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HEART OF SARDINIA Miniera di Monteponi | Pozzo di Santa Barbara | Villaggio Asproni | Porto Flavia Gen 2018 EXTRA

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HEART OF SARDINIA

Miniera di Monteponi | Pozzo di Santa Barbara | Villaggio Asproni | Porto Flavia

Gen

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EXTRA

L’arte dell’estrazione e della lavorazione del metallo è uno dei fondamentali passaggi evolutivi delle società umane. Civiltà intere sono crollate o ascese quando sono passate dagli strumenti e dalle armi in pietra a quelle in rame, da quelle in rame al bronzo, da quelle in bronzo al ferro e infine all’acciaio.Qui in Sardegna abbiamo avuto una cultura mineraria fin dalla preistoria, con le prime cave per l’estrazione di ossidiana che risalgono a migliaia e migliaia di anni fa. Noi di Heart of Sardinia abbiamo avuto l’occasione, lo scorso weekend, di visitare uno dei centri più importanti per questa attività: Iglesias, nella regione dell’Iglesiente.

La storia delle miniere nell’area risale all’epoca punico-romana. Esisteva non troppo lontano da Iglesias un centro minerario di primo piano per l’estrazione dell’argento e del piombo chiamato Metalla, dove si spedivano come forzati i prigionieri di guerra, i criminali o i nemici politici dello Stato. Questo insediamento, non è più chiaramente identificabile in quanto non divenne mai una vera e propria città. Fu piuttosto una serie di abitazioni ed edifici “diffusi”, sparsi su di una vasta area presso l’attuale Fluminimaggiore, senza un vero e proprio centro cittadino, finalizzati all’estrazione del prezioso metallo che vi abbondava. A testimonianza della sua esistenza ci sono numerose fonti storiche del tempo, i resti di epigrafi funerarie di funzionari imperiali, un impianto termale e i segni d’inquinamento ambientale tipici di un’area estrattiva dell’antichità.

Altro elemento di rilievo è il Tempio del Sardus Pater, meglio conosciuto come Tempio di Antas, una struttura immensa e apparentemente isolata, lontana da ogni grande insediamento portuale della costa come Calaris, Nora, Sulci o Tharros. Solo la prossimità di un ricco centro come Metalla potrebbe giustificare l’immane impegno di uomini e risorse per innalzare e mantenere attivo un simile luogo di culto in una zona così decentrata. Ma il vero periodo d’oro per l’area arrivò nel Medioevo, con la colonizzazione pisana della regione avvenuta in seguito alla scomparsa del Giudicato di Calari, abbattuto nel 1258. I potenti signori della Gherardesca, il cui celebre conte Ugolino è descritto

EDITORIALE

Alla scoperta dei complessi minerari dell’Iglesiente.

Carlo Gaspa

da Dante nella sua Divina Commedia, si aggiudicarono la regione del Cixerri (denominata anticamente del Sigerro), dove fondarono Villa Ecclesiae, o Villa di Chiesa, il nome medievale di Iglesias. Sotto il governo pisano la città fu cinta da mura e protetta da un castello, chiamato di Salvaterra o di San Guantino, oltre che abbellita con alcuni palazzi signorili, un ospedale, un acquedotto e numerose chiese. Molte delle antiche strutture, comprese le porte fortificate, alcune torri (ne sopravvivono 16 sulle 22 originarie)

e buona parte del castello sono state abbattute o modificate nei secoli, subendo l’ultimo colpo nelle riqualificazioni

urbanistiche del XIX secolo.

Ad ogni modo in quel tempo lontano la città era una delle più importanti, ricche e

popolose dell’isola, contando all’incirca tra i sei e i settemila abitanti, che si

dedicavano principalmente all’estrazione e alla lavorazione di piombo e argento. Questi materiali venivano estratti nelle cosiddette “fosse pisane” in quantità tali che si calcola che, poco prima della conquista aragonese del 1324, le miniere di Villa di Chiesa producessero circa il 10% dell’intera quantità di argento circolante nell’intera Europa.

Questo stato di opulenza è testimoniato dalle stesse scelte strategiche di invasione catalano-aragonese. Gli iberici non tentarono di conquistare per prima Castel di Castro – il nucleo dell’attuale Cagliari – bensì proprio Villa di Chiesa, che assediarono per sette mesi, fino alla sua

resa per mancanza di soccorsi da parte del comune toscano.

Altro lascito importante di quel periodo è il “Breve di Villa di Chiesa”, uno dei più antichi

statuti cittadini europei, che al suo interno conteneva, suddivise in quattro libri, le leggi in

materia amministrativa, penale, civile e mineraria. Promulgato nel 1303 ma già in buona parte operativo

fin dal 1283, ancora oggi ne esiste una copia originale in carta pergamena, risalente a pochi decenni dopo. Questo

documento, dal valore storico inestimabile, è stato fortuitamente preservato per oltre sette secoli e riscoperto da Carlo Baudi Di Vesme nel 1865. Ai giorni nostri il “Breve” è tenuto con grande cura nell’archivio storico di Iglesias.

Durante l’epoca di dominazione spagnola l’attività mineraria si ridusse fin quasi a sparire, e gli abitanti del luogo si riconvertirono alle tradizionali professioni di contadini e allevatori, sparpagliandosi sul territorio circostante, abbandonando in parte la città.

Fu solo dalla seconda metà dell’ottocento, specialmente poco dopo la nascita del Regno d’Italia, che iniziò un nuovo periodo d’oro minerario, quando si riaprirono le miniere per estrarre l’argento, il piombo e lo zinco a profondità mai viste prima, spesso partendo dalle vecchie fosse pisane e dagli ancora più antichi siti romani.

Il vero punto di svolta per questa ripresa è la relazione di Quintino Sella - ingegnere e deputato piemontese e per tre volte Ministro delle Finanze, oltre che fondatore del Club Alpino Italiano - che venne incaricato di effettuare un’analisi completa e dettagliata sulla situazione dell’industria mineraria in Sardegna, che presentò nel 1871 dopo un viaggio di quasi tre settimane nell’isola. Questo documento è di grande rilievo perché da un lato testimoniava il grande sforzo e gli investimenti effettuati nell’isola fino a quel momento, dall’altro attestava che le società minerarie – sia italiane che straniere – reinvestivano poco o nulla sul territorio sardo, mantenendo oltretutto una pesante disparità di trattamento tra le maestranze locali e quelle continentali.

Queste ultime sfruttavano le risorse minerarie un po’ come viene fatto ora in Africa con l’oro, il platino, il rame, l’uranio e i diamanti, ovvero estraendo la materia prima senza lavorarla in loco, per esportarla e raffinarla da altre parti, dove si produceva il vero valore aggiunto. A tal proposito Sella suggerì di fondare delle scuole per i figli dei minatori sardi, in modo che potessero sviluppare attraverso l’educazione una classe dirigente indigena capace di gestire in futuro i propri impianti.

Annotò inoltre che era necessario un ulteriore sviluppo e perfezionamento di strade, ferrovie e reti telegrafiche per agevolare trasporti e comunicazioni, aspetti che spesso le compagnie private si impegnavano a fare a proprie spese, rimanendo bloccate dalla burocrazia e dalla legge italiana, che deteneva il monopolio nella costruzione di tali infrastrutture.

In questo contesto si sviluppano i siti che abbiamo avuto il piacere di visitare. Ricordiamo infine che Iglesias è la sede del Parco Geominerario Storico ed Ambientale della Sardegna, che comprende circa 80 comuni sardi e un’area di 3500 Km2. Il parco ha ottenuto nel 1997 il prestigioso riconoscimento dell’Unesco come “Primo parco della rete mondiale dei geositi-geoparchi” e nel 2007 è stato inserito nella rete internazionale “Geoparks”, sempre dell’Unesco.

Alberto Carlo Delio

Roberta Giorgia

Pierluigi Massimiliano

Barbara

Fabio

Francesca

REPORTAGE

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Pozzo di Santa BarbaraL’affascinante cattedrale nel deserto sulle alture di Seddas is Fossas.

Miniera di MonteponiLo spettacolare cuore minerario dell’isola.

Villaggio AsproniIl paese abbandonato della miniera di Seddas Moddizis.

Porto FlaviaL’avveniristico e scenografico porto sospeso sul mare.

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Monteponi, famosa per i fanghi rossi che si sono accumulati alle sue pendici, frutto di decenni di scarti di lavorazione nell’estrazione di argento, piombo e zinco, è stata un villaggio minerario attivo per oltre cento anni.

Fondata dalle comunità di primi minatori “moderni” nel 1850, è sita ad appena un paio di chilometri dal centro di Iglesias, dove in quell’anno una società privata ottenne in concessione dallo Stato la possibilità di sfruttamento delle risorse locali.Il primo edificio di rappresentanza, che si aggiungeva ai semplici alloggi dei minatori, fu la palazzina Bellavista, realizzata in appena un anno tra il 1865 e il 1866 dall’ingegnere Adolfo Pellegrini, in una posizione panoramica di primo piano su tutta la vallata e destinata ai dirigenti della miniera.

Secondo gli usi classisti dell’epoca, questo edificio era il più bello e curato, con una cancellata decorata e un giardino impreziosito con palme e altre piante, che lo rendeva un’isola di benessere all’interno dell’insediamento. Anche gli impiegati amministrativi della miniera avevano un “quartierino” a parte, isolato un po’ più a monte e circondato anch’esso dal verde e da stradine curate. I semplici minatori e le loro famiglie vivevano invece più a valle, in casette disposte a schiera, e si recavano tutti i giorni ai pozzi con centinaia di biciclette, che avevano dedicati degli appositi “parcheggi” che abbiamo avuto modo di vedere ancora intatti, vicino al pozzo Vittorio Emanuele.All’epoca venne realizzata nella zona superiore anche una chiesetta dedicata a Santa Barbara, ma a causa degli scavi le fondamenta si indebolirono e venne quindi abbattuta, per essere sostituita con la modifica in chiesa dell’ex Casa del Fascio, sita più a valle.

Un aspetto peculiare delle strutture che ci ha molto colpito (molte delle quali attualmente in rovina, ridotte a spettrali gusci vuoti di metallo arrugginito e mattoni o cemento armato a vista), è la stonatura tra la bellezza “classica” dei primi edifici, realizzati tra gli anni ’60 e ’70 dell’Ottocento, come la palazzina della direzione, i

Miniera di Monteponi

Carlo Gaspa

Venerdì 8 dicembre 2017

fotografia: Francesca Cosso

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pozzi Vittorio Emanuele e Sella, o la prima laveria, che contrasta con quelli più moderni risalenti al periodo repubblicano, molto più semplici, rozzi e poco curati esteticamente. I nuovi grandi impianti minerari come il Pozzo Vittorio Emanuele (del 1863) e il Pozzo Sella (1874) aumentarono grandemente la produttività della struttura, con sistemi rapidi per far scendere sempre più in basso i minatori e per espellere le acque sotterranee via via che si scendeva nelle viscere della terra.

Questi imponenti lavori cancellarono sia i resti dei vecchi scavi romani che le fosse pisane di Monteponi, che vennero letteralmente divorate dall’avanzare dell’industria e seppellite dall’enorme quantità di sterili e fanghi residuati dalle lavorazioni. Un altro aspetto interessante è il miglioramento “sociale” e i servizi che la miniera offriva ai minatori e alle loro famiglie. Certo, i rischi per la salute e per la vita dei primi minatori erano molto alti: la vita media di un minatore era piuttosto bassa e i morti sono stati contati in quasi milleseicento unità sia presso Montemponi sia nel resto del bacino minerario dell’iglesiente, ma questo lavoro offriva grandi opportunità per la sicurezza familiare e opportunità nettamente superiori per il futuro dei propri figli.

Infatti le compagnie private minerarie offrivano vari servizi all’avanguardia come l’ospedale, l’asilo, la scuola e quindi la possibilità di far studiare i bambini. Ciò ha fatto sì che, nell’arco di una o al massimo due generazioni,

Sopra. Veduta frontale della palazzina Bellavista.

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i figli dei minatori più intraprendenti ebbero l’opportunità di diventare ingegneri, architetti o impiegati amministrativi, avanzamenti impossibili nella più statica società agro-pastorale che caratterizzava Iglesias prima del suo grande boom industriale. Tutto questo rese il complesso Monteponi, a cavallo tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo, un centro minerario di primissimo piano a livello nazionale per la produzione dell’argento, del piombo e dello zinco. L’attività estrattiva, tuttavia, ha prodotto degli effetti anche sul paesaggio circostante. Infatti, sul fianco del monte sotto la miniera, dove passa la SS 126, si stagliano i già citati e impressionanti “fanghi rossi”, dovuti agli accumuli di scorie terriere ricche di zinco, piombo e argento, oltre che impregnate dagli acidi utilizzati per “lavare” i materiali estratti all’epoca, per separare la terra e la roccia dal materiale metallifero.

Il trattamento elettrolitico necessario al recupero dei silicati di zinco era particolarmente inquinante, e infatti i fanghi rossi, ormai consolidatisi sopra un terreno per fortuna impermeabile, sono da una parte considerati rifiuti inquinanti e dall’altra vincolati dalla Soprintendenza ai Beni Culturali e Tutela del Paesaggio di Cagliari per la loro tutela.

Passeggiare tra le strutture ormai silenti e abbandonate infonde un lieve senso di malinconia, legato alla consapevolezza che appena un secolo fa questi edifici erano animati da una vita frenetica ed industriosa, popolata da tanti uomini pieni di speranze, paure e incognite, ma anche da una grande fiducia verso il progresso che il loro lavoro, duro e anche pericoloso, avrebbe potuto portare alle loro famiglie, al loro territorio e al loro paese. Un modo di pensare che, nella nostra società, si è ormai in gran parte dimenticato.

Pagina precedente. Vista panoramica sui “fanghi rossi”.

Sopra. Laverie.

Pagina a lato. In ordine le cisterne presenti nel complesso, il Pozzo Sella del 1874 e i tunnel della miniera.

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Non troppo lontano dal centro di Iglesias, su un altopiano raggiungibile attraverso un’affascinante strada bianca dissestata, circondata dai resti delle case dei minatori, stazioni ferroviarie e camini di mattoni rossi immersi nella natura, si trova la suggestiva miniera di San Giorgio. L’area è chiamata Seddas is Fossas, in memoria delle vecchie fosse pisane medievali, ed è perfino citata all’interno del “Breve di Villa di Chiesa”, lo statuto cittadino dei primi decenni del XIV secolo, a testimonianza del grande volume di attività che vi si svolgeva, che andava normato per evitare liti e scontri tra i privati che avevano delle concessioni di scavo nella zona.

All’improvviso, dopo un’ennesima curva, vi si para davanti l’imponente struttura di quello che sembra proprio un austero castello medievale, con tanto di mura merlate e una torre (in verità un camino) d’avvistamento. Fu innalzata nel biennio 1870-71 per volontà del direttore della Società privata di Monteponi, Adolfo Pellegrini (lo stesso che aveva progettato il palazzo Bellavista e altri edifici ed infrastrutture tra le quali spicca la linea ferroviaria che collegava Monteponi al porto di Cannelles, presso Portoscuso) con l’intento di sfruttare i filoni individuati dai pisani nel Medioevo e secondo lui non sfruttati appieno con i loro metodi non industriali.

Nonostante i grandi capitali investiti, le imponenti macchine, le infrastrutture installate e gli ambiziosi progetti, questo sito risultò sempre meno produttivo delle aspettative. I pisani, a quanto pare, sapevano il fatto loro e avevano portato via il grosso del materiale prezioso, lasciando quantitativi ridotti in loco. Ad ogni modo la società mineraria si impegnò ad estrarre argento, piombo e zinco costruendo, all’interno della magnifica struttura in stile medievale, una potente macchina a vapore da 40 cavalli alimentata da un enorme forno, che venne ben presto etichettata dalle genti del luogo Sa macchina beccia, traducibile con “la vecchia macchina”, che serviva a mantenere operativa la sottostante miniera di San Giorgio, che scendeva per centinaia e centinaia di

Pozzo di Santa Barbara

Alberto Massaiufotografia: Francesca Cosso

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metri al di sotto delle viscere del terreno. La produzione in questo particolare sito, come già detto, non fu mai particolarmente brillante. Questo fatto, unito alla lontananza rispetto al centro cittadino e ai costi logistici per mantenerlo attivo, lo fecero rapidamente decadere. La grande macchina a vapore venne smantellata e portata altrove, parte della struttura convertita ad uffici e infine abbandonata del tutto negli anni ’40 del XX secolo.

Il pozzo di Santa Barbara, con il suo imponente maniero, diventò così una classica – ma bellissima – cattedrale nel deserto. Un edificio magnifico, che ancora oggi, nonostante sia vuoto e abbandonato, trasferisce un senso di potenza e fascino decadente al visitatore, a memento della volontà dell’epoca di realizzare opere che non fossero solo funzionali al progresso industriale, ma anche celebrazione degli uomini che le ideavano, capaci di impressionare i visitatori e rendere orgoglioso chi lavorava al suo interno.

A lato. Tunnel minerario presente nella miniera di San Giorgio.

A lato. Le rovine di una laveria sempre nella stessa area della miniera e del Pozzo di Santa Barbara.

Pagina seguente. Vista aerea del pozzo di Santa Barbara.

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Nel pomeriggio del nostro primo giorno nel Sulcis abbiamo avuto modo di conoscere meglio l’uomo che dà il suo nome a tante vie della nostra isola: Giorgio Asproni. Egli fu un grande ingegnere minerario della fine del XIX secolo che, nel 1885, prese in gestione la miniera Seddas Moddizis, dove si estraevano piombo, zinco e bario.

Aperta quasi vent’anni prima, il sito era poco produttivo per il basso numero di minatori, le poche infrastrutture e le attrezzature inadatte a sfruttare adeguatamente i filoni minerari. Asproni si lanciò con energia e determinazione nello sviluppo dell’area, facendo portare quanto necessario a raggiungere il livello dove il giacimento aveva un abbondante quantità di materiale. Lo sviluppo fu sempre più forte e dinamico, tanto da richiedere la fondazione di un villaggio per ospitare la direzione della miniera, i suoi impiegati e i lavoratori.

Il nuovo direttore fu in principio un oculato amministratore, tanto che si preoccupò di sfruttare al meglio anche tutto il territorio circostante la miniera e il villaggio, facendo coltivare le terre e tagliando gli alberi per produrre cibo e legna da ardere da vendere, per integrare gli introiti minerari.

Il villaggio, durante la sua breve vita, fu opulento e vitale, dotato di un palazzo signorile a due piani (residenza dello stesso Asproni con la sua famiglia), uno spaccio con annesso magazzino, una scuola, un edificio deputato alla direzione e uno all’amministrazione, una chiesa dedicata a San Giorgio, le case dei minatori (sempre un po’ discostate da quelle dei dirigenti e degli impiegati). Al centro di uno spiazzo tra la direzione, lo spaccio e i magazzini si trova ancora oggi un grande albero secolare con delle radici deformi, sottilmente inquietanti, come se la pianta avesse subito una qualche contorta mutazione.

L’ingegnere era il padre-padrone di tutto, proprietario della miniera, direttore e anche sindaco del villaggio, quasi come un

Villaggio Asproni

Fabio Ladinettifotografia: Alberto Massaiu

Pagina a lato. In ordine veduta frontale della Villa Asproni, foto panoramica del Villaggio Asproni e residui di eslosivi in una galleria.

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signore medievale con il suo feudo. Non delegava nulla e gestiva ogni cosa di persona, tanto che col tempo, da fattore positivo, questo divenne un deficit.Pian piano, anche per il mancato rinnovo di procedure e materiali, gli incidenti divennero sempre più frequenti, tanto che la miniera di Seddas Moddizis venne talvolta additata come la miniera dei mutilati, cosa che qualificò il sito come “non virtuoso”, perdendo gli aiuti statali, aspetto che ne accelerò la crisi, che divenne sempre più evidente con il declino della salute dello stesso Giorgio Asproni, che infine morì nel 1936 mentre, ormai novantenne, ancora dirigeva la miniera.

Con la scomparsa dell’ingegnere ci fu un lieve miglioramento, che prolungò la vita del sito per altri

trent’anni. Arrivarono infatti aiuti economici dallo Stato, che introdussero elettricità e acqua corrente nel villaggio, oltre che nuovi macchinari che permisero ulteriore estrazione di bario e blenda.

Ad ogni modo, tra la fine degli anni ’50 e i primissimi anni ’60, Villaggio Asproni venne completamente abbandonato, a causa della crisi generale del settore minerario, che comportò il concentramento delle risorse e degli investimenti

nei siti meglio collegati e più ricchi come Iglesias.

Da quel momento il centro divenne un guscio vuoto, privato di acqua ed elettricità, ritornato ad essere un

luogo di pascolo per le greggi dei pastori della zona, che utilizzarono saltuariamente i vecchi edifici come ricovero

dalla pioggia e dalle intemperie, finché non divennero troppo pericolanti. L’atmosfera che si respira nel passeggiare tra le vie, curiosando nelle nere orbite vuote di porte e finestre senza più imposte o vetri, è quasi da romanzo gotico. L’abbandono generale, unito alle vestigia di una grande cura e bellezza, specialmente nella raffinata palazzina dove viveva l’Asproni con la famiglia, trasmettono quel “senso del sublime” espresso dagli scrittori, poeti e pittori romantici nelle loro opere.

Se arriverete in loco poco prima del tramonto potrete provare anche qualche brivido mentre le ombre calano pian piano sull’altopiano, trasformando il luogo in una classica ambientazione da villaggio infestato dai fantasmi.

“Magari gli spiriti dei tanti minatori che dalle miniere non sono più usciti vivi”.

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Porto Flavia

La visita al complesso di Porto Flavia è stata la degna conclusione delle nostre due giornate alla scoperta del Sulcis Iglesiente. La struttura, sita davanti al suggestivo isolotto roccioso chiamato Pan di Zucchero, è stata per decenni un gioiello della tecnica ingegneristica che non aveva pari nel mondo.

Tutto partì da un problema: come trasportare i metalli non lavorati di argento, piombo e zinco prodotti nelle miniere limitrofe (come quella di Masua) fino ai piroscafi che li avrebbero trasportati in continente. La costa del Sulcis, spazzata per buona parte dell’anno dal forte vento che spira dal Mar di Sardegna, non ha spazi adatti per costruire porti o banchine.

Nei primi tempi del boom minerario di metà Ottocento i carretti prima e le ferrovie poi portavano i loro carichi fino al mare, imbarcandoli poi su di una flottiglia di piccole barchette a vela latina chiamate “bilancelle”, che trasportavano tutto fino a San Pietro, dove stazionavano i grandi bastimenti che venivano lentamente riempiti. Questo processo era lungo, molto costoso in termini di tempo e denaro, oltre che fortemente influenzato dal tempo (se c’era mare grosso le barchette non potevano navigare, rallentando l’operazione di riempimento della navi più grandi).

Questo deficit logistico fu affrontato dall’ingegnere veneziano Cesare Vecelli, direttore della miniera di Masua, che nel 1924 ideò la soluzione perfetta per conto della società belga Veille Montagne, proprietaria di molte delle miniere della zona. L’idea era tanto semplice quanto geniale: scavare all’interno della montagna, di fronte ai faraglioni di Pan di Zucchero, due gallerie gemelle, sovrapposte una all’altra, ma separate.

In quella superiore sarebbero stati convogliati i carichi trasportati dai treni con i vari minerali estratti, suddivisi e scaricati in ordine di tipologia (argento, piombo, zinco e così via), in nove enormi silos scavati tra la prima e la seconda galleria, di un’altezza di circa 18 metri, capaci di contenere fino a 10.000 tonnellate di materiale.

Massimo Maltagliatifotografia: Fabio Ladinetti

Sabato 9 dicembre 2017

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Questi silos avrebbero poi incanalato nella galleria inferiore il contenuto dei silos, secondo un programma ben preciso, in cui si trovava un nastro trasportatore estraibile che, attraverso un sistema di trasporto meccanizzato, era capace di riempire in poche ore un intero bastimento.

Sfruttando infatti la protezione degli alti faraglioni calcarei del Pan di Zucchero le grandi navi potevano attraccare

a pochi metri dall’accesso panoramico della galleria inferiore, da cui usciva il braccio meccanico che trasferiva i minerali direttamente nel ventre della nave, con un risparmio immenso in termini di personale e di tempo, abbattendo di molto i costi di trasporto.

Giusto per dare un esempio pratico, grazie all’avveniristica struttura di Porto Flavia si poteva caricare una nave in circa quattro ore, attività che in precedenza richiedeva ben dieci giorni. Allo stesso modo, si può facilmente comprendere come tale processo abbia

determinato l’esubero di centinaia di uomini tra i marinai delle bilancelle e il personale adibito al

carico e allo scarico delle stesse mediante grandi cesti trasportati a spalla. Il progresso, come sempre, ha i

suoi pro e contro.

Il nome dell’immensa e ambiziosa opera, che la collocava come gioiello della corona di tutto il complesso minerario della regione, fu un vezzo personale dell’ingegnere. Flavia, infatti, era il nome della sua figlia primogenita, eternato non solo alla porta d’ingresso del tunnel superiore, ma soprattutto nella grande balconata panoramica che ancora oggi si staglia orgogliosamente sul mare.La fine dell’attività del porto fu dovuta in parte alla crisi estrattiva della zona, in parte al mutamento della logistica e delle infrastrutture sarde. Porto Flavia, infatti, operava per il carico di bastimenti che trasportavano per mare il materiale grezzo estratto nel Sulcis. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, invece, furono aperti gli stabilimenti di Porto Scuso e Porto Vesme, che raffinavano i minerali per esportare un prodotto di maggior qualità e valore.

A questo punto, anche grazie alle strade asfaltate e al trasporto su gomma, il materiale minerario venne dirottato verso questi centri nel meridione dell’isola, dotai oltretutto di comode banchine navali per l’imbarco, molto meno scenografiche di Porto Flavia ma più funzionali.

Ora il sito è visitabile grazie ad un attento lavoro di restauro e a guide molto competenti. Noi vi consigliamo di farlo poco prima del tramonto, che vi garantirà uno spettacolo mozzafiato extra, una volta concluso il percorso all’interno delle gallerie.

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Pagina precedente. Tramonto sullo scoglio di Pan di Zucchero.

Sotto1. Iscrizione all’iingresso del Porto Flavia

Sotto2. Tunnel sotterraneo all’interno di Porto Flavia.

Comune di Iglesias

Miniera di Monteponi e Parco Geominerario

Igea SPA

Museo di Arte Mineraria

Porto Flavia

http://www.comune.iglesias.ca.it/it/index.html

https://www.facebook.com/comuneiglesias/

http://www.parcogeominerario.eu/

https://www.facebook.com/Consorzio-del-Parco-Geominerario-Storico-e-Ambientale-della-Sardegna-630097867049477/

http://www.igeaspa.it/it/homepage.wp

http://www.museoartemineraria.it/

https://www.facebook.com/museoartemineraria/

http://www.visitiglesias.it/it/iglesias/attrazioni/attrazione/Porto-Flavia/#

https://www.facebook.com/visitportoflavia

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Grafiche, impaginazione ed illustrazioni Alba Massaiu e Marta Meneghini.

Contenuti e testi Alberto Massaiu, Carlo Gaspa, Fabio Ladinetti e Massimiliano Maltagliati.

Coordinatore e revisore Alberto Massaiu.