h.d. thoreau - le foreste del maine

1
[...] Ma ormai ne avevo abbastanza della caccia all'alce. Non ero venuto nei boschi a questo scopo, né l'avevo previsto, anche se desideravo conoscere il modo di cacciare degli indiani; e un alce ucciso andava bene o male, come una mezza dozzina. La tragedia pomeridiana, e la parte che vi svolsi, aveva distrutto il piacere dell'avventura, pregiudicandone l'innocenza. E' vero, avevo sfiorato la possibilità di essere un cacciatore io stesso, e l'avevo mancata, anche se ritengo di poter essere in grado di passare anche un anno intero a a pescare e a cacciare per il mio sostentamento. Sarebbe come essere un filosofo che si procura da vivere coi frutti della terra, e questo m'attrae. Ma cacciar l'alce solo per il gusto di uccidere, senza alcun rispetto per la sua vita e senza alcun particolare sforzo o senza alcun rischio personale, è un po' troppo simile all'andare in giro di notte per i pascoli a sparare ai cavalli del tuo vicino. E gli alci sono i cavalli di Dio, povere timide creature che non appena sentono il tuo odore fuggono, anche se sono alte nove piedi. Joe raccontò che alcuni cacciatori qualche anno prima, da qualche parte nelle foreste del Maine, di notte avevano sparato a dei buoi scambiandoli per alci. Potrebbe capitare a chiunque; e dove sta la differenza? Si uccide uno dei buoi di Dio e quindi anche nostro, se ne strappa via la pelle, un trofeo molto comune, lo si può anche vendere per fare mocassini, si affetta una bistecca dai suoi fianchi e si lascia la sua enorme carcassa a olezzare fino al cielo. In ultima analisi non è meglio di ciò che accade in un mattatoio. Henry David Thoreau “Le foreste del Maine” L'esperienza di quel pomeriggio mi fece riflet- tere su quanto possono essere abietti e volgari i motivi che spingono gli uomini nelle zone selvagge. Gli esploratori o i boscaioli lo fanno per lavoro, sono pagati un tanto al giorno, non sono tenuti ad amare la natura selvaggia più di quanto i taglialegna amino le foreste. Gli altri bianchi e gli indiani che vengono da queste parti sono per la maggior parte cacciatori, il cui scopo è ammazzare quanti più animali selvatici sia loro possibile. Ma non si potrebbe, mi domando, trascorrere qualche settimana, o anche anno, nella solitudine di questa immensa distesa selvaggia con un'occupazione diversa – un'occupazione perfettamente piacevole, e innocente e nobilitante? Per uno che viene con la matita per disegnare o per scrivere, mille vengono con l'ascia o col fucile. Che uso imperfetto e rozzo fanno della natura gli indiani e i cacciatori! Non c'è da stupirsi che la loro razza sia stata stermi- nata in così breve tempo. Per aver fatto anch'io quell'esperienza nei boschi, sentivo la mia natura contaminata, e continuai a sentirla per settimane e settimane, e fui così costretto a ricordare che la nostra vita dovrebbe esser vissuta con la tenerezza e la delicatezza con cui si coglie un fiore. A causa di questi pensieri decisi, quando giun- gemmo al nostro accampamento, di non segui- re nella caccia lungo il fiume i miei compagni, che mi chiesero solo di non tagliare troppa legna e di non fare un fuoco troppo grande, nel timore che potesse spaventare le loro prede. Sull'elevato argine muscoso, tra le umide conifere, verso le nove di quella notte illumina- ta dalla luna, quando loro ormai erano lontani, accesi un fuoco e seduto sui ramoscelli di pino, avvolto dal suono delle cascate, esaminai alla luce della fiamma, gli esemplari delle piante che avevo raccolto quel pomeriggio, e scrissi alcune riflessioni che qui ho approfondito. Poi camminai lungo la riva, contemplando il fiume e la luce calda sprigionata dalle cascate nel cielo che le sovrastava. Quando tornai a sedermi sul mio cuscino di ramoscelli senza alcun muro al di sopra o intor- no a me, pensai a quanto profondamente, da ogni lato, si estendesse quella solitudine selvaggia, prima di giungere a terreni disbosca- ti o coltivati, e mi chiesi se qualche orso o qualche alce non stesse per caso scrutando la luce del fuoco, poiché mi sentivo severamente osservato dalla natura a causa dell'assassinio dell'alce. E' strano che siano così rari coloro che si addentrano nei boschi per osservare come il pino vive e cresce e si allunga a spirale, protendendo alla luce i suoi rami sempreverdi – per godere del suo completo trionfo; quasi tutti si accontentano di ammirarlo sotto forma di grandi tavole comprate al mercato, e ritengono che quella sia la cosa giusta da fare! Ma il pino , come l'uomo, non è soltanto legname, ed essere trasformato in tavole e case non è il suo scopo più autentico ed elevato, così come non è lo scopo più autentico di un uomo essere ucciso e trasformato in concime. C'è una legge più alta che regola il nostro rapporto sia con i pini che con gli altri uomini. Un pino abbattuto, un pino morto, non è più un pino, così come la carcassa d'un uomo non è più un uomo. Può, chi abbia scoperto solo alcuni dei pregi degli ossi e dell'olio di balena, dire di aver scoperto l'autentico valore della balena? Si può dire di chi uccide l'elefante per le sue zanne che abbia conosciuto l'elefante? E' un uso trascura- bile, accidentale; come se una razza più forte della nostra ci uccidesse per fare bottoni e zufoli con le nostre ossa; giacché ogni cosa può servire ad uno scopo più basso o a uno più elevato. Ogni creatura è preferibile viva che morta, uomini, alci, pini che siano, e chi ne ha chiara coscienza preserverà la vita piuttosto che distruggerla. E' forse il taglialegna il miglior amico e amante del pino – colui che gli sta più vicino e comprende più profondamente la sua natura? E' forse chi l'ha scortecciato e ne ha ricavato barattoli di terebinto colui che alla fine sarà tramutato in pino secondo le fantasie della posterità? No! No! È il poeta; il miglior amico e amante del pino – non lo accarezza con la scure, non lo solletica con la sega, non lo ferisce con la pialla; è lui che sa che il suo cuore è debole senza bisogno di inciderlo in profondità; senza aver pagato alla contea il diritto di abbatterlo. Ogni albero trema e sospira quando quell'uomo si aggira per la foresta. No, il poeta li ama come se fossero la sua ombra nell'aria, e li lascia crescere. Mi ero recato al deposito di legname, e nel negozio del carpentiere, e alla conceria, e alla fabbrica di nerofumo, e al mercato del terebin- to, ma quando alla fine osservai le creste dei pini ondeggiare riflettendo di lontano la luce al di sopra di ogni altra cosa nella foresta, mi resi conto che quanto avevo visto non era il loro utilizzo più elevato. Non sono le ossa o la pelle o il grasso quel che io amo. E' lo spirito vivo dell'albero, non il suo spirito di terebinto, con cui io simpatizzo e che guari- sce le mie ferite. E' immortale come lo sono io, e magari un giorno salirà alto nel cielo, a troneggiare ancora sopra di me. [...]

Upload: mattia-maragno

Post on 10-Mar-2016

241 views

Category:

Documents


4 download

DESCRIPTION

H.D. Thoreau - Le foreste del Maine

TRANSCRIPT

Page 1: H.D. Thoreau - Le foreste del Maine

[...] Ma ormai ne avevo abbastanza della caccia all'alce. Non ero venuto nei boschi a questo scopo, né l'avevo previsto, anche se desideravo conoscere il modo di cacciare degli indiani; e un alce ucciso andava bene o male, come una mezza dozzina. La tragedia pomeridiana, e la parte che vi svolsi, aveva distrutto il piacere dell'avventura, pregiudicandone l'innocenza. E' vero, avevo sfiorato la possibilità di essere un cacciatore io stesso, e l'avevo mancata, anche se ritengo di poter essere in grado di passare anche un anno intero a a pescare e a cacciare per il mio sostentamento. Sarebbe come essere un filosofo che si procura da vivere coi frutti della terra, e questo m'attrae.

Ma cacciar l'alce solo per il gusto di uccidere, senza alcun rispetto per la sua vita e senza alcun particolare sforzo o senza alcun rischio personale, è un po' troppo simile all'andare in giro di notte per i pascoli a sparare ai cavalli del tuo vicino. E gli alci sono i cavalli di Dio, povere timide creature che non appena sentono il tuo odore fuggono, anche se sono alte nove piedi. Joe raccontò che alcuni cacciatori qualche anno prima, da qualche parte nelle foreste del Maine, di notte avevano sparato a dei buoi scambiandoli per alci. Potrebbe capitare a chiunque; e dove sta la differenza? Si uccide uno dei buoi di Dio e quindi anche nostro, se ne strappa via la pelle, un trofeo molto comune, lo si può anche vendere per fare mocassini, si affetta una bistecca dai suoi fianchi e si lascia la sua enorme carcassa a olezzare fino al cielo. In ultima analisi non è meglio di ciò che accade in un mattatoio.

Henry David Thoreau“Le foreste del Maine”

L'esperienza di quel pomeriggio mi fece riflet-tere su quanto possono essere abietti e volgari i motivi che spingono gli uomini nelle zone selvagge. Gli esploratori o i boscaioli lo fanno per lavoro, sono pagati un tanto al giorno, non sono tenuti ad amare la natura selvaggia più di quanto i taglialegna amino le foreste. Gli altri bianchi e gli indiani che vengono da queste parti sono per la maggior parte cacciatori, il cui scopo è ammazzare quanti più animali selvatici sia loro possibile.

Ma non si potrebbe, mi domando, trascorrere qualche settimana, o anche anno, nella solitudine di questa immensa distesa selvaggia con un'occupazione diversa – un'occupazione perfettamente piacevole, e innocente e nobilitante? Per uno che viene con la matita per disegnare o per scrivere, mille vengono con l'ascia o col fucile. Che uso imperfetto e rozzo fanno della natura gli indiani e i cacciatori! Non c'è da stupirsi che la loro razza sia stata stermi-nata in così breve tempo. Per aver fatto anch'io quell'esperienza nei boschi, sentivo la mia natura contaminata, e continuai a sentirla per settimane e settimane, e fui così costretto a ricordare che la nostra vita dovrebbe esser vissuta con la tenerezza e la delicatezza con cui si coglie un fiore.

A causa di questi pensieri decisi, quando giun-gemmo al nostro accampamento, di non segui-re nella caccia lungo il fiume i miei compagni, che mi chiesero solo di non tagliare troppa legna e di non fare un fuoco troppo grande, nel timore che potesse spaventare le loro prede.

Sull'elevato argine muscoso, tra le umide conifere, verso le nove di quella notte illumina-ta dalla luna, quando loro ormai erano lontani, accesi un fuoco e seduto sui ramoscelli di pino, avvolto dal suono delle cascate, esaminai alla luce della fiamma, gli esemplari delle piante che avevo raccolto quel pomeriggio, e scrissi alcune riflessioni che qui ho approfondito. Poi camminai lungo la riva, contemplando il fiume e la luce calda sprigionata dalle cascate nel cielo che le sovrastava.

Quando tornai a sedermi sul mio cuscino di ramoscelli senza alcun muro al di sopra o intor-no a me, pensai a quanto profondamente, da ogni lato, si estendesse quella solitudine selvaggia, prima di giungere a terreni disbosca-ti o coltivati, e mi chiesi se qualche orso o qualche alce non stesse per caso scrutando la luce del fuoco, poiché mi sentivo severamente osservato dalla natura a causa dell'assassinio dell'alce.

E' strano che siano così rari coloro che si addentrano nei boschi per osservare come il pino vive e cresce e si allunga a spirale, protendendo alla luce i suoi rami sempreverdi – per godere del suo completo trionfo; quasi tutti si accontentano di ammirarlo sotto forma di grandi tavole comprate al mercato, e ritengono che quella sia la cosa giusta da fare! Ma il pino , come l'uomo, non è soltanto legname, ed essere trasformato in tavole e case non è il suo scopo più autentico ed elevato, così come non è lo scopo più autentico di un uomo essere ucciso e trasformato in concime.

C'è una legge più alta che regola il nostro rapporto sia con i pini che con gli altri uomini. Un pino abbattuto, un pino morto, non è più un pino, così come la carcassa d'un uomo non è più un uomo.

Può, chi abbia scoperto solo alcuni dei pregi degli ossi e dell'olio di balena, dire di aver scoperto l'autentico valore della balena? Si può dire di chi uccide l'elefante per le sue zanne che abbia conosciuto l'elefante? E' un uso trascura-bile, accidentale; come se una razza più forte della nostra ci uccidesse per fare bottoni e zufoli con le nostre ossa; giacché ogni cosa può servire ad uno scopo più basso o a uno più elevato. Ogni creatura è preferibile viva che morta, uomini, alci, pini che siano, e chi ne ha chiara coscienza preserverà la vita piuttosto che distruggerla.

E' forse il taglialegna il miglior amico e amante del pino – colui che gli sta più vicino e comprende più profondamente la sua natura? E' forse chi l'ha scortecciato e ne ha ricavato barattoli di terebinto colui che alla fine sarà tramutato in pino secondo le fantasie della posterità? No! No! È il poeta; il miglior amico e amante del pino – non lo accarezza con la scure, non lo solletica con la sega, non lo ferisce con la pialla; è lui che sa che il suo cuore è debole senza bisogno di inciderlo in profondità; senza aver pagato alla contea il diritto di abbatterlo. Ogni albero trema e sospira quando quell'uomo si aggira per la foresta. No, il poeta li ama come se fossero la sua ombra nell'aria, e li lascia crescere.

Mi ero recato al deposito di legname, e nel negozio del carpentiere, e alla conceria, e alla fabbrica di nerofumo, e al mercato del terebin-to, ma quando alla fine osservai le creste dei pini ondeggiare riflettendo di lontano la luce al di sopra di ogni altra cosa nella foresta, mi resi conto che quanto avevo visto non era il loro utilizzo più elevato. Non sono le ossa o la pelle o il grasso quel che io amo.

E' lo spirito vivo dell'albero, non il suo spirito di terebinto, con cui io simpatizzo e che guari-sce le mie ferite.

E' immortale come lo sono io, e magari un giorno salirà alto nel cielo, a troneggiare ancora sopra di me. [...]