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1. REPARTO DELL’ORTOFRUTTA Per prima cosa occorre controllare che le casse contenenti le merci siano sollevate dal suolo di almeno 50 cm (l’altezza dipende dai regolamenti locali di Igiene) e che le stesse non siano di legno né poggino su bancali dello stesso materiale visto che nel legno trovano il loro habitat naturale gli insetti e in particolare la blatella germanica e la blatta orientalis, meglio conosciuti come “scarafaggi”. È bene sapere che in tutta Italia i servizi Veterinari delle ASL si stanno orientando nel far togliere dai supermercati i bancali di legno facendoli sostituire con quelli in plastica o altro materiale sintetico. Nota igienica: Fig.1 Fig.2 Blatta germanica: La blatta è morfologicamente predisposta a raccogliere germi e sporcizia che trova sul suo cammino. Oltre a veicolare microbi col corpo, con le zampette spinose e con le lunghe antenne, li dissemina nell'ambiente attraverso deiezioni e rigurgiti. Se vi è capitato di venire a conoscenza di casi di persone colte da leggera dissenteria dopo aver mangiato in luoghi pubblici, mense o alberghi poco puliti, più che il cibo, forse non proprio fresco, è più probabile che siano stati gli scarafaggi i quali, durante le loro scorribande notturne hanno trasportato qualche enterobattero, rimasto poi su pane o cibi non protetti o sulle stoviglie. Questi insetti possono potenzialmente trasmettere la salmonellosi! Si pensi che addirittura negli ospedali e comunità in genere, il potenziale biologico di infezione e contagio è superiore e più pericoloso. Oltre ai batteri responsabili di gastroenteriti (Escherichi coli) e salmonellosi (Salmonella spp.), gli scarafaggi sono vettori di Staphylococcus responsabili di ascessi, Pseudomonas che producono infezioni, Shigella, Proteus, Mycobacterium e addirittura Pasterella pestis (rilevata sugli insetti in un focolaio di peste

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Page 1: I controlli negli esercizi commerciali

1. REPARTO DELL’ORTOFRUTTA

Per prima cosa occorre controllare che le casse contenenti le merci siano sollevate dal suolo di almeno 50 cm (l’altezza dipende dai regolamenti locali di Igiene) e che le stesse non siano di legno né poggino su bancali dello stesso materiale visto che nel legno trovano il loro habitat naturale gli insetti e in particolare la blatella germanica e la blatta orientalis, meglio conosciuti come “scarafaggi”. È bene sapere che in tutta Italia i servizi Veterinari delle ASL si stanno orientando nel far togliere dai supermercati i bancali di legno facendoli sostituire con quelli in plastica o altro materiale sintetico.

Nota igienica:

Fig.1 Fig.2

Blatta germanica:La blatta è morfologicamente predisposta a raccogliere germi e sporcizia che trova sul suo cammino. Oltre a veicolare microbi col corpo, con le zampette spinose e con le lunghe antenne, li dissemina nell'ambiente attraverso deiezioni e rigurgiti.Se vi è capitato di venire a conoscenza di casi di persone colte da leggera dissenteria dopo aver mangiato in luoghi pubblici, mense o alberghi poco puliti, più che il cibo, forse non proprio fresco, è più probabile che siano stati gli scarafaggi i quali, durante le loro scorribande notturne hanno trasportato qualche enterobattero, rimasto poi su pane o cibi non protetti o sulle stoviglie. Questi insetti possono potenzialmente trasmettere la salmonellosi!Si pensi che addirittura negli ospedali e comunità in genere, il potenziale biologico di infezione e contagio è superiore e più pericoloso.Oltre ai batteri responsabili di gastroenteriti (Escherichi coli) e salmonellosi (Salmonella spp.), gli scarafaggi sono vettori di Staphylococcus responsabili di ascessi, Pseudomonas che producono infezioni, Shigella, Proteus, Mycobacterium e addirittura Pasterella pestis (rilevata sugli insetti in un focolaio di peste ad Hong Kong), per un totale di ben 48 ceppi di batteri patogeni. Possono inoltre diffondere protozoi, nematodi e cestodi, pericolosi per l'uomo.Lavorando negli anni 80 in collaborazione con i vigili sanitari (gli odierni Ispettori d’Igiene delle ASL), ho avuto modo di toccare con mano la pericolosità di questi insetti, di conoscere le varie modalità di trasmissione dei batteri e le precauzioni da adottare al fine della sicurezza alimentare.Ne parleremo in uno dei prossimi capitoli.

1.1 Le nuove disposizioni europee: la carta di identità dell’ortofrutta

Il secondo controllo da effettuare nel reparto dell’ortofrutta consiste nel verificare la presenza - su ciascun contenitore – di un cartello indicante la denominazione commerciale, il prezzo per unità di misura, e gli altri dati previsti dall’art. 6 del Regolamento dell’Unione Europea (CE) n. 2200/96 del 28/10/1996. Il D.Lgs. 306/2002, entrato il vigore il 17 febbraio 2003, prevede sanzioni molto pesanti per chi non rispetta le suddette norme europee (da euro 550,00 a euro 15.000,00).

Nota:I cartellini apposti sui contenitori di frutta e verdura devono contenere le indicazioni dell’origine, della varietà e della categoria secondo le nuove norme del decreto legislativo 306/02.I prodotti ortofrutticoli ai quali si applicano le norme di qualità comunitarie sono quelli compresi nell’allegato I del Reg. 2200/96 e riguardano:

a) relativamente agli ortaggi: agli, asparagi, carciofi, carote, cavolfiori, cavoli di Bruxelles, cavoli

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cappuccini e verze, cetrioli, cicoria Witloof, cipolle, fagiolini, lattughe, indivie ricce e scarole, melanzane, peperoni dolci, piselli, pomodori, porri, sedani da coste, spinaci, zucchine, funghi coltivati;

b) relativamente alla frutta: agrumi, albicocche, avocadi, banane, ciliegie, cocomeri, fragole, kiwi, mele, pere, meloni, nocciole in guscio, noci in guscio, pesche e nettarine, prugne (susine), uva da tavola.Per tutti questi prodotti, i cartellini devono fornire informazioni obbligatorie relative alla natura del prodotto, alla sua origine (nazionalità o zona di produzione come Regione o Comune di provenienza), alla varietà (ad esempio per le mele Golden o Marlene) e alle caratteristiche commerciali qualitative (categoria Extra, I o II). Le caratteristiche commerciali qualitative della frutta e degli ortaggi sono definite nel seguente modo (morfologia, assenza di danni, odore o sapore estranei, etc) e classificate nelle seguenti categorie:extra (qualità superiore, ovvero priva di difetti), I categoria (lievi difetti di forma, di colorazione, buona qualità) e II categoria (difetto di colorazione, rugosità della buccia, forma leggermente difettosa etc)

Il cartellino tipo che dovrebbe essere presente sui contenitori è simile a questo

Fig.3

Per completezza di informazione, ai sensi dell’art. 6 del D.M 28 dicembre 2001, non sono soggetti all'obbligo di conformità alle norme all'interno della regione di produzione:a) i prodotti venduti o consegnati dal produttore a centri di confezionamento e d'imballaggio o a centri di deposito, oppure avviati dall'azienda del produttore verso tali centri;b) i prodotti avviati da centri di deposito verso centri di confezionamento e di imballaggio.

Non sono soggetti all'obbligo di conformità alle norme:a) i prodotti avviati agli impianti di trasformazione, salvo eventuale determinazione, secondo la procedura di cui all'articolo 46, di criteri qualitativi minimi per i prodotti destinati alla trasformazione industriale;

b) i prodotti che il produttore cede, nella propria azienda, al consumatore per il fabbisogno personale di quest'ultimo.

Si precisa infine che per i prodotti venduti abitualmente al pezzo, l'obbligo di indicare il peso netto non si applica se il numero di pezzi può essere chiaramente visto e facilmente contato dall'esterno o, in caso contrario, se tale numero è indicato sull'etichettatura.

Si ricorda che un prodotto può essere venduto a pezzo e non a peso se questo è previsto nella “Raccolta provinciale degli usi e dei costumi” depositata presso la camera di Commercio competente.

1.1.1 I prodotti ortofrutticoli irradiati

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Un altro controllo che non viene mai effettuato (o raramente) è quello di verificare se i prodotti ortofrutticoli venduti sono irradiati e se questa circostanza è indicata nel cartellino contenente il prezzo per unità di misura e le classiche informazioni previste dal D.Lgs. n. 306/02 (origine, varietà, categoria, etc).

NotaPrima di indicare la normativa che disciplina la materia, è il caso di chiarire sommariamente in cosa consiste questa procedura, a cosa serve e quali sono i prodotti alimentari che la subiscono.L’irradiazione alimentare fu utilizzata per la prima volta nel 1943, negli USA, per sterilizzare gli hamburger.In pratica, gli alimenti vengono irradiati ponendoli su un nastro trasportatore e fatti passare sotto un fascio di radiazioni sprigionate da cobalto 60 o da un generatore di elettroni.Questa procedura permette l’eliminazione dei batteri e di alcuni microrganismi che spesso sono fautori di svariate tossinfezioni alimentari; inoltre (e questo, ad avviso di chi scrive, è il vero motivo) ritarda sia la  maturazione che la germogliazione degli alimenti, aumentandone conseguentemente la conservazione.In base alle normative europee e nazionali in vigore, l’irradiazione può essere usata per patate, cipolle, agli, cacao, caffè, erbe aromatiche, spezie, e per l'eliminazione di particolari batteri che provocano il rapido deterioramento organolettico di alcuni cibi delicati come frutti di mare freschi, frutta a polpa tenera, etc., ma non è utilizzabile per tutti gli alimenti  visto che può causare variazioni di colore o di sapore che renderebbero i cibi invendibili.A livello Europeo la Commissione "Codex Alimentarius" e le altre autorità deputate al controllo in ambito alimentare, hanno disciplinato e approvato l'irradiazione di più di 60 prodotti alimentari.Sull’argomento sono state emanate due direttive: la direttiva 1999/2/CE e la direttiva 1999/3/CE relative all'irradiamento degli alimenti e dei loro ingredienti, entrate in vigore il 20 settembre 2000.

La direttiva 1999/2/CE, che sancisce le norme applicate ad alimenti e ingredienti alimentari trattati con radiazioni ionizzanti, disciplina anche gli aspetti legati alla commercializzazione, all'etichettatura (che deve indicare chiaramente se l'alimento è stato trattato), l'importazione e i diversi controlli obbligatori su questi alimenti.In Italia la disciplina è regolamentata dal DM 30/08/1973 (che permette l'uso delle radiazioni gamma per bloccare la germinazione) e dal Decreto Legislativo 30 gennaio 2001, n. 94, avente come oggetto "Attuazione delle direttive 1999/2/CE e 1993/3/CE concernenti gli alimenti e i loro ingredienti trattati con radiazioni ionizzanti".La prima normativa prevede, all’art. 6, l’obbligo di inserire nella confezione - che dovrà essere sigillata mediante piombatura o altro dispositivo non manomissibile - la dicitura “Patate (o cipolle o agli) irradiate a scopo antigermogliativo”; mentre il secondo provvedimento, riguardante erbe aromatiche essiccate, spezie e condimenti vegetali, prevede, all’art. 13, l’obbligo per i commercianti di riportare la dicitura "irradiato" o "trattato con radiazioni ionizzanti" nella denominazione di vendita e nell'elenco degli ingredienti, anche nel caso di vendita ai sensi degli articoli 16 e 17 del D.Lgs. 109/92.Si evidenzia che i prodotti alimentari non destinati al consumatore finale, di cui all'articolo 17 del citato decreto legislativo n. 109 del 1992, se irradiati, devono riportare, oltre alle indicazioni di cui ai commi 1 e 2 dello stesso articolo, anche l'indicazione della denominazione e dell'indirizzo dell'impianto che ha effettuato l'irradiazione oppure il suo numero di riferimento.

Considerato che alcuni prodotti irradiati come patate, cipolle, agli ed erbe aromatiche, originariamente confezionati, vengono molto spesso venduti sfusi, per prassi consolidata e nonostante l’esplicito divieto della normativa sopra citata, occorre tener presente che l'indicazione del trattamento deve in ogni caso figurare nei documenti che li accompagnano e sui cartellini posti sui banchi di vendita.

Per quanto sopra, durante il controllo, è bene chiedere al commerciante di poter visionare il

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magazzino alla ricerca di altri contenitori dello stesso prodotto, per verificare il contenuto delle etichette apposte.Nel caso in cui le suddette confezioni dovessero contenere la dicitura “irradiato” o "trattato con radiazioni ionizzanti" oppure “patate (o cipolle o agli) irradiate a scopo antigermogliativo”, l’alimentarista è sanzionabile in base all’art.18 del D.Lgs, 109/92.

1.2 Il prezzo per unità di misura

Altro controllo da effettuare nel reparto dell’ortofrutta, è il rispetto dell’obbligo di esposizione del prezzo per unità di misura (art. 14/4° co. D.lgs.114/98 e art. 14 D.Lgs. n. 206/2005).

1.3 Il controllo del peso dei prodotti preconfezionati

Nei reparti dell’ortofrutta di molti supermercati le confezioni poste in vendita contenenti legumi, cereali, funghi secchi, ortaggi, etc, spesso recano un peso dichiarato che non corrisponde a quello effettivo.A volte il prodotto pesa 100-150 g in più, ma molto spesso pesa diversi grammi in meno.Viene a questo punto spontaneo chiedersi se il fatto di trovare all'interno di una confezione un quantitativo di prodotto inferiore a quanto dichiarato in etichetta costituisca sempre frode in commercio.

La norma che sanziona questo tipo di condotta è l’art 515 del Codice Penale che testualmente recita:“Chiunque, nell'esercizio di una attività commerciale, ovvero in uno spaccio aperto al pubblico, consegna all'acquirente una cosa mobile per un'altra, ovvero una cosa mobile, per origine, provenienza, qualità o quantità, diversa da quella dichiarata o pattuita, è punito, qualora il fatto non costituisca un più grave delitto, con la reclusione fino a due anni o con la multa fino a lire quattro milioni. Se si tratta di oggetti preziosi, la pena è della reclusione fino a tre anni o della multa non inferiore a lire duecentomila.”

Leggendo attentamente l’articolo non si può non notare che tra le cause di frode nell'esercizio del commercio si parla, tra l'altro, di “quantità diversa da quella dichiarata o pattuita”; ad una lettura superficiale i due termini utilizzati potrebbero equipararsi, ma nella realtà occorre fare molta attenzione perché, di fatto, evocano situazioni e considerazioni differenti.

Per prima cosa occorre fare una distinzione tra prodotti preincartati e prodotti preconfezionati (o reimballati).

I prodotti preincartatiCome tutti sapranno, il supermercato o il piccolo esercizio alimentare- possono rifornirsi di prodotti interi (per esempio salumi), per poi tagliarli, confezionare le porzioni e venderle al consumatore. In questo caso, le confezioni vengono definite “preincartati” e, per legge, debbono riportare la denominazione di vendita e l'elenco degli ingredienti (se necessario * ), mentre la data di confezionamento e/o quella di scadenza sono facoltative. **

È da evidenziare che il preincarto può essere realizzato solo dal venditore nel suo esercizio e non può essere realizzato da aziende commerciali che hanno più punti di vendita, se non nel punto di vendita specifico.Gli obblighi di etichettatura che gravano sui prodotti preincartati sono quelli previsti dall'articolo 16 del decreto legislativo n. 109/92. Nulla vieta tuttavia all'esercente di indicare tutte le menzioni obbligatorie sui propri prodotti.

* N.B. (1)

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Qualora sia realizzato alla presenza dell'acquirente, il preincartato può anche non riportare alcuna indicazione, in quanto l'acquirente riceve le informazioni prescritte direttamente attraverso il cartello e, per quanto riguarda la quantità, dalla lettura della bilancia.

Se poi lo stesso è esposto per vendita a libero servizio, in quanto realizzato in assenza dell'acquirente, sull'involucro devono figurare le indicazioni prescritte dall'articolo 16, qualora non riportate sul cartello. Infatti, se sul cartello figurano già la denominazione di vendita del prodotto, l'elenco degli ingredienti dove previsto, il prezzo unitario, nonché eventuali altre indicazioni previste per casi specifici , non rimane che riportare sul preincarto la quantità netta ed il prezzo di vendita.

**N.B. (2)

Sempre a proposito dell’annoso problema del preincartato, si riporta una interessante nota dell’Unione Nazionale Consumatori, del 14 Gennaio 2003:

” Con il termine "preincartato" si intende un alimento confezionato nel punto di vendita (in pratica nei supermercati); secondo il decreto legislativo n. 109/1992 questi prodotti non devono riportare sull'etichetta la data di scadenza, obbligatoria invece per i prodotti "preconfezionati" dal produttore. L'Unione Nazionale Consumatori sottolinea che il prodotto "preincartato" non è previsto dalle norme comunitarie; nella circolare del ministero dell'Industria n. 165/2000 si legge che la definizione è stata introdotta in Italia "allo scopo di precisare gli adempimenti di etichettatura conseguenti all'attività   di confezionamento negli esercizi di vendita per la consegna diretta all'acquirente o per la vendita a libero servizio". Dalla stessa circolare - che anticipa alcune novità   contenute nel decreto legislativo che introdurrà   il "testo unico" sull'etichettatura alimentare, in attuazione della Direttiva 2000/13/CE - non emerge alcuna modifica della disciplina del prodotto "preincartato", anzi si ribadisce che non viene considerato prodotto "preconfezionato" anche se è ermeticamente chiuso e sigillato, quindi non deve riportare la data di scadenza in quanto non prevista dall'articolo 16 del decreto legislativo n. 109/1992. L'Unione Nazionale Consumatori considera quella del prodotto "preincartato" una "stranezza normativa" e cita la sentenza n. 13412/2002 della Corte di Cassazione, con cui è stata confermata la sanzione che l'UPICA di Lodi aveva inflitto ad un ipermercato che vendeva carne macinata confezionata presso lo stesso punto di vendita in vassoi ricoperti da pellicola trasparente. Si trattava quindi di un prodotto "preincartato" e non riportava la data di scadenza, ma l'UPICA aveva inflitto ugualmente la multa. La sanzione era stata impugnata dall'ipermercato ed è arrivata fino alla Corte di cassazione, che l'ha confermata, sostenendo che la differenza tra prodotto alimentare preconfezionato e preincartato, ai fini dei conseguenti obblighi di etichettatura, va individuata in relazione alle caratteristiche dell'imballaggio e non in ragione del luogo (punto di vendita) nel quale avviene il confezionamento. Ora, secondo l'Unione Nazionale Consumatori, l'emanando "testo unico" sull'etichettatura alimentare non potrà   ignorare la sentenza, ma la definizione di prodotto "preincartato" si è complicata.”

I prodotti preconfezionati

Gli imballaggi preconfezionati, ovvero gli imballaggi preparati in precedenza e il loro contenuto, devono indicare sull'etichetta, in maniera armonizzata, la massa o il volume che essi contengono, tenendo conto di alcune condizioni metrologiche. Se il prodotto preconfezionato viene certificato conforme, vi figura il marchio «CEE» apposto sull'etichetta.

In particolare gli imballaggi preconfezionati e i prodotti preimballati  devono indicare sull'etichetta una serie di informazioni all'attenzione dei consumatori: il produttore o chi confeziona il prodotto è tenuto a indicare la massa o il volume contenuto, tenendo conto degli errori massimi di misurazione consentiti.Tali prodotti preconfezionati vengono venduti per unità con un peso o un volume costante deciso in precedenza dal confezionatore.

Fatte queste precisazioni possiamo passare al caso specifico.

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Nell’ipotesi in cui il prodotto acquistato, avente un peso non rispondente a quello pattuito in fase di acquisto, è un “preincartato” si può parlare tranquillamente di “frode in commercio”, visto che al cliente viene fornito un prodotto la cui quantità è diversa (inferiore) da quella pattuita a fronte del pagamento dell’equivalente della quantità richiesta e non fornita.

Le cause della frode possono essere molteplici, dalle bilance mal funzionanti, con la bolla non centrata, al piatto spostato (non in piano) alla precisa volontà del commerciante di raggirare il cliente.È comunque da evidenziare che è difficile accorgersi dell’inganno (difficilmente un consumatore va in giro con una bilancia personale) e che ogni “contestazione” deve essere fatta “sul posto” con tutte le difficoltà che è facile immaginare.A tal proposito la normativa metrica in vigore nel nostro Paese è da considerarsi come una delle più restrittive in ambito europeo proprio perché il nostro legislatore, da decenni, ha inteso tutelare i consumatori da questo genere di abusi.La legge 441/81, meglio conosciuta come “legge del peso netto”, ha infatti disciplinato la materia stabilendo delle regole ben precise, come, appunto, l’obbligo di vendere i prodotti “a peso netto” (art. 1) con il “display” della bilancia ben visibile (art. 2).Nonostante questo, però, capita ancora di incontrare il commerciante “furbo” che, volutamente, non rispetta queste norme per un vantaggio economico personale.In questi casi, a mio avviso, la denuncia per “frode in commercio” è inevitabile.

Per i prodotti preconfezionati, cioè quelli costituiti da un prodotto alimentare e dall'imballaggio in cui è stato immesso prima di essere posto in vendita al fine di impedire che il contenuto possa essere modificato e/o contaminato senza che la confezione sia aperta o alterata, il discorso è differente.

Per questo genere di prodotti è importante evidenziare che la quantità indicata sulla confezione (*) è la “quantità nominale” che non corrisponde al "peso netto", nonostante che i fabbricanti si ostinino a chiamarlo in questo modo.

(*) A tal proposito si veda il D.Lgs.25/01/2010 n. 12 (Attuazione della direttiva 2007/45/CE che reca disposizioni sulle quantità nominali dei prodotti preconfezionati, abroga le direttive 75/106/CEE e 80/232/CEE e modifica la direttiva 76/211/CEE )

Per la normativa in vigore la "quantità nominale" è la quantità che si ritiene debba essere contenuta in una confezione.Per meglio capire questo concetto occorre tenere presente che nella fase di confezionamento di un prodotto, il suo dosaggio avviene mediante sistemi di riempimento e/o pesatura automatici che nonostante la tecnologia odierna non sono comunque perfetti, visto che vengono influenzati da molteplici fattori, come le caratteristiche del prodotto, le oscillazioni degli impianti di dosaggio e pesatura, etc, che faranno sì che all’uscita dall’impianto, nonostante il peso impostato dal fabbricante, ci saranno confezioni più pesanti o “leggere” rispetto al peso prestabilito.

Sulle confezioni ortofrutticole, come accennato all’inizio, il problema appena descritto viene spesso aggirato aggiungendo una certa quantità di prodotto, facendo in modo che alla fine questo pesi una certa quantità di grammi in più di quanto dichiarato nella confezione.Anche se è un metodo per certi versi anti-economico per il produttore, viene spesso adottato pur di velocizzare la produzione delle confezioni.Dall’altro versante è comunque da precisare che non tutti si comportano allo stesso modo e a volte capita di trovare confezioni con un peso inferiore da quello dichiarato.Per trovare un equilibrio tra le esigenze dei produttori e quelle dei consumatori, occorre prendere in considerazione i contenuti del DM 27/02/79 , avente come oggetto “ Disposizioni in materia di preimballaggi CEE disciplinati dalla legge 25 ottobre 1978 n. 690”, la stessa Legge 690/78 (Adeguamento dell'ordinamento interno alla direttiva del consiglio delle Comunità europee n.76/211/CEE relativa al precondizionamento in massa o in volume di alcuni prodotti in imballaggi

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preconfezionati) e il DPR 26 Maggio 1980, n. 391 (Disciplina metrologica del preconfezionamento in volume o in massa dei preimballaggi di tipo diverso da quello C.E.E).Occorre inoltre fare “un distinguo” tra le normative che disciplinano i preimballaggi con marchio CEE (cioè quelli che a fianco della Quantità Nominale riportano la < ℮ >) e quelli privi di tale marchio. L’art 2 di tale Decreto Ministeriale 27/02/79 stabilisce le modalità di utilizzo della lettera < ℮ > che troviamo scritta su tutti i prodotti preconfezionati di fianco alla “quantità nominale”.

L’articolo prevede che:"Il marchi CEE con cui i fabbricanti devono contrassegnare, ai sensi dell’art. 3 della legge 690, i preimballaggi di propria produzione per essere considerati CEE, è costituito dalla lettera minuscola < ℮ >, avente altezza minima di 3 mm e la forma rappresentata nell’allegato I al decreto ministeriale 5 agosto 1976.”

Il successivo articolo 3 stabilisce che: "… la quantità nominale del prodotto contenuto deve essere espressa in kg, g, lt, cl, ml per mezzo di cifre aventi l’altezza minima sotto indicata : • 6 mm, se la quantità nominale è superiore a 1000 g o 1000 ml • 4 mm, se la quantità nominale è compresa fra 1000 g o 1000 ml inclusi e 200 g o 200 ml inclusi • 3 mm, se la quantità nominale è compresa fra 200 g o 200 ml e 50 g o 50 ml inclusi Le predette cifre devono essere seguite dal simbolo dell’unità di misura usato…….”

Allegato I al decreto:L’errore massimo tollerato in meno sul contenuto di un imballaggio preconfezionato è fissato conformemente alla seguente tabella :

Errore massimo tollerato (in meno) quantità nominale Qn in grammi o in millilitri in % di Qn g oppure ml Da 5 a 50 9 - ----------------------------------------------------------------------------Da 50 a 100 - 4,5 ----------------------------------------------------------------------------Da 100 a 200 4,5 - ----------------------------------------------------------------------------Da 200 a 300 - 9 ----------------------------------------------------------------------------Da 300 a 500 3 - ----------------------------------------------------------------------------Da 500 a 1.000 - 15 ----------------------------------------------------------------------------Da 1.000 a 10.000 1,5 -----------------------------------------------------------------------------Da 10.000 a 15.000 - 150----------------------------------------------------------------------------Oltre 15000 1 -----------------------------------------------------------------------------

Per capire meglio il concetto, si riporta un esempio di come deve essere fatto il calcolo tenendo conto che l’art. 5, comma 2, lett. c) della legge 25/10/78 n. 690, prevede che “nessun preimballaggio che presenti un errore in meno superiore a due volte l'errore massimo tollerato può essere posto in commercio”.

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Poniamo il caso di avere una confezione del peso nominale di 500 g, dove, in base allo specchietto sopra descritto, l'errore massimo tollerato è pari al 3% di 500 = 15; quindi, nessuna confezione marchiata con la < ℮ > potrà presentare un contenuto effettivo inferiore a [500 g - (2 x 15 g)] = 470 g. Se al momento del sopralluogo commerciale l’agente operante dovesse riscontrare per i prodotti preconfezionati di Qn= 500 g, un peso inferiore a 470 g potrà senza ombra di dubbio procedere alla denuncia del commerciante e degli obbligati in solido per frode in commercio.

Analizziamo ora la disciplina dei preimballaggi privi di marchio CEE

DPR 26/05/80 n. 391 (Disciplina metrologica del preconfezionamento in volume o in massa dei preimballaggi di tipo diverso da quello CEE).

5. Tolleranze.I preimballaggi componenti ciascuno dei lotti determinati secondo l'allegato II alla L. 25 ottobre 1978, n. 690 modificato con D.M. 27 febbraio 1979, recante disposizioni in materia di preimballaggi CEE disciplinati dalla stessa legge devono soddisfare alle seguenti condizioni:a) il contenuto effettivo dei preimballaggi del lotto non deve essere inferiore, in media, alla quantità nominale;b) la percentuale dei preimballaggi che presentano un errore in meno superiore al valore fissato dalla tabella seguente deve essere di valore tale da consentire che la partita dei preimballaggi soddisfi ai controlli definit all'allegato II soprarichiamato:

Errore massimo tollerato (in meno) quantità nominale Qn in grammi o in millilitri in % di Qn g oppure ml Da 5 a 50 9 - ----------------------------------------------------------------------------Da 50 a 100 - 4,5 ----------------------------------------------------------------------------Da 100 a 200 4,5 - ----------------------------------------------------------------------------Da 200 a 300 - 9 ----------------------------------------------------------------------------Da 300 a 500 3 - ----------------------------------------------------------------------------Da 500 a 1.000 - 15 ----------------------------------------------------------------------------Da 1.000 a 10.000 1,5 -----------------------------------------------------------------------------Da 10.000 a 15.000 - 150

6. Preimballaggi non commerciabili.È vietato detenere per vendere, vendere o comunque introdurre in commercio preimballaggi che presentano un errore in meno superiore a due volte il valore riportato nella tabella di cui alla lettera b) dell'art. 5.

N.B: L’esempio applicativo viene omesso perché identico al precedenteConclusioneCome è possibile dedurre da quanto sopra descritto, entrambe le normative prevedono lo stesso divieto di porre in vendita prodotti preconfezionati con un errore relativo alla quantità nominale dichiarata superiore a due volte l’errore di tolleranza prestabilito per legge.Il rischio è la denuncia per frode in commercio, che in caso di condanna comporta la perdita dei requisiti morali (*) del titolare dell’esercizio alimentare, con conseguente chiusura dello stesso.

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(*) Nota: La condanna per l’art. 515 c.p., come risaputo, intacca i cosiddetti “requisiti morali” prescritti dall’art. 5, comma 2, D.Lgs 114/1998 che di seguito si riportano:Requisiti morali

a. Dichiarazione di fallimentob. condanna per delitto non colposo, accertata con sentenza passata in giudicato, per il quale

è prevista una pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni, sempre che sia stata applicata in concreto una pena superiore al minimo edittale

c. condanna a pena detentiva, accertata con sentenza passata in giudicato, per uno dei delitti contro la pubblica amministrazione (da art. 314 a art. 360 c.p.: Tit. II Lb. II c. p; per uno dei delitti contro l’economia pubblica, l’industria e il commercio (da art. 499 a art. 518 c.p.; Tit. VIII Lb. II c.p.); per ricettazione (art. 648 c.p.), riciclaggio (art. 648bis c.p.), emissione di assegni a vuoto (Legge 386/1990; D. Lgs. 507/1999), insolvenza fraudolenta (art. 641 c.p.), bancarotta fraudolenta (art. 216, 223, 227 L. Fall.), usura (art. 644 c.p.), sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.), rapina (art. 628 c.p.)

d. due o più condanne a pena detentiva o a pena pecuniaria riportate nel quinquennio precedente all’inizio dell’esercizio dell’attività, accertate con sentenza passata in giudicato, per commercio di sostanze contraffatte o adulterate (art. 442 c.p.), commercio di sostanze alimentari nocive (art. 444 c.p.), turbata libertà dell’industria o del commercio (art. 513 c.p.), illecita concorrenza in attività commerciale con minaccia o violenza (art. 513bis c.p.) frode nell’esercizio del commercio (art. 515 c.p.) vendita di sostanze alimentari non genuine (art. 516 c.p.), vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 c.p.) o per frode nella preparazione o nel commercio degli alimenti, previsti da leggi speciali

e. applicazione di:o una delle misure di prevenzione di cui alla L. 27/12/1956 n. 1423 o una delle misure di prevenzione di cui alla L. 31/05/1965, n. 575

f. dichiarazione di delinquenza abituale (artt. 102 e 103 c.p.), professionale (art. 105 c.p.) o per tendenza (art. 108 c.p.).

Il divieto di esercizio permane per cinque anni a decorrere dal giorno in cui la pena è scontata o si sia in altro modo estinta o, qualora vi sia stata la sospensione condizionale della pena, da quando si è avuto il passaggio in giudicato della relativa sentenza.

La riabilitazione in ambito civile o penale fa venir meno il divieto all’esercizio dell’attività

1.4 Le insalate pronte clorate

Vengono chiamati in gergo “prodotti della quarta gamma” i prodotti ortofrutticoli pronti per il consumo. In pratica sono frutta e verdure fresche, lavate, asciugate, tagliate, confezionate in vaschette o in sacchetti di plastica e quindi pronte per essere messe in tavola.Un servizio, quello del lavaggio e del confezionamento, che è un valore aggiunto che trasforma il prodotto agricolo ad un prodotto industriale a tutti gli effetti. Naturalmente la comodità si paga e il prezzo risulta maggiorato di quattro o cinque volte quello di un ortaggio tradizionale.Il lato opposto della medaglia è che, spesso, igiene e salubrità non coincidono con la comodità.È infatti molto difficile riuscire a definire “salubre” un prodotto le cui foglie crescono immerse in pesticidi e fungicidi, sono lavate con cloro e confezionate in atmosfera modificata, senza ossigeno.

Anche se la diffusione della tecnologia MAP – modified atmosphere packaging – (Atmosfera modificata) negli ultimi decenni ha permesso di aumentare del 50% la conservabilità del prodotto, è da evidenziare che non è comunque priva di rischi per la salute. Circa la pericolosità del cloro, si pensi che quando le verdure vengono tagliate rilasciano proteine della linfa che in presenza di cloro formano cloramine, che vengono rilasciate nell’aria respirata dagli operai che si trovano nelle vicinanze. La sostanza, sicuramente tossica, visto che è in grado di causare irritazione agli occhi e all’apparato respiratorio, viene ancora sottovalutata a causa della

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legislazione in merito molto carente e alla scarsità di studi scientifici approfonditi per la valutazione dei rischi che i lavoratori possono correre con una esposizione prolungata.Un pericolo simile, ad esempio, lo corrono anche i lavoratori delle piscine per la cui disinfezione viene notoriamente usato il cloro in quantità elevate.Nell’ipotesi in cui i bagnanti disperdessero nell’acqua sostanze organiche (ad esempio urina), queste potrebbero reagire con il cloro, formando cloramine le quali, evaporando velocemente, passano dall’acqua delle piscine all’aria entrando in contatto con chiunque si trovi nelle vicinanze, soprattutto con coloro che lavorano nell’impianto sportivo durante tutta la giornata.

Qualche mese fa ho avuto l’opportunità di leggere il libro “Non c’è sull’etichetta”, scritto da una giornalista inglese, Felicity Lawrence, che per scoprire cosa veramente finisce sulle nostre tavole si è finta anche lavorante in uno stabilimento di pollame.Nel libro vengono descritte procedure industriali per la produzione di alimenti consumati quotidianamente in tutta Europa che fanno rabbrividire. Le insalate pronte, ad esempio, vengono raccolte, selezionate e tagliate, per poi essere lavate in una soluzione disinfettante a base di acqua e cloro.Fino a qui nulla di strano se non fosse che la percentuale minima di cloro corrisponde a un valore venti volte superiore a quello presente nell’acqua di una piscina, ovvero circa 50mg per litro!È da evidenziare che questo processo influisce anche sulle proprietà nutritive del prodotto; la prova in questo caso è fornita dai ricercatori dell’Istituto nazionale per la nutrizione di Roma che hanno confrontato le analisi del sangue tra due gruppi diversi di volontari. Il primo gruppo aveva consumato lattuga fresca, il secondo lattuga confezionata in atmosfera modificata: ebbene, il primo gruppo aveva acquisito le sostanze nutritive dell’insalata, il secondo no. Circa i tempi di conservazione di questo prodotto, le modalità di trasporto e i livelli di contaminazione microbica, è da dire che in Italia non esiste una normativa specifica e che le aziende utilizzato come parametri igienici quelli francesi, ad oggi ancora validi. Di fronte all’incertezza normativa presente nel nostro Paese, l' AIIPA, l' associazione italiana industrie prodotti alimentari, ha pubblicato un disciplinare con le linee guida da adottare nelle fasi di produzione e commercializzazione, che dovrebbero contribuire a offrire più garanzie. Il documento riguarda specificamente le insalate che, dopo essere state preparate, vengono confezionate in busta o in vaschetta. Nel disciplinare è previsto che alcune verdure, come le lattughe, in determinati casi vengano confezionate con il sistema delle atmosfere protettive (sostituendo una parte dell' ossigeno con azoto) per prolungarne la durata.Il documento Aiipa, al fine di tutelare i consumatori, punta sull’uso di materie prime di ottima qualità, lavaggio accurato, rispetto delle temperature e di precisi parametri igienici. È però da evidenziare che le linee guida non dicono nulla sull' intervallo di scadenza che viene deciso dal produttore in base alle materie prime, alla stagione e al tipo di lavorazione.In genere la data di scadenza delle insalate pronte viene solitamente fissata in 7 giorni, che possono diventare 4 in estate, 10 se si usano atmosfere protettive o, addirittura, 30 se il prodotto viene da paesi extra-europei, come gli Stati Uniti, dove è consentita l’irradiazione con cobalto radioattivo, raggi gamma, raggi X o con una corrente (o fascio) di elettroni.

1.5 La classificazione degli ortofrutticoli

All’inizio dell’articolo ho precisato che le insalate pronte appartengono ai prodotti della IV Gamma; con questa affermazione avrò sicuramente incuriosito qualche lettore che si sarà sicuramente chiesto il significato di questa dicitura.In pratica per convenzione, ortaggi e frutta possono essere classificati in base al servizio annesso che il produttore offre al consumatore.La classificazione prevede una suddivisione in cinque gamme:Prima gamma: sono i prodotti freschi offerti al pubblico subito dopo la raccolta senza alcun tipo di condizionamento;Seconda gamma: vi appartengono i prodotti elaborati, inseriti in contenitori di vetro o di metallo per prolungarne la conservazione (esempio: cipolle sott’olio);Terza gamma: prodotti surgelati;

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Quarta gamma: ne fanno parte i prodotti crudi tagliati, lavati e imbustati o inseriti in vaschette (Esempio: insalata pronta all’uso);Quinta gamma: prodotti cotti e confezionati (Esempio: piatti pronti per il consumo)

1.6 Le indicazioni obbligatorie da riportare in etichetta

Questi di seguito sono i dati che dovrebbero contenere le etichette delle insalate pronte:- Nome del produttore/confezionatore- Denominazione commerciale del prodotto- Categoria- Provenienza- Modalità di utilizzazione/conservazione- Istruzioni per l’uso- Data di scadenza- Peso netto- Tara- Lotto o data di confezionamento- Prezzo per unità di misura

È da evidenziare che per questo genere di prodotti è della massima importanza controllare l’etichetta visto che alcuni dati, come ad esempio la provenienza e la data di scadenza, potrebbero chiaramente far capire molte cose circa la qualità del prodotto.Se ad esempio l’insalata proviene dall’estero e ha una data di scadenza superiore a 15 giorni, sicuramente ci troveremmo davanti a un prodotto irradiato o che ha subito trattamenti di conservazione non salutari.

A conti fatti, anche se si è single o si ha poco tempo, vale comunque la pena acquistare insalata fresca, meglio se nella bottega sotto casa, perdere qualche minuto per lavarla in acqua corrente, magari con del bicarbonato (che a differenza del cloro fa anche bene all’organismo umano) per avere la certezza di aver comunque “limitato” i danni alla nostra salute.

[omissis]

4.11 Il pane

La legge n. 580/67, all’art. 14, definisce il pane come il “prodotto ottenuto dalla cottura parziale o totale di una pasta lievitata, preparata con sfarinati di grano, acqua e lievito con o senza aggiunta di sale”.

Nota

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Se il pane è ottenuto con cottura parziale, deve essere contenuto in imballaggi preconfezionati singolarmente, con riportata sull’etichetta la dicitura “parzialmente cotto” e l’avvertenza che l’alimento deve essere consumato previa ulteriore cottura e l’indicazione delle relative modalità.

Se viene posto in vendita pane surgelato, oltre alle altre indicazione previste dalla legge, l’etichetta deve riportare le indicazioni previste dalla legge 27 gennaio 1968 n. 32 e la dicitura “surgelato”.

Il pane parzialmente cotto e quello surgelato deve essere distribuito previo confezionamento e con un’etichettatura appropriata, in comparti tassativamente separati dal pane fresco e con le necessarie informazioni.

Nei pressi del bancone dei prodotti freschi, in genere, per comodità del personale, vengono posizionati i comparti dove viene posto in vendita il pane non confezionato.Il cliente, per averlo, deve chiederlo al personale dietro al bancone, che dopo averlo pesato, lo imbusterà, applicando alla confezione l’etichetta adesiva stampata dalla bilancia.Se invece il consumatore ha fretta, ha la possibilità di acquistare quello preconfezionato e prepesato, che in genere si trova su uno scaffale laterale, di libero accesso.

4.11.1 Pane venduto a peso

L’art. 23 della legge 04/07/67 n. 580, impone che il pane deve essere venduto a peso e in presenza dell’acquirente.

È difficile non notare la contraddizione della normativa allorquando dispone che , il medesimo prodotto soggetto a calo di peso, debba obbligatoriamente essere pesato se posto dietro al bancone, mentre -se acquistato self-service- il prezzo pagato dal consumatore è quello stabilito in base alla pesatura effettuata al momento del confezionamento.È indubbio che il pane fresco venduto al mattino, contenendo più acqua, abbia un peso maggiore dello stesso prodotto venduto nel tardo pomeriggio.Tale differenza di peso, come noto, va a gravare sulle tasche del consumatore che, per effetto dell’evaporazione acquea, nel periodo compreso tra mattino e tardo pomeriggio, sopporterà un maggiore costo quantificabile in circa 2,16 centesimi di euro, per acquistare lo stesso prodotto.

La normativa che consente di vendere il pane confezionato, soggetto a calo di peso, senza rispettare l’obbligo della pesatura al momento dell’acquisto prescritto dall’art. 23 della legge n. 580/67, è l’articolo 9, comma 9, del D.lgs. n. 109/92 (…“I prodotti soggetti a notevoli cali di massa o di volume devono essere pesati alla presenza dell’acquirente ovvero riportare l’indicazione della quantità netta al momento in cui sono esposti per la vendita al consumatore”).

NotaPer gli altri prodotti preconfezionati a base di cereali, la normativa di riferimento è invece il D.P.R. 26 maggio 1980 n. 391 s.m.i., avente come oggetto “Disciplina metrologica del preconfezionamento in volume o massa dei preimballaggi di tipo diverso da quello C.E.E.” I prodotti preconfezionati, con lo sviluppo sempre maggiore della grande distribuzione, stanno assumendo ed assumeranno sempre di più un ruolo importante in ambito commerciale nazionale ed europeo.In considerazione di ciò il legislatore comunitario, e successivamente quello nazionale, hanno ritenuto di dover imporre alcune regole, alle aziende produttrice.I prodotti preconfezionati, come definizione, sono quei prodotti avvolti da un involucro, anche parzialmente e non necessariamente ermetico, che deve essere manomesso per poter accedere al

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prodotto.Le principali disposizioni, in vigore per i prodotti (liquidi - non liquidi, alimentari – non alimentari) imballati in quantità determinate in assenza dell'utente, sono contenute principalmente in tre direttive comunitarie ed una norma nazionale:Direttiva 75/106/CEE smi - Direttiva 80/232/CEE smi- Direttiva 76/211/CEE smi Le prime due direttive fissano, per i prodotti liquidi (vino, acqua minerale, ecc.) e per quelli non liquidi, i volumi e le quantità in massa nei quali essi sono preimballati (gamme).Le direttive 75/106/CEE e 76/211/CEE smi disciplinano i controlli sul rispetto dei volumi e dellequantità da parte dei fabbricanti o di chi effettua il riempimento dell'imballaggio, armonizzando i metodi di controllo metrologico.La normativa nazionale sui preimballaggi è costituita, come scritto precedentemente, dal D.P.R. 26 maggio 1980 n. 391 s.m.i..Gli obblighi principali, che le dette normative nazionali e comunitarie prescrivono alle aziende, riguardano la fase di confezionamento e comprendono le iscrizioni metrologiche da riportare sul prodotto:• valore della quantità nominale in massa o volume;• valori delle gamme fissate di quantità nominali;• sigla per l'identificazione del lotto di appartenenza.

Il D.P.R. 26 maggio 1980 n. 391 si applica agli imballaggi di prodotti destinati ad essere venduti al consumatore finale, preconfezionati in quantità nominali costanti, espresse in unità di massa o di volume, superiori o uguali a 5 grammi o a 5 millilitri. L’art. 4 della suddetta normativa, prevede che i prodotti preimballati in quantità nominali, uguali o superiori a 5 g o 5 ml e inferiori o uguali a 10 kg o 10 litri, …[omissis] devono essere posti in vendita esclusivamente:a) per i prodotti previsti nell’allegato I, nelle masse o nei volumi nominali a fianco di ciascuno indicati …[omissis]Ora, l’allegato I, avente come oggetto “Gamme dei valori delle quantità nominali del contenuto degli imballaggi preconfezionati” - al punto 1.5 - riporta la voce “Prodotti a base di cereali”.Le quantità nominali per i suddetti prodotti, visibili alla successiva sottosezione (punto 1.5.1), sono:(in g) 125 – 250 – 500 – 1000 – 1500 – 2000 – 2500 – 5000 – 10000.

Il DPR n. 391/1980, all’articolo 5, prevede anche delle tolleranze alle quantità nominali dichiarate; infatti per un kg di prodotto a base di cereali, è previsto un errore in meno di 15 g. che dovrebbe in teoria compensare la perdita di peso per evaporazione dei liquidi del prodotto.

4.11.2 Il registro del pane

L’art. 7 del D.P.R. 30/11/1998, n. 502, prevede che in deroga a quanto prescritto all’art. 16, 8° comma, del decreto legislativo n. 109/92, nelle fasi di consegna del pane agli esercizi commerciali, venga fornito l’elenco degli ingredienti dei diversi tipi di pane in occasione della prima consegna e ogni volta che ne venga variata la composizione.

Tale elenco deve essere posto ben in vista con un cartello unico previsto dall’allegato 2 del D.M. 20 dicembre 1994 e dall’art. 16, comma 3, del D.Lgs. n. 109/92.

Lo stesso D.P.R. n. 502/98, ha anche abrogato l’art. 24 della L. 580/67, laddove era prescritto che le imprese con rivendita di pane non annesse al panificio, erano tenute a farsi rilasciare dai produttori una distinta per ogni quantitativo e tipo di pane fornito, con l’indicazione della ditta produttrice, della data di consegna, del tipo e della quantità del pane consegnato. Tali distinte dovevano essere tenute nella rivendita a disposizione degli agenti di sorveglianza ad esaurimento della vendita del

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pane cui si riferivano. Lo scopo del legislatore era probabilmente quello di avere la certezza di poter risalire, in qualsiasi momento, alla provenienza del pane e al luogo di produzione autorizzato.

Le novità introdotte dalla Legge n. 248/2006Come il lettore saprà, la legge n. 1002/56, che per decenni ha disciplinato le attività di panificazione nel nostro Paese, è stata abrogata dalla Legge n. 248/06, meglio conosciuta come “Legge Bersani”.Tra le novità introdotte dal provvedimento Bersani è anche da segnalare la liberalizzazione dell’attività di produzione del pane, prevista dall’articolo 4 della succitata legge.

Art. 4.Disposizioni urgenti per la liberalizzazione dell'attività di produzione di pane1. Al fine di favorire la promozione di un assetto maggiormente concorrenziale nel settore della panificazione ed assicurare una più ampia accessibilità dei consumatori ai relativi prodotti, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, sono abrogate la legge 31 luglio 1956, n. 1002, e la lettera b), del comma 2 dell'articolo 22 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.2. L'impianto di un nuovo panificio ed il trasferimento o la trasformazione di panifici esistenti sono soggetti a dichiarazione di inizio attività da presentare al comune competente per territorio ai sensi dell'articolo 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241. La dichiarazione deve essere corredata dall'autorizzazione della competente Azienda sanitaria locale in merito ai requisiti igienico-sanitari e dall'autorizzazione alle emissioni in atmosfera, dal titolo abilitativo edilizio e dal permesso di agibilità dei locali, nonchè dall'indicazione del nominativo del responsabile dell'attività produttiva, che assicura l'utilizzo di materie prime in conformità alle norme vigenti, l'osservanza delle norme igienico-sanitarie e di sicurezza dei luoghi di lavoro e la qualità del prodotto finito.2-bis. È comunque consentita ai titolari di impianti di cui al comma 2 l'attività di vendita dei prodotti di propria produzione per il consumo immediato, utilizzando i locali e gli arredi dell'azienda con l'esclusione del servizio assistito di somministrazione e con l'osservanza delle prescrizioni igienico-sanitarie.2-ter. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, il Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali e con il Ministro della salute, previa intesa con la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, emana un decreto ai sensi dell'articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, volto a disciplinare, in conformità al diritto comunitario:    a) la denominazione di «panificio» da riservare alle imprese che svolgono l'intero ciclo di produzione del pane, dalla lavorazione delle materie prime alla cottura finale;    b) la denominazione di «pane fresco» da riservare al pane prodotto secondo un processo di produzione continuo, privo di interruzioni finalizzate al congelamento, alla surgelazione o alla conservazione prolungata delle materie prime, dei prodotti intermedi della panificazione e degli impasti, fatto salvo l'impiego di tecniche di lavorazione finalizzate al solo rallentamento del processo di lievitazione, da porre in vendita entro un termine che tenga conto delle tipologie panarie esistenti a livello territoriale;    c) l'adozione della dicitura «pane conservato» con l'indicazione dello stato o del metodo di conservazione utilizzato, delle specifiche modalità di confezionamento e di vendita, nonchè delle eventuali modalità di conservazione e di consumo.3. I comuni e le autorità competenti in materia igienico-sanitaria esercitano le rispettive funzioni di vigilanza4. Le violazioni delle prescrizioni di cui al presente articolo sono punite ai sensi dell'articolo 22, commi 1, 2, 5, lettera c), e 7, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114.

Mediante questo articolo, il legislatore ha voluto eliminare i limiti numerici delle licenze di panificazione, al fine di consentire una maggiore concorrenza.Con l’abrogazione della legge 31 luglio 1956, n. 1002, avente come oggetto “Nuove norme sulla panificazione”, è stata soppressa l’autorizzazione all’apertura rilasciata dalla Camera di commercio, industria e artigianato, la quale rilasciava tali autorizzazioni “in relazione alla densità dei panifici esistenti e del volume della produzione nella località ove è stata chiesta l’autorizzazione”.

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D'ora in poi, quindi, per aprire un panificio basterà presentare una dichiarazione di inizio attività al comune con l'attestazione del possesso dei requisiti igienico sanitari, urbanistici e ambientali.

Nota: ecco cosa è stato eliminato dal decreto legge.L'attività della panificazione - prima del Decreto Legge - era subordinata al possesso di una licenza che veniva rilasciata dalla Camera di commercio competente per territorio. La materia era regolamentata dalla legge 1002 del 31 luglio 1956 ("Nuove norme sulla panificazione":disciplina l'impianto, la riattivazione, il trasferimento e la trasformazione dei panifici) e dalla circolare 18 luglio 1997, n. 161.Secondo tali disposizioni l'attivazione di nuovi impianti, i trasferimenti in altro Comune, le trasformazioni che comportavano un ampliamento della superficie di cottura del forno erano soggetti ad autorizzazione della Camera di commercio sulla base di un parere espresso da una commissione composta da rappresentanti della stessa Camera, delle associazioni di categoria e organizzazioni sindacali di riferimento, nonché da un rappresentante del Comune interessato .La Commissione, nominata dalla Giunta Comunale e presieduta dal presidente della Camera di Commercio, aveva il compito di valutare l'opportunità dell'apertura di un nuovo impianto (o della trasformazione di un impianto esistente, o ancora del suo trasferimento). In caso di richiestedi apertura di nuovi impianti, venivano presi in considerazione alcuni parametri riferiti alla località in cui il panificio avrebbe dovuto essere aperto: la popolazione nel Comune, la potenzialità produttiva dei panifici in attività, il consumo di pane nella provincia verificato secondo i dati ISTAT. La capacità di consumo nel Comune veniva calcolata facendo il rapporto tra i dati del consumo di pane della provincia, forniti dall’ISTAT, e la popolazione residente.Il dato ottenuto (la capacità di consumo del Comune) veniva poi raffrontato con la potenzialità produttiva esistente in ambito comunale, il cui risultato consentiva di valutare l’opportunità di aprire nuovi impianti e di esprimere, quindi, il parere favorevole.Una volta ricevuto il parere favorevole della Commissione, la Camera di Commercio verificava l'efficienza degli impianti e il rispetto dei requisiti tecnici, igienico-sanitari e di igiene del lavoro previsti dalle norme, e infine rilasciava la licenza di panificazione.

La “liberalizzazione” delle licenze di panificazione previste dal Decreto Legge, secondo l’allora Ministro Bersani, avrebbe dovuto portare ad una maggiore concorrenza e ad una conseguente diminuzione dei prezzi.A distanza di quattro anni, i fatti hanno però dato torto al Ministro, visto che - nonostante i buoni propositi – non è stato possibile scardinare il sistema di fissazione dei prezzi del pane che, come risaputo, sono stabiliti in linea generale dalle Associazioni Provinciali dei panificatori le quali, a seguito di periodici studi di settore, comunicano i prezzi “consigliati” ai loro aderenti lasciandoli comunque liberi di praticare qualche leggera variazione.

Se poi il nuovo fornaio sceglie di non sottostare al dictat delle associazioni di categoria, dovrà comunque fare determinati conti (e farli bene) prima di scegliere di vendere i propri prodotti a prezzi più bassi di quelli vigenti.

NotaChi ha ideato il Decreto Legge, con molta probabilità nemmeno immaginava quanto potesse costare aprire una nuova attività di panificazione e, soprattutto, gestirla.

Sulla rivista “Il corriere del Pane” n.5 del 30 maggio 2006, a pag. 56, è stato pubblicato un articolo che spiega in maniera dettagliata quanto costa aprire un panificio a Treviso (ma lo stesso discorso vale anche per le altre grandi città italiane).

”Per fronteggiare una nuova apertura di panificio con annessa vendita al pubblico a Treviso (sempre che qualcuno ne abbia voglia al solo scopo di investimento e non si tratti di riciclaggio di denaro sporco) ci vuole un locale di circa 200/250 mq, il cui costo ammonta a circa 800.000 euro.Se il locale è preso in affitto, il canone va dai 3.500 ai 3.800 euro al mese.

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La fornitura di arredo e l’attrezzatura per la vendita si aggirano intorno ai 200.000 euro, mentre i macchinari e i forni per la produzione si aggirano intorno ai 260.000 euro.Dopo questi dati solo un pazzo può decidere di avviare una nuova attività, anche perché deve cercare clientela portandola via a colleghi che magari lavorano sul territorio da 30/40 anni, e inoltre si trova a cozzare contro la grande distribuzione , che vende sottocosto. Non da ultimo bisogna essere professionalmente preparati, e questo la dice tutto sul futuro”.Altro capitolo sono i costi di gestione (energia, gas o gasolio, personale, etc) e, soprattutto, i costi sommersi.Questa ultima voce non è da sottovalutare perché riguarda i costi di adeguamento dell’attività (laboratori e punti vendita) alle normative europee in continua evoluzione (haccp, 81, tutte le normative relative alla sicurezza dei luoghi di lavoro, prevenzione incendi, prevenzione sanitaria, vigili del fuoco, emanazione fumi di scarico, stoccaggio e smaltimento olii e prodotti derivati, pulizia dei locali, tutte le norme sulla rintracciabilità, le continue analisi delle farine, tutte le norme sugli allergeni, il rispetto del D.Lgs. 109/92 sull’etichettatura degli alimenti, etc.).

4.11.3 Pane tenuto in scomparti separati

Uno dei controlli di routine nel comparto del pane, consiste nel verificare che il pane venga tenuto separato, in appositi scomparti, dagli altri generi alimentari.L’art. 17 della Legge 580/67, impone all’esercente di tenere un apposito cartello, su ogni scomparto o contenitore, indicante il tipo di pane e il rispettivo prezzo.

La foto a fianco mostra una corretta applicazione della legge

Fig. 27

Negli ultimi tempi i supermercati più grandi stanno ponendo in vendita pane cotto in forni interni, ottenuto mediante completamento di cottura da pane parzialmente cotto, surgelato o non surgelato.Questo pane “appena sfornato” deve essere distribuito e messo in vendita in comparti separati dal pane fresco e in imballaggi preconfezionati, riportanti, oltre alle indicazioni previste dal D.Lgs. n. 109/92, anche le seguenti diciture:1) “ottenuto da pane parzialmente cotto surgelato” in caso di provenienza da prodotto surgelato;2) “ottenuto da pane parzialmente cotto” in caso di provenienza da prodotto non surgelato né congelato.(Normativa di riferimento: art. 14, comma 4, L. 580/67 modificato dall’art. 44 della L. 22 febbraio 1994, n. 146)

4.11.4 Indicazioni varie da apporre negli scomparti

L’art. 2 del DPR 30 novembre 1998 n. 502, stabilisce che il pane ottenuto dalla miscelazione di diversi tipi di sfarinati è denominato “pane al” seguito dal nome dello sfarinato caratterizzante utilizzato.

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Il successivo articolo 4 prevede che quando nella produzione del pane sono impiegati, oltre agli ingredienti previsti dall’art. 14 della L. 580/67 e dell’art. 3, altri ingredienti alimentari, la denominazione di vendita, indicata nell’apposito cartello posto in un comparto separato dagli altri generi di pane, deve essere completata dalla menzione dell’ingrediente utilizzato e, nel caso di più ingredienti, di quello o di quelli caratterizzanti.

4.11.5 La camera di ferma lievitazione

Nella prima versione del manuale, durante il sopralluogo nel reparto del pane, non era stata evidenziata la problematica relativa alla camera di fermalievitazione.Anche se questa problematica è alquanto rara nei supermercati, visto che difficilmente al loro interno avviene la procedura completa di preparazione del pane, nella realtà rappresenta un problema serio per i forni tradizionali, in considerazione del fatto che il mancato rispetto delle norme igieniche al suo interno rappresenta un serio pericolo per la salute dei consumatori.

Buona parte delle anomalie del pane posto in vendita, infatti, provengono dallo stato in cui vengono mantenuti i teli dove vengono depositate le masse di pane che dovranno essere poi cotte nei forni.Quando si sente parlare di “pane filate”, di pane “appiccicoso”, vuol dire che i suddetti teli potrebbero essere infettati da funghi o batteri.La cosa non dovrebbe mai essere sottovalutata visto che negli ultimi anni, in base a studi ufficiali, è stato dimostrato che se un immunosoppresso (o anche una persona sana) si dovesse nutrire costantemente e per lungo tempo con alimenti infettati da miceti (il più pericoloso per la salute umana è l’aspergillus), avrebbe buone possibilità di procurarsi il cancro.A tal proposito si pensi alle affermazioni dell’oncologo Veronesi, rilasciate nel 2005 agli organi di stampa, relative al fatto che a suo dire la polenta fatta con farina biologica è potenzialmente cancerogena.Come si ricorderà, l’affermazione venne riportata con enfasi dagli organi di stampa con l’evidente obiettivo di fare notizia, ma non venne approfondita più di tanto, lasciando nel dubbio i consumatori.Nella realtà l’illustre studioso voleva dire che la farina biologica, se coltivata in ambiente umido o, peggio, se immagazzinata in ambienti non idonei, favorisce la formazione delle aflatossine, notoriamente tossiche per la salute umana.

NotaLe aflatossine sono tossine prodotte principalmente da due tipi di muffe: Aspergillus flavus (solo alcuni ceppi) e Aspergillus parasiticus (quasi tutti i ceppi). Per questo appartengono alla più vasta categoria delle micotossine. Le muffe del genere Aspergillus vengono classificate alla famiglia delle Trichocomaceae, dell'ordine Eurotiales, tra i pezizomiceti. Oltre a queste due specie principali, micotossine vengono prodotte a anche da Aspergillus nomius ed Aspergillus niger.Il nome aflatossina deriva proprio da quello di A. flavus, responsabile della prima epidemia da micotossine descritta, riscontrata nel 1961. Queste muffe producono almeno 13 diversi tipi di aflatossine. Le B1, B2, G1 e G2 sono considerate tra le più pericolose, di cui la B1 è la più tossica e anche la più diffusa.Le aflatossine sono tossine potenti, cancerogene, mutagene e immunosoppressive.Fonte: www.sicurezzzadeglialimenti.it

Il pane “appiccicoso” o “filante” potrebbe essere il segnale che qualcosa non funziona nella fase di lavorazione del forno; in genere il problema può essere ricercato nella scarsa igiene dei teli o nei locali dove vengono immagazzinate le farine.Ad avviso di chi scrive, il compito della Polizia Municipale dovrebbe essere solamente quello di capire se si è davanti ad un caso di infezione da fungo (senza entrare nello specifico) per poi rapportare all’ufficio preposto della ASL (SIAN ), che interverrà attraverso i propri ispettori di Igiene, che provvederanno ad effettuare prelievi per le analisi dei campioni delle farine utilizzate o dei residui di pasta depositati sui teli.

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NotaIl “pane filante” è una delle alterazioni del pane, originata dalla lievitazione di alcuni bacilli sporigeni, tra i quali il Mesentericus vulgaris. Tale bacillo deriva dal frumento troppo umido o da lieviti. Le spore prodotte dal bacillo sono resistenti a temperature anche molto elevate (oltre i 100°C) e per questo motivo il pane, soprattutto se non viene cotto sufficientemente, presenta una mollica dall’aspetto viscido e filante.Questi gusci (le spore) permettono al batterio di sopportare le temperature alte del forno per poi ritornare vivo quando la temperatura del forno torna normale (ossia dopo la cottura): da qui il pane filante (colloso) che si verifica in particolare nei pani di grossa pezzatura.

4.11.6 Come capire quando si è davanti a casi sospetti

Il segnale di allarme è dato dal pane troppo appiccicoso.Dopo 2-3 giorni il pane che in condizioni normali tenderebbe naturalmente a seccarsi, se infettato appare invece ancora fresco, rilasciando al tatto una sensazione viscida, collosa.

4.11.7 Il controllo della camera di ferma lievitazione

La camera dovrebbe essere mantenuta ad una temperatura di - 4°C; tale particolarità è possibile verificarla grazie al termometro posto all’esterno (vedi foto 1).

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Foto 1

Durante il sopralluogo occorre chiedere al personale di aprire tale camera - evitando tuttavia di entrare all’interno - al fine di non causare potenziali contaminazioni dovute alle nostre calzature o ai nostri vestiti.Una volta aperta è comunque possibile vedere lo stato in cui versa il telo dove sono poggiati i filoncini di pane (vedi foto 2 e foto3).

Foto 2

Foto 3In condizioni ottimali dovrebbe essere bianco, visto che in genere viene lavato ogni 30 giorni.

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Telo dopo circa 30 giorni di utilizzo

Può tuttavia capitare di vedere nel punto in cui la massa del pane è a contatto con il tessuto (Foto 4), macchie di colori differenti; in base ai colori è possibile capire quale tipo di contaminazione è in atto.

Foto 4

Se il colore è giallo-verdino, è in atto una contaminazione da Aspergillus Flavus; se il colore riscontrato si avvicina al nero siamo di fronte ad un altro fungo della famiglia Aspergillus (in natura ne esistono circa 200 tipi differenti).È quasi inutile aggiungere che entrambe le contaminazioni risultano essere molto pericolose per la salute umana.

Il colore rosa tendente al rossiccio testimonia invece la presenza della poco pericolosa neurospora crassa, meglio conosciuta come “muffa del pane”.Se la macchia è invece di colore verde con formazioni azzurrine, ci troveremo di fronte al fungo Penicillium, decisamente poco pericoloso.

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Penicillum Aspergillus Flavus (pericoloso)

Neurospora crassa (muffa del pane) Aspergillus Niger (Pericoloso)

Tornando al nostro pane filante, il prodotto si presenta in genere con rammollimento ed imbrunimento a chiazze della mollica, che risulta essere appiccicosa e dal sapore dolciastro dopo poche ore o giorni dalla cottura.

Il bacillo deriva dall'ambiente, quindi dalla campagna, dalla terra in generale e per questo motivo basta entrare nel panificio (o nel luogo dove è conservata la farina) con delle scarpe sporche di terra o semplicemente introdurre nell'ambiente delle patate non ben pulite, che si rischia di dare vita al problema. Ovviamente lo stesso grano prodotto in campagna può contenere il batterio di cui sopra.

Le cause appena descritte denotano che il sistema HACCP in uso presso il forno presenta delle vistose lacune dovute probabilmente al mancato rispetto dello stesso, oppure ad una stesura superficiale del manuale da parte di chi lo ha materialmente redatto.

NotaPer rimediare a questo problema, anni fa venivano utilizzati i seguenti rimedi: 1) pulizia completa del panificio e dell'ambiente in cui veniva conservata la farina con aceto di vino (attrezzature, tavoli, utensili, impastatrici, i muri stessi del luogo in questione); 2) utilizzo dell'aceto di vino nell'impasto (anche se non si è mai dimostrata una soluzione ottimale).

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Al giorno d’oggi vengono invece utilizzati prodotti chimici specifici contenenti l'acetato di sodio che si dimostrano molto efficaci.

Tornando al nostro sopralluogo…

Una volta accertata la presenza delle problematiche sopra descritte, la Polizia Annonaria dovrebbe rapportare quanto accertato all’ufficio preposto ASL (SIAN) per i provvedimenti di competenza.In conclusione possiamo dire che controlli del genere andrebbero sempre fatti per la tutela dei consumatori, visto anche che le AA.SS.LL., a causa della carenza cronica del personale Ispettivo, difficilmente riuscirebbero a garantire un servizio di prevenzione efficace.Dall’ultimo scandalo dei formaggi “riesumati” dalle discariche di cui hanno parlato i media nella seconda metà del 2008, è emerso che il sistema HACCP, se non è affiancato da controlli “incrociati” da parte delle Forze dell’Ordine, non serve praticamente a nulla.Se il responsabile dell’autocontrollo è una persona disonesta, a ben poco servono tutti gli accorgimenti di igiene alimentare messi a punto a livello europeo!In questo scandalo di fine estate, infatti, è bastata la compiacenza di un dirigente ASL per consentire che vere e proprie bombe biologiche, con all’interno addirittura escrementi di topi, venissero immesse sul mercato coperte da marchi prestigiosi.Ben vengano quindi i controlli “incrociati” della Polizia Municipale e delle altre Forze dell’Ordine!

4.11.8 Il pane venduto a domicilio

Come i lettori sapranno, la legge vieta – per motivi igienici - di vendere il pane in forma itinerante (con esclusione dei mercati coperti).A seguito di preventivo ordine effettuato presso l’esercizio di vendita, è consentita solamente la consegna del pane al domicilio del compratore.In Italia, per contrastare la concorrenza, molti esercizi commerciali effettuano la consegna a domicilio della spesa alimentare.Per non avere problemi con chi è addetto al controllo, e perché non si configuri la vendita ambulante o la tentata vendita, occorre procedere nel seguente modo:una volta ricevuto l’ordine, il pane deve essere pesato e messo in un sacchetto chiuso, possibilmente di carta. All’esterno deve essere attaccato lo scontrino e, ben in vista, deve essere scritto il nome del cliente che lo ha ordinato.

4.11.9 Il trasporto del paneDurante i controlli, può capitare di assistere all’arrivo di un fornaio che trasporta il quantitativo quotidiano di pane richiesto dall’esercizio commerciale.

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Anche se l’ipotesi prospettata è alquanto remota (visto che -si spera- chi esercita la professione di panettiere dovrebbe conoscere le più elementari regole igieniche del proprio mestiere), è sempre il caso di verificare se viene rispettato il dettato dell’art. 26 della L. 580/67 e cioè se il trasporto del pane dal luogo di lavorazione all'esercizio di vendita, viene effettuato in recipienti lavabili e muniti di copertura a chiusura, in modo che il pane risulti al riparo dalla polvere e da ogni altra causa di insudiciamento.

[omissis]