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In Bretagna a fine Ottocento Gauguin incontra Emile Bernard. Da quell’incontro
nasce un nuovo paradigma dell’arte, nutrimento per un gruppo di giovani, i nabis, liberi di esprimersi soprattutto
attraverso il colore. Una rivoluzione che farà sentire la propria eco anche in ambito
veneziano. Ce ne parla qui il curatore dell’esposizione di palazzo Roverella.
Giandomenico Romanelli
ell’agosto del 1888 si incontrarono a Pont-Aven, in Bre-tagna, Paul Gauguin ed Emile Bernard. Il primo, già quasi quarantenne, aveva alle spalle una vita complicata e acci-dentata: marinaio, agente di borsa, mancato imprenditore, collezionista d’arte; sposato a una danese e padre di cinque figli, versa in difficoltà finanziarie progressivamente cre-
scenti. Conquistato dalla pittura in termini totalizzanti vi si dedica con passione e furore trovando in Camille Pissarro un maestro e una guida. Quando giunge a Pont-Aven egli sta vivendo un momento delicato e cruciale
Emile Bernard,
Tre teste di donne bretoni
con cuffia vedovile
(1888).
dare vocealle emozioni
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Grandi mostre. 3
I nabis e la pittura italiana d’avanguardiaa Rovigo
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nel suo percorso artistico, ma già dispone di un baga-glio tecnico oltre che di una determinazione ferrea a imporsi sulla scena dell’arte. Emile Bernard è appena ventenne: sta riflettendo e sperimentando su un suo particolare approccio alla pittura riconducibile a una essenzializzazione del linguaggio, alla rinuncia alle regole classiche della rappresentazione, alla gramma-tica delle proporzioni e alla sintassi della prospettiva. Rinuncia altresì allo sfumato, al dettaglio, alla vero-
simiglianza. Bernard inoltre introduce quel “cloison-nisme”, cioè il contornare le macchie di colore entro una linea scura al modo delle vetrate medievali, che sarà un altro ricorrente stilema di questo momento.
L’incontro tra i due – che già si erano sfiorati due anni prima, tra Pont-Aven e Parigi – sarà fondamen-tale: una svolta epocale sulla strada della modernità. Sciogliere la pittura dall’obbligo dell’imitazione della natura affidandosi piuttosto al flusso della memoria
e nabi con opere di Charles Cottet e di alcuni dei protagonisti di eccezio-nale qualità pittorica, come lo scoz-zese Robert Brought, ispirate ai ca-ratteri e alle tradizioni di Bretagna.
Con l’arrivo di Gauguin e il suo incontro con Bernard (ai quali in mostra è dedicata un’eloquente se-zione), le cose ricevono un arricchimento e un’ac-celerazione determinanti: Maurice Denis, Jan Verkade, Pierre Bonnard, Paul Sérusier, Charles Fi-liger, Georges Lacombe, Cuno Amiet e altri ancora affollano le strade di Pont-Aven e dei suoi dintorni, come il Bois d’Amour, o le cittadine poco lontane: Le Pouldu, Douarnenez, Quimperlé, Camaret, Con-carneau. Maurice Denis, teorico, coagulatore (con Sérusier) del gruppo e storiografo dell’esperienza nabi, ha in mostra un trattamento particolarmente ricco con opere da collezioni private che giungono per la prima volta in Italia.
Ma la mostra non coltiva solamente l’ambizione – già di per sé impegnativa – di offrire una panoramica inedita del mondo nabi. Essa infatti propone almeno due altri fuochi tematici: i riflessi di una così pro-fonda rivoluzione sulla produzione artistica di un’a-
Sciogliere la pittura dall’obbligo
dell’imitazione della natura affidandosi
a emozioni e stati d’animo
di emozioni rivissute, di stati d’animo e forti solleci-tazioni dei sensi e condensare il tutto nella sintesi di colori elementari entro campiture piatte e forme sem-plici: ecco delineato lo statuto della nuova arte.
La Bretagna era già da un ventennio circa la meta di un vero e proprio movimento ininterrotto di artisti (inizialmente nordici e americani, poi francesi) che tro-vavano nell’atmosfera primitiva e pittoresca dei luoghi e nei costumi e nelle tradizioni religiose e folcloristiche degli abitanti soggetti accattivanti e graditi a un pub-blico vasto, non necessariamente colto o raffinato.
In questo milieu si forma però un gruppo di giovani sperimentatori: essi danno vita a un circolo esclusivo, ricco di venature esoteriche e mistiche (donde il nome di “nabis” – cioè profeti, in ebraico – che lo renderà celebre) votati a una pittura sintetica (da cui l’appella-tivo di sintetisti) e che riconoscono a Gauguin il ruolo di guida nel loro percorso.
La mostra a palazzo Roverella parte proprio da qui, dall’ambiente bretone prima della svolta gauguiniana
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Maurice Denis,
La Bella
al crepuscolo
o Nudo di schiena
(1892 circa).
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A sinistra,
Paul Gauguin,
Bretagna
(1889),
University
of Manchester,
Whitworth.
Qui sotto,
Gino Rossi,
Paesaggio di Burano
(1912), Verona,
Fondazione Domus
per l’arte moderna
e contemporanea.
vanguardia di prim’ordine (forse la più avan-zata in Italia tra la fine ultima del XIX secolo e il primissimo XX): il gruppo di giovani stretti attorno a Nino Barbantini, direttore della vene-ziana Galleria internazionale d’arte moderna Ca’ Pesaro. In secondo luogo il permanere, anche dopo la fase pionieristica del sintetismo, di un vitalissimo filone artistico semplicista e sintetista che, dopo il fauvismo e il Cavaliere az-zurro, arriva a lambire in maniera singolare la stessa Nuova oggettività.
Che i giovani artisti insediati a Ca’ Pesaro grazie al mecenatismo della contessa Bevi-lacqua la Masa avessero sentito in maniera particolarmente intensa il richiamo della Bre-tagna, e che su quel modello avessero orientato il loro linguaggio e lo stesso stile di vita, lo si è sempre detto e ripetuto. Nella mostra a palazzo Roverella questa affermazione ha una ve-rifica addirittura clamo-rosa: le sale dedicate a Gino Rossi e ad Arturo Martini, a Umberto Moggioli e Teo-doro Wolf Ferrari paiono la “naturale” prosecuzione di quelle di Bernard, Denis, Sérusier e compagni. In questo senso risulta a tutti
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In evidenza, la forte componente
decorativa e “da arti applicate”
del movimento
lampante la qualità della proposta dei veneziani: né inferiore né succube ai risultati dei nabis, talvolta, anzi, superiore per intensità della ricerca e origina-lità degli sviluppi.
è poi addirittura straordinaria la vicinanza del la-voro, del linguaggio, dei caratteri stilistici, delle sin-gole scelte figurative di Rossi e dello svizzero Cuno Amiet che, tra i nabis della prima ora, è quello che presenta poi un percorso artistico dentro alle avan-
Oscar Ghiglia,
La camicia bianca
o Donna che si pettina
(1909), Viareggio,
Istituto Matteucci.
guardie europee di eccezionale qualità e versatilità.
Anche il ruolo giocato da un altro svizzero, Félix Vallotton, appare centrale nell’evoluzione e valorizzazione di un’altra e importante componente della galassia nabi e sinte-tista, quella per così dire borghese e domestica che, tra l’altro, mette in evidenza la forte vocazione decorativa e “da arti applicate” del movimento. Interni e situa-zioni sono presentati in una distillazione di luci, colori e atmosfere di ineguagliabile efficacia e seduzione: gli elementi portanti del credo sintetista arrivano a esiti di una forte “modernità” cifrata, ironica, allegorica.
Al seguito, in pratica, di Vallotton compaiono il li-vornese Oscar Ghiglia con le sue celebri nature morte
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Dall’alto:
Felice Casorati,
Bambina che gioca
su un tappeto rosso
(1912), Gand, Museum
voor Schone Kunsten;
Oscar Ghiglia,
La toilette della signora Ojetti
o Lo specchio (1908-1909),
Firenze, Palazzo Pitti,
Galleria d’arte moderna.
I nabis, Gauguin e la pittura italiana
d’avanguardia
a cura di Giandomenico Romanelli
Rovigo, palazzo Roverella
via Giuseppe Laurenti, 8
fino al 14 gennaio 2017
orario 9-19, domenica 9-20, chiuso lunedì
catalogo Marsilio
www.palazzoroverella.com
e con i suoi più perfetti dipinti di figura: da Ugo Ojetti nello studio alla Toilette della signora Ojetti, da La camicia bianca a Il pollo; il secondo artista, novità assoluta per l’Italia, è Marius Borgeaud, svizzero di Losanna, autore di sorprendenti scene d’interni o di strade di paese in atmosfere sem-plificate e luminose, raffinato in una versione di elegante naïveté.
Mario Cavaglieri e Felice Ca-sorati, proprio in forza della loro partecipazione al gruppo di Ca’ Pesaro, mostrano, per strade asso-lutamente diverse, la produttività alla lontana del verbo sintetista: la Giulietta appoggiata al tavolo del primo e la Bambina che gioca su un tappeto rosso del secondo ne sono una conferma, ciascuno al livello massimo di intensità emotiva e di perfezione formale. Con queste opere e con un gruppo di dipinti di Cagnaccio di San Pietro (ancora nature morte e i due capolavori: Primo denaro e Allo specchio) si completa una sorta di itinerario circolare: in mostra, novità e risco-perte guidano verso una lettura in-solita e innovativa di un passaggio cruciale per la nascita dell’arte moderna. ▲