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I biosenson Questi raffinati dispositivi, sfruttando componenti molecolari di origine vegetale e animale fissati a microscopici elettrodi o a fibre ottiche, sono in grado di rivelare in tempo reale la presenza di specifiche sostanze di Jerome S. Schultz LE SCIENZE n. 278, ottobre 1991 73 / n un uomo di 63 anni, che giace in un letto d'ospedale dopo una normale operazione di sostituzione dell'an- ca, si manifesta all'improvviso un'arit- mia cardiaca. I medici e le infermiere cercano di regolarizzare il battito, men- tre si analizzano campioni di sangue del paziente per misurarne il pH, la concen- trazione di ossigeno, calcio e potassio, l'ematocrito e altri parametri in grado di rivelare la fonte del pericolo. Di solito ci vuole almeno un'ora per avere i risultati di laboratorio e a questo punto potrebbe essere troppo tardi. Ai medici inoltre non interessa solo la com- posizione chimica del sangue 10 o 15 mi- nuti dopo l'inizio dell'aritmia; più utile sarebbe sapere com'è cambiata la com- posizione del sangue prima che si mani- festasse l'irregolarità cardiaca. Già oggi i biosensori, che sono rivela- tori basati su molecole sensibili di origi- ne vegetale o animale, consentono in certi casi di ottenere in pochi minuti i risultati delle analisi direttamente al ca- pezzale del paziente. Inoltre si stanno mettendo a punto sistemi che forniscono non solo un'istantanea delle condizioni del malato, ma anche una registrazione biochimica continua. I biosensori attuali sono nati dal con- nubio tra due settori piuttosto lontani: la tecnologia dell'informazione, in partico- lare la fabbricazione di microcircuiti e fibre ottiche, e la biologia molecolare. La prima fornisce minuscoli elettrodi o sensori ottici; la seconda biomolecole ca- paci di riconoscere una certa sostanza. Le potenziali applicazioni di questi di- spositivi sono varie quanto le molecole che possono esservi incorporate. Dai biosensori trarrà benefici evidenti e im- mediati la pratica medica, non solo nel campo delle analisi cliniche ma anche in vista della fabbricazione di farmaci e di organi da trapianto, come il pancreas ar- tificiale per i diabetici. Ma i biosensori servono anche per vagliare la qualità e la genuinità degli alimenti e per rilevare i livelli di inquinamento ambientale. 72 LE SCIENZE n. 278, ottobre 1991 Je origini dei biosensori risalgono alla metà degli anni cinquanta, quando Leland C. Clark Jr., della Children's Hospital Research Foundation di Cin- cinnati, inventò un elettrodo che misu- rasse la concentrazione di ossigeno nel sangue dei pazienti da sottoporre a in- tervento chirurgico. Clark circondò una normale coppia elettrodo di platino-elet- trodo di riferimento con una membrana di plastica permeabile ai gas. La tensione di polarizzazione dell'elettrodo di plati- co era regolata in modo che la corrente che passava nel circuito dipendesse dalla velocità con cui l'ossigeno diffondeva at- traverso la membrana, la quale a sua vol- ta era direttamente proporzionale alla concentrazione di ossigeno all'esterno. Nel 1962 Clark era riuscito a ottenere misurazioni della glicemia con il suo «elettrodo a ossigeno». Aveva ricoperto il sensore con uno strato di gel contenen- te un biocatalizzatore , l'enzima gluco- sio-ossidasi , e vi aveva sovrapposto una membrana semipermeabile per dialisi che consentiva al glucosio di diffondere nel sensore, ma impediva all'enzima di diffondere all'esterno. (La membrana impediva inoltre l'ingresso a enzimi ca- paci di degradare il biocatalizzatore.) Quanto più glucosio entrava nel sensore, tanto più era l'ossigeno consumato dal- l'enzima. Un basso livello di ossigeno corrispondeva direttamente a una con- centrazione elevata di glucosio. Il dispositivo di Clark non ebbe mai una grande diffusione nella pratica tera- peutica. La sua precisione dipendeva in Questo ago ipodermico contiene un biosen- sore per il glucosio inventato dall'autore. Il glucosio diffonde nel sensore ed espelle dai siti di legame sulla parete interna molecole di destrano marcate con fluoresceina. Una fibra ottica porta nel sensore luce laser che eccita il destrano liberato; la stessa fibra invia il segnale risultante a un rivelatore. dall'ambiente esterno - rappresentò un modello per le successive ricerche di Clark e di altri. La grande novità si ebbe nel 1969, quando George G. Guilbault della Loui- siana State University a New Orleans co- struì un apparecchio per misurare la con- centrazione di urea nei liquidi dell'orga- nismo. Questo dispositivo sfruttava l'u- reasi, l'enzima che trasforma l'urea in anidride carbonica e ammoniaca. Le va- riazioni di concentrazione dello ione am- monio erano rivelate da un elettrodo. Il sensore di Guilbault segnava un progres- so notevole perché si basava sul rileva- mento potenziometrico, tecnica che da allora è diventata molto comune. Mentre il rivelatore di Clark misura la corrente che attraversa l'elettrodo, un sensore potenziometrico misura la ten- sione di polarizzazione necessaria per mantenere nulla la corrente. L'elettrodo non consuma i reagenti ed è pertanto meno soggetto a errori causati da varia- zioni delle condizioni esterne. Inoltre i sistemi potenziometrici hanno una curva di risposta logaritmica e quindi possono rilevare concentrazioni su intervalli di variabilità di due ordini di grandezza. N1- ei decenni successivi all'introduzio- ne di questi metodi elettrochimici, nei biosensori sono stati via via usati cir- ca 100 enzimi diversi. Ci si è tuttavia resi conto che i singoli enzimi non sono gli unici biocatalizzatori utili. Di recente Garry A. Rechnitz dell'Università di Hawaii ha dimostrato che certi preparati tissutali possono eseguire una complessa successione di reazioni che risultano sen- sibili agli amminoacidi e ad altre impor- tanti biomolecole. Tra questi preparati ricordiamo la polpa della banana per mi- surare la dopammina, il mais per il piru- vato, le foglie del cetriolo per la cisteina, la barbabietola da zucchero per la tirosi- na, il fegato di coniglio per la guanina e il muscolo di coniglio polverizzato per l'adenosinmonofosfato. Rechnitz è andato anche oltre, sfrut- tando addirittura parti di sistemi biolo- gici: uno dei suoi sensori contiene un pic- colo organo di senso (l'antennula) di un granchio del genere Callinectes , seziona- to per esporne le fibre nervose a un elet- trodo. Questo sensore è in grado di mi- surare la concentrazione di numerosi farmaci e inquinanti. Il sensore ad antennula e altri sistemi analoghi danno la possibilità di studiare la loro struttura per la trasmissione di informazioni al fine di realizzare sensori più semplici contenenti le stesse moleco- le. Questi sensori dimostrano anche i vantaggi di un'ampia applicabilità: ben- ché enzimi e anticorpi abbiano una ca- pacità straordinaria di rivelare singoli composti, altre biomolecole sono forse più utili per rivelare la presenza di un'ampia classe di sostanze chimiche. Per esempio Richard F. Taylor della Ar- thur D. Little , Inc., ha costruito un sen- sore che incorpora il recettore di mem- brana dell'acetilcolina, il quale trasmet- te segnali dalle fibre nervose ai muscoli. Il dispositivo è in grado di rivelare diver- si tipi di gas nervini. A far uscire i biosensori dai laboratori, rendendoli strumenti di uso comune, è stata soprattutto la messa a punto (in genere per scopi diversi dalle ricerche sui biosensori) di tecniche per stabilizzare le biomolecole e vincolarle a una superficie in modo che conservino la loro attività. Affettare banane al capezzale di un pa- ziente per misurargli il livello di dopam- mina è infatti poco pratico. Molte tecni- che che s'impiegano per fissare a una superficie enzimi o anticorpi in modo da poterli usare in analisi di laboratorio o nella fabbricazione di prodotti biochimi- ci possono tuttavia essere usate anche per legare molecole a un biosensore. Benché rimuovendo le proteine dal loro ambiente cellulare si rischi di rovi- narne la struttura e di esporle ad attacchi chimici, le tecniche di fissaggio delle pro- teine a un substrato tendono anche a sta- bilizzarle. Per esempio l'interazione chi- mica tra una molecola proteica e una sfe- retta di polimero può portare alla forma- zione di legami incrociati tra le diverse parti della proteina, che quindi si disten- de meno facilmente e resiste meglio alla degradazione enzimatica. Perciò i bio- sensori si possono conservare in ambien- te sia ecco sia umido per una settimana, un mese e in certi casi anche un anno modo critico dalla velocità con cui ossi- geno e glucosio diffondevano nel senso- re, e questa velocità poteva variare sia perché mutava la concentrazione di os- sigeno nel sangue del paziente sia perché sulla superficie del sensore si formavano dei coaguli. Tuttavia l'apparecchio - for- mato com'era da un sistema biologico sensibile a un particolare composto, un trasduttore fisico capace di trasformare modificazioni chimiche in letture stru- mentali e membrane in grado di separare gli elementi del sensore e di proteggerli

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I biosensonQuesti raffinati dispositivi, sfruttando componenti molecolari di originevegetale e animale fissati a microscopici elettrodi o a fibre ottiche, sonoin grado di rivelare in tempo reale la presenza di specifiche sostanze

di Jerome S. Schultz

LE SCIENZE n. 278, ottobre 1991 73

/

n un uomo di 63 anni, che giace in unletto d'ospedale dopo una normaleoperazione di sostituzione dell'an-

ca, si manifesta all'improvviso un'arit-mia cardiaca. I medici e le infermierecercano di regolarizzare il battito, men-tre si analizzano campioni di sangue delpaziente per misurarne il pH, la concen-trazione di ossigeno, calcio e potassio,l'ematocrito e altri parametri in grado dirivelare la fonte del pericolo.

Di solito ci vuole almeno un'ora peravere i risultati di laboratorio e a questopunto potrebbe essere troppo tardi. Aimedici inoltre non interessa solo la com-posizione chimica del sangue 10 o 15 mi-nuti dopo l'inizio dell'aritmia; più utilesarebbe sapere com'è cambiata la com-posizione del sangue prima che si mani-festasse l'irregolarità cardiaca.

Già oggi i biosensori, che sono rivela-tori basati su molecole sensibili di origi-ne vegetale o animale, consentono incerti casi di ottenere in pochi minuti irisultati delle analisi direttamente al ca-pezzale del paziente. Inoltre si stannomettendo a punto sistemi che forniscononon solo un'istantanea delle condizionidel malato, ma anche una registrazionebiochimica continua.

I biosensori attuali sono nati dal con-nubio tra due settori piuttosto lontani: latecnologia dell'informazione, in partico-lare la fabbricazione di microcircuiti efibre ottiche, e la biologia molecolare.La prima fornisce minuscoli elettrodi osensori ottici; la seconda biomolecole ca-paci di riconoscere una certa sostanza.

Le potenziali applicazioni di questi di-spositivi sono varie quanto le molecoleche possono esservi incorporate. Daibiosensori trarrà benefici evidenti e im-mediati la pratica medica, non solo nelcampo delle analisi cliniche ma anche invista della fabbricazione di farmaci e diorgani da trapianto, come il pancreas ar-tificiale per i diabetici. Ma i biosensoriservono anche per vagliare la qualità ela genuinità degli alimenti e per rilevarei livelli di inquinamento ambientale.

72 LE SCIENZE n. 278, ottobre 1991

Jeorigini dei biosensori risalgono allametà degli anni cinquanta, quando

Leland C. Clark Jr., della Children'sHospital Research Foundation di Cin-cinnati, inventò un elettrodo che misu-rasse la concentrazione di ossigeno nelsangue dei pazienti da sottoporre a in-tervento chirurgico. Clark circondò unanormale coppia elettrodo di platino-elet-trodo di riferimento con una membranadi plastica permeabile ai gas. La tensionedi polarizzazione dell'elettrodo di plati-co era regolata in modo che la correnteche passava nel circuito dipendesse dallavelocità con cui l'ossigeno diffondeva at-traverso la membrana, la quale a sua vol-ta era direttamente proporzionale allaconcentrazione di ossigeno all'esterno.

Nel 1962 Clark era riuscito a otteneremisurazioni della glicemia con il suo«elettrodo a ossigeno». Aveva ricopertoil sensore con uno strato di gel contenen-te un biocatalizzatore , l'enzima gluco-sio-ossidasi , e vi aveva sovrapposto unamembrana semipermeabile per dialisiche consentiva al glucosio di diffonderenel sensore, ma impediva all'enzima didiffondere all'esterno. (La membranaimpediva inoltre l'ingresso a enzimi ca-paci di degradare il biocatalizzatore.)Quanto più glucosio entrava nel sensore,tanto più era l'ossigeno consumato dal-l'enzima. Un basso livello di ossigenocorrispondeva direttamente a una con-centrazione elevata di glucosio.

Il dispositivo di Clark non ebbe maiuna grande diffusione nella pratica tera-peutica. La sua precisione dipendeva in

Questo ago ipodermico contiene un biosen-sore per il glucosio inventato dall'autore. Ilglucosio diffonde nel sensore ed espelle daisiti di legame sulla parete interna molecoledi destrano marcate con fluoresceina. Unafibra ottica porta nel sensore luce laser cheeccita il destrano liberato; la stessa fibrainvia il segnale risultante a un rivelatore.

dall'ambiente esterno - rappresentò unmodello per le successive ricerche diClark e di altri.

La grande novità si ebbe nel 1969,quando George G. Guilbault della Loui-siana State University a New Orleans co-struì un apparecchio per misurare la con-centrazione di urea nei liquidi dell'orga-nismo. Questo dispositivo sfruttava l'u-reasi, l'enzima che trasforma l'urea inanidride carbonica e ammoniaca. Le va-riazioni di concentrazione dello ione am-monio erano rivelate da un elettrodo. Ilsensore di Guilbault segnava un progres-so notevole perché si basava sul rileva-mento potenziometrico, tecnica che daallora è diventata molto comune.

Mentre il rivelatore di Clark misura lacorrente che attraversa l'elettrodo, unsensore potenziometrico misura la ten-sione di polarizzazione necessaria permantenere nulla la corrente. L'elettrodonon consuma i reagenti ed è pertantomeno soggetto a errori causati da varia-zioni delle condizioni esterne. Inoltre isistemi potenziometrici hanno una curvadi risposta logaritmica e quindi possonorilevare concentrazioni su intervalli divariabilità di due ordini di grandezza.

N1- ei decenni successivi all'introduzio-ne di questi metodi elettrochimici,

nei biosensori sono stati via via usati cir-ca 100 enzimi diversi. Ci si è tuttavia resiconto che i singoli enzimi non sono gliunici biocatalizzatori utili. Di recente

Garry A. Rechnitz dell'Università diHawaii ha dimostrato che certi preparatitissutali possono eseguire una complessasuccessione di reazioni che risultano sen-sibili agli amminoacidi e ad altre impor-tanti biomolecole. Tra questi preparatiricordiamo la polpa della banana per mi-surare la dopammina, il mais per il piru-vato, le foglie del cetriolo per la cisteina,la barbabietola da zucchero per la tirosi-na, il fegato di coniglio per la guanina eil muscolo di coniglio polverizzato perl'adenosinmonofosfato.

Rechnitz è andato anche oltre, sfrut-tando addirittura parti di sistemi biolo-gici: uno dei suoi sensori contiene un pic-colo organo di senso (l'antennula) di ungranchio del genere Callinectes , seziona-to per esporne le fibre nervose a un elet-trodo. Questo sensore è in grado di mi-surare la concentrazione di numerosifarmaci e inquinanti.

Il sensore ad antennula e altri sistemianaloghi danno la possibilità di studiarela loro struttura per la trasmissione diinformazioni al fine di realizzare sensoripiù semplici contenenti le stesse moleco-le. Questi sensori dimostrano anche ivantaggi di un'ampia applicabilità: ben-ché enzimi e anticorpi abbiano una ca-pacità straordinaria di rivelare singolicomposti, altre biomolecole sono forsepiù utili per rivelare la presenza diun'ampia classe di sostanze chimiche.Per esempio Richard F. Taylor della Ar-thur D. Little , Inc., ha costruito un sen-

sore che incorpora il recettore di mem-brana dell'acetilcolina, il quale trasmet-te segnali dalle fibre nervose ai muscoli.Il dispositivo è in grado di rivelare diver-si tipi di gas nervini.

A far uscire i biosensori dai laboratori,rendendoli strumenti di uso comune, èstata soprattutto la messa a punto (ingenere per scopi diversi dalle ricerche suibiosensori) di tecniche per stabilizzare lebiomolecole e vincolarle a una superficiein modo che conservino la loro attività.Affettare banane al capezzale di un pa-ziente per misurargli il livello di dopam-mina è infatti poco pratico. Molte tecni-che che s'impiegano per fissare a unasuperficie enzimi o anticorpi in modo dapoterli usare in analisi di laboratorio onella fabbricazione di prodotti biochimi-ci possono tuttavia essere usate ancheper legare molecole a un biosensore.

Benché rimuovendo le proteine dalloro ambiente cellulare si rischi di rovi-narne la struttura e di esporle ad attacchichimici, le tecniche di fissaggio delle pro-teine a un substrato tendono anche a sta-bilizzarle. Per esempio l'interazione chi-mica tra una molecola proteica e una sfe-retta di polimero può portare alla forma-zione di legami incrociati tra le diverseparti della proteina, che quindi si disten-de meno facilmente e resiste meglio alladegradazione enzimatica. Perciò i bio-sensori si possono conservare in ambien-te sia ecco sia umido per una settimana,un mese e in certi casi anche un anno

modo critico dalla velocità con cui ossi-geno e glucosio diffondevano nel senso-re, e questa velocità poteva variare siaperché mutava la concentrazione di os-sigeno nel sangue del paziente sia perchésulla superficie del sensore si formavanodei coaguli. Tuttavia l'apparecchio - for-mato com'era da un sistema biologicosensibile a un particolare composto, untrasduttore fisico capace di trasformaremodificazioni chimiche in letture stru-mentali e membrane in grado di separaregli elementi del sensore e di proteggerli

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L'evoluzione del biosensore per il glucosio

La corrente che fluisce dall'elettro-do polarizzato di platino all'elettro-do di riferimento è proporzionalealla concentrazione di ossigenonella soluzione.

Una membrana permeabile ai gasisola gli elettrodi dal sangue o daaltri liquidi organici in esame, maconsente all'ossigeno di diffonderenella soluzione di cloruro di potas-sio in cui sono immersi gli elettrodi.

Una membrana per dialisi, permeabilea ioni e piccole molecole, racchiude ungel contenente l'enzima glucosio-ossi-dasi, che trasforma il glucosio in acidogluconico consumando ossigeno. Lavelocità con la quale l'ossigeno rag-giunge la soluzione all'interno del ci-lindro è inversamente proporzionalealla glicemia.

° SOLUZIONE (-

ELETTRODODI RIFERIMENTO

ELETTRODODI PLATINO

~"E'R CILINDROAPERTO

SOLUZIONEDI CLORURODI POTASSIO

MEMBRANAPERMEABILEAl GAS

MEMBRANAPER DIALISI

GLUCOSIOOSSIDASI

GLUCOSIO

senza che perdano la loro sensibilità.Anche i progressi della tecnologia del-

le membrane hanno consentito a quantisi occupano di biosensori di miglioraresenza fatica i loro sistemi. Le membranepossono essere adattate a specifiche so-stanze da analizzare a seconda del dia-metro o della carica delle molecole disoluto e della sua solubilità. Un sistemamolto usato per le analisi di laboratoriocomprende cinque o sei membrane stra-tificate, ciascuna con proprietà diverse econtenente reagenti diversi. Le cono-scenze acquisite di recente sui doppistrati di molecole lipidiche, sistemi chesomigliano ai doppi strati delle paretidelle cellule viventi, potrebbero consen-tire di incorporare in un biosensore certeproteine recettrici estratte da membranecellulari (per esempio il recettore dell'a-cetilcolina) in condizioni che riproduca-no l'ambiente naturale del recettore.

Benché i progressi della biotecnologia abbiano certo contribuito a miglio-

rare i biosensori, è stata l'industria deisemiconduttori a renderli economici efacili da produrre. All'inizio degli annisettanta James B. Angeli della StanfordUniversity e Kensall D. Wise dell'Uni-versità del Michigan costruirono su unchip elettrodi multipli miniaturizzati con

cui si potevano eseguire misurazionielettrochimiche sul tessuto nervoso, eJiff Janata dell'Università dello Utah ri-vestì la porta di un transistore a effettodi campo con concanavalina A (ConA),una sostanza avente funzione di anticor-po, inventando in tal modo il rivelatoreCHEMFET. Le ricerche su questi disposi-tivi hanno dato origine a tecniche gene-rali per combinare nello stesso sistemacomponenti chimici e circuiti integrati.

Il primo sensore di Clark per il gluco-sio aveva un diametro di un centimetrocirca, ma le tecniche messe a punto nel-l'ultimo decennio per la fabbricazione dicircuiti integrati consentono di produrreelettrodi miniaturizzati del diametro dipochi centesimi di millimetro. Macchinesostanzialmente uguali alle stampanti agetto d'inchiostro depongono sugli elet-trodi reagenti e membrane secondo trac-ciati fissati con grande precisione. Conquesti procedimenti si possono stamparemigliaia o milioni di sensori identici a uncosto unitario bassissimo. Di conseguen-za il medico può gettare il sensore dopouna misurazione, evitando il rischio dicontaminazioni.

Questi sensori a basso costo sono unamanna per i diabetici, che devono misu-rare la glicemia più volte al giorno. Unodi questi dispositivi, basato sulle ricerche

di Anthony P. F. Turner del CranfieldInstitute of Technology, ha le dimensio-ni di una penna stilografica e comprendeun sensore, amplificatori a circuiti inte-grati e un visore a cristalli liquidi. L'en-zima in esso contenuto trasforma il glu-cosio in acido gluconico, come nel sen-sore di Clark , ma poi un mediatore chi-mico, il ferrocene, riporta l'enzima inuno stato ossidante e viene a sua voltariattivato dalla corrente dell'elettrodo. Ildispositivo non consuma reagenti e puòfunzionare anche per lunghi periodi.

Intanto la gamma di elettrodi sensibilia varie sostanze si è ampliata, sicché oggisi possono sfruttare reazioni enzimaticheche non si limitano a modificare la con-centrazione di ossigeno o il pH, e anchecollocare su uno stesso chip biosensoriper molte sostanze diverse. Introducen-do un catetere munito di questo chip inun vaso sanguigno si potrebbero misura-re con continuità la composizione delsangue o altri parametri proprio come siesegue un controllo strumentale conti- •nuo della frequenza cardiaca, della pres-sione arteriosa o delle funzioni cerebrali.

Mentre da un lato si sono miniaturiz-zati i biosensori elettronici, dall'al-

tro si sono messi a punto nuovi sistemibasati sul rilevamento di fenomeni ottici.

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I biosensori e le loro applicazioniSostanzamisurata Sensore biologico Sensore fisico

Benzopirene Anticorpo per il benzopirene Fluorimetro a fibra ottica

Creatinina Creatinina imminoidrolasi Transistore a effetto di campo ad ammoniaca

Etanolo —NADH e deidrogenasi Elettrodo a ossidoriduzione

Gammaglobulina Anticorpo per la gammaglobulina Luce polarizzata

LidocainaAnticorpo per la lidocainae complesso ferrocene-lidocaina

Elettrodo a ossigeno

Gas nervino Recettore dell'acetilcolina Misurazione di conduttività

Parathion Anticorpo per il parathion Cristallo piezoelettrico

Penicillina Beta-lattamasi Termistore

TestosteroneEnzimi della bioluminescenza:deidrogenasi e luciferasi

Fluorimetro a fibra ottica

Teofillina Anticorpo per la teofillina Risonanza di plasmon superficiale

Vitamina B12 Batteri (Escherichia coli) Elettrodo a ossigeno

Le rapide innovazioni nel settore dellecomunicazioni e dei semiconduttori han-no reso disponibili fibre ottiche a bassaperdita, circuiti per l'elaborazione di se-gnali ottici, divisori di fascio e filtri inte-grati e sorgenti luminose miniaturizzatecon spettro molto puro, come i diodi aemissione luminosa e i laser a stato soli-do. Nel 1969, ai National Institutes ofHealth, Gerald G. Vurek e Robert Bow-man collaudarono uno dei primi sensoria fibre ottiche per analisi cliniche, uncolorimetro che individuava il legame divari coloranti alle cellule dei tubuli rena-li. Le fibre ottiche possono fungere daspettrofotometri a distanza che misura-no lo spettro di riflessione o di trasmis-sione di un fluido, da fluorimetri che ri-levano la riemissione di certe lunghezzed'onda luminose o da turbidimetri chemisurano la diffusione della luce.

Esistono tre ampie categorie di bio-sensori a fibre ottiche. La prima si basasu un'estensione immediata dei principidi funzionamento dei biosensori elettro-nici e rileva semplicemente le variazionidelle proprietà ottiche, anziché elettri-che, della sostanza in esame. Le altredue, i dispositivi a onda evanescente e aplasmon superficiale, sfruttano il modoparticolare in cui le fibre ottiche trasmet-tono la luce.

Il primo tipo di biosensore ottico com-prende una cella chiusa da una membra-na semipermeabile, reagenti contenutinella membrana o fissati alla sua facciainterna, una fibra ottica che illumina lacella e rivelatori che misurano le varia-zioni delle proprietà ottiche. Quasi sem-pre la fibra che porta la luce nella cellaraccoglie anche la luce trasmessa o rifles-sa da analizzare.

Le mie ricerche di ingegneria biochi-

mica su vari progetti per organi artificialimi hanno portato ad applicare questetecniche ottiche alla costruzione di unaltro sensore per il glucosio, che potreb-be rivelarsi utile per un pancreas artifi-ciale. Dai medici con cui lavoravo avevosaputo che esistono parecchie eccellentipompe di insulina, ma tutti questi dispo-sitivi devono essere programmati ma-nualmente sulla base dei risultati di ana-lisi eseguite su campioni di sangue pre-levati tramite puntura del polpastrello.Il sensore ideale dal punto di vista clinicodovrebbe fornire indicazioni continue,non dovrebbe consumare né glucosio(fornendo così una misura in uno statoveramente di equilibrio) né reagenti,non dovrebbe avere collegamenti elettri-ci con il corpo e, se possibile, dovrebbeessere non invasivo per evitare, alla lun-ga, infiammazioni o altre reazioni.

Il dispositivo da me costruito soddisfala maggior parte di questi requisiti clini-ci, anche se non tutti, e può servire damodello per sensori ottici capaci di rive-lare una gamma praticamente illimitatadi molecole. Il dispositivo si basa sullatecnica di immunofluorescenza impiega-ta nelle analisi cliniche. In questo caso laConA, che si lega sia al glucosio sia aldestrano (un polimero del glucosio), èfissata all'interno di una fibra cava perdialisi, una membrana messa a punto inorigine per l'impiego in un rene artificia-le. La fibra è riempita da una soluzionediluita di destrano marcato con fluore-sceina . Il complesso del destrano nonpuò diffondere all'esterno, ma il gluco-sio può entrare nella fibra, e così facendorimuove il destrano da alcuni siti di lega-me con la ConA ; quanto più elevata è laconcentrazione di glucosio, tanto più de-strano passa in soluzione. Intanto la luce

trasmessa da una fibra ottica rende fluo-rescente il complesso del destrano in so-luzione e produce un segnale; invece ildestrano legato alla ConA sulle paretidella fibra per dialisi non è colpito dallaluce e quindi non produce alcun segnale.

La fibra per dialisi non si limita a cir-coscrivere un volume isolato in cui puòavvenire la reazione: essa conserva an-che i reagenti. In una normale analisi dilaboratorio, il destrano marcato confluoresceina (o con un altro marcatore)che passa in soluzione andrebbe perdu-to. Del resto neppure la ConA (o unaltro anticorpo) potrebbe essere riutiliz-zata dopo un'esposizione diretta ai fluididell'organismo. Racchiudendo tutto ilsistema in un biosensore si possono ef-fettuare misurazioni continue per tempilunghi. Il dispositivo ha il solo difetto diessere invasivo: per rimanere a contattocon il sangue dev'essere collocato neitessuti e alla lunga provoca infezioni oinfiammazioni. Ancora non si è riuscitia far permanere in situ senza danni sondedi questo tipo per lunghi periodi.

Con il secondo tipo di sensore ottico,che è basato sul principio dell'onda eva-nescente, non è necessario ricavare il nu-mero di biomolecole marcate rimossedal recettore a partire dal numero diqueste molecole presente in soluzione,perché il legame competitivo viene rive-lato direttamente. I rivelatori a ondaevanescente sfruttano il fatto che l'ener-gia di un'onda luminosa trasmessa dauna fibra ottica non si propaga solo lun-go il nucleo della fibra, ma anche in unazona che si estende per circa 100 nano-metri nel mezzo che circonda il nucleo.Se il mantello che protegge la fibra vienerimosso, un materiale che aderisca al nu-cleo può assorbire quest'onda evane-scente e produrre fluorescenza.

Il compianto Tomas B. Hirschfeld delLawrence Livermore National Labora-tory fissò anticorpi alla superficie di unafibra privata del mantello e misurò lafluorescenza naturale degli antigeni chesi legavano a essi. I sensori a onda eva-nescente possono misurare anche un le-game competitivo del tipo sfruttato nelmio sensore per il glucosio. Se alla fibrasi legano anticorpi e poi si aggiunge unaquantità nota di antigene marcato conuna sostanza fluorescente insieme alcampione in esame, l'entità della fluore-scenza causata dall'onda evanescente in-dica il rapporto tra gli antigeni marcati equelli non marcati nel campione.

Un'alternativa al metodo dell'ondaevanescente è il metodo del plasmon su-perficiale in cui si sfrutta una pellicola dimetallo, per esempio argento, deposita-ta sulla superficie di un sottile pezzo divetro che funge da guida per la luce. Lapellicola conduttrice offre un cammino(il plasmon) per l'energia luminosa equindi modifica l'angolo critico d'inci-denza in corrispondenza del quale la luceresta imprigionata nel vetro. Il nuovoangolo critico è molto sensibile allaquantità di materiale adsorbito sulla pel-

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FIBRAOTTICA

EMISSIONEFLUORESCENTE

RIVELATORE

MOLECOLEDI RECETTORE

FIBRA CAVAPER DIALISI

GLUCOSIO

DESTRANOFLUORESCENTE

BIOSENSORE A FIBRA OTTICAFASCIO LASERDI ECCITAZIONE

DIVISOREDI FASCIO

SENSORE A ONDA EVANESCENTE

ANTICORPO

FASCIOTRASMESSO

FASCIO LASER4~~1Mil

licola metallica. Il segnale del plasmonsuperficiale non richiede molecole mar-cate o l'individuazione di legami compe-titivi; se al dispositivo si fissano anticorpio altri biorecettori, si può misurare conprecisione quanto del materiale conte-nuto in un liquido si lega ai recettori.

Poiché il metodo del plasmon superfi-ciale non comporta l'uso di molecolemarcate, lo si può usare in biosensoriadatti a un'ampia gamma di sostanze. Ineffetti una società, la Pharmacia, ha al-lestito un sistema destinato a laboratoridi ricerca che incorpora generici sensoria plasmon superficiale sui quali si de-positano le molecole che si desideranostudiare.

Benché oggi i biosensori trovino im-piego soprattutto in campo medico, puòdarsi che alla lunga altre applicazionisi rivelino altrettanto importanti. Peresempio un sensore costruito da IsaoKarube e Shuichi Suzuki del Politecnicodi Tokyo misura il consumo biochimicodi ossigeno, un indice della concentra-zione di materiali organici nell'acqua in-quinata. Questo sensore, che sfrutta unlievito, fornisce i risultati in 30 minuti,mentre i metodi tradizionali richiedonocinque giorni.

Altri sensori potrebbero essere usatiper controllare sostanze tossiche comepoliclorobifenili (PCB), idrocarburi clo-rurati o composti aromatici. In caso diincidente i sensori rispondono in modoautomatico e immediato, segnalando al-le squadre di emergenza con quali tipi disostanze avranno a che fare.

Non sono solo eventuali incidenti a li-berare nell'ambiente composti sgrade-voli e potenzialmente pericolosi: neglialimenti questi composti si accumulanoper i normali processi di deterioramen-to. Società canadesi e giapponesi hannoposto in commercio biosensori che misu-rano la concentrazione di xantina e dialtri composti nel pesce per stabilirne la

Un biosensore a fibra ottica (in alto) contie-ne molecole di recettore, fissate alla pareteinterna di una membrana semipermeabileper dialisi, e grandi molecole di destranomarcate con fluoresceina che si legano ai re-cettori. Le molecole di glucosio che diffon-dono attraverso la membrana rimpiazzanole molecole marcate. Queste ultime riman-gono imprigionate nella soluzione all'inter-no della membrana, assorbono la luce laserfocalizzata che entra nel sensore e produco-no un segnale proporzionale al numero dimolecole non marcate da cui sono state rim-piazzate. Un sensore a onda evanescente (inbasso) sfrutta la circostanza che parte del-l'energia luminosa che passa per una fibraottica diffonde all'esterno del nucleo che

ANTIGENE guida la luce. Anticorpi o altre biomoleco-le legate alla superficie di una fibra priva-ta del mantello possono legarsi al compostoda rivelare, che dunque assorbe parte del-l'onda evanescente e produce un segnale.

ONDAEVANESCENTE

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FORO DI INSERIMENTODEL CAMPIONE

CAMPIONE

VISORE

MEMORIA

MICROPROCESSORE

INTERFACCIA ANALOGICA CARTUCCIA

SENSORI

SOLUZIONEDI RIFERIMENTO

c=1~111~

Analisi al letto del paziente

U

n analizzatore portatile attual-mente in prova all'Ospedaledell'Università della Pennsyl-

vania dimostra come i biosensori po-trebbero essere applicati nella praticaclinica. L'I-STAT PCA è uno dei tantisistemi a biosensore che oggi vengonomessi a punto per un mercato che po-trebbe rivelarsi assai ricco. Esso com-pie simultaneamente sul sangue del pa-ziente sei analisi molto comuni: ioni so-dio, potassio, cloro, azoto ureico, gluco-sio ed ematocrito, e fornisce i risultati inmeno di due minuti. Le prove al letto delpaziente costano più di quelle eseguitein laboratorio, ma la loro rapidità le ren-de più efficaci.

Il PCA, dotato di una cartuccia a per-dere contenente sei biosensori e uncampione di riferimento, raggiunge unaprecisione paragonabile a quella di unapparecchio da laboratorio. Nella car-tuccia si introducono 60 microlitri di san-gue, poi l'analizzatore misura sia il cam-pione di riferimento sia quello prelevatoal paziente. I risultati compaiono su unvisore e vengono registrati con la data,l'ora e il numero di identificazione delpaziente in vista di analisi successive.La soluzione a cartuccia consentirà dieseguire altri tipi di analisi non appenasaranno disponibili sensori adatti.

freschezza. (In Giappone il grado di fre-schezza del pesce viene di solito stampa-to sulla confezione.) Sono in corso dimessa a punto anche sensori per misura-re la qualità della carne bovina e di altrialimenti.

Un altro settore in cui i biosensori po-trebbero apportare notevoli van-

taggi è quello del controllo dei processiindustriali. Benché già oggi gli impiantichimici automatizzati siano dotati di ri-velatori che misurano in tempo realepressione, temperatura e acidità, i bio-sensori consentiranno anche di determi-nare la composizione chimica dei mate-riali nel corso del processo. Queste mi-surazioni sono particolarmente impor-tanti nel caso delle biotecnologie, doveancora non si possiede alcun metodo percontrollare con precisione le colture dimicrorganismi nei fermentatori che pro-ducono farmaci o proteine attive, comel'interferone o l'insulina. In effetti lo svi-luppo dei biosensori potrebbe indurreeffetti sinergici di retroazione, sicché ilmiglioramento delle tecniche di produ-zione potrebbe consentire di ottenere abasso costo un maggior numero di mo-lecole rivelatrici.

Ma mentre le applicazioni dei biosen-

sori si moltiplicano, si sta anche studian-do se sia possibile ottenere una classe disensori in cui sparisca la distinzione trala biomolecola che rivela un composto el'elettrodo che rivela la risposta dellamolecola. Per esempio Adam Hellerdell'Università del Texas ad Austin haintrodotto in una proteina dei «relè»elettronici, in modo che il legame chimi-co venga «telegrafato» direttamente a unelettrodo invece di essere misurato indi-rettamente da mediatori o da variazionidi grandezze come il pH o il consumo diossigeno. Questa via consentirebbe aibiosensori di raggiungere una sensibilitàmolto più elevata. Se si riuscisse anche aconferire a queste molecole elettroattiveproprietà chimiche su misura, si potreb-bero realizzare biosensori più selettivi.

A causa dei compromessi necessariper costruire uno strumento capace difunzionare sul campo in modo rapido eaffidabile, i biosensori saranno sempremeno sensibili e specifici delle analisi dilaboratorio. Ma il rivale più irriducibiledel biosensore è la natura stessa e in certicasi è evidente che si potranno ben pre-sto costruire rivelatori più sensibili e spe-cifici (e più rapidi nella risposta) degliorganismi dai quali derivano i loro mec-canismi molecolari.

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