stende dritta simile ad un fuso senza mostrare un benché minimo cambio di direzione o accenno di fine. TUT TUT. A destra. E…!!!… un aereo? Poco sopra di me. Un aeroplanino a elica di quelli che vedi passare quando sei in spiaggia. Distante più o meno come quando lo vedi da una spiaggia. Di quelli con striscione pubblicitario, altrimenti cosa vola a fare. Mi sta veleggiando davanti. TUT TUT. TUT TUT. Ecco pure lo striscione. “MA E’ PROPRIO NECESSARIO CONTINUARE A VIVERE?” - MEFISTO S.p.A. Rimango interdetto. Mi osservo i piedi per un momento.

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TUT TUT. Ancora a destra? Ma se è appena transitato! Ripassa l’aereo. Ecco lo striscione. “NO” - MEFISTO S.p.A. Rimango ancora più interdetto, ma non abbasso lo sguardo, voglio vedere cosa fa l’aeroplanino da spiaggia. Con scatto veloce osservo a destra per vedere se ne arriva un altro. Non c’è niente e in un battito di ciglia mi rivolto a sinistra e... non c’è più l’aereo. Ci avrei scommesso, è un classico. Sono pratico di questo tipo di sogni. Però sono ancora interdetto. Dovrei cercare il significato della frase e della risposta dentro, in qualche angolino nascosto del mio cervello. Essendo un sogno mio, me lo sono inventato io, onde per cui un PERCHE’, sottolineato e in maiuscolo ci deve per forza essere. Non ne ho voglia. Chi me lo fa fare uno sforzo così. Pensare… Inizio a camminare ed ecco già la novità. Se prima la strada era grigio asfalto, adesso è bianca, e lì poco avanti si incrocia trasversalmente con un’altra, questa è nera. Prima non c’era, bene, adesso sì. Teniamocela ( plurare majestatis. Sembra impossibile, ma più uno cerca di rimanere coerente nel seguire un proprio sogno, più i motivi di distrazione si susseguono e ci si ritrova a divagare, si perde il filo, cambiano le immagini. Odio l’incostanza. Fine parentesi ). Cammino per la mia strada e intanto guardo quella nera ( color seppia? ) avvicinarsi, sembra una gigantesca striscia di nastro isolante da elettricisti. Qui si incrociano e, accavallandosi, formano un perfetto quadrato di un bel grigio argento lucido, quasi abbagliante. Sento una voce, e il cuore accelerato in conseguenza, per il mezzo accidente preso. Mi volto verso destra e vedo una bocca muoversi ma non ne comprendo le parole, anche se la voce ha un tono molto melodico. E’ un ragazzo nero, un bel sorriso. E’ positivo, si percepisce. - Cosa hai detto? - Mentre glielo chiedo noto che siamo entrambi ancora nella propria strada acolorata, ad un passo dal grigio-argento comune. Dice qualcosa, allargando le braccia. - Non capisco. -, e gli gesticolo con le mani il corrispondente segno, nello specifico, pollice e indice puntati in rotazione vibrata con allegato scuotimento di testa. Dovrebbe essere nel novero dei segni universali, il ‘non capisco’ lo capiscono tutti. Il ragazzo nero sorride di nuovo, dice qualcos’altro e mi poi indica con la mano destra di avanzare. Lo capisco perché dopo il gesto ha fatto un passo avanti entrando nel quadrato di strada grigio-argento. Non sono da meno, anzi, due passi. - Ciao. -, mi dice - Sei il primo che incontro da quando ho intrapreso il cammino. - - Ciao, - rispondo io, - e sarò anche l’ultimo, perché stai scorazzando nel mio sogno. Sei un parto della mia immaginazione. - - Non ne sarei tanto sicuro fossi in te. Potresti essere tu il parto dell’immaginazione di qualcun’altro, anche il mio. - Bella risposta, penso. - Bella risposta, - gli dico, - com’é che adesso ci capiamo? - - Non ci arrivi? Siamo in zona franca, incrocio di due strade. Tu bianco e io nero, nel grigio c’è il punto d’incontro. Mi pareva semplicemente chiaro. - - Volevo vedere se eri pronto. - La frase mi è uscita automatica e mi sento leggermente, anzi due, anzi tre volte leggermente imbarazzato. Che figura da cioccolataio scalzo. - Il mio nome è Marco, tu sei... -, tendo amichevolmente la mano e cerco di recuperare un minimo di dignità. - Jacob. Comunque so chi sei. - - Ah si? - Ci rimango male. - Certo mi hanno mandato a dirti un paio di cose. - - Chi? - - Non li conosci. - e mi segna in alto con sguardo e dito indice. - Saprai anche che sono ateo, vero? - aspetto ghignante per vederlo in difficoltà. - Non è un problema, io devo solo propinarti un paio di frasi ad effetto. La testa ce l’hai, penso. Poi sono cavoli tuoi se vuoi usarla o meno. - - Sei simpatico, sai? -, glielo vorrei dire in altro modo ma non mi viene. Me la sono cercata.

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- Domanda! -, esordisce Jacob in stile telequiz. Non faccio il gesto di mettermi le cuffie perché passerei per deficiente, ma mi stava venendo, avevo già alzato le braccia. - Saresti felice di esistere per una buona causa? - - Si certo. Che domanda. - rispondo senza neppure pensarci. - Bene. Allora ricordati che hai sempre la possibilità di scegliere o perlomeno di tentare. - - OK, grazie del consiglio. E poi? - - E poi basta. Fine. Ho detto due cose e due sono state, una domanda e un consiglio. Questo mi è stato detto di fare, testuali parole ‘Dato che passi di lì digli...’ e io l’ho fatto. - Il suo sorriso è disarmante, ancora più che mai. - Dove stai andando, Jacob? - E’ meglio cambiare discorso. - Oh... -, risponde, distrattamente preso alla sprovvista forse da una domanda di così scarso contenuto. - Per la mia strada. Vedi...via di là. Direzione obbligatoria. -, e mi indica il nastro isolante formato gigante steso senza una fine visibile. - Devo... non ho alternative .- Il suo sorriso non scema neanche un istante. - Comunque -, continua prima che io riesca a parlare (non ne avevo comunque intenzione) - è stato un piacere incontrarti e scambiare qualche parola con te. - - Bé mi fa piacere. Te ne vai di già? - - Sai, voi bianchi ogni tanto con noi neri non vi comportate molto bene. Ma non è il tuo caso, me l’hanno riferito e percepisco la tua aura. - Alle sue parole un senso di soddisfazione mi rende il cuore più leggero. Sto gongolando? Forse. - Grazie. Sono contento di sentirtelo dire. - Gli parlo sorridendo anch’io, sento gli angoli della bocca più aperti e rialzati. Che sia contagioso Jacob? - Gli ultimi due bianchi che ho incontrato non erano molto felici di vedermi. - riprese. - Ah no? - - A parte gli epiteti ed insolenze che mi hanno rivolto, tenendo conto che le parole sono aria che esce dalle labbra facendo rumore e non possono di certo fare danni, avevano anche un paio di coltelli a serramanico. - - Un po’ bastardi, allora .- - Un po’ tanto. -, aggiunge aggrottando leggermente la fronte. - Ma per quelli, il colore della pelle è una scusa buona quanto quella di tifare per un’altra squadra, o essere una donna sola per strada, o un barbone sotto un ponte. E’ questione di testa bacata. - - Vero. Scusami, ma ora devo proseguire. - lo dice come se si fosse accorto di colpo di essere in ritardo. - Ho un appuntamento cui non posso mancare. - - Bé, non so chi dei due sia dentro la testa dell’altro, penso tu, però... spero di rivederti prima o poi, in un altro sogno o da qualche altra parte. - - Da qualche altra parte di sicuro. Però spero tardi, e... un consiglio mio: la risposta è sbagliata, quella giusta è ‘si’. - Mi sento preso in controtempo - che risposta? - - Quella allo striscione dell’aereo. Se sei vivo ci sarà un motivo, no? Cerca di rimanerci, finché hai possibilità di scelta. C’é chi non può. -, calca il tono sulle ultime parole. Sono sempre confuso, - perché mi dici questo? - e intanto Jacob ha già fatto tre passi indietro. - Perché quei due dei quali ti parlavo prima, i due bianchi tarati di mente... - - Eh… - - ...27 coltellate. Mi hanno ammazzato. Ciao. - Si gira ed è già sulla sua strada nera. Ho un attimo di smarrimento. Mi scuoto per riguardarlo mentre si allontana ed è già sparito, lui e la sua strada. La mia è tornata una striscia d’asfalto, mentre l’insieme di strade che prima era un distante ed insensato guazzabuglio, incombe ora sopra la mia testa come visto da dentro. Tutto più grande, tutto più vicino. La sirena di un’ambulanza mi riempie le orecchie facendomi quasi saltare i timpani. Le copro con le mani in un gesto istintivo e automatico di protezione, mentre mi guardo tutt’intorno per cercare di capirne la provenienza. Non c’è.

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Come è venuta se n’è andata, ma accidenti se era fastidiosa. Ho ancora il fischio nell’orecchio sinistro e gli infilo dentro il mignolo, poi lo estraggo in velocità, come se togliendomelo di botto ad effetto ventosa il fischio ne dovesse uscire, pari pari a un vermicello dalla mela bacata. Ho fatto un bel paragone con la mela e la mia testa, mi sono tirato la zappa sui piedi da solo. Il fischio perlomeno è scemato un po’. - Oppala!… Sorpresa. - Davanti a me è cambiata la figura d’insieme. Dovevo aspettarmelo vista la ‘regola’ della distrazione. La mia strada parte in discesa e poi curva a destra, in un lungo tornante che pare snodarsi all’infinito senza mai raddrizzarsi, simile ad un serpente color fumo nel deserto. Nella punta di massima curvatura, non riesco a calcolare la distanza ( neppure approssimativamente e non capisco perché ), perlomeno non è lontano, c’è uno strano complesso che dal vuoto sotto la ‘MIA’ strada ( inizio a sentirla come una mia proprietà ) risale a sinistra in una specie di edificio. Il primo impatto mi dice un incrocio tra un silos, un tunnel di montagna e un autogrill. Anzi, la somiglianza all’autogrill è corroborata da un cartellone rettangolare di tipo pubblicitario, di quelli grandi a tutto stabile. Non riesco però a leggere la scritta. Mi avvio. Non era poi così distante se dopo pochi passi sono già sulla curva, con la sensazione di scarpata nella ossa guardando in giù. Azzurro e strade, strade e azzurro. Azzurro estivo con occhiali… che novità. Non ho più gli occhiali però. Farò senza. Il simil-autogrill somiglia adesso ad un immenso polipo, un Kraken grigio asfalto e bianco muro sporco. Da distante non si notava, ma la parte nascostami dalla ‘mia’ strada contiene una specie di grosso buco nero entro il quale fluiscono una serie incredibile di strade, dopo essersi composte e compattate li attorno, similmente ai rami di un albero seguendone il percorso a ritroso dalle gemme al tronco principale. Il cartellone è veramente grande, posto sotto una balconata che mi ricorda nel suo complesso quello a Verona di Giulietta e Romeo. C’è incisa o stampata una frase in caratteri… comprensibili. Particolari ma comprensibili: “LE LEGGENDE DI UN POPOLO SONO ANTICHE COME LE MONTAGNE”. Sicangu Lakota. E sotto più in piccolo: “Oggi di turno: San Pietro”, con San Pietro cancellato da una riga rossa e irregolare e con sopra, scritto sempre in rosso e con lo stesso stile irregolare, “Orso Grigio”. Bello. Poco professionale, ma decisamente bello, caratteristico. - E’ il mio nome. - La voce è possente, tonante come una serie di colpi di gong in una camera di quattro metri per quattro. A parte il mezzo accidente che mi ha fatto prendere, la figura immensa posta nel balcone sopra il cartellone con la scritta è perfettamente accoppiata a quella voce. Così me lo immaginavo alzando gli occhi, un nativo americano grande e grosso bardato di penne il cui tacchino proprietario doveva avere le dimensioni di un elefante, borchie in ferro battuto, del peso approssimativa cadauna di una cinquantina di chili e strisce colorate, tante, su una giacca di pelle di daino con classiche frange alle maniche. E così è, visto a mezzo busto dalla cinta in su, con le mani appoggiate sul bordo di sostegno del balcone. Un accenno di compito sorriso ed un’espressione anziana di infinita saggezza. - Lo… sapevo. - Ho la bocca impastata, sono impressionato in positivo. Direi addirittura in soggezione davanti ad Orso Grigio, e prima che io riesca ad associare tre parole sensate e dirle consecutivamente lui sta già parlando. E io ascolto. Mi viene facile. Ha una bella e robusta voce, si ascolta volentieri. Ti obbliga quasi ad ascoltarla, ma non è un obbligo, è un rapimento di sensi, di attenzione. - Sto facendo un favore ad un amico, San Pietro. Aveva un impegno. So già cosa vorresti chiedermi, ma San Pietro non riceve le anime in paradiso? E tu cosa ci fai qui? Questa sarebbe la seconda domanda, l’ho sentita tante di quelle volte… San Pietro non può essere SEMPRE qui, o in Paradiso… e poi non sono cose che ti debbano interessare, per ora. Ti piace la frase? -, e mi indica il cartellone sottostante.

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- Si. - Whow, sono riuscito a dire una parola di senso compiuto. Compiuto? Chissà se sbatto le palpebre o mi sono criogenizzato in posizione plastica, bocca aperta e sguardo ebete ad osservare ed ascoltare Orso Grigio? - Nello svolgimento di certi compiti è necessario far sapere chi sei, - sta parlando con impeto. Si vede che per lui è importante. - devi portarti sempre appresso un qualcosa che ti faccia riconoscere, una firma, un marchio, oppure un profumo, un colore. Insomma un ‘Simbolo’. I Simboli sono creati da Noi con uno scopo, Noi in senso tu-io-loro-tutti, in passato-presente-futuro, ma rimangono sempre e comunque simboli, che come tali possono essere cambiati, sempre e comunque. BISOGNA SAPERLI COMPRENDERE. Ricordati queste mie dicerie quando dovrai prendere una decisione e ti troverai in difficoltà -. - Va… bene. - Sbiascico ben due parole in fila. Non ci posso credere. Chissà se le statue di cera del Louvre sono più mobili e loquaci di me in questo momento. Probabile. - - Jacob è già arrivato e mi ha chiesto di salutarti se transitavi da queste parti. Ora prosegui e anche se non è regolare ti do un consiglio lo stesso, oggi sono io di turno e faccio quello che mi pare. Rispondi SI. - - Grazie di tutto. -, non mi viene da dire altro oppure non c’è altro da dire. Con queste tre parole ho formato una frase e con questo pensiero profondo, mi ritrovo a connettere e a stabilire che sto camminando, e davanti a me ho nuovamente una spianata dritta e grigia. Stavolta risulta leggermente in discesa e prosegue finendo… FINENDO?!? finendo in un quadrato. E’ ancora distante per capire cos’è, ma è chiaramente e sicuramente un quadrato. Avanti, quasi quasi corro. Corro. Sto correndo in discesa, vado veloce. Passi lunghi, quasi saltati. Mi sento leggero. Il quadrato si avvicina e al suo interno si cominciano ad intravedere delle linee rette, orizzontali e verticali. Il quadrato si avvicina e le linee sono tre rettangoli, due sotto, identici e più stretti e uno sopra più largo. Mi fermo davanti al quadrato. Due porte d’ascensore senza alcuna ombra di dubbio, con tutti i relativi pulsanti, freccette direzionali e numeri. Sopra, un megaschermo video. Sono sicuro che è un megaschermo video perché dopo un review veloce stanno incominciando a scorrervi delle immagini. E io guardo. Dopo la corsa non ho il benché minimo accenno di fiatone o una goccia di sudore. Chiaro e lampante, mi sembra di aver volato. Forse ho volato, è il mio sogno. E io guardo. Clacson. PEET. PEET. PEET. Clacson di tutti i tipi, striduli, acuti, potenti, penetranti. Clacson da tutte le parti. PEET. POOT. PEET. La riconosco, è Ferrara. In zona Castello Estense, sul viale principale che attraversa la città da un lato all’altro. La videata si restringe fino a fermarsi su un semaforo rosso con figurina di pedone incorporata. Mi frulla un sospetto che diventa certezza quando l’immagine si allarga allo scattare del semaforo verde, includendo strisce pedonali su strada in cubi di porfido, marciapiede con lastroni consunti in marmo, gente sul marciapiede e vista di un pezzo di castello, mattoni rosso scuro e grate in ferro battuto e ossidato. Certezza che si protrae con la gente che dal marciapiede imbocca le strisce pedonali, gradualmente, sfilandosi da gruppo compatto in gruppetti, in coppie, in singoli in fila indiana. La schermata si allarga un po’, quel tanto che porta al centro dell’attenzione una persona tra la gente, un uomo, uno dei singoli nella fila. Si è già lasciato alle spalle un paio di strisce che una volta erano bianche e dietro ha ancora un altro paio di persone. L’uomo non ha fretta, cammina piano. L’uomo è distratto, perso per i fatti suoi. L’uomo sono io.

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PERCHE’ ADESSO DI COLPO E’ TUTTO COSI’ CHIARO? E’ un urlo silenzioso che non esce dalla mia bocca e rimbalza nella mia testa. Ho sempre saputo che non era un sogno eppure ho continuato imperterrito ad insistere con me stesso del contrario. PAURA, semplicemente paura. Non c’è bisogno di ricercare risposte complesse o inconcepibili o fantastiche. Solo paura, punto e basta. Vedo l’uomo/mi vedo seguire con lo sguardo contrito un vecchietto in bicicletta dopo averlo evitato per un pelo e, dalla parte opposta giungere un’autovettura, non grande, un Fiat Uno? Si. Vedo l’uomo/mi vedo investito dall’auto anche se in frenata e il graduale affollarsi di gente attorno e di auto ferme o che passano faticosamente dopo aver strombazzato per minuti interi di clacson. Odio i clacson. Conosco o immagino il proseguimento della proiezione sul megaschermo e conseguentemente della storia, perdendo tutto l’interesse. Il mio sguardo consapevole si abbassa alle due porte di ascensore. Ricapitolando, uno: ci voleva tanto ad essere concreti? Due: ho avuto un incidente, sono in coma. Tre: devo decidere se morire o vivere. Quattro: sono stato consigliato per l’una o per l’altra e ora la scelta è mia. Cinque: mi è stato dato da ‘Qualcuno’ o più di ‘Uno’ il tempo di pensare. Intanto una sirena cresce gradualmente di toni e penso che ormai, se guardo in su dovrebbe essere in arrivo l’ambulanza. Mi rifiuto di osservare e mi rendo conto di quanto perdono di interesse le cose quando sono o diventano scontate, come un film giallo già visto o una storia di zio Paperone già letta. Concludendo, è tutto qui quello che devo fare, scegliere tra vivere o morire prendendo o l’ascensore della vita, che naturalmente andrà in su verso il paradiso, oppure quello della morte che andrà in giù all’inferno. ALT! No. Forse è il contrario. Della morte e vado in paradiso, cioè in su e della vita, in giù e torno sulla terra. Oh no? Dipende dal fatto se sono stato buono o cattivo? Nessun problema. Basta controllare le indicazioni negli ascensori e poi scegliere quello adatto alle proprie esigenze. Che storia fiacca. Qui mi accorgo che se non vedo gli ascensori è perché sto ancora osservando il megaschermo senza però seguirne il contenuto. Quindi decido di mettere in collegamento il cervello ad una sequenza che percepivo solamente a livello visivo. C’è un giovane medico mi sta chiedendo se lo sento, e con indice e pollice della mano sinistra mi solleva le palpebre, mentre con la mano destra mi ha preso un polso. - E tu molla il mio portafoglio! - L’ho urlato prima di rendermi conto che è il barelliere e mi rilasso, ma non troppo. Trova la patente, legge i miei cognome e nome a voce alta. Ripone il portafogli dove l’aveva trovato. Adesso mi rilasso. - Non risponde -, dice il giovane medico, - dobbiamo portarlo via subito. Non so se ce la farà. - - Cosa vuoi saperne tu! Burba -, gli sbraito addosso, - sono io che devo decidere! - e nel contempo un sottotitolo prende a scorrere nella zona bassa dello schermo: DATTI UNA MOSSA. DATTI UNA MOSSA. DATTI UNA MOSSA. Mi da un fastidio che mi si faccia fretta, comunque ho già deciso da un pezzo. Devo solo vedere quale dei due è il mio, di ascensore e… sono… UGUALI! Mi sento un tot di agitazione sorgere spontanea sotto forma di puro terrore frammisto ad acidi gastrici, pure loro sul punto di sorgere. - Quale sei? Quale sei? QUALE SEI??? - Fammi guardare bene. Freccia su e freccia giù, di qua e di la. Apri, di qua e di la. Chiama, di qua e di la. Sono identici. IDENTICI!! E adesso? Quale dei due? Com’è possibile che sia io a dover scegliere e restare, alla fine, in preda al caso. Appunto! Non è possibile. Pensa. Pensa… ORSO GRIGIO! - Urrah! Lo sapevo, ci sono! -

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Premo il pulsante di chiamata dell’ascensore a sinistra, mentre l’ambulanza sopra la mia testa è sicuramente ripartita. Sento la sirena spianata, adesso hanno acceso la bitonale. Si aprono le porte, scorrevoli. Entro e mi giro ad osservare la ‘mia’ strada, per l’ultima volta, quella che mi ha portato fino a li. Con le labbra che mi si increspano in uno storto sorriso, ringrazio sottovoce Orso Grigio, convinto ora più che mai che i Simboli sono solamente tali, noi li creiamo per i nostri scopi, noi li ‘CAMBIAMO’ per i nostri scopi. E’ quello che ho fatto anch’io. - Spegnete quella sirena, per cortesia. Mi fa un mal di testa bestiale. - - Ehi, si è ripreso. -, è il barelliere che mi aveva sfilato il portafoglio. - La sirena, per favore. - ripeto, e una fitta incredibilmente dolorosa mi viene al cervello direttamente via Internet dalla gamba sinistra, Adsl veloce, e senza digitare la password. Non pensavo esistesse un dolore del genere, così forte, così atroce. Il medico mi sta iniettando qualcosa nel braccio. Chiudo gli occhi e i volti di Jacob e Orso Grigio mi osservano sorridenti, mi pare di vederli come in un telefilm ‘made in USA’, quando alla fine appare l’immagine degli attori con sotto scritto il loro nome in stampatello e quello del personaggio che interpretano in corsivo. “Siamo stati bravi, eh?” sembrano voler dire. Si lo so. Dalle vostre facce capisco che era tutto spudoratamente scontato, alla fine della gita nel ‘Parco delle Strade non so Dove’. Allora perché me lo avete fatto fare! Poca fiducia? Era obbligatorio? Lo fanno tutti? Non me lo volete dire. Però mi è servito, mi si è chiarito un concetto che prima era completamente fuori dai miei parametri di concezione, isolato in qualche angolo recondito della mente come un inutile regalo di Natale neppure spacchettato. Ho davanti a me una strada da percorrere, la ‘MIA’. Ne incrocerò altre, quelle di altre persone come me, migliori o peggiori ma non è importante, oppure le strade sconosciute di un destino spiritoso o forse già scritto. BOH! Il fatto vero ed unico, da considerare in questo momento, è, che se sono vivo un motivo ci deve essere. Quale? Lo scopriremo ( Plurale majestatis, mi viene ogni tanto in fase di divagazione ).

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TOMMASO

“Manca poco all’anno 2000 e tutta l’esperienza fatta sinora

non è servita a niente. Siamo quello che meritiamo di essere,

abbiamo quello che meritiamo di avere”. J.

Avevo 15 anni e quella che stavo per varcare era la soglia della mia prima casa infestata da fantasmi. L’incontro con il suo occupante non fu niente di trascendentale, una volta superato il trauma iniziale, ovviamente. Il trovare Tom, lo spettro del ragazzino undicenne morto 4 anni prima nel salotto a pianterreno, diede inizio alla mia fortunata carriera e da allora di case abitate da inquilini “particolari” ne ho visitate a centinaia, incontrandone dei tipi più disparati. A proposito, il mio nome è Antonio, ho 35 anni e sto per andare in pensione. Definitivamente però. Un cancro al polmone sinistro mi ha fatto campare fino a tre giorni fa. Stando alle previsioni del mio medico, adesso sto vivendo tempo regalato. Ben venga. Ritornando a quella casa c’è da dire che non vi era porta a chiudere l’ingresso, ma solo due assi di legno piene di tarli, che incrociate e inchiodate malamente dall’esterno non impedivano ad un quindicenne, magro come l’impugnatura di una scopa, di infilarvisi senza problemi. Avevo un po’ di fifa, poca roba, non per lo spettro di cui si parlava in giro per il paese, ma perché non volevo che qualcuno mi vedesse entrare in casa e chiamasse i Carabinieri che si sa, non sono avvezzi a questo tipo di visite e completamente privi di spirito. A Occhiobello, paesino del Polesine, la gente, come in tutti i paesi si fa gli affari suoi solo quando non dovrebbe e, se mio padre avesse dovuto andare a “ritirarmi” presso una stazione di sbirri mi avrebbe ammazzato di botte una volta giunti nuovamente a casa. Io abitavo nel paese vicino, e quello che mi spinse ad andare in bicicletta per 4 chilometri fino a quell’abitazione mezza in rovina, fu un articolo di un vecchio giornale che avevo trovato il giorno prima nel garage, sotto la cassetta degli attrezzi di mio padre. Strano che non ne sapessi niente. Avrebbe dovuto avere la mia età e in questi caso le voci circolano. Ma è stato il periodo in cui ero in vacanza dai miei zii, a Cuneo e forse qualcuno si è scordato di dirmelo una volta ritornato, anche perché ero rimasto via un mesetto buono. L’articolo, alla pagina numero 3 di un ‘Gazzettino Rovigo’, parlava di lui, di Tommaso, 11 anni, ucciso mentre era a casa della nonna Matilde. La nonna era andata alla balera della “Festa dell’Unità” a farsi un paio di giri di mazurche e lui aveva preferito restare a casa a fare i compiti. I genitori si erano da poco separati e, in una delle poche volte che si erano trovati d’accordo, avevano deciso di lasciarlo per qualche tempo dalla nonna materna. Il padre si era momentaneamente dileguato, forse dietro a una qualche ragazzotta dell’est o cubana, mentre la madre lavorava come barista e cameriera il un locale nella frazione del paese. Colorito violaceo ed ecchimosi enormi sulla gola lo davano per certo strangolato ed in attesa di autopsia. L’aveva ritrovato la nonna rientrando a casa, era nel salotto a pianterreno, riverso a terra e con un libro di matematica aperto vicino ai piedi. Entrai in casa con il foglio di giornale impolverato, e con la ingenua semplicità di un senza barba e milioni di brufoli chiesi a mia madre se si ricordava di Tommaso e se avevano trovato chi era stato ad ucciderlo.

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Dopo un attimo di smarrimento dovuto forse alla crudezza dell’argomento, visto che ormai la faccenda era avviata, mia madre mi delucidò dicendo che non se ne era saputo più niente e che l’assassino non era stato trovato. I sospetti erano caduti sul padre, ma questi era stato per tre giorni con una “puttana drogata”. Mia madre, dopo un attimo di riflessione propense a variare il termine in “donna di poche speranze”, comunque non poteva essere stato lui. L’omicidio rimase insoluto. Tornando alla casa, era pomeriggio appena smontato quando, dopo aver guardato bene in giro e non vedendo nessuno, mi ci infilai dentro ritenendomi ragionevolmente al sicuro da eventuali avvistamenti. Polvere e ragnatele la facevano da padrone e un paio di scarafaggi si dileguarono in altrettante crepe nella parete, in basso nel corridoio, dopo aver percepito i miei primi passi titubanti all’interno. Imboccai la prima porta a sinistra e mi ritrovai in una cucina smessa, della quale rimanevano solo un lavabo e un paio di pensili, incolorati in grigio da polvere e tempo. In fondo al locale sulla destra, un arco con un’apertura larga un paio di metri dava nel salotto sede dell’omicidio, così era riportato nell’articolo sul giornale. A passi lenti e guardandomi attorno curiosamente, giunsi fino al centro della stanza vuota. Dalle ante rotte della finestra filtrava luce sufficiente per poter vedere, dando una luminosità generale a livello di penombra. Notai a fatica sul pavimento i resti dei tratti con del gesso bianco che segnava i contorni del piccolo cadavere. Non speravo in tanto, erano spostati verso la parete sinistra. Nessuno a parte gli inquirenti era più tornato in quella casa, la nonna era andata ad abitare da un’amica ed era morta sei mesi dopo. Un groppo in gola mi fece deglutire, ma mi avvicinai ad osservare più da vicino e mi chinai. Un’immagine come un lampo mi si stampò sulla retina facendomi sobbalzare e cadere all’indietro, atterrito dalla sorpresa e dalla paura insieme. Mi sentivo piccolo e due mani grandi e pelose erano apparse per quell’attimo a pochi centimetri dalla mia gola, sparendo subito dopo avermi fatto cadere all’indietro e sbattere duramente l’osso sacro sul pavimento. Rimasi così, con la stanza vuota davanti, con le chiappe indolenzite e un fastidioso prurito al naso dovuto al movimento della polvere. Con un sussulto ripresi le redini della situazione e seguii senza riflettere quello che l’istinto mi suggeriva: andarmene da li il più in fretta possibile. Un senso di terrore mi cresceva nelle budella, dandomi una sensazione di caldo che dal centro della pancia voleva saltarsene fuori. Partii di corsa verso la cucina e, dopo aver stretto molto la curva in corrispondenza dell’arco, sfiorando il muro di separazione, ebbi il secondo accidente in contemporanea al botto. Attaccate com’erano alla mia gola, le mani le vedevo appena, con braccia ciclopiche con retrostante torace attaccato, il tutto ricoperto da un qualcosa del nero più assoluto. Mi coprivano la completa visuale. L’apparizione fu un attimo, insieme alla legnata che sentii in capo. Fu come se la testa esplodesse e, prima di passare al nero completo dell’incoscienza, mi resi conto di aver sbattuto la testa contro il muro. Quanto tempo passò prima di riprendere i sensi non riuscii a calcolarlo, ma fuori era buio. La luna coi suoi raggi riusciva ad illuminare debolissimamente la stanza, e solamente dopo essersi abituati, gli occhi riuscirono a penetrare l’oscurità, riuscendo a dare forma alla finestra e alle linee principali delle pareti. Ci misi un po’ comunque, prima di riordinare le idee con un minimo di coerenza, capendo cos’era successo e a relegare momentaneamente in un angolo dove non rompesse troppo il tremendo mal di testa che mi aveva accolto al risveglio. Il cervello stava iniziando a pompare a pieno ritmo, e terrore, ansia e voglia di sparire da quel posto tornarono di colpo prorompenti, facendo saltare muscoli e nervi come fossero attraversati da una corrente elettrica e portando il mio cuore a pompare come uno stantuffo da fuoristrada. Mi bloccai impietrito contro la parete, in pratica non mi ero ancora mosso da dove avevo preso la legnata sul cranio, notando una luminosità inconsistente e fumosa che pareva uscire dal pavimento

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quasi a fondo stanza. Smorzai un grido sul nascere al ricordo che in quella posizione vi erano i segni di gesso e quindi era li che era morto l’undicenne Tommaso. Mantenendo la stessa densità, la bianca e impalpabile forma da nuvoletta si trasformò gradualmente in un contorno umano in miniatura, diventando sempre più stagliata e distinguibile nei particolari. La paura è ovvio, rimase, ma la visione non era tale da incutere terrore, anzi, faceva smuovere da dentro un qualche sentimento tendente al buono, al curioso, al compassionevole. Non saprei dire esattamente se fosse una cosa spontanea o indotta dall’apparizione stessa, ma la forma ormai matura non era di un corpo umano in miniatura come era sembrato, ma era quella di un bambino alto si e no un metro. Ispirava dolcezza. E poi parlò con un tono cupo e irreale che esprimeva distanza ma rimanendo pur sempre la voce di un ragazzetto di undici anni. Era uguale, in volto, a Tommaso nella fotografia che avevo visto sul Gazzettino. - Ciao Antonio, io sono Tom…, Tommaso, ma per gli amici Tom. Ti aspettavo. - - C… c… ciao. - Faticai a rispondere e non riuscii a proferire altro. - Immagino sarà una cosa strana per te, - continuò, - ma non devi preoccuparti. Ti chiedo solo di ascoltare la mia storia, poi sarai libero di andare e… di decidere. - - Decidere? - mi chiesi. Riuscii a muovere la testa su e giù. Sentii qualcosa di caldo scivolare giù dall’inguine. - Grazie Antonio. Allora… “- Io vada Tommaso, sei proprio sicuro di non voler venire? - - Si nonna. Domani mi interrogano in matematica ed è meglio che studi un po’.- Il ragazzino appoggiò il libro sul tavolo e le sorrise amabilmente. Si alzò dalla poltrona e le andò incontro. - Torno per le undici. Vuoi che ti porti dello zucchero filato? -. Lei gli prese la testa fra le mani e gli diede un bacio sulla fronte. - Si grazie, - disse lui, - qualcosa di dolce non si rifiuta mai, specialmente se la proposta parte dalla nonna. - aggiunse. - Bene, allora io vado. - - Ciao nonna. -. La salutò, sempre sorridendo, con un cenno della mano e la osservò avviarsi verso la cucina e poi all’uscita. Le aveva raccontato una bugia, almeno in parte, e se ne dispiaceva. Doveva studiare certo, però non più di tanto, ma voglia di andare in mezzo a quella bolgia di ballerini età media sulla cinquantina proprio non gli andava. Per prima cosa, sarebbe salito in camera sua a leggersi l’ultimo albo a fumetti di “Mister No”, poi sarebbe sceso ed avrebbe dato una ripassata rapida allo Zwirner, quel tomo grande come una casa, al capitolo delle equazioni di primo grado. Il compito dell’indomani era l’ultimo, visto che mancava una settimana alla fine dell’anno scolastico. E così fece. Dopo una mezz’oretta fu di nuovo nel salotto alle prese con il libro di testo. Non passò molto tempo e Tommaso sentì suonare alla porta. Chi poteva essere a quell’ora di sera? Bastava andare a vedere. Se era una delle amiche della nonna l’avrebbe indirizzata subito al posto giusto. - Chi è? - - Don Giancarlo. Ciao Tommaso. - - Buonasera. Un attimo che apro. -. Era l’ultima persona che si sarebbe aspettato fosse venuta a cercare la nonna. Aprì la porta e Don Giancarlo apparve in tutta la sua stazza, adombrato dalla luce del lampione sulla strada. L’effetto fu un po’ brusco. Appariva ancora più grosso perché si era scordato di accendere la luce in entrata e l’ombra del parroco investiva completamente Tommaso. - Posso entrare? - - Certo, si. Ma se cerca la nonna non c’è. -

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- Non importa, - disse l’uomo di Dio, con fare benevolo - ma posso dire a te, intanto -, continuò, - alla nonna posso parlare alla prima occasione. -. Intanto era entrato e stava avanzando nella cucina illuminata. - Cosa stavi facendo? - - Studiavo. - - Bene. -. Così dicendo notò il libro aperto sul tavolino in salotto e vi si diresse interessato. Tommaso gli ballonzolava dietro, ansioso acchè il parroco lasciasse il messaggio per la nonna e poi se ne andasse. Nonostante le buone maniere, quel personaggio sempre vestito di nero non gli era mai stato molto simpatico. Gli era sempre apparso, come dire… finto. Il parroco osservò il libro per un paio di secondi. - Matematica. - borbottò con voce contrita e intanto Tommaso notò in lui un cambiamento, il sorriso era diventato una riga dritta e seria e gli occhi gli apparvero più grandi. - Questa è delle cose che fa dimenticare Dio agli uomini. -, il tono ricordava a Tommaso quello degli imbonitori in televisione. - La senti? -, puntò il dito e tese l’orecchio in un gesto plateale. - La chiamano festa, ma è solamente uno dei tanti covi del peccato. -. Guardò Tommaso come a lanciargli un tremendo monito, ed era ormai rosso paonazzo in viso. Questi non aprì bocca, era schiacciato dalla forza di intervento vocale del tizio in nero, e non solo da quella. - Tua nonna è la, vero? - Tommaso rimase immobile, aveva paura. Tanta. Quell’uomo che gli stava davanti pareva pazzo furioso, era pazzo furioso. - E il matrimonio. Cos’è diventato il matrimonio! -, ora urlava, sbraitava, gemeva. - Da fucina di vite per Dio ad uno sporco sozzume di esseri più animali che uomini, e tu… sei un figlio del peccato. Dove sono i tuoi genitori, eh? -. Lo prese per le braccine magre e iniziò a scuoterlo. - Bell’esempio di famiglia è la tua. E tu cosa faresti diventando grande? Il male genera male. E ancora male da male e per fermarlo… bisogna stroncarlo. - La stretta gli faceva male veramente ma non ebbe il coraggio di gridare. Era terrorizzato. Quei due occhi erano infuocati di pazzia, a pochi centimetri dai suoi. Un fetore acido di vino scadente usciva dalla bocca del parroco che gli stava alitando in faccia. Gli venne da vomitare ma non lo fece. Di colpo l’essere che doveva rappresentare Dio in terra mollò la presa, abbrancando con forza al collo di Tommaso. La sorpresa e la rapidità del gesto non gli lasciarono il tempo di reagire. -Tu sei il male. Non hai diritto di vivere. Tu sei il frutto del male… Tu sei il frutto del male… Tu sei… il frutto… del male… - Gli mancava l’aria e la stretta era forte. Tommaso scalciò furiosamente, sollevato com’era dal pavimento e un colpo al tavolino mandò all’aria il libro di matematica. Stava diventando tutto indistinto, la lingua gli voleva schizzare via dalla bocca e sentì gli occhi gonfiarsi come a voler esplodere. Scorse, per ultimo, le mani che stringevano come due ombre chiare e una massa scura davanti a se che divenne nera, nera, nerissima. Poi… il nulla.” - Grazie per avermi ascoltato. -. Tom, o meglio il suo fantasma, mi sorrise dolcemente e sparì di colpo. Ebbi un immediato e alquanto brusco ritorno alla realtà. La fioca luce lunare balenò attraverso la finestra rotta e la testa riprese a dolermi, con forti e penetranti fitte. La paura ormai se n’era andata da un pezzo e un senso di rabbia nei confronti di quel prete assassino e pazzoide mi fece esplodere in un urlo prolungato, potente e cattivo. Piangevo, e notai una piccola pozzanghera sotto e addosso al mio piede destro. Non avevo pianto così tanto. Piangevo per Tom e la sua triste storia e pensai a quanti altri come lui avessero dovuto, innocenti, sopportare angherie come questa e anche peggiori. Uscii dalla casa per tornarmene alla mia. Lì non avevo più nulla da fare, e strada facendo presi la decisione che cambiò la mia vita. Rintracciai il parroco omicida che nel frattempo era stato

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trasferito, indagai a fondo sulla faccenda e alla fine riuscii ad incastrarlo, per quello ed altri quattro delitti. Quel giorno era il 5 di maggio ed anche il giorno del mio diciottesimo compleanno. Il resto della mia vita lo passai cercando di rimediare ai torti subiti da queste anime afflitte, che a causa di morte violenta non potevano lasciare il luogo terreno della loro fine per poter riposare eternamente in pace. Evidentemente “nell’aldilà” si era sparsa la voce e ad ogni nuovo impalpabile amico, risultavo già conosciuto con il nome con il quale mi aveva battezzato Tom. L’acchiappa uomini. Un po’ ironico come soprannome, vero? Anche perché il film “Ghostbusters” è uscito al cinema qualche anno dopo. Naturalmente non potevo campare di aria e quando il mio conto in banca iniziava ad andare in rosso, in sogno venivo visitato da Tom, che sempre con il suo familiare e dolce sorriso mi passava qualche risultato di calcio o qualche nome di cavallo. Sempre senza esagerare naturalmente. Ora che è praticamente giunta la mia fine, spero di poter rivedere tutti quanti loro, i miei amici incorporei, e devo dire di essere contento di lasciare questo mondo avendo fatto almeno qualcosa di utile.

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IL TEMA DI PIERINO Era un gran frastuono di getti d’acqua e schiuma, pompe idrauliche e motori roboanti. - Stacca l’acqua. - urlò quello alto con l’ascia dal manico rosso in mano, mentre gesticolava con il braccio libero la stessa identica cosa. Un movimento dall’alto verso il basso e poi una rotazione di dita e polso ad un rubinetto inesistente. L’altro, un po’ più basso e largo, non sentì l’urlo nel modo più assoluto ma comprese perfettamente l’insieme di gesti. Le bande rifrangenti della sua tuta rosso-amaranto da vigile del fuoco riflettevano, per istanti, i raggi inclinati del sole negli occhi del primo uomo quando, muovendosi nello stretto spazio di un metro quadrato, le angolazioni venivano a corrispondere. Deposta a terra la manica in tela collegata all’autobotte, in pochi secondi raggiunse il suo collega nonché comandante che nel frattempo si era lentamente avviato verso le macerie ancora fumanti del plesso scolastico, nella parte destra dell’edificio. - Ehi capo, hai qualche idea di come sia successo? - - Doloso. Non so come quando e perché, ma certamente è doloso. - Continuò a muoversi guardando con attenzione generale in cerca del particolare stonato che gli fornisse un appiglio per approfondire poi l’indagine. Visto da fuori, il suo modo di comportarsi in pratica pareva un osservare a destra e a manca con quasi totale noncuranza. Con la lama dell’ascia scostava detriti e smuoveva polveri. Si fermò a raccogliere un pezzo di legno non completamente carbonizzato, lo guardò un attimo alzandolo a livello occhi e lo rigettò dov’era. - Da cosa hai dedotto che è doloso? - lo incalzò il suo collega, mentre gli era ormai a ridosso e con un fazzoletto rosso sbiaditissimo si asciugava la faccia sudata. - Ehi capo? - ripeté, - da cosa? - Questi si girò su se stesso senza distogliersi dall’avanzare e per un momento lo guardò fisso negli occhi, - me lo ha detto la Polizia. - Si voltò di nuovo e proseguì lentamente. - Ah! - - Hanno ricevuto una telefonata un po’ strana, sembra da una maestra della scuola. Particolarmente strana. Non mi ricordo il nome della donna anche se me l’hanno riferito, forse finiva per ‘etta’, o ‘ella’, non importa comunque, ma diceva che il fuoco purificatore rimaneva l’unica speranza. Fuoco purificatore… e ha specificato il posto. Questo. Piangeva. Pare che abbia pianto e singhiozzato per tutta la telefonata. Da questo parrebbe chiaro che è sicuramente doloso. A meno di sorprese…-, finì con le ultime parole dopo aver lasciato un attimo di pausa a termine discorso. - Ehi capo, ma gli psicotici una volta li rinchiudevano, e adesso? Li mandano a insegnare nelle scuole? - - Chissà… - - Ha combinato un bel disastro. Ma è una scuola o una discarica? Senti che puzza… - Avanzando, avevano camminato attorno alla scuola compiendo un giro in senso antiorario, portandosi sul retro. In alcuni punti il muro dell’edificio era crollato, distante comunque dalle strutture angolari portanti. Per il resto era annerito a più tonalità in scalare, con l’intonaco in parte solo cotto, in parte anche screpolato. - Il fuoco ha attecchito da fuori, entrando poi in quell’aula -, indicò la direzione al suo subalterno puntando con l’ascia e a braccio teso, - per caso o per intenzione, più o meno dev’essere stato così. Anche lì vicino alla rete è partito qualcosa. Si vede dalla terra più scura e dalla forma circolare. - Si avvicinarono entrambi, continuando a scrutare in cerca di particolari come d’abitudine. - Non è qui che ci hanno chiamato la settimana scorsa? Giovedì… forse venerdì. Giovedì. Non c’ero io ma me l’ha detto Accardo. Non capita spesso di venire allertati perché un pezzo di meteorite cade nel cortile di una scuola, almeno non dalle nostre parti. -

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- Si, il posto è questo. È l’unica scuola del paese percui è qui che è caduto il meteorite, anche se non ne hanno rilevato traccia. Ho letto il rapporto, e a parte un bel buco profondo non hanno trovato niente. - - Sembra che abbia fatto un bel botto però, quando è caduto. Anche se era un pezzetto piccolo, se beccava la scuola o una casa mi sa che… - - Guarda, - lo interruppe, - mi sa che il buco del meteorite era quello lì. Gli indicò un tratto di terreno vicino alla rete di confine. Dall’altra parte c’era una bella villetta a due piani, discoste una quindicina di metri più addietro. - Hanno riempito il buco nel terreno con carta e cartacce varie e poi l’hanno incendiata. - Scostò, sempre usando l’ascia, una montagnola di residui bruciati. - Guarda qui. Plastica fusa… - rovistò più a fondo - mi sa che erano bidoni di benzina, o kerosene più probabilmente. È questa la puzza che senti, plastica e kerosene. - - Ehi capo, ma non ti da fastidio stà puzza? Ci sei sopra con il naso… - Non rispose. Era già all’opera concentrato nella sua ricerca di risposte. Scavando nel cumulo si riconoscevano resti di quaderni, disegni, fogli fotocopiati, una carta geografica dell’Europa e libri, anche tomi piuttosto consistenti. Questi ultimi, roba vecchia, ingiallita, secca e polverosa, erano quasi tutti completamente andati e solo in alcuni restava un po’ di rilegatura con qualche frammento di pagine attaccate, dai bordi frastagliati e anneriti. Il minimo per stabilire cos’erano stati. Rigirò ancora un po’ la lama provocando uno svolazzare di polveri grigie, andando a disturbare foglioline stratificate di cenere che si riposavano li vicino, queste ancora compatte e troppo pesanti per aver pretese di volarsene via. Qualcosa di lucido scattò fuori. Era la copertina quasi intatta di un quaderno, così colorata di tinte accese che in mezzo a quel grigio e nero dava l’idea di un qualcosa di fuori posto se non addirittura alieno. D’istinto lo raccolse. Lo osservò un momento. Lo girò, con la delicatezza con la quale si tratta una reliquia o una cosa preziosa e lo capovolse sentendo polverizzarsi qualcosa tra le dita. Era il retro della copertina che si sbriciolava assieme alle ultime pagine che non erano riuscite a salvarsi dalle fiamme, per il resto il quaderno era intero, solamente un po’ oscurato ai bordi e strinato agli angoli. - Cos’hai trovato? Qualcosa di interessante? - La voce del suo collega giunse tagliente come una coltellata, squarciando quel lieve velo di isolamento dal mondo reale creato dalla distrazione. - Eh?!?… E’ solo un quaderno, niente di strano. Tu vai avanti, io arrivo subito. - Riguardò quello che aveva tra le mani e il velo a dividerlo dal mondo era già riformato. Il fatto che spesso e volentieri, anche in mezzo ai resti del più fetente e schifoso degli incendi, c’è sempre un oggetto o più di uno, che rimangono indenni o quasi nonostante siano composti del materiali maggiormente infiammabili esistenti, rimaneva un fatto e basta. Era normale perché rimaneva o rimanevano occultati e protetti sotto strati di altra roba e il fuoco, per quanto bastardo, non attecchiva sempre e completamente dappertutto. Quello che lo lasciava un po’, diciamo perplesso, ma che non è il termine adatto ma quello meno discoste il relativo stato d’animo, era un altro fatto; più che altro il criterio di scelta del fato sul tipo di oggetto da salvare. La teoria, qualunque teoria possa esserci a proposito, diceva “casuale”. Cos’altro poteva dire. La pratica invece gli diceva tutt’altro. Ti veniva da dire “toh! Che strana combinazione”, e questa cosa capitava molto ma molto spesso. Forse troppo spesso. Il “toh! Che strana combinazione” in passato gli aveva dato parecchio da pensare. E stavolta? Voltò incuriosito la pagina di copertina, passando da una vista di rosso striato di giallo e arancio alla pagina interna bianca e lucida, alla prima pagina opaca e a righe. “Bimbatti Pierino, classe quarta, sezione A. Scuola Elementare ‘A. Turri’, STIENTA (Rovigo)”. Iniziò a sfogliare… un’altra pagina opaca e a righe. 10 marzo. Tema: “Si avvicina la Festa del Papà”… Continua a sfogliare… 27 marzo. Tema: “E’ quasi Pasqua”… / 16 aprile. Tema: “La Cresima”… / 25 aprile. Tema: “Che giorno è? A cosa ti fa pensare?”… / 5 maggio. Tema: - Era ieri! - Aprì bene il quaderno e percepì un sommesso scricchiolìo tra le sue mani…

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5 maggio. Tema: “A casa mia”. “Casa mia è vicina alla scuola. E’ così vicina che quando non piove posso andare dietro casa mia, scavalcare la rete della recinzione e sono dentro il parco della scuola, però dietro la scuola. Fino a giovedì della settimana passata, quando un meteorite ha fatto una buca rompendo anche la rete. La maestra dice che il meteorite era un sassolino piccolo piccolo che però è arrivato dal cielo così veloce che ha scavato una buca profonda 3 metri e larga 4. Io non ho sentito niente quando è successo, la mamma e il papà invece si ma credevano un aeroplano e alla mattina il buco era li. Adesso non posso più scavalcare, non si può. Tutti dicono che è pericoloso, la maestra, la mamma e il papà. Papà ha detto che se lo faccio mi riempie di sberle e se lui lo dice poi lo fa davvero, che non devo andare dalla buca perché potrei farmi male. A casa mia, che è una bella casa, succedono cose strane da un po’ di tempo. Il mio gatto quando miagola da incavolato o sbuffa, butta fuori dal naso delle nuvolette di fumo nero dentro a bolle che sembrano fatte di sapone. Mio fratello dice che forse lo ha mangiato il sapone, però poi le bolle spuffano mandando tanti luccichini e una volta ho visto una farfalla di quelle grosse trovarsi in mezzo e cascare in terra stecchita. Casa mia non è un albergo, lo dice il mio papà con mio fratello che è più grande di me, e che è sempre in giro e va a scuola a Ferrara, all’ITIS. E’ una casa a due piani, il primo dove ci vanno le macchine e il secondo dove abitiamo noi e io guardo la televisione. Però è dietro casa mia che ci sono le cose da raccontare nel tema che sono tanto più interessanti. Vicino alla buca grande del meteorite c’è una buca piccolina da dove vengono fuori continuamente i vermi, quelli lunghi, grossi e rossi. Ogni tanto mi fermo a guardarli e lo vedi il verme, spuntare fuori con la testa, se è la testa ma penso di si perché viene avanti, guarda in giro come se cercasse qualcosa e poi parte. La direzione è verso la ciotola del mio cane, anche se è distante. Il verme esce, striscia per un po’ e poi prende fuoco e non resta niente, solo una righina nera e storta. Mio fratello dice che si chiama autocombustione. Bruciato un verme passa poco tempo e ne spunta un altro e anche lui fa uguale. Guarda in giro, esce, va verso la ciotola di Clinton che è il nome del mio cane, poi brucia con una lucina arancione. E’ così da un po’ di giorni, da quando c’è la buca continuano a uscire un verme dopo l’altro e si è fatta la scia di bava e la montagnina di cenere. Sempre li vicino ma a destra della buca è anche cresciuta una pianta. Non l’ho mai vista una pianta così, ma la mamma dice che dovrebbe essere una pianta ma non ne è sicura. Ha un unico fiore bianco e uno stelo verde scurissimo, con le foglie rotonde e ogni giorno cresce sia il fiore che lo stelo e fa una foglia nuova. Adesso sono cinque e sono messe attaccate allo stelo come i gradini della scala che ho per andare in soffitta, a giro chiocciola. La prima volta che ho guardato il fiore da vicino ci sono rimasto abbastanza male, perché quando gli ho passato la mano sopra si è aperto e mi ha guardato anche lui. Non sto dicendo una bugia, l’ho fatto vedere anche alla mamma che non mi credeva ma poi ha visto anche lei. Le ciglie del fiore si sono aperte e l’occhio mi ha guardato, e ha continuato a guardarmi e seguirmi fino a che non mi sono allontanato e nascosto dietro il muro.

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Poi si è chiuso perché sono tornato indietro a vedere ed era chiuso, e fa così ogni volta che gli passo sopra la mano e gli faccio ombra. Adesso è diventato un occhione grosso grosso, ci si vedono anche le vene rosse come quelle del nonno. A casa mia siamo io, che sono Pierino, la mamma Piera, il papà Augusto, il gatto Bogumil, il cane Clinton e mio fratello Giorgio. C’è anche il nonno, Euterpe, che è vecchio e ogni tanto mi dimentico che c’è perché è sempre via con la bicicletta. Non la muntain bike ma quella vecchia e scassata tutta nera. Fa un casino boia perché non ci mette l’olio. La mamma ultimamente ha qualche problema di memoria, non trova più un dito. La cosa per me è grave perché il dito che ha perso era l’indice della mano destra, che è quella che usa di più con il computer. Non è da molto che perde le dita, sempre da dopo che è arrivata la buca, il meteorite a fare la buca. Ma la mamma se li riattacca non appena vedeva che le cadevano. L’altra mattina facendo colazione dopo essersi alzata si è accorta che le era caduto un dito, lo ha raccolto e riattaccato ma gliene mancava già uno e non lo ha proprio ritrovato, e si che abbiamo cercato dappertutto. La mamma mi ha spiegato che è come quando si va dal dentista e ti mette le capsule posticce in attesa che arrivino quelle vere di ceramica. Si staccano sempre perché la colla non tiene, poi ti stufi, le appoggi in giro e non ti ricordi dove le hai messe e le ritrovi un mucchio di tempo dopo quando meno te lo aspetti. Il papà ieri era preoccupato per il pino, quello che ha piantato il nonno quando lui è nato e allora gli è molto affezionato. Il pino è tanto alto, più della casa e le pigne cadono per terra facendo dei botti e lo lasciano spoglio. Dopo essere cadute, le pigne sembrano come i pezzettini di ferro quando li prendi con calamita, che ti avvicini e saltano loro. Quando le pigne toccano terra si sparano indietro contro il tronco del pino e ci restano attaccate, stanno li un pochino poi fanno un rumore come quando la mamma frigge le patatine nella padella e vedi che si sciolgono li attaccate. Il tronco ormai è diventato il doppio, più di un metro dice il mio papà. A me, a casa mia, mi piace fare gli esperimenti. Vicino alla cuccia di Clinton però distante che con la catena non ci arrivi, pianto le code di lucertola che Bogumil stacca quando ci gioca. Quasi tutti i giorni o su o giù dalle scale ne trovo una. Le ho sempre piantate nella terra e poi annaffiate per vedere se crescono, anche se lo so che non possono crescere, non sono piante, ma non si sa mai. Infatti le ultime tre che ho piantato hanno dato dei risultati però non come pensavo io. La mamma mi ha detto di non dire niente a nessuno, ma mi dice pure di non raccontare bugie e adesso io non sto dicendo niente a nessuno, sto scrivendo. L’altro ieri o quella prima, di giorno, una delle code mentre le guardavo ha incominciato a muoversi. Si è drizzata e poi a continuato ad andare qua e la a tutta velocità, pareva che ogni tanto volesse andare sotto portandosi dietro la stecchetta di legno piantata dove l’avevo legata con lo spago. Dopo due minuti ha smesso e non si è più mossa. Ho aspettato ancora un pochettino per vedere se riprendeva ad agitarsi ma non c’è stato più niente da fare, la sorpresa c’è stata però quando l’ho tolta da sotto terra perché ero curioso. Magari c’era una talpa o un altro animaletto che da sotto ci giocava, diceva mio fratello, invece quando l'ho tirata su c’era la lucertola tutta intera ricresciuta e anche le due vicine, ma erano morte tutte e tre.

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Per mio fratello, e io gli credo perché non è scemo ed è più grande, prima erano vive, quando si muoveva quella che ho visto io e anche le altre che non ho visto, poi sono morte soffocate perché erano sotto terra e non sono riuscite a uscire a respirare. Lui dice che si vedeva dalla terra dentro la bocca e penso che sia vero perché sbattendo le lucertole sul marciapiede di casa la sabbietta la sputavano fuori. A casa mia il nonno è quello più sfortunato, ultimamente. Gli succedono le stesse cose che capitano alla mia maestra, ma essendo il nonno molto più vecchio è anche molto più lento. Ad esempio, proprio ieri mentre ci dettava il titolo di questo tema alla maestra è caduto un occhio, è rimbalzato sulla cattedra e poi quando si è fermato vicino all’orlo gli sono uscite otto zampette nere tipo ragno, di quelli grossi e pelosi non quelli piccoli e sottili, e si è messo a correre giù per il piede della cattedra. La maestra lo ha bloccato prima che arrivasse in fondo al piede e se lo è rimesso apposto, perché lei non è ancora vecchia e non ha l’artrite. Il nonno invece quando gli è caduto l’occhio era in corridoio, gli è scivolato sotto gli occhiali e dopo essere rimbalzato e avere rotolato per un po’ ha messo fuori le gambette anche lui e ha cominciato a sbattere da una parte all’altra del corridoio come una pallina nel flipper. Il nonno senza occhiali è praticamente cieco e l’occhio senza occhiali puoi immaginare quanto ci vedeva, pim pum contro il muro. Quando il nonno stava finalmente per prenderlo con la scopa bloccandolo in un angolo, è arrivato il mio gatto Bogumil che lo ha mangiato in un solo boccone e poi è corso via. E’ molto sfortunato il nonno invece il mio papà…………..“. - Oh… accidenti! - Il vigile del fuoco si ritrovò senza più pagine da sfogliare. Il suo volto esprimeva un’espressione a metà tra l’esterrefatto e lo sconvolto. Quello che aveva appena finito di leggere gli aveva insinuato un senso di disagio inconcepibilmente esagerato. Si sentiva fisicamente male, era stanco e lo stomaco lanciava segnali di rivolta. Era depresso. - Capo! Capo! - La voce esagitata del suo collega gli giunse da dietro l’angolo del malridotto edificio li avanti pochi metri. Doveva essere tornato sui suoi passi visto che tardava a raggiungerlo. - Capo!… eccoti qua. - Lo vide sbucare ansante e arrossato in volto. - Vieni, presto. C’è un cadavere dentro un armadio e… qualcosa di strano. - La sua espressione era tutt’altro che tranquilla. - Arrivo. -, gli rispose senza pensarci mentre qualcosa pareva volergli salire dallo stomaco su per l’esofago accennando ad un conato di vomito. Contemporaneamente fu distratto da un lieve rumore e una leggera, seguente di un attimo, botta su di un piede. Qualcosa gli era caduta sulla scarpa, e non poteva aver sbattuto contro niente, perché, fu il suo pensiero, non si era ancora mosso da quando aveva preso in mano il quaderno, nemmeno di un millimetro. Guardò cos’era e urlò. Non quando vide che vicino alla sua scarpa destra c’era un dito, ma quando si accorse che era un suo dito, per la precisione l’indice della mano destra.

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LA FESTA DEGLI ANGELI

- Ma che accidenti di strada ho preso. - Sbottò Franco all’ennesimo sobbalzo della vettura all’ennesima buca presa. - Dove sono finito. - Rallentò portandosi e destra e fermandosi sul ciglio della strada, se tale si poteva definire quella distesa tutt’altro che piatta cosparsa di ghiaia e di sassi di dimensioni raccapriccianti. Si guardò intorno come per cercare un qualcosa che lo facesse raccapezzare. Un particolare, qualunque cosa. A sinistra, una distesa immensa di girasoli e a destra campi di granoturco ancora poco cresciuto. Altro non si vedeva. - Mi sa che ho sbagliato leggermente strada, porca malora troia. - Lo disse a metà tra l’ironico e l’incazzato. Stando alle indicazioni seguite avrebbe dovuto trovarsi al centro di un paese con almeno duemila anime, cosa che non era sicuramente, a meno che non fossero tutti Puffi e allora, probabilmente, essere nascosti dentro uno dei campi antistanti, girasoli o granturco che fosse. Decise di tornare indietro e proseguire diritto per la strada principale, alla faccia del tipo che lo aveva fatta finire li in mezzo con le sue indicazioni di scorciatoie sicure. Con quattro manovre e qualche improperio a contorno riuscì ad invertire la marcia. Questi inconvenienti sono cose da prendere con filosofia, come si suol dire, anzi, erano già da preventivare, vista la sfiga dell’incarico che gli avevano assegnato al giornale, o era più appropriato dire ‘affibbiato’. Si era sorbito più di 180 chilometri per andare a finire, se fosse riuscito ad arrivarci, in un paesino nel padovano ad intervistare un vecchio, probabilmente sclerotico e visionario, se non alcolizzato, che diceva di aver visto un UFO o qualcosa del genere. In redazione non erano stati molto precisi. Si assestò meglio nel sedile per non sobbalzare troppo inforcando le inevitabili buche, al pensiero che come ammortizzatori quell’auto, la sua auto, faceva proprio schifo. Ormai era quasi ora di cambiarla. Non aveva percorso ancora 200 metri e a seguito di uno scoppio la macchina sbandò. Dopo un attimo di panico riuscì a frenare e, seguito da un paio di sbalzi maggiorati dalla foratura, si fermò imprecando come un ossesso. Niente ilarità stavolta, questo era troppo pure per lui, anche perché si era subitamente ricordato che la ruota di scorta era completamente a terra. Da un mese almeno diceva di farla gonfiare ma aveva sempre rimandato. - Fanculo. Fanculo. Fanculo. - Scese dall’auto sbattendo la portiera con violenza. Osservò lo pneumatico anteriore sinistro completamente a terra e poi gli sferrò un calcio. - Fanculo anche tu! Schifosa di una gomma. - Notò, vicino al cerchione, un chiodo piantato, di quelli belli grossi a arrugginiti da tetano istantaneo. Annuì stizzito. - OK! -, trasse un respiro profondo, - Nessun problema. Una telefonata al soccorso stradale e farò due servizi in uno, recupero macchina e tutte le informazioni che mi servono. - Pensare in positivo era uno dei suoi punti fermi. Estrasse dal taschino della giacca il cellulare, ultima generazione, supermini e leggero come una piuma, un gioiellino di tecnologia. Premette l’interruttore accensione, prima l’aveva spento per evitare disturbi mentre era concentrato in ricerca strade, e formò il 116. - E prendi la linea, accidenti a te… - lo scosse e si apprestò a ripetere il numero. BIP BIP. - Merda, è scarico. - Una minuscola scritta BAT, in nero su sfondo verde lampeggiò alcune volte prima che il telefonino morisse inderogabilmente. - E no, non puoi. Mi sei costato una cifra, bestia di un infernale aggeggio del c… Va bèh! Ho già capito tutto. - E fu così che, rimesso il cellulare nel taschino, chiuse a chiave l’autovettura e si avviò lungo la strada tutta buche che d’asfalto non aveva mai sentito parlare. Prima non l’aveva notata, ma c’era una casa, forse l’unica in tutta quella lunga via.

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Aveva percorso circa un chilometro, probabilmente qualcosa di più quando, alla sua sinistra la vide attraverso gli steli scarni di piante di granturco ancora a inizio crescita. Una stradina doveva pur esserci li in mezzo a tutto quel verde e terra, per arrivarci a quella benedetta casa. Camminò per un altro paio di minuti e vide il sentiero. Lo imboccò maledendo un callo che da sotto il piede destro lo faceva zoppicare leggermente. - Con la fortuna che mi ritrovo oggi, minimo non ci trovo un cane. - In cinque minuti raggiunse una minuscola aia e suonò al campanello di una casetta vecchia e decadente ma che dava però l’idea di essere abitata. C’era un senso di ordine in giro. Erba tagliata, un mucchio di legna ben accatastato. Vasi di fiori erano allineati vicino al muro per ordine di grandezza, decrescendo verso l’entrata. Una tenda si scostò dalla finestra alla sua sinistra e, attraverso il vetro reso opaco dagli anni, scorse due occhi scaltri in un volto scarno e rugoso. Alcuni secondi dopo la porta, lentamente, si aprì cigolando ed apparve una vecchietta minuta con una sopravveste lunga e le babbucce ai piedi, una ‘mise’ completamente in nero. - Buongiorno signora. Scusi se la disturbo ma ho forato una gomma, la più avanti -, indicò la direzione con il braccio teso - se potessi fare una telefonata per chiamare il carroattrezzi le sarei molto grato. Naturalmente pagando per il disturbo. - A continuazione di una tipica giornata storta si stava già preparando psicologicamente alla notizia che la vecchietta era sprovvista di telefono. - Signorina. - Disse questa con un tono di voce tenue e tono piuttosto basso. - Signorina, si. Scusi. - - Venga pure. Signor… - - Tosi. Franco Tosi. Sono un giornalista e sono arrivato da Milano per intervistare una persona. - Si affrettò a dire. Essere giornalista, a volte, offre qualche vantaggio. La vecchietta, nonostante l’apparenza, si proponeva sicuramente come intelligente e acuta, si trovò a constatare ad un’osservazione più attenta, ed anche parecchio in gamba. Lo precedette a passo spedito e lo portò fin davanti ad un telefono a tasti. - Le va un tè freddo, signor Franco? -, gli chiese mentre lui componeva il numero, - tanto il paese è a 10 chilometri e dovrà aspettare un poco. - Franco sorrise ed accettò, grato di tanta gentilezza da parte della sua ospite. Fatta la telefonata la ringraziò sentitamente, confermando l’affermazione precedente di voler pagare per il disturbo arrecatole, ma non ne venne a capo. Lei lo invitò a sedere sul divano vicino al telefono e in pochi secondi si allontanò, tornando con una caraffa colma di tè, due bicchieri ed alcuni biscotti su di un vassoio che pareva d’argento, e se non lo era perlomeno brillava uguale. I biscotti avevano il tipico aspetto di quelli fatti in casa, dalla forma leggermente diversa l’uno dall’altro, ma veramente invitanti. Lui le chiese come si chiamava, Agnese, e le raccontò le sue ultime disavventure tanto per avviare un po’ la conversazione e passare il tempo in attesa dei soccorsi. - E’ qui per il raduno? - intervenne lei, variando completamente il discorso. - Come? - - Le ho chiesto se è qui per il raduno. Un giornalista non fa tutta questa strada per niente. -, ripeté. - Sono qui per intervistare… aspetti che le dico il nome, me lo sono scritto da qualche parte. Così magari mi può anche dire dove posso rintracciarlo. - Si infilò una mano nella tasca destra dei pantaloni e ne estrasse un fogliettino spiegazzato. - Ranieri… Ranieri Walter. Via… Matteotti 21… Ma che raduno? - - La Festa degli Angeli. Se deve parlare con il vecchio Walter è solo per la Festa degli Angeli. Se anche avesse dovuto intervistare qualcun altro sarebbe stato per la Festa degli Angeli. E’ l’unica cosa che smuove questo paese dal suo eterno torpore. - Aggiunse candidamente. - No. - Affermò sorpreso allargando le braccia. - Non ne so proprio nulla. Però se vuole dirmi qualcosa… - - Comunque non l’avrebbe chiamata nessun altro se non il vecchio Walter. E’ nuovo del paese prima di tutto. E poi, poveraccio, ha problemi seri di memoria, a volte non ricorda neppure cosa ha

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fatto un’ora prima ed è capace di ripetere le stesse cose per tutta una giornata come un disco incantato. - La vecchia lo fissò dritto negli occhi. - Non le crederà nessuno, in seguito, se vorrà scriverci un articolo e raccontarlo al mondo. Sa, li hanno anche fotografati, ma poi allo sviluppo i negativi erano neri. Non sei il primo a passare. - Accidenti agli Angeli, pensò, la vecchia Agnese mi pareva una personcina ammodo ed equilibrata e invece… - Invece cosa? - Disse ella scostandolo da quell’attimo di distrazione. - Hai pensato che mi credeva ammodo ed equilibrata, e invece? - Franco ci rimase malissimo. - Ma… non ho aperto bocca… io… - La minuta vecchietta gli sorrise amabilmente, il suo sguardo era dolce come quando si trova un gattino spaesato davanti all’uscio di casa. - Ci sono tante cose a questo mondo che non conosci, ragazzo mio. - - Mi ha letto nel pensiero? - - Si, certamente. Lo trovi… strano? - Agnese parlava con lui, adesso, mantenendo quel tono materno che aveva gradualmente assunto. Non è possibile, pensò Franco, sto dando i numeri, è lo stress… - Non è lo stress e non stai dando i numeri -, ribatté subito la vecchia senza dargli tregua, - prendilo come un dato di fatto. Qualcosa di anomalo certamente, un dono in più di madre natura se vuoi, ma un dato di fatto e basta. - Franco si sentiva piuttosto confuso. La vecchia esprimeva un ché di ipnotico, di convincente, di buono e di strano tutto mescolato insieme in modo indefinito. - Vuoi sapere degli Angeli? - Lo incalzò nuovamente prendendolo in contropiede. - Si. - La risposta gli venne automatica. La sua bocca si era aperta ed espressa al posto suo. - Va bene. Comunque sappi che, tu ci creda o no, non riuscire a provare niente nel primo caso e non vedrai niente nel secondo. Così è sempre stato. - Franco accennò ad un si muovendo su e giù la testa. Il suo stato mentale gli suggeriva che piuttosto di pensare era meglio stare ad ascoltare la storia di Agnese. Le decisioni erano rimandate al dopo. La vecchia prese a raccontare, la voce pacata e gradevolmente intonata. - Ogni anno qui in paese si svolge la Festa degli Angeli. Inizia a mezzanotte del Solstizio d’estate, il 21 giugno, e va avanti fino alla mattina. Non è proprio in paese, ma da qui la distanza è pressoché uguale. Se prosegui per questa strada tra quattro o cinque chilometri tenderà a sinistra e a salire. Se vai per quella principale, poco prima di giungere in centro c’è una stradina ancora più stretta di questa. E’ sulla destra e non è asfaltata, come quasi tutte del resto. Si fatica a vederla quando si forma l’erba, però se si cerca si trova, come dice un proverbio, e una volta imboccata prosegue diritta per un pezzo e poi diventa in salita. Tutte e due portano ad una collinetta che in linea d’aria disterà otto chilometri più o meno, e sopra c’è una villa con un parco, piccolo ma molto bello e fiorito. Li, tutti gli anni come dicevo prima, gli Angeli si radunano e fanno festa fino al mattino, liberi da ogni limitazione terrena. Sembra che ce ne giungano a centinaia, ma è difficile riconoscerli perché ai nostri occhi sono come noi e riescono ad arrivare alla villa senza farsi notare. Non sempre però, qualcuno è stato riconosciuto non so come e qualcun altro è stato visto andarci in volo e forse l’intervista che devi fare più che un avvistamento UFO è stato qualcuno di loro ha anticipato la sua ‘liberazione.’ - - Non mi pare di aver mai parlato di avvistamenti UFO. - Obiettò Franco interrompendo il discorso. - Bisogna sempre parlare per sapere le cose? - L’espressione di Agnese riluceva di una tranquillità disarmante. - E poi? - Chiese Franco alla pausa della vecchia, non rimanendogli niente da controbattere. - E poi basta, è tutto qui. E’ arrivato il carroattrezzi. - Si sentì il rumore di una frenata e il balbettìo distinto di un motore diesel, e fu come spezzare un filo. Franco rimase come risvegliato da un incantesimo dalla fretta di ripartire.

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- Bèh Agnese -, iniziò con notevole imbarazzo estraendo il portafogli, - insisto. Voglio sdebitarmi per il disturbo. - Lei gli si era già avvicinata e posandogli la mano sulle sue intente a trafficare tra le banconote lo bloccò e disse - lascia stare. Un tè in compagnia e due chiacchiere tra amici sono più di quanto si possa chiedere. - Sorrise. - Sei un bravo ragazzo. Ricordati però una cosa, i fatti sono reali ma dimostrarli, i fatti, è tutto un altro essere. Senza qualcosa di oggettivo in mano non puoi fare assolutamente niente. E quando si tratta di qualcosa di ‘diverso’ -, sottolineò la parola - allora anche una dimostrazione può non servire a niente. Non farti influenzare e segui il tuo cuore… e forse anche il tuo destino. - Rimasto senza parole per l’ennesima volta e alquanto frastornato dall’anormalità dei discorsi, Franco si lasciò accompagnare alla porta, riuscendo a mormorare un ‘grazie’ appena distinguibile. Si voltò a guardare il mezzo di soccorso, giallo e blu con la scritta ACI 116 sulla portiera e fece un cenno all’autista. Si rivoltò a cercare Agnese ma questa non c’era già più e l’uscio di casa era chiuso. Non aveva fatto nessun rumore, oppure il carroattrezzi aveva coperto tutto con il suo rombare scoppiettante da motore diesel. Il clacson del mezzo di soccorso lo richiamò e, una volta scosso, si avviò rapido a salire nella cabina assieme all’autista. Ci vollero tre ore abbondanti per recuperare l’auto, portarla in paese all’officina e far riparare la ruota oltre a rigonfiare quella di scorta. Nel frattempo Franco, informatosi su dove poteva rintracciare il suo interlocutore dato che si era scordato di farselo dire dalla vecchia Agnese, si era scarabocchiato una specie di cartina del luogo con i punti principali di riferimento che gli interessavano. La casa di Walter Ranieri,fuori centro un paio di chilometri dalla parte opposta alla direzione del suo arrivo, troppo distante per andare a piedi a fare l’intervista. Il centro del paese, con le sue due vie principali che si incrociano ad X in mezzo ad una piccola piazza. La casa della vecchia strana e simpatica Agnese e infine la collina degli Angeli, con le sue due vie di accesso. La storia lo stava attirando, foss’anche una bufala. Ci si può sempre ricamare sopra. Forse non era abbastanza succosa per un articolo da prima pagina, ma un po’ di righe nelle pagine delle curiosità gli avrebbero portato in tasca qualcosa e magari, se andava bene ci stava una serie di articoli in tema. Le notizie di quel tipo incuriosivano più gente di quanta sembrasse, lo sapeva per esperienza personale. Era curioso, tremendamente incuriosito e stuzzicato. Qualche voce tra i locali l’aveva captata. Chiacchierii simili a segreti di stato, voci in sottotono che si riattivavano alla presenza dello ‘Straniero’ che vagava per il paese, mezze frasi buttate in una strana e totale agitazione da fatto in imminente svolgimento. Tutti sapevano ma nessuno parlava apertamente. Da buon giornalista valeva la pena saperne di più, tentare di scoprire qualcosa. Telefonò al giornale da un bar, visto che il suo cellulare era in macchina attaccato all’accendisigari per ricaricarsi. Tornato all’officina ingannò l’attesa tentando di scucire qualche informazione al meccanico, ma un muro sarebbe stato certamente più loquace e forse anche più intelligente. Erano da poco scoccate le cinque pomeridiane quando, di umore nerissimo, risalì in macchina dopo essere stato salassato nelle finanze per i lavori sulla vettura. Per la stessa cifra avrebbe potuto comprarsene almeno un treno nuove, di gomme. Dopo dieci minuti aveva già rintracciato Ranieri ed era seduto a tavola, in cucina a casa sua, con lui davanti ad un bicchiere di vino che non aveva niente da invidiare all’acido muriatico in quanto a gusto. Walter Ranieri dimostrava almeno una settantina d’anni. Era chiaramente a disagio in presenza di Franco. Si notava chiaramente che intendeva parlare ma era titubante, la tipica titubanza di chi vuole dire qualcosa senza passare per ignorante o scemo o credulone e non sa da dove cominciare. Da mestiere, Franco lo mise a suo agio più che poté e dopo qualche frase molto sul cortese e un minimo di incoraggiamento Walter partì cauto nel suo racconto, dapprima in modo un po’

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sconnesso, nervoso e pieno di pause, poi man mano più sicuro e preciso nei particolari, convinto nell’esposizione e convincente nell’argomentazione. - E’ stato due giorni fa. Erano le sette di sera, esatte. Sono sicuro sull’ora. Avevo appena guardato l’orologio perché le campane in paese stavano ancora suonando. Avevo finito di zappare l’orto e volevo andare in casa per rinfrescarmi poiché ero sudato e impolverato, dopo tutto un pomeriggio fuori non ne vedevo l’ora, quando ho visto qualcosa con la coda dell’occhio sopra la casa. Non sul tetto, su in aria, in alto. Mi erano sembrati due uccelli, grossi, ma due uccelli. Però erano troppo grossi. Qui da noi non ce ne sono di quelle dimensioni e la cosa mi è parsa subito anomala. Se prima, distrattamente, era stata una cosa a cui non avevo fatto caso, un momento dopo ero incuriosito e volevo vedere che razza di uccelli erano. Guardai in su e li vidi. Erano uomini con le ali. - Il vecchio smise di parlare ed osservò Franco, sicuramente per testarne la reazione. Questi rimase serio, continuando a dimostrare interesse ed esortandolo a riprendere il racconto. - Interessante. Avevo sentito qualcosa in proposito. - Buttò l’amo con la frase già collaudata in varie occasioni. - Continui pure la prego, se c’è dell’altro. - Non se lo fece dire di nuovo. - Incredibile vero? Uomini con le ali. Erano nudi, con ali bianche e grandi e pareva che stessero parlando tra di loro come in una passeggiata in piazza. Le ali si muovevano lentamente, erano… sospesi in aria. Li ho seguiti per almeno cinque minuti, poi tra casa e alberi sono spariti e non li ho più rivisti. Sono anche andato al primo piano della casa e poi alla finestra in soffitta ma non li ho proprio più visti. Ero scosso, davvero. Mi sono bevuto un paio di bicchieri di vino per riprendermi. Forse erano anche 4 o 5 i bicchieri ma non importa, non ero ubriaco quando li ho visti. Dopo forse… di sicuro, ma prima no. Ci tengo a precisarlo. - L’uomo, Walter, ora si rivolgeva a Franco, dalla cui reazione dipendeva sicuramente il modo di proseguire il loro contatto. O continuava a parlare come una fiumana in piena ad un ascoltatore recettivo, o si sarebbe schermato dietro il più completo silenzio ad un comportamento incredulo, o poco chiaro, o sfottente. Franco aveva annotato tutto, rapidamente e nelle parti essenziali, su di un block-note. Finì di scrivere le ultime parole e girò foglio. Un pizzicorino alla base del collo lo metteva sull’attenti. Non aveva mai creduto nel soprannaturale ma… C’era qualcosa, lo percepiva. Il vecchio non stava mentendo. Non gli sembrava né stupido né un caso da allucinazioni e c’era un quelché in più, non sapeva cosa ma l’aria, il paese, tutta la zona ne era impregnata. Era come se qualcuno avesse mollato in giro tonnellate di un gas particolare e l’ambiente ne risultava saturo. Se ne sentiva l’odore, se ne captava l’intensità. Lo cosa era insieme preoccupante ed eccitante, gli sarebbe piaciuto scoprire una qualche anomalia, qualcosa di… diverso? Si, diverso. - In che direzione andavano gli ‘Angeli’? - chiese. - Verso… -, il vecchio si bloccò. Finora la parola ‘Angeli’ non era mai stata usata, neanche al singolare. - Lei sa qualcosa, vero? - Cambiò tono Walter. Ora somigliavano più ad un paio di amici di antica data che da piccoli credevano alle streghe ed ora, adulti e dopo tanti anni di cruda realtà, scoprono di crederci ancora. Alla domanda Franco non parlò ma accennò un si, muovendo la testa. - Andavano verso la collina. Alla villa, sicuramente alla festa degli Angeli. - Fece una pausa di qualche secondo, riflessiva, prima di riprendere. - Ci ho pensato dopo… per questo ho telefonato. La mia memoria è un po’ così va e viene, è l’età mi dice sempre il dottore. Non è da ridere? Quando la mia testa funziona so di non avere testa e quando non funziona sono convinto di averla. Io non abito qui da molto, un paio d’anni. La casa era del mio fratellastro, me l’ha lasciata quando è morto. In paese di Angeli e della festa ne avevo sentito parlare molto poco. Pare che siano discorsi che debbano rimanere tra i locali e, ultimamente ho sentito qualcosa di più. Forse cominciano a considerarmi uno del luogo. Comunque ne avevo sentito parlare… non ne avevo mai visto uno, a differenza di altra gente. E’ diverso, tra sentir dire e vedere. E’ diverso, molto. Forse non dovevo ma ormai avevo telefonato ed eccoci qui a parlare di Angeli. Non pensavo venisse qualcuno. -

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Franco accennò un sorriso. - Cos’altro sa di questa festa? - Chiese continuando a scrivere in un corsivo leggibile per pochi. - Quasi niente… - Franco si sentì ripetere a grandi linee quello che la vecchia Agnese gli aveva già riferito. - Perché ha telefonato? - La domanda lasciò Walter perplesso. - Intendo - fece per spiegarsi meglio Franco, - il motivo reale. Vuol far conoscere a tutti l’esistenza degli Angeli o lo ritiene un fenomeno da studiare o un pericolo da eliminare, o qualcos’altro. Perché? - La risposta fu un - non lo so - e dopo un attimo di pausa aggiunse, - paura. Forse. - - Ha idea del motivo per il quale questa notizia non ha ancora fatto il giro del mondo? E si che è una notizia bomba. Qualcuno mi ha detto che non riuscirò mai a provare niente, anche se riuscissi a vedere e a capirci qualcosa. - Walter non gli seppe rispondere. A Franco fu chiaro che era giunto il momento di congedarsi, l’argomento era esaurito. Nessun altro commento, nessuna richiesta, nessuna promessa. Un arrivederci detto da entrambi sulla soglia di casa e tutti e due sapevano essere un ‘addio’, un ‘a mai più rivederci’. Era normale. Franco era in macchina, diretto verso il centro del paese. Pensieri su pensieri lo tenevano in uno stato di confusione dal quale non riusciva a districarsi. Un’idea particolare si faceva strada a spintoni in quel guazzabuglio e resisteva a tutti i tentativi di logica soppressione. La sua parte pensante più prudente gli suggeriva di chiudere lì, confermandogli che l’incarico era stato svolto e poteva scrivere non uno ma ben due articoli, assommando ciò che gli avevano detto prima Agnese e poi Walter, uno sugli Angeli e uno sull’avvistamento; poteva avviarsi sulla strada del ritorno e non stare a scervellarsi inutilmente. La parte meno raziocinante, quella istintiva, selvatica e curiosa, gli diceva di arrivare alla villa, spronandolo a mettersi ad indagare. Strano ma vero, era una delle pochissime volte che questa seconda parte stava per riuscire ad avere il sopravvento. Non era per paura o per pigrizia, ma di solito non ne valeva la pena. Stavolta invece era una di quelle poche occasioni nelle quali la faccenda si prospettava interessante. Mancava poco alla strada sterrata che portava a casa della vecchia Agnese e poi, proseguendo, alla collina degli Angeli. Ancora in bilico sulla decisione, ma era solo una proforma di tipo psicologico, giunto all’incrocio svoltò bruscamente all’ultimo istante rasentando il ciglio della strada. - Bene, ora si balla. - Furono le uniche parole a voce alta di tutto il tragitto, anche perché parlare da soli non è molto edificante, che si concluse alla base della collinetta in mezzo ad alcuni filari di viti, posti in centro ad un campetto di girasoli. - Posto giusto per attendere il buio e poi andare. Nel frattempo qualche piano più o meno serio si può buttare in andazzo. - Con questi buoni propositi scese dall’auto e nel baule cercò la torcia elettrica. Visto l’andamento della giornata era meglio controllare se funzionava e ben sperare. La trovò e la provò. Tutto bene, almeno questa. Si risedette in macchina, sospirando al primo momento somigliante ad un po’ di relax. Guardò l’ora nell’orologio sul cruscotto. 19.30. Aveva lasciato l’abitazione di Walter Ranieri alle 18 e 30 circa e dopo esserci rimasto per un’oretta abbondante. Non doveva attendere molto per entrare in azione, un’ora e mezza o tre quarti al massimo. La villa l’aveva intravista e sembrava deserta, ma quel famoso senso di generale presenza oppressiva era molto più intenso. Trasse un bel sospiro appoggiando le spalle allo schienale e la testa alla sua estensione, osservò l’orizzonte. In mezzo, i radi viticci intrecciati si stendevano disordinatamente senza riuscire a raggiungersi tra filare e filare. Il cielo era limpido, azzurro, striato di bianco da qualche nuvoletta inconsistente. Il primo accenno di rosso in basso gli faceva presagire un imminente e tranquillo tramonto di fine primavera.

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Rimase così, in contemplazione. Il peso della giornata intensa ed il caldo iniziarono a farsi sentire al primo attimo di rilassamento vero che si concedeva dopo la levataccia mattutina, il viaggio ed il resto. - Ancora una mezz’ora e poi… -, si era accorto che stava rapidamente lasciando il mondo reale per un altro dove si vaga a occhi chiusi. Era veramente così stanco? Riuscì a chiedersi prima di addormentarsi, o era… qualcos’altro?… Il risveglio fu brusco. Un suono acuto anche se distante lo aveva fatto sobbalzare, penetrando nell’isolamento creato del sonno profondo. Era buio. Se ne rese conto praticamente subito e guardò l’orologio sul cruscotto della vettura. La sensazione di essersi appisolato per un attimo era completamente sballata. Mezzanotte. Il ‘Giornalista’ si appropriò quasi immediatamente dell’entità Franco scalzando tutto il resto. Il ‘quasi’ erano una caterva di improperi lanciati mentalmente per non fare rumore, da buon professionista qual’era. Scese dall’auto e si diresse alla strada pochi passi dietro di lui e prese a percorrerla mantenendosi sul ciglio e il più in ombra possibile. Lampioni non ve ne erano ma luna e stelle si davano da fare più che a sufficienza. Libero da altri pensieri tentò inutilmente di decifrare suoni e rumori che provenivano da sopra la collinetta. Giungevano comunque di sicuro dalla villa. Qualcosa stava succedendo e lui avrebbe scoperto cosa. Aveva dormito alla grossa per non accorgersi di niente ma ormai non poteva star certo a recriminare. Percorse circa duecento metri e, dopo una curva a sinistra sulla salita, scorse distintamente la sagoma della costruzione. Tutte le finestre erano illuminate ma niente di innaturale, solo un grande dispendio di elettricità. - Sarà contenta l’Enel quando stilerà la fattura. - Si ritrovò a pensare Franco, inarcando la bocca a formare un leggero sorriso. Continuò a salire e ripensò a tutta la storia sugli Angeli, iniziando a farsi l’idea che fosse solo una fesseria e che stava perdendo tempo andando ad investigare ad una festa mondana di industriali e arricchiti, che bevono come spugne e sniffano chili di coca, con contorno di qualche tartina al caviale e battone di classe. Riprese la salita e giunse, dopo l’ultima curva, ad una cinquantina di metri dal limite della proprietà. La villa era a due piani oltre il piano terra, con ingresso centrale. Sopra quest’ultimo, una per piano, due porte con relativo balcone. Tre a destra ed altrettante a sinistra erano le finestre e le luci interne, tutte accese, amplificavano i rari tratti illuminati all’esterno di un bianco sfavillante, facendoli risaltare in quel miscuglio di ombre di forme geometriche che si veniva a creare dell’intersecarsi di tutte quelle proiezioni. Un passaggio largo circa quattro metri, limitato da un paio di piloni in pietra a vista in un basso muretto di un metro scarso, era l’unico accesso che si notava, e andava dritto alla porta principale arrivandoci dopo una sessantina di metri di ghiaia bianca e grigia. All’esterno non vi erano sorgenti luminose. Imboccò il vialetto e si fermò due passi dentro ad osservare attentamente. Ora c’era qualcosa di strano. Nessuna automobile o un mezzo che fosse uno era visibile dentro a quel parchetto cosparso di forme vegetali non molto comprensibili, almeno così nell’oscurità. Forse erano parcheggiate sul retro, suppose, ma sapeva che non era così. Si continuava a percepire un gran rumoreggiare, molto più forte ma ancora comprensibile. Parevano in ogni caso voci, tante voci acute e sovrapposte. Non vi era però nessuna traccia di movimento ed era, la staticità generale, veramente fuori dal normale. Gli vennero alla mente quasi tutti i nomi dei films di Hitchcock e si soffermò un attimo in più sulle immagini rimembrate di ‘Uccelli’. Merli, colombe e i loro colleghi alati infestavano il cielo come ad una invasione di cavallette. Si vide nella scena mentre un paio di loro si stavano staccando dal girovagare in aria per farglisi incontro a folle velocità. Scendendo si ingrandivano, ma non solo per l’avvicinamento. Le loro

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dimensioni continuavano ad aumentare e da due colombe ( colombe? ) si stavano trasformando in due uomini, nudi, con grandi e bianchissime ali attaccate sulla schiena che si muovevano appena come vibrando. Gli erano quasi addosso ed ognuna delle ali, adesso così vicina, era più grande del suo proprietario. Mentre stavano per afferrarlo l’immagine svanì. La paura forse gli aveva inconsciamente ricordato che era davanti alla villetta dal ‘tempo bloccato’ e non in un film, anche se del grande e mitico Hitchcock. ‘Tempo bloccato’!! l’idea scaturita da sola lo portò a verificare guardando l’orologio, ma questo proseguiva nel suo lavoro di segnalare l’avanzare di secondi, minuti ed ore. Un’altra delusione in quell’irreale situazione, che proseguendo per quella direzione di pensiero rischiava di trasformarlo in un pauroso nevrotico senza nessuna idea sul come proseguire la sua indagine. Alla faccia del giornalista professionista. Di botto quell’odore, quella presenza olfattiva quasi tangibile che aveva riscontrato in tutta la zona scordandosene forse per abitudine, gli fece arricciare il naso a mo’ di stazione di rilevamento. Tentò di catalogarlo, ma non conosceva quell’odore. Il suo sistema lo archiviò tra i nuovi e nel contempo un impulso interno, sotto forma di ‘vocina’, lo incitò a mettere da parte remore e paure e ad entrare in quella casa. Andare una volta per tutte a vedere che cavolo c’era dentro, angeli o non angeli, Hitchcock o non Hitchcock. Affrontò rapidamente l’ultimo tratto e si parò davanti al portone d’ingresso, rendendosi conto che quell’odore gli stava come invadendo la mente, rendendolo meno lucido e meno attento. Continuava a sentire quel brusìo di voci, ma adesso parevano più distanti. Cercò il pulsante del campanello ridendo al pensiero di un cherubino con l’arpa, che presentandosi sospeso a mezz’aria lo invitava ad entrare dopo avergli aperto la porta. L’annuncio: Franco Tosi, giornalista. Senza invito, tanto non può provare niente. Si accomodi. - Sveglia scemo -, si disse scuotendo la testa, - non è il momento di andare in tilt adesso. - Trasse un profondo respiro ma si sentiva annebbiato e inconnettivo, la testa pesante come dopo una sbornia. Con uno sforzo non indifferente si concentrò sull’accesso notando la dissimmetria delle due ante. Era aperta. Si accostò alla porta e lentamente la spinse creando una fessura e cercò di guardare dentro, non vedendo nient’altro che un angolo di stanza illuminato. Si aprì un varco maggiore e infilò incautamente la testa, pensando che normalmente non si sarebbe mai comportato in modo così poco scaltro, ma non gli interessava. Era ebbro proprio come una bevuta o… ‘ossigeno puro’. Eccola l’idea che vagava tra le pareti del suo cranio senza riuscire ad interconnettersi, ossigeno; respirarlo ha gli stessi effetti di una sbronza. Che sia la causa del suo stato euforico attuale? Vuoi che qualcuno…? Concluse il suo pensiero con un ‘chissenefrega’. Era certo che la stanza fosse vuota, e così entrò in quello che altro non era che una grande stanza vuota e odorosa… Fu come se il pavimento con annessa stanza si fosse volatilizzato. La sensazione di vuoto sotto i piedi durò un attimo, sostituita da una idea di leggerezza estrema e di spinta in avanti. Luce bianca, fioca e frizzante al tempo stesso. Vi era dentro, sospeso. Le voci erano adesso tutt’intorno, amplificate ma prive di direzione e di significato. Franco ne rimase ammaliato, ipnotizzato, e dopo un momento di indefinibile durata se ne sentì parte, integrato fino al midollo in quella cosa che non sapeva cosa fosse e dove fosse, o se fosse qualcosa di quantificabile, classificabile oppure no. Tutto però gli risultava familiare, fin troppo. Era una sensazione che gli proveniva da dentro, in qualche recesso di quell’anima forse molto più vecchia del suo corpo. Un involucro si ritrovò a definirlo, sentendosi come un uomo dentro la carcassa di un’auto che sta per essere schiacciata in una pressa da sfasciacarrozze. Comprese di aver lasciato il giornalista fuori dalla porta della villa lasciando il posto, dentro di essa a un qualcos’altro. Umano?? Forse… ma sicuramente diverso. Un diverso che sapeva, lo sapeva, si sarebbe affermato in tutta la sua memoria ancestrale.

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Era come se un vecchio cassetto si stesse aprendo lentamente e dentro, vecchissimi oggetti lasciati a depositare riportassero, uno alla volta tornando alla mente, il loro ricordo con relativa storia. Storia piacevole o meno, particolari di vita passata che esplodono di memoria come fotogrammi di un film e che fanno in ogni caso approdare ad un sorriso. E così, attimo dopo attimo, ricordo dopo ricordo, Franco si ritrovò Angelo tra gli Angeli. La collina riluceva di chiari raggi che si diffondevano in cielo come i bagliori di un crepitante fuoco bianco. La mezzanotte era ormai passata da un pezzo e la vecchia Agnese riaccostò la tenda della finestra, decidendo che era giunta l’ora di andare a far riposare le sue anziane e stanche ossa. La sua tisana era praticamente pronta, questione di secondi prima che il timer del fornello suonasse. Alcune pagine di un libro, stesa a letto, e poi dritta fino all’alba ( anche un po’ di più, visto che il suo orologio biologico scattava con la sveglia alle 10 ) di magico sonno ristoratore. Dieci minuti dopo era sotto il lenzuolo. Prese il consunto ( molto consunto ) libro dal comodino e se lo pose in grembo delicatamente, leggendo sulla copertina scura fatta in non si sa cosa ma veramente parecchio logora. Quante volte l’aveva letto? Si chiese. Tante. Nella sua lunga vita ‘tante’, si rispose, sperando di poterlo rileggere ancora spesso. “ LE STANZE DI DZYAH – Traduzione dal Latino del testo dall’ “, il resto era stato cancellato dall’usura ed era illeggibile. Il titolo era anch’esso semi cancellato ma rimaneva comprensibile nella sua interezza di lettere argentate. Un segnalibro, una listina in cartoncino, spuntava lateralmente verso la metà del tomo. Aprì il testo al segno e prese a leggere la pagina ingiallita con i bordi sfumati in grigio, dal punto in cui era rimasta. La luce dell’abatjour diede un cenno di calo di tensione, poi, dopo un paio di rapidi lampeggi, riprese il suo lucore costante di gas e tungsteno. “ … e in questa stanza DZYAH che contempla gli Angeli, all’ultimo scalino della gerarchia abbiamo gli Angeli smemorati, i quali, uscendo dal loro cielo riservato, non riescono a trattenere la memoria del luogo, vagando poi dispersi per i mondi fino a che gli Angeli del penultimo cielo non riescono a recuperarli in un modo o nell’altro. Questo è il loro compito primario all’invero del… “ Era stata una giornata lunga per lei. La vecchia Alice si addormentò con il libro poggiato in grembo mentre fuori, sulla collina, lampi di bianche luci simili ad esplosioni, illuminavano silenziosamente quel tratto di cielo notturno. Tutto questo sarebbe continuato fino all’alba, quando il sole ai primi bagliori all’orizzonte avrebbe decretato la fine, anche per quest’anno, della Festa degli Angeli.

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I MECCATRONICI

“Vero o falso? Ragione o torto?

Spesso è solamente una questione di punti di vista”.

J.

I Meccatronici? Leviatani. La somiglianza è troppo marcata, per non dire speculare. Sicuramente le leggende riferite a questi esseri enormi, mostruosi, pinnati e carnivori sono scaturite in qualche modo a causa dei contatti con i Meccatronici in tempi remoti. Avete presente i vecchi films del ventesimo secolo tipo Aliens, Predator, La Creatura degli Abissi e lo stesso Leviathan ( chissà se ci sarà ancora qualcuno che potrà ricordarli )? Tutti parenti prossimi, così vicini all’aspetto reale dei Meccatronici da far pensare che gli ideatori di quelli considerati films fantastici di un tempo, avessero avuto realmente dei contatti alieni e quindi, la fantasia orripilante che ne decretò il successo, non era altro che un ricopiare spudorato dall’originale. La mia condizione attuale di Cybertron mi permette di ricordare, senza recriminazioni o atteggiamenti di parte, i fatti avvenuti sia prima che dopo l’arrivo sulla Terra dei Meccatronici e di dare un resoconto non influenzato da esasperate psicologie umane. Un resoconto imparziale… ma per chi? Forse per non atrofizzare la mia capacità di elaborare pensieri, visto che non è rimasto più nessuno per ascoltarmi. Comunque, una volta abituati ad averli sott’occhio non è che i Meccatronici sia poi così di aspetto repellente. Forse però i miei canoni di bellezza hanno subito col tempo una qualche variazione basilare. Ma partiamo dall’inizio, l’anno era il 2007, metà estate. Ricordo ancora l’afa che a quel tempo, circa una decina d’anni ( se la mia capacità di valutare il passare del tempo non si è alterata ) rendeva l’aria soffocante e, a temperature normali tra i 30 e 40 gradi centigradi con un grado di umidità minimo del 60%, ad ogni movimento i pori della pelle liberavano litri di acqua, lasciando i vestiti costantemente appiccicosi. Giunsero i Meccatronici, sulle loro grandi navi, nell’ordine di chilometri, e scintillanti al sole. Una flotta extraterrestre di migliaia e migliaia di dischi dorati che apparvero tutti insieme offuscando la luminosità dell’astro come in un’eclisse parziale. Il genere umano non reagì minimamente, per il semplicissimo motivo che non poteva. Era stato bloccato tutto l’apparato energetico mondiale con un campo magnetico a rete disposto attorno al pianeta. E solamente impedendo all’elettricità di lavorare, la Terra rimase alla mercé degli invasori, alla stessa stregua di un gruppo di faine che entrano in un pollaio. E quella fu la fine che fecero gli uomini, la fine dei polli ( scusando la battuta un po’ tendente alla freddura ). Come Cybertron sono collegato al terminale dati della base centrale dei Meccatronici, un ammasso di materia organica che occupa lo spazio di una stanza con assolutamente niente a che fare con la tecnologia terrestre di inizio millennio, che orbita attorno alla Terra sulla più piccole delle uniche tre astronavi rimaste a presidio. La quantità di notizie e dati cui ho potuto accedere è parecchio cospicua, e a parte quelle di carattere tecnico e scientifico, per una buona parte ancora fuori dalla

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mia portata comprensiva, quelle storiche mi hanno dato parecchie risposte sul passato della Terra e dell’umanità ( ora passato sul serio ), riservandomi molte novità che non hanno mancato di stupirmi. In altre condizioni di acquisizione, probabilmente non vi avrei mai creduto, ma ora posso solamente prendere il tutto come dati di fatto. Ritornando alla venuta dei Meccatronici, la Terra fu subito nelle loro mani, chiamiamo così quegli arti informi, color rosso sangue come la carne spellata e viva, variabili in lunghezza e diametro, che parevano tentacoli gommosi, con artigli lunghi e affilati come rasoi. Le nostre armi, le poche rimaste utilizzabili, sortivano il medesimo effetto di un sasso nell’acqua contro di loro. A cosa serviva ai Meccatronici, la Terra? Risposta semplicissima. Rifornimenti. Una storia lunga di secoli, secoli e secoli, fino dall’alba dell’apparizione di esseri viventi senzienti nell’universo, che si ripete all’infinito, come regola di sopravvivenza: cibo e materiali. Ora come ora, lo stato o meglio il profilo, o meglio ancora l’utilizzo della Terra, può essere paragonato ad un grande magazzino-mercato. Oppure, per rendere più chiara l’idea, a una grande stalla cooperativa autosufficiente, con tanto di allevamenti, selezionatori, prodotti agricoli e non per il loro mantenimento e nutrimento. Ma questo è solamente la parte indotta dal progetto primario, cosa ben più importante, e cioè una notevole quantità di materie prime per applicazioni meccatroniche: tanti cervelli intellettualmente capaci e sviluppati, per produrre Ipersoftware in primo luogo, e poi Cybertroni e Biotroni come prodotti e sottoprodotti affinati secondari. Non che vari di molto il tipo di intelligenza umana da quella meccatronica, la differenza sta in circa un milione di anni di sviluppo anticipato di quest’ultima, ma la sostanza è identica. Ma ponendo la questione da un altro punto di vista, diciamo sotto un profilo matematico, cioè impostando un’equazione nel senso: Meccatronici stanno agli Umani, come gli Umani stanno alle galline ( tanto per non variare troppo con gli esempi ), si ha un’indiscutibile logicità nel susseguirsi degli eventi. Considerando che gli umani tiravano il collo alle galline per farne cibo e ne usavano le uova, i Meccatronici hanno potuto benissimo e senza problemi di coscienza ( peraltro inesistenti ) mangiare carne umana e usarne l’intelligenza per l’ipersoftware. Non scartare nulla di ciò che può essere usato; è una delle loro prime regole, da buona società civile di consumatori, e soprattutto ecologica. Capiterà di porsi la domanda: perché proprio la Terra e gli uomini? Non è che la cosa sia successa per antipatia a prima vista, o tirata a sorte come una carta in mezzo al mazzo… no! I Meccatronici, da validi mercanti cosmici quali sono ( diventati con l’esperienza ), hanno una mente logica sopra le spalle ( dalla forma, perlomeno sembrano spalle ), e hanno agito come ottimi amministratori delle loro gestioni. Diciamo pure che noi terrestri siamo stati allevati, curati, selezionati, aiutati, finchè non siamo stati pronti. Non ci hanno creato ( come risulta dal terminale dati ), ma ci hanno trovati parecchio tempo fa quando eravamo, per così dire… pulcini. Ai tempi della nostra preistoria eravamo in pochi, carne buona, selvatica, ma niente intelligenza utilizzabile ( o troppo poca e di pessima qualità ), e un affarista che si rispetti non mangia poche uova oggi quando domani può avere a disposizione un’infinità di galline. Dopo tempo, sforzi e sacrifici e non pochi interventi da parte dei Meccatronici, nell’estate 2007, anno dei faraoni era stato denominato, purtroppo ( io odio i faraoni ) in ricordo degli antichi Egizi, finalmente gli umani avevano raggiunto le condizioni ideali di sfruttamento ( anche perché se aspettavano ancora un po’ probabilmente non ne sarebbero rimasti molti data la capacità autodistruttiva umana ormai esasperata ). Carne più delicata anche se meno saporita, ma ancora ottima e molto migliore di quella animale inferiore, che però rimaneva la più diffusa e facilmente reperibile, in mancanza di meglio ( la carne umana costa parecchio e non tutti possono permettersela ). Il grado di intelletto aveva raggiunto il livello 7, il massimo dello sviluppo nelle specie umanoidi e quindi l’ideale. Materia ricercatissima e di immenso valore per ottenere i migliori ipersoftware.

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L’umanità nel senso carnale della parola, non esiste più come specie terrestre. Non so dove sia finita, forse in giganteschi freezer spaziali, fuori dalla portata di batteri e sostanze degeneranti, conserva dal freddo cosmico molto meglio di un qualsiasi impianto di congelamento. Sopravvive solamente una piccola parte a livello mentale; infatti alcuni cervelli, scelti non so in base a quali criteri più o meno scientifici o attitudinali, sono stati collegati a circuiti simbiotici meccanici e biologici. Come ho già detto ora la Terra è come una mega-fattoria, con le mandrie di animali da allevare e campi da coltivare. Però ha bisogno di essere gestita e il sistema è di un’efficacia estrema. La nave comando orbita attorno alla Terra con le altre due e fa capo ai Cybertroni, come me. Noi Cybertroni controlliamo alcune migliaia di Biotroni ciascuno, i quali, a loro volta, curano tutta l’attività manuale dei robotidi semplici. Gli elementi composti di intelligenza meccanico-elettronica, quelli che l’uomo stava inizialmente scoprendo nei robot, del tipo auto-decisionale, stando sempre alle informazioni ( scarse ) del terminale dati, si sono rivelati, dopo migliaia di anni di uso da parte dei Meccatronici, pericolosi. Non viene trasmesso il tipo di pericoli che potevano creare, o che hanno creato, ma viene sottolineata la necessità di usare materia prima di tipo umano, qualitativamente superiore ed affidabile in quanto emozionale e facilmente controllabile. Comunque, dopo la mia trasformazione in Cybertrone, ho iniziato ad apprezzare il nuovo modo di vivere del pianeta Terra, anche se lentamente e con abitudine. Penso mi abbiamo bypassato qualche circuito emozionale in ogni caso. Tenendo conto delle cattive qualità e capacità dell’essere umano, violento, litigioso, mentalmente instabile, votato alla ricerca di meschine soddisfazioni, sempre contro qualcuno o qualcosa, non rimpiango nulla. Neppure un corpo di carne, come invece hanno i Biotroni ( sostanza organica ricavata artificialmente mediante pluri-clonazioni a livello molecolare ), che per contro, non hanno grande capacità di pensiero autonomo, ma sono stati programmati all’esecuzione di mansioni specifiche. Posso vedere, sentire, percepire, gustare, toccare, anche da dentro questa struttura elettro-metallica totalmente abiologica a parte il mio cervello. Non è però esatto dire che sono ‘dentro’ a quello che in pratica è un grosso e ingombrante involucro, visto che mi da la sensazione, ogni tanto, di una massa eccessiva per un contenitore. Non è il mio cervello imprigionato in un nuovo e indistruttibile guscio, dotato di sensori sofisticati, come un computer e le sue periferiche. Io, Cybertron, sono tutto l’insieme, la coesione perfetta ‘oltre’ l’uomo-macchina ( sto cominciando a rendermene conto ). Sento le parti rispondere al mio comando come se avessi ancora un sistema nervoso, sento l’aria scaldarsi per l’attrito al mio passaggio, volando sopra i campi e sentendone l’odore da grano maturo. Dovrei anche essere praticamente immortale, se si ricorderanno di sostituire i pezzi quando ce ne sarà bisogno. Solo una cosa non mi piace, ma purtroppo mi ci dovrò abituare, visto che non posso farci nulla. Come ho già detto ho sempre mal sopportato l’Egitto, in tutte le sue sfaccettature e in special modo le sue antiche costruzioni così assurde, e adesso mi ritrovo guarda il caso, ad essere strutturato come una piramide.

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IL CANTO DELLA SIRENA “ Accomunare metodicamente gli aggettivi brutto con perfido, oppure bello con buono e con gentile è un errore che in certi casi non si può ripetere due volte “.

J.

- E’ una Sirena! Guarda, è proprio una Sirena. - La lusinghevole e sinuosa forma che si intravedeva nell’oscurità, illuminata a malapena dai raggi di una luna smorta al primo quarto, dava l’impressione veramente di essere per metà donna e metà pesce. Ma lui ancora non la riusciva a scorgere. Già da più di un’ora Fred era poggiato contro l’inferiata che lo divideva da un tuffo nelle gelide acque del mare del Nord, ad almeno sessanta miglia nautiche dalla costa più vicina. La voce melodiosa che salmodiava, simile ad uno strumento a corde, lo stava attraendo a sé lentamente ma costante, come il suo timbro suadente ed ipnotico. - Tom, guarda. E’ Lei, finalmente. - Fred gli indicò, senza nemmeno voltarsi, verso il piccolissimo scoglio appena affiorante sopra l’acqua insolitamente calma, sorridendo come un giulico bambino e agitandosi gioioso in preda ad una dolce follia. Tom lo osservava con gli occhi fissi e spalancati. La bocca era aperta in una smorfia che comunicava una morte giunta molto dolorosamente e lungamente attesa. Era rimasto lì, inchiodato di fianco alla porta della cabina, dalla fiocina di Fred, che gli aveva trapassato lo stomaco piantandosi profondamente nel duro legno sommariamente levigato, come un chiodo si pianta con la stessa facilità in un tappo di sughero. Fred balzò come una molla verso il timone del minuscolo scafo, virando verso destra per avvicinarsi al suo tanto amato e bramato desiderio. La Sirena. Tornò veloce contro il parapetto. Non voleva più neppure per un solo istante perdere la vista su quella forma perfetta, anche se adombrata dal continuo viavai di nuvole, che lo richiamava a sé con quel suo tono stupendamente unico. - Vieni a vederla Tom. E’ bellissima… e mi vuole. La senti? Mi chiama….. darei l’anima ed il cuore per Lei. - Ora, dopo la virata, Tom non lo fissava più. I suoi gonfi e grandi occhi, pareva volessero fuggire fuori dalla testa, penzolante in avanti sulla spalla sinistra, puntavano al pavimento di coperta inzuppato dal suo sangue nero, coagulato in una grossa pozza ai suoi piedi. Il sangue, da un pezzo non sgorgava più dalla ferita, allargata a dismisura dal peso del massiccio corpo esanime che si era bloccato con la fiocina incastrata tra il costato e la colonna vertebrale. L’arpione si era inclinato verso il basso e a destra, fino a ché il cadavere non si era posizionato definitivamente, immobile e grottescamente seduto. Attraverso le carni lacere il vento filtrava dallo sbrego nel torace uscendo dalla schiena in un sibilo terribilmente osceno, sfilando dalle forzate fessure tra il corpo appoggiato e la parete della cabina. Cambiando di forza la posizione al cadavere, il vento usava il corpo straziato come un raccapricciante strumento musicale, alternando tormentose note e silenzi in una macabra sinfonia mortale. Fred non la sentiva, non poteva sentirla quella effimera sonata. La sua mente era occupata, assillata, smaniosa. La snella ed irreale figura era a pochi metri da lui, e se ancora non riusciva a distinguerla appieno era per colpa di un cirro dispettoso che lo impallava con ombre moleste. Se il tratto che lo divideva da Lei fosse stato in terra ferma, sarebbe saltato giù dal lento battello e le sarebbe corso incontro. Pensò.

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Ma … perché no ? Nessuno glielo impediva o lo tratteneva. Non doveva camminare ma solamente nuotare. Tom aveva tentato di fermarlo, ma lui non poteva capire. Non si gettato in mare perché era ancora distante da Lei e non sapeva orientarsi sul dov’era la fonte di quella gentile, mirabile e promettente voce. Ma ora… ora era lì, vicinissima… e la barca era lentissima… Non ce la faceva più ad aspettare. Con poche bracciate di nuoto potente l’avrebbe raggiunta prima, e avrebbe finalmente potuto offrirle se stesso ed il suo cuore come un pegno d’amore e per sempre. La voce ormai, era forte e risuonava chiara e nello stesso tempo rimaneva indistinta. Sembrava provenire da tutt’attorno a lui e gli riempiva la testa, incessante e armoniosamente possessiva. Il cuore, accelerando, batteva ritmando i cambi d’intonazione in sincronia con le tempie, martellando tutto il suo essere in una totale e dissennata ossessione. Si tuffò in preda ad una smania di possesso indescrivibile. La voleva ed era lì e soprattutto, era Lei che voleva lui. L’acqua gelida amplificò oltremodo il suo già grande desiderio, come se staccandosi dalla barca avesse tagliato l’invisibile cordone ombelicale che lo frenava. Nuotò veloce, agitandosi scoordinatamente nella fretta e mulinando le braccia con tutta la forza che aveva in corpo. Le mascelle dello squalo si chiusero nella loro terribile morsa. Un urlo di indicibile dolore si scaricò inudito nell’aria, mentre la gamba sinistra di Fred, tranciata a metà coscia, cambiava la sua corsa verso il fondo del mare. - Aiuto ! Tom, aiuto ! - Mentre urlava in preda alla più assoluta delle paure, Fred si rese conto di essere stato tradito, attirato in una trappola da Lei. Tom non poteva aiutarlo, era morto perché lui lo aveva ucciso. Si rese conto della realtà dei fatti quando lo squalo lo riattaccò. Il suo ultimo istante di vita. Il richiamo si smorzò in un gorgoglìo di bolle sulla superficie del mare non più immobile, rotta da una serie di cerchi concentrici in espansione. Staccato di netto il busto all’altezza dei reni all’attacco precedente, lo squalo si avventò con inaudita ferocia sul tronco superiore del cadavere di Fred, in balìa delle onde smosse, inforcandolo con la bocca spalancata, frantumandone le costole e facendo schizzare fuori i polmoni in brandelli come un tubetto di colore. Pezzi bianchi, rossi e nocciola si espansero sull’acqua, cullati dal moto ondoso indotto, in fase di riacquietamento. La voce continuava a risuonare, cantando melodica, intonata ed imperterrita, fluendo dalla bocca quasi immobile della Sirena. Ella iniziò a muoversi piano su quel minuscolo tratto di solida sostanza, così fuori luogo in quella fluida distesa. Sembrava un accenno di danza il suo, con movimenti lenti, caldi ed invitanti, incurante pareva, di tutto ciò che stava accadendo. La testa dello squalo uscì dall’acqua prepotentemente, in prossimità dello scoglio e avanzò di quel poco per arrivare a ridosso della mirabile figura metà donna e metà pesce. Spalancò le fauci. Continuando nel suo magnetico canto, Ella allungò l’esile braccio tra i denti grossi ed aguzzi come pietre scheggiate, raccolse qualcosa che pareva muoversi, pulsante, e con un movimento delicato ed armonico se lo portò alla bocca. Smise di cantare e lo squalo si inabissò rumorosamente, lasciando, dopo il turbinio iniziale, l’acqua ferma e tranquilla com’era prima del suo arrivo. Un silenzio spettrale si impose in quell’ambiente vuoto in un manto tetro ed alienante. La pallida luna riuscì a penetrare attraverso la dispettosa nube che stazionava sopra, andando ad illuminare il volto della mitologica quanto soave creatura, stesa sul minuscolo scoglio. Un viso dolce e stupendo, contornato dai lunghi capelli biondi e lisci, rifletteva bianco e delicato al raggio galeotto, con le labbra sottili come una riga di matita, bordate di rosso amaranto. Due flebili rigagnoli di sangue le colavano ai lati della bocca, accendendola di un particolare, triste sorriso, mentre masticava soddisfatta e lentamente. Portò di nuovo l’esilissima mano, con le dita lunghe e affusolate, verso la bocca, con un movimento aggrazziatissimo, dando un secondo piccolo morso alla massa rossa scura grande come un pugno.

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Il cuore di Fred, o ciò che ne rimaneva, smise di pulsarle sul palmo aperto. La Sirena accentuò le labbra ad un tenue sorriso e lentamente, con una squisitezza di gesti indescrivibile in gentilezza, proseguì e finì il suo pasto, mentre le nuvole si erano diradate completamente e la debole luce lunare si posava su di Lei, facendone risaltare le prospicienti, quanto subreali curvità. I rivoli arrossati le erano scesi oltre il collo, raggrumandosi in macchie più scure e brune. Si schizzò leggermente il volto con l’acqua salata e poi si lasciò scivolare morbidamente nel mare, fine e delicata, tanto da non incresparlo nemmeno, mentre all’orizzonte un primo raggio giallo ed arancione sbucava, inclinato, a dividere il mare dal cielo.

--- FINE ---